Chirurgia [3 ed.] [PDF]

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Zitiervorschau

CREDITI RENZO DIONIGI

Chirurgia TERZA EDIZIONE versione elettronica a cura di

Giulio Carcano, Luigi Boni, Gianlorenzo Dionigi

Si ringraziano tutti gli Autori che hanno gentilmente fornito il materiale per la realizzazione dei test di autovalutazione

A MediMedia Company © 2002 - Masson S.p.A. - Via Muzio Attendolo detto Sforza 7/9, 20141 Milano Tel. 02.57.49.52.1 - Fax 02.57.49.52.371 - E-mail: [email protected]

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Grafica, progettazione e realizzazione del CD-Rom: Lorenzo Cecchini per Medicitalia.it - il motore di ricerca dei medici italiani

AUTORI    

Renzo Dionigi Altri autori Collaboratori Comitato editoriale

RENZO DIONIGI, FACS, FRCS (Hon. Edin.) Professore Ordinario di Chirurgia Generale Direttore della Divisione di Chirurgia Generale, Università degli Studi dell’Insubria, Varese Direttore della Scuola di Specializzazione in Chirurgia Generale Rettore dell’Università degli Studi dell’Insubria Renzo Dionigi, nato a Milano l’11 settembre 1940, si laurea nel 1965 presso l’Università di Pavia ove inizia la sua carriera universitaria alla Scuola di Massimiliano Campani. Assistente Universitario di ruolo nel 1974, Professore Associato nel 1980, vincitore di concorso per Professore di prima fascia nel 1986, viene chiamato dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia di Pavia, con voto unanime, a ricoprire la Cattedra di Patologia Chirurgica. In due periodi successivi (1968-70 e 1975) si trasferisce negli Stati Uniti presso il Dipartimento di Chirurgia dell’Università di Cincinnati

ove, alla Scuola di W. Altemeier e J.W. Alexander, quale Assistant Professor of Surgery svolge ricerche sperimentali e cliniche nel settore dei trapianti d’organo ed è personalmente coinvolto nell’attività clinica della Divisione Trapianti. Quando a Varese si istituisce la II Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Pavia (novembre 1990), egli ne dirige la Clinica Chirurgica ed attivamente si dedica allo sviluppo della nuova Facoltà, della quale è eletto Preside nel 1993. È stato chiamato, in qualità di Visiting Professor, a tenere conferenze presso prestigiose Istituzioni Universitarie quali: Mc Gill University (Montreal), Harvard University (Boston),Newcastle upon Tyne, Sheffield, Bruxelles, Oxford, Sapporo, Osaka, Nagoya,Tokyo,Amburgo, Stoccolma, Mosca, Losanna, Lione, Edinburgo ed altre ancora. È membro di molteplici Società Scientifiche nazionali ed internazionali, nelle quali ha ricoperto e ricopre cariche rilevanti; tra le più prestigiose si citano: American College of Surgeons, American Association for the Advancement of Science, New York Academy of Science, International Surgical Group (Past President), The Transplantation Society, Collegium Internationale Chirurgiae Digestivae, European Association of University Surgeons, European Society for Surgical Research (Past President), European Society for Parenteral and Enteral Nutrition, Ohio State Alumni Association (Associated Life Member), Surgical Infection Society (Charter Member), International Gastro-Surgical Club,The International Society for Diseases of the Esophagus. Nell’ottobre 1991 gli è stato conferito il titolo di Honorary Fellow del Royal College of Surgeons di Edinburgo. È membro del Comitato Nazionale di Bioetica e Presidente dell’Istituto di Studi Superiori dell’Insubria G. Cardano. Fa parte dell’Editorial Board di prestigiose riviste nazionali ed internazionali tra le quali si citano: British Journal of Surgery, Current Topics in Surgery, Current Opinions in General Surgery, Clinical Nutrition, European Surgical Research, Emergency Surgery, Journal of Experimental and Clinical Cancer Research, Annales Chirurgiae et Gynecologiae, Surgical Research Communications, Journal of Emergency Surgery and Intensive Care, Journal of the Royal College of Surgeons of Edinburgh. È autore di oltre 800 pubblicazioni, di cui 6 monografie di argomenti vari di chirurgia generale e specialistica. Gli attuali suoi maggiori interessi nell’ambito della ricerca si riferiscono alla immunoreattività dei pazienti neoplastici e dei pazienti gravemente settici. In campo clinico, esecutore di oltre 18.000 interventi chirurgici, si è dedicato, e tuttora si dedica attivamente, soprattutto alla chirurgia oncologica maggiore con particolare riferimento a quella resettiva di esofago, pancreas, fegato, colon e retto.

AUTORI

     







  



 



 







 

Giorgio AGRIFOGLIO Professore Ordinario di Chirurgia Vascolare – Università di Milano Giovanni Battista AGUS Professore Associato di Chirurgia Vascolare – Università di Milano Giuseppe ARMOCIDA Professore Ordinario di Storia della Medicina – Università dell’Insubria in Varese Luigi BARTALENA Professore Straordinario di Endocrinologia – Università dell’Insubria in Varese Riccardo BARTOLETTI Professore Associato di Clinica Urologica – Università di Firenze Rocco BELLANTONE Professore Associato di Chirurgia Generale – Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli – Roma Angelo BENEVENTO Professore Associato di Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Luisa BERARDINELLI Professore Associato di Chirurgia Sostitutiva dei Trapianti d’Organo – Università di Milano – Chirurgia Vascolare e dei Trapianti di Rene – Ospedale Maggiore Policlinico – Milano Giorgio BOGGIO ROBUTTI Professore Ordinario f.r. di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva – Università di Pavia Fabio BONALUMI Dirigente Medico – Istituto di Chirurgia Vascolare – Università di Milano Luigi BUCCI Professore Associato di Chirurgia Generale – Università Federico II – Napoli Carlo CAPELLA Professore Ordinario di Anatomia e Istologia Patologica – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Giulio CARCANO Professore Associato di Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Francesco CARLEI Professore Ordinario di Chirurgia – Ospedale di Teramo – Università di L’Aquila Marco CASTAGNETO Professore Ordinario di Chirurgia Sostitutiva e dei Trapianti d’Organo – Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli – Roma Patrizio CASTELLI Professore Associato di Chirurgia Vascolare – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Giuseppe CASULA Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università di Cagliari Giovanni CHELAZZI Già Responsabile di Struttura Complessa – Immunoematologia e Servizio Trasfusionale – Ospedale di Circolo di Varese Paolo CHERUBINO Professore Ordinario di Ortopedia – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Maurizio CHIARANDA Professore Ordinario di Anestesiologia e Rianimazione – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Liliana COLOMBO Professore Associato di Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Adolfo COSTANTINI Dirigente Medico – Istituto di Chirurgia Vascolare – Università di Milano Francesco CRUCITTI † Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma

 













 

 



 







 

 





  



Marcello CURZIO Dirigente di Struttura Complessa – Gastroenterologia – Ospedale di Circolo di Varese Valerio DI CARLO Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università Vita-Salute San Raffaele – Istituto Scientifico San Raffaele – Milano Paolo DIONIGI Professore Straordinario di Chirurgia Generale – Università di Pavia – IRCCS Policlinico San Matteo – Pavia Renzo DIONIGI Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Giovanni Battista DOGLIETTO Professore Associato – Clinica Chirurgica – Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli – Roma Lorenzo DOMINIONI Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Luigi DONATI Professore Ordinario di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva – Università di Milano – Ospedale Niguarda Cà Granda – Milano Angela FAGA Professore Associato di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva – Università di Pavia – IRCCS Fondazione “S. Maugeri” – Pavia Attilio Maria FARINON Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università Tor Vergata – Roma Luigi R. FASSATI Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università di Milano – Ospedale Maggiore Policlinico – Milano Livio GABRIELLI Professore Ordinario di Chirurgia Vascolare – Università di Milano Giorgio Enrico GERUNDA Professore Associato di Semeiotica e Metodologia Chirurgica – Università di Padova – Policlinico – Padova Giuseppe GIUDICE Responsabile di Struttura Complessa – Anestesia e Rianimazione – Ospedale di Circolo di Varese Alfredo GODDI Responsabile SME – Diagnostica per immagini – Campus – Varese Federico A. GRASSI Professore Associato di Ortopedia – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Pio Francesco INTERDONATO Responsabile di Struttura Complessa – Chirurgia Generale – Ospedale di Angera (VA) Sergio LEARDI Professore Associato di Chirurgia Generale – Università di L’Aquila – Ospedale S. Salvatore – L’Aquila Emanuele LEZOCHE Professore Ordinario di Chirurgia – Università “La Sapienza” – Azienda Policlinico Umberto I – Roma Giovanni LORENZI Responsabile di Struttura Complessa – Chirurgia Vascolare – Ospedale Manzoni – Lecco Alvise MAFFEI FACCIOLI Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università di Padova – Policlinico – Padova Francesco MAZZEO Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università Federico II – Napoli Eugenio MIRA Professore Ordinario di Otorinolaringoiatria – Università di Pavia – Policlinico San Matteo – Pavia Lorenza MONTALBETTI Professore Associato di Neurologia – Università di Pavia – IRCCS Fondazione C. Mondino – Pavia Franco MOSCA Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università di Pisa – Presidio Ospedaliero di Cisanello – Pisa Alessandro NATALI Ricercatore – Clinica Urologica – Università di Firenze Gian Battista PARIGI Professore Associato di Chirurgia Pediatrica – Università di Pavia Stefano PEZZOTTA Professore Associato di Neurochirurgia – Università di Pavia – IRCCS Policlinico San Matteo – Pavia Giorgio PILATO Professore Associato di Ortopedia – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese

  



 







  



  





Federico REA Professore Associato di Chirurgia Toracica – Università di Padova Michelangelo RIZZO Professore Ordinario di Clinica Urologica – Università di Firenze Gioacchino ROBUSTELLI della CUNA Direttore Divisione di Oncologia Medica – IRCCS Fondazione “S. Maugeri” – Pavia Andrea SALA Professore Ordinario di Cardiochirurgia – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Francesco SCOLARI Professore Associato – Nefrologia Medica – Università dell’Insubria in Varese Nicola SCOPINARO Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università di Genova – Ospedale San Martino – Genova Mario SIMI Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università “La Sapienza” – Azienda Policlinico Umberto I – Roma Luigi SOFO Professore Associato di Chirurgia Generale – Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli – Roma Mario TAVANI Professore Ordinario di Medicina Legale – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Michele TORDIGLIONE Responsabile di Struttura Complessa – Radioterapia – Ospedale di Circolo di Varese Gianfranco TUCCI Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università Tor Vergata – Roma Antonio VEGETO Professore f.r. di Chirurgia Sostitutiva dei Trapianti d’Organo e di Organi Artificiali – Università di Milano Gianni VERCELLIO Responsabile di Struttura Complessa – Chirurgia Vascolare – Ospedale V. Buzzi – Milano Giovanni VERGA Professore Ordinario f.r. di Chirurgia Pediatrica – Università di Pavia Everardo ZANELLA † Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università Tor Vergata – Roma Gianni ZATTI Professore Associato di Ortopedia – Università dell’Insubria in Varese – Ospedale di Circolo di Varese Aris ZONTA Professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università di Pavia – IRCCS Policlinico San Matteo – Pavia Stefano ZURRIDA Direzione Scientifica – Istituto Europeo di Oncologia – Milano

COLLABORATORI

            

         

       

Mario ALESSIANI Ricercatore Confermato – Dipartimento di Chirurgia – Università di Pavia Paolo ANTOGNONI Dirigente Medico – Radioterapia – Ospedale di Circolo di Varese Gianpaolo BALZANO Dirigente Medico – Chirurgia II – Istituto Scientifico San Raffaele – Milano Vittoria BARALDINI Dirigente Medico – U.O. Chirurgia Vascolare – Ospedale V. Buzzi - Milano Raffaello BELLOSTA Dirigente Medico – U.O. Chirurgia Vascolare – Casa di Cura Poliambulanza - Brescia Samuele BENJACAR Specializzando in Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese Rosangela BERETTA Specialista in Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese Mariacarla BESOZZI Dirigente Medico – Chirurgia Generale – Ospedale di Circolo di Varese Amedeo BINI Dirigente Medico – Ortopedia – Ospedale di Circolo di Varese Piero BONADEO Dirigente Medico – Chirurgia Vascolare – Università di Milano Nicoletta BONFANTI Dirigente Medico – Ospedale di Circolo di Varese Luigi BONI Ricercatore – Chirurgia Generale – Università dell’Insubria di Varese Maurizio BOSSOLA Ricercatore – Clinica Chirurgica – Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli – Roma Giorgio BUTTI Dirigente Medico – IRCCS Policlinico San Matteo – Pavia Luca CABRINI Dirigente Medico – Chirurgia Generale – Ospedale di Circolo di Varese Piero CANDIANI Professore Associato f.r. di Chirurgia Plastica – Università di Milano Manuela CARNINI Specializzanda in Chirurgia Vascolare – Università dell’Insubria in Varese Roberto CARONNO Dirigente Medico – Chirurgia Vascolare – Ospedale di Circolo di Varese Marco CASTIGLI Specialista in Urologia – Clinica Urologica – Firenze Renato CASTOLDI Dirigente Medico – Chirurgia II – Istituto Scientifico San Raffaele – Milano Tiziano CEBRELLI Dirigente Medico – Divisione di Urologia – Policlinico San Matteo – Pavia Luca CERIANI Dirigente Medico – Medicina Nucleare – Ospedale di Circolo di Varese Giuseppe CORSI Dirigente Medico – U.F.Chirurgia Vascolare – Policlinico Multimedica – Sesto San Giovanni (MI) Giovanna COVAIA Dirigente Medico – Anestesia Cardiochirurgica – Ospedale di Circolo di Varese Andrea DAMI Dirigente Medico – AUSL 3 – Ospedale di Pistoia Fabio D’ANGELO Ricercatore – Ortopedia – Università dell’Insubria in Varese Giulio DEL POPOLO Dirigente Medico – A.O.Careggi – Firenze Gianlorenzo DIONIGI Ricercatore – Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese Maurizio DOMANIN Ricercatore – Chirurgia Vascolare – Università degli Studi di Milano Vera DONATI Dirigente Medico – Divisione di Chirurgia Maxillo-facciale – Ospedale S. Paolo – Milano Sandro FERRARESE Dirigente Medico – Cardiochirurgia – Ospedale di Circolo di Varese

   

   





 

  

   

   

        

 

 

Alberta FERRARI Dirigente Medico – Chirurgia Generale – Ospedale di Circolo di Varese Alberto FUMAGALLI Dirigente Medico – Istituto di Chirurgia Plastica – Policlinico S. Donato – Milano Mauro GACCI Specialista in Urologia – Clinica Urologica – Firenze Silvana GARANCINI Responsabile di Struttura Complessa – Medicina nucleare – Ospedale di Circolo di Varese Sabrina GARBARINO Specializzanda in Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese Enrico GIGANTI Dirigente Biologo – A.O. Careggi – Firenze Luca GIOVANELLA Dirigente Medico – Medicina nucleare – Ospedale di Circolo di Varese Renzo GULLOTTA Responsabile di Struttura Complessa – Gastroenterologia – Ospedale di Paderno Dugnano (MI) Andrea IMPERATORI Ricercatore – Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese - Ospedale di Circolo di Varese Vassili JEMOS Dirigente Medico – Istituto di Chirurgia Epatopancreatica – IRCCS Policlinico San Matteo – Pavia Marco KLINGER Funzionario Tecnico – Chirurgia Plastica – Università di Milano Gaetano LANZA Dirigente Medico – U.F. Chirurgia Vascolare – Policlinico Multimedica – Sesto San Giovanni (MI) Davide LOCATELLI Dirigente Medico – IRCCS Policlinico San Matteo – Pavia Antonella LOMETTI Dirigente Medico – Chirurgia II – Ospedale Civile di Vimercate (MI) Sergio LOSA Dirigente Medico – U.F. Chirurgia Vascolare – Policlinico Multimedica – Sesto San Giovanni (MI) Monica LOY Dirigente Medico – Chirurgia Toracica – Azienda Ospedaliera – Padova Umberto MAGGI Dirigente Medico – Centro Trapianti Fegato – Ospedale Maggiore Policlinico – Milano Alessandro MAGLI Dirigente Medico – Radioterapia Oncologica – Ospedale di Circolo di Varese Lorenzo MAGRASSI Ricercatore Confermato di Neurochirurgia – Università di Pavia – IRCCS Policlinico San Matteo – Pavia Vittorio MANTOVANI Dirigente Medico – Cardiochirurgia – Ospedale di Circolo di Varese Massimiliano MARTELLI Specializzando in Chirurgia Vascolare – Università di Milano Roberto MAUGERI Dirigente Medico – Cardiochirurgia – Ospedale Multizonale – Varese Giulio MINOJA Responsabile di Struttura Complessa – Anestesia e Rianimazione – Ospedale di Circolo di Varese Piero MONDANI Dirigente Medico – Casa di Cura Villa Igea – Milano Carlo MONTOLI Dirigente Medico – Ortopedia – Ospedale di Circolo di Varese Andrea MUSAZZI Dirigente Medico – Cardiochirurgia – Ospedale di Circolo di Varese Maria Paola NARDOVINO Dirigente Medico – Chirurgia Generale – Clinica INI – Canistro (AQ) Giovanni NICOLETTI Ricercatore – Chirurgia Plastica – Università di Pavia Alberto OCHETTI Dirigente Medico – Chirurgia Generale – Ospedale di Luino (VA) Elena ORSENIGO Dirigente Medico – Chirurgia II – Istituto Scientifico San Raffaele – Milano Doriano OTTAVIAN Dirigente Medico – Istituto di Chirurgia Plastica – Policlinico S. Donato – Milano Fabio PACELLI Ricercatore – Clinica Chirurgica – Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli – Roma M. PICOZZI Ricercatore – Medicina legale – Università dell’Insubria in Varese Renato PIETROLETTI Ricercatore Confermato – Chirurgia Generale – Università di L’Aquila – Ospedale S. Salvatore – L’Aquila Gabriele PIFFARETTI Specializzando in Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese Domenico PRESTAMBURGO Dirigente Medico – Ortopedia – Ospedale di Circolo di Varese





      



       

Vincenzo RAPISARDA Dirigente Medico – Divisione di Chirurgia Plastica e Centro Ustioni – Ospedale Niguarda Ca’ Granda – Milano Carlo RATTO Ricercatore – Clinica Chirurgica – Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli – Roma Marco REALINI Dirigente Medico – Anestesia Cardiochirurgica – Ospedale di Circolo di Varese Giovanni ROSSI Dirigente Medico – Chirurgia Vascolare – Ospedale Manzoni – Lecco Alessandro RUSCAZIO Specializzando in Chirurgia Vascolare – Università di Milano Francesca ROVERA Specializzanda in Chirurgia Generale – Università dell’Insubria in Varese Antonio SARCINA Responsabile U.F. Chirurgia Vascolare – Casa di Cura Poliambulanze – Brescia Silvia SCEVOLA Specialista in Chirurgia Plastica e Ricostruttiva – IRCCS Fondazione “S. Maugeri” – Pavia Gabriele SGANGA Dirigente Medico – Chirurgia Sostitutiva e dei Trapianti d’Organo – Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli – Roma Massimo SIGNORINI Responsabile di Struttura Complessa – Chirurgia Plastica – Multimedica – Sesto San Giovanni (MI) Carlo SOCCI Dirigente Medico – Chirurgia II – Istituto Scientifico San Raffaele – Milano Niceta STOMACI Dirigente Medico – A.O. Careggi – Firenze Michele Francesco SURACE Ricercatore – Ortopedia – Università dell’Insubria in Varese Aldo TOSTO Dirigente Medico – A.O. Careggi – Firenze Fabrizio TRAVAGLINI Specialista in Urologia – Clinica Urologica – Firenze Luca VAIENTI Funzionario Tecnico – Istituto di Chirurgia Plastica – Policlinico S. Donato – Milano Luigi VALDATTA Ricercatore – Chirurgia Plastica e Ricostruttiva – Università dell’Insubria in Varese Grazia VERDE Dirigente Medico – Anestesiologia e Rianimazione – IRCCS Policlinico San Matteo – Pavia

COMITATO EDITORIALE

GIORGIO AGRIFOGLIO Università di Milano GIUSEPPE CASULA Università di Cagliari PAOLO CHERUBINO Università dell’Insubria VALERIO DI CARLO Università Vita-Salute San Raffaele di Milano PAOLO DIONIGI Università di Pavia LORENZO DOMINIONI Università dell’Insubria EMANUELE LEZOCHE Università "La Sapienza" di Roma ALVISE MAFFEI FACCIOLI Università di Padova FRANCO MOSCA Università di Pisa ANDREA SALA Università dell’Insubria MARIO SIMI Università "La Sapienza" di Roma ARIS ZONTA Università di Pavia

SVEN-ERIK BERGENTZ University of Lund in Malmö MURRAY BRENNAN Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, New York SIR ALFRED CUSCHIERI University of Dundee ALBRECHT ENKE University of Frankfurt SIR MILES IRVING University of Newcastle upon Tyne KWOK CHEUNG ARTHUR LI Chinese University of Hong Kong ROSS SHEIL University of Sydney SIR ROBERT SHIELDS Royal College of Surgeons, Edinburgh MICHAEL TREDE University of Heidelberg in Mannheim ANDREW WARSHAW Harvard University, Boston

INDICE GENERALE I.

ASPETTI GENERALI

II.

CHIRURGIA GENERALE

III. CHIRURGIA TORACICA IV.

CHIRURGIA VASCOLARE

V.

CARDIOCHIRURGIA

VI.

CHIRURGIA PEDIATRICA

VII. CHIRURGIA PLASTICA E RICOSTRUTTIVA VIII. CHIRURGIA ORTOPEDICA IX.

OTORINOLARINGOIATRIA

X.

UROLOGIA

XI.

NEUROCHIRURGIA

XII. TRAPIANTI D'ORGANO

Sezione I

Aspetti generali a cura di R. Dionigi

I

I - ASPETTI GENERALI 1 Cenni di storia della chirurgia 2 Diagnostica clinica e strumentale 3 Valutazione e preparazione preoperatoria 4 Principi di tecnica chirurgica 5 Chirurgia mininvasiva 6 Le ferite 7 Anestesia 8 Trasfusioni di sangue e coagulopatie 9 Shock 10 Turbe idro-elettrolitiche e sindromi dismetaboliche 11 Il periodo postoperatorio 12 Complicanze postoperatorie 13 Infezioni chirurgiche 14 Terapia medica nel paziente chirurgico 15 Nutrizione del paziente chirurgico 16 Immunobiologia chirurgica 17 Principi generali sui trapianti d’organo 18 Principi di oncologia clinica 19 Radioterapia oncologica 20 Principi di medicina legale per il chirurgo

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1 Cenni di storia della chirurgia 1.1 Cenni di storia della chirurgia 1.2 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 1

Cenni di storia della chirurgia G. Armocida, R. Dionigi Ci troviamo oggi a confronto con sorprendenti idee scientifiche che si offrono come nuovi modelli interpretativi delle malattie e che ci fanno pensare di essere già entrati in un’altra fase rivoluzionaria della medicina. Il secolo che si è appena chiuso, soprattutto nei suoi ultimi anni, ha offerto strumenti scientifici e tecnologici profondamente innovativi aprendo interessanti prospettive di intervento, prima inimmaginabili. Se è vero che, in quasi duecento anni di storia, certe straordinarie modificazioni nelle aspettative di vita sono venute dalla corretta applicazione dei criteri preventivi di protezione, è altrettanto innegabile che negli ultimi decenni la medicina e la chirurgia si sono presentate agli ammalati con strumenti finalmente capaci di garantire davvero efficacia d’azione nel curare e nel guarire. La chirurgia, che già aveva colto straordinari successi nel percorso della sua storia più recente, si è trovata ad essere tra i protagonisti principali di questa avventura.Tuttavia sappiamo bene che, nella lotta contro la sofferenza e nel desiderio di dominare le malattie, gli uomini di medicina attendono ancora di superare altre tappe per giungere ad una maggiore chiarezza sui fenomeni biologici che ancora resistono alle nostre capacità di spiegazione. La riflessione sul passato resta uno degli elementi irrinunciabili del bagaglio di conoscenze dell’uomo anche nell’età della tecnica e questo volume vuole rispettare la buona tradizione di un Capitolo introduttivo, atto a presentare le linee principali lungo le quali si è svolto il percorso della chirurgia dall’antichità sino ad oggi. In queste pagine cercheremo di soffermarci brevemente su qualche aspetto di una lunga storia, non tanto per compiacerci del percorso compiuto nel mutare e nell’aggiornarsi delle dottrine mediche e della clinica, ma per guardare avanti ed avvicinarci con più adeguata consapevolezza all’esame dei cambiamenti che stanno ora segnando il modo di intendere i problemi della salute, comprendere le idee ed i metodi del presente, affrontare le contraddizioni e le perduranti insicurezze dottrinarie, orientarsi criticamente nelle questioni aperte e padroneggiare gli strumenti e gli stessi linguaggi della medicina. La breve rassegna che diamo oggi, necessariamente sintetica, cercherà di non trascurare le tappe italiane della storia, augurandosi altresì di riuscire a stimolare il lettore verso ulteriori approfondimenti. Il medico ed il chirurgo, intrecciando le loro competenze in varia guisa, sono stati i protagonisti di un impegno di cura che nel passato poteva contare su mezzi molto limitati e che solo da poco più di un secolo, con lo straordinario progredire scientifico e tecnologico, ha visto affermare sostanziali capacità risolutive. Fino dall’antichità si era posto l’interrogativo se fosse corretto distinguere malattie di interesse medico da malattie di interesse chirurgico, affrontabili con competenze e con mezzi di cura diversi. Il concetto unitario si trovava espresso già nella letteratura ippocratica, che esaltava la potenza della chirurgia capace di intervenire dove non arrivava il soccorso della medicina: quaecumque non sanant medicamenta, ea ferrum sanat; quae ferrum non sanat, ea i nis sanat; quae i nis non sanat, ea incura i ia utare o ortet. Nel suo stesso significato etimologico, Ceirourgi va indica la cura con arti manuali e il chirurgo è sempre stato colui che per sanare si avvaleva dell’uso della mano, nuda o munita di strumenti, ma sempre seguendo le indicazioni del suo intelletto razionale. 3

Sappiamo che il Giuramento di Ippocrate ci pone, a questo proposito, un problema di non facile interpretazione.Vi leggiamo, infatti, la raccomandazione al medico di non compiere atti chirurgici, ma sappiamo anche che la distanza tra medicina e chirurgia in quella età non era affatto così decisa e nelle altre opere ippocratiche la chirurgia era considerata uno dei normali compiti del medico. Circostanze e fattori complessi determinarono in passato disgiunzioni e ricongiunzioni della prassi della medicina e della chirurgia, in momenti storici e culturali diversi, ma nel mondo occidentale l’allontanarsi della manualità chirurgica dalle dirette attività del medico sembra piuttosto frutto di una atmosfera medievale, nella quale si determinarono le differenze di ruoli che durarono diversi secoli, fino al definitivo superamento di una condizione subalterna del chirurgo, avvenuta meno di duecento anni fa. La storia della chirurgia prese inizio nelle più antiche forme di vita dell’uomo. Una organizzazione razionale delle conoscenze teoriche e delle procedure pratiche si poteva scorgere già nelle prime civiltà dei tempi più remoti e la linea evolutiva progredì poi lungo percorsi differenti nelle diverse aree del mondo. Per molti secoli i cambiamenti della chirurgia, delle sue teorie, dei suoi metodi e dei suoi strumenti erano avvenuti molto lentamente. Le idee della scienza, generalmente, impiegavano tempi lunghi per entrare nel bagaglio delle pratiche terapeutiche. Negli ultimi duecento anni, invece, l’irrompere delle più mature e solide conoscenze biologiche nel mondo della medicina ha determinato vere profonde rivoluzioni ed un continuo rinnovarsi di scoperte e progressi. La velocità di tanti stimoli nuovi di aggiornamento richiede ora un collegamento incessante e puntuale tra i laboratori della ricerca e le corsie degli ospedali ed anche nell’arco di tempo della vita professionale di un medico si assiste a sostanziali rinnovamenti di idee e di mezzi. Lungo questi percorsi, anche recenti, non sono mancati episodi di successi effimeri o ingannevoli, ma la chirurgia ha guadagnato tappe di grande importanza, nemmeno immaginabili prima, e non rallenta il suo cammino lungo questa strada. Le lontane fonti della nostra cultura si cercano nelle antiche popolazioni del bacino del Mediterraneo. Il pensiero scientifico della classicità greco-romana si prolungò nella ricca cultura degli arabi, nella scolastica del Medioevo cristiano, nei centri di particolare interesse come la Scuola salernitana, per essere accolto poi nelle nascenti Università delle nazioni europee. Del resto sappiamo che il percorso dei centri propulsori della medicina si spostò sempre seguendo, via via, i trasferimenti del potere economico e politico. Se nel Rinascimento e nei primi tempi dell’età moderna fiorivano i centri italiani, nei secoli seguenti i maggiori stimoli furono presenti nei più ricchi paesi dell’Europa centrale e settentrionale, fino all’affacciarsi dei nuovi mondi americani ed asiatici.

Dai primordi alla classicità greca e latina I primi atti chirurgici furono certamente quelli compiuti da uomini inesperti e senza istruzione di fronte alle necessità di eventi traumatici. Dai primi remotissimi passi empirici il percorso portò poi alla costituzione di dottrine regolari ed ogni antica civiltà ci ha tramandato testimonianze di un esercizio chirurgico governato da specifiche conoscenze, praticato da figure capaci di lenire le sofferenze, curare le ferite, incidere gli ascessi, con ruoli e posizioni differenti nelle società a cui appartenevano.Tanti aspetti dell’antico esercizio di medicina e di chirurgia ci sono stati chiariti dalle fonti letterarie, da quelle artistiche e archeologiche. Lo straordinario capitolo della paleopatologia, che esplora con moderni metodi di indagine le ossa e gli altri resti biologici giunti fino a noi in quantità non trascurabile, offre informazioni dirette sulle malattie di cui soffrivano le popolazioni più antiche e aiuta a capire come venivano curati i guasti dell’organismo. Ci dà la prova dell’azione della mano dell’uomo che intervenne in lontanissimi tempi e in popolazioni primitive sul corpo ferito o malato che soffriva. Troviamo traccia di fratture ossee degli arti e delle vertebre, indubitabilmente affrontate con abilità risanatrice, con esiti in guarigioni buone e guarigioni cattive. La trapanazione cranica sul vivente – che era già codificata con precisione dai testi medici greci di 4

età ippocratica, indicanti la tecnica di apertura e di perforazione dell’osso con trapano perforante o a corona, le complicazioni possibili a carico dell’osso o delle meningi e le precauzioni atte a prevenirle – era notoriamente eseguita da molte popolazioni primitive che mostrarono di saperla padroneggiare bene. Le indicazioni erano ristrette per lo più alle fratture del cranio e talvolta alla malattia mentale, ma i dati archeologici ed antropologici suggeriscono di pensare anche ad origini più ampie, che non risiedevano solo nella chirurgia razionale, ma si collegavano forse a remote basi di interventi rituali, eseguiti sia sul vivente, sia sul cadavere. Nelle tracce culturali di antiche popolazioni di diverse regioni del mondo si possono trovare testimonianze remote di un passaggio dalla chirurgia e dalla medicina esercitate in modo istintivo, da uomini istruiti solo attraverso tradizioni ed esperienze empiriche, ad un corpo regolare di conoscenze codificate. Nel costituirsi delle dottrine e delle tecniche trasmesse con l’autorità di una letteratura specifica, si trovano gli elementi che portarono alla formazione delle prime scuole. Dal mondo egizio antico ci sono state trasmesse testimonianze di conoscenze chirurgiche relativamente progredite e anche gli scavi archeologici nelle regioni della fertile mezzaluna, dove fiorirono le civiltà mesopotamiche, continuano ad offrire archivi di tavolette d’argilla con testi di ricchezza straordinaria per i nostri studi. La più ricca fonte letteraria sulla medicina dell’antichità è costituita certamente dai testi greci del cosiddetto Corpus Hippocraticum, che raccoglie molti trattati medici, tradizionalmente attribuiti ad Ippocrate, il medico nato nell’isola di Cos, ma composti verosimilmente in epoche diverse e in genere non anteriori alla metà del V secolo prima di Cristo. Tuttavia, anche al di fuori dei testi propri della medicina, informazioni preziose per conoscere le antiche prassi della chirurgia ci possono venire dalla lettura di altre grandi opere della letteratura antica. Gli stessi poemi omerici sono ricchi di riferimenti precisi all’intervento risanatore sulle ferite degli epici eroi. Sappiamo che la chirurgia della Grecia antica non era sorretta da una buona conoscenza dell’anatomia, ma era in grado già di suggerire tecniche utili in molti quadri patologici. Tra le civiltà dell’Italia preromana, gli Etruschi lasciarono prove della loro capacità con le raffinate lavorazioni in oro sui denti. Su Roma antica si riversò poi tutto l’ampio bagaglio di cognizioni greche, arricchite dalle esperienze acquisite in Egitto e nell’epoca splendente della medicina alessandrina. Le riconosciute qualità dei Greci e delle loro scuole mediche li resero protagonisti principali dell’arte del curare nella società romana, dove esercitavano indifferentemente la medicina e la chirurgia. Anche Galeno (129-210 ca.), il più grande dei medici di quell’epoca e autorità indiscussa per molti secoli, era nato a Pergamo, in Asia Minore, e si era formato nella medicina greca. Egli fu capace di profonde elaborazioni di pensiero. Sulla base di esperienze ed osservazioni personali, giunse a costruire un sistema anatomo-fisiologico in cui trovava sistematizzazione l’antica dottrina degli umori, intesi come costituenti l’organismo e dal cui disequilibrio si facevano discendere gli stati di malattia. L’opera di Galeno, che fu accettata come dogma e governò ogni interpretazione fisiopatologica, non trascurava campi di interesse chirurgico e certi aspetti tecnici delle procedure operatorie, come le legature dei vasi e il rischio delle lesioni dei nervi. La sua anatomia, come è noto, era largamente imperfetta, perché elaborata sulla sezione degli animali piuttosto che dell’uomo, ma passò resistendo ad ogni critica attraverso le elaborazioni di tanti autori successivi, arabi e del Medioevo cristiano, restando saldamente il testo obbligato di istruzione medica e chirurgica fino all’età moderna. Diversi autori della romanità lasciarono altri scritti di interesse chirurgico, sui quali non possiamo certo intrattenerci in questa sede. Basterà, a titolo esemplificativo, ricordare che due dei libri di De re medica, opera di Aulo Cornelio Celso, trattavano esclusivamente di chirurgia, descrivendone le premesse storiche, gli strumentari, i quadri patologici e i metodi di intervento. Nella potenza di Roma imperiale ebbe un notevole ruolo la chirurgia applicata all’apparato militare. I soldati erano curati nei valetudinaria, grandi complessi ospedalieri perfettamente organizzati e dislocati anche nelle province periferiche dell’Impero. Nell’esercito operavano persone capaci di trattare le ferite, ridurre fratture e lussazioni, estrarre corpi estranei, usare l’arte meticolosa dei bendaggi. Una categoria speciale di medici era rappresentata dai vulnerari, addetti alle cure dei gladiatori. Quei chirurghi, accanto alle pratiche più 5

comuni come incidere ascessi, cauterizzare ferite, estrarre denti, sapevano affrontare anche interventi di maggiore complessità: l’amputazione degli arti, la legatura dei vasi a scopo emostatico, le suture per riavvicinare i bordi delle ferite, l’operazione per i calcoli della vescica e della cataratta, le ernie con resezione del sacco, la tracheotomia, il taglio cesareo. Erano conoscenze assai vaste delle quali si nutrì l’esercizio della chirurgia fino all’età moderna.

Le medicine di transizione e il Medioevo Un testo a lungo tenuto come autorevole fonte di sapere per la chirurgia si trova nell’opera di Paolo d’Egina (625-690) che offre informazioni precise sulle tecniche usate nel mondo antico. L’alto Medioevo, come è noto, fu considerato un periodo di stagnazione per le scienze. Il pensiero della classicità greco-romana faticò a sopravvivere in quell’epoca e raggiunse le età posteriori attraverso dei filoni in cui si conservò e fu tramandata gran parte dei testi antichi. I principali binari di trasmissione della medicina furono da un lato quello del mondo islamico, che conosceva allora la sua più importante fase di espansione, e dall’altro quello cosiddetto autoctono,degli ambienti monastici cristiani e della Scuola di Salerno. Nel passaggio attraverso la cultura islamica e nella traduzione araba dei maestri di medicina dell’antichità, al vaglio e nelle acute rielaborazioni dei suoi studiosi, la chirurgia trovò certamente spunti che contribuirono ad arricchirla. Albucasis, Rhazes, Avicenna ed altri scrittori minori lasciarono rilevanti descrizioni di casistiche chirurgiche. La loro manualità confidava molto nella cauterizzazione, ma dimostrava di conoscere e saper applicare tecniche precise come l’emostasi per compressione, la sezione dei vasi fra legature, le suture intestinali con catgut o seta. L’organizzazione dei luoghi della medicina e della chirurgia nell’Islam mostrava centri di cura e di istruzione medica ispirati a modelli complessi, veri ospedali con sale di degenza, differenziazione delle patologie, biblioteche.

Il monachesimo, diffuso sia in Oriente sia in Occidente, rappresentò l’altro binario di trasmissione del patrimonio classico, ma tra il IX e il XII secolo ebbe importanza soprattutto la medicina di 6

Salerno, considerata il primo esempio di una scuola laica nel Medioevo cristiano. In quell’ambiente animato da molte figure di valore non mancarono opere di qualche interesse per la chirurgia. Ruggero da Frugardo diede una sistematica codificazione delle norme chirurgiche, con notevoli spunti di originalità, come i drenaggi con cannelli di sambuco nelle ferite profonde, le suture delle lesioni intestinali con seta e ago sottile, o l’uso del setone negli interventi per gozzo. La sua Rogerina, che conteneva anche una ampia descrizione di strumenti, divenne il testo di chirurgia più adottato nelle scuole europee. Verso il 1250, Rolando da Parma ne diede una elaborazione commentata, introducendo nuove idee, come la posizione inclinata del paziente nell’operazione di ernia. Quei maestri dimostravano di considerare la chirurgia un atto del medico, sapevano muoversi nelle ferite del cervello, come in quelle del polmone o dell’intestino, trattare i vasi e affrontare le difficoltà ostetriche. Quando tramontava la fortuna della Scuola salernitana, in molte città europee stavano nascendo le Università, che si imposero come le sedi autorevoli dell’istruzione regolare in medicina. La chirurgia vi trovò subito posto nell’ampio ventaglio di discipline che venivano insegnate e raggiunse le sue migliori espressioni nell’opera di alcuni autori che lasciarono segni di valore. Da una celebre famiglia di chirurghi di Lucca nacquero Ugo Borgognone (m. 1252) e suo figlio Teodorico (1205-1298) che dimostrò non comuni capacità di intuizione. Si ricorda che, opponendosi alla convinzione tradizionale, egli affermava che nelle ferite il pus era un fatto che poteva ostacolare e non favorire la guarigione.Aveva anche proposto l’uso di spugne imbevute di sostanze soporifere per diminuire la sensibilità del paziente. Lanfranco da Milano, trasferitosi a Parigi, contribuì a far nascere la chirurgia francese. Guido da Vigevano, nel XIV secolo, raccolse nel Liber Notabilium il frutto delle sue buone osservazioni anatomiche. Appartenevano alla stessa epoca ed allo stesso ambiente culturale Henri de Mondeville, docente a Montpellier, e Guy de Chauliac, che fu forse il più illustre dei chirurghi francesi del Medioevo. Una considerazione particolare merita Guglielmo da Saliceto, attivo a Bologna nel Duecento. La sua opera, che mostrava qualche originalità anche nell’opporsi al largo uso dei cauteri suggerito dagli Arabi, lo dimostrò capace di proclamare la necessità di tenere la chirurgia unita alla medicina, in un’epoca in cui nella pratica si stavano stabilendo, invece, certe distanze.

La chirurgia degli empirici Proprio in quel periodo si rafforzò la distinzione tra il medico laureato, capace di interpretare il funzionamento nascosto dell’organismo sano o malato, e l’esecutore pratico degli atti chirurgici sulle parti palesemente malate.Mentre la medicina si legava strettamente al rango ed alla cultura universitaria, la chirurgia era esercitata anche da persone con gradi di istruzione inferiori. Si affermarono e prosperarono forme di esercizio non istruito, affidate a chirurghi “minori” e ai barbieri, che si dedicavano all’esercizio del salasso, su indicazione del medico,alla cura di ascessi, fistole, fratture, lussazioni in genere, ma sapevano affrontare anche gli interventi più impegnativi. Talvolta li si trovava riuniti in corporazioni che regolavano l’esercizio dell’arte su propri statuti, accentuando la loro separazione dalla medicina. Lungo alcuni secoli, dal Medioevo all’età moderna, tutta la chirurgia, comprese le operazioni più impegnative, quali la litotomia, l’ernia o la cataratta, era stata praticata anche da empirici, individui dalla formazione irregolare, senza alcuna istruzione di scuola, addestrati a manualità nelle quali risultavano capaci di abili successi. Erano per lo più figure itineranti, che portavano il loro servizio da un paese all’altro,dove occorresse. Spesso appartenevano ad una stessa famiglia che si tramandava da una generazione all’altra gli strumenti e le tecniche, protette come gelosi segreti. Le città di Norcia e di Preci, nell’Umbria, erano la riconosciuta patria di una tradizione antichissima che continuò a formare schiere di abili chirurghi fino all’età moderna, rinomati anche per la singolare prerogativa di essere i più esperti nella pratica di castrare i putti destinati a diventare le voci bianche tanto richieste per il canto. Sappiamo che si potevano trovare norcini in ogni parte 7

d’Italia e in molti stati d’Europa, incamminati sui percorsi lungo i quali c’era sempre bisogno delle loro abili mani. Nel meridione d’Italia fiorirono altre vere celebrità, come le famiglie dei Vianeo a Tropea o i Branca in Sicilia, i soli che sapevano riparare guasti o ferite del naso con originali tecniche di rinoplastica. Leonardo Fioravanti descrisse lo stratagemma usato per introdursi in casa dei Vianeo e carpirne i segreti dell’operazione nel 1549 a Tropea. Del resto è noto che spesso i chirurghi regolari preferivano lasciare agli empirici i campi di intervento più ardui e nessuno dubitava che essi fossero capaci di punte di vero valore e maestria. Nella Francia moderna alcuni litotomisti raggiunsero meritevoli successi, come il provenzale Pierre Franco (1505-1570) o i due monaci Jacques de Beaulieu (1651-1719) e Jean de Saint Come (1703-1781). A Milano un norcino era in servizio nelle corsie dell’Ospedale Maggiore ancora nella seconda metà del Settecento.

I chirurghi e la riabilitazione dell’anatomia Alla fine del Medioevo la medicina, che cominciava a sottrarsi all’imperio della tradizione e al testo di Galeno, avviò una profonda trasformazione delle sue conoscenze. La riabilitazione dell’anatomia, che partì dallo studio direttamente compiuto sul cadavere, ne fu il primo propulsore. Il testo tanto innovatore di Andreas Vesal (1514-1564), De humani corporis fabrica, aveva visto la luce nel 1543, ma era stato preceduto dal lavoro di altri sagaci chirurghi e anatomici che seppero pubblicare opere già orientate all’osservazione moderna, basata sul visus et tactus, come fece Berengario da Carpi (1460 ca.-1530). Nel 1511, Giovanni da Vigo (1450-1525) aveva pubblicato una preziosa raccolta di norme razionali per la medicazioni delle ferite, la legatura delle arterie, le indicazioni e le tecniche delle operazioni, compresa la trapanazione cranica. Costituì un capitolo a sé l’opera somma di Leonardo da Vinci (1452-1519), che anche nell’anatomia fu capace di profondissime nuove osservazioni, ma in genere i grandi contributi anatomici del Cinquecento, prima e dopo Vesal, furono dati da autori che erano anche abili chirurghi.Gabriele Falloppio (1523-1562) raccolse grandi meriti per le sue dimostrazioni anatomiche; Realdo Colombo (m. 1599) a Padova sosteneva la dottrina della circolazione polmonare e nel 1559 la descriveva con osservazioni sperimentali. Andrea Cesalpino (1519-1603) proponeva uno schema che comprendeva il grande circolo e il movimento del sangue nelle vene, diretto dalla periferia al centro del corpo umano. Sebbene non ne avesse riconosciute le esatte funzioni, Gerolamo Fabrizi d’Acquapendente (1537-1619) aveva, dal canto suo, descritto fin dal 1603 le valvole venose e la loro distribuzione nell’albero vasale. Leonardo Botallo (m. 1587 ca.) studiò le ferite d’arma da fuoco, Giulio Cesare Aranzio (1530-1589) affrontò lo studio del feto. Il veneziano Michelangelo Biondo (1497-1565), che operò a Napoli, è ricordato per aver raccomandato l’applicazione dell’acqua fredda nella medicazione delle ferite. Giovan Andrea Della Croce (m. 1575) fu autore nel 1573 di un trattato che rimase testo classico di istruzione per più di un secolo. Gaspare Tagliacozzi (1545-1599), autore nel 1597 del De chirurgia curtorum per insitionem, seppe illustrare la tecnica della rinoplastica, che in precedenza era nota solo agli empirici. La sua opera è dimostrativa anche dei non rari intrecci tra i campi della medicina e della morale e dei loro effetti. Infatti la correzione dei difetti del naso, intesa come atto capace di modificare la natura, incontrò severissime critiche religiose. La rinoplastica venne condannata e non tornò in uso che alla fine del Settecento. In Germania operò Wilhelm Fabry von Hilden, noto come Fabricius Hildanus (1564-1634), uno dei massimi chirurghi del tempo. Il nome più autorevole della chirurgia del Cinquecento fu sicuramente quello di Ambroise Paré (1510-1590). Nato in una modesta famiglia del Nord della Francia, fu avviato all’ar-te della chirurgia, secondo un costume diffuso all’epoca, partendo dai gradini più bassi, come allievo di barbieri-chirurghi nell’esercito ed iniziò quella carriera errante e pericolosa partecipando alla grande campagna di guerra nell’Italia settentrionale, dove compì le sue prime esperienze con i feriti in battaglia. La qualità del suo lavoro e la genialità delle sue osservazioni lo portarono a raggiungere i ranghi più elevati della professione, fino al titolo di primo chirurgo della corona, e la maggior fama che, consolidata nel tempo, lo fa ritenere uno dei più celebri chirurghi della storia. Nel suo operare si era dovuto confrontare con la nuova efficacia lesiva delle artiglierie e delle armi da fuoco, 8

introdotte da poco come arnesi di guerra, che procuravano ferite molto gravi. Agì sviluppando geniali qualità di intuito clinico, rinnovando sostanzialmente diversi aspetti della pratica, con una notevole influenza presso i contemporanei e una traccia duratura nel tempo. Inventò protesi e strumenti nuovi. Nel trattamento delle ferite abbandonò infatti i metodi tradizionali dell’olio bollente e al cauterio preferì la legatura dei vasi. Tra il 1545 e il 1584 aveva pubblicato una quindicina di opere, nelle quali non mancavano espressioni di indiscutibile priorità in diversi campi chirurgici, compresi quelli ostetrici, come la descrizione in dettaglio della tecnica del rivolgimento podalico. Nell’ambiente padovano e alla scuola del Fabrizi, aveva maturato la sua formazione scientifica William Harvey (1578-1657) che, con la Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus, nel 1628, risolse il problema della circolazione del sangue. Si cancellò l’antica dottrina di Galeno, che credeva in un moto alterno del sangue, inteso come un andare e venire tra il centro e la periferia, affine al movimento delle maree e postulante un transito di sangue dal cuore destro al sinistro tramite le porosità del setto interventricolare. Per molto tempo, tuttavia, l’applicazione di queste scoperte non ebbe efficacia nella prassi terapeutica. Le malattie e lo stato di salute delle popolazioni non si erano modificati con il germogliare di idee scientifiche rivoluzionarie. Le conoscenze dei meccanismi di funzione dell’organismo inteso come macchina non offrivano reali vantaggi alle esigenze della medicina e della chirurgia, che oscillavano tra gli stimoli di una cultura rinnovata e le necessità della pratica sempre alle prese con i vecchi mali. Nel Seicento, sensibile alle idee galileiane e allo studio profondo delle minute macchine dell’organismo, osservabili con i nuovi strumenti di ingrandimento ottico, si affermava un’inclinazione ai tentativi di esperimento portati anche nel dominio della chirurgia. Possiamo ricordare Giuseppe Zambeccari (1655-1728) con i lavori sull’ablazione della cistifellea, della milza, sulla resezione del fegato e la nefrectomia, o le prime fallaci prove di trasfusione del sangue dall’animale all’uomo, date a Cambridge e a Parigi nel 1667.

Il panorama chirurgico nell’età moderna L’efficacia dell’azione chirurgica tradizionale era limitata dai problemi sempre immutati, che ostacolavano il suo progredire. Le ferite chirurgiche erano seguite dai fenomeni di suppurazione. Mancava ogni nozione sulla patogenesi dell’infezione e non era nemmeno sospettata un’azione dei microrganismi. Si era visto che una pulizia minuziosa delle ferite permetteva processi riparativi senza forti suppurazioni, ma il chirurgo considerava in genere positivamente la formazione di pus, come un fatto inevitabile che trovava spiegazione nella teoria degli umori. Era interpretata nella credenza della cozione, cioè di una specie di cottura degli umori discrasici, necessaria per la loro eliminazione e per la guarigione. Nel Settecento, a fronte di una notevole diffusione di complicazioni patologiche con effetti letali nei feriti, negli operati e nelle donne dopo il parto, si temevano le infezioni e le febbri putride,soprattutto nei grandi ospedali ad elevata concentrazione di pazienti. Il dolore e lo shock erano tra i gravi ostacoli all’azione operatoria. Di fronte al primo ci si poneva, però, con la forte convinzione che un buon chirurgo non dovesse cedere a certi atteggiamenti di pietà perché per risparmiare sofferenze si correva il rischio di non curare bene il malato. Gli stati di shock che colpivano i soggetti operati sfuggivano ad ogni possibile comprensione teorica, anzi talvolta la perdita di coscienza del paziente era vista con favore, eliminando gli inconvenienti delle reazioni al dolore. L’ammaestramento di Paré, nel XVI secolo, aveva fatto tramontare l’uso dell’olio bollente o del ferro rovente sulle ferite, intesi a prevenire l’effetto “velenoso”dei proiettili. Si passò all’uso di balsami diversi e si formarono tendenze differenti, verso metodi “secchi” o “umidi” di medicazione. Alle suture con ago e fili di lino, seta e metallo, si preferiva sovente la sutura “secca” con fasciature.Vi era chi sosteneva l’utilità dei lavaggi con acqua fredda, chi preferiva lasciare le ferite scoperte, chi predicava di proteggerle dall’aria. Anche sulle fasciature non c’era accordo tra chi le 9

voleva cambiate frequentemente e chi invece raccomandava il contrario. Cesare Magati (15791647) raggiunse una certa notorietà per la proposta di un trattamento “semplice” e razionale delle ferite, fasciando solo con un leggero panno a protezione dall’aria. Non erano noti, nelle loro reali problematiche, nemmeno i rischi dell’emorragia. La tecnica della legatura, nota fino dall’antichità, era rimasta sempre poco praticata. Per certi versi se ne temevano anche effetti negativi, perché poteva essere foriera di infezioni e suppurazioni. Del resto, richiedeva buone cognizioni anatomiche che il chirurgo dell’epoca non sempre possedeva.Ancora nel Seicento e nel Settecento alla legatura si preferivano la torsione dei vasi, la compressione o addirittura l’applicazione di sostanze astringenti o cauterizzanti. Tra il Seicento e il Settecento, accanto a tanti strumenti derivanti dalla tradizione antica, si videro apparire ferri nuovi per applicazioni specialistiche, seghe e trapani perfezionati, tenaglie per i denti, pinze cavapalle per le ferite d’arma da fuoco, sonde, siringotomi per la fistola anale, siringhe e anche il trocarre o foratoio triangolato, a noi noto come trequarti, proposto dal Santorio Santorio (1561-1636) per il drenaggio di cavità.

Il quotidiano esercizio del chirurgo si compiva nella pratica del salasso, certamente l’atto più discusso tra i mezzi terapeutici usati dalla medicina nella sua storia, osannato o screditato da schiere di medici che fino a tutto il secolo XIX non cessarono di dibattere, anche violentemente, sulla sua utilità o sugli abusi delle sue applicazioni.Tra gli interventi più frequenti, nelle casistiche del chirurgo, c’era l’amputazione delle membra, largamente praticata sui feriti in battaglia. Alcuni raccomandavano l’amputazione immediata, per evitare le frequenti e letali complicazioni settiche, altri preferivano adottare strategie attendistiche e questo dibattito restò sostanzialmente acceso fino al nostro secolo. Un’operazione molto nota e praticata già dall’antichità era la litotomia, in quanto i calcoli vescicali furono sempre una patologia di larga diffusione. L’incisione del perineo e della vescica con strumenti diretti verso il calcolo, rilevato al tatto dal dito che sondava la parete vescicale attraverso il retto, era l’intervento tradizionale. Nel Cinquecento, Mariano Santo (n. 1488) aveva proposto un suo nuovo metodo, detto del “grande apparecchio”, con il taglio laterale che fu poi ampiamente praticato da molti litotomisti. Si eseguiva con una certa sicurezza anche il trattamento chirurgico dell’ernia inguinale e scrotale,comprimendo il sacco erniario nel canale inguinale e praticando una legatura occlusiva. La discussione che durò a lungo riguardava la conservazione o meno del testicolo, poiché molti chirurghi dimostravano di preferire la castrazione, da altri ritenuta superflua. Il calabrese Marco Aurelio Severino (1580-1656), ideatore di interessanti tecniche operatorie, fu celebrato come uno dei principali chirurghi del suo tempo. Ma anche tra i minori si trovano figure di qualche interesse, come Anton Filippo Ciucci che pubblicò osservazioni 10

di casi pratici, insieme a consigli e suggerimenti di ordine medico-legale per il chirurgo.Tra i molti che raggiunsero considerevole notorietà si possono ricordare il francese Pierre Dionis (m. 1718) e, in Inghilterra, Richard Wiseman (1625-1686).

Nel secolo dell’Illuminismo e di Morgagni Il Settecento, percorso dai profondi stimoli dell’Illuminismo, si aprì con la pubblicazione del De morbis artificum (1700) di Bernardino Ramazzini (1633-1714), primo manifesto delle malattie dei lavoratori, e si chiuse nel consolidarsi delle idee di una medicina attenta alla tutela della salute delle popolazioni secondo gli ammaestramenti del System einer vollstaendigen medizinischen Polizey (1779), di Johann Peter Frank (1745-1821). Fiorirono rigogliose le interpretazioni dell’organismo secondo le costruzioni dei “sistemi” a carattere ideologico-vitalistico. Le posizioni di Georg Ernst Stahl (1660-1734), Friedrich Hoffmann (1660-1742),William Cullen (1712-1790) o John Brown (1735-1788), erano accettate da larghi strati della classe medica e trovarono sostenitori fino ad Ottocento inoltrato, nonostante stessero diventando oramai incompatibili con il bagaglio sempre più ricco delle scienze naturali. Nella chirurgia primeggiavano gli ambienti di Parigi, dove la fondazione di una Accademia Reale aveva segnato, all’inizio del secolo, un importante momento di promozione della cultura chirurgica. Vi operarono figure di primo piano, come Pierre Joseph Desault (1744-1795), allievo di Jean Louis Petit (1674-1750), che fu il fondatore della clinica chirurgica all’Hôtel Dieu, o François Chopart (1743- 1795) che propose un originale metodo di amputazione del piede.Si differenziavano anche veri settori specialistici,come quelli dell’ostetricia e dell’oculistica, che già da tempo godevano di una certa dimensione autonoma. Nicolas Andry (1658-1742), pubblicando L’orthopedie ou l’art de prevenir et de corriger dans les enfants les difformités du corps, a Parigi nel 1741, diede la nuova definizione dell’ortopedia. Dal XVIII secolo iniziarono a svilupparsi diverse scuole di chirurgia affermate nelle principali sedi universitarie d’Europa. In Inghilterra ebbero vasta fama Percival Pott (1714-1788), che diede il suo nome alla spondilite tubercolare e i due fratelli John (1728-1793) e William Hunter (1718-1783). Tuttavia l’esercizio della medicina tradizionale, largamente inefficace,giustificava ancora una sorta di diffidenza che condizionava il rapporto medico-paziente.Anche le persone più colte potevano nutrire sentimenti misti di fiducia e di timore verso le terapie. Un intellettuale lombardo di primo piano come Pietro Verri (1728-1797) poteva scrivere: «Poco pochissimo ajuto possiamo sperare da’ medici, ed assaissimo vi è da temere [...] Se un osso mi va fuori di luogo, o mi si rompe, certamente io non posso fare a meno di ricorrere o ad un valente scultore, o ad un chirurgo, a meno che io non mi accontenti di rimaner deforme, o storpio, dopo molti pericoli e spasmi. Quindi è che della chirurgia abbiamo un reale bisogno, laddove della medicina ne possiamo ragionevolmente far senza». Ma non era unanime il coro di adesione fiduciosa alla chirurgia.Possiamo accorgercene leggendo una lettera scritta da Carlo Castelli, Canonico e Professore di matematica e fisica a Milano, al Conte di Carpenè di Torino, nel dicembre 1771: «[...] aggravata di flussione dell’occhio ed il chirurgo Moscati, impostore come tutti gli altri di tal pro-fessione, continua la vigna delle visite». Lo stesso Verri ci suggeriva una spiegazione, quando diceva che la chirurgia era divisa: «in due parti, giacché sono due mestieri realmente diversissimi che fa il chirurgo. Un mestiere è dipendente dalla facoltà medica, ed è fallacissimo; l’altro mestiere è quello di operatore, ed ha norma e principj sicuri. Il chirurgo, per ciò che concerne i tumori, i mali cutanei, gli empiastri, i pronostici e giudizj sull’origine, qualità e rimedj; per questa parte, dico io, è ciurmatore al pari del medico [...] L’altro mestiere che fa il chirurgo, cioè quello d’operatore colla mano,ha principj sicuri. Chi sa l’organizzazione delle ossa ed il meccanismo col quale sono congiunte [...] chi sa l’anatomia, come saper la deve un chirurgo, può salvar la vita legando un’arteria squarciata da una ferita; può estrarre inocuamente un corpo estraneo intruso nel corpo umano;può restituire la vista, liberando l’asse dell’occhio da un corpo opaco; qui non v’è dubbio alcuno, che l’arte del chirurgo non abbia principj sicuri, e non sia di giovamento». 11

L’opera destinata ad avere le maggiori influenze sulla nuova medicina fu quella di Giovan Battista Morgagni (1682-1771) che diede sistemazione al metodo anatomo-clinico. Il suo De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, pubblicato nel 1761, insegnò che la fenomenologia clinica delle malattie poteva trovare spiegazione nelle lesioni individuabili all’autopsia ed è ritenuto l’atto di fondazione della “patologia d’organo”. L’ammaestramento di Morgagni non ebbe subito applicazione pratica, perché ancora per diversi decenni la medicina e la chirurgia furono governate dall’autorità delle visioni sistemiche e vitalistiche che sopravvivevano nelle ambiguità di un periodo di transizione pur foriero di grandi novità. Ma all’inizio dell’Ottocento, nell’abbraccio con le acquisizioni della chimica e della fisica, la medicina uscì dalle incertezze alimentate dal sopravvivere di visioni diverse e si consegnò alla nuova lezione della clinica. La malattia non era più vista nello squilibrio degli umori o delle forze vitali, come per secoli in precedenza, ma si localizzava e dava maggiore forza anche all’operare di chi poteva intervenire con mezzi chirurgici per riparare o eliminare i guasti visibili dell’organismo. Lo stetoscopio, proposto nel 1819 da René Théopile Laennec (1781-1826) per auscultare il torace, non era solo un nuovo strumento, ma costituiva un passaggio rivoluzionario ad un diverso modo di pensare la malattia. Per usarlo il medico doveva disfarsi di tutte le idee stratificatesi nella medicina lungo i secoli e aderire alle nuove visioni della clinica. Istruito in questa rinnovata cultura, egli era finalmente in grado di comprendere e spiegare su basi oggettive le alterazioni dell’organismo e proprio il concetto delle malattie localizzate riavvicinava la cultura del medico e quella del chirurgo.

Verso le sicurezze della chirurgia Tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento, nell’intreccio di fermenti intellettuali, politici e sociali, si rinnovarono molti aspetti della società. Tante innovazioni scientifiche e tecniche rendevano possibili imprese che prima non erano nemmeno immaginabili, alimentando un ottimismo fiducioso nelle conquiste del progresso,che toccava anche le esigenze e le aspettative della medicina. Il clima nuovo fece cambiare la formazione, la prassi ed anche il ruolo sociale e professionale del chirurgo. Passati i tempi delle due chirurgie,“ maggiore” e “minore”, e delle loro storiche differenze –anche se alcune antiche corporazioni dei barbieri e dei chirurghi tardavano a tramontare – tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, l’addestramento alla professione si spostò definitivamente nelle sedi universitarie e si legò intimamente a quello della medicina. I grandi chirurghi si identificavano ancora con i maestri di anatomia delle università e in Italia si trovavano nomi di primissimo piano. Antonio Scarpa (1752-1832), a Pavia, rappresentò una punta eccellente di espressione del pensiero morgagnano, con lavori di fondamentale importanza sulle ernie, sugli aneurismi, sulla cataratta. Tra i maggiori chirurghi romani si possono ricordare Giuseppe Flajani (1741-1808) e Carlo Guattani (1707-1773). La scuola dell’Ospedale Maggiore di Milano fu illustrata da Giovan Battista Palletta (1748-1832) e Giovan Battista Monteggia (17621815), autore di un trattato che ebbe larga diffusione fino alla metà dell’Ottocento. Giuseppe Baronio (1759 ca.-1811) compì esperimenti sugli innesti autoplastici animali, preziosi per il risorgere della chirurgia plastica, se non anticipatori delle idee sui trapianti. Michele Troia (17471828) fu autore di acute osservazioni sul periostio e sulle malattie della vescica orinaria. Se il ruolo dei medici e dei chirurghi era rimasto sempre quello dettato dai limiti delle loro conoscenze e dei loro strumenti largamente fallaci, le trasformazioni delle conoscenze biologiche e il rinnovamento tecnologico ottocentesco furono forieri di veri, profondi e sostanziali successi. Alla metà dell’Ottocento, la medicina abbracciava definitivamente il suo statuto di scienza biologica dal quale non si sarebbe più allontanata e sul quale avrebbe fondato le principali successive scoperte. I fenomeni fisiologici venivano indagati su basi ampiamente rinnovate, in schemi fisici e chimici che i medici delle generazioni precedenti non avrebbero ancora potuto capire. La conoscenza delle cellule e dei tessuti, il disvelarsi della patologia cellulare, la medicina fisiologica e sperimentale, capace di fondare la sua prassi su certezze oggettive, l’affermazione convincente della dottrina 12

microbica aprirono vie insperate che portarono al culmine della vittoriosa lotta sulle malattie infettive e al rapido cammino delle tecniche chirurgiche. All’inizio del secolo, M.F. Xavier Bichat (1771-1802) aveva introdotto il termine di tessuto, mentre si affermava la teoria cellulare soprattutto con Matias Jacob Schleiden (1804-1881) e con Theodor Schwann (1810-1882), che nel 1839 aveva pubblicato il suo trattato di osservazioni microscopiche. Considerata la cellula come elemento base della vita, si passò a studiarne i mutamenti di struttura e di funzione per cercare di scorgervi i segni della patologia, come fece Rudolph Virchow (1821-1902) nel 1859. Claude Bernard (1813-1878) dettò nel 1865 le direttive precise del nuovo indirizzo sperimentale nella ricerca, con l’Introduction à l’étude de la médecine expérimentale. La farmacologia, con una sua crescita parallela, abbandonava le strade dell’antica materia medica e diventava una disciplina scientifica sperimentale, saldamente collegata alla fisiologia, sicché alla fine del secolo si giunse a impiegare in terapia sostanze ricavate in laboratorio, senza il ricorso ai modelli della natura, in grado di rispondere alle mutate esigenze della terapia medica e di quella chirurgica. Nelle applicazioni pratiche dell’arte del guarire, durante l’Ottocento, fu soprattutto la chirurgia a trarre immediati concreti profitti dalle novità della scienza e a rinnovare profondamente i suoi strumenti, ottenendo, prima della fine del secolo, successi entusiasmanti. Un chirurgo che fosse nato alla fine del Settecento e fosse stato addestrato al suo mestiere verso l’inizio dell’Ottocento, avrebbe imparato la manualità della professione secondo regole derivanti dalle tradizioni antiche.Avrebbe avuto buone conoscenze utili ad affron-tare le operazioni impegnative: l’ernia, la litotomia per i calcoli della vescica, il taglio delle fistole anali, la ricostruzione plastica di parti lese, la riduzione delle fratture, le amputazioni, la legatura dei vasi e campi di interesse specialistico, come l’affondamento del cristallino opacato dalla cataratta e le manovre ostetriche. La sua abilità era legata al saper condurre le operazioni con la maggiore rapidità possibile per ridurre il dolore, che era scarsamente o per nulla controllato dai pochi rimedi anestetici noti. Non era obbligato ad operare in sale chirurgiche d’ospedale, anzi interveniva per lo più a domicilio, o in qualsiasi ambiente attrezzato estemporaneamente, a mani nude, e le macchie di sangue sulla sua giacca erano testimonianza del suo impegno. La perfetta qualità degli atti e della conduzione della sua mano dovevano poi confrontarsi con il destino postoperatorio sempre incerto, spesso insidiato dall’insorgere di gravi e gravissimi fatti settici generali che vanificavano l’intervento. Il suo motto al paziente doveva sempre essere lo stesso: «Io ti ho operato, Dio ti può guarire». Purganti e idratazione, fasciature e sanguisughe accompagnavano e seguivano l’operazione. Il malato era immobilizzato da robusti aiutanti e da cinghie strette per ridurre i contorcimenti che potevano ostacolare l’azione. Il campo era pulito con spugne di acqua ghiacciata, la ferita era trattata con il nitrato d’argento come caustico e i lembi si avvicinavano con cerotti. Il chirurgo operava con il proprio arsenale di strumenti fabbricati da armaioli specializzati. Il dolore, l’emorragia, lo shock e l’infezione erano i fattori di rischio fondamentali che ostacolavano l’avanzata della chirurgia. La ferita era seguita da quella che veniva definita come febbre irritativa e la guarigione avveniva raramente per prima intenzione.

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Già agli inizi del secolo si superarono tappe cliniche di grande significato. Nel 1809, negli Stati Uniti, Ephraim Mac Dowell (1771-1830) eseguì una ovariectomia su una donna di quarant’anni. Il centro propulsore della nuova chirurgia si trovava però in Francia, dove Guillaume Dupuytren (1777-1835) fu maestro di vaste schiere di allievi. Tra i francesi spiccò il nome Jean Civiale (17921867), che seppe avviare l’originale metodo litotritore per estrarre i calcoli dalla vescica. In altre nazioni europee fiorivano centri di rinnovamento della chirurgia, con figure come Johann Friedrich Dieffenbach (1792-1847) o Vincenz von Kern (1760-1829) nei paesi di lingua tedesca, John Bell (1763-1820) e Astley Paston Cooper (1768-1841) in Inghilterra.Tra i molti nomi italiani possiamo limitarci a ricordare Luigi Porta (1800-1875), che aveva raccolto l’insegnamento di Antonio Scarpa nell’Università di Pavia; Andrea Vaccà Berlinghieri (1773-1826) insegnò a Pisa; Carlo Cugini (1814-1883) fu clinico a Parma; Francesco Rizzoli (1809-1880), chirurgo a Bologna, ebbe un ruolo fondamentale nell’ortopedia italiana; Tito Vanzetti (1809-1888), insegnò a Padova.

La lotta vittoriosa contro il dolore Già alla metà del XIX secolo, la scena della chirurgia era mutata profondamente e alla fine dell’Ottocento non restava quasi nulla delle immagini drammatiche e tradizionali. Ciò si dovette certamente in gran parte all’introduzione di efficaci metodi contro il dolore. L’uso dell’oppio, della radice di mandragora, dell’alcool e delle manovre atte a ridurre il flusso ematico al cervello erano stati i tradizionali tentativi tesi a ridurre la sensibilità del paziente fino dall’antichità. Ma all’inizio dell’Ottocento i progressi della chimica e della fisica preparavano scoperte di grande vantaggio per il medico e il chirurgo. Il chimico inglese Humphry Davy (1778-1829), già nel 1799, considerando i gas recentemente scoperti, si era dedicato al problema della loro utilizzazione in terapia per indurre una anestesia, ma senza ascolto. Il suggerimento per giungere alla tappa risolutiva del problema non venne dai luoghi della medicina, ma, come è noto, fu raccolto sulla scena di certi spettacoli di pubblico divertimento, con i quali negli Stati Uniti d’America si dimostravano gli strani effetti dei “gas esilaranti” sull’uomo. Girando di città in città, quegli impresari incuriosivano la gente mostrando come i gas obnubilassero la coscienza di chi li respirava. L’azione dell’etere che provocava un’intossicazione alterando coscienza e sensibilità non poteva certo sfuggire all’interesse dei medici. Intuendo quali possibilità straordinarie si sarebbero potute ottenere in chirurgia, governando efficacemente quelle sostanze, Horace Wells (1815-1848), un dentista del Connecticut, 14

propose per primo una pubblica dimostrazione di un atto chirurgico con anestesia da etere, ma l’esperimento fu sfortunato. Di lì a poco, però, raccogliendo il suo suggerimento, William Morton (1819-1868) convinse un chirurgo a tentare ancora l’esperimento e si assunse così il merito della prima felice applicazione dell’anestesia eterea ad un paziente chirurgico, il 16 ottobre 1846, al Massachusetts General Hospital di Boston.Accettato l’etere solforico come anestetico e diffusane subito la conoscenza, ci si volse allo studio di altre sostanze capaci di dare gli stessi risultati. Cominciava la storia della vera anestesia, proprio nell’epoca in cui nella società si andavano affermando le più ampie sensibilità per gli sforzi tesi a lenire sofferenze fisiche e morali dell’uomo. Già nel 1847, James Simpson (1811-1870) di Edimburgo iniziò ad usare il cloroformio allo stesso scopo. Nell’affermarsi della nuova pratica non mancarono ovviamente discussioni che toccavano campi morali. Molte voci si levarono, per esempio, contro l’uso degli anestetici in ostetricia, non solo per i rischi degli effetti tossici, ma finanche perché sembravano allontanare innaturalmente la donna dall’imperativo etico del dolore del parto. La nascita del quarto figlio della regina Vittoria, avvenuta felicemente nel 1853, con anestesia cloroformica, contribuì a sedare le maggiori animosità. In Italia si ricordano le priorità di Alessandro Riberi (1796-1861) e di Luigi Porta che propose nel 1847 il suo metodo originale con una maschera da applicare alla bocca del paziente. Gli sforzi degli anni successivi furono diretti verso l’individuazione di nuove sostanze e nuove vie di somministrazione. Ebbero fugace durata i tentativi per via rettale e l’uso dei gas dominò praticamente la scena fino all’anestesia endovenosa, che si affermò solo nel Novecento, dopo la sintesi dei barbiturici. La via epidurale fu intrapresa verso il 1921. In Italia l’anestesiologia trovò un convinto sostenitore nel chirurgo torinese Achille Mario Dogliotti (1897-1966), autore di un fondamentale trattato della disciplina pubblicato nel 1936.

Nelle guerre dell’Ottocento Le guerre sono sempre state, come è ben noto, occasione di progresso per la chirurgia. Lo stesso trasformarsi delle armi e delle loro capacità lesive ha costituito, nel corso dei secoli, una continua sfida allo sforzo riparatore del chirurgo. A cavallo tra il XVIII e il XIX secolo si ebbero notevolissimi impulsi in questo settore. Un ruolo di grande importanza era stato ricoperto da Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800) che, avviato alla pratica chirurgica partendo dai gradini più umili nell’ospedale di Pavia, seppe giungere ai vertici della professione. Godendo della fiducia dell’imperatore, ebbe il compito di riorganizzare l’accademia di chirurgia militare a Vienna. Nelle guerre napoleoniche si diedero prove magistrali dell’organizzazione sanitaria d’armata francese, nelle soluzioni per il trasporto dei feriti e nell’allestimento di centri operativi. Figure di elevatissima statura professionale, come Jean Dominique Larrey (1766-1842), chirurgo capo delle armate, erano capaci di eseguire una disarticolazione d’anca in pochissimi minuti. Quella chirurgia sul campo di battaglia, largamente demolitiva, richiedeva velocità d’esecuzione e abilità nel tamponare emorragie e legare vasi. La guerra di Crimea, i moti del Risorgimento, le campagne per l’indipendenza d’Italia, la guerra di secessione americana, quella franco-prussiana e le imprese coloniali, con le loro tragiche conseguenze, furono gli altri teatri di ardimentose capacità ed occasioni per maturare nuovi orientamenti tecnici. Le armi da fuoco perfezionate, entrate in uso dopo il 1850,con canne rigate e proiettili ogivali, avevano effetti lesivi assai gravi e creavano nuovi e maggiori problemi ai chirurghi. Il desiderio di un indirizzo più conservativo, nelle ferite degli arti, si contrapponeva sempre al timore delle frequentissime e letali cancrene. Nella campagna di Lombardia del 1859 si era visto che la falcidie delle febbri aveva colpito molto più gravemente i feriti dell’esercito vittorioso, concentrati nei grandi ospedali di Brescia e di Milano, rispetto a quelli dell’armata sconfitta che, dispersi in molte direzioni con le colonne in ritirata, in mezzo agli stenti di faticosi trasferimenti, scamparono alla contagiosità delle cancrene nosocomiali. Il giorno dopo la battaglia di Solferino e San Martino, nel giugno 1859, si raccolse lo spunto di nuovi interventi umanitari. Colpito dalla tragica impressione di quel campo insanguinato, il ginevrino Henry Dunant (1828-1910) seppe prenderne stimolo per promuovere la fondazione della Croce Rossa 15

Internazionale, che nacque a Ginevra nel 1863, proclamando il principio della neutralità dei feriti in guerra e di chi li doveva assistere. Su questo tema si era già alzata anche la voce di un illustre chirurgo italiano, Ferdinando Palasciano (1815-1891), che nel 1861 aveva presentato a Napoli una memoria in cui sosteneva gli stessi principi ideali.

L’antisepsi e l’asepsi La sfortunata vicenda umana di Ignac Fulop Semmelweis (1818-1865) mostra come intuizioni ammirevoli e di grande valore scientifico possono non aver risultati pratici se sono compiute in tempi non maturi. Già prima del 1850, osservando gli andamenti di morbilità della febbre puerperale,che era uno dei flagelli più gravi dell’ostetricia ospedaliera, e dei tassi di mortalità in due differenti reparti dell’Allgemeines Krankenhaus di Vienna,valutando fattori che non erano stati presi in considerazione, come l’organizzazione del lavoro degli allievi con i turni in sala parto immediatamente successivi a quelli effettuati in sala di autopsie, Semmelweis aveva dato il rivoluzionario suggerimento di lavarsi le mani con acqua clorata prima di accingersi ad operare. Questo semplice consiglio riduceva il rischio delle febbri, ma la sua proposta sembrò troppo provocatoria ed incontrò la netta avversione degli ambienti sanitari. La raccomandazione cadde nel vuoto e la medicina non riuscì a trarne vantaggio. Costretto a lasciare la capitale, Semmelweis si trasferì in Ungheria e terminò infine tristemente la sua vita, ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Vienna. I medici non erano ancora a conoscenza dei meccanismi dell’infezione che sarebbero stati chiariti definitivamente dalla teoria microbica giunta a maturazione nella seconda metà dell’Ottocento.

L’antico dogma della generazione spontanea pretendeva che gli organismi minori derivassero spontaneamente dalla putrefazione di sostanze animali e vegetali e l’idea che potessero, invece, venir generati da altri esseri viventi sollevava sempre furiose contestazioni. La questione della generazione equivoca era stata al centro di dibattiti vivissimi fino dal Seicento, quando ancora si era molto lontani dal poter dimostrare la trasmissione contagiosa di una malattia, dal malato al sano, 16

attraverso un altro essere vivente. Solo su basi scientifiche più mature, nell’Ottocento si poté giungere definitivamente alla spiegazione del contagio vivo, con la dimostrazione che all’origine di alcune malattie si possono trovare dei microrganismi. Le ricerche sugli infusori e sui vermi intestinali contribuivano a far conoscere le possibilità delle infestazioni parassitarie. Agostino Bassi (1773-1856) in un breve trattato, Del mal del segno, calcinaccio o moscardino, malattia che affligge i bachi da seta, e sul modo di liberarne le bagattaje, anche le più infestate, pubblicato nel 1835, dimostrò che una malattia degli allevamenti del baco da seta era causata da un fungo, cioè da un altro essere organico vivente. Trasportata in campo umano, questa osservazione incrinava tutte le antiche teorie sulle cause dei miasmi e dei veleni atmosferici, suggerendo di ristudiare l’eziologia e i meccanismi di diffusione di certe patologie. Prima della metà dell’Ottocento la teoria dei germi aveva già diversi sostenitori, ma la dimostrazione dell’esistenza e della natura dei microrganismi fu possibile però solo dopo le scoperte della chimica. Louis Pasteur (1822-1895) chiarì il problema, descrivendo nel 1858 i microrganismi della fermentazione. Venne abbattuta definitivamente la teoria della generazione spontanea e si aprì lo studio dei germi, responsabili delle infezioni. Dopo l’ammaestramento di Pasteur, non fu difficile il passo successivo della medicina. A Joseph Lister (1827-1912) è riconosciuta la priorità nel trattamento antisettico delle ferite. Usava acido fenico in soluzione acquosa al 5% per la disinfezione della cute e in soluzione oleosa per la medicazione delle ferite e trattava con la stessa sostanza tutto lo strumentario e tutto quanto poteva venire a contatto, diretto e indiretto, col campo operatorio, senza escludere le mani del chirurgo e l’aria atmosferica, che sottoponeva ad irrorazione continua mediante uno spruzzatore. I primi tentativi furono eseguiti il 12 agosto 1865 e il metodo fu reso noto nel 1867. Ma anche in Italia, Enrico Bottini (1835-1903), chirurgo primario a Novara e poi professore a Pavia, aveva pubblicato fino dal 1866 i risultati di sue analoghe esperienze. Questi suggerimenti costituirono una vera rivoluzione che, insieme alla pratica dell’anestesia, trasformò completamente nell’arco di pochi anni le possibilità d’azione del chirurgo. L’antisepsi di Lister metteva eccessiva enfasi sul ruolo dell’aria atmosferica come veicolo di germi e l’uso dell’acido fenico rischiava di danneggiare anche i tessuti. In breve tempo si passò dalla tecnica antisettica a quella asettica. Piuttosto che cercare di distruggere i germi penetrati nelle ferite, si diresse l’azione a proteggere il campo operatorio dall’azione infettiva. L’asepsi era tesa a distruggere i germi sui materiali che potevano venire a contatto con la ferita, trattando gli strumenti nel forno con il calore secco o nell’autoclave con il calore umido. La priorità in queste pratiche è riconosciuta a Ernst von Bergmann (1836-1907). Dal 1878, la bollitura degli strumenti sfruttava l’azione sterilizzante del calore. Nel 1891 Curt Schimmelbusch (1860-1895) propose la sterilizzazione a secco. L’impiego dei disinfettanti fu limitato alla cura delle ferite infette o alle mani dell’operatore.A Baltimora,William Steward Halsted (1852-1922), uno dei massimi chirurghi americani del tempo, introdusse l’uso dei guanti di gomma. La preparazione della cute si effettuava con pennellature di tintura di iodio proposta da Antonio Grossich (1849-1926) a Fiume nel 1902.

I risultati positivi tra Ottocento e Novecento Gia dai primi decenni dell’Ottocento si era imposta una revisione del dottrinale della patologia chirurgica. Da quando per operare non erano state più sufficienti le conoscenze dell’anatomia e si erano abbandonate le antiche teorie dei sistemi per affidarsi alle nuove acquisizioni fisiopatologiche e per ragionare con attenzione sulle localizzazioni delle malattie negli organi e nei tessuti, la pratica professionale si era trasformata profondamente. Questi processi avevano tolto definitivamente i chirurghi dalla storica condizione subalterna rispetto ai medici, obbligandoli ad una stessa formazione universitaria. La chirurgia divenne una parte fondamentale dell’insegnamento perché si era affermata saldamente la convinzione che ogni medico dovesse saperla affrontare nella sua pratica professionale. Era chiaro che una certa parte della terapia chirurgica non poteva essere esercitata da tutti e rimaneva affidata a mani specializzate, ma era oramai inammissibile che i medici non fossero abili nelle parti basilari della chirurgia. Il successo crescente dei risultati in sala 17

operatoria, insieme all’opera efficace dei singoli medici attivi nelle città e nelle campagne, guadagnarono prestigio alla chirurgia, che si mostrava davvero in grado di ridare la salute, di modificare il corso di una malattia e di allontanare la morte. Si apriva il campo delle grandi operazioni affrontabili con minore timore del dolore, delle infezioni e delle altre gravi conseguenze. La chirurgia, vincolata a queste nuove conoscenze scientifiche, dovette abbandonare i letti operatori improvvisati, le sedi estemporanee, gli interventi al domicilio del paziente. Era oramai necessario vincolarsi ai dettati dell’asepsi e incardinarsi strettamente nell’ospedale, dove erano rispettate le irrinunciabili esigenze di una organizzazione tecnica complessa. Nelle corsie le generazioni di studenti apprendevano la professione studiando su una casistica varia e numerosa. Del resto gli ospedali del XIX secolo avevano cessato di essere i luoghi pii dove la tradizione caritatevole e misericordiosa vicariava la scarsa efficacia dei mezzi della medicina, ed erano diventati veri servizi di pubblica assistenza che accoglievano i nuovi suggerimenti scientifici e dove si fornivano prestazioni curative efficaci. Le sale per le operazioni, con le loro attrezzature tecnologiche, erano i nuovi centri vitali degli ospedali e i malati non rappresentavano più solo le classi povere, che non potevano essere curate con agio al domicilio, ma portavano richieste di cura cui si rispondeva oramai solo ricorrendo ai nuovi mezzi efficaci. Cambiava anche il modo di organizzare l’istruzione, l’addestramento, l’aggiornamento e i rapporti professionali. Nella prima metà del secolo era iniziata la consuetudine dei congressi medici, dei viaggi di istruzione, dei soggiorni nei grandi centri clinici qualificati.Prima della fine dell’Ottocento fioriva già il fenomeno di una stampa periodica specializzata ed erano sorte e prosperavano le Società di chirurgia nazionali ed internazionali, che riunivano regolarmente e periodicamente i loro membri in congresso. Si andarono formando delle grandi scuole di istruzione chirurgica e per il loro ruolo trainante in Europa primeggiarono a fine secolo quelle di area tedesca, con esempi di alto valore in Francia, Italia ed Inghilterra, mentre si affacciavano sulla scena i primi qualificati centri nordamericani.

Spinti dal progredire e dall’ampliarsi delle conoscenze dei diversi settori, nel grande corpo della chirurgia generale, si definirono dei campi di specializzazione, differenziandosi prima quei rami che anche in passato erano stati animati da una loro dimensione particolare, come l’oculistica. La scena del parto, che per secoli era stata dominio femminile, nel Settecento aveva definitivamente accolto il chirurgo con l’uso di strumenti atti ad affrontare le condizioni complicate e attuando una fusione 18

tra l’ostetricia e le operazioni della ginecologia. Alla fine dell’Ottocento assumevano proprie dimensioni specialistiche anche gli altri campi, quali l’urologia, la traumatologia e l’otorinolaringoiatria, mentre un processo inarrestabile portava tutta la medicina, arricchita nel dottrinale e nello strumentario, alla necessità di suddividersi in competenze di specializzazione.Per la diagnostica si doveva superare l’abitudine al solo giudizio clinico soggettivo perché non si poteva più fare a meno dei dati oggettivi e quantificabili degli strumenti e degli esami di laboratorio. Dopo i primi colorimetri, usati per indagare la presenza di sostanze nelle urine, molti strumenti e metodi si aggiunsero via via nel dar vita ad una vera medicina di laboratorio, capace di studiare la variabilità degli elementi presenti nei liquidi biologici. Con ciò si rendeva la malattia una entità misurabile e oggettivamente dimostrabile. Karl August Wunderlich (1815-1877) aveva posto le basi della termometria clinica ed entro la fine del secolo, grazie a Scipione Riva Rocci (1863-1937), si poté misurare facilmente la pressione arteriosa. Nell’arco di pochi decenni, la diagnosi venne guidata dall’uso dei mezzi di indagine strumentale, quali il laringoscopio, l’esofagoscopio, il tracheobroncoscopio, l’otoscopio, l’oftalmoscopio, il gastroscopio o il cistoscopio. Una straordinaria rivoluzione della diagnostica per immagini derivò dalla scoperta del fisico Wilhelm Roentgen (1845-1923) che nel 1896 comunicò a Wurzburg la sua scoperta di certi raggi che permettevano di guardare all’interno del corpo umano. Se è vero che prima dell’introduzione dell’anestesia e dell’asepsi il chirurgo aveva possibilità d’azione molto limitate, gli atti operatori che si compiono oggi sono nati e si sono perfezionati nell’arco di tempo di poco più di un secolo. Negli anni intorno al 1880 si riteneva che il cranio, il torace e l’addome fossero dei “santuari” inviolabili, che non potevano essere aperti se non da cause traumatiche. E ancora nel 1896 Stephen Paget (1855-1926), un chirurgo di grandi capacità, sosteneva che la cardiochirurgia si scontrava con i limiti posti dalla natura e che nessun metodo o scoperta sarebbero stati in grado di vincere quegli ostacoli naturali. Agli inizi del Novecento, invece, molte difficoltà erano state superate e la mano del chirurgo era entrata elettivamente nei “santuari” della grande chirurgia addominale, di una nuova chirurgia dell’encefalo, giungendo a suturare persino le ferite dirette del cuore. Gli studi di chirurgia sperimentale,che ebbero una fondamentale importanza nella conoscenza di alcuni proces-si, quali quelli di riparazione e di cicatrizzazione delle ferite, costituirono la base teorica degli ulteriori progressi. Anche l’anatomia chirurgica, arricchita dal contributo sostanziale di Louis Hubert Farabeuf (1841-1910), aveva fornito presupposti utili a chiarire modalità precise degli atti da compiere. Si iniziavano ad usare nuovi strumenti, quali la pinza emostatica di Eugène Koeberlé (1828-1915) e la pinzetta per arterie di Jules Péan (1830-1898), capaci di dare maggiori sicurezze al chirurgo. Lo svizzero Theodor Kocher (1841-1917) operava la tiroide. La chirurgia dei visceri addominali si avviò intorno al 1880. Dopo le dimostrazioni della possibilità di intervenire sulla stenosi del piloro, con anastomosi tra stomaco e digiuno, Theodor Billroth (1829-1894) eseguì a Vienna nel 1881 la prima resezione gastrica seguita da lunga sopravvivenza del paziente. Il pneumotorace artificiale di Carlo Forlanini (1847-1918) per la cura della tubercolosi, che era stato ideato nel 1882 ed applicato nel 1894, fu una modalità di intervento sugli organi del torace. A quell’epoca, la maggior parte dei chirurghi non credeva ancora alla possibilità di aggredire direttamente questi distretti se non per praticare il drenaggio delle raccolte purulente pleuriche. La chirurgia dell’encefalo, che in precedenza era praticata solo in riparazione di ferite traumatiche, si avviò su basi più sicure e nel 1884 Rickman Godlee (1859-1925), a Londra, asportò un tumore cerebrale. Questo percorso ebbe protagonisti di valore anche in Italia. Limitandoci solo ad alcuni nomi tra i maggiori, possiamo ricordare il pavese Edoardo Bassini (1844-1924) e la sua operazione per la cura radicale dell’ernia, attuata a Padova nel 1884 e resa nota nel congresso della Società italiana di chirurgia del 1887, che con alcune modificazioni è ancora oggi intervento di scelta;Rocco Gritti (1827-1920), che a Milano indicò il metodo di amputazione osteoplastica del ginocchio, esempio di chirurgia conservatrice; la scuola fiorentina fu illustrata da Giuseppe Corradi (1830-1907) e Francesco Colzi (1855-1903); Antonino D’Antona (1842-1913) nell’Università di Napoli fu studioso della chirurgia del sistema nervoso centrale; a Napoli operò anche Tito Livio De Sanctis (1817-1883); Francesco Durante (1834-1944), 19

per molti anni clinico chirurgo di Roma, autore di un importante trattato e di notevoli ricerche di patologia ossea, aveva operato felicemente un meningioma nel 1895; Pietro Loreta (1831-1889) si segnalò per la chirurgia dello stomaco; Alessandro Codivilla (1861-1912) fu eccellente maestro di ortopedia; Giacomo Filippo Novaro (1843-1934) insegnò a Genova; Leonardo Dominici (18791955) a Napoli. Iginio Tansini (1855-1943) a Pavia seppe proporre originali tecniche di intervento. Tutto il bagaglio di importanti acquisizioni verificatesi nelle discipline biologiche e negli strumenti tecnologici ha permesso alla medicina contemporanea di raggiungere entusiasmanti affermazioni, ma le applicazioni più immediate e più efficaci si sono ottenute soprattutto nella chirurgia. La sua stessa rapidità di evoluzione ha imposto alle scienze biomediche di adeguare il passo per risolvere i sempre nuovi problemi che il progredire ha proposto e ancora propone. La conoscenza dei meccanismi fisiopatologici e della farmacologia ha reso più sicure operazioni che erano note ed eseguite da secoli, abbassando in pochi anni la mortalità da livelli alti a cifre bassissime, e ha permesso di affrontare campi cui prima non ci si poteva nemmeno avvicinare. Karl Landsteiner (1868-1943) nel 1901 riuscì a dare la classificazione dei gruppi sanguigni e ad aprire la via per le trasfusioni che entrarono nella pratica nei decenni seguenti. L’arricchimento dei materiali e della tecnologia perfezionava il vecchio strumentario, con l’acciaio inossidabile, gli elettrocauteri, gli apparecchi di diatermia, i bisturi elettrici, i fili assorbibili per le suture profonde. Nello studio dello shock, si misero in evidenza i correlati endocrini e si giunse alla descrizione eziopatogenetica delle forme post-traumatiche, operatorie, postemorragiche. Si individuarono le possibilità di trattamenti efficaci, con l’uso dell’ossigeno e le trasfusioni di sangue e plasma, anche nella prevenzione durante le grandi operazioni. Si passò attraverso il periodo prevalentemente demolitivo, con larga applicazione di amputazioni, disarticolazioni, legature di arterie, ablazione di tumori voluminosi ed estesi. Nella traumatologia di area italiana, negli anni della prima guerra mondiale, si videro le geniali proposte delle amputazioni “cinematiche” di Giuliano Vanghetti (1861-1940). Nei primi decenni del Novecento maturarono le compiute espressioni della chirurgia addominale, dello stomaco, vie biliari, fegato, milza, pancreas. Si definirono indicazioni e tecniche degli interventi sulle ghiandole endocrine, sul rene e sulla prostata. Ci si avvicinò al cuore per correggerne i difetti congeniti. La chirurgia toracica, prima ostacolata da molte difficoltà tecniche, per le differenze pressorie nelle cavità, si affermò dopo il 1940, avviando l’asportazione delle parti danneggiate da tubercolosi o da tumori. La chirurgia del XX secolo ha annoverato, tra i suoi principali esponenti, anche numerosi italiani, autori di contributi non indifferenti. Il siciliano Gaetano Fichera (18801935) era clinico chirurgo a Pavia quando assunse, nel 1935, la direzione dell’Istituto dei tumori di Milano. Fu un intelletto votato alla ricerca, interessato ai temi della biologia come a quelli della chirurgia ed affascinato da quel campo di studi che permetteva l’elaborazione di ipotesi di ampio respiro, come interpretazione dei fatti fisiopatologici. Propose una teoria del disequilibrio oncogenico, che «riportando l’azione dello stimolo, qualunque esso sia, su un terreno costituzionalmente preparato o favorente, considera lo sviluppo del tumore come il prodotto della rottura delle interferenze fra sostanze inibitrici e sostanze eccitatrici delle proliferazioni cellulari». Un campo di meritato prestigio della chirurgia italiana, riconosciuto internazionalmente è quello dell’ortopedia. Tra i diversi centri della penisola emerge, per la sua importanza storica, l’Istituto Rizzoli di Bologna, tempio dell’opera ammaestratrice di Vittorio Putti (1880-1940), il chirurgo che «dal 1919 in poi era quasi conteso dalle maggiori istituzioni medico-chirurgiche statunitensi e ricevuto con onori solenni quali si convenivano alla sua persona e alla sua fama». Di lui, Paolucci ricordava: «Solo chi ha assistito ad alcune sedute operatorie, ove si affollavano chirurghi di tutte le parti del mondo, può dire cosa egli valesse nel campo tecnico». Nel periodo fra le due guerre, tra le scuole universitarie di chirurgia generale più ricche di prestigio si annoveravano quelle di Torino e di Roma. La prima era stata diretta dall’indiscussa autorità di Antonio Carle (1854-1927) e quindi dal suo allievo Mario Donati (1879-1946) che vi tornò nel 1928, dopo essere stato clinico chirurgo a Modena, sua città natale, e a Padova, dove era salito alla cattedra che era stata di Bassini. Donati sosteneva fermamente l’indirizzo biologico della chirurgia, che non poteva essere solo una tecnica, ma era prima di tutto clinica. Nel suo pensiero teso a concepire «la chirurgia dell’avvenire: non 20

distruggere, ricostruire, sostituire », si scorge il presentimento dello sviluppo imminente della chirurgia degli innesti, dei trapianti e delle protesi. Quando Donati passò a Milano, la cattedra torinese venne affidata a Ottorino Uffreduzzi (1881-1943), un altro eccellente allievo di Carle. Dalla stessa scuola veniva Gian Maria Fasiani (1887-1956), pioniere della affermazione vittoriosa della neurochirurgia italiana, che da Padova si trasferì a Milano, succedendo a Donati che nel 1938 era stato allontanato dall’insegnamento, vittima delle leggi razziali del regime. La scuola chirurgica romana, rinforzata dalla vigorosa e lunga presenza di Francesco Durante, fu diretta dal suo allievo Roberto Alessandri (1867-1948), maestro di Pietro Valdoni (1900-1976), che la resse a sua volta, dopo passaggi nelle sedi di Cagliari, Modena e Firenze.Altri chirurghi di primaria grandezza che hanno segnato notevoli acquisizioni nel progresso della tecnica chirurgica italiana sono stati Paride Stefanini (1904-1981), Giuseppe Salvatore Donati (1902-1982), Edmondo Malan (1910-1978), Luigi Torraca (1885-1962), Nicola Leotta (1878-1967), Bortolo Nigrisoli (1858-1948). Non possiamo ovviamente soffermarci sulle straordinarie trasformazioni dell’ultimo cinquantennio: le conquiste dei nuovi farmaci, primi fra tutti gli antibiotici, entrati nell’uso corrente alla fine della seconda guerra mondiale; gli strumenti che sopperiscono alle funzioni vitali respiratorie e circolatorie durante l’intervento; i progressi della diagnostica per immagini; l’evoluzione della stessa anestesia e le acquisizioni dell’immunologia; i trattamenti antishock; i centri di cura intensiva e di rianimazione per il trattamento di pazienti in coma o in condizioni gravi, attrezzati per l’osservazione continua e monitorata.Tutto ciò ha rinforzato la sicurezza del chirurgo alimentando nuove grandi speranze.Non sono mancate delusioni, in campi che non hanno corrisposto ai risultati che sembravano promettere, come la psicochirurgia, cui si era guardato con fiducia e che invece non ha dimostrato una praticabile efficacia. Ma il continuo arricchimento di risorse si è ripercosso felicemente nei vari settori di specializzazione della chirurgia del sistema nervoso, dei vasi, del cuore, del digerente. Il perfezionamento delle tecniche ha consentito di avviare il grande capitolo dei complessi interventi sostitutivi di organi guasti, culminati nel primo trapianto di cuore sull’uomo eseguito da Christian Barnard (1922-2001) il 3 dicembre 1967 all’ospedale Groote Shuur di Cape Town.La notizia di quell’operazione giunse con effetti straordinari all’opinione pubblica, muovendo profonde emozioni collettive, stimoli ad ulteriori ambiziose speranze. L’odierna intima compenetrazione tra medicina e chirurgia discende dall’unità di legge biologica, dall’unità di metodo e dal criterio di studio comune di fronte al problema diagnostico, al giudizio clinico e alle scelte di condotta terapeutica. L’organizzazione della medicina fa prospettare attualmente margini enormi di possibilità per aspirare ad una sempre più efficace lotta alle malattie, ad una vita più piacevole, in un ambiente più salubre. Si tratta di obiettivi che saranno raggiungibili con il ragionato uso delle nuove risorse delle scienze e della tecnologia. Dobbiamo però riconoscere che i dibattiti attuali della clinica e della ricerca si complicano e si allargano anche oltre il dominio della medicina, per entrare in aspetti che toccano profondamente la coscienza dell’uomo. La diversità di certi modi di vedere fa sentire oggi il desiderio di una unicità culturale nell’affrontare dubbi e meditazioni, ma ci accorgiamo che si colgono nel nostro tempo proprio le caratteristiche dei momenti di passaggio. Forse siamo veramente tra quelle generazioni che hanno il dovere di gettare le fondamenta del futuro, anche in medicina come in molti altri territori del vivere, ma non sanno ancora bene quale nuovo modello potranno usare. Le attuali frontiere della ricerca biologica riportano le responsabilità dei medici e degli scienziati al centro del dibattito per la coesistenza di valori ed interessi contrapposti, influenzanti la stessa società. Dalla sfida alla scienza, stimolata ad accelerare le sue conquiste, si è passati quasi sul versante opposto ad affrontare decisamente il tema dei “limiti” della ricerca. Diverse istanze vengono dal dominio delle problematiche sociali ed ecologiche ed irrompono con forza nella medicina, veicolate da potenti movimenti d’opinione. Negli ultimi anni del XX secolo si è discusso proprio di questo. La comunità scientifica che esplora la complessità dei processi biologici ha allargato al suo esterno il dibattito sulle possibilità di intervento che sembrano illimitate, sì da proporsi alla società anche con più forti accenti etici e deontolgici. Di fronte a certe posizioni ed alle tante perduranti incertezze, in ogni epoca, la medicina perfetta è stata e deve essere quella cauta e temperante non 21

solo nell’approccio al malato e alla malattia, ma anche nel dialogo con i più vasti campi della cultura umana. La storia ci aiuta ad esercitare una maggiore padronanza di metodo, favorisce l’utilizzo critico degli strumenti ed accompagna la fiducia nel percorso verso il futuro.

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Letture suggerite z

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AA.VV.: La storiografia medica in Italia tra 1800 e 1950: uomini e idee. Abbadia Pisani, 1985. Belloni L.: Per la storia della medicina. Forni, Sala Bolognese, 1980. Bellucci C.: Storia della anestesiologia. Piccin, Padova, 1982. Canguilhem G.: Il normale e il patologico. Einaudi,Torino, 1998. Castiglioni A.: Storia della medicina. Unitas, Milano, 1927. Grmek M.D.: La troisième révolution scientifique. Medicina & Storia, I, 1: 13-25, 2001. Meade R.H.: An introduction to the History of General Surgery. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1968. Pazzini A.: Storia della medicina. Società Editrice Libraria, Milano, 1947. Shryock R.H.: Storia della medicina nella società moderna. ISEDI, Milano, 1977. Valdoni P.: Chirurgia. Enciclopedia del Novecento, I, Roma, 1975, pp. 770-788. Zanobio B.: La chirurgia ha una sua storia. Notiziario chirurgico, 13: 2-5, 1993. Zanobio B., Armocida G.: Storia della medicina. Masson, Milano, 1997. Zimmerman L.M., Veith I.: Great ideas in the History of Surgery. The William & Wilkins Co., Baltimore, 1961.

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2 Diagnostica clinica e strumentale 2.1 L’anamnesi 2.2 2.3 2.4 2.5

Principi generali di semeiotica clinica Indaginiendoscopiche Diagnostica per immagini Applicazioni dell’ecografia in chirurgia

2.6 Medicina nucleare 2.7 Biopsie e prelievi citologici 2.8 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 2

Diagnostica clinica e strumentale R. Dionigi, C. Capella, M. Curzio, A. Goddi, S. Garancini, A. Ferrari con la collaborazione di L. Ceriani, L. Giovanella

L’anamnesi R. Dionigi Per anamnesi, termine di derivazione dalla lingua greca, in cui significa reminiscenza, s’intende la raccolta dalla viva voce del paziente o dai suoi familiari, di tutti quei dati e quelle notizie che ci devono aiutare a porre una diagnosi esatta. Fondamentale è la raccolta minuziosa e corretta dei dati anamnestici, poiché la loro integrazione con i sintomi ed i segni clinici, nonché con le ricerche strumentali e di laboratorio, consente il sospetto o, talora, il definitivo giudizio diagnostico. Per alcune affezioni di interesse chirurgico (molte delle lesioni dell’apparato digerente), l’anamnesi può essere ancor più significativa dei rilievi obiettivi, che possono dare un risultato del tutto negativo. Sapere raccogliere con metodo, precisione e completezza un’anamnesi significa aver maturato una lunga esperienza a diretto contatto con i pazienti. È assai probabile che le ultime generazioni di studenti in medicina incontrino maggiori difficoltà nell’espletamento di questo fondamentale atto dell’esame medico.Tale difficoltà è in relazione alla vasta diffusione negli ambienti clinici di insegnamento di cartelle cliniche predisposte alla computerizzazione dei dati. L’impostazione di queste cartelle è tale per cui lo studente compila le stesse ponendo al paziente un lungo elenco di domande, spesso esposte con monotonia e distacco, talora senza neppure guardare in viso il paziente, per completare questo suo “compito” in un tempo ancor più breve! Questo approccio è assai diseducativo e non contribuisce certamente alla corretta formazione di un giovane medico. La medicina moderna deve assolutamente avvalersi dell’utilizzazione dell’informatica, ma il trasferimento dei dati anamnestici in cartelle opportunamente predisposte deve avvenire solo dopo che la storia del paziente è stata raccolta secondo alcuni principi tradizionali dai quali non si può prescindere: ordine teorico d’indagine, sequenzialità cronologica, disponibilità, riserbo, chiarezza e semplicità nel porre le domande, pazienza e garbo. Se l’indagine anamnestica viene condotta seguendo questi principi, s’instaura immediatamente un rapporto fiduciario personalizzato che consente al paziente di valutare l’attitudine professionale del curante ed al medico di orientarsi in breve tempo verso un possibile giudizio diagnostico. Condurre l’anamnesi seguendo questi criteri non è semplice. Scrive N. Fiessinger: «Non si possono mai apprezzare l’esperienza clinica, il sapere, la penetrazione psicologica, l’autorità morale di un medico, meglio di quando lo si ascolta interrogare un ammalato». Si distinguono un’anamnesi familiare e una personale. La personale comprende l’anamnesi fisiologica e la patologica; quest’ultima si divide in patologica remota e prossima. z Anamnesi familiare: questa concerne tutte quelle notizie riguardanti i familiari,che si 25

riferiscono a condizioni patologiche di questi, che possano aver influito sulla malattia di cui il paziente è affetto, sia nel senso della trasmissione di caratteri o di affezioni ereditarie, sia nel senso di un possibile contagio nell’ambito della famiglia. Mentre nessun elemento preciso permette di affermare la trasmissibilità ereditaria ed ancor meno quella ambientale dei tumori maligni, molteplici dati epidemiologici indicano che essi talora si possono riscontrare in varie generazioni di una stessa famiglia con analoghi caratteri di sede e di età. z Anamnesi fisiologica: comprende la raccolta di tutti i dati che si riferiscono al paziente, dalla nascita sino al momento attuale, riguardanti il suo sviluppo somatico e psichico, le sue abitudini di vita, l’ambiente in cui è vissuto ed è inserito. Nelle donne si chiederanno ragguagli sulle caratteristiche della funzione mestruale, si indagherà sul numero delle gravidanze e sulla modalità dell’allattamento dei figli (vedi: carcinoma della mammella). Sempre bisognerà indagare sull’abuso di alcolici (vedi:pancreatiti,tumori del pancreas), di tabacco (vedi: tumori del polmone), se vi siano stati errori dietetici, sia in eccesso sia in difetto (vedi: tumori dell’apparato digerente). L’attività lavorativa del paziente può avere delle ripercussioni sulle sue condizioni di salute (vedi: tumori del polmone e della vescica). Lo stesso dicasi delle condizioni ambientali o la permanenza in determinate regioni geografiche (vedi:echinococcosi,gozzo e altre malattie a carattere endemico). Non si dimentichi infine di interrogare il paziente su alcune tra le sue funzioni fisiologiche fondamentali, quali alvo e minzione (le variazioni delle abitudini alvine possono essere il primo segno di un carcinoma del retto) e circa le eventuali intolleranze a trattamenti farmacologici. z Anamnesi patologica remota: si riferisce a tutte quelle notizie riguardanti le affezioni sofferte in passato dal paziente. Il passato patologico del paziente va raccolto con particolare cura, perché esso, più ancora del passato fisiologico, può avere influito ed è in certo qual modo presente nell’individualità attuale dell’organismo. Le malattie pregresse, i traumatismi, gli interventi subiti possono essere in rapporto diretto con il quadro nosologico attuale (si pensi ad una delle cause più frequenti di occlusione intestinale: aderenze da precedente intervento laparotomico). Questa fase dell’anamnesi deve essere opportunamente guidata dall’esaminatore, entrando anche nei dettagli.Non basta chiedere:«Non ha sofferto alcun’altra malattia prima della presente?» perché troppo spesso i pazienti rispondono: «Sono sempre stato bene».Per quanto riguarda gli interventi chirurgici pregressi è assai importante indagare sulla loro causa e modalità di esecuzione; se possibile è opportuno ricorrere alla lettura della descrizione dell’intervento chirurgico ed indagare sul decorso postoperatorio che, se caratterizzato dalla comparsa di complicanze, può dare ragione o talvolta spiegare la patologia in atto. z

Anamnesi patologica prossima: si riferisce alle notizie che riguardano direttamente l’affezione presentata attualmente dal paziente, anche se spesso questa non rappresenta altro che una evoluzione o una riacutizzazione di precedenti affezioni morbose.

È necessario indagare sulla modalità d’insorgenza dei disturbi in atto, sull’epoca esatta della loro comparsa (benché per alcune malattie ad inizio subdolo e ad andamento cronico il paziente non possa dare notizie precise), sull’eventuale presenza di disturbi premonitori. Se alla malattia si associa rialzo febbrile si cercherà di ricostruire il tipo di curva termica.Se è presente dolore si indagherà accuratamente sul tipo, localizzazione ed irradiazione di esso.Le cure praticate per la malattia attuale devono essere riferite con precisione. Infatti la conoscenza dei risultati di pregresse cure mediche e chirurgiche permette talora una diagnosi ex juvantibus, in altri casi permette di non insistere su indirizzi terapeutici dimostratisi inefficaci.

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Principi generali di semeiotica clinica R. Dionigi I sintomi soggettivi,“symptoms”degli anglosassoni, ed i segni obiettivi,“signs”, raccolti ed osservati dal medico con il solo impiego dei propri sensi, ovvero applicando i principi della semeiotica fisica, se sono giustamente valutati possono condurre ad un corretto orientamento diagnostico. La semeiotica radiologica, la semeiotica strumentale e le indagini di laboratorio verranno solo dopo che questo primo incontro con il paziente avrà permesso di precisarne le indicazioni specifiche. La visita del paziente è abitudine da cui non si può prescindere; alla semeiotica strumentale andrà affidato lo studio degli organi che per la loro sede sfuggono alla nostra possibilità di rilievo. L’osservazione di una lieve introflessione del capezzolo, la palpazione di una massa addominale, la percussione di un addome disteso da versamento o meteorismo, la dimostrazione della scomparsa dell’aia di ottusità epatica, la percezione di una tumefazione all’esplorazione rettale sono tutti momenti irrinunciabili dell’esame obiettivo, che già da soli consentono di porre un’ipotesi diagnostica.  Lo stato attuale del paziente è valutabile per mezzo dell’esame obiettivo generale e di quello locale della parte o delle parti ammalate.Vi è la tendenza da parte di molti chirurghi a far precedere l’esame locale all’esame obiettivo generale; questo atteggiamento è da ritenersi scorretto, poiché non permette la raccolta di numerosi elementi diagnostici importanti per precisare la natura della malattia chirurgica in atto e per fornire importanti dati prognostici sulla malattia stessa. Anche il chirurgo deve considerare il malato come una unità fisica e psichica inscindibile e non già una composizione di parti e di funzioni tra loro indipendenti. z Esame obiettivo generale. Esso deve prendere in considerazione i seguenti elementi: 1) stato psichico e sensoriale, 2) espressione del volto, 3) atteggiamento, deambulazione e decubito, 4) stato nutrizionale (vedi il capitolo 15, al paragrafo Valutazione dello stato nutrizionale), 5) stato della cute e delle mucose visibili, 6) stato del tessuto sottocutaneo, dei muscoli e dello scheletro, 7) condizioni delle linfoghiandole superficiali, 8) caratteristiche del polso e del respiro.

Sensorio: il paziente può presentare alcune modificazioni del suo stato psichico, che possono essere di tipo differente: modificazioni di tipo depressivo o di tipo irritativo. Di natura depressiva sono: la sonnolenza, il sopore, lo stupore (per esempio nel tifo), il coma. Sia la sonnolenza sia il sopore e lo stupore si hanno in genere per fenomeni tossici, legati spesso a malattie dismetaboliche o settiche. Il coma comporta perdita di coscienza a vari livelli e può essere conseguenza di gravi intossicazioni esogene (avvelenamenti) o endogene (diabete, insufficienza epatica o renale) o di gravi infezioni o di lesioni cerebrali di vario tipo. Le modificazioni del sensorio di tipo irritativo sono rappresentate dalle varie forme di delirio (delirio febbrile, delirium tremens degli alcolisti). Espressione del volto (facies): rispecchia lo stato psicofisico dell’individuo e risente degli effetti diretti ed indiretti del male. L’espressione del volto di una persona ben proporzionata, in buone condizioni di salute sia fisiche sia psichiche viene definita composita. Molteplici sono le espressioni caratteristiche del viso che interessano il chirurgo: z La facies ippocratica o abdominalis è spesso indicativa per la diagnosi di peritonite o di altre gravi affezioni addominali con compartecipazione peritoneale: guance pallide, incavate, occhi cerchiati e infossati, labbra e orecchie cianotiche, naso aguzzo e assai sporgente, sguardo opaco, lingua secca, impatinata e screpolata, labbra asciutte. z La facies dell’ipertiroideo (vedi: morbo di Flajani-Graves-Basedow) è tesa a causa di una perenne inquietudine motoria, la cute è sottile, ben irrorata, spesso madida o ricoperta da 27

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goccioline di sudore.Talvolta, oltre alla tensione, i lineamenti del basedowiano esprimono ansietà o allarme. Spesso coesiste lipodistrofia; i lineamenti diventano affilati con rughe profonde, il naso sporge in maniera accentuata. Esattamente l’opposto si osserva nel mixedema. I lineamenti sono cancellati e inespressivi. I movimenti mimici sono assenti, lo sguardo è vacuo, annebbiato. La regione palpebrale è edematosa, i lobi auricolari ispessiti, allungati e di consistenza gelatinosa. Il volto è pallido, la cute è spessa e secca. Tra le affezioni dell’asse ipofiso-surrenalico di interesse chirurgico, una facies caratteristica è osservabile nella sindrome di Cushing e nel morbo di Addison. La sindrome di Cushing è caratterizzata da viso a luna piena, aspetto florido e guance vermiglie. Il volto ha un’espressione bonaria, gioviale, infantile. Si ha spesso l’impressione che il paziente abbia un’età inferiore a quella reale. Le donne presentano ipertricosi al labbro superiore e al mento. Spesso è presente acne. Le labbra e le mucose visibili sono di color rosso scuro, data la concomitanza di poliglobulia e ipertensione. Il viso tipo Cushing ha inoltre notevole importanza quale segno precoce di un iperdosaggio nelle terapie con steroidei corticosurrenalici. Nel morbo di Addison spiccano la magrezza del viso e la pigmentazione bruna. I pazienti affetti da ulcera duodenale possono presentare la facies ulcerosa: espressione “tirata” del viso, per la presenza di due solchi simmetrici e profondi che fendono le guance tra gli zigomi e la mandibola.Tale segno, sebbene non sia costante ed esclusivo dell’ulcera duodenale e dell’ipercloridia, si trova con frequenza massima nei soggetti affetti da duodenite. Nella sindrome da carcinoide, oltre a lesioni valvolari del cuore destro, stati asmatiformi e diarrea, il sintomo patognomonico è l’intenso arrossamento parossistico del viso: flush. Si assiste ad un brusco imporporamento del viso cui si associa un’intensa sensazione di caldo.

Atteggiamento, deambulazione, decubito: l’atteggiamento si riferisce di solito alle persone in stazione eretta o seduta. Esso può a prima vista fornire un criterio sommario sui caratteri costituzionali e sulle condizioni fisiche in generale di un soggetto, oltre che sul suo stato psichico: diverso sarà per esempio l’atteggiamento vivace, di un uomo nel pieno delle sue energie e della sua virilità, altro sarà quello abulico di un individuo della stessa età ammalato da lungo tempo e precocemente invecchiato. La deambulazione può essere alterata per lesioni dei centri coordinatori o delle vie di trasmissione degli stimoli, oppure per lesioni dell’apparato locomotore di interesse chirurgico ortopedico. Tra queste, molte sono classiche e di facile riconoscimento, come l’andatura anserina per lussazione bilaterale dell’anca o l’andatura claudicante per lesioni di vario genere dell’arto inferiore. L’apparato locomotore può poi essere colpito indirettamente, quando la lesione principale è a carico per esempio dei vasi sanguigni: così succede nella claudicatio intermittens, caratterizzata da un improvviso zoppicamento che, preceduto da un acuto dolore all’arto, sopravviene per effetto di un deficit circolatorio secondario a spasmi arteriosi, processi endoarteritici cronici, arteriosclerosi.

Il decubito si riferisce all’ammalato che si trova a letto: si dice attivo quando nella posizione assunta dall’ammalato si ha l’intervento dei muscoli per mantenerla; passivo quando le varie parti del corpo si trovano in uno stato di rilasciamento o di abbandono in base alle leggi della gravità. Il decubito può inoltre essere definito indifferente, se esiste la possibilità di essere volontariamente cambiato, senza che una posizione sia preferita ad un’altra, o obbligato, se il soggetto mantiene sempre una posizione nella impossibilità di modificarla, perché in quella riesce ad attenuare i suoi disturbi. Il decubito attivo può essere supino, prono, laterale o seduto. È supino obbligato nella maggior parte delle affezioni acute addominali: peritonite, occlusioni, ernie strozzate. Il decubito prono si riscontra raramente ed è proprio in genere di ammalati in preda ad attacchi di coliche addominali che possono sentire un certo sollievo dalla pressione esercitata dalla parete addominale contro il materasso: questo atteggiamento permette già di escludere a priori la presenza di fenomeni infiammatori addominali, nel qual caso tale posizione accentuerebbe i dolori. Il decubito laterale si riscontra in genere in alcune affezioni del torace e degli organi in esso contenuti. Nelle fasi iniziali della pleurite acuta e della polmonite il paziente si adagia di solito sul lato sano perché 28

la compressione sul lato malato, avvicinando tra loro i due foglietti pleurici infiammati, riacutizzerebbe il dolore. La stessa cosa avviene per le fratture costali. Se invece è presente un cospicuo versamento pleurico o se la polmonite è alquanto estesa, il paziente preferisce giacere sul lato affetto, per favorire le escursioni respiratorie dell’emitorace indenne. Da menzionare ancora il decubito che assume il paziente affetto da pancreatite acuta; egli infatti trova un po’ di sollievo dalla posizione seduta a busto piegato in avanti.Talora nei pazienti affetti da appendicite acuta il decubito è supino con tronco leggermente rotato a destra e lieve flessione ed abduzione della coscia sul bacino.

Stato della cute e delle mucose visibili. Il colorito della cute varia in relazione al suo contenuto di sangue ed alla pigmentazione. Esso può essere: pallido, rosso, cianotico, itterico, terreo, bronzino. Il colorito pallido si ha in tutti gli stati di anemia o di ipertono arteriolare con insufficiente passaggio di sangue nei capillari cutanei; in entrambi i casi il pallore è particolarmente visibile alle mani ed al viso, soprattutto a livello delle mucose labiali e della congiuntiva. Il pallore può talora precedere ipotensione e tachicardia ed essere il primo segno di uno stato di shock. Il pallore può essere anche distrettuale, ovvero localizzato in un’area ben demarcata – area ischemica – non sufficientemente vascolarizzata. Questa evenienza è particolarmente frequente negli arti, quando vi siano ostruzioni arteriose di natura embolica, o trombotica (come nell’arteriosclerosi), o arteritica (come nella malattia di Bürger), o spastica (come nella malattia di Raynaud). Il colorito rosso acceso può aversi per aumento di globuli rossi e dell’emoglobina, situazione che si verifica nel morbo di Vaquez, o per vasodilatazione cutanea in relazione a particolari stati emotivi, ad affaticamento, a febbre, ad alcolismo; questi arrossamenti sono per lo più transitori, mentre hanno maggior durata gli arrossamenti che dipendono da alterazioni chimiche del sangue (intossicazione da monossido di carbonio). Il colorito cianotico, ovvero il colorito bluastro della cute e delle mucose, si ha in tutti i casi in cui è aumentato a livello dei capillari il contenuto di emoglobina ridotta o per difetto di ossigenazione del sangue o per commistione del sangue venoso con l’arterioso (come si verifica in alcuni vizi congeniti di cuore) (Tab. 2.1).

Di norma il sangue contiene 15 g% di emoglobina. Poiché 1 g di Hb si lega a 1,34 ml di O2, nel caso di una saturazione di O2 del 100% il sangue arterioso dovrebbe avere un tasso di O2 di 20 Vol. % (15 x 1,34). In condizioni normali il sangue arterioso, dopo aver circolato attraverso i polmoni, 29

ha un tasso di O2 di 19 Vol. %, il che corrisponde ad una saturazione di O2 del 95%. Il deficit arterioso di O2 di 1 Vol. % è spiegato dal decorso della curva di dissociazione di O2 della emoglobina. La cianosi si manifesta quando nel sangue capillare sono presenti almeno 5 g% di Hb ridotta, il che, considerando normale il tasso emoglobinico, corrisponde ad 1/3 di quest’ultimo e a un deficit di O2 di 6,7 Vol. % (5 x 1,34). La cianosi si manifesta nell’ipossiemia, ossia nella diminuzione della saturazione di O2 nel sangue arterioso (cianosi centrale), ovvero nell’aumentata cessione di O2 ai tessuti (cianosi periferica). Spesso compartecipano alla genesi della cianosi contemporaneamente fattori centrali e periferici. È da rilevare che per la genesi di una cianosi ha importanza solo la quantità assoluta di emoglobina ridotta e non il rapporto tra quest’ultima e la ossiemoglobina.Pertanto vengono spiegate ben note realtà cliniche: soggetti anemici, anche in shock, non sono cianotici malgrado la notevole ipossiemia (diminuzione della tensione di O2 nel sangue), mentre soggetti policitemici presentano cianosi se vi è una pur modesta ipossiemia. Per cianosi centrale si intende ipossiemia arteriosa; essa ha luogo in caso di diminuzione della tensione parziale di ossigeno nell’aria dell’ambiente (cianosi delle grandi altezze) e specie nelle alterazioni degli scambi gassosi polmonari (cianosi polmonare nell’insufficienza respiratoria). La cianosi periferica è solitamente determinata da un aumentato consumo di ossigeno alla periferia, che a sua volta è secondario a ischemia arteriosa o a stasi venosa. Nota è la cianosi a frigore che compare a temperature cutanee tra 15° e 25 °C; la disfunzione vasale consiste sia nella stasi da dilatazione capillare sia nell’ischemia da spasmo arteriolare. L’acrocianosi, frequente soprattutto nel sesso femminile, consiste in una colorazione bluastra della mani e talvolta degli avambracci, ove la cianosi può anche essere a chiazze (cutis marmorata) o a reticolo (livedo reticularis). La disfunzione vasale consiste in una stasi venosa periferica a carico specialmente nell’ansa venosa dei capillari cutanei. L’ittero è una colorazione giallastra della cute e delle mucose, in particolare a livello delle sclere, dovuta ad un accumulo di pigmenti biliari nei tessuti. A seconda della sua intensità il colorito dei pazienti itterici presenta alcune differenze di tonalità di giallo; si passa dal subittero (riconoscibile solo alle sclere ed ai lati del frenulo della lingua) all’ittero flavinico (color giallo chiaro, giallo oro, come si osserva nelle anemie emolitiche), all’ittero rubinico (cute tendente al rossiccio, quale si osserva in alcune forme di epatite acuta, da leptospirosi in particolare). Negli itteri meccanici o da stasi, che sono quelli di prevalente interesse chirurgico, l’ittero è in genere intenso e, perdurando le condizioni che abbiano provocato l’ostacolo al deflusso biliare, può raggiungere una tonalità scura, dapprima verdastra, ittero verdinico, poi brunastra, ittero melanico, per la trasformazione ossidativa della bilirubina con passaggio a biliverdina e bilicianina.  La colorazione giallastra della cute e delle mucose incomincia a manifestarsi quando la bilirubina totale supera la concentrazione di 1,5 mg % ml di siero (subittero) e diventa marcata per concentrazioni superiori a 5 mg (ittero franco). La diagnosi di subittero può talora essere impropria: per esempio, molte persone, soprattutto anziane, hanno in condizioni fisiologiche le sclere di colore giallo perché al di sotto della congiuntiva si deposita una certa quantità di grasso che ne comporta la modificazione del colore; in questo caso, però, il pigmento giallastro si localizza lateralmente e medialmente in prossimità delle commissure,mentre in presenza di ittero vero e proprio tale colorazione è diffusa a tutta la superficie bulbare. Un altro problema di diagnosi differenziale è quello legato al cosiddetto pseudo-ittero in cui un tenue colorito giallastro è presente a livello della cute, soprattutto alle palme delle mani, ma non a livello delle sclere che rimangono bianche. Questo pseudo-ittero non è dovuto ad aumento della bilirubina, ma ad altri pigmenti, soprattutto carotenoidi, che vengono assunti attraverso l’ingestione di alimenti di origine vegetale (specialmente arance) oppure che si accumulano in soggetti affetti da malattie, come il diabete e l’ipotiroidismo, dovuto probabilmente alla mancata metabolizzazione di precursori della vitamina 30

A. Il colorito terreo è caratteristico in genere dei malarici cronici ed è, quindi, oggi di rara osservazione. Il colorito bronzino è caratterizzato da una pigmentazione bruna diffusa della cute (melanodermia) con chiazze più accentuate alle mucose delle labbra e delle guance, delle grandi labbra ed alle areole mammarie. Intensa è la melanodermia della malattia di Addison (“morbo bronzino”). Nell’emocromatosi (“cirrosi pigmentaria” o “diabete bronzino”) la discromia cutanea è simile a quella dell’addisoniano per colore e distribuzione, ma ne differisce assai per la natura della pigmentazione. Questa di fatto è dovuta principalmente alla presenza di due pigmenti, l’emosiderina e l’emofucsina, pur non mancando la melanina. L’esame della cute non deve limitarsi all’osservazione del suo colorito,ma deve anche rilevarne le sue condizioni.L’umidità della cute è per lo più in relazione con la sudorazione; essa aumenta quando vi è iperidrosi (per effetto di farmaci o nelle crisi di defervescenza delle malattie febbrili). L’ipoidrosi accompagna in genere i periodi di aumento della temperatura. Di grandissimo interesse chirurgico è il fatto che sulle condizioni della cute ed ancor più su quelle delle mucose si ripercuotono le alterazioni del ricambio idrico. I malati gravemente debilitati, soprattutto da affezioni del tubo gastroenterico (con diarrea, vomito, peritonite), presentano spesso una grave alterazione del ricambio idrico rilevabile clinicamente dalla secchezza della lingua (questa non bagna, come normalmente, il dito che la tocca). Va sempre ricercata l’eventuale presenza di cicatrici da pregressi interventi chirurgici; l’aspetto della cicatrice operatoria può fornire utili indicazioni sul decorso postoperatorio del precedente intervento e può anche fornirci dati sulle modalità di guarigione delle ferite in quel determinato soggetto (cicatrici cheloidee). Stato del sottocutaneo. L’esame del sottocutaneo riguarda il suo sviluppo, la presenza eventuale in esso di trasudati (edema) o di infiltrazione di aria (enfisema sottocutaneo) o modificazioni eventuali del suo circolo vascolare. S’intende per edema la raccolta abnorme di liquido trasudato, quindi non flogistico, dalle pareti vasali nel connettivo interstiziale dei tessuti, ossia nella sezione extravasale dello spazio extracellulare. La raccolta del liquido interstiziale avviene logicamente in copia maggiore nei tessuti in cui più lasso e più abbondante è il connettivo e pertanto nel tessuto sottocutaneo. Affinché l’aumento dei liquidi interstiziali possa rendersi evidente all’esame obiettivo è necessario che tale raccolta sia discretamente elevata; pertanto un aumento di peso di diversi chilogrammi può precedere la manifestazione clinica dell’edema. L’ascite e l’idrotorace, ovvero la raccolta di quantità eccessiva di trasudato nelle cavità peritoneale e toracica, sono da considerarsi forme particolari di edema. L’anasarca è la situazione in cui l’edema si manifesta a carico del tessuto sottocutaneo di tutto il corpo.

Quando nel sottocutaneo si raggiungono le condizioni per cui l’edema si rende evidente (gli edemi inapparenti o presunti possono rendersi evidenti esclusivamente con periodiche misurazioni del peso), la regione in cui esso si presenta appare tumefatta, la cute sovrastante è tesa, lucente con scomparsa delle pieghe naturali. L’edema, che in stazione eretta predilige i piedi e le gambe (Tab. 2.2) si sposta, quando il paziente assume od è costretto a decubito orizzontale, verso il tronco (cosce, regione sacrale e lombare). Carattere importante per distinguere se un turgore dei tessuti sia dovuto ad edema o sia di altra origine, è quello di comprimere la cute con il polpastrello di un dito valutando se ne rimane impressa l’impronta (fovea, signe du godet, pitting). Nel mixedema la cute tumefatta non conserva l’impronta del dito. Esso colpisce di regola il viso e il dorso delle mani e dei piedi. Un edema pretibiale circoscritto si osserva talvolta nell’ipotiroidismo.

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Un carattere importante che può essere utile guida per definire la natura dell’edema è dato dal colorito della cute: esso è infatti fosco cianotico negli edemi da stasi, bianco in quelli nefritici, nefrosici e discrasici in genere, rosso in quelli infiammatori. La denominazione linfedema va riservata agli edemi riferibili ad un alterato drenaggio della linfa. Patogenesi dell’edema. Circa 1/3 dell’acqua corporea totale è localizzato nello spazio extracellulare; questo spazio costituisce un compartimento costituito a sua volta dal volume plasmatico (o spazio vascolare) e dallo spazio interstiziale. In condizioni di normalità il volume plasmatico rappresenta circa il 25% dello spazio extracellulare, mentre la rimanente parte è costituita da liquido interstiziale. La formazione dell’edema è in relazione ad un alterato scambio di liquidi tra queste due componenti del compartimento extracellulare (Fig. 2.1). Importanza fondamentale hanno in ciò i seguenti fattori (forze di Starling): z la differenza tra pressione endocapillare (elevata nella sezione arteriosa dei capillari, bassa in quella venosa) e contropressione del tessuto (pressione idrostatica); z la differenza tra pressione oncotica dei liquidi del sangue e dei liquidi interstiziali, che decorre parallelamente al tasso proteico di entrambi i liquidi (pressione oncotica); z la permeabilità della parete capillare; z il drenaggio della linfa. Normalmente l’equilibrio degli scambi si realizza a livello della branca arteriosa dei capillari,ove la pressione endocapillare supera quella dei tessuti e quindi si verifica il passaggio di acqua ed elettroliti nello spazio interstiziale, da cui ritornano in circolo,sia direttamente (all’altezza della branca venosa dei capillari), sia indirettamente attraverso il circolo linfatico. La formazione di edema si ha quando l’equilibrio degli scambi è alterato in misura tale che la 32

quantità dei liquidi migrati nell’interstizio supera quella dei liquidi riaffluiti in circolo. In relazione ai suaccennati meccanismi patogenetici, sono diversi i tipi di edema che possono verificarsi: z aumento della pressione idrostatica – stasi venosa nella tromboflebite, stasi da rallentamento del circolo per insufficienza cardiocircolatoria; z diminuzione della pressione oncotica – ipoalbuminemia da denutrizione, insufficienza epatica, nefrosi renale, alterazioni infiammatorie intestinali; z ostacolato drenaggio linfatico – linfadenopatie metastatiche, linfangite; z aumento della permeabilità delle pareti capillari – edema angioneurotico, edema infiammatorio. Nelle vie linfatiche avviene il trasporto di sostanze ad alto peso molecolare, specie protidi e lipidi. Se si verifica un accumulo di linfa nell’interstizio, può determinarsi una proliferazione connettivale particolarmente intensa che condiziona la formazione di linfangectasie. In tal modo si costituisce il linfedema: mentre la tumefazione nelle fasi iniziali è molle e agevolmente depressibile, e pertanto non differenziabile da un edema vero, con l’evolvere della situazione clinica essa diventa sempre più dura per cui, facendo sollevare le estremità affette, si ottiene solo una modesta riduzione della tumefazione. Inoltre la cute è ispessita a buccia d’arancia. Il linfedema è anche caratterizzato da una spiccata tendenza alla lenta e continua progressione, per cui si determinano alterazioni grottesche e deformanti denominate elefantiasi.

L’enfisema sottocutaneo è dato dall’infiltrazione di aria o di gas nel tessuto sottocutaneo. In corrispondenza di esso la cute è tumefatta, pastosa e presenta un aspetto che può simulare l’edema ma se ne distingue facilmente perché comprimendo la cute si ha una sensazione particolare di crepitio, paragonabile a quella che si ha schiacciando fra le dita un frammento di polmone aerato,o un batuffolo di cotone o una certa quantità di neve. La penetrazione di aria nel sottocutaneo può essere dovuta a passaggio di aria dai polmoni alla parete toracica per ferite, o per rottura di caverne superficiali in corrispondenza di zone con estese aderenze pleuriche, o per lesioni laringee e tracheali. Condizioni delle linfoghiandole superficiali: in condizioni di normalità le linfoghiandole superficiali sono difficilmente apprezzabili alla palpazione, poiché esse sono molli e situate in un cospicuo tessuto adiposo. Le stazioni linfoghiandolari sulle quali principalmente si deve rivolgere l’esame sono: le linfoghiandole del collo, dell’ascella, dell’epitroclea e dell’inguine. Le caratteristiche che devono essere rilevate, e che talora permettono di riconoscere l’eziologia e di precisare la diagnosi di adenopatia, sono: le dimensioni, la forma, la consistenza, la dolenzia, la spostabilità, i rapporti con la cute (Tab. 2.3).

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Ad una linfoghiandola convergono diversi vasi linfatici che drenano la linfa da una determinata regione. Le linfoghiandole superficiali rappresentano barriere di difesa nei confronti dell’aggressione dei microrganismi patogeni provenienti sia dall’esterno, sia da focolai settici all’interno dell’organismo. Esse inoltre possono essere sede di sviluppo di metastasi di tumori che si diffondono elettivamente per via linfatica.

Le tumefazioni linfoghiandolari possono essere distrettuali e circoscritte oppure generalizzate. Quelle circoscritte si hanno più comunemente per processi infiammatori acuti; in questi casi esse sono dolenti e la cute in corrispondenza di esse appare più o meno arrossata e calda. La loro consistenza è in genere elastica,mai dura. Nei casi in cui l’eziologia dell’infezione è da germi piogeni, la consistenza si fa sempre più molle per la colliquazione purulenta che avviene all’interno di esse, sino talora alla formazione di una soluzione di continuo della superficie cutanea che può dare esito a formazione di pus. Oltre che nei processi infiammatori acuti le linfoghiandole di un determinato distretto possono presentarsi tumefatte per affezioni croniche di natura infiammatoria o neoplastica (lue, Tbc, actinomicosi, cancro, morbo di Hodgkin). Le tumefazioni ghiandolari estese a tutte le stazioni possono aversi nei processi sistemici che interessino l’intero apparato linfoghiandolare (leucemia linfoide, linfogranuloma maligno, linfosarcomatosi, lue,AIDS). Caratteristiche del polso e del respiro: l’esame del polso radiale costituisce un elemento fondamentale dell’esame cli-nico del paziente, poiché fornisce elementi diagnostici e prognostici. Si usa esaminare l’arteria radiale subito al di sopra dell’articolazione del polso perché è l’unica arteria di un certo calibro che possegga il duplice requisito di essere, in tale regione, superficiale e di poggiare su un piano osseo contro il quale sia facilmente comprimibile. Il polso, che riflette le condizioni del circolo, va esaminato nel soggetto a riposo in decubito supino, nelle migliori condizioni di tranquillità psichica, perché è sufficiente a volte l’emozione provocata dalla presenza del medico per provocarne variazioni. Inoltre, almeno alla prima osservazione, il riscontro deve essere simmetrico per evitare di interpretare quale segno di alterata funzionalità cardiocircolatoria quanto può essere dovuto invece ad un’anomalia arteriosa. Il polso, per dirimere alcuni quesiti semeiologici più specifici, può essere in certi casi utilmente esaminato anche in altre sedi (arteria omerale, carotide, temporale, femorale, poplitea, tibiale anteriore, pedidia).

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In condizioni fisiologiche i movimenti respiratori si compiono in modo ritmico alla frequenza di 1626 al minuto con espansione simmetrica del torace. Il tipo di respiro nell’uomo adulto è quello costodiaframmatico, con prevalenza nell’uomo della respirazione addominale (prevalgono nei movimenti di espansione del torace il rientramento ed il sollevamento dell’addome); nella donna il tipo di respiro è prevalentemente costale (l’addome rimane quasi immobile mentre maggiore è l’espansibilità del torace). Il respiro costale obbligato si può avere nell’uomo e si può accentuare nella donna per effetto di un ostacolo meccanico (aumento della pressione endoaddominale per ascite, epatosplenomegalia, grandi tumori endoaddominali) o per effetto del dolore provocato dalla respirazione diaframmatica (pleurite diaframmatica, peritonite) o per effetto della paralisi del nervo frenico (frenicotomia). D’altra parte si può avere il respiro addominale obbligato nella donna per tumori del mediastino, pleurite saccata o in genere per lesioni nelle parti alte del polmone e della pleura, che ostacolano meccanicamente la respirazione e provocano dolore nella respirazione costale. La frequenza del respiro può essere alterata, la sua diminuzione è definita bradipnea, mentre un suo aumento costituisce la tachipnea. Si ha bradipnea in diverse affezioni che provochino aumento della pressione endocranica (emorragia, tumori, meningiti) o in alcuni avvelenamenti. Si ha tachipnea in tutti i casi in cui si renda necessaria una maggiore ventilazione polmonare per un’aumentata esigenza di scambi gassosi alveolari (stati febbrili, complicanze polmonari postoperatorie, polmoniti, embolie). Per dispnea si intende una respirazione faticosa, forzata, cui si associa sensazione di fame di aria e malessere. Pertanto il termine indica sia un sintomo obiettivo sia una sensazione soggettiva. Nella respirazione normale (eupnea) lo stato di eccitazione del centro respiratorio e il volume minuto respiratorio sono tra loro in equilibrio. La dispnea può essere causata sia da stimolazione del centro respiratorio (dispnea centrale) sia da ostacolo meccanico delle vie respiratorie. La dispnea centrale è solitamente causata da variazioni dei seguenti fattori: tensione di anidride carbonica nel sangue, concentrazione idrogenionica, tensione di ossigeno nel circolo arterioso, efficienza circolatoria dei centri respiratori, temperatura del sangue circolante, situazione psichica. 35

La dispnea periferica, o da ostacolo meccanico della ventilazione polmonare, può avere le seguenti cause: stenosi delle vie aeree (stenosi laringea e tracheale, asma bronchiale), indurimenti polmonari (infiltrati, tumori, stasi, edema, fibrosi e atelettasia), diminuita espansibilità polmonare (versamenti pleurici e pericardici, elevazione del diaframma, pneumotorace ed aderenze), paralisi ed atrofia dei muscoli respiratori (polinevrite, poliomielite, distrofia muscolare e miastenia) e rigidità toracica (cifoscoliosi, obesità). A seconda delle caratteristiche di presentazione si distingue una dispnea inspiratoria (inspirazione difficile, rumorosa e molto più lunga della norma) ed una dispnea espiratoria (espirazione notevolmente prolungata,difficoltosa,rumorosa, in cui si ha intervento attivo dei muscoli espiratori ausiliari). All’esame delle condizioni generali segue l’esame delle varie regioni del corpo, che va fatto metodicamente e dettagliatamente in tutte le sue parti (capo, collo, torace, addome, perineo ed arti), riservando alla regione ammalata un più attento esame finale. È fondamentale definire le regioni secondo i precisi criteri dell’anatomia topografica, così come importantissimo è esaminare il lato affetto facendo il paragone con il lato sano. È sempre assolutamente necessario procedere con opportuna discrezione alla progressiva ma completa scopertura del corpo del paziente, in modo che almeno la vista possa scrutare tutte le regioni del corpo. Solo così si potrà evitare che affezioni vistose o di facile diagnosi passino inosservate.

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Indagini endoscopiche M. Curzio I primi tentativi di osservare direttamente alcuni organi cavi attraverso sonde munite di sistemi ottici più o meno rudimentali risalgono ad oltre un secolo fa; tuttavia, solo alla fine degli anni Sessanta, le indagini endoscopiche rivoluzionavano l’approccio diagnostico al tratto gastroenterico, all’apparato escretore urinario e all’albero bronchiale, grazie alla disponibilità di apparecchi flessibili, forniti di estremità distali manovrabili dall’operatore e di canali attraverso i quali si potevano introdurre svariati accessori quali pinze bioptiche, cateteri di lavaggio, spazzolini per prelievi citologici, anse metalliche per elettrocoagulazione.  La grande flessibilità degli endoscopi è legata al fatto che essi sono prevalentemente costituiti da fasci di fibre di vetro (fibroscopi) capaci di illuminare un’immagine e di trasportarla inalterata da un’estremità all’altra, senza alcuna distorsione, a prescindere dalla lunghezza dell’apparecchio. Completano lo strumentario una sorgente luminosa, un piccolo compressore per insufflazione d’aria ed un apparecchio per aspirazione. È quindi possibile l’esplorazione delle vie digestive prossimali fino al duodeno distale e, con particolari apparecchi (enteroscopi), di gran parte del tenue. Per quanto riguarda il tratto gastroenterico inferiore, si riesce a visualizzare tutto il colon nonché, in mani esperte, l’ileo distale dopo il superamento della valvola ileo-cecale. Si è sviluppato celermente anche lo studio per via retrograda delle vie biliari e del sistema duttale pancreatico, grazie alla possibilità di visualizzare endoscopicamente la papilla di Vater, incannularla con un cateterino ed iniettarvi poi un mezzo di contrasto idrosolubile. Di interesse non inferiore è stato lo sviluppo di tecniche endoscopiche in diagnostica urologica (uretrocistoscopia) e broncopneumologica (broncoscopia). L’affinamento delle manovre endoscopiche e la creazione di strumentazioni accessorie sempre più svariate e complesse hanno fatto poi compiere un altro importante sviluppo all’endoscopia, che da puramente diagnostica si è trasformata in metodica anche operativa: è possibile eseguire, per esempio, asportazioni di polipi dal tubo digestivo, iniezioni di agenti sclerosanti nelle varici esofagee o legatura di queste con elastici, coagulazioni di lesioni sanguinanti, rimozioni di calcoli delle vie biliari, resezioni di neoplasie delle vie urinarie, applicazioni laser in caso di neoplasie ostruenti il lume di un viscere cavo, posizionamento di protesi, posizionamento di gastrostomia ecc. Più recentemente i progressi tecnici in campo elettronico hanno permesso la miniaturizzazione di sistemi video, le cui immagini, elaborate da un processore, possono essere visualizzate su monitor (videoendoscopia). I vantaggi in termini di definizione delle immagini, di registrazione o trasmissione a distanza delle stesse ed in termini didattici sono innegabili. Da ciò deriva il fatto che, nell’ultimo decennio, tale metodica ha pressoché soppiantato l’endoscopia a fibre ottiche. Sta infine apportando nuovi sviluppi in campo diagnostico una metodica nuova ed in rapida diffusione, l’ecoendoscopia, in cui l’endoscopio funge da veicolo per una sonda ultrasonografica che permette di studiare gli strati sottomucosi di un viscere cavo, nonché gli organi adiacenti. Un posto a sé stante tra le metodiche endoscopiche è occupato dalla laparoscopia, esame che permette la visione del cavo peritoneale e di ampie porzioni degli organi in esso contenuti; la laparoscopia può risultare di ausilio in diagnostica epatologica, oncologica e ginecologica, grazie anche alla possibilità di eseguire prelievi bioptici. Va altresì detto che tale metodica attualmente ha perso molte delle sue precedenti indicazioni in 37

campo diagnostico, con il diffondersi di tecniche meno invasive (ecografia, tomografia computerizzata, risonanza magnetica nucleare) acquistando sempre maggiore importanza come tecnica operatoria (chirurgia laparoscopica).

Endoscopia del tratto gastroenterico superiore L’esofago-gastro-duodenoscopia può essere praticata con strumenti a visione frontale, obliqua o laterale, così distinti a seconda dell’orientamento del campo visivo nei confronti dell’asse principale dello strumento. Dopo aver spiegato le caratteristiche dell’esame al paziente, ed averne ottenuto il consenso informato,si procede alla premedicazione con un anestetico topico nebulizzato in faringe o somministrato in soluzione viscosa, e poi all’infusione endovenosa di un ansiolitico fino ad ottenere un’adeguata sedazione. A questo punto, con il paziente in decubito laterale sinistro, si posizionerà l’estremità distale dello strumento in corrispondenza dello sfintere esofageo superiore e, invitando il paziente a deglutire, dopo una leggera spinta si comincerà a visualizzare l’esofago prossimale. La progressione dell’endoscopio, l’opportuna angolazione della sua estremità, l’insufflazione gassosa per distendere le pareti e l’aspirazione di liquidi di ristagno permetteranno una dettagliata visione dell’esofago, di tutto lo stomaco e, oltrepassato il piloro, del bulbo e della seconda porzione duodenale. Lo studio continuerà anche nella fase di ritiro e di risalita dello strumento. Si potranno fotografare alcuni aspetti di particolare interesse, eseguire biopsie o prelievi citologici da aree sospette; con i moderni videoendoscopi l’intero esame può essere registrato e archiviato. L’indicazione alla esecuzione di una esofago-gastro-duodenoscopia può talora provenire da un precedente esame radiologico anormale, ma è ormai accettato che quello endoscopico può essere il primo ed unico approccio diagnostico alle prime vie digestive (Tab. 2.5). È da sottolineare infatti la maggiore sensibilità dell’endoscopia nell’individuazione di lesioni di piccole dimensioni o superficiali.

 Esiste poi un insieme di situazioni in cui l’accertamento endoscopico si impone per la necessità di ottenere una diagnosi istologica: fra queste citiamo la diagnosi differenziale tra l’ulcera gastrica benigna e quella neoplastica o tra un’esofagite severa ed un carcinoma esofageo, il controllo nel tempo di lesioni precancerose,la diagnosi di malattia celiaca. L’indagine endoscopica è infine divenuta di uso routinario nella diagnosi e successivo controllo della malattia ulcerosa duodenale, nei casi di emorragia digestiva del tratto gastroenterico superiore e, occasionalmente, nella sorveglianza dello stomaco resecato (Figg. 2.2-2.5). 38

Se si eccettua la mancanza di collaborazione da parte del paziente, non esistono controindicazioni assolute all’esecuzione di una esofago-gastro-duodenoscopia; quelle relative sono rappresentate dalle lesioni esofagee da caustici in fase acuta, da un recente infarto miocardico, dal diverticolo di Zenker e da una marcata artrosi del rachide cervicale. In mani esperte l’esofago-gastroduodenoscopia è una procedura sicura, con scarsa frequenza di complicanze (0,13%) e bassissima mortalità (0,004%), imputabili soprattutto a reazioni di ipersensibilità alla premedicazione e a problemi cardiorespiratori; meno frequentemente ad emorragia o perforazione.

Enteroscopia L’enteroscopia è la metodica che consente di esplorare il piccolo intestino oltre il limite raggiungibile con l’esofagogastro-duodenoscopia. L’enteroscopio può essere spinto attivamente dall’operatore con possibilità di prese bioptiche o esame citologico (tecnica push). Il limite della tecnica in questione è costituito dal fatto che l’esame è limitato al digiuno ed al massimo alle prime anse ileali.

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L’enteroscopia “sonde-type” è la tecnica che consente la visualizzazione più completa del piccolo intestino; l’enteroscopio di calibro sottile viene inserito in cavità gastrica per via nasale e portato oltre il Treitz con l’ausilio di un endoscopio tradizionale; la progressione lungo il piccolo intestino è lasciata alla peristalsi e la visualizzazione della mucosa è possibile durante la fase di retrazione dello strumento. L’ileo terminale viene raggiunto nel 85% dei casi circa. L’esame ha un tempo di esecuzione lungo (6-18 ore) e necessita di controlli radiologici seriati per verificare la progressione. Questa metodica non permette di eseguire manovre operative. Le indicazioni all’enteroscopia sono: 40

sanguinamento gastroenterico di origine occulta; neoplasie del piccolo intestino; z enteropatia da FANS o chemioterapici; z sorveglianza delle precancerosi del piccolo intestino. I limiti delle due tecniche descritte possono essere superati dalla videoenteroscopia con capsula. Tale tecnica consiste nella registrazione e successiva elaborazione tramite computer di immagini raccolte da una microcamera (dimensioni 11 x 30 mm) ingerita per os. La microcamera trasmette circa due immagini al minuto che vengono registrate e successivamente visionate su schermo. L’indagine dura in media 4-6 ore con ottima tollerabilità da parte del paziente; il costo della microcamera, che è monouso, è di circa 500 €. z z

Colangio-pancreatografia retrograda endoscopica Questa tecnica prevede l’uso di un endoscopio a visione laterale che permette la localizzazione ottimale della papilla di Vater, il suo incannulamento con un cateterino, l’iniezione di un mezzo di contrasto e l’opacizzazione dell’albero biliare e del sistema duttale pancreatico (Fig. 2.6). L’esame viene eseguito su un letto radiologico; la collaborazione tra endoscopista e radiologo è strettamente necessaria. Le modalità di premedicazione ed esecuzione sono fondamentalmente le stesse dell’esofago-gastro-duodenoscopia così come l’acquisizione del consenso informato.

 La colangio-pancreatografia retrograda endoscopica (ERCP, dal termine inglese Endoscopic Retrograde Colangio Pancreatography) ha profondamente modificato l’approccio diagnostico e la terapia di svariate condizioni patologiche biliari e pancreatiche (Tab. 2.6). Permette innanzitutto una visualizzazione diretta della papilla di Vater, permettendo l’esecuzione di prelievi bioptici o citologici nel sospetto di una neoplasia; è di estrema utilità nei casi di ittero a genesi non chiarita da metodiche diagnostiche convenzionali e nei pazienti con colangiti recidivanti o con alterazioni della funzione epatica (Figg. 2.7-2.12).

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Lo studio pancreatografico trova indicazione nella diagnostica della patologia sia neoplastica sia flogistica del viscere. Grande sviluppo ha infine avuto anche la ERCP terapeutica, specie nei casi di calcoli ritenuti nella via biliare. Con un particolare tipo di catetere papillotomo si può infatti procedere alla sezione dell’apparato sfinteriale papillare e alla introduzione in coledoco di cateteri “a palloncino”o “a cestello”, che permettono di estrarre le formazioni calcolose. Lo stesso approccio può permettere di dilatare stenosi delle vie biliari, di posizionare protesi, di introdurre agenti chimici o meccanici in grado di frammentare concrezioni calcolose. Una metodica di recente introduzione è infine rappresentata dalla sfinterotomia selettiva del dotto di Wirsung preliminare alla frammentazione con onde d’urto (litotripsia “shock wave”) nei casi di calcolosi del sistema pancreatico. Le controindicazioni all’esame e le complicanze sono quelle dell’esofago-gastro-duodenoscopia ed in più colangiti o pan-creatiti, la cui frequenza è peraltro inferiore all’1% e la mortalità è intorno allo 0,2%. Nei casi in cui non sia tecnicamente possibile l’esecuzione dell’ERCP, si può ricorrere alla colangiografia percutanea transepatica (Fig. 2.6).

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Endoscopia del tratto gastroenterico inferiore La visualizzazione endoscopica del grosso intestino viene effettuata con apparecchi flessibili a visione frontale, con caratteristiche sovrapponibili a quelle degli strumenti usati per le vie digestive superiori, ma di lunghezza maggiore. L’esplorazione può essere limitata al retto o al sigma (rettosigmoidoscopia); se necessario un operatore esperto è quasi sempre in grado di studiare tutto il viscere fino al cieco (pancolonscopia) e di estendere l’osservazione all’ileo distale, previo superamento della valvola ileo-cecale. Al paziente può venire praticata una premedicazione con un analgesico od ansiolitico. La potenzialità diagnostica dell’esame è strettamente legata alla pulizia del viscere, che prevede una preparazione scrupolosa con lassativi e clisteri.  L’indicazione alla colonscopia (Tab. 2.7) proviene spesso dal riscontro, ad uno studio radiografico precedentemente effettuato, di un’alterazione che merita ulteriore definizione 43

macroscopica ed anche istologica, come la presenza di un polipo o di una stenosi di sospetta natura neoplastica. Un’altra frequente indicazione all’esame è costituita dalla rettorragia, di qualunque entità essa sia: è infatti imperativo, ogni qualvolta si verifichi un’emorragia digestiva, accertarne la causa con mezzi endoscopici (Figg. 2.13-2.16). L’esame colonscopico è infine indicato per diagnosticare e seguire nel tempo la patologia infiammatoria del grosso intestino (coliti idiopatiche, infettive, ischemiche ecc.) e per controllare a distanza di tempo (follow up) il colon operato per patologia neoplastica. Degne di rilievo sono poi le metodiche endoscopiche operative, come l’asportazione di polipi (che riveste un evidente significato preventivo nei confronti del carcinoma del colon); in alcune circostanze l’endoscopia operativa consente la diatermocoagulazione di malformazioni vascolari fonti di emorragie e la dilatazione di stenosi flogistiche o cicatriziali del viscere.

Le controindicazioni all’esame sono costituite dalla impossibilità alla preparazione del paziente, dall’infarto miocardico e dall’embolia polmonare recenti, dal sospetto di una peritonite o perforazione colica, dall’assoluta mancanza di collaborazione da parte del paziente. Le complicanze principali della colonscopia sono rappresentate dall’emorragia e dalla perforazione; la loro frequenza è generalmente bassa (0,5-1,3%) con mortalità dello 0,02% ed aumenta leggermente in caso di procedure operative quali la polipectomia (1-2%) con mortalità dello 0,3%.

Laparoscopia Questo esame consiste nell’esplorazione diretta della cavità peritoneale eseguita per mezzo di un sistema ottico introdotto attraverso una piccolissima incisione della parete addominale. Il paziente viene premedicato con un analgesico ed un sedativo ansiolitico; viene praticata un’anestesia locale della parete addominale; l’introduzione dello strumento è preceduta dalla esecuzione di un pneumoperitoneo, insufflando nella cavità peritoneale un gas (aria, protossido di azoto). La metodica presenta in mani esperte una morbilità ed una mortalità basse (valori rispettivi non superiori al 3% e allo 0,1%).  Lo strumento usato (laparoscopio) fornisce una visione assai nitida; è possibile osservare gran parte della superficie epatica, della milza, della colecisti, del diaframma e degli organi pelvici (Figg. 2.13-2.16); si possono anche visualizzare alcuni segmenti del piccolo intestino e del colon; la laparoscopia è infine l’indagine migliore per studiare la superficie peritoneale. 44

La metodica offre il vantaggio di poter eseguire prelievi bioptici da una lesione sotto visione diretta, controllando meccanicamente e con l’elettrocoagulazione un eventuale sanguinamento. Tra le indicazioni più frequenti all’esame laparoscopico vi sono: lo studio del peritoneo, la definizione macro e microscopica di una lesione epatica, la diagnosi differenziale in caso di ascite, la valutazione del grado di diffusione di una neoplasia (staging). L’esame è controindicato nei casi di gravi malattie cardiache, polmonari, o cerebrali, di voluminose ernie addominali e di severe alterazioni della coagulazione. Una controindicazione relativa è costituita dalla presenza di aderenze endoaddominali.

Endoscopia bronchiale È una metodica estremamente utile nello studio di molte affezioni broncopolmonari, grazie alla possibilità di visualizzare la trachea, i bronchi e le loro diramazioni.Viene largamente praticata per mezzo di strumenti a fibre ottiche, con le stesse caratteristiche degli endoscopi in uso per lo studio delle vie digestive; anche in questo caso è possibile, tramite un canale operativo incorporato nello strumento, l’introduzione di pinze per biopsie, spazzolini per prelievi citologici o cannule da aspirazione. Il paziente viene premedicato con un sedativo e sottoposto ad anestesia locale faringo-laringea prima e tracheo-bronchiale poi. La tecnica di esplorazione è semplice; con l’uso di strumenti a fibre ottiche di calibro ridotto si riesce ad esplorare l’albero bronchiale fino alle diramazioni periferiche.

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 L’esame è indicato in tutti i pazienti che presentino sintomi (per es. emottisi, tosse, dispnea) la cui causa potrebbe risiedere in patologie neoplastiche o flogistiche dell’apparato broncopolmonare, a completamento di altre indagini (specie radiologiche) risultate negative o comunque insufficienti ai fini di una corretta diagnosi.

Endoscopia urologica Le metodiche endoscopiche hanno importanti applicazioni in patologia urologica,sia a livello diagnostico sia terapeutico. Gli strumenti in uso non sono normalmente fibroscopi flessibili, ma 46

apparecchi metallici di tipo “rigido”, capaci di fornire un’ottima visione della vescica e dell’uretra. L’esame viene per lo più eseguito in anestesia locale; le indicazioni più frequenti sono costituite dall’approfondimento diagnostico di sintomi o reperti urinari poco chiari, dalla necessità di eseguire prelievi bioptici vescicali o uretrali, dal controllo dei pregressi interventi endoscopici. È proprio la chirurgia urologica endoscopica che ha ricevuto grande impulso per le notevoli possibilità che offre; fra gli interventi praticabili per via transuretrale ricordiamo la frammentazione di calcoli vescicali e ureterali, che può avvenire con l’uso di ultrasuoni veicolati in prossimità del calcolo con particolari sonde (litotripsia ad ultrasuoni) oppure con litotripsia balistica “meccanica”, la dilatazione dell’ostio uretrale (meatotomia), l’elettroresezione di neoplasie prostatiche o vescicali e l’estrazione di calcoli uretrali.

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Diagnostica per immagini A. Goddi Dalla scoperta dei raggi X sino ai primi anni Settanta la diagnosi per immagini è stata limitata alla radiodiagnostica, in prevalenza basata sull’interpretazione di radiogrammi di scheletro e torace oltre che su tecniche d’esame relativamente semplici per lo studio dell’apparato dirigente ed urinario. L’avvento di angiografia, ecografia (US), tomografia computerizzata (TC) e più recentemente risonanza magnetica (RMN), permettendo lo studio di organi prima inaccessibili con le comuni indagini radiologiche, ha profondamente modificato il ruolo della radiologia ed oggi le tecniche che gli anglosassoni definiscono di imaging vengono più adeguatamente indicate con il termine onnicomprensivo di “diagnostica per immagini”. Le nuove metodiche di imaging, grazie al legame con le tecnologie informatiche, sono in continua evoluzione e consentono progressivi miglioramenti dell’accuratezza diagnostica. La radiologia convenzionale, per quanto ridimensionata, mantiene un preciso ruolo tra le metodiche di imaging; la sua conoscenza è perciò ancora fondamentale.

Radiologia La radiologia sfrutta il contrasto naturale tra componenti ossee, tessuti molli e aria, contenuta nel polmone e nei visceri cavi, per ottenere informazioni in formato numerico (radiologia digitale) e le trasforma in un’immagine diagnostiche. I radiogrammi si ottengono utilizzando raggi X che, dopo aver attraversato il paziente, interagiscono con schermi fluorescenti in grado di impressionare una pellicola fotosensibile (radiologia non digitale). Lo sviluppo tecnologico si sta orientando verso apparecchiature digitali dotate di detettori fotosensibili o in alternativa verso l’uso di piastre detettrici da utilizzare con apparecchiature analogiche tradizionali allo scopo di sostituire l’usuale abbinamento “pellicola-schermo di rinforzo”; grazie a queste tecnologie un meccanismo di lettura laser estrae le informazioni in formato numerico (radiologia digitale) e le trasforma in un’immagine trasferibile su video o su pellicola. La tecnologia digitale, oltre ad eliminare errori di esposione, consente di variare la risoluzione di contrasto tra i vari tessuti e permette l’archiviazione delle immagini su supporto magnetico. La radiazione X, di tipo elettromagnetico, opera un trasferimento di energia, sotto forma di fotoni. Questi, oltre a determinare le interazioni tissutali alla base delle immagini radiografiche, causano dei fenomeni di ionizzazione che possono generare effetti biologici. I rischi di cancerogenesi o teratogenesi sono proporzionali al tempo di esposizione. Negli ultimi anni sono state introdotte diverse innovazioni per ridurre la dose di radiazioni al paziente. In alcune procedure, che richiedono una lunga esposizione alla radiazione X, si utilizza la fluoroscopia con raggi X a basso numero di fotoni. La qualità delle immagini fluoroscopiche, inferiore a quella radiografica, è comunque soddisfacente. Per visualizzare organi cavi, sistemi escretori di alcuni organi e il lume dei vasi, il contrasto naturale non è sufficiente; per necessità diagnostica alcuni esami richiedono pertanto l’uso di sostanze, mezzi di contrasto, atte ad aumentare le differenze di densità tra i tessuti. Il mezzo di contrasto più conosciuto, il solfato di bario, può essere somministrato per via orale e rettale durante lo studio del tratto gastroenterico. È una sostanza inerte e non provoca reazioni allergiche; va tuttavia evitato nel sospetto di perforazione gastrica o intestinale, di deiscenza di anastomosi chirurgiche o in presenza di fistole, potendo causare severe reazioni granulomatose se viene a contatto con le sierose peritoneali o degli organi toracici. In tali casi si ricorre ad un mezzo di contrasto idrosolubile che ha tuttavia minor opacità del solfato 48

di bario e non permette lo studio di superficie delle mucose. L’opacizzazione dei dotti escretori pancreatico e parotideo, delle vie biliari, di uretra e vescica, del sistema escretore renale, di cavità uterina e tube, del pene e di alcune cavità articolari può essere ottenuta mediante iniezione diretta di mezzo di contrasto idrosolubile, previo incanulamento o inserimento di un piccolo catetere nella rispettiva cavità;non vi sono mai rischi di reazioni allergiche né controindicazioni all’uso del mezzo di contrasto secondo tali modalità. I vasi venosi e arteriosi vengono visualizzati iniettando un mezzo di contrasto idrosolubile ipo/isosmolare, ad alta concentrazione di iodio, per via endovenosa o direttamente nel circolo arterioso attraverso piccoli cateteri intraluminali. Nell’1-3% dei casi questi farmaci, a contatto con l’endotelio, causano reazioni allergiche usualmente modeste (nausea, orticaria, prurito, crisi ipotensiva); lo 0,5-0,1% delle reazioni avverse sono gravi, anche mortali, e rendono necessario un tempestivo trattamento rianimatorio.Pazienti debilitati o non compensati e quelli con storia di allergie hanno un rischio maggiore di reazioni avverse. In assenza di test che possano prevedere la comparsa di reazioni indesiderate, va sempre valutata la necessità clinica di tali indagini radiologiche. I mezzi di contrasto intravasali hanno inoltre effetto nefrotossico nei soggetti con ipoperfusione renale di qualunque origine. Le controindicazioni assolute al loro impiego sono rappresentate dalla paraproteinemia di Waldenstrom,dal mieloma multiplo e da gravi stati di insufficienza epatica e renale. La loro somministrazione prevede pertanto l’obbligo medico-legale di accertamenti biochimici preliminari. È indispensabile informare il paziente sui rischi di indagini con mezzi di contrasto intravascolari.

Studio radiografico dello scheletro È un mezzo insostituibile ed economico per la valutazione delle lesioni traumatiche, della patologia degenerativa, infettiva e neoplastica dell’osso.

Studio radiografico del torace L’indagine radiografica standard del torace, di semplice esecuzione e di basso costo, è indicata nel sospetto o evidenza clinica di patologia toracica: rileva alterazioni parenchimali, interstiziali, pleuriche, dei linfatici, del circolo polmonare, del cuore e delle strutture ossee di sostegno. Qualora l’esame del torace nelle due proiezioni ortogonali non sia sufficiente per la valutazione di lesioni polmonari e degli ili, si ricorre alla TC che ha praticamente sostituito la tomografia tradizionale.

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Studio radiografico dell’addome senza mezzo di contrasto Consente di evidenziare calcoli radiopachi, anomalie nella distribuzione dell’aria nel tubo digerente, masse o raccolte ascessuali, ascite o versamento retroperitoneale, calcificazioni a livello di organi e dell’aorta. Quando eseguito in ortostatismo o in altre particolari proiezioni può dimostrare presenza di livelli idroaerei in anse intestinali, espressione di ileo meccanico o paralitico, o di aria libera intraperitoneale da perforazione di organo cavo.

Studio radiografico di esofago, stomaco e duodeno Eseguito con la tecnica del doppio contrasto, somministrando per os bario ad alta densità associato ad un agente produttore di gas, è indicato per la valutazione di pazienti con sintomatologia subacuta o cronica riferibile al tubo digerente. Permette di esaminare morfologia, distensibilità ed altre caratteristiche della mucosa del tratto gastrointestinale superiore e di rilevare anomale impronte estrinseche. Al contrario dell’endoscopia, è incapace di riconoscere sanguinamenti in atto e non consente prelievi bioptici; la presenza di bario residuo nell’intestino può inoltre interferire con altre successive procedure diagnostiche tipo urografia, US, angiografia e TC.

Studio radiografico del piccolo intestino Il metodo più efficace prevede somministrazione di bario, seguita da soluzione di metilcellulosa, attraverso sondino naso-gastrico (clisma del tenue). Permette una eccellente distensione ed evidenziazione della mucosa del piccolo intestino. È indicato nel malassorbimento, nel morbo di 50

Crohn e nelle subocclusioni di varia natura.

Studio radiografico del colon Il colon viene esaminato con clisma opaco mediante singolo o doppio contrasto baritato. L’esame con solo bario richiede poca collaborazione da parte del paziente; viene eseguito solo in alcune circostanze per valutare occlusioni, invaginazioni ed il volvolo. La tecnica al doppio contrasto, baritato e gassoso, permette lo studio della mucosa e il rilievo di piccoli polipi e ulcere aftoidi. Necessita di accurata preparazione intestinale e richiede la collaborazione del paziente. Il clisma opaco è controindicato nei pazienti con megacolon tossico, con enterocolite necrotizzante e con peritonite.  Gli esami radiologici del tratto gastrointestinale superiore e del colon si affiancano o si pongono in alternativa alle indagini endoscopiche.La scelta va eseguita a seconda delle problematiche e delle disponibilità di competenze nell’ambito della struttura ospedaliera.

Studio radiografico di colecisti e vie biliari La colecistografia è stata resa obsoleta dall’ecografia, che consente lo studio del contenuto e della parete colecistica con miglior accuratezza. Anche la colangiografia endovenosa e quella intraoperatoria sono ormai sostituite dall’ecografia, dalla colangiografia retrograda per via endoscopica e dalla coledocoscopia intraoperatoria.

Studio radiografico dell’apparato urinario L’urografia, eseguita dopo iniezione endovenosa di mezzo di contrasto, evidenzia parenchima renale, sistema escretore, vescica e, in fase minzionale, l’uretra posteriore maschile. Viene associata alla tomografia per una miglior valutazione dei profili renali e dei calici; è integrata dall’ecografia per lo studio della struttura renale, la caratterizzazione delle neoformazioni e la ricerca di calcoli. La pielografia ascendente eseguita previa introduzione cistoscopica di un catetere ureterale è indicata nello studio delle cavità escretrici quando non valutabili mediante urografia. Se non praticabile,è sostituita dalla pielografia percutanea. L’uretrocistografia retrograda consente il rilievo di stenosi e di lesioni traumatiche dell’uretra; l’esame della vescica (cistografia) è indicato per dimostrare eventuali reflussi vescico-ureterali o valutare l’integrità della parete vescicale.

Studio radiografico della mammella La mammografia è utilizzata per lo screening del cancro mammario sia come tecnica di indagine isolata (sensibilità 80-85%) sia in associazione all’esame clinico (sensibilità 95%). Evidenzia lesioni tumorali di pochi millimetri. Il rilievo di noduli o microcalcificazioni, espressione di un possibile focolaio di cellule neoplastiche, non è sempre specifico; la metodica viene perciò integrata dall’ecografia e dall’agobiopsia con ago sottile. Nel sospetto clinico di papilloma intraduttale viene eseguita la duttografia o galattografia iniettando mezzo di contrasto nel dotto galattoforo in causa ed effettuando nel contempo un radiogramma mirato per visualizzare l’eventuale difetto di riempimento.

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Studio radiografico del midollo e delle radici spinali La mielografia, eseguita iniettando mezzo di contrasto per puntura diretta nel canale spinale, è sostituita dalla RMN. Quando la RMN non è disponibile, viene utilizzata per studiare l’estensione e la localizzazione di alterazioni tumorali o degenerative non chiarite dalla TC.

Angiografia L’angiografia rende possibile la visualizzazione del lume delle arterie previo posizionamento di un catetere endoluminale di piccolo diametro (< 2-2,5 mm) e successiva iniezione di mezzo di contrasto idrosolubile. I cateteri, introdotti per via femorale o ascellare secondo la tecnica di Seldinger, vengono indirizzati nel lume vasale sotto guida fluoroscopica, mediante speciali guide metalliche o in materiale plastico radiopaco; possono poi essere manipolati in modo selettivo nei rami efferenti l’aorta, sino alle ramificazioni subsegmentarie. L’angiografia è utilizzata per esaminare l’aorta, i vasi sovraortici, i vasi splancnici e renali, le arterie degli arti ed il circolo endocranico. Può essere studiata la vascolarizzazione arteriosa, capillare e venosa dei principali organi parenchimali. Il circolo venoso degli arti ed i grossi vasi venosi toraco-addominali sono studiabili rispettivamente per puntura diretta o mediante cateterismo (flebografia). Ogni procedura angiografica presenta dei possibili, anche se non frequenti rischi: allergia al mezzo di contrasto,emorragia in sede di puntura, trombosi del vaso cateterizzato e raramente sepsi; va pertanto eseguita dopo metodiche meno invasive. L’abbinamento del computer alla metodica angiografica ha consentito di sostituire l’angiografia convenzionale con quella digitale a sottrazione di immagine. L’angiografia digitale visualizza i vasi in modo ottimale utilizzando ridotte quantità di mezzo di contrasto grazie alla tecnica di cancellazione elettronica dei tessuti perivasali. Nuove metodologie di acquisizione ed elaborazione delle immagini, possibili con apparecchiature di ultima generazione, consentono anche la ricostruzione tridimensionale delle strutture vascolari.

Radiologia interventistica Quale evoluzione delle tecniche angiografiche si è sviluppata la cosiddetta radiologia interventistica che attualmente comprende un insieme di procedure diagnostiche e terapeutiche di tipo invasivo, eseguite sotto controllo fluoroscopico radiologico, ecografico, TC o RMN, in grado di porsi come valida alternativa alla chirurgia. Le procedure diagnostiche, prevalentemente di tipo bioptico, vengono effettuate con guida ecografica o TC, utilizzando aghi sottili con diametro di 22-18 G. La tecnica, a basso rischio di complicanze, consente l’esecuzione di esami citologici, microistologici o istologici su noduli rilevati in organi superficiali o profondi grazie alle stesse metodiche di imaging. Le procedure terapeutiche vascolari vengono eseguite nei casi di stenosi arteriose, aneurismi fusiformi e sacciformi; a seconda dei casi si utilizzano particolari cateteri intravascolari con estremità a palloncino, endoprotesi autoespansibili e spirali metalliche, che vengono posizionati sotto guida fluoroscopica sino a livello delle alterazioni patologiche. Attraverso un catetere introdotto generalmente per via femorale possono essere infusi farmaci fibrinolitici nelle arterie con occlusione tromboembolica oppure venir iniettati agenti embolizzanti nei vasi sede di emorragia con trattabile chirurgicamente. US,TC o fluoroscopia Rx, spesso in combinazione, consentono il trattamento derivativo percutaneo 52

di raccolte sierose, emorragiche o purulente, di formazioni cistiche intraddominali, dei reni idronefrotici, delle vie biliari ostruite. È inoltre possibile il trattamento terapeutico contestuale di alcune delle patologie sopracitate, quale per esempio, il posizionamento di endoprotesi nelle stenosi neoplastiche o infiammatorie biliari e ureterali.

In casi selezionati assumono particolare rilievo le tecniche ecoguidate di trattamento percutaneo delle neoplasie epatiche. Dopo una prima fase in cui era stata utilizzata l’iniezione intralesionale di alcool 95-99%, attualmente si è passati alla termoablazione con “aghi antenna” che, emettendo onde radio di particolare frequenza, operano un trasferimento di energia termica e determinano la necrosi coagulativa o apoptosica delle alterazioni neoplastiche primitive o secondarie. Recenti procedure neuroradiologiche a livello vertebrale, quali la discectomia e la vertebroplastica percutanea, consentono un trattamento alternativo rispettivamente della patologia discale e dei crolli vertebrali da osteoporosi. Le procedure radiologiche interventistiche sono in continua espansione ed evoluzione sia per quanto riguarda il tipo di materiali utilizzabili sia per le possibili future applicazioni.

Tomografia computerizzata La tomografia computerizzata (TC) utilizza i raggi X per ottenere immagini di sezioni del corpo con risoluzione di contrasto superiore a quella della radiologia convenzionale. Questo risultato si ottiene facendo ruotare intorno al paziente, per 360°, un tubo radiogeno che emette un fascio di fotoni collimato lungo l’asse z (asse cranio-caudale del paziente); detettori fotosensibili contrapposti al tubo radiogeno, dopo aver ricevuto i fotoni parzialmente attenuati dalle interazioni con il paziente, trasmettono le informazioni ad un computer che ricostruisce l’immagine della corrispondente sezione del corpo utilizzando particolari algoritmi matematici. Il successivo 53

spostamento del lettino sul quale è disteso il paziente consente di esaminare sezioni corporee adiacenti. Lo spessore delle sezioni in esame può variare da 0,5 a 10 mm. I dati ottenuti, che rappresentano i coefficienti di attenuazione caratteristici dei tessuti in esame, sono codificati secondo una scala di numeri arbitrari da –1000 (aria) a +1000 (osso); lo zero rappresenta il coefficiente di attenuazione dell’acqua. L’immagine TC è espressa in scala dei grigi assegnando al nero il numero più basso e al bianco il numero più alto. Le informazioni, in formato digitale, possono essere manipolate per ottimizzare le differenze di contrasto tra i tessuti. Quale evoluzione delle prime apparecchiature che effettuavano unicamente scansioni assiali trasverse sequenziali, sono state sviluppate le più recenti apparecchiature chiamate “TC spirale”o “volumetrica”. Esse consentono l’acquisizione di un intero volume corporeo durante una singola emissione di raggi X, grazie alla rotazione continua del sistema tubo radiogeno-detettori sincronizzata con lo spostamento longitudinale del paziente. La TC spirale genera sezioni del corpo perfettamente contigue e allineate; l’insieme dei dati acquisiti, sebbene volutamente scomposto in sezioni per permettere l’analisi dei contenuti, racchiude in sé un modello volumetrico che può essere elaborato elettronicamente. Ciò consente la visualizzazione selettiva di determinate parti del corpo e la ricostruzione di sezioni secondo piani diversi da quello originale. Le apparecchiature di ultima generazione permettono la riformattazione in tempo reale del volume sui tre piani ortogonali o su piani obliqui consentendo una rapida valutazione delle problematiche diagnostiche e cliniche del paziente. I dati volumetrici ottenuti con la TC spirale aprono la strada alla ricostruzione tridimensionale (3D) delle strutture corporee, utile per la valutazione dei rapporti topografici degli organi, nella stadiazione locale o nella pianificazione preoperatoria delle neoplasie e nel bilancio delle fratture ossee complesse. Un ulteriore recente sviluppo dell’imaging 3D è costituito dall’endoscopia virtuale utilizzabile nello studio degli organi cavi dove fornisce immagini che ricordano quelle endoscopiche convenzionali. Diversamente dalle ricostruzioni 3D, le immagini create con l’endoscopia virtuale sono dotate di prospettiva; con opportune tecniche di animazione la cavità del viscere in esame viene rappresentata come se fosse osservata dall’interno in navigazione virtuale. L’endoscopia virtuale potrà costituire un approccio diagnostico preliminare, se non alternativo, specie nei pazienti con controindicazioni all’endoscopia convenzionale determinate da particolari condizioni cliniche. Questa procedura si svolge infatti senza alcun disagio per il paziente in quanto viene effettuata unicamente su dati numerici memorizzati dal computer. Le maggiori applicazioni di questa nuova metodica, attualmente in fase di avanzata validazione clinica, sono gli organi cavi a contenuto gassoso (orecchio interno, seni paranasali, tratto tracheo-bronchiale, colon) e le cavità o i vasi opacizzabili con mezzo di contrasto (vescica, aorta, carotidi e soprattutto coronarie). Un impulso alla diffusione dell’imaging diagnostico 3D deriverà dal recente avvento delle apparecchiature TC spirale subsecond e subsecond/multislice: le prime sono in grado di effettuare scansioni in tempi ridotti (sino a 500 ms/scansioni = 2 scansioni/sec); le seconde, dotate di multiple corone di detettori o di detettori a matrice, possono acquisire più sezioni del corpo durante una singola rotazione del complesso tubo radiogeno-detettori (attualmente da 2 a 8 scansioni/ sec, ma tra non molto sino a 1632 scansioni/sec). Questa nuova generazione di apparecchiature riduce notevolmente il tempo d’esame a tutto vantaggio della dose radiante per il paziente e della qualità delle immagini; la TC spirale multislice offre inoltre elevata risoluzione spaziale lungo l’asse z, permettendo elaborazioni del set di dati (ricostruzioni 3D, riformattazioni ecc.) di qualità eccellente. Con le nuove tecnologie sono molto ridotti gli artefatti da movimento del paziente o degli organi, mentre permangono gli artefatti determinati da oggetti metallici (clips, protesi, corpi estranei) e dal bario denso.  La TC può essere eseguita prima e dopo somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto per migliorare la visualizzazione delle strutture vascolari e delle neoformazioni di densità analoga al tessuto circostante, ma in particolare per valutare il tipo di vascolarizzazione delle lesioni.

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La TC del cranio, indagine neuroradiologica fondamentale, è indicata nei pazienti con sintomi neurologici correlabili a malattia intracranica, di origine traumatica e non, nella stadiazione delle neoplasie, per seguire il decorso di infarti, ascessi e nello studio dei nervi cranici. La colonna vertebrale è esaminata nelle radicolopatie e nelle fratture complicate. Nelle mielopatie la TC ha uso limitato ed è superata dalla RMN. A livello toracico è la modalità diagnostica più sensibile e specifica per l’esame di polmone, ili, pleura, mediastino e tratto tracheo-bronchiale prossimale (Figg. 2.17, 2.18). Le indicazioni per lo studio dell’addome sono analoghe a quelle dell’ecografia, sebbene i pazienti obesi e meteorici siano tecnicamente meglio studiabili con la TC. Il limite della metodica è dato dalla impossibilità di eseguire scansioni multiplanari in tempo reale come permette l’ecografia; il vantag-gio è dato invece dalla più facile riproducibilità e minor dipendenza dalla competenza dell’operatore rispetto all’ecografia.

Ultrasuoni Il ruolo degli ultrasuoni (US) nella diagnostica per immagini degli organi addominali e superficiali ed in quella vascolare è ormai indiscusso ed in continua espansione. Le due metodiche di indagine sono l’ecografia e il Doppler; si basano sulla capacità degli US di interagire con le interfacce biologiche fisse (tessuti) e in movimento (sangue) generando echi con caratteristiche fisiche diverse.

Ecografia L’ecografia fornisce immagini corrispondenti a sezioni degli organi (2D-US) (Fig. 2.19). L’esame volumetrico degli organi avviene con il semplice spostamento di una sonda esplorante sulla superficie cutanea.  Gli US, onde meccaniche di alta frequenza (> 20 kHz) non udibili dall’orecchio umano, si propagano a velocità costante, simile a quella nell’acqua, nei tessuti molli del corpo umano. Sfruttando questa proprietà è stato possibile utilizzare gli ultrasuoni in campo medico. Vengono usate frequenze comprese tra 2,5 e 15 MHz, con impulsi brevi, di bassa potenza unitaria, pertanto senza effetti nocivi.

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Le onde US generate da un trasduttore, composto da decine o centinaia di elementi gestiti da un computer, vengono dirette nel corpo dove incontrano innumerevoli barriere tissutali ognuna della quali riflette parte del segnale US (echi). Gli echi, una volta tornati al trasduttore vengono analizzati da microprocessori paralleli che valutano l’ampiezza del segnale ricevuto stabilendo le caratteristiche dell’interfaccia biologica. Il risultato di tali elaborazioni, aggiornato diverse volte ogni secondo, viene trasformato in immagini sequenziali interpretabili ai fini diagnostici. Grazie ad un recente processo tecnologico è ora possibile valutare anche la seconda grandezza fisica contenuta nel segnale eco: la fase. Questo permette di ottenere immagini più dettagliate ed aderenti alla realtà anatomica dei tessuti esaminati.

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La caratteristica dei tessuti condizionante le interazioni degli US è l’impedenza acustica (Tab.2.10);la sua continua variazione a livello delle interfacce biologiche genera le riflessioni degli US permettendo la visualizzazione della struttura interna (ecostruttura) degli organi. Quando la differenza di impedenza acustica tra due mezzi (per es.tessuti molli-aria) è troppo alta, la maggior parte del suono viene riflessa impedendo la trasmissione in profondità.Ciò spiega il problema rappresentato dal meteorismo intestinale per la visualizzazione degli organi parenchimali addominali e del retroperitoneo. Le interazioni degli US con i tessuti attenuano l’intensità del suono in modo proporzionale alla profondità del campo esaminato, creando problemi di esplorazione nei pazienti di maggiori dimensioni. Per ridurre il fenomeno si possono utilizzare trasduttori di bassa frequenza,a scapito tuttavia del potere di risoluzione e della qualità diagnostica dell’immagine.Le immagini ecografiche sono monocromatiche, generalmente in bianco e nero. L’intensità degli echi, proporzionale alle variazioni di densità dei riflettori,è espressa in scala dei grigi.  Le applicazioni dell’ecografia sono molteplici, spaziando dallo studio del volume, della forma e della struttura degli organi addominali (fegato, colecisti, pancreas, milza, reni, vescica, prostata, utero, ovaie, linfonodi, in particolari casi parete gastro-intestinale) e degli organi superficiali (encefalo neonatale per via transfontanellare, ghiandole salivari, tiroide, paratiroidi, mammelle, testicoli, pene, muscoli, tendini) a quello dei vasi e del cuore. È utilizzata per il monitoraggio della gravidanza e lo studio delle componenti osteo-cartilaginee dell’anca del neonato.

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Permette, oltre all’esame percutaneo, anche quello a diretto contatto degli organi, in fase intraoperatoria o con sonde endocavitarie (transesofagee, transrettali, transvaginali, endoarteriose). Consente inoltre di guidare in tempo reale l’introduzione di strumenti (aghi o cateteri) per procedure diagnostiche (per esempio biopsie) o terapeutiche (per esempio drenaggio di ascessi, nefrostomie percutanee). Le particolarità della metodica sono: innocuità, esplorabilità di ogni distretto, facile ripetibilità, basso costo e visualizzazione degli organi in tempo reale secondo molteplici piani di scansione. Il limite maggiore dell’ecografia è la sua dipendenza da capacità ed esperienza dell’operatore (Tab. 2.11). È in fase di sviluppo l’ecografia tridimensionale (3D-US): speciali trasduttori permettono l’acquisizione manuale o automatica di un limitato volume corporeo e la successiva analisi multiplanare, secondo piani di scansione non ottenibili con la tecnica bidimensionale.

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La 3D-US trova applicazione in particolare nella diagnosi delle malformazioni fetali complesse; potrà essere utilizzata in futuro anche nella valutazione topografica delle masse tumorali e nell’esame del distretto cardiovascolare. Allo stato attuale della tecnologia tale modalità non è ancora considerata matura; bisognerà attendere una generazione di apparecchiature più sofisticate prima di disporre di immagini 3D di qualità sovrapponibile a quelle attualmente offerte dall’ecografia 2D. Ancora più lontano sembra l’obiettivo di disporre di immagini ecografiche 3D di elevata qualità in tempo reale (4D-US). Ha invece assunto un ruolo insostituibile una recente evoluzione tecnica dell’ecografia 2D chiamata imaging armonico. Questa innovazione si basa sul principio fisico secondo il quale le interazioni tra US e tessuti generano contemporaneamente echi di alta intensità con frequenza analoga a quella fondamentale emessa dal trasduttore ed echi di bassa intensità con frequenza doppia o comunque multipla rispetto a quella trasmessa; quest’ultimo tipo di echi riflessi dal bersaglio costituisce le “armoniche” della frequenza fondamentale. Le più recenti apparecchiature offrono la possibilità di ricevere ed amplificare la seconda armonica generata dai tessuti riducendo l’apporto degli echi di frequenza fondamentale nella costruzione dell’immagine. Questa opportunità ha consentito un significativo miglioramento di qualità delle immagini ecografiche in campo internistico, eliminando i disturbi creati dalla parete addominale e gli artefatti legati ai cosiddetti lobi laterali del fascio US, più evidenti nei pazienti obesi o con 60

cicatrici chirurgiche. Lo sviluppo dell’imaging armonico tissutale oltre a costruire un indubbio progresso nell’ecografia 2D rappresenta un pilastro fondamentale per le applicazioni con i mezzi di contrasto ecografici. I mezzi di contrasto per ecografia, sostanze in grado di riflettere l’energia trasmessa dagli ultrasuoni in modo superiore rispetto ai tessuti corporei, sono a base di microbolle gassose (1-8 micron) rivestite da sostanze stabilizzanti e veicolate in soluzione fisiologica; iniettate per via venosa, superano il filtro della circolazione polmonare rimanendo nel sistema vascolare sino a quando vengono eliminate per via polmonare a seguito della rottura spontanea o provocata dalle onde US. Le microbolle non penetrano a livello cellulare o reticoloendoteliale, pertanto consentono la visualizzazione dei vasi, in particolare del microcircolo parenchimale e delle alterazioni tumorali benigne e non. Allo stato attuale esistono due tipi di microbolle: le microbolle di prima generazione sono costituite da aria e stabilizzate con acido palmitico o albumine; quelle di II generazione sono costituite da gas e stabilizzate con fosfolipidi o altre sostanze organiche. Entrambe sono considerate innocue, non generano effetti collaterali; non necessitano pertanto di esami ematici preliminari. Le microbolle di prima generazione emettono echi di frequenza armonica quando si rompono in consenguenza della pressione acustica utilizzata durante la costruzione di un’immagine ecografica convenzionale. Vengono utilizzate per migliorare la visualizzazione del flusso in vasi esplorabili con difficoltà, quali per esempio l’arteria femorale superficiale nel canale di Hunter o il poligono di Willis per via transcranica; possono essere utilizzate a livello epatico per facilitare il riconoscimento di alterazioni focali. La metodologia seguita per insonarle ne determina la rottura totale nell’arco di pochissimi minuti; questa particolarità, associata all’elevato costo, ne hanno limitato la diffusione. Le microbolle di seconda generazione hanno la caratteristica di entrare in risonanza, modificando il proprio volume senza rompersi, quando vengono insonate con impulsi a bassa pressione acustica;grazie a questa proprietà emettono segnali eco di frequenza armonica rispetto a quella insonante e rimangono in circolo per diversi minuti prima di rompersi spontaneamente o in conseguenza di un aumento della pressione acustica; ciò consente una rappresentazione dinamica prolungata della vascolarizzazione tissutale, con possibilità di visualizzare le tre fasi emodinamiche: arteriosa, venosa e di equilibrio, in modo analogo a quanto viene usualmente effettuato con i mezzi di contrasto per TC e RMN. L’immagine ecografica generata con impulsi US a bassa pressione è basata sui soli echi emessi dalle microbolle e non su quelli originati dal parenchima, che in tali condizioni risultano di intensità troppo bassa per essere ricevuti dal trasduttore ecografico. Ne consegue che l’immagine ecografica generata è unicamente espressione del microcircolo e non della componente cellulare come si verifica nell’ecografia senza mezzo di contrasto. I mezzi di contrasto di II generazione, di recentissima introduzione, sembrano essere molto promettenti per l’identificazione delle lesioni parenchimali ma soprattutto per la loro caratterizzazione. Se le premesse verranno confermate queste sostanze potrebbero costituire una vera rivoluzione per la diagnostica ecografica.

Doppler continuo, eco-Doppler, eco-color Doppler  Le tecniche Doppler, che si basano sull’“effetto Doppler”, determinano la presenza di oggetti in movimento, la loro direzione e velocità, misurando la differenza tra la frequenza trasmessa e quella ricevuta. Sono utilizzate in medicina per lo studio non invasivo del flusso ematico vascolare. In pratica un trasmettitore emette un impulso ultrasonoro di frequenza costante; le interfacce in 61

movimento (per esempio cuore, pareti dei vasi, sangue) intercettate dall’onda ultrasonora danno origine ad echi riflessi di frequenza diversa rispetto a quella emessa. La variazione di frequenza è proporzionale alla velocità di movimento del riflettore. Il segnale riflesso, giunto ad un ricevitore, viene analizzato per valutare l’entità della variazione di frequenza. Le informazioni ottenute sono presentate all’operatore sotto forma di segnale acustico, di traccia contenente lo spettro delle frequenze oppure come immagine in codice colore a seconda del tipo di tecnica Doppler utilizzata: Doppler CW, eco-Doppler, eco-color Doppler. Il Doppler a onda continua (Doppler CW), di basso costo, è indicato come indagine di primo livello, da associare all’esame clinico, per valutare la pervietà vasale e individuare zone di turbolenza del flusso nel distretto vascolare periferico. L’emissione di tipo continuo del fascio US impedisce di ottenere informazioni selettive; il Doppler CW non fornisce dati sulla velocità del sangue e sulla direzione del flusso. Utilizzando onde pulsate e combinandole con l’immagine ecografica bidimensionale (eco-Doppler), che permette la diretta visualizzazione dei vasi, è invece possibile campionare presenza, direzione e soprattutto velocità del sangue in un punto prescelto dall’operatore. L’analisi dello spettro delle velocità permette di differenziare il flusso laminare da quello disturbato o turbolento, dando all’operatore precise informazioni emodinamiche. La valutazione spettrale Doppler è utilizzata come esame di primo livello per lo studio dei grossi vasi addominali, del circolo splancnico e renale, ma soprattutto dei vasi sovraortici in quanto consente la quantificazione di eventuali stenosi, superando le informazioni di tipo esclusivamente qualitativo offerte dal Doppler CW. Quale ulteriore evoluzione delle tecniche Doppler pulsate è stato sviluppato l’eco-color Doppler.Tale metodica visualizza in tempo reale il flusso endovasale sovrapponendolo all’immagine anatomica dei vasi ottenuta con l’ecografia 2D. Diversamente dall’eco-Doppler che analizza un unico volume campione presentando le informazioni sul flusso sotto forma di una curva spettrale variabile nel tempo, l’eco-color Doppler interroga numerosi volumi campioni nell’unità di tempo, rappresentando per ognuno di essi un indice sintetico della velocità dei globuli rossi presenti. Questo indice sintetico è costituito da un pixel colorato secondo una particolare codifica; l’insieme dei pixel, disposti per righe e colonne, crea l’immagine del flusso di sangue. Esistono attualmente due modalità di rappresentazione del segnale in codice colore. Una, indicata come color Doppler, tiene conto della velocità e della direzione degli eritrociti e codifica il flusso con due colori base, rosso e blu, a seconda che il flusso si avvicini o si allontani dalla sonda esplorante. La seconda, chiamata power Doppler, tiene conto dell’intensità del segnale Doppler ed è pertanto prevalentemente influenzata dal numero di eritrociti più che dalla loro velocità; non differenzia la direzione dei flussi e li codifica con un unico colore. Entrambe le modalità consentono una rapida identificazione dei vasi e, in presenza di alterazioni emodinamiche, facilitano il posizionamento del volume campione per l’analisi selettiva dello spettro delle frequenze Doppler. La modalità power Doppler è più indicata per flussi lenti in vasi di piccole dimensioni, quindi per visualizzare la perfusione dei parenchimi; la modalità color Doppler viene utilizzata in tutti gli altri casi.

Risonanza magnetica La risonanza magnetica nucleare (RMN) è una tecnica tomografica che consente di ottenere immagini di sezioni multiplanari (sagittali, coronali, assiali, oblique) del corpo, senza la necessità di modificare la posizione del paziente. La RMN è una tecnica diagnostica innocua grazie al principio fisico su cui si basa. Utilizza infatti un campo magnetico nel quale viene immerso il paziente e degli impulsi di onde radio in grado di interrogare le varie componenti tissutali. 62

La RMN sfrutta il nucleo dell’idrogeno (protone) dell’acqua presente nei diversi tessuti per ottenere i segnali necessari alla costruzione dell’immagine. Questi protoni, usualmente orientati nello spazio in modo casuale, quando sottoposti a un campo magnetico si allineano in due diversi livelli di energia. Parte di essi, se eccitati con una radiofrequenza (RF), assorbono energia per raggiungere il livello energetico superiore. Cessato l’impulso di RF i protoni tornano allo stato di rilassamento emettendo a loro volta un segnale in radiofrequenza. L’intensità di questo segnale ed il tempo necessario a raggiungere lo stato di equilibrio energetico dipendono dalla concentrazione degli atomi di idrogeno.Tenendo conto che la concentrazione degli atomi varia nei diversi tessuti ne deriva che il segnale emesso è caratteristico per ogni tipo di tessuto. I segnali rilevati dalle apparecchiature RMN attraverso speciali antenne, chiamate bobine, vengono elaborati da un computer e codificati come immagini in scala dei grigi i cui contrasti dipendono dalla correlazione tra i tempi di eccitazione e quelli di rilassamento dei protoni, usualmente indicati con i termini di T1 – T2 – Densità Protonica. La tecnologia della RMN e l’interpretazione delle immagini sono più complesse rispetto alle altre metodiche diagnostiche ed in particolare alla TC. Infatti, mentre l’elaborazione matematica e l’interpretazione delle immagini TC si basano unicamente sul coefficiente di attenuazione dei raggi X, l’immagine RMN è determinata da almeno altri 10 parametri fisici che si modificano in funzione della sequenza di impulsi della radiofrequenza utilizzata. Anche le caratteristiche tecniche delle apparecchiature (tipo di magnete utilizzato: superconduttivo, resistivo o permanente) e in particolare l’intensità e l’omogeneità del campo magnetico influenzano in modo significativo la qualità delle immagini. La RMN può fornire anche informazioni di tipo chimico; è probabile che in futuro questa branca chiamata spettroscopia con RMN possa essere utilizzata per la diagnosi specifica delle diverse malattie. Altra area di interesse deriva, specie in campo neurologico, dalla possibilità di indagare aspetti “funzionali” di strutture anatomiche del cervello interrogando la suscettibilità magnetica di determinate componenti organiche.  La RMN è considerata essenziale nello studio del sistema nervoso centrale, compreso il midollo spinale. È inoltre estremamente valida e superiore alla TC nella patologia del collo, della colonna vertebrale, delle articolazioni maggiori, oltre che nella stadiazione dei tumori ossei. Fornisce significative informazioni sull’apparato genitale maschile e femminile e sulla vescica. È sovrapponibile alla TC nello studio del mediastino e del retroperitoneo. Grazie ai recenti progressi viene attualmente applicata con successo anche nella caratterizzazione delle alterazioni patologiche degli organi parenchimali addominali. Le immagini RMN inizialmente ottenute con le sequenze standard richiedevano lunghi tempi d’esame ed erano disturbate da artefatti da movimento del paziente o degli organi, specie a livello addominale superiore. L’evoluzione tecnologica ha permesso di sviluppare tipi di sequenze di impulsi radio sempre più rapide in grado di ridurre i tempi di esecuzione. Sono state soprattutto ideate sequenze atte ad esaltare o sopprimere il segnale proveniente dai vari tessuti, per meglio evidenziare le diverse componenti strutturali degli organi o delle alterazioni patologiche. Il contrasto naturale del sangue rende possibile la valutazione del flusso a livello vascolare; la soppressione del segnale nelle strutture stazionarie e la possibilità di ricostruzioni 3D offrono immagini eccellenti del circolo endocranico, di quello periferico e dei vasi viscerali (angio-RMN). La sincronizzazione del timing elettronico delle sequenze con i rilievi elettrocardiaci crea immagini di elevata qualità del cuore e delle camere cardiache; grazie a tecniche di ricostruzione temporale è possibile valutare la contrattilità del miocardio durante l’intero ciclo cardiaco. 63

Per aumentare sensibilità e specificità della RMN vengono impiegati mezzi di contrasto paramagnetici (per es. gadolinio DTPA) che, introdotti per via endovenosa, aumentano la risoluzione di contrasto tra i tessuti e consentono la valutazione del flusso ematico nelle masse tumorali. Sono stati descritti rari casi di reazioni allergiche, comunque non prevedibili, conseguenti all’uso di gadolinio. I mezzi di contrasto per RMN non necessitano di esami ematici preliminari, in quanto non hanno caratteristiche epatotossiche o nefrotossiche. Il limite più significativo della RMN è attualmente rappresentato dal costo, in particolare per le apparecchiature con campo magnetico di alta intensità (1/3 Tesla). Sono attualmente disponibili apparecchiature a medio campo (0,35-0,7 Tesla), relativamente meno costose, che generano immagini di buona qualità soprattutto nelle applicazioni di tipo neuroradiologico e ortopedico. Esistono inoltre apparecchiature a basso campo (0,05-0,2 Tesla), di costo ridotto, prevalentemente dedicate ad applicazioni limitate (studio delle articolazioni), che offrono immagini di qualità soddisfacente, anche se inferiore a quelle ottenibili con le altre apparecchiature. L’angusto spazio a disposizione, in cui viene collocato il paziente, al centro del magnete, crea in una percentuale non trascurabile di casi degli stati di disagio da claustrofobia fino ad una situazione di rifiuto all’esecuzione dell’indagine. Per ovviare a tale inconveniente e facilitare l’assistenza a pazienti che necessitano di un supporto strumentale cardiorespiratorio sono state create unità cosiddette “aperte” i cui magneti hanno perso la tradizionale configurazione a tunnel; tali apparecchiature rendono attuabili anche procedure di carattere interventistico sotto guida RMN. I campi magnetici di alta intensità attraggono oggetti metallici al centro del magnete dove è posizionato il paziente; sono perciò necessarie precauzioni da parte del personale e apparecchiature di rianimazione in materiali amagnetici.  Controindicazioni assolute all’esecuzione dell’esame RMN: i pazienti portatori di pacemaker non possono venir esaminati per il rischio di disattivazione; sono esclusi dall’esame anche pazienti portatori di schegge o corpi estranei metallici e di clip o protesi in materiali ferromagnetici, per evitare il rischio di migrazione, con danni ai tessuti adiacenti. Il surriscaldamento di protesi metalliche non è stato dimostrato in vivo; la presenza di protesi rappresenta perciò una controindicazione relativa.

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Applicazioni dell’ecografia in chirurgia A. Ferrari Parallelamente al continuo perfezionamento tecnologico in ecografia, con aumento di sensibilità della diagnostica ultrasonografica tradizionale, si sono sviluppate negli ultimi decenni applicazioni tecniche dell’indagine ecografica tali da permetterne l’esecuzione concomitante alla pratica chirurgica, a cielo aperto o laparoscopica (ecografia intraoperatoria e laparoscopica), o in corso di esami endoscopici (ecoendoscopia). Su guida ecografica, sia tradizionale percutanea sia intraoperatoria, laparoscopica ed endoscopica, risulta inoltre attualmente possibile eseguire un’ampia serie di procedure a scopo diagnostico e terapeutico, di utilità insostituibile ormai nella comune pratica chirurgica: tali applicazioni specialistiche con manovre specifiche assistite ecograficamente in tempo reale rientrano nel vasto campo della ecografia interventistica.

Ecografia intraoperatoria (EIO) Dopo laparotomia, il tempo preliminare di ogni intervento chirurgico è l’accurata esplorazione del cavo addominale, alla ricerca della patologia da trattare e di eventuali lesioni concomitanti. Questa tempo risulta particolarmente importante in chirurgia oncologica, dove la stadiazione definitiva ed il conseguente giudizio di operabilità avvengono proprio al tavolo operatorio. Quando indicata, l’EIO risulta una sorta di efficacissima estensione ideale degli occhi e delle mani del chirurgo, rendendo possibile l’esplorazione e la valutazione di lesioni situate in zone profonde di difficile accesso o in seno ad organi parenchimatosi, tali da risultare inaccessibili anche alla più accurata ispezione visiva ed esplorazione manuale da parte dell’operatore. La tecnica prevede l’utilizzo di piccole sonde ecografiche ad alta frequenza (5-12 MHz), caratterizzate da un ottimo potere di risoluzione d’immagine. Esse, sterilizzate a gas o con gluteraldeide, oppure protette da un involucro sterile, vengono poste nel campo operatorio direttamente a contatto con le strutture da esaminare. Rispetto all’indagine preoperatoria si ottiene una migliore definizione d’immagine e viene eliminato il problema dell’interposizione di strutture,soprattutto visceri cavi,che ostacolano l’esplorazione per via percutanea limitandone spesso notevolmente l’efficacia. Inizialmente impiegata nei primi anni Ottanta in chirurgia vascolare ed urologia, e successivamente nella chirurgia della calcolosi biliare, l’EIO risulta oggi elettivamente indicata in chirurgia oncologica, in particolare nella valutazione degli organi parenchimatosi (fegato e pancreas). In questo ambito infatti si affianca come ausilio talora insostituibile alle procedure esplorative e tecniche del chirurgo, nell’ambito di un vasto spettro di applicazioni, di cui elenchiamo le più importanti.

Chirurgia resettiva epatica per epatocarcinoma L’epatocarcinoma (HCC) viene attualmente diagnosticato in fase sempre più precoce, talora in stadio T1 con dimensioni < 2 cm (small HCC). I piccoli noduli HCC hanno caratteristicamente una consistenza soffice, mentre al contrario il parenchima epatico in cui insorgono risulta spesso nodulare e duro in quanto affetto da cirrosi associata: per tale motivo, nonostante una corretta diagnosi preoperatoria, alla laparotomia non risultano abitualmente identificabili alla palpazione più accurata del chirurgo che si accinge ad effettuare l’intervento resettivo (Tab. 2.12). 65

In questi casi l’esecuzione di EIO (Fig. 2.21) permette all’operatore di identificare con precisione la sede della lesione, premessa indispensabile per garantire una resezione oncologicamente corretta ma economica, con risparmio della massima quantità di tessuto non tumorale per ridurre il rischio di insufficienza epatica postoperatoria,sempre temibile in fegato cirrotico. Il contributo dell’EIO nella chirurgia dell’HCC non si limita tuttavia all’identificazione del nodulo tumorale: essa è in grado anche di dare preziose informazioni sull’estensione locale della lesione. L’HCC caratteristicamente diffonde per via retrograda portale e tende all’angioinvasione anche macroscopica, dando luogo nella sua evoluzione a noduli satelliti, trombi neoplastici all’interno dei vasi portali, invasione vascolare diretta di rami venosi sovraepatici, portali o della stessa vena cava.Poiché la sensibilità dell’EIO eventualmente associata al color Doppler si è dimostrata superiore a tutte le tecniche d’indagine diagnostica preoperatoria nella stadiazione definitiva dell’estensione intraepatica dell’HCC, il suo contributo finale può risultare di cruciale importanza per il chirurgo nel valutare l’operabilità e nella scelta della tecnica resettiva.

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Chirurgia delle metastasi epatiche L’indicazione al trattamento chirurgico delle metastasi epatiche dipende sostanzialmente dal tipo di tumore primitivo (colon-retto o neuroendocrino), dal numero ed estensione delle lesioni e dall’eventuale malattia extraepatica concomitante. È purtroppo circostanza non infrequente il riscontro intraoperatorio di lesioni metastatiche misconosciute alle indagini preoperatorie o presenti in maggior numero rispetto a quelle evidenziate. Poiché l’EIO risulta al momento l’indagine più sensibile nell’identificazione di noduli metastatici intraparenchimali epatici, un’accurata ispezione e palpazione del fegato da parte del chirurgo opportunamente integrata dall’esplorazione con EIO prima di intraprendere un intervento resettivo per metastasi può mettere in evidenza lesioni focali aggiuntive rispetto a quelle note: tale riscontro può modificare la tattica operatoria per garantire la radicalità chirurgica, ovvero controindicare l’intervento stesso. In corso di chirurgia oncologica su tumore primitivo, senza evidenza preoperatoria di lesioni metastatiche o in caso di eventuali dubbi diagnostici, l’esecuzione preliminare di EIO alla ricerca di lesioni epatiche occulte può garantire una stadiazione più accurata della malattia (Fig. 2.22).

Chirurgia biliare L’EIO in chirurgia biliare può rappresentare una valida alternativa alla più utilizzata colangiografia intraoperatoria nella ricerca di calcoli della via biliare principale, riconoscibili fino a 1-2 mm di diametro; con l’EIO è inoltre ben documentabile un’eventuale calcolosi intraepatica. Maggior interesse riveste l’applicazione in ambito oncologico nella valutazione della resecabilità dei tumori delle vie biliari; in particolare, in caso di tumore di Klatskin, un’accurata valutazione ultrasonografica dell’eventuale estensione intraepatica del tumore può supportare il chirurgo nel delicato bilancio della scelta strategica al tavolo operatorio.

Chirurgia pancreatica Nella chirurgia delle complicanze della pancreatite cronica può essere d’ausilio l’identificazione con EIO dell’esatta sede ed estensione di pseudocisti, ovvero la visualizzazione del dotto di Wirsung ectasico per un’incisione chirurgica mirata del parenchima pancreatico in corso di interventi derivativi (Fig. 2.23).

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La chirurgia oncologica per carcinoma pancreatico si può avvalere del contributo ultrasonografico per la stadiazione definitiva soprattutto locale, rendendo possibile l’identificazione di un eventuale interessamento neoplastico dei vasi mesenterici superiori o del tronco portale,preliminare ad atti chirurgici che potrebbero rivelarsi inutilmente demolitivi.

Chirurgia dei tumori neuroendocrini In questo ambito l’EIO può rappresentare un ausilio indispensabile nei casi non infrequenti di tumore primitivo occulto, la cui presenza è indicata da una sindrome endocrina o dall’evidenza di lesioni metastatiche.Mentre la chirurgia radioimmunoguidata (RIGS) può identificare con estrema precisione la localizzazione di lesioni anche millimetriche situate a livello viscerale, nell’identificazione di tumori intraparenchimali l’EIO (sola o integrata da RIGS) risulta di utilità insostituibile per un’esatta visualizzazione della sede ed estensione della lesione. Tale circostanza si verifica soprattutto nella ricerca di lesioni insulari (per esempio insulinomi,solitamente di piccolissime dimensioni),piccoli gastrinomi pancreatici,o metastasi epatiche occulte da TNE maligno. Senza l’ausilio di queste metodiche la laparotomia esplorativa per TNE occulto può risultare, nonostante la più scrupolosa ricerca ispettiva e palpatoria da parte del chirurgo,del tutto inutile. Ancora, l’EIO può coadiuvare il tempo esplorativo nella chirurgia di quei TNE frequentemente multifocali, bilaterali o associati ad altre lesioni neoplastiche nell’ambito di una MEN: in questo caso risulta di estrema importanza l’esplorazione anche ecografica dei visceri sede di possibili localizzazioni aggiuntive.

Ecografia laparoscopica (LUS) 68

La rapida diffusione della chirurgia laparoscopica ha dato l’impulso alla messa a punto di sonde ecografiche ad essa specificamente dedicate. Esse, di diametro inferiore al centimetro, sono caratterizzate da un lungo supporto rigido che ne consente l’introduzione attraverso i trocar e da una punta flessibile da applicare al viscere da esplorare.Analogamente all’EIO, le alte frequenze comunemente utilizzate consentono un ottimo potere di risoluzione. L’immagine ecografica compare sullo schermo televisivo in tempo reale contemporaneamente all’immagine laparoscopica, consentendo l’estensione ideale dell’occhio della telecamera alle strutture profonde ed ai parenchimi dei visceri addominali (Fig. 2.24). Le applicazioni dell’ecolaparoscopia sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle dell’EIO. Il vantaggio rispetto a quest’ultima si osserva soprattutto nell’ambito del tempo esplorativo in chirurgia oncologica; un’accurata stadiazione ecolaparoscopica risulta particolarmente indicata nel trattamento del carcinoma pancreatico, sovente sottostadiato dalle indagini preoperatorie,la cui prognosi infausta limita le indicazioni chirurgiche solo alle forme iniziali: il riscontro di malattia oltre i limiti di operabilità comporta così il risparmio di un’inutile laparotomia. Il maggior limite rispetto all’EIO è d’altra parte rappresentato dalla minor maneggevolezza della sonda introdotta attraverso il trocar, che può comportare difficoltà nell’esplorazione, soprattutto quando la situazione anatomica richiede particolare flessibilità ed una valutazione con diverse angolazioni. Una interessante applicazione di LUS interventistica in fase di studio riguarda il trattamento interstiziale delle neoplasie epatiche,in particolare quello termoablativo tramite radiofrequenza, nei casi di difficile accesso percutaneo.

Ecografia endocavitaria ed ecoendoscopia Alcune sonde sono state appositamente conformate per poter essere introdotte in visceri cavi dell’organismo ed effettuare attraverso il contatto diretto con le mucose lo studio dettagliato della parete dell’organo e delle strutture limitrofe. Tali sonde possono essere introdotte direttamente in organi cavi come vagina e retto (ecografia endocavitaria) o accedervi tramite strumenti endoscopici (ecografia endoscopica o ecoendoscopia).

Ecografia endocavitaria 69

Molto semplice da un punto di vista tecnico, comporta l’introduzione diretta del trasduttore ecografico opportunamente conformato nella cavità da studiare: manca quindi della guida visiva che l’utilizzo dell’endoscopio permette. z Ecografia transrettale. Una sonda cilindrica a fondo convesso viene introdotta nel retto utilizzando alte frequenze e scansioni radiale, lineare o biplanare; sono inoltre disponibili corredi per la biopsia transperineale e transrettale. Tale metodica rappresenta l’indagine fondamentale per lo studio della prostata, che viene visualizzata con eccellente potere di risoluzione, potendo effettuare con precisione calcoli di volumetria ed evidenziando alterazioni focali del parenchima di dimensioni millimetriche.Viene quindi utilizzata routinariamente nell’ipertrofia prostatica e nel carcinoma prostatico, dove rappresenta l’esame di screening per la diagnosi precoce. L’ecografia transrettale può essere utilizzata anche nella patologia del retto per un’accurata stadiazione delle neoplasie, rilevando l’invasione di parete, delle strutture adiacenti e l’interessamento linfonodale loco-regionale; può inoltre essere utilizzata nel follow up dopo resezione anteriore del retto per la diagnosi precoce di recidiva locale. L’indagine trova applicazione anche in alcuni casi di patologia benigna: per esempio consente l’esatta definizione degli ascessi perirettali. In ginecologia l’ecografia transrettale rappresenta una valida alternativa alla scansione vaginale nel caso in cui questa non sia applicabile, come per esempio: nella virgo, in presenza di stenosi vulvovaginali o sindromi malformative con assenza di sviluppo della vagina, in alcuni casi di vaginismo, vaginiti molto sintomatiche, neoplasie della cervice. Inoltre l’esame ecografico transrettale può essere un utile completamento a quello eseguito per via vaginale in situazioni quali endometriosi del fornice vaginale posteriore o patologie neoplastiche del collo, in quanto la scansione endorettale è in grado di visualizzare in maniera estremamente precisa vagina, utero, annessi, cavo del Douglas, vasi pelvici. z Ecografia endovaginale. Esame fondamentale nella diagnostica di primo livello della patologia ginecologica: diversamente dalla valutazione della pelvi per via transcutanea, che richiede il riempimento vescicale da utilizzare come finestra acustica evitando l’interposizione di anse intestinali, non richiede una preparazione specifica e può quindi essere effettuata anche in urgenza: nelle sintomatologie dolorose in sede pelvica, nella diagnosi differenziale tra patologia annessiale ed appendicolare, in caso di sospetta gravidanza extrauterina. L’assenza di interferenza meteorica permette la visualizzazione ottimale dei genitali interni femminili e del cavo pelvico, per cui anche in elezione rappresenta l’indagine di prima scelta nella diagnostica ginecologica.

Ecoendoscopia L’ecoendoscopia (EUS) è il connubio tra la tecnica endoscopica e quella ecografica: utilizza infatti uno strumento dotato di un piccolo trasduttore ad ultrasuoni incorporato sulla punta di un endoscopio. Il posizionamento della sonda esploratrice viene così effettuato sotto controllo visivo e l’accoppiamento acustico con la mucosa è realizzato riempiendo d’acqua un apposito palloncino che riveste il trasduttore. L’inserimento del trasduttore all’interno di visceri permette lo studio di sedi anatomiche profonde, difficilmente valutabili tramite ecografia transcutanea, e non comporta limitazioni legate ad obesità o meteorismo. L’assenza di strutture interposte a quelle in esame consente l’impiego di frequenze molto elevate (7,5-20,0 Mhz): esse forniscono un’eccellente potere di risoluzione, permettendo l’esatta definizione delle tonache costituenti la parete dei visceri cavi (microsonografia) e l’identificazione di lesioni delle dimensioni di 2-3 mm che non abbiano ancora alterato lo spessore del viscere; hanno tuttavia lo svantaggio di una penetrazione limitata a 4-6 cm. 70

Esistono fondamentalmente due tipi di trasduttori: sonde meccaniche,con fascio radiale di ultrasuoni per scansioni trasversali a 360°, e sonde elettroniche, con profilo convex e scansioni longitudinali rispetto all’asse maggiore del viscere; queste ultime consentono anche lo studio ecocolor Doppler delle strutture vascolari e sono dotate di canale per biopsie mirate EUS assistite in tempo reale, sia intra sia extramurali, mediante pinze bioptiche o tramite agoaspirazione con ago sottile. L’applicazione più diffusa dell’EUS riguarda il tratto gastroenterico: le sonde meccaniche a scansione trasversale sono ottimali per lo studio a tutta circonferenza del distretto esofageo, mentre le mini convex elettroniche vengono applicate su guida endoscopica ai versanti della parete gastrica e duodenale. Attraverso il lume del viscere viene visualizzata innanzitutto la struttura parietale, evidenziando anche minime lesioni che ne alterino la tipica architettura a tonache sovrapposte. Possono così essere ben documentate neoformazioni sottomucose come leiomiomi e linfomi, o alterazioni vascolari come le varici nell’ipertensione portale. Negli adenocarcinomi, solitamente diagnosticati con tradizionale endoscopia per il coinvolgimento diretto della superficie luminale, la microsonografia della parete può offrire un importante contributo nella definizione dell’estensione locale del tumore: ne può evidenziare infatti l’infiltrazione in profondità, rappresentando la metodica preoperatoria più accurata (90%) nella definizione del tumore secondo la classificazione TNM (Fig. 2.25), e delimita l’interessamento in senso longitudinale con maggior precisione rispetto all’evidenza visiva endoscopica, soprattutto nelle forme ad accrescimento infiltrativo sottomucoso, consentendo una corretta pianificazione dell’intervento chirurgico.

Oltre alla valutazione di patologie interessanti la parete del viscere esplorato, l’EUS del tubo digerente si presta allo studio di numerosi organi toracici ed addominali spesso non esplorabili correttamente tramite accesso tradizionale percutaneo: nella Tabella 2.13 sono riassunte le strutture anatomiche visualizzabili con EUS attraverso esofago, stomaco e duodeno. Questa possibilità nei tumori del tubo digerente consente di completare la stadiazione preoperatoria 71

con l’esplorazione dei linfonodi loco-regionali: l’accuratezza diagnostica di un eventuale coinvolgimento metastatico (N), sospettato in base a criteri non tanto volumetrici quanto morfostrutturali, è intorno all’80%, essendo maggiore per N1 rispetto a N2 a causa della scarsa profondità di penetrazione degli ultrasuoni alle alte frequenze. Altra applicazione di particolare interesse per il chirurgo oncologo risulta l’esplorazione del pancreas: attraverso questo accesso privilegiato si possono infatti ottenere preziosi contributi nella valutazione dei criteri di operabilità del carcinoma pancreatico, nella diagnosi differenziale con la pancreatite cronica e nell’identificazione delle neoplasie endocrine che possono sfuggire all’esame TC specialmente se di dimensioni inferiori a 2 cm. Utili i contributi anche nella patologia pancreatica benigna: in alternativa all’ERCP l’EUS può visualizzare alterazioni a carico del coledoco e del Wirsung, utili nelle forme di litiasi e nelle flogosi pancreatiche acute e croniche.

Anche nell’ambito delle vie urinarie, l’utilizzo di una piccola sonda circolare introdotta per via transuretrale durante cistoscopia è in grado di fornire informazioni utili nella stadiazione del carcinoma vescicale.

Ecografia interventistica La praticità di utilizzo anche al letto del paziente chirurgico acuto e la peculiarità di fornire un’immagine dinamica in tempo reale rendono la tecnica ecografica particolarmente idonea alla guida di procedure operative, a fini diagnostici o terapeutici.Poiché esame clinico,valutazione ecografica,procedure interventistiche ecoguidate ed eventuale intervento chirurgico rappresentano momenti clinici spesso embricati, sempre più spesso è il chirurgo stesso che acquisisce le competenze nell’utilizzo degli ultrasuoni tali da poter utilizzare questo strumento nella pratica clinica come un’estensione ideale dei suoi occhi e delle sue mani. Così una suggestione anamnestica o un riscontro clinico obiettivo, per esempio una massa addominale, con l’esame ecografico si traducono immediatamente in un’immagine e su di essa può essere compiuto l’atto diagnostico fondamentale, la biopsia, per la tipizzazione di natura. Una lesione non palpabile può essere evidenziata e marcata su guida ecografia con tatuaggi in superficie o traccianti dal chirurgo stesso per un’escissione mirata.Alcune lesioni cistiche o ascessuali possono essere in casi selezionati trattate con drenaggio percutaneo ecoguidato in alternativa all’intervento chirurgico.Ancora, in alternativa alla chirurgia resettiva, alcune lesioni focali possono essere trattate con terapie ablative su guida ecografia: talvolta ciò può essere programmato in anticipo, in altri casi la decisione avviene al tavolo operatorio. Questi esempi per chiarire come la competenza ecografica possa supportare nel quotidiano la gestione clinica del paziente chirurgico, soprattutto nella guida di atti operativi.Per ordine di esposizione possiamo riassumere le moltepli-ci possibilità di ecografia interventistica in due settori,peraltro talora concomitanti:la diagnostica e la terapeutica (Tab.2.14). 72

Procedure diagnostiche ecoguidate z

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Prelievo ecoguidato di tessuto per esame microscopico: agobiopsia con ago sottile per esame istologico di lesioni neoplastiche (fegato, masse addominali), o agoaspirato per esame citologico (utilizzato di preferenza nei noduli mammari, nelle neoformazioni pancreatiche con accesso transgastrico, nella patologia tiroidea e paratiroidea, nelle linfoadenopatie). Agocentesi ecoguidata diagnostica e colturale di versamenti endoaddominali e toracici: in urgenza può confermare casi di sospetto emoperitoneo (politrauma, GEU); nel postoperatorio può chiarire la natura (sangue, bile, liquido enterico, pus) di un versamento libero o saccato in quadri clinici dubbi. Agoaspirato a scopo colturale nelle pancreatiti necrotiche, per la diagnosi precoce di necrosi pancreatica infetta, la cui presenza pone indicazione assoluta all’intervento chirurgico. Marcatura di lesioni non palpabili della mammella con iniezione intralesionale ecoguidata di radiofarmaco (ROLL). Studi contrastografici con iniezione ecoguidata di mezzo di contrasto nell’albero biliare intraepatico ectasico (PTC) o nella pelvi renale (pielografia anterograda).

Procedure terapeutiche ecoguidate z

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Agocentesi di cisti mammarie, diagnostica (liquido verdastro: mastopatia fibrocistica; ematico: sospetta neoformazione intracistica, indicato esame citologico) e terapeutica, con immediata scomparsa del “nodulo” e risoluzione dell’ansia da esso suscitata nella donna. Trattamento di cisti epatiche semplici o parassitarie in alternativa all’intervento chirurgico, con tecnica PAIR (Punture, Aspiration, Injection, Reaspiration). I tempi della procedura indicati dalla sigla sono i seguenti: posizionamento percutaneo ecoguidato di ago con tragitto transepatico, aspirazione del contenuto della cisti per indagini biochimiche, immunologiche e parassitologiche, esecuzione di esame contrastografico per escludere comunicazione della cisti con l’albero biliare, iniezione di etanolo 95% (indicato sia nelle cisti da echinococco,per l’azione idaticida, sia nelle cisti semplici, ove induce una cistite chimica e, secondariamente, una sclerosi reattiva); riaspirazione dell’etanolo dopo 20-30 minuti di contatto. Drenaggio percutaneo ecoguidato di pseudocisti pancreatiche acute, croniche e di 73

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ascessi pancreatici, con posizionamento di catetere con tecnica di Seldinger in caso di accesso transgastrico, o tipo Trocar se è possibile un accesso extraviscerale. Il successo terapeutico a 3 anni risulta globalmente intorno all’86% dei casi. Controindicazioni alla procedura, che si pone come alternativa al trattamento chirurgico ed a quello endoscopico, sono: una accertata stenosi duttale critica, presente in alcune pseudocisti croniche da ritenzione e documentabile con ERCP, ed una diagnostica differenziale dubbia con tumori pancreatici cistici. Drenaggio percutaneo ecoguidato di ascessi addominali: l’indicazione è attualmente estesa ad ogni tipo di raccolta aggredibile con una via d’accesso sicura. L’agocentesi preliminare consente di esaminare il materiale da evacuare, che viene sottoposto ad esame colturale, e di scegliere il tipo di catetere più adatto, che sarà di diametro maggiore in caso di essudato particolarmente denso. Anche in questo caso la tecnica di drenaggio può essere tipo Seldinger o Trocar, a seconda della sede e della sicurezza della via d’accesso, possibilmente extraviscerale. La procedura è meno invasiva del drenaggio chirurgico,presenta un’elevata percentuale di successo (70-90%) e migliora in ogni caso lo stato settico del paziente. Le complicanze maggiori della procedura, peraltro infrequenti (1-2%), sono rappresentate da: emorragia, coleperitoneo, sepsi grave, pio/pneumotorace (attraversamento di un seno costofrenico), fistole enteriche (decubito del catetere o attraversamento di un viscere). Drenaggio biliare esterno percutaneo ecoguidato nell’ittero ostruttivo ingravescente, in alternativa alla via re-trograda endoscopica: come misura palliativa nelle neoplasie della VBP non suscettibili di trattamento chirurgico, o preoperatoria, indicato in tal caso non di principio ma nei pazienti in cui lo stato generale sia gravemente compromesso dall’ittero o dalla sepsi biliare. Un caso particolare di drenaggio biliare esterno è rappresentato dalla colecistostomia percutanea, indicata in casi selezionati di colecistite acuta in pazienti a rischio chirurgico estremamente elevato. Nefrostomia: puntura e posizionamento di un catetere nelle vie urinarie.Tale procedura, un tempo solo chirurgica, con l’avvento dell’ecografia è diventata una manovra poco invasiva, sicura e rapida, effettuata per via percutanea. Trattamento interstiziale ecoguidato di lesioni neoplastiche. Nei casi in cui non sia indicato l’intervento chirurgico, alcuni tumori possono essere sottoposti a tecniche chimiche o fisiche di ablazione con accesso percutaneo,laparoscopico o laparotomico. L’ecografia, che guida l’ago all’interno della lesione, permette di seguire in tempo reale l’azione del trattamento. Largamente diffusa e convalidata nei risultati è l’alcolizzazione degli epatocarcinomi con etanolo 95°, eseguibile anche ambulatorialmente (Fig. 2.26). Tra le tecniche più recenti risulta particolarmente promettente l’ablazione tumorale con radiofrequenza, applicabile anche a lesioni metastatiche (Fig. 2.27).

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Medicina nucleare S. Garancini, L. Ceriani, L. Giovanella La medicina nucleare si occupa delle applicazioni cliniche dei radioisotopi o radionuclidi, sia in campo diagnostico (in vivo e in vitro), sia terapeutico. Ai fini diagnostici, la somministrazione al paziente (diagnostica in vivo) di isotopi radioattivi e di molecole radiomarcate (radiofarmaci) consente lo studio della fisiopatologia dei vari apparati ed organi, in relazione al diverso tropismo della molecola utilizzata, con possibilità, unica, di valutazione quantitativa dei fenomeni esaminati attraverso l’elaborazione matematica dei dati rilevati durante l’esecuzione delle indagini scintigrafiche. Il “tracciante”, sia esso un radioisotopo o un radiofarmaco, viene definito come “positivo” quando evidenzia l’evento patologico con un incrementato e abnorme accumulo,“negativo”quando il danno viene inteso come perdita di funzione e, pertanto, documentato come perdita di captazione e accumulo: un classico esempio è rappresentato dai noduli tiroidei che appaiono ipercaptanti (noduli “caldi”) o ipocaptanti (noduli “freddi”) in relazione all’incremento o alla perdita della funzione biosintetica e di trapping. La funzionalità di un organo emuntore, come per esempio il rene o il fegato, può essere, invece, valutata attraverso l’analisi della sua fisiologica capacità di depurare l’organismo dal tracciante somministrato. La rilevazione delle radiazioni emesse dal composto radioattivo permette, oltre alla creazione di immagini (scintigrafie), espressione della distribuzione spaziale della radioattività, anche la caratterizzazione degli eventi biologici mediante semplici misurazioni quantitative (conteggi) e la costruzione di curve rappresentative della variazione, in funzione del tempo, della concentrazione radioattiva presente nell’organo in studio. I sistemi di rilevazione si basano sull’utilizzo di cristalli a scintillazione, che permettono di assorbire l’energia emessa (radiazioni gamma) durante il decadimento radioattivo dell’isotopo, trasformandola dapprima in segnale luminoso (scintillazione), e quindi, mediante una catena elettronica, in segnale elettrico e, successivamente, digitale. Le apparecchiature attualmente impiegate (gamma camere) consentono di ottenere oltre all’imaging di tipo planare bidimensionale classico, anche immagini tridimensionali. Ciò si consegue attraverso l’impiego della tecnica SPET (tomografia ad emissione di fotone singolo), che, ricostruendo immagini tomografiche multiplanari della distribuzione spaziale del radiofarmaco, ha profondamente modificato molti settori diagnostici, permettendo di raggiungere alti livelli di sensibilità diagnostica e di risoluzione. L’impiego di particolari nuclidi emittenti “positroni”, prodotti in acceleratori di particelle dedicati (ciclotroni), ha posto le basi per lo sviluppo della tomografia ad emissioni di positroni (PET), che consente lo studio di processi fisiologici e patologici mediante la creazione di immagini che rappresentano funzioni o reazioni biochimiche presenti nei vari organi e tessuti. Ciò si fonda sull’impiego degli isotopi radioattivi dei principali costituenti della chimica organica (Carbonio-11, Azoto-13, Ossigeno-15 e Fluoro-18), che decadono emettendo, appunto, positroni. Questi radionuclidi sono utilizzati per la marcatura di molecole normalmente presenti dall’organismo e, quindi, per tracciare le reazioni biologiche in cui queste molecole sono coinvolte. La PET ha richiesto lo sviluppo di una tecnologia specifica (definita “in coincidenza”) e di apparecchiature dedicate (tomografi), che consentono di ottenere immagini del corpo intero ad alta risoluzione (4-6 mm) e di fornire misurazioni quantitative delle principali funzioni biologiche. La breve emivita dei radioisotopi utilizzati per gli studi PET implica, tuttavia, che la loro produzione mediante ciclotrone dedicato e la marcatura delle molecole traccianti avvengano in vicinanza del luogo di impiego, cioè delle apparecchiature di rilevazione. Tra gli isotopi positrone emittenti solo il Fluoro-18 può, in ragione della sua emivita relativamente più lunga (110 minuti), essere trasportato entro un breve raggio dal luogo di produzione. 76

Le tecniche di imaging in vivo hanno, pertanto, aumentato negli ultimi anni la loro qualità tecnologica, mantenendo le prerogative di non invasività e di bassa irradiazione che da sempre contraddistinguono le indagini medico-nucleari, consentendo di ottenere informazioni non meramente morfologiche e di valutare parametri quali il flusso ematico distrettuale, la funzionalità di organi ed apparati e l’attività metabolica cellulare. Un altro importante settore di attività della disciplina è rappresentato, inoltre, dalle applicazioni diagnostiche “in vitro” dei radioisotopi,grazie alle quali,sfruttando l’interazione tra la specificità della reazione immunologica o recettoriale e la sensibilità del segnale radioattivo (dosaggio radioimmunologico o RIA, immunoradiometrico o IRMA e radiorecettoriale o RRA), è possibile quantificare con estrema precisione la concentrazione sierica di sostanze quali ormoni,peptidi,autoanticorpi e marcatori tumorali. Le tecniche di dosaggio si basano sull’utilizzo di un tracciante radioattivo, marcato con Iodio-125, che nei dosaggi RIA è rappresentato dall’analogo dell’analita in oggetto e nei dosaggi IRMA da un anticorpo. I dosaggi immunochimici con radioisotopi rappresentano a tutt’oggi il “gold standard” in endocrinologia ed oncologia. Nei Laboratori di Medicina Nucleare in vitro, inoltre, vengono svolte attività sussidiarie ad alcune tecniche di diagnostica sul paziente, quali la marcatura di cellule autologhe (globuli bianchi, piastrine) o la quantificazione della radioattività presente in campioni biologici prelevati dal paziente per gli studi di cinetica e di clearance. Infine, è possibile utilizzare radionuclidi e radiofarmaci a scopo terapeutico, sfruttando la loro capacità di accumularsi elettivamente in compartimenti cellulari determinati (radioterapia metabolica).

Medicina nucleare in chirurgia La medicina nucleare è in grado di fornire, nelle sue differenti applicazioni clinico-strumentali, informazioni estremamente utili al chirurgo in ognuno dei tre tempi dell’attività chirurgica (pre-, intra- e postoperatoria), con metodiche che hanno modificato, in alcune patologie, l’approccio e la tecnica della terapia chirugica.

Valutazione prechirurgica Valutazione del rischio perioperatorio. La definizione del rischio cardiovascolare perioperatorio è critica sia per la valutazione del rapporto costo-beneficio dell’approccio chirurgico, sia per la definizione delle modalità di monitoraggio del paziente durante e dopo l’intervento stesso. La SPET miocardica perfusionale da stress ha dimostrato di essere un efficace ed indipendente strumento predittivo degli eventi cardiaci maggiori nei pazienti candidati a chirugia cardiaca e non cardiaca, vascolare ed addominale maggiore, in particolare in soggetti anziani. L’impiego di uno stressor farmacologico, il dipiridamolo, qualifica questa metodica come altamente sicura ed utilizzabile per tutti i pazienti, con controindicazioni molto ristrette. z

Bilancio funzionale d’organo. Lo studio morfo-funzionale scintigrafico trova importanti applicazioni nella valutazione funzionale di apparati nell’ambito della pianificazione della chirurgia resettiva. In particolare, la scintigrafia renale sequenziale con 99m Tc MAG3 o DTPA consente la valutazione del contributo funzionale relativo dei due reni, separatamente, ed è fondamentale prima di un intervento di nefrectomia. La scintigrafia polmonare di perfusione permette di quantificare la perfusione relativa del singolo polmone o dei singoli lobi polmonari: la correlazione dei dati di perfusione con i dati spirometrici (in particolare FEV1) consente di prevedere la riserva funzionale residua dopo interventi di chirurgia polmonare. z

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Tecniche intraoperatorie Chirurgia radioguidata. L’impiego di traccianti positivi, ossia di indicatori che evidenziano una lesione caratterizzandola con un incrementato accumulo rispetto ai normali tessuti, sia nella diagnostica oncologica sia in quella metabolicofunzionale, rende oggi possibile far seguire all’imaging medico-nucleare un secondo tempo chirurgico, nel quale la localizzazione e l’exeresi della lesione viene guidata dalla rilevazione intraoperatoria dell’accumulo del tracciante radioattivo mediante opportune sonde manuali collimate (hand-held probe). Il beneficio derivante dall’impiego di tale metodologia non riguarda solo la garanzia della radicalità dell’intervento, ma permette anche di ridurre i tempi e l’estensione della chirurgia. Le più collaudate applicazioni sono: in campo non oncologico, l’asportazione degli adenomi paratiroidei, grazie all’impiego del 99mTc-sestamibi, e, in chirurgia oncologica, oltre alla ricerca del linfonodo sentinella, l’exeresi degli osteomi osteoidi dopo scintigrafia ossea con 99mTc-difosfonati, la chirurgia dei tumori neuroendocrini, dei neuroblastomi e di altre neoplasie dopo somministrazione, rispettivamente,di analoghi della somatostatina, della metaiodobenzilguanidina (MIBG) o di anticorpi monoclonali radiomarcati. z

ROLL. L’acronimo inglese (Radio-guided Occult Lesion Localization) individua una metodica di recente introduzione, che permette la corretta identificazione intraoperatoria di una lesione non palpabile, a scopo bioptico. Il campo di principale applicazione riguarda la marcatura delle lesioni nodulari e delle aree di microcalcificazioni sospette a livello mammario, rilevate mediante mammografia o ecotomografia, ma senza equivalenti palpatori. La metodica si fonda sulla inoculazione, sotto guida stereotassica radiologica o ecotomografica, di una piccola quantità di tracciante radioattivo non diffusibile (macroaggregati di albumina marcati con 99mTc) a livello della lesione, che verrà, quindi, successivamente individuata mediante la sonda manuale in sede operatoria. Tale metodica è di facile applicazione e presenta, rispetto alle consuete metodiche radiologiche (marker di carbone o filo metallico), una maggiore accuratezza della localizzazione, la possibilità di pianificare, senza vincoli, la sede dell’incisione e di fornire al patologo campioni non inquinati. z

Identificazione del linfonodo sentinella. Una recente applicazione delle tecniche linfoscintigrafiche ha permesso di mettere a punto una metodica di marcatura del “linfonodo sentinella”, cioè del linfonodo che raccoglie la linfa drenata dall’area in cui è presente una lesione neoplastica e che costituisce, pertanto, il primo filtro e, quindi, la prima stazione di invasione per via linfatica della neoplasia. L’individuazione del linfonodo avviene mediante somministrazione per via subdermica o perilesionale, in relazione al tipo di neoplasia, di un piccolo volume di soluzione fisiologica contenente particelle di albumina (nanocolloidi) marcati con 99m Tc, che mimano il drenaggio linfatico di quell’area corporea, consentendo di visualizzare transitoriamente la via linfatica afferente ed in modo stabile il linfonodo sentinella, grazie all’azione fagocitotica dei macrofagi stromali del seno linfatico (Fig. 2.28). La marcatura permette la rapida individuazione del linfonodo in sede operatoria mediante l’impiego della sonda manuale, procedura che viene ulteriormente velocizzata dal posizionamento di un repere cutaneo durante la scintigrafia preliminare. La valutazione anatomo-patologica della positività o negatività del linfonodo sentinella consente di impostare un approccio più puntuale e conservativo della linfoadenectomia, aprendo possibili scenari di differente atteggiamento chirurgico nei confronti della neopla sia. Campi di attuale impiego clinico sono: il melanoma (Fig. 2.28), ove la metodica scintigrafica pemette di definire innanzitutto la sede, non sempre chiara soprattutto per le lesioni localizzate al tronco, del drenaggio linfatico; le neoplasie del distretto cervicale e craniale; e, in particolar modo, il carcinoma mammario (Fig. 2.28). La linfadenectomia ascellare in neoplasie mammarie di dimensioni inferiori ai 2 cm è ormai riservata solo alle pazienti con positività metastatica del linfonodo sentinella. L’accuratezza del linfonodo sentinella nel predire lo stato dell’ascella si aggira intorno al 97%: il valore predittivo positivo è pressoché assoluto (nel 35% dei casi il sentinella è addirittura l’unico z

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linfonodo positivo), mentre il valore predittivo negativo risulta del 95% circa; i casi falsi negativi sarebbero legati alla presenza di carcinomi mammari la cui multifocalità è misconosciuta o alla presenza di skip metastasis con salto della prima stazione linfonodale. Attualmente gli effetti di questo approccio sulla sopravvivenza e sul controllo regionale della malattia non sono ancora noti e sono oggetto di studio in alcuni trials europei ed americani. Recentemente è stata messa a punto una tecnica che permette di eseguire la marcatura del linfonodo sentinella congiuntamente alla ROLL. Campi attualmente in fase di ricerca avanzata e di verosimile prossimo impiego clinico riguardano i carcinomi della vulva (Fig. 2.28) ed i carcinomi del retto.

Complicanze postchirurgiche Le tecniche medico-nucleari, noninvasive e spesso di rapida esecuzione, si prestano ottimamente alla gestione di urgenze post-chirurgiche. In particolare, la scintigrafia polmonare rappresenta una metodica veloce ed altamente accurata nella diagnosi di tromboembolia polmonare. Attualmente, la prima indagine prevista, nel sospetto di tale patologia, è rappresentata dal dosaggio del D-dimero plasmatico: una negatività di tale dosaggio esclude la presenza di fenomeni tromboembolici. Tuttavia, la positività del D-dimero plasmatico ha significato aspecifico e, molto spesso, il trauma chirurgico e/o i trattamenti praticati possono determinare elevazioni aspecifiche del marcatore. La scintigrafia polmonare con 99mTc-macroaggregati di albumina umana consente l’esclusione della diagnosi di tromboembolia polmonare o la sua conferma in circa l’80% dei casi, nell’arco di 10 minuti dall’arrivo del paziente in Medicina Nucleare. Nei casi dubbi all’esame scintigrafico, il paziente dovrà essere avviato ad indagini quali l’angio-TC spirale polmonare, l’eco-color Doppler degli arti inferiori o, eccezionalmente, l’angiografia polmonare. In caso di complicanze settiche postoperatorie con imaging morfologico (ecografia, radiografia,TAC) negativo, l’utilizzo di globuli bianchi autologhi marcati con 99mTc-HM-PAO può 79

consentire la localizzazione del focolaio settico. La marcatura degli eritrociti autologhi 99mTc costituisce una tecnica molto sensibile nella diagnosi dei sanguinamenti anche di piccola entità (0,1 ml/min) mediante imaging sequenziale e prolungato, con risultati molto lusinghieri nell’ambito delle enterorragie e del leakage protesico vascolare.

Altre applicazioni specifiche Patologia endocrina Le metodiche medico-nucleari sono tradizionalmente legate alla diagnostica della patologia tiroidea, sia di natura funzionale sia di natura morfo-strutturale (gozzo e patologia nodulare) (Fig.2.29).L’integrazione tra scintigrafia tiroidea e dosaggi immunochimici con radioisotopi (TSH, ormoni tiroidei, anticorpi anti-tireoperossidasi, anti-tireoglobulina ed anti-recettore del TSH) consente una completa valutazione del quadro morfo-funzionale ghiandolare. L’esecuzione della scintigrafia tiroidea è fondamentale in caso di ipertiroidismo, per una corretta diagnosi differenziale, e in presenza di formazioni nodulari palpabili, per definire un corretto iter diagnostico. Particolare interesse chirurgico riveste il follow up delle neoplasie differenziate tiroidee (carcinoma papillare e follicolare) mediante scintigrafia “whole body” con radioisotopi dello iodio e dosaggio della tireoglobulina circolante (hTG). Nel carcinoma midollare tiroideo, invece, risulta di elevato significato diagnostico il dosaggio della calcitonina (preferibilmente basale e dopo stimolazione con calcio gluconato e pentagastrina) e l’utilizzo di traccianti specifici quali la metaiodobenzilguanidina marcata con radioiodio (123I- o 131IMIBG), l’acido dimercaptosuccinico pentavalente marcato con 99mTc (99m Tc-DMSA>V@), gli analoghi radiomarcati della somatostatina (111In-pentetreotide) o frammenti di anticorpo monoclonale anti-CEA marcati con 99mTc.

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Le tecniche medico-nucleari per l’individuazione di tessuto paratiroideo iperfunzionante, in caso di iperparatiroidismo primario e terziario confermato dai dati bioumorali, consentono al chirurgo la precisa localizzazione preoperatoria del tessuto adenomatoso, riducendo i tempi operatori e la morbilità relativa. Viene generalmente utilizzata la tecnica del doppio tracciante (99m Tc-sestamibi e 99m Tc-pertecnetato) con sottrazione delle immagini (Fig. 2.30). È importante sottolineare che la ricerca scintigrafica deve essere estesa anche alla regione mediastinica, allo scopo di visualizzare eventuali localizzazioni ectopiche, spesso evidenziabili solo grazie alle tecniche medico-nucleari. Nel campo della patologia surrenalica l’utilizzo di tecniche scintigrafiche specifiche per la corticale (131-I iodometilcolesterolo) e la midollare (123I- o 131I-MIBG) è giustificato solo dopo un accurato studio bioumorale e funzionale (dosaggio cortisolo ed ACTH, renina ed aldosterone, androgeni, catecolamine e metaboliti, cromogranina-A ecc) permettendo, in questi casi, la diagnosi di patologie funzionali ed organiche surrenaliche (adenomi surrenalici, iperplasia surrenalica, feocromocitoma).

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L’utilizzo di traccianti a tropismo neuroendocrino (111In-pentreotide) e lo sviluppo di un dosaggio IRMA specifico per la cromogranina-A (CgA) hanno profondamente modificato, negli ultimi anni, la diagnosi delle neoplasie neuroendocrine, spesso negative alle indagini morfologiche convenzionali.

Patologia gastroenterica Le tecniche medico-nucleari consentono lo studio funzionale del transito esofageo e dello svuotamento gastrico, del reflusso gastroesofageo con possibilità di quantificazione e di valutazione dell’eventuale passaggio nelle vie respiratorie, e del reflusso duodenogastrico. La scintigrafia salivare trova applicazione nella patologia litiasica, infiammatoria e neoplastica delle ghiandole salivari. Attraverso l’impiego di emazie autologhe radiomarcate è possibile evidenziare e quantificare sanguinamenti gastrointestinali ed il 99mTc-pertecnetato consente la localizzazione di aree ectopiche di mucosa gastrica (diverticolo di Meckel). L’utilizzo di globuli bianchi autologhi radiomarcati può contribuire alla diagnosi e alla valutazione delle malattie infiammatorie croniche intestinali (morbo di Crohn e RCU), nonché all’identificazione di patologie settiche addominali di tipo infettivo. L’imaging epatico ed epatobiliare funzionale consente di ottenere dati morfo-funzionali mediante l’uso di traccianti a tropismo per il sistema reticolo-endoteliale (colloidi) o ad escrezione biliare (derivati dell’IDA): nel primo caso, oltre ad informazioni sulla morfologia epatica è possibile una precisazione panoramica sulla volumetria dell’organo, e soprattutto una valutazione della funzionalità parenchimale regionale. La scintigrafia epatobiliare, invece, consente lo studio funzionale del compartimento epatocitario e delle vie biliari e, in particolare, trova applicazione nella diagnosi di colecistite acuta e di coleperitoneo, nonché nella diagnosi differenziale degli itteri e nella valutazione funzionale delle derivazioni biliari. Una applicazione di particolare interesse chirurgico è rappresentata dallo studio con emazie autologhe nella diagnosi differenziale degli angiomi epatici da altre lesioni del parenchima epatico mentre, a livello splenico, la scintigrafia con colloidi o emazie “danneggiate” consente la ricerca di tessuto splenico accessorio o residuo ed il controllo della funzionalità dei trapianti splenici 82

omentali.

Patologia vascolare Lo studio angioscintigrafico consente la valutazione non invasiva della perfusione regionale in ogni distretto corporeo. Di particolare interesse la scintigrafia perfusionale polmonare con macroaggregati di albumina umana marcati, fondamentale nella diagnostica dell’embolia polmonare, e lo studio, con globuli bianchi autologhi marcati, delle sospette infezioni protesiche vascolari, già trattate nel paragrafo relativo alle complicazioni postoperatorie.

Trapianti d’organo La tipica non invasività delle metodiche si presta ottimamente al monitoraggio dei pazienti trapiantati, consentendo una valutazione quantitativa del flusso, del metabolismo e della funzionalità dell’organo trapiantato, come il rene, il fegato, il polmone e il cuore.

Oncologia L’attività di Medicina Nucleare in vitro riveste una fondamentale importanza in campo oncologico, attraverso il dosaggio immunochimico con radioisotopi dei marcatori tumorali, utili soprattutto nella valutazione e nel monitoraggio delle neoplasie. I marcatori tumorali sono sostanze eterogenee dal punto di vista biochimico e possono essere suddivisi in tre gruppi fondamentali: i marcatori tessutospecifici (antigene prostatico specifico o PSA: tessuto prostatico; enolasi neurone-specifica o NSE e cromogranina A o CgA: tessuto neuroendocrino; tireoglobulina o hTG:cellule follicolari tiroidee; calcitonina o CT: cellule C-parafollicolari tiroidee; subunità beta della gonadotropina corionica umana o beta-HCG: sincizio-trofoblasto; proteina S-100: melanociti e cellule neuronali); i marcatori mucinici (CA 125, CA 15.3, CA 19.9) ed i marcatori citocheratinici (TPA,TPS,TPA8-18 e CYFRA 21.1). L’impiego di anticorpi monoclonali marcati diretti contro epitopi tumorali (immunoscintigrafia) non ha completamente risposto alle aspettative a causa delle molteplici variabili immunobiologiche in causa,ma presenta un certo interesse clinico nell’adenocarcinoma del colon-retto,nelle neoplasie ovariche e nel melanoma, particolarmente per quanto riguarda, in casi selezionati, la diagnosi di recidiva loco-regionale,laddove non sia possibile effettuare una PET. Il background immunoscintigrafico ha costituito la base per l’applicazione chirurgica degli anticorpi radiomarcati (chirurgia radioimmunoguidata). Utilizzando traccianti oncotropi è possibile ottenere informazioni relative all’attività tumorale, che possono essere particolarmente dettagliate anche dal punto di vista topografico grazie alle tecniche tomografiche (SPET). Il 67 Ga nei linfomi, il 201TI nelle neoplasie cerebrali, il 99m Tc-sestamibi nelle neoplasie polmonari, tiroidee e mammarie consentono di valutare l’attività proliferativa e metabolica cellulare, e sono utili in fase diagnostica ma soprattutto nel follow up dei pazienti e nella diagnosi differenziale tra esiti post-terapeutici (per esempio dopo radioterapia) e ripresa locale di malattia. Come precedentemente anticipato, lo sviluppo di traccianti recettoriali, e segnatamente degli analoghi radiomarcati della somatostatina, ha permesso lo studio in vivo dell’espressione dei recettori somatostatinergici e, attualmente, l’utilizzo del 111In-pentetreotide consente la localizzazione e la stadiazione di tumori neuroendocrini (Figg. 2.31, 2.32).

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Permane, infine, di primaria importanza clinica l’impiego di metodiche medico-nucleari consolidate nella valutazione del paziente oncologico: in prima istanza la scintigrafia ossea con difosfonati 84

tecneziati nella diagnosi di metastasi ossee e nella valutazione delle neoplasie ossee primitive, l’angio-cardioscintigrafia nella valutazione della cardiotossicità da anti-blastici e, in generale, tutte le indagini che consentono la valutazione degli effetti fisiopatologici della neoplasia e/o della terapia oncologica nei vari apparati (Fig. 2.33).

Tomografia ad emissione di positroni (PET) La PET negli ultimi anni ha abbandonato il suo ruolo di metodica finalizzata alla ricerca fisiologica e fisiopatologica per assumere, con lo sviluppo di nuovi traccianti e l’evoluzione della apparecchiature impiegate, un ruolo di primo piano nella routine diagnostica e per la definizione di strategie terapeutiche individuali, in relazione alla sua maggiore precocità e specificità, rispetto alle metodiche morfologiche a raggi X e di risonanza, nell’identificazione e nella caratterizzazione funzionale delle lesioni e del loro grado di risposta ai differenti tipi di trattamenti. L’impiego della PET in campo clinico è attualmente legato all’impiego pressoché esclusivo di un tracciante di semplice sintesi: il fluorodesossiglucosio (FDG) marcato con Fluoro-18. Tale tracciante del metabolismo glucidico si è dimostrato estremamente versatile e di grande utilità nelle applicazioni in campo cardiologico e, soprattutto, oncologico. Attualmente lo studio PET cardiologico con 18F-FDG costituisce l’unico strumento di provata efficacia nell’individuazione di una corretta scelta terapeutica, consentendo di distinguere, tra i pazienti con pregresso infarto ed importante compromissione contrattile ventricolare sinistra, coloro che realmente possano beneficiare di un intervento di rivascolarizzazione cardiochirurgica da coloro che appaiono esclusivamente candidabili al trapianto d’organo. L’oncologia, tuttavia, costituisce l’ambito clinico di maggiore applicazione degli studi PET, sia in fase diagnostica, sia di stadiazione, nonché di follow up delle neoplasie, con recenti interessanti risvolti legati all’associazione della metodica di immagine con tecniche di chirurgia radioguidata. La caratterizzazione dell’attività metabolica permette, in fase diagnostica, di poter differenziare la natura benigna o maligna di una lesione sospetta. Per esempio, la PET consente di escludere la natura neoplastica dei noduli polmonari singoli, con ampio risparmio di risorse, rendendo spesso inutili ulteriori indagini di tipo invasivo (in particolar modo mediastino o toracoscopie, toracotomie esporative ecc.), da riservarsi solo a casi selezionati. La buona risoluzione spaziale ed il breve tempo necessario, con le nuove apparecchiature, per la 85

scansione del corpo intero hanno contribuito a fornire dati estremamente lusinghieri circa le capacità della PET con 18F-FDG nella stadiazione delle neoplasie, in particolar modo a carico del distretto toracico ed addomino-pelvico, caratterizzandosi come strumento di primo livello nella valutazione dell’estensione di malattia. La PET con 18F-FDG fornisce attualmente lo strumento più accurato nella valutazione delle recidive di malattia, in particolar modo nel campo delle neoplasie del colon-retto, ovariche e cerebrali. Esistono attualmente in fase sperimentale protocolli di fattibilità ed efficacia di chirurgia radioguidata con sonda intraoperatoria utilizzando il 18F-FDG come tracciante diagnostico per imaging e marcatore intraoperatorio del tessuto neoplastico. Infine, l’efficacia della PET nel monitoraggio del trattamento è già stata messa in evidenza nei tumori della mammella, del distretto capo-collo, della tiroide, nei melanomi e nei linfomi.

Applicazioni terapeutiche L’impiego terapeutico dei radiofarmaci comprende diverse applicazioni, alcune delle quali utilizzate ormai da diversi decenni, ed è attualmente oggetto di una intensa attività di ricerca. Il vantaggio fondamentale della terapia con sorgenti radioattive “non sigillate” è determinato dalla possibilità di concentrare il radiofarmaco nel tessuto interessato, sfruttando i processi metabolici, immunologici o recettoriali specifici di quel tessuto. L’utilizzo terapeutico del radioiodio, che sfrutta l’emissione di elettroni in grado di danneggiare selettivamente le cellule follicolari tiroidee, rappresenta il campo di applicazione più noto e maggiormente sperimentato. Il trattamento radiometabolico con 131I è considerato elettivo nei casi di ipertiroidismo da autonomia funzionale (gozzo uni- o multinodulare tossico) e nei casi di morbo di Graves-Basedow recidivante dopo terapia farmacologica. Inoltre, viene utilizzato con ottimi risultati nella terapia “decompressiva” di voluminosi gozzi normofunzionanti in caso di controindicazione all’intervento chirurgico. La terapia con radioiodio, infine, è uno dei cardini fondamentali del trattamento del carcinoma tiroideo differenziato: dopo intervento di tiroidectomia totale, la somministrazione di 131I consente la completa ablazione del tessuto tiroideo residuo. L’assenza di tessuto tiroideo permette, a sua volta, l’impiego del dosaggio della tireoglobulina sierica e della scintigrafia total body con 131I nel follow up del paziente; inoltre, in caso di comparsa di lesioni secondarie iodiocaptanti, il radioiodio rappresenta l’opzione terapeutica principale. In campo oncologico generale, la disponibilità di radiofarmaci ad emissione corpuscolare (elettroni) a tropismo osseo ( 89Sr e difosfonati marcati con isotopi beta-emittenti) viene utilizzata nel trattamento palliativo delle metastasi scheletriche. Il radiofarmaco specifico per il tessuto cromaffine (131IMIBG) è impiegato con successo nel trattamento del neuroblastoma, nei rari casi di feocromocitoma maligno e metastatico, e nel carcinoma midollare tiroideo.Attualmente, l’impiego di analoghi della somatostatina marcati con Yttrio-90 o Indio-111 e di anticorpi monoclonali diretti contro antigeni di superficie linfocitaria marcati con Yttrio-90 o Iodio-131 è oggetto di trials clinici relativamente al trattamento dei tumori neuroendocrini e dei linfomi non-Hodgkin,rispettivamente.

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Biopsie e prelievi citologici C. Capella

Biopsie La biopsia chirurgica è stata introdotta nella pratica medica come mezzo diagnostico essenziale nel 1870 ad opera di due chirurghi tedeschi dell’Università di Berlino: Carl Ruge e Johan Veit. Nel congresso della Società Tedesca di Chirurgia del 1889 vi fu, per la prima volta, un generale accordo sulla necessità di stabilire la diagnosi microscopica prima di procedere ad interventi radicali per tumori maligni. Dopo alcuni anni fu avviata la pratica diagnostica dell’esame intraoperatorio al congelatore,che consentiva di accertare al microscopio, nell’arco di pochi minuti, la natura della lesione da asportare. Successivamente,nei primi anni di questo secolo, soprattutto negli Stati Uniti, si sviluppò la prassi di sottoporre ad esame istologico qualsiasi prelievo bioptico o pezzo operatorio. Anche se fino ad oggi non esistono, nel nostro Paese, norme legislative a questo proposito, tutti i prelievi chirurgici dovrebbero obbligatoriamente essere sottoposti all’esame anatomo-patologico.A volte l’esame non viene richiesto qualora la diagnosi sia evidente o il caso sia ritenuto di scarso interesse. L’esperienza di qualsiasi patologo può ben dimostrare come la seconda eventualità non si verifichi e come sorprese non manchino neppure nei casi considerati banali. Lo studio morfologico macroscopico e microscopico di un pezzo chirurgico permette di stabilire l’estensione delle lesioni, elemento che è di fondamentale importanza, specie in ambito oncologico,per prevedere l’andamento prognostico ed orientare correttamente la terapia.Inoltre esso consente di definire più precisamente la diagnosi eventualmente già espressa su una precedente biopsia della lesione. Il chirurgo e il patologo, per effettuare ed esaminare in modo proficuo una biopsia, devono attenersi ad alcune norme generali. z Tutti i frammenti bioptici ottenuti devono essere inviati al patologo e questi deve esaminare al microscopio tutti i campioni inviati. z I tessuti prelevati non devono essere compressi o schiacciati con pinze e forbici dal chirurgo, al momento del prelievo, o dal patologo, al momento dell’esame macroscopico. z Il pezzo bioptico deve essere subito immerso in un adeguato volume di fissativo, al fine di garantire una conservazione ottimale per l’esame microscopico. Eccezioni a questa regola valgono per campioni da esaminarsi peroperatoriamente al congelatore, per tessuti in cui vanno ricercati recettori ormonali (per estrogeni, progesterone, EGF ecc.), per neoplasie da esaminare con citometria a flusso o per campioni per cui siano ritenute opportune indagini citogenetiche o di biologia molecolare per accertare specifiche alterazioni cromosomiche o mutazioni di oncogeni o di geni oncosoppressori: in questi casi il materiale deve essere inviato, rapidamente, a fresco, al laboratorio di patologia dove viene immediatamente processato. z Il numero di biopsie da effettuarsi deve essere in relazione alle dimensioni della lesione; tanto più voluminosa è questa, tanto maggiore deve essere il numero di prelievi. z Nel caso di lesioni ulcerate il prelievo al centro dell’ulcera può dimostrare solo materiale necrotico non diagnostico. Di fronte a lesioni di questo tipo è sempre meglio eseguire prelievi multipli sia dal fondo sia dai bordi dell’ulcera. z La diagnosi istopatologica su una biopsia deve essere sempre valutata nel contesto clinico generale del paziente; nel caso di discrepanza tra diagnosi clinica e diagnosi istopatologica bisogna sempre considerare la possibilità di ripetere la biopsia. Le biopsie vengono praticate per lo più a scopo diagnostico. La pratica, sempre più frequente e perfezionata delle biopsie endoscopiche e delle agobiopsie (spesso effettuate sotto la guida TC, 87

ecografica o stereotassica), permette inoltre di servirsi dello studio istologico anche per verificare, nel tempo, l’evoluzione di un quadro morboso e la sua risposta alla terapia (come nel caso di neoplasie maligne,di malattie infiammatorie croniche idiopatiche intestinali, di ulcere peptiche). Le biopsie sono anche utili per accertare l’estensione e quindi la stadiazione di un processo patologico (laparotomia esplorativa in pazienti affetti da linfoma maligno di Hodgkin, diagnosi di metastasi ossee in pazienti con neoplasie polmonari). Le biopsie vengono definite incisionali quando viene campionata una sola parte della lesione. In questo caso la biopsia ha solo uno scopo diagnostico. La biopsia escissionale, al contrario, comporta l’asportazione completa della lesione con una rima di tessuto normale circostante (Fig. 2.34). Questa procedura risponde ad esigenze sia diagnostiche sia terapeutiche. La scelta di effettuare una biopsia incisionale o escissionale è in relazione alle dimensioni e alla sede della lesione. Lesioni di piccolo diametro debbono essere asportate completamente. Per lesioni voluminose e profonde è preferibile una biopsia incisionale, perché la scelta dell’intervento chirurgico di ablazione è spesso condizionata dal tipo istologico, se trattasi di neoplasia. Le biopsie, come si è accennato sopra, possono essere distinte, sulla base del tipo di strumento utilizzato per effettuarle, in biopsie a lama fredda, con bisturi elettrico, con ago ed endoscopiche. Di queste le meno appropriate per una valutazione microscopica sono quelle ottenute con bisturi elettrico perché presentano marcate alterazioni citologiche di tipo termico che spesso non consentono di giungere ad una diagnosi definitiva.

Prelievi citologici La diagnostica citologica occupa oggi una parte di grande rilievo nell’ambito dell’attività di un servizio di anatomia patologica, specie da quando è stato dato avvio ad indagini sistematiche per la diagnosi precoce del carcinoma cervicouterino, e per il monitoraggio di soggetti “a rischio”per determinate neoplasie (vescicali, polmonari). Un ulteriore sviluppo si è verificato, in questi ultimi anni, con l’introduzione della tecnica di agoaspirazione con ago sottile. È fuor di dubbio che la diagnostica citologica, quando effettuata da personale esperto e ben preparato, offre un elevato grado di affidabilità, oltre ad essere una tecnica diagnostica di rapida esecuzione, di basso costo e che non arreca alcun danno al paziente. Le indagini citodiagnostiche possono essere distinte in base alle modalità con cui si effettua il prelievo. Il termine citologia esfoliativa si riferisce all’esame effettuato su cellule che sfaldano spontaneamente da un tessuto (in genere un epitelio di rivestimento) e vengono raccolte con particolari procedure tecniche. Nella citologia per agoaspirazione le cellule da esaminare vengono ottenute mediante la puntura di un organo o di un tessuto con una siringa munita di ago sottile (di diametro compreso tra 0,6 e 0,9 mm). Altre modalità con cui si può raccogliere un materiale citologico comprendono lo spazzolamento (brushing) con appositi dispositivi applicati ad un endoscopio (broncoscopio, gastroscopio eccetera) a fibre ottiche ed il lavaggio di cavità naturali dell’organismo (cavità peritoneale, vescica). Le sedi che vengono più spesso indagate con la citologia esfoliativa sono le vie respiratorie, le vie urinarie, i versamenti in cavità sierose, l’apparato genitale femminile, il secreto mammario, il liquido cefalo-rachidiano, il liquido articolare, i liquidi contenuti in formazioni cistiche patologiche. Le più importanti applicazioni della citologia esfoliativa sono principalmente nella diagnostica oncologica: studio di casi clinicamente sospetti, screening di massa, controllo nel tempo di pazienti trattati (per carcinomi polmonari, vescicali, uterini). La citodiagnostica mediante aspirazione con ago sottile trova impieghi sempre più ampi e sostituisce spesso la biopsia chirurgica, offrendo, rispetto a questa, indubbi vantaggi: minimo disagio per il paziente, rapidità di esecuzione e di diagnosi (ottenibile nell’arco di 2-3 ore), facile ripetibilità, nessuna necessità di ricovero o di anestesia. Inoltre, il materiale citoaspirato è 88

perfettamente idoneo per indagini con tecniche speciali quali la microscopia elettronica, la citometria a flusso, la citogenetica e la biologia molecolare. L’accuratezza diagnostica di questa tecnica è tanto più elevata quanto più stretta è la collaborazione tra clinico, radiologo (nel caso di prelievi eco- o TC-guidati) e citologo. È particolarmente importante che il citologo effettui personalmente il prelievo, o almeno assista all’esecuzione di esso, provvedendo alla adeguata raccolta e trattamento del materiale citologico aspirato. Le sedi in cui viene più frequentemente impiegata questa tecnica sono la testa e il collo (ghiandole salivari, cisti mediane e laterali del collo, tiroide, linfonodi), la mammella, il polmone, il mediastino, gli organi e le masse addominali (Fig. 2.34). La tecnica è utilizzata principalmente per la diagnostica di neoplasie soprattutto al fine di stabilire la natura benigna o maligna di una massa palpabile o evidenziabile con mezzi radiologici. In relazione a questo, l’agoaspirazione ha un elevato valore diagnostico quando vengono riconosciute cellule maligne, al contrario un reperto negativo non esclude la presenza di una neoplasia maligna; con questa metodica diagnostica sono infatti rari i risultati “falsi positivi” (cellule non neoplastiche interpretate come elementi maligni) mentre sono di più frequente riscontro i risultati “falsi negativi” (citologia negativa in presenza di un tumore maligno clinicamente evidente).

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Letture suggerite z

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3 Valutazione e preparazione preoperatoria 3.1 Valutazione delle condizioni generali 3.2 Prevenzione delle complicanze postoperatorie 3.3 Preparazione preoperatoria 3.4 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 3

Valutazione e preparazione preoperatoria L. Dominioni

Valutazione delle condizioni generali La valutazione preoperatoria del paziente si basa, oltre che sulle indagini di tipo diagnostico che si riferiscono alla patologia di base per la quale il paziente è venuto alla osservazione del medico, anche su una definizione completa delle condizioni generali. Questa ultima valutazione è indispensabile prima di ogni intervento chirurgico, e ha i seguenti scopi: z identificare il paziente a rischio di complicanze anestesiologiche e/o chirurgiche; z pianificare la preparazione del paziente all’intervento; z prevenire le complicanze postoperatorie. Una valutazione completa delle condizioni generali e delle modificazioni fisiopatologiche instauratesi, eventualmente causate dalla malattia in atto, richiede: z Esame dei dati raccolti in anamnesi (fisiologica, familiare, patologica remota e prossima), che possono suggerire alterazioni patologiche dei principali sistemi,organi ed apparati, sia di tipo congenito (per es. talassemia), che acquisito (per es. broncopatia ostruttiva nel fumatore, insufficienza cardiaca da infarto ecc.). Particolarmente importante è l’indagine anamnestica relativa a: assunzione di farmaci, diatesi emorragica, allergie, intolleranze farmacologiche (per es. antibiotici), problemi eventualmente insorti in occasione di precedenti anestesie. z Esame obiettivo completo: oltre al rilievo dei segni vitali (sensorio, caratteri del respiro, caratteri del polso e pressione arteriosa), l’esame obiettivo deve condurre ad una valutazione sistematica di tutti gli organi ed apparati del paziente, così da mettere in luce non solo la patologia specifica oggetto della terapia chirurgica proposta, ma anche altri deficit che possono condizionare un aumento del rischio anestesiologico e/o chirurgico (vedi oltre). Particolarmente importante, ai fini della determinazione del rischio operatorio, è l’esame obiettivo di: sistema nervoso centrale e periferico (comprese eventuali alterazioni dello stato psichico), apparato respiratorio (pervietà delle vie aeree ed esame funzionale),apparato cardiocircolatorio, cute e mucose visibili (condizioni di sanguificazione e di perfusione tessutale; eventuali ferite, cicatrici e/o infezioni presenti), apparato urinario, fegato. Talune patologie a carico di singoli apparati od organi devono essere indagate approfondendo anche aspetti particolari dell’esame obiettivo, che non vengono rilevati di routine (per es. esame neurologico completo, esplorazione rettale, vaginale ecc.). 93

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Esame radiografico del torace in due proiezioni (postero-anteriore e laterale). Elettrocardiogramma (ECG). Esame delle urine. Esame emocromocitometrico completo. Determinazioni ematochimiche fondamentali: azotemia, glicemia, elettroliti (sodio, potassio, calcio, cloruri), enzimi epatici (transaminasi), bilirubina, ALP, creatinina, albumina, proteine totali. Prove di coagulazione del sangue (tempo di Quick, PTT, conta piastrine). Determinazione della concentrazione delle pseudocolinesterasi plasmatiche (per i pazienti candidati a ricevere farmaci curarizzanti).

Valutazione dei fattori di rischio Nonostante siano state messe a punto numerose scale di rischio specifico cardiologico, respiratorio, renale ed epatico, è spesso difficile stabilire il rischio globale per il singolo paziente.  La valutazione complessiva del rischio deve essere differenziata in relazione: x alle condizioni generali del paziente; x alla patologia specifica; x al tipo di intervento chirurgico a cui il paziente è candidato. La classificazione del rischio anestesiologico più utilizzata è quella della American Society of Anesthesiologists (ASA) (Tab. 3.1). Questa classificazione, che suddivide i pazienti in diverse classi prognostiche, aiuta l’anestesista a definire quando il paziente è nelle condizioni migliori per essere sottoposto all’anestesia e all’intervento. I fattori di rischio più importanti per la comparsa di complicanze anestesiologiche e chirurgiche sono elencati nella Tabella 3.2.

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Età L’età neonatale e l’età geriatrica (> 70 anni) rappresentano condizioni di aumentato rischio anestesiologico e chirurgico. I pazienti chirurgici neonati, e in particolar modo i prematuri, hanno una maggiore suscettibilità alle infezioni per l’incompleto sviluppo del sistema immunitario e dei meccanismi di difesa aspecifici. Essi presentano problemi anestesiologici e chirurgici particolari in relazione alle ridotte dimensioni corporee, ad una diminuita tolleranza alle modificazioni dell’omeostasi idroelettrolitica e termica e in relazione al minor margine di errore consentito nell’impiego delle metodiche anestesiologiche e rianimatorie (assistenza cardiocircolatoria e ventilatoria, apporto di sangue e liquidi ecc.). I pazienti in età avanzata che vengono sottoposti a terapia chirurgica sono sempre più numerosi. Il paziente chirurgico geriatrico presenta due categorie distinte di problemi: da un lato l’aumentata probabilità di patologie concomitanti, dall’altro le naturali alterazioni degenerative dei vari apparati, in particolare di quello cardiocircolatorio, respiratorio, renale, del sistema nervoso centrale e del fegato.  Nel paziente geriatrico occorrerà quindi indagare attentamente la funzione respiratoria, cardiaca e metabolica e puntualizzare gli eventuali trattamenti farmacologici in atto. Spesso il paziente geriatrico si trova in uno stato di disidratazione (trattamenti con diuretici, diminuito apporto di liquidi) o di denutrizione, presentando quindi una aumentata suscettibilità alle infezioni. Nell’anziano si ha inoltre una diminuita riserva fisiologica con scarsa adattabilità a situazioni critiche. Le patologie associate che più frequentemente si osservano nel paziente anziano sono l’ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco congestizio, le aritmie cardiache, le malattie polmonari croniche, il diabete e l’artrosi. Queste malattie,anche quando ben controllate, sono causa di aumento di morbilità e mortalità nei pazienti chirurgici in età geriatrica. 95

Malattie respiratorie e fumo La valutazione preoperatoria dell’apparato respiratorio si pone come obiettivo l’identificazione di pazienti portatori di patologie polmonari, con aumentato rischio chirurgico e, qualora necessario, l’impostazione di trattamenti preoperatori atti a migliorare la funzionalità respiratoria. Si deve interrogare il paziente sulla presenza di tosse produttiva o secca, di recenti infezioni polmonari, di emottisi, d’asma, di dispnea; si deve indagare inoltre l’eventuale insorgenza di complicanze polmonari in occasione di pregressi interventi chirurgici. Il fumo deve essere sospeso 4-6 settimane prima dell’intervento per ridurre la morbilità postoperatoria. La sospensione del fumo il giorno precedente l’intervento riduce solo i livelli ematici di monossido di carbonio, mentre la sospensione per alcuni giorni migliora la funzionalità dell’epitelio respiratorio; risultati positivi nel ridurre la quantità di secrezioni e nel migliorare la clearance mucociliare si ottengono solo con astensioni dal fumo più prolungate. All’esame obiettivo del torace si ricercheranno rumori patologici e si valuterà il tempo inspiratorio ed espiratorio. Individuati i pazienti a rischio, si adotteranno i presidi atti a migliorare la situazione polmonare: eradicazione dei processi infettivi acuti e controllo di quelli cronici mediante terapia broncodilatante, fisioterapia respiratoria, farmaci mucolitici ed idratazione, sospensione del fumo.

 Le complicanze polmonari perioperatorie di più frequente riscontro sono l’atelettasia, di vario grado, e la polmonite. La presenza di patologie polmonari preesistenti aumenta la frequenza e la gravità di queste complicanze; anche il tipo di intervento chirurgico ne influenza l’incidenza; essa è maggiore dopo interventi a torace aperto o interessanti i quadranti addominali superiori. Nella valutazione preoperatoria della funzionalità respiratoria, dopo un accurato esame obiettivo speciale, va eseguita di routine la radiografia del torace e, se necessario, la spirometria e la emogasanalisi arteriosa.

Malattie cardiovascolari La valutazione cardiocircolatoria deve essere orientata ad individuare la presenza di patologia cardiaca e a caratterizzarla.  In tutti i pazienti da sottoporre ad intervento chirurgico vengono eseguiti una radiografia del torace nelle due proiezioni, postero-anteriore e laterale, e un tracciato elettrocardiografico. Questi dati, insieme ad un’accurata anamnesi ed all’esame obiettivo cardiaco, consentono di valutare se occorre approfondire con ulteriori analisi la funzionalità cardiaca del paziente. È necessario in particolare ricercare la presenza di una eventuale cardiopatia ischemica in atto o i suoi esiti, di patologia valvolare e di turbe del ritmo e della conduzione. La valutazione del paziente con cardiopatia ischemica deve essere volta ad individuare la presenza di pregresso infarto (un infarto del miocardio negli ultimi 6 mesi controindica l’intervento chirurgico di elezione) e il grado di riserva coronarica. Una volta accertata la preesistenza di patologia coronarica è indicato approfondire la valutazione del paziente con ECG da sforzo, ECG dinamico secondo Holter, ecocardiografia, esami radioisotopici (valutazione della frazione di eiezione). La ricerca di segni di scompenso cardiaco è altresì di importanza fondamentale; essa si basa su dati anamnestici, clinici e radiografici (dispnea da sforzo o a riposo, tachicardia, insufficienza mitralica, ritmo di galoppo, cardiomegalia, pregressi episodi di edema polmonare acuto ecc.). Anche in questo 96

caso si rivela utile approfondire gli accertamenti con ecocardiografia ed eventuali studi radioisotopici (frazione di eiezione). Nei pazienti portatori di cardiopatia valvolare è utile determinare il grado della valvulopatia e ricercare i segni associati di patologia ischemica e di scompenso; va ricordata la necessità della profilassi antibiotica delle endocarditi nei pazienti valvulopatici. I pazienti portatori di patologia cardiovascolare possono essere inquadrati in 4 classi secondo la classificazione della New York Heart Association (NYHA) (Tab. 3.3).

Generalmente i pazienti appartenenti alle classi 1 e 2 tollerano bene l’intervento chirurgico, mentre nelle classi superiori si ha un aumento della mortalità postoperatoria. Nei pazienti affetti da patologia cardiaca, è di fondamentale importanza attuare tutti i presidi terapeutici atti a migliorare le condizioni del paziente, ottimizzando le dosi della terapia farmacologica (digitale, diuretici, antiaritmici, calcioantagonisti, betabloccanti ecc.), la volemia (diuretici, dieta e controllo dell’infusione di liquidi), l’ematosi (ossigenoterapia), e l’equilibrio elettrolitico plasmatico.

Diabete Il paziente può presentare diabete di tipo I (insulinodipendente) quando l’alterazione del metabolismo glucidico è legata alla carenza assoluta di insulina, oppure diabete di tipo II in cui invece si ha o una parziale riduzione della capacità di produrre e secernere insulina o un’aumentata resistenza all’ormone. Nel paziente affetto da diabete di tipo I, la complicanza più temibile è la chetoacidosi, mentre nel tipo II è il coma iperosmolare.  Nella valutazione del paziente andranno puntualizzati il tipo di diabete e la terapia in atto: dieta, ipoglicemizzanti orali, insulina. Andrà inoltre valutato se il paziente ha un buon controllo metabolico o se esistono degli squilibri glicemici. Si ricercheranno eventuali episodi pregressi di coma diabetico ed eventuali episodi di ipoglicemia. Dovranno essere ricercati i segni delle principali complicanze del diabete a livello renale, nervoso e vascolare. Nei pazienti in trattamento con ipoglicemizzanti orali da sottoporre ad intervento chirurgico minore sarà sufficiente controllare la glicemia e sospendere la terapia in atto in caso di digiuno. Se l’intervento è di entità maggiore, sarà opportuno sostituire l’ipoglicemizzante orale con il trattamento insulinico alcuni giorni prima dell’intervento. In tutti i pazienti occorre ricordare che l’intervento chirurgico, inducendo una situazione di stress, altera il fabbisogno insulinico e quindi è necessario nell’immediato periodo postoperatorio un monitoraggio intensivo della glicemia; su questa va modulata la terapia. Occorrerà inoltre prestare attenzione ad evitare episodi di ipoglicemia prolungata, infatti questi possono determinare sequele ben più gravi per il paziente che non quelle provocate da modiche iperglicemie.

L’obiettivo nel postoperatorio sarà quello di evitare sia il coma ipoglicemico sia il coma iperglicemico e di mantenere la glicemia tra 80 e 170 mg/100 ml, evitando quindi glicosuria. 97

Obesità Le alterazioni fisiopatologiche correlate all’obesità interessano tutti i principali organi e sistemi. Nei pazienti obesi si osserva una maggiore incidenza di cardiopatie e di accidenti vascolari cerebrali. Il paziente obeso ha inoltre una diminuita riserva cardiorespiratoria ed una aumentata incidenza di vasculopatia arteriosclerotica, diabete e trombosi venose. Nella valutazione preoperatoria andranno ricercati segni di cardiopatia ischemica, congestizia, segni di sovraccarico ventricolare e di insufficienza respiratoria. È indispensabile valutare anche quantitativamente la riserva respiratoria mediante spirometria e gasanalisi su sangue arterioso per poter esprimere un giudizio sulla possibilità di autonomia respiratoria del paziente nel periodo postoperatorio. È raro incontrare pazienti chirurgici dalla cui anamnesi non risulti assunzione di farmaci. Nella valutazione della terapia farmacologica seguita dal paziente occorre considerare sia l’effetto specifico dei farmaci, sia le loro possibili interazioni e i motivi per cui sono stati assunti. I farmaci non strettamente necessari devono essere sospesi preoperatoriamente, per un periodo sufficientemente lungo in modo che al momento dell’intervento non siano più presenti i loro effetti. Per i farmaci di cui è controindicata la sospensione (per es. digitale, aminofillina, fenobarbitale ecc.) è opportuno determinare le concentrazioni plasmatiche in modo da ottimizzare la posologia. Gli eventuali effetti collaterali indotti da farmaci somministrati andranno corretti preoperatoriamente quando possibile (per es. alterazioni elettrolitiche in seguito a terapia diuretica). I farmaci i cui dosaggi vanno talora modificati in previsione di un intervento chirurgico sono essenzialmente gli anticoagulanti, gli ipoglicemizzanti e alcuni farmaci ad azione sul sistema nervoso centrale. Gli inibitori delle monoaminossidasi (IMAO), andranno sospesi almeno due settimane prima dell’intervento, per le loro possibili interazioni con le amine simpaticomimetiche, da cui possono derivare squilibri pressori, convulsioni e coma. Nei pazienti in trattamento con anticoagulanti orali è opportuno sospendere tali farmaci e istituire invece un trattamento eparinico, più maneggevole sia per la rapidità d’azione che per la breve emivita dell’eparina, facilmente antagonizzabile con solfato di protamina. In previsione di un intervento chirurgico maggiore è pure indicato sospendere l’uso di antidiabetici orali e sostituirli con il trattamento insulinico; l’insulina presenta infatti maggior flessibilità di impiego nella regolazione del metabolismo glucidico nel periodo postoperatorio. È utile infine ricordare che nei pazienti che nel periodo precedente l’intervento hanno assunto corticosteroidi in modo continuativo è opportuno ripristinare nel periodo postoperatorio una terapia steroidea, così da supplire alla eventuale riduzione della risposta allo stress dell’asse ipofisi-surrene. Nelle pazienti che assumono farmaci contraccettivi estroprogestinici si osserva un aumentato rischio di trombosi venosa nel periodo postoperatorio, secondario ad una aumentata coagulabilità del sangue. In tali pazienti è particolarmente elevato il rischio di trombosi delle vene profonde degli arti inferiori e delle vene pelviche,di embolia polmonare e di trombosi venosa mesenterica e portale; ciò richiede il monitoraggio accurato dei test di coagulazione del sangue e una profilassi antitrombotica con calciparina a dosaggio pieno.

Denutrizione È stato osservato che la denutrizione è una condizione patologica che assai spesso si associa alla comparsa di gravi complicanze postoperatorie ed anche ad una maggiore mortalità. La compromissione dello stato di nutrizione è caratterizzata dalla deplezione delle riserve energetiche e della massa corporea cellulare magra, che determina una ridotta efficienza dei meccanismi di difesa aspecifici e specifici.  Un calo ponderale (non volontario) superiore al 10% del peso corporeo abituale, rappresenta un fattore di rischio per complicanze settiche postoperatorie, specialmente qualora sia associato alla disfunzione di due o più organi o sistemi (fegato; apparato respiratorio, muscolo-scheletrico, nervoso). La valutazione dello stato nutrizionale si può eseguire in modo accurato determinando 4 classi di parametri (clinici, antropometrici, bioumorali, immunologici), elencati nella Tabella 3.4; tali parametri consentono di: 98

x definire accuratamente il grado ed il tipo di malnutrizione; x valutare la risposta del paziente al reintegro nutrizionale; x definire il rischio legato allo stato di denutrizione.

Altre condizioni patologiche Vi sono numerose altre patologie, sia organiche che funzionali, che determinano un aumento del rischio di complicanze postoperatorie. z Tra queste sono da ricordare l’insufficienza epatica e quella renale, che compromettono il metabolismo dei farmaci anestesiologici, il mantenimento dell’omeostasi metabolica e dei liquidi nel periodo perioperatorio, l’eliminazione dei cataboliti. z Le condizioni di shock preoperatorio di vario tipo, anche transitorie, sono caratterizzate da un deficit di perfusione tissutale che si riflette, soprattutto in sede di ferita chirurgica, in una diminuzione dei meccanismi di difesa (diminuito apporto di ossigeno, proteine ed elementi cellulari immunocompetenti). z Le neoplasie si associano talora a stati di immunodepressione che facilitano la comparsa di complicanze settiche postoperatorie; analogamente rappresentano un fattore di rischio gli stati di immunodepressione iatrogena (radioterapia, chemioterapia, cortisonici ecc.). z Le infezioni preesistenti costituiscono un fattore facilitante la comparsa di ulteriori infezioni postoperatorie, dovute a contaminazione del campo operatorio, o a diffusione linfoematogena. z Le coagulopatie costituiscono un rischio elevato di complicanze chirurgiche, ostacolando l’emostasi intraoperatoria e favorendo l’insorgenza di emorragia postoperatoria.

Identificazione del paziente ad alto rischio L’identificazione dei fattori di rischio illustrati nel paragrafo precedente e riassunti nella Tabella 3.2, consente di valutare l’entità del rischio stesso. 99

Nell’ultimo decennio sono stati messi a punto alcuni indici e alcune formule matematiche utilizzabili per prevedere la comparsa di complicanze postoperatorie. In un paziente gravemente denutrito la valutazione clinica dello stato nutrizionale è sufficiente da sola a prevedere un elevato rischio di complicanze postoperatorie; tuttavia nel paziente moderatamente denutrito si osservano solitamente alterazioni più sfumate dei parametri nutrizionali, la cui interpretazione non è facile. Un elenco completo degli indici predittivi nutrizionali ed immunologici, utile alla identificazione del paziente ad alto rischio, sulla base delle alterazioni delle condizioni generali che si riflettono sullo stato di nutrizione, è stato pubblicato su Eur. Sur. Res. 18:201, 1986.  Allo scopo di selezionare i fattori nutrizionali maggiormente utili per la determinazione del rischio di complicanze, è stata eseguita un’analisi multivariata di tali fattori, ed è stato evidenziato che quelli più importanti e più utili per l’impiego clinico sono: x calo ponderale recente (non volontario) > 10% del peso corporeo abituale; x albuminemia < 3,5 g/dl; x anergia agli “skin tests”; x diminuzione del conteggio dei linfociti circolanti (< 1500/mm3).

Visite specialistiche  La visita specialistica dell’anestesista è obbligatoria prima di ogni intervento chirurgico in anestesia generale o locoregionale; essa va fatta precedere dagli esami di laboratorio, radiologici, strumentali e dal parere scritto degli eventuali specialisti che sono utili all’anestesista per valutare le condizioni del paziente, per definire il rischio anestesiologico e per pianificare il tipo di anestesia. Il consulto con altri specialisti viene richiesto nei casi in cui il paziente sia affetto da patologie specifiche che per la loro natura o complessità non possono essere approfondite dal chirurgo dal punto di vista diagnostico o terapeutico.

Gli specialisti più frequentemente consultati dal chirurgo sono i seguenti: cardiologo, pneumologo, urologo, gastroenterologo, otorinolaringoiatra, ginecologo ed endocrinologo.

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Prevenzione delle complicanze postoperatorie Chemioprofilassi antinfettiva L’impiego degli antibiotici per la profilassi delle infezioni chirurgiche è stato razionalizzato nell’ultimo decennio. L’efficacia della chemioprofilassi antibiotica,qualora vengano correttamente applicati gli schemi terapeutici, e l’intervento chirurgico sia eseguito con tecnica corretta e scrupolosa, è ben documentata. Il vantaggio della ridotta incidenza di infezioni deve essere comunque valutato in rapporto al rischio di reazioni allergiche ai farmaci ed alla loro tossicità, alla possibilità di selezionare ceppi batterici resistenti e di provocare la comparsa di superinfezioni. Non si deve inoltre trascurare l’aspetto economico legato al costo dei farmaci utilizzati. La profilassi antibiotica delle infezioni chirurgiche può essere locale oppure sistemica.

Profilassi antibiotica locale Lo scopo della profilassi antibiotica locale, effettuata a livello della ferita chirurgica, è di ottenere una elevata attività batteriostatica o battericida nella sede di effettiva o potenziale contaminazione batterica. I requisiti che dovrebbero avere gli antibiotici da impiegare localmente sono riassunti nella Tabella 3.5.

L’impiego di neomicina, kanamicina e cefalosporine su ferite potenzialmente contaminate o sicuramente contaminate permette di ridurre in modo significativo l’incidenza di infezioni; meno efficace è risultato l’impiego locale di ampicillina, penicillina e antisettici iodati. La profilassi antibiotica locale non è generalmente indicata negli interventi puliti, salvo che sia programmato l’impiego di materiale protesico (protesi vascolari, articolari ecc.). Per la profilassi locale delle infezioni di ferita non è necessario aggiungere antibiotici alle soluzioni di lavaggio della ferita. Quando la contaminazione endogena (contaminazione da batteri normalmente presenti nell’organismo – flora batterica intestinale) è minima, è sufficiente la detersione meccanica della ferita eseguita mediante ripetuti lavaggi con soluzione fisiologica sterile; ciò raggiunge lo scopo di ridurre significativamente il numero dei batteri presenti in sede di ferita sia che la soluzione contenga antibiotici, sia che non li contenga.

Profilassi antibiotica sistemica Lo scopo della profilassi sistemica è di realizzare una difesa antibatterica efficace, ottenendo la massima concentrazione di antibiotico a livello dei tessuti al momento della loro sezione chirurgica. Le indicazioni all’impiego dell’antibiotico-profilassi sistemica sono illustrati nella Tabella 3.6.

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La chemioprofilassi è particolarmente efficace se viene eseguita prima del momento in cui presumibilmente avverrà la contaminazione. La maggior parte dei chemioterapici raggiunge la massima concentrazione tissutale a distanza di 60-90 minuti dalla somministrazione endovenosa; in pratica quindi la somministrazione dell’antibiotico deve avvenire al momento della preanestesia, cioè a pochi minuti dall’intervento; in questo modo la massima concentrazione tissutale coincide con il momento della sezione chirurgica dei tessuti. Quando l’intervento chirurgico si prolunga (oltre 4-5 ore), è opportuno somministrare intraoperatoriamente una seconda dose di antibiotico, ad eccezione del caso in cui il chemioterapico sia dotato di emivita sierica prolungata. Nella scelta dell’antibiotico o di una associazione di antibiotici si deve tener conto della popolazione batterica che presumibilmente contaminerà il campo operatorio in quel particolare tipo di intervento. Per esempio, nel caso di intervento sul grosso intestino, la scelta degli antibiotici per la profilassi delle infezioni dovrà indirizzarsi verso farmaci che agiscono elettivamente e contemporaneamente sui germi Gram negativi aerobi e sugli anaerobi. La durata complessiva della profilassi antibiotica è oggetto di pareri non univoci. La maggior parte dei chirurghi sostengono l’efficacia di un’unica somministrazione di antibiotico poco prima dell’intervento chirurgico (short term prophylaxis); altri ritengono, al contrario, che la somministrazione profilattica degli antibiotici debba essere ripetuta 2 o 3 volte nelle prime 24 ore dopo l’intervento.

Profilassi antitrombotica La trombosi venosa rappresenta una delle complicanze potenzialmente più gravi nei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici, nei politraumatizzati e nei pazienti anziani costretti a letto. La gravità di questa complicanza consiste nel rischio di possibile embolia polmonare.  I distretti venosi più frequentemente interessati sono le vene superficiali e profonde degli arti inferiori (vene safene, tibiali, poplitea, e femorale), e le vene pelviche maggiori (vena iliaca interna, esterna e comune). I fattori patogenetici delle flebotrombosi sono riassunti dalla triade di Virchow: x rallentamento del flusso venoso; x alterazione della parete venosa; x aumento della coagulabilità del sangue. Le malattie che determinano la comparsa di uno o più di questi tre fattori comportano un elevato rischio di trombosi venosa. Il rischio di insorgenza di trombosi venosa profonda (TVP), che rappresenta la complicanza trombotica più grave, può essere ridotto identificando i pazienti a rischio maggiore e adottando per essi opportune misure di profilassi. Per quanto riguarda l’età, si ritiene che già dopo i 40 anni aumenti significativamente il rischio di TVP. In pratica, un gran numero di pazienti presenta uno o più fattori di rischio di TVP e ben si comprende l’importanza di adottare opportune misure di profilassi. 102

 I fattori di rischio di TVP sono: x il tipo di intervento chirurgico (in particolare gli interventi ortopedici e quelli sulla pelvi) e i traumi gravi; x la gravidanza e il puerperio; x l’infarto del miocardio; x l’insufficienza cardiaca congestizia; x gli accidenti cerebrovascolari; x la presenza di neoplasie; x l’età > 40 anni; x la presenza di vene varicose; x pregressi episodi di tromboembolia venosa; x l’immobilizzazione prolungata; x l’uso di contraccettivi orali. Tra le misure più semplici intese ad evitare un rallentamento del flusso sanguigno, che rappresenta uno dei fattori patogenetici primari della TVP, vanno considerati: x la mobilizzazione precoce del paziente a partire dalla prima giornata postoperatoria; x il sollevamento degli arti inferiori (di circa 15°-20°) dal piano del letto durante e dopo l’intervento chirurgico; x la fisioterapia pre- e postoperatoria, di tipo motorio e respiratorio. In alcuni casi tuttavia tali accorgimenti, che comportano di necessità la collaborazione attiva del paziente, non sono possibili o sono insufficienti. Sono stati pertanto presi in considerazione metodi fisici di profilassi indipendenti dalla collaborazione del paziente; tra questi la compressione pneumatica intermittente dell’arto inferiore, mediante gambali gonfiabili, rappresenta il metodo più diffuso e più semplice. La profilassi farmacologica delle TVP più largamente impiegata è la somministrazione di preparazioni di eparina a lento assorbimento (eparina calcica) per via sottocutanea. Vi sono due schemi fondamentali di profilassi della TVP con eparina calcica. Uno schema prevede che il trattamento sia iniziato 2 ore prima dell’intervento, con la somministrazione di 5000 UI, e sia proseguito nel postoperatorio somministrando da 2 a 3 volte nelle 24 ore 5000 UI per almeno 7-10 gg. Un altro schema, più diffuso perché elimina l’inconveniente di un possibile aumentato sanguinamento intraoperatorio, prevede la somministrazione subito dopo l’intervento di eparina calcica 2500-5000 UI (a seconda del numero dei fattori di rischio) ogni 8 ore (oppure di eparina calcica a basso peso molecolare in unica somministrazione giornaliera sottocute di 3000 UI) per 7 gg., ed eventualmente anche per un periodo più prolungato, fino ad attenuazione del rischio. In caso di TVP recentemente instauratasi, si deve attuare una terapia che ha lo scopo di prevenire l’estensione del trombo e la complicanza embolica polmonare. In questo caso viene somministrata eparina sodica per via endovenosa; dopo una dose iniziale in bolo di 5.000 UI, si somministrano 15-20 UI/kg/ora in infusione continua controllata. In caso di somministrazione di eparina, sia sottocutanea che endovenosa, è necessario controllare accuratamente la coagulazione del sangue. I test di laboratorio per il monitoraggio della coagulazione del sangue durante trattamento eparinico sono: il tempo di Quick e il PTT. Si deve sorvegliare la eventuale comparsa di segni clinici di emorragia, a livello delle ferite chirurgiche, delle mucose visibili, del tubo digerente (melena) e delle vie urinarie (ematuria). L’aumento del tempo di coagulazione oltre 2-3 volte la norma, l’aumento del PTT oltre 2-3 volte la norma o la diminuzione del tempo di Quick al di sotto del 30% devono indurre alla riduzione o alla sospensione temporanea della eparinizzazione.

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Preparazione preoperatoria Preparazione dell’intestino I pazienti candidati ad interventi chirurgici in anestesia generale devono interrompere l’assunzione di alimenti solidi per 12 ore e di liquidi per almeno 8 ore prima dell’intervento, al fine di evitare il ristagno di alimenti nello stomaco e il verificarsi di pericolosi episodi di vomito o rigurgito al momento dell’anestesia (rischio di polmonite da inalazione di ingesti). Se vi sono segni clinici e radiologici di gastrectasia o di stasi gastrica di alimenti, è necessario eseguire una gastrolusi preoperatoria. I pazienti che non devono essere sottoposti ad interventi chirurgici endoaddominali (seguiti di regola da un periodo di ileo paralitico), e che presentano abitudini intestinali regolari, non necessitano di pulizia intestinale mediante purganti o clisteri.  I pazienti affetti da costipazione intestinale e quelli candidati ad interventi sul tubo digerente prossimale rispetto al colon, devono essere preparati con 1-2 clisteri evacuativi. Una accurata preparazione meccanica dell’intestino è indispensabile per gli interventi sul colon retto; essa ha lo scopo di allontanare il materiale fecale dall’ultimo tratto del tubo gastroenterico, in modo da ottenere una riduzione del numero dei batteri presenti e quindi una diminuzione dell’entità della contaminazione endogena intraoperatoria. La semplice preparazione meccanica intestinale, tuttavia, anche se correttamente eseguita, consente solo una riduzione della carica batterica; pertanto, alla preparazione meccanica si deve associare la preparazione antibiotica dell’intestino con farmaci idonei a ottenere una drastica riduzione del numero di germi ivi presenti. Ciò consente una significativa riduzione dell’incidenza delle infezioni di ferita, delle deiscenze anastomotiche, degli ascessi endoaddominali e della mortalità. Gli schemi di preparazione antibiotica intestinale più comunemente usati prevedono l’impiego di farmaci attivi contro i germi aerobi ed anaerobi (per es. aminoglicoside + clindamicina o metronidazolo; cefalosporina di III generazione).

Vi sono tre metodi principali impiegati per la preparazione meccanica intestinale. Lassativi, clisteri e dieta: questo metodo prevede la somministrazione di una dieta a basso residuo di scorie nei due giorni precedenti all’intervento; purgante energico (sennosidi; solfato di Mg), 24 ore prima dell’intervento e successivamente dieta idrica; due clisteri di un litro circa rispettivamente 12 ore e 4 ore prima dell’intervento. z

Purganti osmotici: il metodo è indicato nei pazienti che non sono in grado di trattenere i clisteri evacuativi; consiste nella somministrazione orale di polietilenglicole (PEG) oppure di mannitolo al 10%, seguita da abbondante assunzione di acqua (2-4 l), la sera prima dell’intervento. z

La “whole gut irrigation”: questa tecnica di preparazione meccanica intestinale, consiste nella perfusione, attraverso un sondino naso-gastrico, di soluzione isotonica di NaCl a velocità elevata (24 l/ora). L’infusione viene continuata per circa 6 ore, comunque fino a quando le scariche alvine diventano chiare come la soluzione introdotta. I pazienti dopo tale trattamento aumentano di circa 1,5 kg il loro peso. Questo eccesso d’acqua viene eliminato entro il giorno successivo. Con questo metodo, tuttavia, molti pazienti lamentano crampi addominali, sensazione di peso in regione epigastrica, nausea e talora vomito; inoltre la presenza del sondino naso-gastrico, e la necessità di z

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rimanere seduti per lungo tempo sulla comoda rappresentano inconvenienti mal accettati dai pazienti. Controindicazioni all’attuazione di questa metodica sono rappresentate dalle malattie cardiache, renali ed epatiche che comportano tendenza alla ritenzione idrica, ed inoltre da tutte le lesioni di tipo ostruttivo a livello intestinale.  Nei pazienti che presentano lesioni subocclusive od occlusive del tubo digerente, la detersione meccanica dell’intestino è pressoché impossibile; in tali circostanze assume importanza fondamentale la preparazione antibiotica per via endovenosa, con farmaci attivi contro la flora batterica intestinale.

Preparazione igienica Lavaggio preoperatorio del paziente Questa metodica riduce la presenza di germi sulla cute. Il paziente, provvisto di sapone liquido, spugna ed asciugamani, esegue il lavaggio completo del corpo e dei capelli mediante doccia, prima della tricotomia. La manovra dovrà essere eseguita la sera prima dell’intervento o la mattina, prima di andare in sala operatoria. Il paziente deve essere istruito a bagnare, insaponare, pulire e sciacquare il corpo in modo sistematico ed accurato, dall’alto verso il basso.

Rasatura nella zona di incisione chirurgica Prima dell’intervento chirurgico, nelle aree cutanee non glabre sede di incisione, è necessario eseguire la tricotomia. Nel passato la tricotomia veniva eseguita il giorno prima dell’intervento, mediante un rasoio a lama. Tale metodo è stato successivamente abbandonato perché è stato osservato che nel rimuovere i peli si possono provocare soluzioni di continuo cutanee che aumentano la possibilità di contaminazione da parte di microrganismi patogeni. Si può osservare infatti sull’area rasata la presenza di molteplici abrasioni microscopiche, in alcune delle quali, macroscopicamente evidenti, è dimostrabile la presenza di colonie batteriche in accrescimento.  È pertanto consigliabile eseguire la tricotomia poche ore prima dell’intervento, utilizzando rasoi elettrici o rasoi monouso sterili oppure creme depilanti; è sconsigliabile l’uso di pennelli da barba, poiché ciò può provocare infezioni crociate, e la rasatura a secco, che facilita il trauma meccanico.

Preparazione del campo operatorio Vi sono numerosi metodi utilizzati per la preparazione dell’area cutanea ove verrà eseguita l’incisione chirurgica. Non esiste un metodo ideale ritenuto universalmente superiore agli altri; la scelta del metodo dipende in buona parte dalle abitudini dell’équipe operatoria, tramandate nell’ambito della scuola chirurgica.  L’agente ideale per la disinfezione non dovrebbe essere lesivo nei confronti della cute e dovrebbe essere battericida e attivo in breve tempo dopo l’applicazione. I disinfettanti più usati a scopo di disinfezione preoperatoria della cute sono: la clorexidina, lo iodiopovidone, la tintura di iodio. 105

Il metodo più comunemente impiegato nella disinfezione della cute consiste nello strofinare l’area cutanea con un tampone imbevuto in una di queste soluzioni antisettiche per 2-5 min prima dell’incisione cutanea. Il campo operatorio deve essere delimitato da teli sterili. I teli di tessuto comunemente impiegati hanno lo svantaggio di consentire il passaggio dei batteri allorché si inumidiscono; attualmente sono disponibili telini di materiale plastico impermeabili, che costituiscono una barriera più efficace. Per ulteriore protezione dell’area cutanea attorno all’incisione chirurgica viene talora impiegato un foglio di plastica adesiva sterile.

Catetere vescicale Il posizionamento di un catetere vescicale è una delle più comuni manovre in preparazione all’intervento chirurgico. Il catetere che solitamente si impiega a tale scopo è del tipo Foley, cioè con palloncino gonfiabile all’estremità, che ne impedisce la fuoriuscita dalla vescica. Le indicazioni al posizionamento preoperatorio del catetere vescicale sono le seguenti: z interventi a carico degli organi pelvici in cui è necessario lo svuotamento della vescica che, qualora fosse piena, interferirebbe con l’esposizione del campo operatorio e con le manovre chirurgiche (isterectomia, resezione del retto ecc.); z tutti gli interventi di chirurgia maggiore in cui è indispensabile monitorare accuratamente la diuresi; a tal fine è opportuno collegare con il catetere vescicale un sistema di raccolta dell’urina che consenta la misurazione della diuresi oraria; z interventi d’urgenza, di qualsiasi entità, su pazienti in condizioni critiche in cui è necessario il monitoraggio intraoperatorio della diuresi; z qualora si preveda la possibile insorgenza di ritenzione urinaria postoperatoria. La manovra di posizionamento di catetere vescicale è solitamente eseguita dal personale infermieristico professionale in reparto prima dell’intervento chirurgico, oppure in sala operatoria dopo induzione dell’anestesia, per diminuire il fastidio al paziente; qualora si incontrino difficoltà nel posizionamento (stenosi uretrale, adenoma prostatico, malformazioni uretrali ecc.) è necessario che sia il medico a curare personalmente l’introduzione del catetere vescicale e il suo corretto funzionamento. Raramente può rendersi necessaria l’opera dello specialista urologo per cateterizzare la vescica, con l’impiego di cateteri semirigidi o rigidi; ancora più raramente può essere necessario eseguire una cistostomia sovrapubica (con catetere, o per via chirurgica) in pazienti che presentano ostruzione uretrale, e nei quali il cateterismo vescicale è assolutamente indispensabile.

Sondino naso-gastrico Il posizionamento di un sondino naso-gastrico prima dell’intervento chirurgico è indicato nelle seguenti circostanze: z negli interventi in cui si prevede la comparsa di un ileo adinamico postoperatorio prolungato (interventi di chirurgia addominale maggiore); z nei pazienti che presentano vomito o segni clinici di occlusione intestinale; in tal caso il sondino consente di svuotare lo stomaco dal contenuto liquido e gassoso, evitando che durante l’induzione dell’anestesia si verifichi passaggio di liquido dallo stomaco alle vie aeree con il potenziale pericolo di polmonite ab ingestis. In caso di occlusione intestinale o vomito ripetuto, il sondino va posto in aspirazione continua mediante un apparecchio gastro-evacuatore. È opportuno che in tali circostanze il sondino nasogastrico sia di calibro ampio (n. 9 o 10 French) per evitare che si occluda facilmente con 106

il passaggio degli alimenti; nei pazienti che devono essere sottoposti ad interventi chirurgici d’urgenza in anestesia generale e che hanno assunto alimenti nelle ore immediatamente precedenti è necessario procedere preoperatoriamente a svuotamento dello stomaco con sondino di ampio calibro, che va mantenuto in posizione durante l’intervento chirurgico; z negli interventi chirurgici d’urgenza sui pazienti traumatizzati candidati a laparatomia esplorativa. Negli interventi d’elezione sull’addome, il sondino naso-gastrico può essere posizionato dall’anestesista,dopo induzione dell’anestesia, per ridurre il disagio provocato al paziente. z

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Letture suggerite z

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4 Principi di tecnica chirurgica 4.1 L’ambiente chirurgico 4.2 Tecniche e materiali 4.3 Le suturatrici meccaniche 4.4 Accorgimenti tecnici 4.5 Materiale protesico 4.6 Il laser 4.7 Ultrasuoni e onde d’urto 4.8 Accessi vascolari 4.9 Insufficienza renale acuta post-chirurgica: interventi depurativi sostitutivi 4.10 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 4

Principi di tecnica chirurgica L. Dominioni, A. Benevento, P. Castelli, G. Carcano, F. Scolari, R. Beretta

L’ambiente chirurgico G. Carcano

Il complesso operatorio Il complesso operatorio è quell’insieme di locali e strutture necessari all’esecuzione degli interventi chirurgici: è costituito dal blocco operatorio e da altri locali di servizio. Il blocco operatorio comprende la sala o le sale nelle quali si svolgono gli interventi chirurgici, ed altri ambienti utilizzati per la preparazione, l’induzione anestesiologica, il risveglio del paziente, la sterilizzazione dello strumentario, il lavaggio e la vestizione di chirurghi e strumentisti. I locali di servizio comprendono le zone filtro, i depositi, la centrale di sterilizzazione. La costruzione e l’organizzazione del blocco operatorio debbono essere finalizzate alla funzionalità ed alla massima riduzione della contaminazione esogena: ogni supporto impiantistico e tecnologico deve garantire efficienza e sicurezza, secondo criteri che consentano un buon mantenimento delle condizioni igieniche. Il complesso operatorio deve essere facilmente raggiungibile dai reparti di degenza, mentre deve essere escluso dalle grandi correnti di traffico dell’ospedale; le sale operatorie dovranno essere preferibilmente ubicate al lato nord dell’edificio.

Blocco operatorio La sala operatoria è in comunicazione diretta, attraverso due differenti porte, con il locale di lavaggio e vestizione del personale medico e paramedico che partecipa all’intervento e con il locale di preparazione e risveglio del paziente. Essa deve possedere dimensioni sufficientemente ampie per consentire la massima libertà di movimento e l’agevole collocazione delle molte apparecchiature che la chirurgia e l’anestesia moderna richiedono: la limitazione dello spazio vitale porta a contatti accidentali, che sono possibili fonti di contaminazione. Si ritiene pertanto adeguata una superficie non inferiore a 40 m 2, ma non superiore a 70 m 2 per quelle situazioni che richiedono la presenza di équipe chirurgiche numerose e di apparecchiature ingombranti. Il pavimento, il soffitto e le pareti devono presentare i seguenti requisiti: essere rivestiti con materiali lavabili, resistenti all’usura e non riflettenti la luce, le superfici devono essere lisce, non devono presentare fessure, sporgenze o angoli acuti che ostacolino il lavaggio e la 110

disinfezione accurati. Di particolare importanza sono il sistema di climatizzazione e di filtrazione dell’aria, i quali controllando i livelli di temperatura, il tasso di umidità e la quantità di pulviscolo in sospensione, creano e conservano all’interno della sala operatoria il microclima ottimale per tutta la durata degli interventi chirurgici. Gli elementi essenziali di ogni sala operatoria sono: il tavolo operatorio, le lampade scialitiche, gli apparecchi di anestesia, di monitoraggio e di rianimazione d’emergenza, l’amplificatore di brillanza, gli erogatori di gas terapeutici, il bisturi elettrico, le pompe di aspirazione. La disposizione delle apparecchiature deve rispettare un principio fondamentale: il numero degli elementi che prendono contatto con il pavimento, o che comunque occupano la sala operatoria, deve essere ridotto al minimo indispensabile. Quindi, quando è possibile, le attrezzature devono essere disposte nello spessore delle pareti o sospese al soffitto: la riduzione all’essenziale degli elementi a contatto con il pavimento (tavolo operatorio, apparecchio di anestesia,monitoraggio e aspirazione, tavolo portaferri, carrello servitore, portarifiuti) consente maggiori spazi di manovra ed una ridotta carica batterica ambientale. Il tavolo operatorio è costituito dalla colonna di base e dal piano mobile, che può essere svincolato e trasportato da un carrello per accogliere il paziente nella zona filtro. Il piano operatorio è formato da vari segmenti che, con un movimento di snodo dell’uno rispetto all’altro,permettono di flettere o estendere i segmenti del corpo, consentendo la migliore esposizione del campo operatorio. La trasmissione del movimento può essere meccanica, oleodinamica o elettrica. I comandi di regolazione, nella maggior parte dei casi, sono posti a distanza dal tavolo in modo da permettere il cambio di posizione del paziente, anche durante l’esecuzione dell’intervento, senza rischio di contaminazione del campo operatorio. Il tavolo operatorio può essere inoltre corredato di particolari accessori che permettono l’esecuzione di interventi di chirurgia specialistica, quali la maxillo-facciale, ortopedica, ginecologica, toracica e neurochirurgica. L’illuminazione del campo operatorio si attua per mezzo di lampade orientabili, sospese al centro della sala operatoria, dette scialitiche, cioè che non formano ombre, costituite da sorgenti luminose, specchi e prismi che convergono la luce sul campo operatorio consentendo al chirurgo il mantenimento della percezione della profondità di campo. La dotazione di vetri e filtri atermici contiene l’irraggiamento del calore al campo operatorio e all’ambiente. Per ogni sala operatoria sono previste due lampade: una principale ed una ausiliaria. L’amplificatore di brillanza, strumento radiologico con visione diretta in tempo reale, è un elemento importante in una moderna sala operatoria: sono da preferire le apparecchiature di tipo fisso, sospese al soffitto, munite di un monitor pensile, collocato in posizione ben visibile agli operatori. Gli apparecchi per anestesia, monitoraggio, rianimazione d’emergenza sono strumenti sofisticati, di dimensioni sempre più ridotte, spesso costituiti da diversi moduli riuniti in un unico complesso integrato. In sala operatoria è indispensabile la presenza del defibrillatore e di un cardioscopio. z Spazio per la preparazione dell’équipe chirurgica. In questo locale i chirurghi ed il personale che partecipano attivamente all’intervento chirurgico provvedono all’accurato lavaggio delle mani e degli avambracci, utilizzando acqua e soluzioni antisettiche (lavaggio chirurgico, vedi oltre). z Spazio per l’accoglimento del paziente. Locale diviso in due sezioni da una parete con una apertura attraverso la quale avviene il passaggio dell’operando dal letto di trasporto, proveniente dal reparto di degenza, al piano mobile del letto operatorio. z Spazio per la preparazione ed il controllo dei pazienti. Locale in comunicazione diretta con la sala operatoria dove il paziente sosta in attesa dell’intervento e dove l’anestesista procede all’applicazione delle linee infusionali. L’operato ritorna in questo stesso locale 111

dopo l’intervento chirurgico, prima di essere inviato in reparto o, se necessita, all’unità di terapia intensiva. Questo locale deve essere dotato di attrezzature anestesiologiche, che consentano un monitoraggio analogo a quello che si effettua in sala operatoria.

Locali di servizio z

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Zone filtro. Sono determinanti per il mantenimento dell’igiene e per la riduzione della contaminazione esogena nella sala operatoria: sono fornite di due accessi diversi, uno dall’esterno e l’altro dall’interno della sala operatoria. La funzione razionale di queste zone filtro è quella di deposito dell’abbigliamento, ed in genere di ogni materiale proveniente dall’esterno. Locale per la sterilizzazione. Spazio attrezzato per la sterilizzazione di strumentario e materiale da utilizzarsi durante l’attività operatoria: esso è in diretta comunicazione con la sala operatoria attraverso aperture a finestra. Molteplici sono i mezzi impiegati nella sterilizzazione dei materiali: mezzi chimici (ossido di etilene) e mezzi fisici (raggi UV, calore secco, calore umido). Il metodo più frequentemente impiegato è quello dell’autoclave a vapore, nella quale lo strumentario viene sottoposto ad una temperatura di 120° e ad una pressione di 1 atm per 30 min oppure a 134° per 5 min. Possono essere annessi alla sala operatoria locali di lavoro, comprendenti un piccolo laboratorio per l’esecuzione degli esami estemporanei, come la biopsia al microtomo congelatore, o esami ematochimici urgenti, una camera oscura per lo sviluppo di radiogrammi intraoperatori, una sala di riposo per il personale medico ed infermieristico.

Preparazione del chirurgo Il buon funzionamento del reparto operatorio dipende dal comportamento dei chirurghi e del personale che vi presta la propria opera; essi devono osservare, durante l’esecuzione degli interventi, alcune regole fondamentali per il mantenimento della sterilità dell’ambiente e soprattutto del campo operatorio. L’ingresso del chirurgo nel reparto operatorio comporta una serie di procedure che hanno lo scopo di stabilire e mantenere condizioni di sterilità; esse si attuano in due tempi: la vestizione in zona filtro (tempo pulito ma non sterile) ed il lavaggio e vestizione con camici sterili (tempo sterile).

Vestizione in zona filtro L’accesso in zona filtro prevede innanzitutto che si abbandonino gli indumenti usati in reparto e si indossi una divisa che deve avere le seguenti caratteristiche: z le casacche con maniche corte e i pantaloni che terminano a 10 cm dal suolo sono di cotone o tela, o ancor meglio di “tessuto non tessuto” e tali da permettere movimenti agevoli. Alla fine di ogni seduta operatoria, questi indumenti devono essere lasciati nella zona filtro, per essere lavati ed eventualmente sterilizzati; z le calzature sono di importanza rilevante, poiché le suole sono veicolo di numerosi germi. Possono essere utilizzati zoccoli in plastica, il cui lavaggio e la cui sterilizzazione risultano più agevoli di quelli in legno; z i berretti e le maschere, in materiale usa e getta “tessuto non tessuto”, hanno lo scopo di ridurre la possibile contaminazione proveniente dai capelli, dal naso, dalla gola.

Preparazione delle mani 112

Riguarda il personale partecipante direttamente all’intervento, che deve indossare camici e guanti assolutamente sterili. La preparazione delle mani e degli avambracci è un momento fondamentale, poiché la cute risulta essere sede di una ricca flora microbica: germi saprofiti, Gram+, Gram– sono abitualmente presenti a livello dei follicoli piliferi e delle ghiandole sebacee della cute. La disinfezione di queste parti è ottenuta attraverso un’azione di tipo meccanico ed una di tipo chimico. Il chirurgo deve esercitare un lavaggio prolungato,“ chirurgico” (5 min), con acqua corrente calda, insaponando con opportune sostanze germicide e strofinando la cute mediante apposite spugne e le unghie con appositi spazzolini sterili. Le sostanze germicide più frequentemente utilizzate sono: z il povidone-iodio, con un’azione disinfettante assai efficace, anche se non immediata e non molto durevole; z l’esaclorofene, bifenolo attivo sui Gram+ e –, con modesta azione battericida; z la clorexidina, che ha una stabile azione decontaminante, attiva sui Gram+ e –, e una notevole attività residua. Dopo abbondante risciacquo il chirurgo si prepara ad indossare gli indumenti sterili. Il camice sterile, in “tessuto non tessuto”, viene indossato dal chirurgo con l’aiuto della strumentista, la quale, postasi di fronte ad esso, gli porge il camice aperto, in modo che questo non venga a contatto con superfici non sterili. Gli indumenti in “tessuto non tessuto” hanno dimostrato una maggiore efficacia nel controllo delle infezioni per interventi di lunga durata rispetto agli indu-menti in cotone. Sono indispensabili negli interventi su pazienti iniettati con materiale radioattivo e più sicuri negli atti chirurgici su pazienti con sieropositività per anticorpi indotti da infezioni virali di vario tipo. Infine i guanti in gomma possono essere infilati o dal chirurgo stesso o con l’aiuto della strumentista, che, allargandone i bordi superiori, facilita l’introduzione della mano.

Preparazione del paziente Posizione del paziente sul letto operatorio Il corretto posizionamento dell’operando sul lettino operatorio è uno dei presupposti fondamentali per una più agevole esecuzione dell’intervento chirurgico: la conoscenza dei tempi e delle peculiarità dei vari interventi permette di posizionare il paziente in modo da esporre adeguatamente la regione che verrà sottoposta alle manovre chirurgiche. La posizione classica fondamentale è quella orizzontale, a decubito dorsale, con braccia distese e posizionate a 90° rispetto al tronco e con gambe estese. In questa posizione possono essere eseguiti interventi sull’addome, sugli arti superiori ed inferiori, sul cuore. La posizione di Trendelenburg (paziente fortemente inclinato con il capo in basso e gli arti inferiori elevati) è utile per interventi sul piccolo bacino, perché allontana le anse intestinali dalla regione pelvica; la posizione ginecologica (tronco supino, arti inferiori divaricati, cosce flesse sul bacino e gambe flesse sulle cosce) espone la regione perineale; i decubiti laterali, la posizione semiseduta, l’iperestensione del collo, la posizione proctologica permettono l’approccio chirurgico alle diverse regioni del corpo. Devono essere osservate le seguenti norme generali: z fissare saldamente il paziente al letto operatorio, particolarmente quando il piano del letto deve essere spezzato, oppure quando si devono far assumere posizioni declivi. Questo si ottiene utilizzando accessori mobili, che si fissano al letto e si appoggiano alle parti rigide dell’operando (colonna vertebrale, sterno, bacino, scapola); z utilizzare presidi che prevengano lesioni da decubito; 113

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prevedere l’eventuale allargamento dell’iniziale incisione chirurgica alle regioni adiacenti, come avviene in interventi combinati (interventi addominali con estensione toracica); evitare l’eccessiva compressione addominale nel decubito prono (negli obesi questa posizione riduce in modo significativo le escursioni diaframmatiche); evitare che gli arti vengano compressi da fasciature o lacci.

Preparazione del campo operatorio La riduzione della carica batterica della cute dell’operando, costituita da germi saprofiti ed opportunisti, che possono divenire patogeni in situazioni a loro favorevoli, è decisiva per il contenimento delle infezioni postoperatorie. Le operazioni preliminari, già eseguite prima che il paziente entri nel reparto operatorio,prevedono la doccia o, se le condizioni generali non lo consentono, un accurato lavaggio con acqua e sapone e la tricotomia eseguita immediatamente prima dell’intervento, se possibile con rasoio elettrico. Dopo l’anestesia del paziente si procede alla disinfezione della cute, iniziando nella sede dell’incisione ed estendendosi in periferia per un’area che superi abbondantemente i limiti del campo operatorio. Le soluzioni con azione germicida più elevata sono a base di povidone-iodio, clorexidina, derivati ammonio-quaternari. Dopo la delimitazione del campo operatorio con teli sterili, di “tessuto non tessuto”, il paziente è pronto per l’intervento chirurgico.

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Tecniche e materiali L. Dominioni

Dieresi La dieresi consiste nella separazione dei tessuti eseguita con strumenti meccanici o con mezzi fisici (calore, corrente elettrica, laser, ultrasuoni). La dieresi si definisce: z incisione se effettuata con strumenti che realizzano un taglio lineare (bisturi a lama; bisturi elettrico o a ultrasuoni; laser; harmonic scalpel); z dissezione se operata in tutto o in parte per via smussa; z sezione se la separazione dei tessuti o delle strutture anatomiche è completa. La dieresi termica (diatermia) si pratica con l’elettrobisturi: l’effetto di coagulazione o di taglio dipende dal tipo di corrente erogata all’elettrodo attivo dello strumento. Esistono due tipi di diatermia: la monopolare e la bipolare. La diatermia monopolare è certamente la più usata per l’emostasi dei piccoli vasi, ma presenta l’inconveniente di una notevole dispersione dei suoi effetti termici e coagulanti, rendendola pertanto inutilizzabile quando si opera in vicinanza di delicate strutture nervose. L’uso della diatermia monopolare comporta il passaggio di corrente attraverso l’organismo ed occasionalmente può essere la causa di aritmie in pazienti portatori di pacemaker cardiaco. Talora, se l’elettrodo posto in corrispondenza della coscia o dei glutei accidentalmente si bagna, possono verificarsi nella stessa sede delle ustioni cutanee. Lo stesso tipo di diatermia può essere usato con effetto tagliente. La diatermia bipolare è utilizzata durante interventi chirurgici di precisione, che richiedono minimo danno tissutale, dissezioni meticolose ed il rispetto di strutture nervose.

Il bisturi tagliente viene utilizzato preferenzialmente per incidere o sezionare i tessuti superficiali (cute, tessuto sottocutaneo) e i tessuti di consistenza maggiore (fasce, tendini); esso consente di ottenere un’incisione lineare ed ortogonale al piano del tessuto, con piani di sezione regolari e con modestissima necrosi cellulare, così da porre i presupposti per una guarigione ottimale della ferita. Bisturi taglienti di forme e dimensioni speciali vengono impiegati per incidere o sezionare strutture anatomiche particolarmente delicate (arterie, vie biliari, strutture oculari ecc.). L’elettrobisturi si può utilizzare per l’incisione delle fasce, dei piani muscolari, delle sierose parietali e degli organi parenchimatosi e riccamente vascolarizzati; tale strumento consente infatti l’emostasi dei piccoli vasi ematici contemporaneamente al taglio. Per la dissezione dei tessuti si possono utilizzare, oltre alle forbici: pinze, spatole o strumenti a punte smusse;batuffoli di garza montati su pinze, che vengono fatti scorrere lungo i piani di clivaggio; le dita della mano (dissezione digitale, o digitoclasia).

Emostasi L’emostasi è l’insieme delle manovre che si impiegano per prevenire l’emorragia (emostasi preventiva) o per arrestarla (emostasi terapeutica) in corso di intervento chirurgico o in seguito a trauma accidentale (Fig. 4.1).

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L’emostasi preventiva temporanea si può attuare: z con la compressione manuale dei vasi arteriosi distrettuali contro i piani tissutali sottostanti o tra le dita, oppure con l’applicazione del laccio emostatico (laccio di Esmark) o di manicotti pneumatici regolabili, o di fasciature, in tutti i casi per un tempo non superiore alle 2-3 ore; z dopo isolamento dei vasi: imprimendo un’angolatura o strozzando il vaso caricato su fettucce; applicando pinze atraumatiche vascolari (angiostati). L’emostasi preventiva definitiva si può attuare mediante: z legatura di un vaso; z applicazione sul vaso di clip emostatiche; z elettrobisturi,limitatamente ai vasi di calibro molto piccolo. L’emostasi terapeutica può essere anch’essa temporanea (tamponamento diretto dell’emorragia con pressione esterna o angolatura dei vasi, occlusione endovasale con catetere a palloncino di Fogarty) oppure definitiva (legatura, elettrocoagulazione, sutura della parete vascolare, ricostruzione vascolare con protesi).

Sintesi La sintesi è il ripristino totale o parziale dell’integrità anatomica e funzionale dei tessuti incisi o sezionati, al fine di guidare i processi di riparazione e cicatrizzazione.  La sintesi è per strati anatomici quando i tessuti interessati dalla sezione vengono suturati separatamente rispettando i piani anatomici,con sutura a punti staccati o continua.La sintesi si definisce in massa (a tutto spessore) quando non vengono rispettate le separazioni tra i piani anatomici. Le suture a punti staccati offrono maggiore garanzia di tenuta,e sono quindi impiegate per la sutura di tessuti a margini irregolari oppure soggetti a notevole trazione e nelle ferite a rischio di infezione. Le suture continue hanno una garanzia di tenuta minore,ma la riparazione risulta più lineare,ermetica,ed esercitano un maggiore effetto emostatico sui margini tissutali. 116

I punti di sutura devono essere più o meno ampi e distanziati tra loro a seconda delle caratteristiche del tessuto. La distanza tra i punti non deve essere eccessiva, onde evitare il cattivo affrontamento dei margini, né troppo ridotta, perché ciò provocherebbe ischemia e ritardo di guarigione. Nell’esecuzione della sutura bisogna evitare la formazione di spazi morti in cui possano raccogliersi secrezioni ed essudati, con conseguente rischio di infezione. Per un buon risultato estetico le suture cutanee devono essere confezionate curando il perfetto affrontamento dei lembi di cute, sia che si utilizzino le suture con filo, oppure le graffette metalliche, oppure i punti staccati con suturatrici meccaniche. La sutura cutanea continua con filo sottile intradermica è talora consigliabile per un migliore risultato estetico (Fig. 4.2).

Suture Suture tradizionali La sutura tradizionale con ago chirurgico e filo è il metodo più utilizzato e più antico. Gli aghi vengono suddivisi in base alla forma (retti, mezzi curvi, curvi). La punta degli aghi, scelta in rapporto al tessuto da suturare, può essere smussa, conica o piramidale. La sezione dell’ago può essere rotonda, triangolare o poligonale tagliente, in rapporto alla vascolarizzazione e consistenza del tessuto da suturare. Negli aghi atraumatici la coda dell’ago si continua direttamente con il filo, di uguale calibro.Attualmente i fili di sutura preconfezionati su aghi atraumatici hanno soppiantato il filo di sutura da montare su aghi traumatici. Una classificazione dei materiali utilizzati per i fili di sutura, in base alle caratteristiche fisiche e biologiche, è riportata nella Tabella 4.1.

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I materiali riassorbibili vengono degradati o con un processo enzimatico rapido (pochi giorni: catgut, collagene) oppure per idrolisi lenta (fibre sintetiche: acido poliglattico eccetera, in circa 3-6 mesi). Il progressivo riassorbimento dei fili si accompagna a diminuzione della capacità di tenuta della sutura; catgut e collagene trovano quindi impiego per i tessuti che guariscono rapidamente e che non sono sottoposti a tensione (per es.: tessuto sottocutaneo). I fili riassorbibili sintetici sono impiegati negli altri casi. Tutti i fili di sutura introdotti nell’organismo si comportano come corpo estraneo, inducendo una reazione infiammatoria più o meno marcata, a seconda del materiale impiegato e del diametro. I fili sintetici monofilamento possiedono una scarsa capillarità; il loro impiego è particolarmente indicato in caso di ferite potenzialmente contaminate, per la sutura delle quali è meno sicuro l’utilizzo di fili intrecciati. La sutura può costituire uno stimolo irritativo quando permane nei tessuti troppo a lungo (oltre il tempo di guarigione e di consolidamento della ferita); ciò ha suggerito l’impiego di materiali con 118

diversi tempi di riassorbimento, in rapporto al periodo necessario per la cicatrizzazione delle ferite nei vari tessuti. Le suture di strutture sottoposte a trazione (tendini,fasce,muscoli) richiedono fili robusti, non riassorbibili (per es.: polipropilene, polietilene) o a lento riassorbimento (per es.: acido poliglicolico).Si utilizzano fili molto sottili per la sutura dei tessuti più delicati (vasi,strutture oculari),in chirurgia plastica e in aree cutanee importanti dal punto di vista estetico.

Suture cutanee con graffette, punti metallici, cerotti o nastri adesivi Le agraphes metalliche vengono applicate manualmente in caso di ferite cutanee piccole e non soggette a trazione. Da qualche anno è stato introdotto l’impiego delle suturatrici meccaniche, che, applicando punti metallici, consentono suture cutanee poco traumatizzanti e di veloce esecuzione. I cerotti e i nastri adesivi hanno impiego limitato alle ferite piccole, lineari, situate in regioni cutanee non soggette a trazione.

Suture meccaniche dei visceri Possono essere eseguite con uno dei numerosi modelli di suturatrici lineari o circolari; l’impiego di queste ultime si è largamente diffuso negli ultimi anni, particolarmente per la confezione di anastomosi in sedi anatomiche di difficile accesso (per es.: esofago-digiunostomia, colonrettostomia). Le suturatrici lineari vengono utilizzate prevalentemente per la chiusura definitiva dei monconi dei visceri o dei vasi (per es.: duodeno, intestino, pancreas, bronchi, vasi polmonari). Recentemente sono stati proposti alcuni sistemi di sutura intestinale meccanica circolare a pressione. La caratteristica di questo sistema di sutura a pressione è l’impiego di materiale biodegradabile.L’anello, infatti, è costituito di acido poliglicolico e di solfato di bario, trattato con raggi gamma al fine di sterilizzarlo e renderlo degradabile in un periodo di 15-25 giorni.

Suture con adesivi chimici e colle biologiche Gli adesivi chimici (cianoacrilati) vengono utilizzati raramente per il rinforzo delle suture tradizionali a livello di visceri e vasi. Le colle biologiche (a base di fibrina) possiedono un effetto emostatico. Esse inducono l’attivazione dei processi riparativi stimolando i fibroblasti, tuttavia facilitano anche l’impianto batterico e la comparsa di infezioni, e sono quindi controindicate per la sutura di visceri potenzialmente contaminati.

Metodi di sutura particolari Le ferite superficiali accidentali o chirurgiche francamente infette (corpi estranei residui infetti, presenza di pus) non devono essere suturate immediatamente, perché ciò indurrebbe con facilità la formazione di un ascesso sottocutaneo. Si preferisce lasciare temporaneamente aperti i piani superficiali (sottocute-cute) proteggendoli con medicazioni antisettiche ed eseguendo quotidianamente medicazioni con toilette della ferita; trascorsi 4-7 giorni, dopo aver accertato la risoluzione dell’infezione, si può procedere alla sutura della ferita; questo metodo viene denominato sutura differita. Per le suture della parete addominale o toracica, qualora la sutura sia sotto forte tensione o vi sia un elevato rischio di deiscenza (presenza di infezione, debolezza della parete) si possono utilizzare fili 119

di acciaio montati su placche appoggiate alla cute, che impediscono alla sutura di tagliare i tessuti (Fig. 4.3).

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Le suturatrici meccaniche A. Benevento La prima suturatrice meccanica si deve ad un chirurgo ungherese, Humer Hultl, che nel 1908 costruì uno strumento capace di realizzare una chiusura rapida dello stomaco con doppia fila di punti metallici durante interventi di gastroresezione. A partire dal 1940 si svilupparono in Russia ricerche finalizzate alla realizzazione di suturatrici meccaniche utilizzabili in chirurgia gastrointestinale e polmonare. Nel 1967 le suturatrici meccaniche furono introdotte negli Stati Uniti su licenza russa e da allora esse sono state sempre più perfezionate in termini di efficienza, sicurezza, leggerezza, manovrabilità e applicazioni.

Caratteristiche tecniche Le suturatrici ad uso interno realizzano l’avvicinamento dei tessuti mediante graffette metalliche aperte ad U che vengono chiuse a forma di B. Quando lo strumento viene chiuso, le gambe delle graffette vengono guidate attraverso i tessuti e quindi serrate con avvicinamento e ripiegamento delle stesse per mezzo di una incudine presente sul lato opposto dello strumento. La configurazione a B che così si realizza permette il passaggio di piccoli vasi capillari. È da rilevare, quindi, che tale tipo di sutura non è di per sé completamente emostatica. La pressione applicata sui tessuti è pari a 8 g/mm2, tale da promuovere una emostasi spontanea ed insieme prevenire la deiscenza del tessuto suturato. Questo tipo di soluzioni tecniche è stato accuratamente studiato per permettere una corretta vascolarizzazione dei margini di resezione, condizione essenziale per un rapido processo di cicatrizzazione.Eventuali piccoli sanguinamenti residui possono venire facilmente controllati con l’elettrocoagulazione o con legatura. I punti metallici per le suture cutanee assumono, una volta serrati, una configurazione rettangolare che avvicina ed allo stesso tempo everte i margini cutanei. La forma rettangolare evita la rotazione dei punti e ne permette una facile rimozione. I punti metallici possono variare in lunghezza e spessore, a seconda della consistenza della zona cutanea su cui vengono apposti. La sutura meccanica avviene mediante apposizione di punti metallici in acciaio o titanio. Strumenti per specifiche applicazioni possono presentare varianti per quanto riguarda la lunghezza della linea di sutura, il calibro e/o la snodabilità della testa dello strumento, la lunghezza e lo spessore dei punti metallici, la distanza tra i punti, la possibilità di eseguire suture particolari (borse di tabacco). Per esempio, le suturatrici per interventi sullo stomaco usufruiscono di punti metallici lunghi e di maggiore spessore a causa della maggiore consistenza della parete gastrica. Al contrario, le suturatrici per chirurgia vascolare sono provviste di punti piccoli e leggeri con minore distanza tra i punti stessi. Negli ultimi anni sono state costruite suturatrici in materiale plastico non risterilizzabile, utilizzabili quindi in un solo paziente, e con cartucce intercambiabili qualora debbano essere usate per più di una sutura nello stesso intervento.  Le suturatrici meccaniche sono identificate in base alla configurazione della linea di sutura effettuata (suturatrici lineari o circolari), per la presenza di una lama che consente la sezione simultanea di tessuto tra le linee di sutura (suturatrici transecanti) e a seconda che siano designate alla sutura di organi interni o alla sintesi cutanea (suturatrici ad uso interno e cutanee) (Fig. 4.4). 121

Tipi di suturatrici meccaniche Suturatrici lineari Queste suturatrici confezionano un doppio strato alternato di punti metallici che permette una chiusura rapida e sicura dei tessuti. Sono comunemente usate per chiudere organi cavi prima della sezione e successiva anastomosi in interventi su stomaco, ileo e colon (Fig. 4.5). In chirurgia polmonare sono applicate nelle resezioni parenchimali atipiche (specie quelle periferiche) e per la sutura dei bronchi e dei grossi vasi. 122

Recentemente sono state utilizzate anche nelle resezioni pancreatiche e spleniche.

Suturatrici transecanti Consentono una doppia sutura in doppio strato di punti metallici con simultanea sezione sulla linea mediana per mezzo di una lama scorrevole interna, che taglia i tessuti tra le due suture. Vengono usate per la sutura e sezione rapida negli organi cavi e per confezionare anastomosi latero-laterali. Sono applicate anche nelle resezioni polmonari e pancreatiche con le stesse indicazioni delle suturatrici lineari.

Suturatrici circolari Realizzano una doppia fila di punti metallici in configurazione circolare. Quando lo strumento viene serrato una lama circolare seziona contemporaneamente i tessuti all’interno della linea di sutura. La testa dello strumento viene inserita nel lume dell’organo da anastomizzare attraverso una breve sezione della sua parete o,nel caso di resezioni anteriori basse di retto, attraverso l’ano.Le anastomosi sono realizzate con teste di calibri differenti per adattarsi al lume di visceri con diametri diversi. Vengono utilizzate per anastomosi termino-terminali o termino-laterali in tutto il tratto gastrointestinale, dall’esofago al retto (Fig. 4.5). Risultano particolarmente utili quando il campo operatorio sia angusto o profondo per ragioni anatomiche, come nelle anastomosi esofagodigiunali dopo gastrectomia totale o nelle anastomosi colorettali dopo resezione anteriore del retto distale.

Suturatrici cutanee  Possono essere utilizzate nella sutura di qualsiasi breccia cutanea; applicano punti metallici staccati, facili da rimuovere, ed ottengono un ottimo risultato estetico. Le suturatrici meccaniche sono oggi largamente utilizzate nella chirurgia degli organi cavi e parenchimatosi a livello addominale, nella chirurgia polmonare e bronchiale ed in chirurgia vascolare. Suture ed anastomosi vengono realizzate in tempi ridotti rispetto alle suture manuali con conseguente riduzione dei tempi di anestesia generale. La minore manipolazione dei tessuti riduce il trauma tissutale. Esse permettono una buona emostasi dei margini di sezione pur consentendo una corretta vascolarizzazione degli stessi, condizione essenziale per un rapido processo di cicatrizzazione, favorito anche da una migliore inerzia biologica dei punti metallici rispetto alle suture usuali. La contaminazione endogena nel tempo resettivo di tratti del tubo gastroenterico è 123

ridotta al minimo dalla chiusura ermetica dei monconi garantita dallo strumento.Studi sperimentali e risultati clinici hanno rilevato che la resistenza alla tensione ed agli aumenti di pressione sulla linea di sutura sono superiori nelle anastomosi meccaniche rispetto alle manuali.Queste considerazioni hanno portato allo sviluppo di tecniche chirurgiche più difficilmente realizzabili con la tecnica classica e ad una riduzione delle complicanze postoperatorie dovute a deiscenza dell’anastomosi. Si deve però ricordare che l’uso di questi strumenti meccanici non garantisce di per sé il successo dell’intervento chirurgico. Le accortezze e le precauzioni che il chirurgo adotta nel realizzare le suture manuali (dissezioni “pulite” ed atraumatiche, emostasi accurata, attenzione alle condizioni dei tessuti ed all’apporto vascolare,anastomosi non in tensione) devono comunque essere attentamente valutate anche quando si eseguono suture ed anastomosi meccaniche.

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Accorgimenti tecnici L. Dominioni

Lavaggi Lavaggio di ferita Il lavaggio delle ferite chirurgiche o traumatiche e delle sedi di intervento rappresenta una modalità standardizzata per l’asportazione di corpi estranei, materiale infetto, secrezioni e raccolte sieroematiche. Il lavaggio si esegue comunemente al termine di un intervento chirurgico, con l’impiego di soluzione fisiologica, in quantità proporzionale alla entità della contaminazione e all’estensione del focolaio di intervento; il volume di soluzione impiegata può quindi variare da pochi ml a numerosi litri. Il lavaggio della ferita chirurgica prima della sintesi del piano muscolo-aponeurotico e della sintesi del piano sottocutaneo è ritenuto insostituibile quale metodica per la prevenzione delle infezioni di ferita dopo interventi chirurgici pulito-contaminati o francamente contaminati; secondo il parere della maggior parte dei chirurghi il lavaggio della ferita dovrebbe essere effettuato sistematicamente anche negli interventi puliti.

Lavaggi peritoneali Le raccolte liquide peritoneali possono essere assai diverse per natura, grado di contaminazione batterica e per densità del materiale raccolto; indipendentemente dalle caratteristiche di tali raccolte, la loro rimozione dal cavo addominale rappresenta un principio fondamentale del trattamento chirurgico del cavo peritoneale al termine di ogni intervento addominale, e delle peritoniti in particolare. Le metodiche di toilette peritoneale variano in relazione alla estensione della raccolta e comunque fanno ricorso alla infusione in cavo peritoneale di soluzione fisiologica che viene rimossa mediante aspirazione, così da realizzare il lavaggio della cavità. Non è stata dimostrata con certezza l’utilità di aggiungere alla soluzione fisiologica altre soluzioni antisettiche, o farmaci antibiotici; pertanto non se ne consiglia l’impiego. z Il lavaggio peritoneale locale si effettua di regola al termine di ogni intervento chirurgico, con un volume di soluzione fisiologica da 50 a 1000 ml circa, a seconda delle dimensioni del campo chirurgico, sino a recuperare in aspirazione la soluzione fisiologica limpida. z Il lavaggio peritoneale completo al termine di un intervento chirurgico si esegue quando una raccolta liquida si è ampiamente diffusa in cavità addominale; tipicamente si effettua nelle peritoniti generalizzate da perforazione di viscere cavo (stomaco, vie biliari, intestino) e negli emoperitonei diffusi. In quest’ultima circostanza il lavaggio peritoneale completo ha lo scopo di asportare coaguli e frammenti fibrinosi, che rappresentano fonte di potenziali complicanze, quali la formazione di ascessi per impianto di germi patogeni e la formazione di aderenze diffuse tra le anse intestinali. Queste ultime rappresentano un fattore di rischio per la comparsa di occlusione intestinale meccanica postoperatoria. Per effettuare il lavaggio peritoneale completo nell’adulto sono necessari da 5 a 15 l circa di

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soluzione fisiologica, a seconda del grado di contaminazione. z Il lavaggio peritoneale continuo si effettua nel periodo postoperatorio, dopo la sutura della laparotomia. Questa metodica di lavaggio è indicata nei casi di peritonite in cui è probabile l’esistenza di un continuo rifornimento di materiale settico (per es.: pancreatiti necroticoemorragiche; ascessi pluriconcamerati; fistole pluriramificate) che deve essere sistematicamente rimosso. Attraverso tubi di drenaggio (a due o tre vie) si irriga in modo continuo per gravità la cavità peritoneale con 2-10 l circa di soluzione fisiologica al giorno, riducendo progressivamente il volume infuso quotidianamente, quando il liquido di recupero diventa limpido.

Drenaggi Per drenaggio s’intende un dispositivo atto a favorire la fuoriuscita di liquidi, secrezioni o gas da una cavità o da un viscere. Vi sono numerosi tipi di drenaggi, diversi tra loro per forma, dimensioni e materiale, in relazione alla grande varietà di situazioni cliniche in cui è indicato il loro impiego. Esistono comunque alcune caratteristiche comuni a tutti i drenaggi, e alcuni principi fondamentali di impiego che devono essere ben conosciuti dal chirurgo, poiché l’uso dei drenaggi è estremamente frequente in chirurgia, e dal loro corretto funzionamento spesso dipende il buon esito dell’intervento chirurgico.

Materiali I drenaggi sono solitamente costituiti di materiale plastico, più comunemente di silicone, para, teflon, poliuretano o PVC. La presenza di tali materiali è abbastanza ben tollerata dai tessuti dell’organismo, provocando una reazione infiammatoria relativamente modesta. La consistenza e la flessibilità dei tubi di drenaggio dipende dal tipo di materiale e dallo spessore della loro parete. La rigidità dei tubi deve essere sufficiente per evitare le angolature e quindi l’occlusione, ma non deve essere eccessiva per non traumatizzare i tessuti con cui vengono a contatto. In situazioni particolari anche le garze, per la loro capillarità, possono essere utilizzate come drenaggio.Taluni tipi speciali di drenaggio sono costituiti dalla combinazione di tubi e garze (per es.: drenaggio secondo Mikulicz). Il drenaggio di Penrose è costituito da un tubo di para assai sottile e morbido che si modella negli spazi in cui viene inserito.

Dimensioni, forma e funzionamento Le dimensioni e la forma dei tubi di drenaggio dipendono dall’uso specifico a cui sono destinati. Il diametro interno di un drenaggio può variare da circa 2 mm ad oltre 2 cm, e deve essere tale da consentire facilmente il deflusso dei materiali da drenare. Il tubo è solitamente fornito di fori laterali più o meno numerosi, che favoriscono il convogliamento del materiale da drenare. Alcuni tipi di tubo di drenaggio presentano due o tre vie separate; sono cioè costituiti da due o tre tubi concentrici oppure paralleli. Attraverso una via è possibile eseguire il lavaggio della cavità da drenare,mentre le rimanenti vie raccolgono il materiale di deflusso. Il materiale da drenare viene raccolto per gravità in contenitori sterili collegati con il tubo (metodo più comunemente usato, che consente di mantenere l’asepsi del sistema di drenaggio). Il drenaggio può avvenire anche in aspirazione (secondo Redon), applicando al tubo di raccolta un soffietto-mantice o altro sistema che mantenga una lieve depressione; tali drenaggi in aspirazione si applicano alle cavità residue dopo ampi scollamenti tissutali, in seguito ai quali si verifica raccolta 126

di linfa o di sangue (per es.: nel cavo residuo dopo svuotamento linfonodale ascellare o inguinale; nel sottocute dopo interventi per plastica di laparoceli voluminosi). Il drenaggio del cavo addominale non richiede normalmente pressione negativa, poiché la pressione positiva endoaddominale è solitamente sufficiente a convogliare all’esterno le raccolte ematiche o di altri liquidi, qualora i drenaggi siano applicati correttamente nelle logge predisposte, per situazione anatomica, alla raccolta dei liquidi. Il drenaggio del cavo pleurico di regola è in aspirazione; ciò si può ottenere con sistemi di raccolta sterili mediante: z aspirazione meccanica in recipienti di raccolta; z sistema chiuso in depressione, fornito di un sifone con colonna d’acqua di 10-20 cm (Fig. 4.6).

La pressione negativa da applicare al sistema di drenaggio pleurico deve essere modesta (circa 1520 cm H2O) dopo interventi di pneumonectomia, per evitare lo spostamento del mediastino; per gli altri interventi di chirurgia toracica con apertura del cavo pleurico (per es.:esofagectomia,lobectomia polmonare ecc.) è invece opportuno applicare inizialmente una depressione maggiore al drenaggio del cavo pleurico (circa 30-40 cm H2O) per asportare i coaguli del cavo pleurico e per fare espandere il polmone.

Principi generali di impiego Vi è indicazione all’impiego di un drenaggio quando: z è presente una raccolta da drenare (per es.:ascesso pelvico); z si ritiene molto probabile la formazione di una raccolta di liquidi (emorragia, linforragia, spandimento di bile, formazione di pus, formazione di materiale necrotico ecc.); ciò avviene molto comunemente negli interventi di chirurgia maggiore e in chirurgia d’urgenza (per es.: dopo splenectomia, nei politraumatizzati, negli interventi chirurgici contaminati o francamente sporchi); z quando si teme la possibilità di deiscenza di una anastomosi intestinale a rischio elevato (per es.: esofago-digiunostomia; colon-rettostomia; pancreas-enterostomia ecc.); la presenza di un drenaggio preventivo, infatti, riduce notevolmente la gravità delle complicanze collegate ad una eventuale deiscenza anastomotica. 127

Il drenaggio serve anche al chirurgo quale “spia” della eventuale comparsa di complicanze locali in sede di intervento, quali emorragia, perdita di bile, di succo pancreatico, gastrico o intestinale, e consente di prendere tempestivamente le decisioni terapeutiche necessarie. Negli interventi chirurgici complessi si applicano solitamente numerosi drenaggi, in diverse sedi anatomiche,sia con funzione di drenaggio preventivo, sia di “spia”; per esempio dopo intervento di duodeno-cefalo-pancreasectomia si impiegano solitamente quattro drenaggi: peripancreatico, sottoepatico, drenaggio aspirativo naso-gastrico e drenaggio endoluminale delle vie biliari. Il drenaggio dello stomaco, solitamente con sondino nasogastrico (più raramente mediante tubo per gastrostomia posizionato chirurgicamente) è forse il tipo di drenaggio più comunemente impiegato in chirurgia generale. È utilizzato per svuotare lo stomaco da gas e secrezioni in tutte le condizioni cliniche che provocano una prolungata atonia gastrica (per es. interventi di chirurgia addominale maggiore; politraumi). Il drenaggio deve rimanere in sede per il minor tempo possibile; esso quindi deve essere prontamente rimosso non appena non se ne ritenga più necessaria la presenza. Infatti la permanenza in sede di un drenaggio può causare complicanze locali, quali l’infezione della cavità drenata, la compressione su visceri o su anastomosi, l’angolatura di anse intestinali, il ritardo di guarigione della ferita. Talora è necessario mantenere a lungo in sede il drenaggio, per settimane o mesi, qualora la produzione di secrezioni o di essudato continui cronicamente (per es.: fistola pancreatica, fistola duodeno-biliare). La rimozione precoce del drenaggio in tali casi condurrebbe infatti alla formazione di un ascesso.

Modalità speciali di drenaggio Vi sono alcune modalità particolari di drenaggio che si impiegano per fare defluire liberamente all’esterno il contenuto e le secrezioni di alcuni visceri addominali. Tra queste ricordiamo: z la colecistostomia (drenaggio della colecisti con tubo verso l’esterno); z la ciecostomia (drenaggio dell’intestino cieco con tubo verso l’esterno); z i drenaggi delle vie biliari e i drenaggi delle vie urinarie.

Laparostomia La laparostomia, o trattamento aperto dell’addome, è una metodica applicata nella terapia delle gravi infezioni peritoneali. Essa consiste nel lasciare la ferita laparotomica completamente aperta, così da consentire: z libero deflusso all’esterno delle raccolte settiche; z possibilità di ripetere interventi di lavaggio e di toilette peritoneale. Nel trattamento aperto dell’addome i visceri vengono protetti dall’esterno e mantenuti entro il cavo peritoneale mediante copertura con medicazione antisettica (garze iodoformiche, steri-drapes di plastica); dopo circa 2 settimane, se l’infezione si è risolta, si forma un rivestimento reattivo fibroepiteliale sulle anse intestinali scoperte, che le isola dall’esterno. Nel volgere di alcune settimane la soluzione di continuo della parete addominale si riepitelizza a partire dai margini della ferita e la ferita si chiude spontaneamente, pur persistendo un laparocele.  Il trattamento aperto dell’addome è indicato in caso di peritoniti diffuse gravi, con presenza di focolai settici multipli, per i quali il chirurgo ritiene di dover eseguire ripetuti interventi di detersione del cavo peritoneale (per es. pancreatite acuta necrotico-emorragica infetta; ascessi 128

peritoneali multipli).

Cerniera laparotomica La chiusura della laparotomia mediante una cerniera in materiale sintetico biocompatibile, di forma e funzionamento simile alle normali cerniere per indumenti (Fig. 4.7), consente ripetute esplorazioni del cavo addominale. Analogamente alla laparostomia, è indicata per la terapia delle gravi infezioni peritoneali diffuse, quali la pancreatite acuta necroticoemorragica, e di altre patologie che presentano focolai continuamente riforniti di materiale settico. La cerniera laparotomica viene suturata ai lembi della ferita al termine dell’intervento chirurgico. Essa viene aperta ogni 24-48 ore per effettuare le operazioni di toilette peritoneale, per le quali è sufficiente la sedazione del paziente, senza dover ricorrere all’anestesia generale. Quando la cavità addominale è sufficientemente detersa, si asporta la cerniera e si esegue la sutura della laparotomia. L’impiego della cerniera laparotomica semplifica la gestione delle medicazioni della ferita addominale rispetto al trattamento aperto con laparostomia.

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Materiale protesico P. Castelli Si definisce materiale protesico o impiantabile ogni materiale che possa essere incorporato nell’organismo vivente, quindi biocompatibile, allo scopo di adempiere una funzione di sostituzione, miglioramento o recupero di organi, tessuti o funzioni deficitarie o mancanti. Nonostante il notevole numero di materiali messi a disposizione dalla tecnologia, solo alcuni di questi possiedono caratteristiche meccaniche, fisiche e chimiche adeguate all’impianto.  Tra le applicazioni più frequenti si può ricordare la ricostruzione o sostituzione del ginocchio, dell’articolazione dell’anca, della mascella, dell’articolazione temporo-mandibolare, del gomito, le ricostruzioni ossee (dita, orecchio medio), dei denti, della mammella, le sostituzioni di arterie e vene, la correzione di difetti della parete addominale, la correzione delle cardiopatie congenite ed acquisite. In fase di sperimentazione sono: il sangue artificiale, il cuore intratoracico e membrane di vario tipo per varie funzioni specifiche (scambi gassosi, dialisi, ultrafiltrazione di cataboliti).

Materiali metallici Costituiscono un eccellente materiale protesico nei casi in cui è indispensabile una particolare resistenza meccanica associata ad inerzia chimica e a tolleranza biologica (chirurgia osteoarticolare).  I requisiti che maggiormente devono essere soddisfatti sono: alte resistenze alla corrosione, buona tolleranza da parte dei tessuti, assenza di tossicità, proprietà meccaniche desiderate, alta resistenza all’abrasione e all’usura, omogeneità strutturale. I metalli che attualmente rispondono a queste caratteristiche sono le leghe a base di cobalto e cromo, gli acciai lavorati, il titanio, il tantalio.

Materiali organici Lo sviluppo più significativo nella produzione di materiali organici impiantabili si è avuto a partire dagli anni Cinquanta con il progredire delle applicazioni tecnologiche dei polimeri e delle gomme sintetiche. L’uso di materiali organici in chirurgia è generalmente preferito a quello dei metalli, in quanto i primi presentano caratteristiche fisico-chimiche più simili a quelle dei tessuti biologici.  I requisiti ideali sono: la possibilità di essere ottenuti allo stato puro, la possibilità di essere adattati alle esigenze tecniche senza subire importanti alterazioni delle proprietà, quali la sterilizzabilità, l’assenza di tossicità e l’inerzia in presenza di tessuti di natura diversa. I materiali più comunemente usati sono: polietilene, teflon, nylon, dacron.

Campi di applicazione 130

Come è stato già accennato, numerose sono le branche chirurgiche che si avvalgono dell’uso di materiali protesici, permettendo di affrontare con successo situazioni patologiche altrimenti irrimediabili. In chirurgia ortopedica è routinario l’utilizzo di protesi metalliche e organiche per la ricostruzione dell’anca e del gomito. In chirurgia plastica ricostruttiva, dopo l’iniziale impiego di paraffina, rivelatasi non adeguata per l’intensa e diffusa reazione infiammatoria da corpo estraneo, sono stati applicati nuovi e diversi materiali. Per la sostituzione di strutture ossee (teca cranica, mascellare, emimandibola) si ricorre a resine acriliche o al tantalio, mentre per i tessuti molli si preferiscono spugne di polivinile, poliuretano, o poliesteri. Il silicone, sotto forma di protesi solide, dà ottimi risultati nelle ipotrofie mammarie, nell’agenesia del padiglione auricolare, nell’assenza dei testicoli. Le protesi biologiche si distinguono in autologhe, omologhe, eterologhe. z Per quanto riguarda le protesi autologhe bisogna ricordare gli innesti in vena o in arteria, il cui utilizzo è tuttavia riservato a precise indicazioni (rivascolarizzazione tibiale e coronarica per la vena safena, rivascolarizzazione coronarica per l’arteria mammaria interna, rivascolarizzazione viscerale per le arterie splenica ed ipogastriche). z Tra le protesi omologhe, non sono ancora completamente risolti i problemi di istocompatibilità e di conservazione dei prelievi da cadavere; la più usata è la vena ombelicale umana (protesi di Dardik) rivestita da una maglia di dacron. z Diverse sono le protesi eterologhe attualmente disponibili: carotide e mammaria bovine, protesi di collagene ovino; il loro impiego, e soprattutto il loro comportamento a distanza, sono tuttora oggetto di studi. Da ultimo si devono menzionare le protesi endoluminali (stent) metalliche ed organiche, utilizzate per la correzione di stenosi vascolari, ureterali, esofagee e delle vie biliari. La sostituzione protesica trova la sua massima utilità in chirurgia cardiaca e vascolare,dove l’introduzione, l’uso e il perfezionamento dei materiali protesici hanno permesso di affrontare e risolvere diverse situazioni patologiche. Tra le protesi cardiache devono essere ricordate le apparecchiature di assistenza meccanica, quali il pallone intraortico a pompa (Intraaortic Ballon Pump, IABP) e i dispositivi per l’assistenza ventricolare sinistra (Left Ventricular Assist Devices, LAVD). Di più recente acquisizione e suscettibile di ulteriore perfezionamento sono il cuore artificiale totale, nei due modelli Akutan III e Jarvik-7, e il sistema per l’assistenza ventricolare sinistra (Ventricular Assist System,VAS). In cardiochirurgia sono attualmente disponibili protesi valvolari metalliche (a biglia ingabbiata, a disco oscillante o fluttuante), protesi biologiche porcine montate su supporti di tessuto. Per la chirurgia vascolare sono utilizzate protesi sintetiche e biologiche. Le prime di calibro, lunghezza e conformazione variabile, sono fabbricate in dacron, tessuto a maglie strette (woven) o larghe (knitted) con o senza rivestimento in poliestere (velour), oppure in politetrafluoretilene espanso (PTFE).

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Il laser P. Castelli Le prime applicazioni pratiche del laser (acronimo inglese di Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation) risalgono al 1960, quando T.H. Maiman costruì, sviluppando i presupposti teorici enunciati da A. Einstein nel 1917, una fonte laser utilizzando un cristallo di rubino sintetico. La prima comunicazione relativa alla sua utilità in campo biomedico risale al 1963, quando P.E. McGuff e R.A. Deterling descrissero le differenti interazioni dell’energia laser con i tessuti biologici. Da un punto di vista fisico, l’energia laser presenta le seguenti caratteristiche: è collimata (tutti i raggi sono paralleli tra loro), è monocromatica (tutte le radiazioni possiedono la stessa lunghezza d’onda), è coerente (tutte le onde sono in fase nel tempo e nello spazio). Attualmente sono disponibili diverse fonti laser,ciascuna con una propria caratteristica lunghezza d’onda, distribuite lungo lo spettro elettromagnetico, dall’ultravioletto all’infrarosso (Tab. 4.2).

Il più importante parametro usato per descrivere l’interazione tra l’energia laser ed i tessuti è rappresentato dalla densità o fluenza, misurabile in J/cm 2, e definita dal rapporto tra l’energia emessa al secondo (Ws) e l’area di tessuto esposto (cm 2). La durata di esposizione alla densità di energia, compresa generalmente tra 10 e 10.000 J/cm 2, è la variabile capace di determinare il tipo di effetto del laser sui tessuti: elettromeccanico, fotoablativo, termico, fotochimico (Tab. 4.3).

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L’effetto elettromeccanico si sviluppa quando l’energia laser viene liberata ad alti livelli di potenza in brevissimi intervalli di tempo, generando a livello del tessuto bersaglio un campo elettrico che produce un microplasma. L’onda di shock associata al microplasma determina la necrosi localizzata del tessuto. Recentemente è stata progettata una fonte laser Nd-YAG (neodymium: yttriumaluminumgarnet), in grado di produrre un’azione elettromeccanica; tuttavia, l’impossibilità attuale di trasportare, attraverso un sistema di fibre ottiche, tale energia, ne impedisce l’utilizzo terapeutico. Il processo fotoablativo si determina attraverso la rottura diretta dei legami intramolecolari, senza reazione termica dei tessuti circostanti. Tale effetto è stato raggiunto sperimentalmente con fonti laser di 360 nm, ma anche per questo tipo di laser non è attualmente disponibile un sistema adeguato di trasporto a distanza. La maggior parte delle applicazioni di laser in chirurgia sfrutta la conversione dell’energia elettromagnetica in energia termica, determinando un effetto di coagulazione, emostasi e resezione, in rapporto alla profondità di penetrazione, alle caratteristiche di assorbimento dei tessuti, al livello termico provocato. Le fonti comunemente impiegate sono il laser CO2,Argon e Nd-YAG (Tab. 4.4). Il problema più importante nell’uso clinico del laser termico consiste nell’evitare lesioni al tessuto circostante, concentrando l’effetto desiderato sulle zone bersaglio, utilizzando tecniche radiologiche, angioscopiche e spettroscopiche. L’interazione fotochimica, caratterizzata da una lunga durata di esposizione a basso livello energetico, si manifesta allorché un cromoforo, cioè una molecola in grado di provocare reazioni indotte dall’energia luminosa, è sensibilizzato dall’energia laser, liberando radicali ossidrilici e determinando perciò la distruzione del tessuto bersaglio. Alcune molecole di questo tipo, come i carotenoidi e le tetracicline, con spettro di assorbimento di 460-480 µm e di 355 µm, sono note da tempo. Più recentemente è stata posta l’attenzione su alcuni derivati dell’ematoporfirina, che presentano una duplice selettività di legame a livello di alcuni tipi di neoplasie e delle placche aterosclerotiche. Tali lesioni sono in grado di assorbire l’energia emessa dal laser Argon.

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 Per quanto riguarda l’impiego clinico del laser, bisogna osservare che, accanto agli ottimi risultati ottenuti da tempo in dermatologia ed in oftalmologia, il rapido progresso tecnologico ha aperto nuove ed incoraggianti possibilità in altri campi, peraltro con risultati a lungo termine ancora da convalidare (Tab. 4.5).

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Ultrasuoni e onde d’urto A. Benevento

Ultrasuoni Gli ultrasuoni, di cui si è già detto a proposito della loro utilizzazione per la diagnostica ecografica, trovano anche impiego quale strumento di dissezione (“dissettore ad ultrasuoni”) nella chirurgia resettiva di organi parenchimatosi ricchi di strutture vascolari. L’emissione di ultrasuoni su tessuti parenchimatosi comporta l’emulsione delle cellule particolarmente ricche d’acqua, mentre vengono risparmiate dall’azione lesiva degli ultrasuoni le strutture vascolari, biliari, nervose e linfatiche poiché costituite in prevalenza da tessuto connettivale. A differenza degli strumenti di dissezione convenzionale (bisturi e termo-elettrocauterio) e degli strumenti laser (a CO2 e a Nd-YAG), la cui azione è limitata al taglio e/o alla coagulazione, il dissettore ad ultrasuoni associa all’azione di taglio selettivo l’irrigazione del campo operatorio e l’aspirazione contemporanea dei detriti cellulari e del sangue. In tale modo è quindi più facile isolare e successivamente legare in modo selettivo quei vasi che con la tecnica convenzionale verrebbero accidentalmente lesi; questo permette di ridurre i tempi operatori, diminuendo al tempo stesso i rischi di emorragie, linforragie e fistole biliari (durante resezioni epatiche) con una conseguente riduzione delle complicanze postoperatorie. Le indicazioni all’uso di questo strumento sono poste da interventi effettuati su organi nei quali il tessuto parenchimatoso prevale sulla componente connettivale di sostegno: fegato, rene, milza, tiroide, pancreas, cervello e midollo spinale. In neurochirurgia merita particolare menzione l’azione selettiva degli ultrasuoni sul tessuto cerebrale patologico con risparmio delle guaine nervose mieliniche.

Litotripsia La litotripsia (frantumazione dei calcoli) extracorporea ad onde d’urto è stata introdotta nel 1980 nella terapia della litiasi reno-ureterale; la sempre più vasta applicazione di questa metodica ha quasi completamente sostituito la terapia chirurgica della litiasi renale. Dal 1986 la litotripsia extracorporea è stata applicata anche per la terapia della calcolosi biliare, principalmente colecistica, ma anche della via biliare principale; in questo settore, pur con diverse limitazioni, tale metodica può talora costituire una valida alternativa all’intervento chirurgico.

Caratteristiche tecniche dei litotritori extracorporei ad onde d’urto Tutti i litotritori attualmente in uso funzionano grazie allo stesso principio generale: essi producono e convergono onde d’urto focalizzate sul calcolo da frammentare. Le onde d’urto sono generate e trasmesse attraverso un mezzo liquido, generalmente acqua; poiché i tessuti molli hanno una impedenza acustica simile a quella dell’acqua, solo una minima parte dell’energia dell’onda viene assorbita prima di raggiungere il bersaglio. In questo modo i calcoli possono essere frammentati con un danno minimo ai tessuti circostanti. I litotritori attualmente utilizzati sono di tre tipi e si differenziano per la differente modalità di 135

generazione dell’onda d’urto: generatore a scintilla elettrica, piezoelettrico ed elettromagnetico. I litotritori producono onde d’urto le cui caratteristiche più importanti sono: la pressione prodotta, il volume dell’onda focalizzabile (area focale: area con il 50% o più raggiunta dal picco di pressione) e l’energia totale di ogni pulsazione (determinata integrando la pressione dell’onda sull’area focalizzata per la durata dell’onda d’urto). Tutte le onde prodotte presentano caratteristiche analoghe: sono onde ad alta pressione, generate con una velocità misurabile in nanosecondi e con una rapida caduta, con una emiampiezza dell’onda misurabile in microsecondi (Fig. 4.8). Una pressione negativa di ampiezza superiore e di lunga durata segue la prima onda positiva.A questa configurazione consegue un fenomeno di cavitazione: il possibile danno tissutale sembra sia da attribuire al collasso delle microbolle prodotte dalla cavitazione.

Gli organi che contengono aria (polmone, visceri addominali, ossa) non sono quindi buoni trasmettitori e potrebbero essere maggiormente danneggiati dall’energia trasmessa dall’onda d’urto. Il paziente deve quindi essere posto in stazione particolare per minimizzare questo effetto. La frammentazione dei calcoli, il dolore avvertibile dal paziente ed il possibile danno tissutale dipendono quindi dai parametri dell’onda d’urto e dal numero di applicazioni necessarie alla distruzione del calcolo. Questi parametri sono stati perfezionati nei litotritori di seconda generazione oggi disponibili. z Generatore a scintilla elettrica. Una corrente che passa tra gli elettrodi di una candela elettrica produce un arco elettrico che vaporizza l’acqua in cui è posta la candela creando una microesplosione. La vaporizzazione genera un’onda d’urto che viene focalizzata sul bersaglio tramite un riflettore ellittico (Fig. 4.9 a). z Generatore piezoelettrico. Un cristallo piezoelettrico produce onde ultrasoniche che sono focalizzate per mezzo di una lente acustica. La convergenza delle onde e l’aumento di intensità delle stesse producono un’onda d’urto vicino al punto focale del sistema (Fig. 4.9 b). z Generatore elettromagnetico. Una corrente elettrica pulsante viene trasmessa attraverso una bobina posta al di sotto di una lamina metallica. La vibrazione prodotta dalla lamina come risultante del campo magnetico produce un’onda d’urto che viene focalizzata sul bersaglio tramite una lente acustica (Fig. 4.9 c).

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In tutti i tipi di generatori di onde d’urto il punto focale (il calcolo) viene misurato tramite una elaborazione computerizzata ottenuta da due o tre sonde ecografiche in posizione ortogonale rispetto al paziente, in modo da realizzare una immagine tridimensionale,riducendo al minimo la possibilità di errore di centratura del bersaglio (Fig. 4.10).

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Indicazioni alla litotripsia extracorporea La popolarità di questo metodo nella terapia della litiasi urinaria e biliare è da attribuire più alla incondizionata accettazione da parte del paziente, che evita così l’intervento chirurgico, che ai reali risultati positivi ottenibili immediatamente dopo l’intervento. z Litiasi renale. Le indicazioni iniziali al trattamento sono state poste per calcoli di dimensioni inferiori a 2,5 cm, di numero non superiore a tre, posizionati a livello calico-pielico. Indicazioni al trattamento sono l’assenza di anomalie anatomiche e una buona funzionalità ureterale, condizioni chiaramente essenziali per l’eliminazione dei detriti derivanti dalla frammentazione del calcolo. In effetti oggi sono sottoposti al trattamento anche calcoli coralliformi o a stampo di grosse dimensioni e calcoli ureterali posizionati anche più distalmente, a livello iliaco e pelvico; spesso tale tratto costituisce un’area cieca per la localizzazione ecografica. Il trattamento, in questi casi, viene spesso protratto sia come numero di onde d’urto nella stessa seduta, sia come numero di sedute necessarie a ridurre i calcoli in frammenti eliminabili per via ureterale. I possibili danni al parenchima renale andranno quindi attentamente considerati. Spesso vengono associate manovre endoscopiche endoureterali transvescicali per facilitare l’eliminazione dei detriti. z

Litiasi biliare. Le indicazioni sono rappresentate da calcoli della colecisti di dimensioni inferiori a 3 cm, in numero non superiore a tre, a basso contenuto di calcio e con colecisti ben funzionante e dotto cistico pervio dimostrato alla colecistografia perorale. I calcoli devono 138

essere ridotti in frammenti di 2-4 mm in modo da poter passare attraverso il dotto cistico nella via biliare principale e quindi riversarsi in duodeno attraverso la papilla di Vater. Generalmente viene associato un trattamento litolitico per via orale con acido ursodesossicolico e chenodesossicolico per aiutare la dissoluzione dei detriti.Anche in questo caso talvolta si deve ricorrere a manovre endoscopiche e a papillo-sfinterotomia per via endoscopica per facilitare la discesa dei detriti dei calcoli accumulati nel coledoco. In casi di litiasi biliare l’intervento chirurgico tradizionale continua comunque ad essere considerato la procedura d’elezione e la litotripsia viene proposta esclusivamente in pazienti ad altissimo rischio anestesiologico.

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Accessi vascolari P. Castelli, R. Beretta  Per accesso vascolare si intende qualsiasi forma di cateterismo di un vaso venoso o arterioso, avente lo scopo di somministrare prodotti farmacalogici o di rimuovere dal sangue sostanze tossiche esogene o endogene. Storicamente la prima incannulazione venosa risale agli esperimenti di Wren nel 1656, mentre le prime infusioni endovenose sono descritte da Boyle nel 1663. Lo sviluppo delle tecniche per gli accessi vascolari si deve a Seldinger, che alla fine degli anni Venti per primo introdusse il cateterismo venoso centrale. Arriviamo poi agli anni Cinquanta con Kollf che espletò con successo la prima emodialisi. Fu Scribner, nel 1960, a comprendere per primo l’utilità di confezionare uno shunt artero-venoso per garantire un’emodialisi adeguata e salvaguardare il più possibile il patrimonio vascolare. Negli anni Settanta, infine, furono ideati (Broviac, Hickman) dei cateteri venosi centrali che potessero rimanere in sede anche per periodi di tempo prolungati. Infine, nel corso degli ultimi 15 anni, l’introduzione in chirurgia vascolare protesica del PTFE ha sicuramente aperto nuove possibilità di confezionamento di fistole artero-venose per l’emodialisi.

Emodialisi L’obiettivo di un accesso per emodialisi è ovviamente quello di permettere di effettuare un’emodialisi efficace; ciò implica la capacità di rimuovere, depurare e reinfondere un grande volume di sangue per un periodo di tempo adeguato. Da ciò nasce l’esigenza di confezionare degli accessi vascolari che consentano non solo di espletare l’emodialisi a tali condizioni, ma anche di poterlo fare per periodi tempo estremamente lunghi, anche per tutta la vita del paziente. In particolare, a seconda che il trattamento emodialitico debba essere condotto in regime di emergenza o in elezione, si possono utilizzare accessi vascolari differenti.

Terminologia z Accesso per dialisi acuta: cateterismo di una vena di calibro adeguato per insufficienza renale acuta. Il suo utilizzo è caratterizzato dall’urgenza ed è estremamente limitato nel tempo. Il catetere viene solitamente posizionato in vene di grosso calibro (giugulare, succlavia, femorale), è in materiale plastico, generalmente poliuretano e può tranquillamente essere posizionato al letto del paziente. In effetti esistono dei cateteri venosi centrali in silastic che possono rimanere in sede anche per parecchi mesi, essendo predisposti in modo tale da creare una barriera contro possibili infezioni; il loro posizionamento avviene solitamente in ambienti adeguatamente sterili.

Accesso per dialisi cronica: accesso per dialisi in insufficienza renale cronica; il suo impiego può protrarsi per periodi di tempo lunghi, anche per tutta la vita del paziente; con tale termine si indicano solitamente le fistole arterovenose. Attualmente vengono utilizzati due tipi di FAV, quelle sottocutanee, in cui viene abboccata l’arteria alla vena direttamente e quelle protesiche, in cui si utilizza una vera e propria protesi vascolare, generalmente in PTFE, per collegare un’arteria ad una vena. Tra le prime, la più diffusa è quella tra arteria e vena radiale al polso, con una pervietà ad 1 anno del 90% e a 4 anni del 75%, durata che può essere ulteriormente prolungata correggendo chirurgicamente o con metodiche endoluminali eventuali complicanze. z

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Eseguita la fistola, la pressione arteriosa è trasmessa direttamente al distretto venoso, che si dilata e sviluppa un’ipertrofia della tonaca muscolare. L’arterializzazone permette la formazione, dopo circa 6 settimane, di vasi venosi di opportune dimensioni, con una parete sufficientemente resistente da tollerare frequenti punture per l’emodialisi. La portata varia tra 150 e 500 cc/minuto nel-le FAV tra vasi di piccolo calibrio, e tra 500 e 1500 cc/minuto a livello di vasi di maggiori dimensioni. L’anastomosi latero-laterale, con apertura anastomotica di circa 1 cm, è la più agevole e possiede il più alto flusso; peraltro può provocare occasionalmente ipertensione alla mano. L’anastomosi artero-venosa termino-laterale riduce il rischio di emometacinesia distale (cioè fuga di sangue ossigenato nel distretto venoso), ma comporta un flusso più ridotto. L’anastomosi artero-venosa latero-terminale garanticse un alto flusso, con ridotta ipertensione venosa distale, ma è generalmente più difficile da eseguire. L’anastomosi termino-terminale ha il più basso rischio di furto e di ipertensione distale, ma possiede pure il più basso flusso a livello della fistola (Fig.4.11).

z

Nell’impossibilità di eseguire una FAV a livello del polso, sedi alternative sono il distretto brachio-cefalico e brachio-basilico, che presentano una pervietà a 2 anni nel 70% dei casi. Nell’impossibilità di eseguire una FAV diretta tra arteria e vena, la migliore alternativa consiste nel praticare un innesto protesico tra arteria e vena, anastomizzato termino-lateralmente, a decorso sottocutaneo, facilmente palpabile ed utilizzabile in genere dopo 2 settimane. Le sedi preferenziali sono rappresentate dall’arto superiore (arteria radiale – vena antidecubitale, arteria omerale – vena cefalica, arteria omerale – vena ascellare) e in seconda istanza la coscia (arteria femorale comune o superficiale – vena femorale o grande safena). I migliori risultati in termini di pervietà si ottengono con le FAV confezionate alla coscia, anche se esse sono gravate da un rischio più elevato di infezione e di ischemia periferica. Il materiale preferenziale per il confezionamento di tali FAV è rappresentato da vena autologa (safena), ove sia disponibile, in caso contrario un’ottima alternativa è il PTFE, che ha dimostrato buoni risultati a distanza, con percentuali di pervietà a 2 anni pari al 70%.

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z Accessi per dialisi in età pediatrica: nei bambini la difficoltà maggiore al confezionamento di accessi per emodialisi è rappresentato soprattutto dalle dimensioni ridotte dei vasi, soprattutto venosi, che non hanno ancora raggiunto il loro completo sviluppo. Nei prematuri e nei neonati, si tendono ad utilizzare i vasi ombelicali, mentre in caso di bambini di età maggiore, si utilizza una vena centrale, (cava superiore o inferiore), incannulata attraverso la giugulare o la femorale. La tecnica per garantire una accesso per emodialisi duraturo nel tempo in età pediatrica varia in rapporto al peso del bimbo; in particolare, sotto i 20 kg di peso corporeo, generalmente si predilige il confezionamento di uno shunt esterno (il cosiddetto shunt di Scribner; Fig. 4.12), mentre per bambini di peso superiore a 20 kg si può procedere al confezionamento di una FAV sottocutanea o un innesto artero–venoso.

Complicanze: la complicanza più frequente, sia per le FAV sia per gli innesti protesici, è rappresentata dalla trombosi. Essa si può manifestare sia precocemente, e in questo caso è causata quasi esclusivamente da un errore tecnico nel confezionamento, sia tardivamente, allorquando si crea una reazione fibrotica a carico del distretto venoso, in risposta alle ripetute punture, o una stenosi in sede anastomotica. Attualmente tale complicanza può essere agevolmente corretta con metodiche endovasali. Un’altra complicanza frequente, soprattutto negli innesti protesici, è rappresentata dalla comparsa di pseudoaneurismi anastomotici, per cui attualmente è proposto un tratta-mento percutaneo di stenting, qualora compromettano il funzionamento dello shunt. Lo stato di immunodepressione, tipico dei pazienti emodialitici, può favorire l’insorgenza di complicanze settiche, che evidentemente sono assai più frequenti negli shunt esterni. Le caratteristiche emodinamiche della fistola possono condizionare la comparsa di scompenso cardiaco congestizio, emometacinsia periferica, ipertensione venosa distale. L’insorgenza di insufficienza cardiaca si instaura in pazienti portatori di shunt con flusso superiore a 500-600 ml/min in condizioni di riposo. L’insufficienza arteriosa periferica,dovuta ad un fenomeno di furto, si osserva specie nelle FAV con anastomosi latero-laterali e negli innesti prossimali ad alto flusso. Quadri di ipertensione venosa distale possono generarsi in seguito ad incompentenza valvolare,provocata dall’ipertrofia e dalla dilatazione del distretto venoso arteriolizzato. z

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Nutrizione parenterale e chemioterapia Sin dall’introduzione nella pratica clinica della tecnica di Seldinger per l’incannulamento dei vasi centrali, è stato possibile utilizzare un accesso venoso per l’infusione di sostanze o farmaci per periodi di tempo protratti, in un sempre maggior numero di casi e per patologie differenti. L’utilizzo degli accessi venosi periferici, oltreché di limitato utilizzo temporale, non permette l’infusione di sostanze irritanti (chemioterapici) o ad elevata osmolarità (glucosio ad alte concentrazioni), per cui sono ormai di impiego routinario gli accessi venosi periferici.

Terminologia Dispositivi in emergenza: si tratta di cateteri in poliuretano di 7-8 Fr di diametro che vengono posizionati per via percutanea in vena giugulare o succlavia, senza essere tunnellizzati nel sottocute. Essi permettono l’infusione di cospicui volumi di liquidi rapidamente e, contemporaneamente, il monitoraggio di parametri emodinamici importanti, quali la pressione venosa centrale, nei pazienti critici o nel postoperatorio. La durata di tali dispositivi è tuttavia abbastanza limitata nel tempo, vanno spesso incontro a complicanze trombotiche e infettive, inoltre sono poco tollerati dal paziente. z

z Dispositivi a medio termine: hanno le medesime caratteristiche dei cateteri precedenti, ma il loro impiego si può protrarre anche per periodi di tempo più lunghi, inoltre, potendo essere posizionati attraverso una vena periferica, generalmente la vena antidecubitale al braccio, sono più tollerati dal paziente; tuttavia permane la possibilità di occlusione e di infezione.

Cateteri tunnellizzati: questi dispositivi, generalmente in silastic, sono costitutiti da una porzione intravenosa e una porzione esterna che viene posizionata nel sottocute. Il loro impianto, generalmente nella vena succlavia, è effettuato sotto guida radiologica in ambiente adeguatamente sterile (Fig. 4.13). Esistono due tipi di tali devices attualmente in uso: il catetere di Broviac, inizialmente proposto per effettuare la nutrizione parenterale nei bambini, e il catetere di Hickmann, utilizzato soprattutto per la somministrazione di farmaci in pazienti sottoposti a trapianto; frequentemente tali dispositivi vengono utilizzati in combinazione allo scopo di ottenere un catetere a due lumi.Attualmente il loro impiego clinico è richiesto nei casi di nutrizione parenterale totale protratti nel tempo; infatti, grazie al materiale di cui sono costituiti, sono resistenti alle infezioni e si mantengono pervi anche per periodi di tempo estremamente lunghi. z

Port-a-cath: sono costituti da un catetere venoso collegato ad un serbatoio di titanio o plastica e vengono posizionati, generalmente in succlavia, sotto guida radiologica con intascamento del serbatoio nel sottocutaneo. Il loro impiego clinico è rappresentato dalla chemioterapia a cicli intermittenti. Sono resistenti alle infezioni, ma possono andare incontro ad occlusione, per cui necessitano di particolari attenzioni nel mantenimento e spesso il paziente deve sottoporsi ad una profilassi antitrombotica. Rientrano in questo gruppo anche i cateteri che richiedono un posizionamento in arteria per effettuare una chemioterapia loco-regionale (per esempio arteria epatica); questi ultimi sono generalmente posizionati dal chirurgo in anestesia generale. z

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Insufficienza renale acuta post-chirurgica: interventi depurativi sostitutivi F. Scolari Il decorso postoperatorio rappresenta una delle condizioni più frequentemente complicate da insufficienza renale acuta (IRA), caratterizzata da improvviso peggioramento della funzione renale che, nel corso di poche ore o giorni, è in grado di determinare una riduzione dell’eliminazione urinaria dei cataboliti azotati ed alterazioni del bilancio idrosalino e dell’equilibrio acido-base. È stato stimato che circa il 25% delle procedure chirurgiche elettive non cardiache sono complicate da IRA di vario grado. Il riscontro di una forma di IRA molto severa, necessitante dialisi, è invece osservabile in una percentuale più bassa, variabile dallo 0,4 al 7,5% dei pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca, e valutabile nello 0,6% dei pazienti sottoposti ad una procedura di chirurgia generale. Lo sviluppo di IRA del postoperatorio è strettamente dipendente dalla presenza di due importanti fattori di rischio preoperatori: ischemia renale occulta (associata a comorbidità quali diabete,ridotta performance cardiaca,malattia aterosclerotica renale) ed insufficienza renale cronica secondaria a nefropatia preesistente.In presenza di questi fattori di rischio preoperatori, l’esperienza chirurgica per sé è in grado di indurre una vasocostrizione arteriolare renale,con ulteriore riduzione della funzione renale. Se, in queste condizioni, il decorso postoperatorio è complicato da un evento aggiuntivo di tipo nefrolesivo (reintervento,sepsi,esposizione a sostanze nefrotossiche, severa deplezione volemica, insufficienza cardiaca), si può manifestare un quadro clinicamente evidente di IRA. In particolare, tre procedure chirurgiche presentano un elevato rischio di sviluppare IRA: z la chirurgia dell’aorta addominale, in cui il fattore determinante è rappresentato da un variabile periodo di ischemia renale totale quando sia richiesto un clampaggio sovraaortico; z la chirurgia cardiaca, in cui giocano un ruolo di concausa la cardiopatia di base, l’ipotensione arteriosa e l’emolisi secondaria alla circolazione extracorporea; z la chirurgia dell’ittero ostruttivo, il cui decorso postoperatorio, rispetto ad altri interventi, è associato a più severa riduzione del filtrato glomerulare, secondaria ad aumentato assorbimento di endotossina dall’intestino che determina vasocostrizione renale. Nella maggioranza dei casi, l’IRA del postoperatorio che richiede trattamento dialitico è pertanto secondaria ad un danno ischemico (da ipoperfusione) e/o tossico, a carico del tubulo renale, tale da configurare un quadro anatomo-patologico di necrosi tubulare acuta.In ordine di importanza,il ruolo causale maggiore è giocato da ipotensione, disidratazione ed impiego di aminoglicosidi. Ne discende che il mantenimento di parametri emodinamici e di un volume intravascolare ottimale durante e dopo l’atto chirurgico,unitamente alla riduzione della esposizione ad agenti nefrotossici,possono diminuire in modo significativo il rischio di necrosi tubulare acuta del postoperatorio. L’efficacia di misure preventive farmacologiche largamente impiegate nell’ultimo decennio, quali mannitolo e furosemide ad alte dosi e dopamina a dosi “renali” subpressorie non è documentata ed espone ad effetti collaterali. In una minoranza dei casi, la causa di IRA è diversa dalla necrosi tubulare acuta. Nei pazienti complicati da sepsi, che spesso presentano un quadro clinico da Multiple Organ Dysfunction Syndrome (MODS), caratterizzato da insufficienza concomitante di vari organi (rene, polmone, fegato e cuore), il danno endoteliale indotto dalla endotossina può innescare una coagulazione intravascolare disseminata ed esitare in necrosi corticale renale. Inoltre, nel corso di interventi di chirurgia vascolare, la manipolazione dell’aorta può determinare una embolizzazione di cristalli di colesterolo provenienti dalle placche aterosclerotiche ulcerate, causando IRA secondaria ad ostruzione dei vasi di piccolo calibro del rene. In questo caso, si associa usualmente ostruzione dei piccoli vasi di altri organi addominali (colite ischemica) e delle estremità (sindrome delle dita blu). 145

Indicazioni alla dialisi Esistono alcune indicazioni assolute ed urgenti alla dialisi in corso di IRA. Esse sono: z edema polmonare acuto refrattario alla terapia diuretica; z iperpotassiemia minacciosa per la vita (> 7 mEq/l) non corretta da appropriata terapia medica (infusioni di glucosio ed insulina e di bicarbonato; impiego di resine a scambio ionico); z acidosi metabolica severa (pH < 7,2); z presenza di segni e sintomi da uremia (pericardite, nausea, vomito, encefalopatia uremica). Un approccio moderno al trattamento dell’IRA dovrebbe consistere nell’evitare la istituzione di un trattamento urgente e pianificare una dialisi precoce,“profilattica”, in modo da prevenire le complicanze uremiche.Tuttavia, complessità del quadro clinico e necessità di bilanciare rischi (la seduta dialitica può peggiorare l’instabilità emodinamica, aggravare l’ischemia renale, rallentando il ricupero funzionale) e benefici del trattamento dialitico rendono difficile prescrivere linee-guida rigide per l’inizio della terapia sostitutiva. Con queste limitazioni, pur in assenza di sintomi uremici e di turbe idro-elettrolitiche, la presenza di oligo-anuria, il riscontro di valori di urea ematica > 200 mg/dl e di creatininemia > 10 mg/dl, in rapido peggioramento, possono essere considerati criteri che giustificano l’inizio della dialisi.

Metodiche di dialisi Fondamentalmente, si distinguono due tipi di dialisi: la dialisi extracorporea, di gran lunga la più impiegata nel trattamento dell’IRA, e la dialisi peritoneale, che usa come membrana dialitica il peritoneo.

Dialisi extracorporea Emodialisi È la tecnica più diffusa di trattamento sostitutivo; viene eseguita impiegando la circolazione extracorporea, per cui richiede l’impiego di anticoagulante (eparina), e consiste di tre componenti: la via ematica, il circuito che produce e convoglia il liquido di dialisi e il filtro di dialisi (Fig. 4.14).

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Il sangue venoso del paziente, proveniente da un accesso vascolare centrale (vena femorale, succlavia o giugulare) viene veicolato per mezzo di una pompa peristaltica, attraverso vie dotate di misuratori di pressione e di flusso, ad un filtro di dialisi (dializzatore) e ritorna poi in una vena. Si usa generalmente la stessa vena utilizzando un catetere a doppio lume o un sistema che alterna aspirazione a restituzione del sangue. Nel filtro, il sangue viene a contatto con la soluzione dializzante che scorre controcorrente rispetto al flusso ematico, e dalla quale è separato da una membrana semipermeabile, a struttura reticolare, con spazi intermolecolari detti pori, di dimensioni variabili; questi pori, a seconda del tipo di filtro scelto, possono lasciar passare molecole di peso molecolare di qualche migliaia di Dalton, fino a molecole di circa 45.000 Dalton. L’apparecchio (rene artificiale) provvede alla preparazione del liquido di dialisi (miscelando acqua deionizzata e soluzioni concentrate), garantisce che le varie fasi del processo si svolgano a temperatura costante ed è dotato di una serie di sistemi di controllo del circuito. Il passaggio dei soluti attraverso una membrana semipermeabile obbedisce alle leggi del trasferimento di massa e può avvenire per diffusione (secondo il gradiente di concentrazione) o per convezione (secondo un gradiente di pressione idrostatica). Nell’emodialisi tradizionale, che impiega filtri di cellulosa, a bassa permeabilità idraulica, il passaggio dei soluti avviene prevalentemente per diffusione: se un soluto presente nel sangue del paziente è diffusibile, il suo allontanamento dall’acqua plasmatica viene regolato dal gradiente di concentrazione, determinato dalla contemporanea assenza del soluto nella soluzione di dialisi. Ovviamente, è possibile anche il trasferimento di un soluto in senso inverso (dalla soluzione di dialisi al sangue), governato dallo stesso principio. Pertanto, durante la circolazione extracorporea si ha un continuo scambio tra sangue e soluzione dializzante che porterà da un lato ad una depurazione del sangue dai metaboliti azotati (urea, creatinina), dall’altro ad un suo arricchimento con sostanze appositamente messe nella soluzione dializzante (bicarbonato, calcio). La correzione del disequilibrio elettrolitico avviene agendo sulla composizione della soluzione di dialisi, in modo da ottenere gradienti di concentrazione e quindi passaggio di elettroliti in un senso o nell’altro. Nell’emodialisi tradizionale, il trasporto convettivo avviene solamente sfruttando il volume di acqua plasmatica che viene ultrafiltrato per rimuovere l’eccesso di volume extracellulare accumulato nel periodo interdialisi. La deidratazione avviene grazie ad un gradiente di pressione idrostatica transmembrana, ottenuto aumentando la pressione idrostatica all’interno del compartimento ematico e diminuendo la pressione nel compartimento della soluzione di dialisi. L’ultrafiltrazione apporta anche un contributo, benché modesto, alla rimozione dei soluti, poiché l’acqua ultrafiltrata contiene soluti in concentrazione uguale all’acqua plasmatica. Negli ultimi 35 anni, l’emodialisi standard, intermittente, è stata utilizzata come terapia di prima scelta per il trattamento dell’IRA. Nel paziente emodinamicamente stabile, questa scelta è ancora condivisibile, in considerazione della efficacia depurativa e della familiarità del personale con la sua gestione. La seduta dialitica standard prevede l’impiego di flussi ematici di 300 ml/min ed un flusso del dialisato di 500 ml/min. La composizione del liquido di dialisi, simile a quella dell’acqua plasmatica e variabile a seconda delle necessità, è la seguente: sodio 137-143 mEq/l; potassio 0-4 mEq/l; cloruro 100-111; calcio 3-3,5 mEq/l; magnesio 0,7-1,5 mEq/l; bicarbonato 30-35 mEq/l; glucosio 0-0,25 g%. La frequenza delle sedute (trisettimanale o giornaliera) e la loro durata (in media 4 ore) sono decise sulla base del quadro clinico, considerando entità del volume da sottrarre, livelli di azotemia (da mantenere sotto i 200 mg/dl), quadro elettrolitico ed acido-base. Negli anni Novanta, è stato proposto in corso di emodialisi tradizionale l’impiego di membrane non-cellulosiche, sintetiche e biocompatibili, in alcuni studi associate a più rapida guarigione dell’IRA per una minor attivazione di citochine, complemento e fattori della coagulazione.

Metodiche dialitiche extracorporee continue Durante la seduta dialitica si possono verificare episodi di ipotensione, legati alla sottrazione di volume e alla caduta dell’osmolarità plasmatica. Questa intolleranza dialitica, particolarmente importante nei pazienti con IRA complicata da sepsi, insufficienza cardiaca e disfunzione 147

multiorgano, ha indotto a sviluppare tecniche extracorporee alternative a minor flusso e capacità depurativa oraria, ma caratterizzate da un’elevata stabilità cardiovascolare. La metodica continua più utilizzata è l’emofiltrazione veno-venosa continua a basso flusso (100-200 ml/min), nota come CVVH (Continuous Veno-Venous Hemofiltration), il cui circuito è simile a quello dell’emodialisi, ma nella quale non si sfrutta la diffusione, bensì solo il trasporto convettivo attraverso un filtro sintetico ad elevata permeabilità idraulica. L’accesso al torrente ematico è realizzato, come per l’emodialisi, tramite un catetere in una grossa vena. Un’altra tecnica continua sfrutta l’accesso ad un’arteria e la restituzione in una vena (CAVH, Continuous Artero-Venous Hemofiltration), ma è poco impiegata sia per il maggior rischio di complicanze, sia per il basso flusso ottenibile senza utilizzare una pompa. L’elevato volume di ultrafiltrato (1 o più litri/ora) necessario per garantire un’adeguata depurazione, deve essere in gran parte rimpiazzato da un’appropriata soluzione bilanciata dal punto di vista elettrolitico ed acido-base e solo una piccola quota corrisponde alla sottrazione di volume. Questa metodica continua a basso flusso presenta una stabilità cardiovascolare migliore rispetto all’emodialisi standard, grazie alla più lenta e graduale rimozione dell’urea e dell’acqua ed è particolarmente indicata nei pazienti emodinamicamente instabili ricoverati nelle unità di terapia intensiva. Qualora sia necessaria un’importante rimozione di tossine di piccolo peso molecolare (per esempio urea) si può associare, al trasporto convettivo, anche il trasporto diffusivo facendo passare nel filtro una soluzione dialitica simile a quella dell’emodialisi (CVVHDF: Continuous Venous-Venous Hemodiafiltration).

Dialisi peritoneale Il movimento di acqua e soluti attraverso la membrana peritoneale è regolato dagli stessi principi che controllano questi movimenti attraverso le membrane semipermeabili impiegate nella dialisi extracorporea. Diversamente da queste, la membrana peritoneale è struttura vivente, le cui caratteristiche sono variabili in risposta a fattori ormonali in grado di agire su perfusione e permeabilità vascolare del letto capillare peritoneale. Pertanto, il principio fondamentale su cui è basata la dialisi peritoneale è che la composizione dei soluti di una soluzione infusa nella cavità peritoneale tende ad equilibrarsi con la composizione dell’acqua plasmatica della fitta rete capillare peritoneale. La forza trainante che permette questa diffusione passiva è il gradiente di concentrazione dei soluti ai due lati (acqua plasmatica e soluzione dializzante infusa nella cavità) della membrana peritoneale. Inoltre viene creato un gradiente osmotico aggiungendo glucosio nella soluzione dializzante, per cui si verifica un trasporto convettivo di fluido verso la cavità peritoneale. Quindi, in dialisi peritoneale, l’ultrafiltrato è prodotto grazie ad un gradiente osmotico e non ad un gradiente di pressione idrostatica come in emodialisi. Pertanto, la composizione dei soluti nel liquido peritoneale è il principale strumento per rimuovere le tossine uremiche e l’acqua, correggere gli squilibri elettrolitici ed acido-base e per fornire sostanze utili (calcio e tampone). La soluzione dialitica deve aver contatto (indiretto, tramite mesotelio ed interstizio) con un’adeguata superficie dialitica peritoneale che non si identifica con la superficie anatomica del peritoneo, bensì con quella anatomica e funzionale dei capillari peritoneali perfusi. Essendo il liquido di dialisi relativamente immobile nella cavità peritoneale ed il flusso capillare peritoneale modesto, è necessario un tempo di contatto sufficiente perché le concentrazioni della soluzione dialitica si equilibrino con quelle ematiche. Praticamente, la dialisi peritoneale, che può essere intermittente o continua,comprende tre fasi. La prima comprende la creazione di un accesso alla cavità peritoneale tramite la messa a dimora, con tecnica chirurgica ed in condizioni di asepsi, di un catetere flessibile e cuffiato (catetere di Tenckhoff, Fig. 4.15) la cui estremità interna raggiunge il cavo del Douglas; successivamente, viene immessa in addome una soluzione di dialisi, preriscaldata a 37 °C, che staziona in addome per un 148

periodo variabile,durante il quale si realizzano gli scambi diffusivi; infine la soluzione, arricchitasi delle scorie metaboliche cedute dal sangue viene drenata all’esterno e sostituita con una soluzione di dialisi fresca. Questi scambi vengono ripetuti con una frequenza determinata dall’entità della rimozione di soluti e acqua necessari; può quindi variare da paziente a paziente. In genere il numero è di circa 24 al giorno. L’entrata e l’uscita del liquido sono regolate da apparecchi semiautomatici. Il volume di scambio, cioè la quantità di liquido instillata nella cavità peritoneale durante uno scambio, varia da 1 a 2,5-3 litri ed è in relazione, oltre che con la necessaria efficacia dialitica, con la taglia del paziente. Il tempo di stazionamento per favorire una ottimale rimozione di urea e fluidi è di circa 30 minuti. La durata della seduta dialitica può variare molto, sempre in relazione con il quadro clinico e la necessità di rimozione di soluti e acqua; una seduta media, comprendente 24-48 scambi, ognuno dei quali richiede circa un’ora, può durare 24-48 ore.Tuttavia, sono necessari periodici aggiustamenti di ritmo e durata degli scambi, in relazione con l’evolvere del quadro clinico. In alcuni casi si può eseguire dialisi continuativamente per alcuni giorni, (come con le metodiche extracorporee continue) salvo brevi interruzioni tecniche eventualmente necessarie.

In corso di IRA le indicazioni alla dialisi peritoneale, che un tempo erano numerose, si sono progressivamente ristrette. Le due principali indicazioni tradizionali, e cioè l’impiego nei pazienti con instabilità cardiovascolare (richiedenti sottrazioni lente del volume) e nei pazienti a rischio emorragico (vista la non necessità di eparina) non hanno più carattere assoluto, in conseguenza dell’introduzione delle metodiche extracorporee continue a basso flusso e della possibilità,oggi concreta, di eseguire emodialisi senza eparina. Un recente intervento chirurgico addominale controindica l’impiego di dialisi peritoneale, che diventa problematica per la difficoltà a mantenere un bilancio idrico corretto per la presenza di drenaggi; per il possibile leakage del dialisato dalla recente ferita; per la maggior facilità di infezioni del cavo peritoneale. In particolare, un recente intervento di chirurgia vascolare addominale (aneurisma aortico) controindica l’impiego di dialisi peritoneale per l’aumentato rischio di infezione della protesi aortica. Ulteriori controindicazioni alla dialisi peritoneale sono la presenza di una severa insufficienza respiratoria (l’aumento della pressione addominale dovuto al liquido di dialisi limita le escursioni del diaframma) e uno stato ipercatabolico, in cui è richiesta una depurazione intensiva, non assicurata dalla dialisi peritoneale 149

(meno efficace della emodialisi), che ha anche l’inconveniente, nei pazienti ipercatabolici, di determinare una perdita di oltre 10 grammi di proteine al giorno, a causa dell’elevata permeabilità del peritoneo. Elemento positivo è la continua cessione di glucosio al paziente che può fornire anche oltre 1/3 del fabbisogno calorico giornaliero. In conclusione, pur con le limitazioni sopraesposte, la dialisi peritoneale resta, in mani esperte, un’opzione valida, quando le metodiche extracorporee non risultano di agevole esecuzione per motivi tecnici e gestionali ed in pazienti selezionati, in particolari nei bambini piccoli, nei soggetti con instabilità emodinamica e con problemi emorragici.

Prognosi L’IRA è una condizione severa e l’evento che l’ha precipitata, unitamente alle comorbidità presenti, è il maggior determinante della prognosi. Nel corso della II guerra mondiale, la mortalità nei soldati che sviluppavano necrosi tubulare acuta era del 91%; con la introduzione della dialisi, la mortalità si è ridotta al 60%. Negli ultimi quaranta anni, tuttavia, nonostante i progressi nell’antibiotico-terapia, nella terapia nutrizionale e nelle tecniche dialitiche, non si è osservata un’ulteriore significativa riduzione della mortalità e la sopravvivenza di un’IRA richiedente dialisi varia dal 10 (pazienti ricoverati nelle terapie intensive) al 50% (pazienti che hanno subito un trauma chirurgico). L’aumento dell’età media dei pazienti ed il diverso pattern di malattie causanti IRA spiegano la mancata riduzione della mortalità. Fattore prognostico importante è la presenza, in aggiunta all’IRA, di insufficienza di altri organi. In particolare, la necessità di ventilazione artificiale è associata ad elevata mortalità. Benché la mortalità attuale sia simile a quella di 40 anni fa, essa non è più dovuta ad iperpotassiemia ed edema polmonare, ma è attribuibile a problemi infettivi, cardiovascolari, respiratori. Questo ha dato luogo all’aforisma che i pazienti non muoiono più per IRA ma con IRA. La maggioranza dei pazienti che sopravvivono ad un episodio di IRA ricuperano una buona funzione renale. L’IRA da tubulonecrosi può durare da pochi giorni ad un mese (mediamente 10-14 giorni); la non ripresa della diuresi dopo un mese impone una riconsiderazione della diagnosi. La fase di guarigione può essere caratterizzata da importante poliuria, dovuta ad una funzione tubulare non ancora completamente ristabilita. Tuttavia, modesti deficit funzionali, a carattere subclinico, quali lieve riduzione del filtrato glomerulare ed incapacità a concentrare e ad acidificare le urine, possono persistere in molti pazienti. Solo una piccola quota di pazienti (< 5%) non ricupera la funzione renale; si tratta in genere di soggetti anziani, con malattia renovascolare sottostante, che hanno avuto un insulto ischemico severo e prolungato.

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Letture suggerite z

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5 Chirurgia mininvasiva 5.1 Laparoscopia 5.2 5.3 5.4 5.5

Alterazioni fisiopatologiche in corso di interventi video-laparoscopici Interventi chirurgici Toracoscopia Retroperitoneoscopia

5.6 Chirurgia endoscopica transanale 5.7 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 5

Chirurgia mininvasiva A. Benevento, L. Boni

 La chirurgia mininvasiva o chirurgia endoscopica si propone di raggiungere gli stessi obiettivi delle tecniche chirurgiche classiche attraverso un via di acceso ad organi addominali o toracici che riduca al minimo il trauma chirurgico legato all’attraversamento della parete addominale o della parete toracica. La chirurgia mininvasiva comprende interventi attuati per via laparoscopica e toracoscopica ed interventi attuati all’interno di organi cavi, come la chirurgia transanale, transesofagea e transgastrica. La rivoluzione apportata da questa tecnica in campo chirurgico è stata paragonata a quella ottenuta dall’avvento dell’anestesia generale. Da tecnica puramente diagnostica l’endoscopia è divenuta tecnica operativa grazie all’avvento di microtelecamere ad alta definizione che montate sull’ottica permettono la visione del campo operatorio su uno o più monitor televisivi. La visione del campo operatorio è spesso anatomicamente più definita e chiara di quanto si ottenga a “cielo aperto”ed il chirurgo è libero di operare a due mani, tramite strumenti chirurgici che attraversano la parete addominale o toracica, ed aiutato da più componenti dell’équipe operatoria che contemporaneamente sono in grado di seguire l’intervento. L’esperienza acquisita in questo tipo di chirurgia ha messo in risalto come in molti interventi il decorso postoperatorio sia soprattutto influenzato dal trauma legato alla via di accesso all’organo, spesso necessariamente sproporzionata alla relativa semplicità dell’intervento da eseguire sull’organo stesso, una volta raggiunto ed esposto alla visione dell’operatore. È proprio la rapida ripresa del paziente nel decorso postoperatorio che ha reso questa tecnica così ben accetta dal chirurgo e dal paziente stesso, che oggi la richiede sempre più frequentemente. L’assenza della ferita laparotomica o toracotomica e la ridotta manipolazione di parete e dei tessuti durante l’intervento si traduce in una drastica riduzione delle complicanze di ferita (ernie, infezioni), nella netta riduzione del dolore postoperatorio e nella rapida ripresa delle funzioni respiratorie ed intestinali.Tutto ciò si traduce in una precoce dimissione dall’ospedale del paziente che può riprendere in breve tempo l’attività lavorativa. A fronte di questo entusiasmo iniziale si sono anche messe in luce le problematiche legate alla nuova tecnica, che hanno portato a complicanze intraoperatorie, alcune molto gravi, legate ad una inesperienza iniziale ed alla curva di apprendimento di ogni nuova tecnica. Il chirurgo opera con una visione bidimensionale che appiattisce la profondità del campo operatorio e senza la sensazione tattile caratteristica del gesto operatorio. Queste limitazioni sono superate attraverso un’attività di allenamento ai simulatori e attraverso l’aiuto di colleghi esperti in questa chirurgia; ciò costituisce la condizione necessaria per far sì che le complicanze intraoperatorie siano oggi ridotte in percentuali equivalenti a quelle della chirurgia tradizionale. L’inizio della chirurgia mininvasiva si fa risalire al 1987, anno in cui è stato eseguito in Francia il 154

primo intervento di colecistectomia laparoscopica. Dopo le iniziali perplessità, la tecnica è stata rapidamente accettata ed attuata in tutto il mondo. Con il crescere dell’esperienza pressoché tutti gli interventi chirurgici,anche i più complessi, sono stati eseguiti con la tecnica mininvasiva. Questo non significa che tutti gli interventi debbano essere necessariamente eseguiti con questa tecnica. Attualmente si ritiene che sussista una indicazione elettiva alla chirurgia mininvasiva per tutte quelle patologie benigne aggredibili senza aumento di complicanze rispetto alla chirurgia classica. Il ruolo di queste tecniche in chirurgia oncologica è ancora molto discusso.Verranno di seguito descritte le indicazioni universalmente riconosciute per gli interventi eseguibili con approccio mininvasivo.

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 La chirurgia mininvasiva o chirurgia endoscopica si propone di raggiungere gli stessi obiettivi delle tecniche chirurgiche classiche attraverso un via di acceso ad organi addominali o toracici che riduca al minimo il trauma chirurgico legato all’attraversamento della parete addominale o della parete toracica. La chirurgia mininvasiva comprende interventi attuati per via laparoscopica e toracoscopica ed interventi attuati all’interno di organi cavi, come la chirurgia transanale, transesofagea e transgastrica. La rivoluzione apportata da questa tecnica in campo chirurgico è stata paragonata a quella ottenuta dall’avvento dell’anestesia generale. Da tecnica puramente diagnostica l’endoscopia è divenuta tecnica operativa grazie all’avvento di microtelecamere ad alta definizione che montate sull’ottica permettono la visione del campo operatorio su uno o più monitor televisivi. La visione del campo operatorio è spesso anatomicamente più definita e chiara di quanto si ottenga a “cielo aperto”ed il chirurgo è libero di operare a due mani, tramite strumenti chirurgici che attraversano la parete addominale o toracica, ed aiutato da più componenti dell’équipe operatoria che contemporaneamente sono in grado di seguire l’intervento. L’esperienza acquisita in questo tipo di chirurgia ha messo in risalto come in molti interventi il decorso postoperatorio sia soprattutto influenzato dal trauma legato alla via di accesso all’organo, spesso necessariamente sproporzionata alla relativa semplicità dell’intervento da eseguire sull’organo stesso, una volta raggiunto ed esposto alla visione dell’operatore. È proprio la rapida ripresa del paziente nel decorso postoperatorio che ha reso questa tecnica così ben accetta dal chirurgo e dal paziente stesso, che oggi la richiede sempre più frequentemente. L’assenza della ferita laparotomica o toracotomica e la ridotta manipolazione di parete e dei tessuti durante l’intervento si traduce in una drastica riduzione delle complicanze di ferita (ernie, infezioni), nella netta riduzione del dolore postoperatorio e nella rapida ripresa delle funzioni respiratorie ed intestinali.Tutto ciò si traduce in una precoce dimissione dall’ospedale del paziente che può riprendere in breve tempo l’attività lavorativa. A fronte di questo entusiasmo iniziale si sono anche messe in luce le problematiche legate alla nuova tecnica, che hanno portato a complicanze intraoperatorie, alcune molto gravi, legate ad una inesperienza iniziale ed alla curva di apprendimento di ogni nuova tecnica. Il chirurgo opera con una visione bidimensionale che appiattisce la profondità del campo operatorio e senza la sensazione tattile caratteristica del gesto operatorio. Queste limitazioni sono superate attraverso un’attività di allenamento ai simulatori e attraverso l’aiuto di colleghi esperti in questa chirurgia; ciò costituisce la condizione necessaria per far sì che le complicanze intraoperatorie siano oggi ridotte in percentuali equivalenti a quelle della chirurgia tradizionale. L’inizio della chirurgia mininvasiva si fa risalire al 1987, anno in cui è stato eseguito in Francia il primo intervento di colecistectomia laparoscopica. Dopo le iniziali perplessità, la tecnica è stata rapidamente accettata ed attuata in tutto il mondo. Con il crescere dell’esperienza pressoché tutti gli interventi chirurgici,anche i più complessi, sono stati eseguiti con la tecnica mininvasiva. Questo non significa che tutti gli interventi debbano essere necessariamente eseguiti con questa tecnica. Attualmente si ritiene che sussista una indicazione elettiva alla chirurgia mininvasiva per tutte quelle patologie benigne aggredibili senza aumento di complicanze rispetto alla chirurgia classica. Il ruolo di queste tecniche in chirurgia oncologica è ancora molto discusso.Verranno di seguito descritte le indicazioni universalmente riconosciute per gli interventi eseguibili con approccio mininvasivo.

Laparoscopia 156

Cenni storici La prima esplorazione endoscopica della cavità peritoneale e pleurica nell’uomo venne eseguita dallo svedese Jocobeus nel 1910 con un cistoscopio a luce riflessa. Gli anni successivi furono segnati dal moltiplicarsi di studi riguardanti lo sviluppo di nuovi sistemi di illuminazione e di nuove ottiche. Nel 1929 il tedesco Kalk realizzò la prima ottica con visione obliqua a 35o. Nel 1954 il fisico inglese Hopkins sviluppò un nuovo ed efficace sistema ottico in grado di trasmettere immagini di elevata qualità, mediante l’impiego di ottiche di calibro ridotto alle quali era possibile collegare apparecchiature fotografiche.Tali ottiche, brevettate e prodotte nel 1960 dal tedesco Karl Stroz, sono attualmente le più utilizzate in chirurgia mininvasiva. Nel 1938 un particolare tipo di ago, ideato da Veress per indurre il pneumotorace a scopo terapeutico, veniva utilizzato per insufflare del gas all’interno della cavità addominale e creare uno spazio che agevolasse la visualizzazione dei visceri. L’introduzione dei primi sistemi di illuminazione a luce fredda nel 1965, delle lampade alogene nel 1970 e l’integrazione dei sistemi ottici con quelli video, diedero una decisa spinta all’utilizzo della laparoscopia anche a scopo terapeutico. Cuschieri pubblicò nel 1978 una prima serie di laparoscopie diagnostiche nell’uomo, per la stadiazione delle neoplasie pancreatiche. Nel 1987, a Lione, Philippe Mouret eseguì con successo la prima colecistectomia videolaparoscopica nell’uomo. Negli anni successivi le esperienze operative si susseguirono sino a culminare con il primo congresso mondiale di chirurgia endoscopica tenutosi ad Heidelberg nel 1988 durante il quale Cuschieri e Berci presentarono la prima monografia relativa alla colecistectomia videolaparoscopica.

Note di tecnica Al fine di eseguire interventi di chirurgia videoendoscopica lo strumentario riveste una importanza fondamentale; negli ultimi anni le case costruttrici di questi strumenti hanno apportato notevoli miglioramenti nello strumentario chirurgico adattandolo ed elaborandolo alle necessità specifiche dell’operatore e della tecnica chirurgica da eseguire. È bene sottolineare che ogni intervento eseguito per via laparoscopica o toracoscopica deve ripercorrere esattamente i tempi e le tecniche eseguite a “cielo aperto”; cambia solo il tipo di accesso alla cavità addominale o toracica. Questo accesso avviene a “cielo coperto”, utilizzando ottiche che permettono la visualizzazione del campo chirurgico, minitelecamere e monitor ad alta risoluzione che permettono la visione a più operatori e strumenti chirurgici,appositamente realizzati per “prolungare” la mano del chirurgo all’interno di una cavità che rimane virtualmente chiusa. Il primo tempo di ogni intervento in laparoscopia è quello atto a realizzare uno spazio che consenta al chirurgo una adeguata visualizzazione delle strutture anatomiche ed una sufficiente libertà di manovra una volta introdotti gli strumenti operativi. Nell’addome ciò si realizza con l’induzione del pneumoperitoneo. Attraverso una piccola incisione cutanea, eseguita solitamente a livello periombelicale, viene introdotto un ago di Veress, collegato ad uno strumento che è in grado di insufflare gas con un flusso ed una pressione regolabile dall’esterno e permette di ricostituire rapidamente eventuali perdite di pressione. L’introduzione dell’ago di Veress è una manovra alla cieca, con il potenziale rischio di lesioni intestinali e vascolari e deve essere condotta con attenzione, soprattutto in caso di precedenti interventi addominali per i quali potrebbero essere presenti delle aderenze (Fig. 5.1). Alcuni chirurghi preferiscono creare il pneumoperitoneo attraverso una piccola incisione delle fasce muscolari, quindi sotto visione diretta (tecnica di Hasson) (Fig. 5.2). Quando la punta dell’ago di 157

Veress è correttamente posizionata e si procede all’insufflazione di gas, si assiste ad un lento aumento della pressione intraddominale che progressivamente raggiunge i livelli di lavoro preimpostati (10-15 mmHg). Il gas comunemente utilizzato è l’anidride carbonica, gas inerte che non permette la combustione ed essendo rapidamente solubile, riduce il rischio di embolia gassosa. Una volta raggiunta la pressione voluta di pneumoperitoneo vengono inserite le cannule per l’introduzione dell’ottica e degli strumenti chirurgici. In esse sono introdotti taglienti, detti trocar, dotati di scudo protettivo a scatto automatico per perforare la parete addominale (Fig. 5.3). Le cannule hanno diametri diversi, usualmente 5-10 mm, a seconda del diametro degli strumenti da introdurre, e sono dotate alla loro estremità di una valvola antireflusso; alcune di queste possono permettere l’introduzione di suturatrici meccaniche anche di grosse dimensioni (15-33 mm).

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La visione del campo operatorio è ottenuta mediante un’ottica, solitamente rigida, del diametro di 10 mm, disponibile con angoli di visione differenti (0°-30°-45°) a seconda del tipo di intervento da eseguire. La luce nel campo operatorio viene fornita all’ottica mediante un cavo a fibre ottiche collegato ad una sorgente regolabile di luce fredda ad alta intesità. All’estremità esterna dell’ottica è collegata una microtelecamera computerizzata che trasmette la visione ai monitor televisivi. Queste telecamere, pur essendo di piccole dimensioni e molto leggere, permettono una visione ad altissima definizione del campo operatorio, indispensabile alla corretta riuscita dell’intervento. Una larga serie di strumenti chirurgici è oggi disponibile con caratteristiche specifiche per la chirurgia endoscopica. Gli strumenti più utilizzati hanno un diametro di 5-10 mm, con lunghezza variabile da 25 a 35 mm a seconda del campo operatorio in cui vengono utilizzati. Sono realizzati in materiale monouso per singolo paziente o poliuso risterilizzabili. Pinze da presa traumatiche e non traumatiche, forbici e bisturi, dissettori, divaricatori, aspiratori, coagulatori mono- e bipolari, porta-aghi per suture endocorporee, applicatori di clips metalliche e suturatrici meccaniche di varie forme e dimensioni sono oggi disponibili e spesso elaborati su richiesta del chirurgo in base alla necessità relative alle diverse tecniche chirurgiche.Anche strumenti più sofisticati come dissettori ad ultrasuoni, coagulatori ad argon, laser e sonde per ecografia sono stati realizzati per l’uso endoscopico.

Apparecchiature di base Le sale operatorie comunemente utilizzate per gli interventi di chirurgia mininvasiva non sono state specificatamente progettate per tale metodica. Per questo motivo le apparecchiature di base (monitor, insufflatori, fonti di luce, elettrocoagulatori, sistemi di videoregistrazione ecc.) vengono generalmente posizionate su appositi carrelli (Fig. 5.4). Si tratta di strutture ingombranti che richiedono una sala operatoria che permetta di spostare rapidamente le varie apparecchiature e, nello stesso tempo, di muoversi in sicurezza. Studi recenti hanno dimostrato come la posizione del monitor rispetto al chirurgo possa influenzare la performance operatoria in termini di velocità ed accuratezza dei movimenti.La distanza tra monitor e operatore deve essere pari a tre volte il diametro trasversale del monitor; quest’ultimo, inoltre, deve essere posto in posizione declive rispetto al chirurgo. Di norma, vengono impiegati due monitor, posti ai lati del paziente, per agevolare la visione dell’operatore e dei suoi collaboratori.

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Il personale di sala deve essere specificatamente preparato a questo tipo di chirurgia, conoscere a fondo lo strumentario, le sue caratteristiche tecniche, le modalità di lavaggio e sterilizzazione. Si tratta, infatti, di apparecchiature ad altissima tecnologia che richiedono cura particolare rispetto agli strumenti chirurgici convenzionali. Sala operatoria, ferri chirurgici e personale devono essere pronti in ogni momento per l’eventuale conversione dell’intervento in caso di complicanze o impossibilità di proseguire per via endoscopica.

Ottiche La maggior parte delle ottiche moderne si basano su di un sistema di lenti ideato e brevettato dall’inglese Hopkins (Fig. 5.5).Tale sistema è formato dal una serie di lenti cilindriche separate da camere aeree ove avviene la rifrazione della luce. Questo sistema permette di trasmettere immagini di qualità elevata ad un oculare posto alla sua estremità terminale e dotato di lente di ingrandimento. Le ottiche possono essere classificate a seconda del calibro e dell’angolo di visione. Il calibro dell’ottica può variare dai 10 ai 2 mm ed è inversamente proporzionale alla qualità dell’immagine, soprattutto in termini di luminosità. Le ottiche di 5 mm, infatti, possono perdere anche l’80% di luminosità mantenendo inalterato il potere magnificante. Per questi motivi, si cerca 161

di ridurre le dimensioni dell’immagine, migliorandone la qualità. Le ottiche possono avere una visione diretta ovvero a 0°, oppure obliqua: a 30°, 45o fino a 90°.Maggiore è l’angolo di visione, maggiore sarà l’assorbimento della luce che dovrà, quindi, essere compensato da un aumento dell’intensità della fontana luminosa e della qualità della telecamera.

Cavi a fibre ottiche Permettono la trasmissione, senza dispersioni, della luce dalla fonte luminosa all’ottica. Ciascun cavo è formato da numerose fibre ottiche a loro volta formate da un nucleo centrale in vetro e da un involucro più esterno a bassissima diffrazione. La luce attraversa ciascuna fibra ottica e viene rifratta dalla parete esterna sino a raggiungere l’ottica con una minima attenuazione.

Videocamere Le caratteristiche di una telecamera ad uso endoscopico devono essere: maneggevolezza ed elevata qualità delle immagini riprodotte. Per rispettare queste caratteristiche tutte le telecamere disponibili sul mercato sono basate sul sistema CCD (charge-coupled device), comunemente chiamato “chip”. Questo sistema è formato da una base di silicio ricoperta da materiali fotosensibili dai quali si originano i pixel (elementi base di una immagine) ciascuno con dimensioni di 17 × 13 µmm: maggiore è il numero dei pixel, più elevata è la qualità dell’immagine. Esistono videocamere a singolo CCD e a 3CCD, alle quali si sono, di recente, affiancate le rispettive forme “digitalizzate” dove grazie a complessi sistemi di compressione, vengono riprodotte immagini di elevata qualità. Nelle telecamere a 3 CCD, la luce viene scomposta da un prisma nei 3 canali RGB (rosso, verde e blu), ciascuno dei quali viene analizzato da uno specifico chip. Mentre le telecamere a CCD singolo possono raggiungere una risoluzione intorno alle 450 linee orizzontali, quelle a 3 CCD arrivano anche alle 600-700 linee. Il principale svantaggio di queste ultime, oltre al costo elevato, è rappresentato dal maggior peso ed ingombro del corpo camera. 162

Inoltre alcuni recenti studi hanno evidenziato che una telecamera a singolo chip di elevata qualità (soprattutto se digitale) è del tutto paragonabile alla ben più costosa 3 CCD. In tutte le videocamere, per ottenere la corretta taratura del colore, è necessario eseguire una normalizzazione del bianco, prima dell’inizio dell’intervento. In quelle a 3CCD è opportuno eseguire anche un bilanciamento con il nero, per regolare i tre chip tra di loro. Nelle apparecchiature più recenti sono presenti sistemi di zoom e di messa a fuoco automatica. La maggior parte delle telecamere è sterilizzabile, tuttavia per ridurre al minimo l’usura è preferibile l’impiego di involucri sterili di materiale plastico che prevengono il contatto tra la telecamera e il campo operatorio.

Insufflatori di gas Uno dei problemi principali della chirurgia mininvasiva è rappresentato dalla necessità di creare uno spazio “operatorio” che permetta l’introduzione dell’ottica e dei vari strumenti. L’insufflazione di CO2 o altri gas come NO o argon costituisce la metodica più comunemente utilizzata (vedi oltre). Le apparecchiature impiegate sono dotate di indicatori di flusso e di pressione, nonché di valvole di sicurezza che interrompono automaticamente l’insufflazione del gas allorché vengono raggiunti i valori pressori massimi impostati. Poiché il gas insufflato comporta una riduzione, anche importante, della temperatura corporea, gli strumenti più recenti sono dotati di sistemi di preriscaldamento, particolarmente utili in corso di chirurgia laparoscopica “avanzata” con tempi operatori superiori alle 2 ore.

Sistemi di sospensione della parete addominale I problemi legati alla induzione ed al mantenimento del pneumoperitoneo (vedi oltre) hanno portato allo sviluppo di tecniche alternative per la creazione di uno spazio operatorio intraperitoneale (gasless laparoscopy). I vari sistemi proposti si basano sul comune principio del sollevamento della parete addominale attuato mediante bracci meccanici bloccati al tavolo operatorio e fissati o all’interno o all’esterno (sottocute) della cavità peritoneale (Fig. 5.6). Nessuno di questi sistemi è tuttavia in grado di evitare che si determini il cosiddetto “effetto tenda” che non permette di creare uno spazio operatorio omogeneo e paragonabile a quello ottenuto con la insufflazione di gas. Inoltre la presenza di una apparecchiatura piuttosto ingombrante e di bracci di sospensione obbliga spesso il chirurgo a posizionare i trocar in una sede non ottimale rendendo difficoltose le manovre chirurgiche.

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Strumenti chirurgici Lo strumentario riveste un ruolo centrale in chirurgia mininvasiva, poiché la possibilità di eseguire un particolare tipo di intervento è in buona parte legata alla disponibilità e alla qualità degli strumenti. In generale, facilità d’uso, biocompatibilità, radiotrasparenza, ridotta capacità di riflessione della luce, affidabilità e costi di manutenzione contenuti sono le caratteristiche che devono essere prese in considerazione all’atto della scelta dello strumentario per chirurgia mininvasiva. Esistono sul mercato strumenti mono e poliuso. I primi hanno il vantaggio di assicurare standard di elevata qualità in termini di sterilità e funzionamento (Fig. 5.7). Gli strumenti poliuso, sebbene presentino alcuni limiti (sterilità, conducibilità elettrica, usura, radiopacità ecc.), permettono, tuttavia, di contenere i già elevati costi della chirurgia endoscopica e, per questo motivo, sono indicati soprattutto per centri dove vengono eseguiti numerosi interventi.

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Applicatori di clip e suturatrici meccaniche Come in chirurgia tradizionale gli applicatori di clip vengono utilizzati per la chiusura di vasi di piccolo calibro, vie biliari e vasi linfatici. Anche in questo caso si trovano in commercio versioni mono e poliuso. Le prime sono “multi fire”, cioè sono dotate di una carica intercambiabile contente una decina di clip. Al contrario, la più economica versione poliuso richiede la ricarica manuale delle singole clip dopo ogni applicazione. Le clip, solitamente in titanio, possono scivolare e staccarsi a causa della retrazione dei tessuti dopo la sezione. Per questo motivo sono state messe in commercio clip dallo speciale design ad elevata tenuta. Tuttavia, nel caso si intendano sezionare vasi o dotti di grosso calibro, è di gran lunga preferibile l’impiego di lacci intracorporei. Mentre in chirurgia tradizionale l’avvento delle suturatrici meccaniche ha essenzialmente permesso di ridurre i tempi operatori, in chirurgia mininvasiva, per l’elevata difficoltà di esecuzione delle suture endoscopiche “manuali”, questi strumenti hanno determinato un significativo ampliamento delle indicazioni. L’intera gamma di suturatrici meccaniche da tempo utilizzate per la chirurgia tradizionale è disponibile in versione endoscopica (Fig. 5.8).

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Poiché la massima affidabilità deve costituire la loro proprietà più importante, si tratta per lo più di strumenti monouso con caratteristiche e dimensioni varie a seconda del tessuto su cui debbono essere utilizzate. Le suturatrici endoscopiche sono strumenti relativamente grandi per la chirurgia mininvasiva, e il loro utilizzo all’interno della cavità addominale può essere difficoltoso: per questo motivo sono state messe in commercio le versioni dotate di estremità terminale angolabile.

Fili di sutura, aghi, lacci e portasuture In chirurgia mininvasiva è ormai disponibile l’intera gamma di fili di sutura e lacci utilizzata in chirurgia tradizionale. Essi hanno colori brillanti, di facile identificazione anche in situazioni di non perfetta visibilità, che evitano di incorrere in errori ed inutili perdite di tempo. I fili di sutura endoscopici vengono prodotti già montati su ago ed hanno una lunghezza piuttosto limitata (circa 7 cm) per facilitare le varie manovre intracorporee; al contrario i lacci hanno una lunghezza maggiore rispetto al normale (20 cm). Gli aghi sono costruiti con i medesimi materiali utilizzati per la chirurgia tradizionale; anche in questo caso il colore (bronzo scuro o cromato nero) può favorire il loro reperimento nel campo operatorio e il loro corretto posizionamento sul porta-aghi, riducendo i fenomeni di riflessione della luce dell’ottica. Possono essere impiegati i comuni aghi retti o semicircolari da chirurgia tradizionale. L’utilizzo dei cosiddetti “endoski needle”, caratterizzati da una estremità prossimale rettilinea e una terminale a semicerchio, rende le varie fasi della sutura intracorporea molto più semplici. Come è stato precedentemente accennato,quando sia richiesto di sezionare una struttura vascolare di grosso calibro, è preferibile evitare l’impiego delle clip a causa della loro tendenza a scivolare e staccarsi. In queste situazioni, così come accade in chirurgia “open”, è preferibile l’utilizzo di lacci. Esistono sul mercato lacci endoscopici dotati di nodi preconfezionati (endo-loop) con il filo montato sul relativo spinginodo. In alternativa è possibile utilizzare comuni lacci chirurgici ed, una volta circondata la struttura da legare, eseguire il nodo extracorporeo più adeguato (vedi oltre). Non essendo possibile afferrare la sutura con le mani e, poiché le comuni pinze da presa danneggiano il materiale di sutura compromettendone la tenuta, sono stati messi in commercio degli specifici strumenti denominati “portasuture”. 166

Apparecchiature speciali La possibilità di impiegare apparecchiature speciali anche nel campo della chirurgia mininvasiva ha ampliato notevolmente le sue indicazioni diagnostiche e terapeutiche.

Dissettore ad ultrasuoni Questo tipo di apparecchiatura è in grado di generare frequenze elevatissime (superiori ai 20 kHz) che a contatto con tessuti parenchimatosi comportano l’emulsione delle cellule particolarmente ricche di acqua (effetto di cavitazione) mentre vengono risparmiate le strutture vascolari, nervose, biliari e linfatiche, poiché prevalentemente costituite da tessuto connettivale. A questa azione si associa la capacità di irrigazione del campo operatorio e l’aspirazione di detriti cellulari e sangue. Il dissettore ad ultrasuoni ha trovato un notevole campo di applicazione nella chirurgia resettiva di organi parenchimatosi ricchi di strutture vascolari (fegato, milza, rene, tiroide, pancreas, cervello e midollo spinale). Sono attualmente disponibili sul mercato speciali manipoli per chirurgia mininvasiva; tuttavia l’emulsione delle cellule e l’irrigazione del campo operatorio possono sporcare ripetutamente la superficie dell’ottica, rendendo l’utilizzo di questa apparecchiatura piuttosto laboriosa.

Bisturi ad ultrasuoni (bisturi armonico) I problemi legati all’impiego dell’elettrobisturi in chirurgia endoscopica hanno portato alla ricerca di sistemi alternativi di dissezione\coagulazione. Il bisturi armonico è costituito da un corpo macchina e da un manipolo: quest’ultimo può avere una forma a pinza o ad uncino (Fig. 5.9) alla cui estremità si trova una lama in titanio, capace di oscillare con un breve movimento longitudinale (circa 80 µm) ad elevatissima frequenza (circa 55.000 volte al secondo). Questa oscillazione provoca sul tessuto con il quale viene in contatto due effetti: l’esplosione delle cellule per la vaporizzazione delle molecole di acqua in esse contenute (effetto di cavitazione) e un effetto meccanico, determinato dalla oscillazione della lama che provoca la distruzione anche dei tessuti fibrosi più resistenti. Il bisturi ad ultrasuoni permette di ottenere un effetto di coagulazione/ dissezione, in quasi totale assenza di fumo, limitando al minimo il rischio di danno termico a carico dei tessuti adiacenti, non essendo presente alcun passaggio di corrente elettrica. L’effetto di coagulazione/dissezione può essere incrementato aumentando la frequenza di oscillazione della lama.

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Si tratta di uno strumento estremamente utile in corso di interventi di chirurgia laparoscopica maggiore,soprattutto in quei casi in cui sia necessario procedere a dissezione di strutture fibroadipose (omento, briglie aderenziali, mesi ileali e colici), contenenti vasi di un diametro fino a 5 mm. Studi recenti hanno dimostrato che la temperatura della punta dello strumento raggiunge, e mantiene per qualche secondo, temperature elevate,superiori a 150 °C. Inoltre,esami microscopici di strutture prossime all’estremità terminale del manipolo hanno evidenziato la presenza di microlesioni di grado diverso, a dimostrazione di una certa diffusibilità dell’effetto lesivo. È opportuno, quindi, impiegare il bisturi armonico con estrema cautela, utilizzando basse frequenze e mantenendo sempre sotto visione la punta dello strumento stesso.

Coagulatore a radiofrequenza Di recente introduzione sul mercato, il coagulatore a radiofrequenza è una sorta di coagulatore bipolare: mediante la generazione di onde elettromagnetiche ad altissima frequenza, questo strumento provoca la rapida oscillazione degli ioni cellulari e quindi elevatissime temperature, che permettono la coagulazione di vasi di calibro sino a 7 mm. I manipoli specificatamente designati alla laparoscopia sono dotati di una lama centrale per permettere la sezione del vaso dopo la sua coagulazione. A differenza del bisturi ad ultrasuoni, il coagulatore a radiofrequenza è dotato di maggiori capacità emostatiche ed il calore generato dallo strumento risulta interamente compreso tra le due branche del manipolo.

Ecoendoscopia La mancanza di sensazione tattile costituisce uno dei limiti principali della chirurgia mininvasiva. L’impiego della endoecografia intraoperatoria può in parte ovviare a questo problema. Tale metodica è di particolare efficacia soprattutto in corso di interventi esplorativi,magari a scopo di staging, per poter valutare con relativa certezza l’estensione di una malattia neoplastica. Sono disponibili sul mercato sonde di calibro e lunghezza tali da permettere il loro passaggio attraverso trocar da 10 mm. È fondamentale che esse siano dotate di estremità terminale snodabile così da permettere un continuo contatto tra la sonda e la superficie dell’organo che si sta esplorando, garantendo immagini nitide. 168

Ancor più che in chirurgia tradizionale, l’impiego dell’ecocolor Doppler in chirurgia endoscopica risulta fondamentale per valutare i rapporti di organi e/o neoplasie con le strutture vascolari adiacenti.

Legature Quando sia necessario sezionare un vaso o una struttura di dimensioni rilevanti, così come in chirurgia tradizionale, anche in chirurgia mininvasiva l’impiego di una legatura mediante laccio chirurgico è preferibile alla semplice elettrocoagulazione e all’applicazione di clip. Come abbiamo già sottolineato sono presenti in commercio lacci dotati di nodi preconfezionati (endo-loop). Disposti all’interno dell’apposito riduttore, vengono introdotti in cavità addominale e/o toracica; una pinza da presa viene fatta passare attraverso l’anello di filo preformato,afferrando il tessuto da legare. Il nodo viene, quindi, serrato mediante l’apposito spinginodo. L’impiego dell’endo-loop riduce i tempi operatori e risulta particolarmente utile quando si deve afferrare un penduncolo libero; tuttavia il costo è relativamente elevato. In alternativa agli endo-loop si possono utilizzare i comuni lacci da chirurgia open, che, una volta introdotti in cavità addominale e/o toracica e dopo aver circondato la struttura da legare, con una tecnica del tutto simile a quella impiegata in chirurgia tradizionale, vengono riportati all’esterno dove viene confezionato il nodo extracorporeo.

Nodi extracorporei Per nodo extracorporeo si intende l’esecuzione di un nodo all’esterno della cavità addominale o toracica, la spinta all’interno e la sua definitiva chiusura in modo stabile e sicuro, mediante spinginodo. Descriveremo le tecniche per eseguire i principali nodi extracorporei. Per semplicità chiameremo capo distale (D) l’estremità del filo che entra nella cavità e prossimale (P) il restante capo. z Nodo di Roeder: senza dubbio uno dei nodi extracorporei più utilizzati, per la sua facile esecuzione e la buona tenuta. Fatto uscire dalla cavità il capo distale, l’aiuto posizionerà il dito indice tra i due capi, così da mantenerli separati e facilitare le manovre. Si confeziona una semichiave destra (Fig. 5.10a). Il capo distale viene avvolto 3 volte attorno all’anello formatosi sotto la semichiave (Fig. 5.10b) e ritorna verso il capo prossimale, passando all’interno dell’ultima e della prima asola (Fig. 5.10c). Il nodo viene serrato dolcemente (Fig. 5.10d) e spinto all’interno della cavità. Il nodo Roeder è estremamente valido per la legatura di vasi fino a 5 mm di diametro (dotto cistico, appendice ciecale ecc.). La sua tenuta aumenta se viene utilizzato catgut deidratato o seta poiché la reidratazione che si verifica all’interno del corpo provoca una espansione del materiale e, quindi, una maggiore tenuta. z Nodo di Meltzer: si tratta di una variante del nodo di Roeder descritta per la prima volta da Meltzer nel 1991 e può essere eseguita anche con fili a lento riassorbimento (per es. PDS). Il primo tempo prevede l’esecuzione di un doppio nodo, invece di una semichiave, mentre i restanti passi sono del tutto identici a quelli descritti per il nodo di Roeder. z Nodo di Fisher: il capo distale del filo passa sotto a quello prossimale per 3 volte e viene fatto passare all’interno dell’anello formatosi. Il nodo viene, quindi, serrato.

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Suture “manuali” intracorporee In chirurgia endoscopica l’approssimazione dei tessuti avviene con le medesime modalità utilizzate in chirurgia aperta, sostituendo alla gestualità manuale quella “strumentale”. Si tratta di manovre non sempre facili, soprattutto perché si opera con strumenti i cui movimenti sono vincolati dalla posizione dei trequarti. La chiusura del punto di sutura avviene con una tecnica del tutto identica a quella utilizzata in microchirurgia, e consiste nel confezionamento di un primo nodo chirurgico, bloccato da due seminodi. L’esecuzione di una sutura endoscopica prevede diverse fasi. z Introduzione e posizionamento intracorporeo del filo di sutura. Il filo di sutura del materiale prescelto viene afferrato da un porta-aghi ed introdotto nella cavità addominale o toracica, attraverso uno dei trocar. z Una volta all’interno, il filo viene disteso e l’ago posizionato su di una superficie piana, orizzontale e relativamente stabile (per es. stomaco). z Posizionamento sul porta-aghi. Se viene utilizzato un ago tipo “endo-ski”, questo viene montato sul porta-aghi destro circa a metà della sua porzione rettilinea, con la punta disposta verso l’alto. z Passaggio dell’ago nei tessuti. Il porta-aghi sinistro solleva il margine destro della linea di sutura, mentre il destro ruota sino a disporre la punta dell’ago perpendicolarmente al tessuto. L’ago viene spinto verso il basso e, una volta trafitto il tessuto, fatto ruotare verso l’alto. Il porta-aghi sinistro afferra l’ago completando il passaggio attraverso il primo lembo. Montato nuovamente l’ago sullo strumento di destra con le medesime manovre, si completa il passaggio attraverso il secondo lembo. In alcuni casi può essere più semplice eseguire i due passaggi in un unico tempo. In questa fase è importante che l’attraversamento dei tessuti avvenga in modo perfettamente simmetrico e che i punti abbiamo una distanza tra di loro di circa 0,5 cm. z Esecuzione del nodo intracorporeo. Con l’aiuto dei due strumenti si forma, con il filo di sutura, un’ampia “C” aperta verso destra, lasciando circa 2 cm di coda libera. Il porta-aghi destro afferra il filo a circa 2 cm dall’ago e,con dei movimenti combinati di rotazione,avanzamento e retrazione, avvolge per due volte il filo attorno alla punta del portaaghi si-nistro (Fig.5.11a) che in questa fase deve rimanere pressoché fermo.Lo strumento di 170

sinistra afferra la coda del filo e, facendola passare all’interno della parte avvolta attorno alla propria punta, completa il primo nodo (Fig. 5.11b) che viene serrato, esercitando una trazione tangenziale al tessuto (Fig.5.11c). A questo punto il porta-aghi di sinistra afferra il filo in prossimità dell’ago, lo avvolge attorno allo strumento di destra con modalità identiche ma speculari a quelle sopra descritte, e confeziona il primo seminodo di bloccaggio (Fig. 5.11d). Il secondo seminodo viene eseguito nello stesso modo ma con lo strumento di destra. Le fasi sopra descritte vengono utilizzate per la esecuzione di una sutura a punti staccati, oppure con partenza e conclusione di una sutura in continua.

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Alterazioni fisiopatologiche in corso di interventi video-laparoscopici Conseguenze del pneumoperitoneo L’insufflazione di gas all’interno della cavità addominale e il conseguente incremento della pressione e della saturazione di CO2 determinano delle alterazioni dell’omeostasi dell’or-ganismo che si riflettono prevalentemente a livello cardiocircolatorio e respiratorie.

Alterazioni della funzionalità cardiaca Diversi studi hanno ampiamente dimostrato che l’incremento della pressione addominale determinato dalla insufflazione di gas può essere causa di riduzione del ritorno venoso al cuore (da compressione dei circoli venosi periferici e splancnici) e conseguente tachicardia compensatoria da riflesso simpatico. La stessa ipercapnia provocata dalla prolungata insufflazione di CO2 può essere causa di aumento della frequenza cardiaca. Il pneumoperitoneo provoca una vasocostrizione compensatoria con conseguente aumento delle resistenze periferiche che da un lato incrementano ulteriormente l’ipercapnia e dall’altro riducono il ritorno venoso al cuore. Infine vari studi hanno dimostrato una significativa riduzione della frazione di eiezione cardiaca da aumento del carico.

Alterazioni del ritmo cardiaco La comparsa di aritmie cardiache si verifica in una percentuale compresa tra il 25 e il 45% dei pazienti sottoposti a interventi di chirurgia laparoscopica. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di aritmie sinusali, del tutto prive di significato patologico e che regrediscono spontaneamente con la evacuazione del pneumoperitoneo. La loro eziologia è multifattoriale e presumibilmente legata a stimoli vagali, ipossici e circolatori. In un 30% dei casi si possono verificare episodi di bradicardia severa, causata da stimolazione vagale da pneumoperitoneo, che possono portare anche all’arresto cardiaco.

Alterazioni del circolo periferico e splancnico Alcuni studi hanno dimostrato che una pressione addominale superiore a 12 mmHg può causare una riduzione significativa (fino al 40%) del flusso a livello della vena femorale e dei vasi periferici. Una tale riduzione, associata alla posizione di anti-Trendelenburg, nonché alla maggiore durata degli interventi stessi, incrementa la stasi venosa periferica e quindi, almeno in linea teorica, il rischio di trombosi venosa profonda (TVP) e/o embolia polmonare postoperatoria. D’altro canto, la più rapida mobilizzazione del paziente, nonché la riduzione dello stress chirurgico e, quindi, la minor liberazione delle citochine di fase acuta (per es. IL-6) capaci di stimolare la produzione e la liberazione di fattori ad attività procoagulante (per es. fibrinogeno, fattore di von Willebrand, attivatori del plasminogeno) potrebbero, almeno in parte, compensare il rischio di TVP legato alla pressione endoaddominale. Allo stato attuale delle conoscenze, sembrerebbe, comunque, che la laparoscopia possa esporre i 172

pazienti ad un maggior rischio di TVP postoperatoria rispetto alla chirurgia tradizionale: per questo motivo alcuni chirurghi consigliano l’esecuzione di una profilassi preoperatoria mediante l’impiego di eparina a basso peso molecolare. L’aumento della pressione addominale associato ad ipercapnia e aumento delle resistenze periferiche potrebbe ridurre la perfusione nonché l’ossigenazione degli organi addominali in corso di laparoscopia.Tuttavia la rilevanza clinica di tale effetto è ancora da chiarire poiché, sebbene siano stati segnalati casi sporadici di insufficienza d’organo pneumoperitoneo correlata, le informazioni a riguardo sono piuttosto limitate.

Alterazioni della funzionalità polmonare Gli effetti del pneumoperitoneo sulla funzionalità respiratoria sono prevalentemente legati alla riduzione del volume polmonare provocata dalla dislocazione del diaframma verso l’alto, nonché dalla ritenzione di CO2 e dalla conseguente ipercapnia. La riduzione della compliance polmonare, l’aumento delle resistenze sulle vie aeree, la riduzione della capacità vitale nonché la posizione di anti-Trendelenburg sono altre conseguenze respiratorie tipiche del pneumoperitoneo.

Embolia gassosa L’embolia gassosa è una rara ma potenzialmente letale complicanza strettamente legata al pneumoperitoneo. L’ingresso di gas all’interno dell’apparato cardiocircolatorio è causato dalla lesione accidentale di strutture vascolari intraddominali con strumenti e/o ago di Veress. L’insorgenza di embolia è strettamente legata alla dose e alla solubilità del gas entrato accidentalmente nel sangue: la CO2 è un gas particolarmente solubile e la sua dose letale è piuttosto alta (pari a circa 25 ml/kg) in rapporto a quella dell’aria (circa 5 ml/kg).

Ipotermia Nonostante la cavità addominale rimanga virtualmente chiusa, il rischio di ipotermia intraoperatoria è maggiore in corso di laparoscopia rispetto alla chirurgia aperta. Il motivo è strettamente legato al pneumoperitoneo: la CO2, infatti, presente in forma compressa all’interno della bombola, una volta insufflata nell’addome si espande, con conseguente riduzione della pressione, raffreddamento del gas e, quindi, della cavità addominale. L’abbassamento della temperatura corporea è strettamente legato alla velocità di insufflazione, nonché alla durata dell’intervento. Alcuni studi hanno dimostrato che si può giungere ad un raffreddamento pari a 0,3 oC ogni 50 l di gas insufflato. L’impiego di appositi insufflatori dotati di dispositivo per il preriscaldamento della CO2 potrebbe essere efficace nel limitare l’ipotermia intraoperatoria, sebbene i reali benefici del loro uso debbano ancora essere confermati.

Alterazioni fisiologiche postoperatorie in laparoscopia Mentre gli effetti “negativi” legati alla laparoscopia si manifestano prevalentemente durante 173

l’intervento chirurgico, le alterazioni fisiologiche “positive” sono particolarmente evidenti durante il decorso postoperatorio e sono strettamente legate al concetto di “mininvasività” intrinseco alla laparoscopia. Lo scopo della chirurgia mininvasiva, infatti, è quello di eliminare o meglio ridurre il più possibile il trauma operatorio, mantenendo inalterato il risultato terapeutico.

Risposta allo stress chirurgico in corso di laparoscopia Numerosi studi hanno hanno ormai dimostrato come la risposta neuroendocrina e metabolica allo stress provocato dal trauma chirurgico risulti essere significativamente inferiore dopo interventi eseguiti per via laparoscopica rispetto alla chirurgia tradizionale. La stessa situazione si verifica per quel che riguarda la risposta del sistema immunitario. Qualsiasi tipo di intervento chirurgico determina una temporanea riduzione dell’efficacia della risposta immunitaria in relazione all’entità del trauma chirurgico. È stato ormai ampiamente dimostrato come la laparoscopia sia in grado di preservare pressoché inalterata la funzionalità dei leucociti e riduca significativamente la produzione di citochine ad attività immunodeprimente. Tutto ciò si riflette su una minore suscettibilità alle infezioni postoperatorie e, secondo studi recenti, anche su una migliore risposta immunitaria nei confronti di cellule neoplastiche.

Funzionalità cardiaca e respiratoria dopo chirurgia laparoscopica Sebbene, come detto in precedenza, l’insufflazione della cavità peritoneale con CO2 a valori superiori ai 12 mmHg sia causa di alterazioni significative della funzionalità e del ritmo cardiaco, al contrario, la riduzione del dolore, dello stato ipermetabolico e della risposta neuroendocrina determina una riduzione significativa della morbilità cardiaca postlaparoscopia. Diversi studi hanno dimostrato una significativa riduzione dell’incidenza delle complicanze cardiache postcolecistectomia eseguita con tecnica aperta vs tecnica laparoscopica (1,4% vs 0,06%). Il decorso postoperatorio dei pazienti sottoposti a laparotomia è gravato da una significativa alterazione della funzionalità respiratoria legata ad una riduzione in senso restrittivo della capacità vitale (sino al 50%), del volume di tindal e della capacità residua (sino al 30%). Il mantenimento della funzionalità respiratoria è uno degli effetti positivi della laparoscopia meglio documentati, ed è prevalentemente legato alla riduzione della sintomatologia dolorosa e, di conseguenza, al mantenimento della dinamica respiratoria. La migliorata funzionalità polmonare postoperatoria si riflette direttamente su di una significativa riduzione delle complicanze ipossiche, atelettasiche ed infettive.

Motilità e funzionalità intestinale dopo chirurgia laparoscopica La comparsa di ileo postoperatorio è una delle conseguenze classiche degli interventi condotti a livello addominale e rappresenta una delle principali cause del ritardo nella ripresa della alimentazione per os e della durata della degenza. Sebbene non siano stati ancora del tutto chiariti i meccanismi che sono alla base dell’insorgenza e della durata dell’ileo postoperatorio, diversi studi hanno dimostrato come la ripresa della normale peristalsi intestinale sia significativamente più rapida dopo interventi condotti per via laparoscopica rispetto alla chirurgia tradizionale.

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Interventi chirurgici Colecistectomia L’intervento di colecistectomia per via laparoscopica è quello più eseguito nel mondo. Tutti i pazienti con indicazione all’intervento di colecistectomia possono essere considerati candidati per un intervento con tecnica laparoscopica; la presenza di una colecistite acuta, di una cirrosi epatica con ipertensione portale, la gravidanza, le gravi coagulopatie non costituiscono più una controindicazione all’intervento in laparoscopia. In questi casi l’intervento deve essere eseguito da operatori esperti, pronti a convertire l’intervento in laparotomia nel caso in cui le alterate condizioni anatomiche e patologiche possano rendere pericolosa la prosecuzione dell’intervento in laparoscopia. I pazienti in età avanzata (> 80 anni) e gli obesi sono quelli che più beneficiano della tecnica laparoscopica per la riduzione delle complicanze dovute alla stasi polmonare ed all’immobilizzazione in letto per lunghi periodi. L’indicazione al trattamento laparoscopico in presenza di una litiasi associata della via biliare principale non è universalmente accettata, anche se la rimozione dei calcoli endocoledocici è possibile attraverso l’utilizzo di coledocoscopi operatori introdotti per via transcistica o tramite coledocotomia diretta utilizzando per la rimozione dei calcoli cestelli di Dormia o litotritori meccanici. È quindi necessario identificare questi pazienti prima dell’intervento sulla base dei valori alterati dei test bioumorali di funzionalità epatica. Qualora esista un dubbio di litiasi coledocica è bene eseguire una colangiopancreatografia retrograda preoperatoria a scopo diagnostico ed operativo, volto alla rimozione dei calcoli endocoledocici previa papillotomia. A due giorni dalla rimozione dei calcoli endocoledocici può essere eseguito l’intervento di colecistectomia laparoscopica. La degenza ospedaliera di questi pazienti viene così ridotta a 4-5 giorni contro i 10-15 dei pazienti sottoposti ad intervento laparotomico per lo stesso tipo di patologia. Il ruolo della colangiografia intraoperatoria è discusso e relativo ad atteggiamenti di scuola. È possibile eseguire tale esame durante l’intervento laparoscopico tramite introduzione percutanea di un catetere a palloncino nel dotto cistico prima della sezione dello stesso e quindi introdurre il mezzo di contrasto nella via biliare principale. Se da una parte alcune scuole chirurgiche eseguono routinariamente la colangiografia intraoperatoria, altre la eseguono solo saltuariamente in caso di dubbi diagnostici. Non è stato dimostrato in effetti un chiaro ruolo della colangiografia nella prevenzione della calcolosi residua del coledoco, così come nella prevenzione delle lesioni della via biliare principale. Sicuramente l’esame è in grado di diagnosticare una lesione intraoperatoria e quindi indicare la necessità di una riparazione immediata della lesione. Le lesioni della via biliare misconosciute al momento dell’intervento,diagnosticate e riparate in seconda istanza, sono gravate da una percentuale di complicanze (deiscenze, stenosi) sicuramente più alta di quelle diagnosticate e riparate in sede di primo intervento. La posizione del paziente sul letto operatorio e quella dell’equipe chirurgica è illustrata in Figura 5.12. Il monitor televisivo e lo strumentario vengono posizionati alla destra del paziente nelle vicinanze dell’area di lavoro dell’anestesista; l’équipe chirurgica è composta dal chirurgo operatore posto alla sinistra del malato insieme all’operatore della videocamera, mentre l’assistente e la ferrista risiedono alla destra del malato. I tempi operatori sono i seguenti: x induzione del pneumoperitoneo con ago di Veress, previa incisione cutanea a livello sottombelicale; x introduzione dei trocar cannule; il primo trocar (10 mm) è posizionato a livello periombelicale ed è adibito al passaggio del laparoscopio; il secondo trocar (10 mm), posizionato sotto visione, occupa la regione 175

sottoxifoidea; il terzo trocar (5 mm) è posizionato lungo la linea emiclaveare, ove si visualizza il fondo della colecisti; il quarto trocar (5 mm) viene introdotto lungo la linea ascellare anteriore, circa a livello dell’ombelico (Figg. 5.13, 5.14); x dopo aver esplorato l’addome si effettua l’esposizione del campo operatorio retraendo, tramite pinze da presa, il fondo della colecisti al di là del margine anteriore del fegato, mentre una seconda pinza posizionata sull’infundibolo della colecisti retrae la tasca di Hartmann lateralmente (Fig. 5.15); x creazione della finestra cistica e dissezione del triangolo di Calot: si effettua con un uncino coagulatore, un dissettore, una forbice o un tampone di garza a seconda delle preferenze;la manovra permette di identificare ed isolare il dotto cistico e l’arteria cistica; x applicazione di tre clip metalliche sul dotto cistico e sull’arteria cistica, che vengono quindi sezionati; x distacco della colecisti dal letto epatico, tramite coagulatore, con l’avvertenza di produrre un’accurata emostasi del letto stesso; x estrazione della colecisti con grossa pinza da presa dall’incisione sottoxifoidea o periombelicale; x lavaggio del campo operatorio tramite aspiratore a doppia azione ed eventuale posizionamento di drenaggio; x laparoscopia finale esplorativa, estrazione dei trocar cannule e sintesi cutanea.

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Il ridotto dolore postoperatorio e la rapida ripresa della funzionalità intestinale permettono una precoce mobilizzazione del paziente e la rapida ripresa dell’alimentazione per os in prima giornata postoperatoria. Il paziente viene dimesso in seconda-terza giornata e può riprendere l’attività lavorativa 10 giorni dopo l’intervento. Nei primi anni dopo l’introduzione della tecnica di colecistectomia laparoscopica è stata registrata una serie di complicanze, talora gravi, legate alla introduzione dell’ago di Veress e dei trocar attraverso la parete addominale (lesioni vascolari ed intestinali), emorragie intraoperatorie da lesione dell’arteria cistica o del letto epatico e soprattutto un aumento delle complicanze legate a lesione della via biliare principale rispetto alla tecnica laparotomica. Queste complicanze, dovute essenzialmente alla curva di apprendimento della tecnica da parte del chirurgo, sono oggi equiparabili a quelle con tecnica aperta. La mortalità seguente a colecistectomia laparoscopica è oggi pari allo 0,1% con tasso di complicanze del 4% ed un tasso di conversione in intervento laparotomico inferiore al 5%.

Appendicectomia L’indicazione alla tecnica mininvasiva trova soprattutto ragione nel sesso femminile, dove la laparoscopia è al tempo stesso diagnostica e terapeutica,potendo agevolmente discriminare una patologia annessiale misinterpretata per patologia dell’appendice cecale. Soprattutto in urgenza o in caso di appendicite retrocecale o sottoepatica la diagnosi avviene correttamente e non è necessario ampliare o variare l’incisione come in laparotomia. Il paziente viene posizionato supino sul tavolo operatorio ed il chirurgo si posiziona sul suo fianco sinistro. Dopo l’induzione del pneumoperitoneo viene introdotto un trocar da 10 mm a livello ombelicale per l’ottica laparoscopica (Fig. 5.16). Una volta esplorato il campo operatorio vengono posizionati due trocar da 5 mm in fianco destra e sinistra per gli strumenti operatori. La visione della loggia parietocolica destra è sempre agevole, eventuali aderenze vengono rapidamente lisate, dopo di che, afferrata con una pinza la punta dell’appendice, si procede alla sezione del mesenteriolo; l’emostasi può essere effettuata con differenti modalità: con clip, coagulatore bipolare, laccio e nodo intra- o extracorporeo, o, in casi di mesentere spesso o particolarmente infiammato, con una suturatrice meccanica lineare. La base viene legata con lacci o con suturatrice meccanica e l’appendice viene estratta da uno dei trocar. 179

È possibile eseguire l’affondamento del moncone con una sutura diretta. In caso di liquido peritoneale libero o corpuscolato si eseguono abbondanti lavaggi peritoneali come nella tecnica laparotomica.

Anche in questo caso il paziente viene dimesso in seconda giornata, ma in effetti il decorso postoperatorio, sebbene meno doloroso della tecnica tradizionale, non se ne si differenzia in maniera così significativa come nel caso della colecistectomia.

Resezione laparoscopica di colon-sigma-retto L’esperienza e l’abilità maturata in questi anni nei centri che si occupano principalmente di chirurgia laparoscopica ha portato al risultato che tutti gli interventi sul colon possono essere eseguiti in laparoscopia. Da un punto di vista tecnico l’intervento è realizzato spesso con una visione del campo operatorio nel piccolo bacino superiore a quella ad addome aperto; cionondimeno il procedimento resta dibattuto da un punto di vista di radicalità oncologica per la difficoltà di una esatta comprensione della diffusione della malattia. In un paziente giovane affetto da neoplasia la riduzione della ferita, il risultato estetico e la possibile abbreviazione dei tempi postoperatori possono essere ritenuti criticabili e non essenziali. Le indicazioni attuali riguardano pazienti con malattia diverticolare complicata, con grossi polipi sessili o carcinomi in uno stadio precoce, senza quindi infiltrazione di organi adiacenti. D’altra parte pazienti anziani con tumori anche in stadio più avanzato, non infiltranti strutture adiacenti, possono beneficiare, da un punto di vista generale, del minore trauma chirurgico. La posizione del paziente sul tavolo operatorio, dei trocar e della eventuale piccola laparotomia di servizio per l’estrazione del pezzo operatorio variano a seconda del tipo di procedura chirurgica emicolectomia destra, resezione del traverso, emicolectomia sinistra, resezione di sigma e resezione di retto. Le tecniche come l’emicolectomia destra e resezione del traverso, che richiedono la realizzazione di una anastomosi ileo-colica e colo-colica, sono definite “videoassistite” quando viene eseguita una laparotomia a minima per estrarre il pezzo operatorio e confezionare l’anastomosi 180

all’esterno. L’anastomosi può anche essere eseguita totalmente per via laparoscopica con allungamento dei tempi operatori e necessità di una affinata tecnica laparoscopica. Gli interventi di emicolectomia sinistra, di resezione di sigma e di retto richiedono una minilaparotomia (5 cm) per la rimozione del pezzo operatorio, mentre l’anastomosi viene solitamente condotta con una suturatrice meccanica circolare introdotta per via transanale. Queste ultime sono le tecniche più eseguite per via laparoscopica per la frequente patologia in questa sede, sia diverticolare che neoplastica, e per la rapidità ed efficacia dell’intervento. Il paziente viene posizionato sul letto operatorio in posizione supina a gambe divaricate. Il letto operatorio deve permettere ampi cambiamenti di posizione sia laterali che antero-posteriori per aiutare lo spostamento delle anse ileali dal campo visivo (Fig. 5.17). L’operatore si posiziona sulla destra del paziente. Dopo l’induzione del pneumoperitoneo si posizionano 4 trocar di cui 1 a sinistra in corrispondenza della successiva minilaparotomia per retrarre il colon e 3 a destra per l’ottica laparoscopica e per gli strumenti nella mano destra e sinistra dell’operatore (Fig. 5.18). La procedura chirurgica deve seguire le tappe della chirurgia tradizionale. Dopo una attenta stadiazione condotta con l’ausilio eventuale di una endoscopia intraoperatoria (per confermare l’esatta localizzazione del tumore) e dell’ecografia laparoscopica, si evidenziano l’uretere destro e soprattutto il sinistro,che servirà come piano per la dissezione del mesosigma. Si identificano quindi l’arteria mesenterica inferiore, vicino all’emergenza dall’aorta, e la vena mesenterica inferiore, sita poco cranialmente alla precedente. I vasi vengono legati con lacci, clip o con suturatrice meccanica a carica vascolare, e sezionati (Fig. 5.19). A questo punto si procede allo scollamento e mobilizzazione del segmento di colon-sigma o retto da asportare e si seziona il capo distale con una suturatrice meccanica lineare. Una volta mobilizzato adeguatamente il colon discendente, si procede alla laparotomia di minima in fossa iliaca sinistra e, proteggendo adeguatamente la ferita laparotomica per evitare contaminazioni di cellule tumorali, all’esteriorizzazione del pezzo da resecare. La resezione del pezzo operatorio viene quindi eseguita al di fuori della parete addominale con successiva preparazione del moncone per l’anastomosi. Affondato in addome il moncone preparato, si chiude la laparotomia e si continua l’intervento restaurando il pneumoperitoneo. Introdotta la suturatrice circolare per via transrettale, si confeziona l’anastomosi colorettale termino-terminale (Fig. 5.20). Uno o due drenaggi vengono posizionati e fatti uscire dalle aperture dei trocar.

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I trial clinici controllati su numerosi pazienti hanno ormai dimostrato che le resezioni coliche sono sicure e, dopo la necessaria curva di apprendimento, di durata anche inferiore alle resezioni condotte con tecnica aperta. Il ridotto dolore postoperatorio, la ripresa rapida dell’alimentazione e della deambulazione portano ad una precoce dimissione del paziente. Anche i risultati a distanza, dal punto di vista oncologico, si sono dimostrati equiparabili, se non superiori, alla tecnica tradizionale.

Plastiche antireflusso gastroesofageo La terapia chirurgica del reflusso gastroesofageo costituisce una delle indicazioni elettive all’approccio laparoscopico. L’indicazione viene posta in pazienti giovani, refrattari ad assumere 183

terapie mediche spesso necessarie per molti anni e in pazienti con rapida recidiva sintomatica alla sospensione temporanea della terapia medica. La visione anatomica dello iato diaframmatico è sicuramente superiore e più chiara di quella ottenuta in laparotomia, dove spesso si deve utilizzare un procedimento bisottocostale o mediano xifopubico per ottenere una visione sufficiente alla realizzazione dell’intervento. La plastica più utilizzata è la fundoplicatio a 360° sec. Nissen. L’intervento richiede il posizionamento di 5 cannule di accesso (Fig. 5.21); quindi si esegue la preparazione dei pilastri diaframmatici, l’isolamento del terzo inferiore dell’esofago con sezione del legamento frenoesofageo (Fig. 5.22), la preparazione del fondo gastrico tramite sezione del legamento gastrofrenico ed eventuale sezione dei vasi brevi gastrici. Il fondo gastrico viene quindi portato posteriormente all’esofago e suturato anteriormente ad esso con 2 o 3 punti di sutura in modo da realizzare un lasso meccanismo valvolare (Fig. 5.23). In caso sia associata una ernia iatale che condiziona un largo orifizio diaframmatico, viene realizzata una plastica dei pilastri diaframmatici con 1 o 2 punti di sutura posteriore. L’intervento è di rapida esecuzione, scevro di complicanze postoperatorie ed ottiene gli stessi risultati della chirurgia ad addome aperto.

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Ernie della parete addominale Il corretto tipo di trattamento chirurgico delle ernie inguinali è in questi anni oggetto di discussione. Alla ricostruzione mediante sutura in triplice strato della parete inguinale secondo la tecnica di Bassini, si stanno affiancando con sempre maggior successo le tecniche di ricostruzione con l’uso di materiale protesico (alloplastiche inguinali).Queste ultime realizzano una ricostruzione della parete senza tensione, lasciando alle proprietà di stimolo fibroblastico delle reti il compito di rinforzo della parete. La tecnica di Stoppa prevede il posizionamento di una rete per via preperitoneale e viene utilizzata soprattutto in caso di ernia bilaterale o recidiva. Al posto dell’incisione inguinale la tecnica di Stoppa prevede una incisione mediana ombelicopubica con grande scollamento al di sotto dei muscoli addominali. 185

Anche le tecniche endoscopiche si basano sul principio della alloplastica; in questo caso sono necessarie solo 3 incisioni cutanee di 5-10 mm (una per l’ottica e due per gli strumenti operatori). L’intervento può essere attuato per via transperitoneale, posizionando la rete dall’interno dell’addome a livello preperitoneale intorno al difetto erniario e all’anello inguinale interno (Fig. 5.24), o per via completamente extraperi-toneale seguendo i tempi dell’intervento di Stoppa, una volta provocato lo scollamento preperitoneale con l’aiuto di un pallone introdotto sotto i muscoli retti (Fig. 5.25). I risultati ottenuti dalle diverse tecniche sono attualmente in valutazione per quanto riguarda la percentuale di recidive e l’effettivo miglioramento del decorso postoperatorio. Anche le ernie postoperatorie della parete addominale possono essere trattate per via transaddominale endoscopica mediante il posizionamento di reti a coprire il difetto erniario. La complessità della tecnica prevede il suo utilizzo solo in casi di laparoceli di modesta entità in cui i visceri non siano tenacemente aderenti al sacco erniario.

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Surrenalectomia laparoscopica L’asportazione chirurgica della ghiandola surrenale rappresenta una tipica indicazione della chirurgia mininvasiva. Gli approcci classici al surrene, per via anteriore transperitoneale o per via postero-laterale extraperitoneale, richiedono una ampia incisione chirurgica che spesso costituisce la principale fonte di morbilità nel trattamento delle patologie chirurgiche surrenaliche. La presenza di un ilo vascolare unico e le caratteriste dei tumori, di solito benigni e di piccole dimensioni, costituiscono inoltre una precisa indicazione all’approccio mininvasivo. Le indicazioni alla chirurgia laparoscopica del surrene sono costituite dai tumori benigni di piccole dimensioni presenti nel morbo di Cushing, di Addison, di Conn e nel feocromocitoma.Lesioni di diametro superiore a 10 cm possono costituire una controindicazione, anche per la potenziale malignità. Il paziente viene posto in decubito laterale controlaterale alla lesione con approccio transperitoneale (Figg. 5.26, 5.27). L’approccio anteriore transperitoneale risulta indicato per l’esplorazione di una possibile patologia della ghiandola controlaterale ed in caso di intervento programmato bilaterale. Per l’intervento al surrene destro si utilizzano quattro accessi da 10 mm (Fig. 5.28), risultando necessario un divaricatore per caricare e sollevare il lobo destro del fegato. Individuata la ghiandola surrenalica, si apre la riflessione peritoneale in corrispondenza del margine laterale della cava e si ricerca l’insorgenza dalla stessa della vena surrenalica superio-re (Fig. 5.29). Questo è il tempo più delicato dell’intervento poiché la vena a destra è corta e spesso la massa surrenalica la comprime verso la cava. Una volta isolata e sezionata tra clip si può procedere all’isolamento della ghiandola surrenalica dal rene e dalle strutture circostanti, utilizzando il coagulatore elettrico o ad ultrasuoni, poiché le strutture arteriose e venose dei peduncoli medi ed inferiori sono solitamente di piccolo calibro. Una volta isolato, il surrene viene posto in un sacchetto (Fig. 5.30) ed estratto attraverso un modico allargamento di una delle incisioni dei trocar. Per l’intervento al surrene sinistro il paziente viene posto in decubito laterale destro e si utilizzano tre vie di accesso come per la splenectomia (Fig. 5.31). Per l’accesso alla loggia surrenalica sinistra è necessario sezionare i legamenti splenocolico e splenodiaframmatici ribaltando la milza verso destra. Questo primo tempo chirurgico è identico nell’intervento di splenectomia. Una volta riconosciuta la coda del pancreas, si procede al riconoscimento della vena renale sinistra in cui si aggetta la vena surrenalica maggiore. Quest’ultima viene isolata e sezionata e da questo punto l’intervento prosegue come per il surrene destro.

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La posizione in decubito laterale con approccio retroperitoneale permette un accostamento più rapido e diretto al surrene quando siano presenti pregressi interventi addominali; per questa via la vena surrenalica viene evidenziata solo dopo la completa mobilizzazione della ghiandola. L’adrenalectomia laparoscopica è risultata eseguibile con ottimi risultati, nessuna mortalità operatoria, ridotte complicanze postoperatorie e tasso di conversione inferiore al 5%.

Splenectomia laparoscopica La splenectomia rappresenta una delle indicazioni elettive emergenti della laparoscopia in caso di neoformazioni che non invadono la capsula splenica ed in caso di malattie linfoproliferative o disordini ematologici di vario tipo condizionanti una situazione di ipersplenismo. Anche in caso di voluminose splenomegalie sussiste una indicazione laparoscopica. In questo caso potrà rendersi 190

necessaria una minilaparotomia per la rimozione di milze di grosse dimensioni in cui si voglia conservare integro il parenchima per un successivo accurato esame istologico. Quando quest’ultimo non sia indispensabile il parenchima può essere frantumato e ridotto all’interno di un contenitore plastico e quindi rimosso attraverso la ferita di uno dei trocar. La posizione del paziente sul letto operatorio e la posizione dei trocar sono identiche a quelle illustrate per l’intervento di surrenalectomia sinistra. La dissezione inizia solitamente dal polo inferiore della milza isolando e sezionando i vasi polari inferiori. Si ricerca quindi l’arteria splenica terminale all’ilo, la cui legatura e sezione (Fig. 5.32) mettono parzialmente al riparo da importanti sanguinamenti nel corso dell’intervento. Esiste a questo livello una variabilità notevole nel numero, posizione e calibro dei vasi splenici ilari, la cui dissezione deve essere meticolosa ed accurata, cercando di non danneggiare la coda pancreatica. Anche i vasi gastrici brevi devono essere legati e sezionati. L’utilizzo del coagulatore ad ultrasuoni o a radiofrequenza abbrevia notevolmente questi tempi operatori. Facendo cadere la milza verso destra si procede alla sezione dei legamenti splenocolico e splenodiaframmatici in prossimità della capsula splenica sino al polo superiore della milza. Una volta mobilizzato l’organo (Fig. 5.33) si posiziona una suturatrice lineare a carica vascolare sul residuo tessuto ilare controllando sempre la coda pancreatica. Si posiziona un drenaggio nel cavo residuo e si rimuove la milza con le modalità descritte. In caso di milze voluminose si preferisce asportarle da una incisione laparotomica sovrapubica.

La milza è un organo fragile e riccamente vascolarizzato. L’intervento richiede una estrema accuratezza e una delicatezza di movimenti e di manipolazione.

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Laparoscopia esplorativa-operativa La laparoscopia è nata come tecnica diagnostica; questa potenzialità è stata ulteriormente affinata dalla possibilità di utilizzare strumenti operativi nel cavo addominale. Le due maggiori indicazioni in questo campo sono rappresentate dalla stadiazione delle neoplasie addominali e dalla ricerca delle cause di subocclusioni intestinali croniche. Nelle neoplasie gastriche, pancreatiche ed epatiche la laparoscopia trova indicazione nei casi di diagnosi dubbia o di sospetta malattia avanzata. Possono essere evidenziati e confermati con biopsie mirate e multiple la presenza di carcinosi peritoneale, l’interessamento linfonodale metastatico e l’infiltrazione di organi adiacenti, evitando così inutili e dannose laparotomie esplorative. Nel caso di tumori pancreatici, l’apertura del legamento gastrocolico permette la visualizzazione diretta del pancreas e l’esecuzione di biopsie mirate (Fig. 5.34) con controllo immediato di eventuali emorragie secondarie, così come l’esecuzione di ecografie laparoscopiche per rilevare possibili infiltrazioni, da parte del tumore, in strutture vascolari vitali. A livello epatico l’ecografia laparoscopica, oltre ad una migliore definizione delle lesioni epatiche primitive e metastatiche, unisce la possibilità di trattamento di queste lesioni tramite tecniche di ablazione in radiofrequenza, crioterapia e alcoolizzazione.

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In pazienti con episodi occlusivi recidivanti secondari o non con pregressi interventi addominali la laparoscopia trova indicazioni nella ricerca delle cause di turbe del transito digestivo associate a dolore addominale. La presenza del pneumoperitoneo, sollevando la parete addominale e comprimendo le anse intestinali, mette in netta evidenza aderenze fibrose visceroparietali e visceroviscerali responsabili di possibili ernie interne, angolature dei visceri, stati ischemici secondari o presenza di patologie associate (diverticoli di Meckel, stenosi di pregresse anastomosi viscerali) (Fig. 5.35). Questi stati patologici cronici e debilitanti per la qualità di vita di molti pazienti possono essere risolti operativamente contestualmente al momento diagnostico.

Altri interventi addominali 193

Gli interventi sopraelencati rappresentano le indicazioni laparoscopiche universalmente accettate e più eseguite. L’esperienza e l’abilità tecnica maturata nel corso di questi anni ha portato a sperimentare la fattibilità in endoscopia di quasi tutte le operazioni chirurgiche conosciute.Anche interventi complessi quali duodeno-cefalo-pancreasectomie, esofagectomie totali, gastrectomie totali con linfoadenectomie allargate e resezioni epatiche maggiori sono stati realizzati in laparoscopia. Come già detto si discute sull’opportunità di eseguire interventi per patologia neoplastica in endoscopia,mentre le derivazioni palliative per tumori inoperabili costituiscono una delle indicazioni elettive. La Tabella 5.1 illustra le indicazioni comunemente accettate a seconda degli organi. Il reale beneficio di alcune di queste indicazioni deve essere ancora attentamente valutato.

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Toracoscopia I vantaggi in termini di decorso postoperatorio dei pazienti trattati in laparoscopia sono ancora più evidenti nel caso di interventi attuati in toracoscopia. Il potere evitare un’ampia toracotomia riduce drasticamente il dolore postoperatorio e l’alterazione indotta sulla meccanica ventilatoria.

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Retroperitoneoscopia Questa tecnica prevede un approccio chirurgico endoscopico ad organi e strutture retroperitoneali attraverso la creazione di uno spazio artificiale prodotto con lo scollamento dei piani preperitoneali da palloni di varia forma e dimensioni (Fig. 5.36).

Una volta creato lo spazio, esso viene mantenuto dall’insufflazione di gas a bassa pressione in modo da inserire varie cannule attraverso le quali sono introdotte le ottiche e gli strumenti operatori. La tecnica si è affermata in sostituzione di quella transaddominale con l’intento di evitare lesioni degli organi addominali, lunghe e tediose dissezioni per raggiungere organi retroperitoneali e ridurre i possibili danni sistemi da riassorbimento di CO2 a livello intraperitoneale. Le indicazioni di questa tecnica sono riportate nella Tabella 5.2.

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Chirurgia endoscopica transanale La chirurgia transanale (Transanal Endoscopic Microsurgery: TEM) rappresenta un classico esempio di come le tecniche endoscopiche possano essere attuate all’interno di organi cavi con l’intento, in casi selezionati, di evitare interventi altamente demolitivi, come per esempio una amputazione di retto per via addominoperineale con confezionamento di colostomia terminale. Questo tipo di intervento trova indicazione in tumori benigni villosi sessili con displasia da severa a grave, in carcinomi allo stadio T1 con intento curativo ed allo stadio T3 con intento palliativo in pazienti che non possono affrontare un intervento chirurgico demolitivo per controindicazioni di carattere generale anestesiologico e qualora il tumore sia stenosante o sanguinante. L’accurata selezione dei pazienti da sottoporre a questo tipo di trattamento è essenziale: l’esplorazione digitale (che permette di apprezzare la sede e la mobilità della lesione), la rettoscopia con strumento rigido (distanza della lesione dalla rima anale, biopsie multiple), l’ecografia endorettale e la TC della regione perirettale (grado e profondità di infiltrazione nelle pareti del retto, infiltrazione del grasso perirettale e presenza di linfonodi patologici) sono gli esami diagnostici necessari ad una accurata stadiazione della malattia e quindi alla valutazione della fattibilità della TEM. Sono aggredibili con la TEM lesioni del retto extraperitoneale situate entro i 15 cm di distanza dalla rima anale, che non occupino più dei 2/3 della circonferenza del viscere (Tab. 5.3).

In anestesia generale, il paziente viene posizionato a seconda della sede della lesione in modo che la stessa giaccia su di un piano inferiore rispetto alla posizione dell’operatore. Viene introdotto nel retto un apposito rettoscopio operatore del diametro di 40 mm, a tenuta stagna, per poter mantenere una distensione del retto tramite CO2 a bassa pressione. Al suo interno è presente un’ottica stereoscopica collegata ad una fonte luminosa ed ad una telecamera che permette la visione sul monitor esterno. È possibile inserire sino a 4 strumenti operatori tramite delle valvole a tenuta (Fig. 5.37). L’operatore esegue l’intervento di resezione con l’elet-trobisturi scollando i piani sottomucosi e muscolari (Fig. 5.38) con l’elettrobisturi, mentre un secondo operatore provvede all’aspirazione del sangue ed al lavaggio del campo operatorio.Terminata la resezione è possibile eseguire la sutura diretta del margine mucoso onde prevenire una possibile emorragia o la comparsa di stenosi secondaria ad una guarigione per seconda intenzione. La ristrettezza del campo operatorio e lo stretto angolo di movimento degli strumenti rendono necessaria una certa destrezza ed esperienza per eseguire gli interventi più complessi.

Il decorso operatorio è generalmente rapido e ben tollerato se si esclude una possibile transitoria difficoltà minzionale e di incontinenza fecale, peraltro completamente reversibile, legata alle dimensioni del rettoscopio operatore.

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Letture suggerite z

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Cuschieri G., Buess J. Perissat: Operative manual of endoscopic surgery. Vol. 1-2. Springer Verlag, 1997. Toouli J., Gossot D., Hunter J.G.: Endosurgery. Churchill-Livingstone, 2000. Zucker K.A.: Surgical laparoscopy update. Quality Medical Publishing, 2000.

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6 Le ferite 6.1 Guarigione delle ferite 6.2 Le fasi del processo di riparazione 6.3 I diversi tipi di ferita 6.4 Patologia delle ferite 6.5 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 6

Le ferite A. Faga, L. Valdatta

Guarigione delle ferite Si intende per ferita una soluzione di continuo della cute.  Esistono due modalità di guarigione delle ferite: x per prima intenzione, quando i margini di una ferita sono contrapposti così da essere separati solo da uno spazio virtuale. È la condizione ideale che si verifica nella ferita suturata chirurgicamente, il cui decorso non sia complicato da ematomi, sovrainfezioni o processi necrotici. In tali circostanze, il tessuto cicatriziale neoformato è di minima entità; x per seconda intenzione,quando tra i margini della ferita si costituisce un intervallo reale destinato a essere colmato prima dal tessuto di granulazione e successivamente da una massa cicatriziale. A tali diversi quadri clinici fanno riscontro processi biologici qualitativamente identici, differenziabili solo sul piano quantitativo, in ragione dell’entità del tessuto di granulazione costituitosi: abbondante, modesto o addirittura solo virtuale.

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Le fasi del processo di riparazione Formazione del coagulo Il primo dispositivo di chiusura della ferita è rappresentato dal coagulo ematico, costituito da una fitta rete di fibrina, nelle cui maglie sono incluse emazie, piastrine e altri elementi figurati del sangue. Il coagulo funge da superficie di attrazione per le piastrine, che vi aderiscono degranulandosi e liberando una miriade di Growth Factors e di sostanze vasoattive: PDGF (Platelet Derived Growth Factor),TGFȕ (Transforming Growth Factor ȕ ), FGF (Fibroblast Growth Factor), EGF (Endothelial Growth Factor), ȕ-tromboglobulina, PF4 (Platelet Factor 4), PDAF (Platelet Derived Angiogenesis Factor), serotonina, bradichinina, prostaglandine, prostacicline, trombossani, istamina. La degranulazione delle piastrine attiva anche la cascata del complemento con la formazione di C3a e di C5a, potenti anafilotossine, in grado di attivare il rilascio di istamina dai basofili e dai mastociti. L’avvicinamento dei margini della ferita è iniziato dalla retrazione del coagulo, mediato dalla trombostenina piastrinica.

Invasione dei fagociti L’area in via di guarigione viene successivamente invasa dai fagociti, dapprima granulociti neutrofili, rapidamente sostituiti poi dai macrofagi, derivati dai monociti ematici. I macrofagi, che spesso per fusione sinciziale danno origine a cellule giganti multinucleate, detergono la ferita, fagocitando la fibrina e i detriti cellulari e riversando in sede extracellulare numerosi enzimi litici. Inoltre liberano fattori di crescita (MDGF, Macrophage Derived Growth Factors) per i fibroblasti e le cellule endoteliali.

Proliferazione dei tessuti connettivali Il tessuto di granulazione è un tessuto connettivale scarsamente differenziato e molto vascolarizzato che compare tra il II e il III giorno del processo di riparazione della ferita. Clinicamente appare come una massa di colorito rosso acceso, facilmente sanguinante, a superficie più o meno bernoccoluta per cui si parla di “bottoni di granulazione”. Esso consta di una parte cellulare e di una componente extracellulare.

Componente cellulare La componente cellulare è rappresentata soprattutto dai fibroblasti, ma sono presenti anche altre cellule connettivali: macrofagi, leucociti, mastociti e plasmacellule. I fibroblasti, originati dal mesenchima perivascolare, penetrano nel coagulo seguendo i filamenti di fibrina, che rappresentano l’impalcatura e la guida per la loro proliferazione; si presentano come cellule di forma fusata, talora stellata. La loro attivazione è controllata da numerosi fattori di crescita: MDGF, PDGF, TGFȕ, IL (interleuchine), TNF (Tumor Necrosis Factor). Una parte dei fibroblasti assume caratteristiche microstrutturali e funzionali tipiche delle cellule muscolari lisce ed è per questo definita “miofibroblasti”: questi sono ritenuti il fattore più 203

importante nella contrazione della ferita.Tali cellule, che contengono nel loro citoplasma catene di Į-actina e miosina, normalmente scompaiono per apoptosi (morte cellulare programmata) subito dopo il completamento della chiusura della ferita stessa attorno alla X-XII giornata. Sono abnormemente presenti in condizioni di cicatrizzazione ipertrofica. Contemporaneamente ai fibroblasti, tra il II e il III giorno proliferano gli abbozzi vascolari, stimolati essenzialmente dal VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) e dal FGF. Sui margini della lesione, a partenza dai periciti (cellule mesenchimali adiacenti alle cellule endoteliali dei capillari residui), originano delle protuberanze solide, che si allungano poi in cordoni diretti verso il centro; questi cordoni si anastomizzano fino a formare una fitta rete; successivamente si cavitano e vi si stabilisce il flusso ematico, che dapprima può essere bidirezionale, in seguito si normalizza diventando ortodromico. Più tardi rispetto ai capillari ematici e con minore regolarità rigenerano i capillari linfatici, anch’essi a partire da vasi preesistenti.

Componente extracellulare La componente extracellulare, costituita da una parte amorfa e da una fibrillare, è elaborata dai fibroblasti. Essi secernono acido ialuronico e altri GAG (glucosaminoglicani), i quali rappresentano il substrato della cosiddetta sostanza fondamentale amorfa extracellulare e svolgono un fondamentale ruolo di controllo e ordinamento sulla organizzazione delle fibre collagene. Compito dei fibroblasti è anche l’elaborazione e la secrezione del procollagene, che viene trasformato in ambiente extracellulare in tropocollagene. Per polimerizzazione, dal tropocollagene originano le microfibrille, poi le fibre reticolari argirofile (IV-V giorno dall’inizio dei fenomeni riparativi), poi le fibre collagene vere e proprie (V-VI giorno).

Riepitelizzazione La fase di riepitelizzazione inizia molto precocemente: entro le 24 ore infatti i cheratinociti tendono a migrare dai margini verso il centro della lesione e in III giornata nell’epidermide dei labbri della ferita è osservabile un’intensa attività mitotica non limitata allo strato basale. La riepitelizzazione si realizza però solo quando, grazie alla proliferazione del tessuto di granulazione, si colma l’eventuale dislivello tra il fondo e i bordi della lesione. Un tessuto di granulazione esuberante, tuttavia, ostacola la riepitelizzazione, sia per motivi meccanici con impedimento allo scorrimento delle cellule epiteliali, sia per la presenza in quantità squilibrata di “fattori connettivali”, ancora poco noti, ma importanti nel controllo della proliferazione epiteliale.

Organizzazione della cicatrice Le fibre collagene aumentano di numero e spessore. Diminuisce il numero dei fibroblasti, che vanno assumendo l’aspetto di cellule quiescenti: i fibrociti; diminuiscono i capillari. Si viene così a formare la cicatrice: un tessuto connettivale definitivo, poco irrorato, poco innervato, anelastico, prevalentemente costituito da fibre collagene dense, sclerotiche, fittamente intrecciate, con rari elementi cellulari in riposo funzionale (fibrociti), rivestito da una cute fragile, traslucida, di colorito alterato, inestensibile, pressoché priva di annessi, spesso sede di iper- e parestesie. L’organizzazione del tessuto di riparazione a opera delle fibre collagene determina un aumento della sua “resistenza alla trazione”(tensile strength). Il tessuto cicatriziale subisce nel tempo uno spontaneo processo di retrazione, nel quale distinguiamo due componenti. z Contrazione (contraction): la retrazione della ferita propriamente detta si conclude nell’arco 204

di circa 12 giorni dal trauma: è determinata dalla contrazione dei miofibroblasti presenti nel tessuto di granulazione. z Retrazione (contracture): la retrazione della cicatrice già costituita, associata anche al suo aumento di spessore, si prolunga per diversi mesi: è determinata dall’aggregazione delle fibrille di tropocollagene, per polimerizzazione e formazione di legami crociati (cross-links), con perdita di acqua. Una cicatrice può essere considerata solida dopo 2 settimane. La sua organizzazione si completa in circa 6 mesi, trascorsi i quali si avvia lentamente ad assumere il suo aspetto definitivo, che consegue in circa 2 anni. I fattori di crescita (Growth Factors) sono peptidi secreti localmente, deputati a modulare la proliferazione, differenziazione e migrazione delle diverse cellule bersaglio, mediante stimolazione di recettori di membrana. L’impiego clinico dei GF è già iniziato e se ne prevede un rilevante incremento, grazie alle tecniche di ricombinazione genica, che consentono la produzione di GF su scala industriale. Allo stato attuale, l’unico GF disponibile sul mercato, il cui uso quindi non è più solo sperimentale, è il PDGF ricombinante umano a catena B, ottenuto inserendo nelle cellule di Saccharomyces cerevisiae il gene che codifica per la sintesi della catena B del PDGF.

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I diversi tipi di ferita Profondità A seconda della profondità cui giunge la soluzione di continuo dei tessuti, si distinguono: z ferite superficiali: interessano la cute e il sottocutaneo fino alla fascia superficiale esclusa; z ferite profonde: interessano anche la fascia e le diverse strutture sottofasciali.

Margini In base alle caratteristiche dei margini della ferita, si distinguono: z ferite lineari: determinate da strumenti taglienti e affilati, sono caratterizzate da bordi netti e continui, senza segni di sofferenza tissutale. Rappresentano la condizione ideale per lo svolgimento dei processi di riparazione; z ferite contuse: determinate da strumenti taglienti, ma in associazione a una pressione superiore a quella endovascolare. Ne consegue la sofferenza ischemica dei tessuti adiacenti alla ferita, per cui i bordi appaiono ecchimotici e perciò destinati, a seconda della gravità della contusione, a necrosi diffusa o parcellare. La sutura di tali ferite deve essere preceduta dalla accurata eliminazione meccanica dei margini sofferenti. Nell’ambito delle ferite contuse possono essere incluse le ferite da punta (indotte cioè da chiodi, punteruoli, paletti ecc.); z ferite lacere: determinate dagli agenti lesivi più disparati. I bordi sono variamente conformati e di spessore irregolare. La sutura deve essere preceduta da un’accurata regolarizzazione dei bordi, con eliminazione delle porzioni verosimilmente destinate alla necrosi. Le ferite lacere il più delle volte presentano i bordi variamente contusi realizzando così il quadro della ferita lacerocontusa.

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Patologia delle ferite La cicatrizzazione può essere complicata da una serie di eventi che la possono deviare dal normale decorso.

Cicatrizzazione ipoplastica È indotta da turbe dei fattori che condizionano la guarigione delle ferite e si manifesta con una deficiente produzione di tessuto di granulazione e una epitelizzazione ritardata. La cicatrice ipotrofica appare depressa, traslucida, ipopigmentata, spesso marezzata in periferia per la presenza di teleangectasie, facilmente ulcerabile (Tab. 6.1).

Cicatrizzazione iperplastica Può essere indotta da un trattamento inadeguato delle ferite, nonché da una certa predisposizione soggettiva. La cicatrice appare fin dalla II settimana dal trauma come un cordone rilevato, eritematoso, dolente, espressione clinica di un aumento quantitativo delle fibre collagene, che comprimono le terminazioni nervose; l’epidermide è sottile e atrofica. Col tempo la cicatrice ipertrofica mostra una certa tendenza alla regressione spontanea, che può essere favorita da trattamenti locali con corticosteroidi. Dopo almeno 6 mesi, la cicatrice ipertrofica può essere corretta chirurgicamente mediante escissione del cordone, eliminazione dell’eventuale tensione e corretta sutura.

Cicatrizzazione metaplastica Tale patologia cicatriziale porta alla costituzione del cheloide, entità anatomopatologica del tessuto cutaneo paragonabile al desmoide del tessuto muscolare. In effetti il cheloide è caratterizzato da un’inesorabile capacità di recidiva locale, che lo diversifica dalle banali forme ipertrofiche, pur non essendo in grado di dare metastasi, a differenza delle neoplasie. L’eziopatogenesi del cheloide è ancora in gran parte oscura. Si ipotizza una predisposizione familiare e razziale. Nell’ambito dei fattori esogeni, si elencano le medesime cause che inducono la cicatrizzazione ipertrofica e in particolare: l’eccessiva tensione sui margini della ferita, la presenza di materiale estraneo,tutte le condizioni che rallentano il processo di guarigione (lesioni guarite per seconda intenzione). Clinicamente il cheloide appare come una tumefazione di colorito rosso acceso, di forma spesso diversa da quella della lesione di partenza e di dimensioni superiori: la dolorabilità, spontanea o indotta dalla pressione, è spesso notevole. Istologicamente il cheloide è caratterizzato da una caotica disposizione, in vortici e spirali, delle fibre collagene. Sedi predilette sono, in ordine decrescente, la 207

regione presternale, la regione deltoide, la regione dorsale, le regioni cervicali anteriore e laterale. La terapia del cheloide, tuttora sperimentale, è praticabile solo sulle forme recenti (non più di 6 mesi dalla lesione primitiva).Tra le proposte più attuali ed efficaci ricordiamo: x il bendaggio elastico-compressivo (per almeno 6 mesi); x l’applicazione locale di fogli di gel di dimetilpolisilossano (silicone) altamente purificato, per un periodo di tempo non ancora esattamente quantificato, ma sicuramente prolungato; x la laserterapia all’IR. Desuete sono ormai la criochirurgia e la corticoterapia. Studi ancora sperimentali sembrano dimostrare l’efficacia del mannosio 6-fosfato nel controllo della cicatrizzazione ipertrofica e cheloidea, attraverso un meccanismo di inibizione dell’attivazione della famiglia dei Transforming Growth Factors. Analogamente il Gamma-Interferon pare avere efficacia nella normalizzazione della cicatrizzazione, mediante riduzione della produzione di mRNA per il collagene di tipo I e di tipo III e mediante riduzione dei miofibroblasti che si riscontrano oltre i limiti normali (10-12 gg.) nelle cicatrici patologiche. Il cheloide inveterato è ribelle a qualsiasi trattamento. Risultati moderatamente incoraggianti si stanno ottenendo associando all’asportazione chirurgica una contestuale singola seduta di radioterapia, seguita dalla elastocompressione con lamine in gel di dimetilpolisilossano. I risultati dei follow up clinici sono ancora in corso di elaborazione.

Cicatrizzazione neoplastica La trasformazione cancerosa delle cicatrici (ulcera di Marjolin) è un evento non frequente (circa 1,5%). Insorge tipicamente, dopo una latenza media da 10 a 30 anni, su cicatrici caratterizzate da una storia di guarigione lenta e difficoltosa (cicatrici da ustione, ferite da arma da fuoco, cicatrici da vaccinazione ecc.); istologicamente è in genere un carcinoma spinocellulare altamente invasivo.

Patologia secondaria La presenza di una cicatrice, pur normalmente costituita, costituisce di per sé un problema clinico, inquadrabile nell’ambito della cosiddetta “patologia secondaria”. La cicatrice tende infatti a ulcerarsi in risposta ai più banali traumatismi ed è quasi sempre sede di iperestesie e parestesie; inoltre, la spontanea tendenza alla retrazione provoca uno stiramento dei tessuti circostanti, la cui gravità va dal semplice inestetismo alla deformità conclamata fino a giungere, nel bambino e nel giovane, all’impedimento del normale sviluppo di intere regioni.

Ulcere Si intende per ulcera una perdita di sostanza interessante i tessuti a varia profondità, priva di tendenza alla guarigione spontanea. Particolarmente frequenti sono le ulcere a carico degli arti inferiori, specie dopo la sesta decade di vita e nel sesso femminile. L’eziopatogenesi di tale condizione si identifica in un deficit circolatorio locale, il quale può essere: z primitivo, direttamente connesso a una patologia vascolare (arteriopatie, flebopatie, linfopatie); z secondario a malattie, che si estrinsecano mediante fenomeni vasculitici. La terapia si basa, per quanto possibile, sulla rimozione dell’agente eziologico. La chirurgia delle ulcere consiste nell’accurata pulizia del fondo e dei bordi della lesione ulcerosa, al fine di convertire una perdita di sostanza contaminata in una ferita chirurgica, con fondo e margini netti, uniformemente sanguinanti ed in grado di consentire l’attecchimento di un innesto cutaneo sottile.

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Lesioni da pressione La lesione da pressione (o “ulcera da decubito”) si costituisce nei soggetti costretti a un decubito obbligato (paraplegici, traumatizzati agli arti inferiori posti in trazione ecc.). L’eziologia è da ricondurre alla confluenza di elementi diversi: compressione locale superiore alla pressione media nei capillari (20-30 mmHg); insufficiente spessore dei tessuti molli soprastanti le corrispondenti sporgenze ossee; ristagno di deiezioni; nei medullolesi, inibizione del controllo riflesso del sistema autonomo sulla circolazione cutanea. Sedi elettive, in ordine decrescente di frequenza e corrispondenti alle sedi di decubito abituale: regioni ischiatiche (28%), regione sacrale (27%), caviglie (18%), regioni pretrocanteriche (12%), malleoli esterni (8%), regioni pretibiali (4%), regioni iliache (2%), regioni precostali (1%). La profilassi si basa sulla cura del trofismo generale e, a livello locale, sull’accurata pulizia e sull’attenuazione dello stimolo pressorio mediante frequenti cambi di posizione, bendaggi soffici, appositi materassi (con imbottitura d’aria, d’acqua, di microsfere ecc.). Il trattamento è medico finché la lesione è localizzata alla cute e agli strati sottocutanei più superficiali ed è basato su: detersione del fondo dell’ulcera, impedendo l’organizzazione degli essudati e combattendo le sovrainfezioni; controllo della crescita del tessuto di granulazione; stimolazione della proliferazione dell’epitelio. Quando l’ulcerazione interessa od oltrepassa il piano fasciale, la terapia è chirurgica ed è schematizzabile in: escissione dell’area ulcerata e del tessuto cicatriziale circostante; spianamento o rimozione della sporgenza ossea sottostante; riparazione della soluzione di continuo mediante trasferimento di un lembo fasciocutaneo o miocutaneo.

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Letture suggerite z

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Abatangelo G., Davidson J.M.: Cutaneous development, aging and repair. Liviana Press, Padova, 1989. Barbul A., Pines E. et al.: Growth factors and other aspects of wound healing. Liss, New York, 1988. Carcano G., Dionigi R.: Le ferite. Masson, Milano, 1999. Faga A.: Chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica. Masson, Milano, 2000. Kirk R.M.: ABC delle tecniche chirurgiche di base. Masson, Milano, 1983. Krasner D. (Ed): Chronic wound care: a clinical sourcebook of healthcare professionals. Kiry of Prussia, Health Care Management Publications, Philadelphia, 1990. Micali G.: La riparazione tissutale. Aspetti biologici, clinici e terapeutici. Fidia, Padova, 1988. Peacock E.E.: Wound repair. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1984. Simmons R.L., Steed D.L. (Eds): Basic Science. Review for Surgeons. W.B. Saunders, Philadelphia, 1992.

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7 Anestesia 7.1 Valutazione preoperatoria del paziente 7.2 Scelta del tipo di anestesia 7.3 Trattamento preoperatorio 7.4 Anestesia generale 7.5 Anestesia loco-regionale 7.6 Anestesia per la chirurgia ambulatoriale 7.7 Complicanze dell’anestesia generale 7.8 Rischio professionale per esposizione cronica ai farmaci anestetici 7.9 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 7

Anestesia M. Chiaranda, G. Minoja Le origini dell’anestesia coincidono probabilmente con le origini dell’uomo, poiché da sempre l’uomo ha lottato contro il dolore, il suo peggior nemico, ricorrendo a mezzi per molti versi strani e curiosi, quali lo strangolamento parziale in uso preso gli Assiri per indurre una lipotimia tale da consentire la circoncisione, il vino fatturato degli eroi omerici, le spongie soporifere dell’era medioevale, ed innumerevoli altri espedienti particolarmente suggestivi. La nascita dell’anestesia moderna viene fatta risalire al 16 ottobre 1846 (Ether day), il giorno in cui W.T.G.Morton, presso il Massachusetts General Hospital, dimostrò con successo su un paziente le proprietà anestetiche dell’etere. Negli anni successivi se ne è registrato il progressivo sviluppo grazie alla sperimentazione ed all’impiego di nuovi farmaci per l’anestesia generale e l’analgesia loco-regionale, oltre che al progresso tecnologico delle apparecchiature per il monitoraggio e l’assistenza dei pazienti. Parallelamente, la cultura specialistica e le competenze dell’anestesista si sono ampliate oltre l’ambito della sala operatoria verso il trattamento rianimativo, antalgico ed intensivo-terapico dei pazienti critici. Per quanto concerne il trattamento anestesiologico dei pazienti di interesse chirurgico, oggetto di questo capitolo, il concetto fondamentale da tenere presente è che attualmente esso costituisce un presidio sicuro ed efficace che consente al paziente di affrontare senza accorgersene, a livello sia cosciente che non, anche il più grave stress operatorio.  L’atto chirurgico causa inevitabilmente dolore, cioè una sensazione sgradevole provocata da uno stimolo nocicettivo periferico il quale, una volta trasmesso al sistema nervoso centrale, normalmente determina due tipi di fenomeni: x percezione corticale cosciente con memorizzazione; x reazioni somatiche (fuga), emotive (paura, angoscia), neurovegetative (tachicardia, ipertensione, sudorazione ecc.). Le tecniche di anestesia consentono di bloccare la trasmissione e l’integrazione dello stimolo nocicettivo a livello periferico o midollare (anestesia loco-regionale), oppure a livello di sistema reticolare, talamo, corteccia cerebrale (anestesia generale).

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Le origini dell’anestesia coincidono probabilmente con le origini dell’uomo, poiché da sempre l’uomo ha lottato contro il dolore, il suo peggior nemico, ricorrendo a mezzi per molti versi strani e curiosi, quali lo strangolamento parziale in uso preso gli Assiri per indurre una lipotimia tale da consentire la circoncisione, il vino fatturato degli eroi omerici, le spongie soporifere dell’era medioevale, ed innumerevoli altri espedienti particolarmente suggestivi. La nascita dell’anestesia moderna viene fatta risalire al 16 ottobre 1846 (Ether day), il giorno in cui W.T.G.Morton, presso il Massachusetts General Hospital, dimostrò con successo su un paziente le proprietà anestetiche dell’etere. Negli anni successivi se ne è registrato il progressivo sviluppo grazie alla sperimentazione ed all’impiego di nuovi farmaci per l’anestesia generale e l’analgesia loco-regionale, oltre che al progresso tecnologico delle apparecchiature per il monitoraggio e l’assistenza dei pazienti. Parallelamente, la cultura specialistica e le competenze dell’anestesista si sono ampliate oltre l’ambito della sala operatoria verso il trattamento rianimativo, antalgico ed intensivo-terapico dei pazienti critici. Per quanto concerne il trattamento anestesiologico dei pazienti di interesse chirurgico, oggetto di questo capitolo, il concetto fondamentale da tenere presente è che attualmente esso costituisce un presidio sicuro ed efficace che consente al paziente di affrontare senza accorgersene, a livello sia cosciente che non, anche il più grave stress operatorio.  L’atto chirurgico causa inevitabilmente dolore, cioè una sensazione sgradevole provocata da uno stimolo nocicettivo periferico il quale, una volta trasmesso al sistema nervoso centrale, normalmente determina due tipi di fenomeni: x percezione corticale cosciente con memorizzazione; x reazioni somatiche (fuga), emotive (paura, angoscia), neurovegetative (tachicardia, ipertensione, sudorazione ecc.). Le tecniche di anestesia consentono di bloccare la trasmissione e l’integrazione dello stimolo nocicettivo a livello periferico o midollare (anestesia loco-regionale), oppure a livello di sistema reticolare, talamo, corteccia cerebrale (anestesia generale).

Valutazione preoperatoria del paziente Un’attenta valutazione delle condizioni cliniche preoperatorie è di fondamentale importanza per la sicurezza del paziente e la scelta della tecnica di anestesia più appropriata. Durante la visita preoperatoria, l’anamnesi familiare si propone di far luce su comportamenti anomali dei consanguinei dell’operando in occasione di precedenti anestesie, volendo escludere in particolare una familiarità per ipertermia maligna (v.“Complicanze dell’anestesia generale”). Occorre inoltre indagare i precedenti chirurgici e anestesiologici del soggetto per quel che riguarda i seguenti eventi: difficoltà all’intubazione, risveglio ritardato, prolungamento della curarizzazione, reazioni allergiche, fenomeni tossici, allucinazioni. È necessario conoscere l’eventuale abitudine al consumo di alcool, droghe, tabacco, così come l’assunzione di farmaci che possono interferire con l’azione degli anestetici per un effetto di potenziamento, di sommazione o sinergico (per es. barbiturici ed alcool), di inibizione enzimatica (per es. inibitori delle monoamino-ossidasi), di induzione enzimatica (per es. fenobarbitale), di squilibrio elettrolitico (per es. ipokaliemia da diuretici), di alterazione dei meccanismi renali deputati all’escrezione dei farmaci (per es. modificazioni del pH urinario). L’interazione farmacologica può risultare particolarmente pericolosa durante il trattamento con anticoagulanti, ipoglicemizzanti, digitale, farmaci citotossici, IMAO ed antidepressivi triciclici. Questi ultimi, in particolare, bloccano la riassunzione delle monoamine nelle terminazioni adrenergiche, cosicché il tasso delle catecolamine circolanti aumenta; per prevenire, quindi, l’insorgenza di crisi ipertensive con tachicardia e pericolose aritmie in occasione dello stress operatorio, è opportuno sospendere la terapia antidepressiva almeno 2 213

settimane prima dell’intervento. Mediante la raccolta dei dati anamnestici, l’esame clinico del paziente e la valutazione dei dati di laboratorio e degli esami strumentali si indaga sulla presenza e la gravità di alterazioni che interessino, soprattutto, l’apparato cardiocircolatorio e respiratorio, la funzionalità epatica e renale, l’assetto ormonometabolico ed emocoagulativo, l’equilibrio idroelettrolitico ed acido-base. Qualora lo ritenga necessario, l’anestesista richiede ulteriori indagini clinico-strumentali e concorda con il chirurgo quel trattamento preoperatorio che ragionevolmente consente di ridurre i rischi per il paziente (per es. fisiokinesiterapia respiratoria, nutrizione artificiale, correzione degli squilibri elettrolitici, eventuali modificazioni della terapia farmacologica).  Il paziente deve essere esaminato per accertare la presenza di anomalie che, al momento dell’anestesia, possano ostacolare l’esecuzione di manovre essenziali quali l’accesso alla via venosa e, soprattutto, l’intubazione tracheale. Questi sono i parametri che, anche singolarmente, fanno prevedere una intubazione difficile: x meno di 20 mm di distanza interdentaria; x marcato prognatismo mascellare; x distanza mento-tiroide inferiore o uguale a 60 mm; x mancata visualizzazione delle strutture faringee a bocca spalancata (Mallampati 4); x macroglossia con micrognazia evidente; x collo fisso in flessione; x esiti cicatriziali o postattinici gravi a carico del pavimento linguale. In tutti questi casi, o nelle situazioni intermedie quali la presenza di collo corto e tozzo, la ridotta flessoestensione del capo sul collo, test di Mallampati 2-3, verrà programmata una intubazione che preveda metodiche alternative, in condizioni di sicurezza (v. “Controllo delle vie aeree ed assistenza respiratoria”). Nel caso in cui venga programmata un’anestesia loco-regionale, si ricercano eventuali segni di infezione nella zona da infiltrare, si verifica se il paziente è in grado di assumere la postura necessaria per l’esecuzione del blocco anestetico e se vi sono ostacoli anatomici al raggiungimento della struttura da aggredire (per es. riduzione degli spazi intervertebrali tale da impedire la penetrazione dell’ago in caso di anestesia peridurale o spinale). Al termine della visita anestesiologica, in base alla valutazione delle condizioni di salute, il paziente viene incluso in uno dei gruppi della classificazione proposta dall’American Society of Anesthesiologists (ASA) (Tab. 7.1). Tale classificazione costituisce il sistema più diffusamente impiegato per quantificare il rischio operatorio, anche se, in realtà, essa non è stata formulata per questo scopo e risulta alquanto semplicistica rispetto ad altri sistemi di valutazione a punteggio; ha comunque il pregio di fornire un linguaggio comune per un confronto di esperienze fra differenti scuole.  Nel contesto del rischio operatorio globale, è difficile isolare quale entità a sé stante il rischio anestesiologico, poiché mortalità e morbilità perioperatorie sono il risultato di più fattori: patologia pregressa ed in atto, difficoltà dell’intervento, effetti dell’anestesia, qualità dell’équipe, errori umani ed imprevisti. Recenti statistiche consentono di stimare ragionevolmente la responsabilità esclusiva o prevalentemente anestesiologica nell’insorgenza di mortalità o grave morbilità perioperatoria nella misura di 1 o 2 casi ogni 10.000 interventi chirurgici. Dall’analisi delle cause si è dedotto che forse il maggior pericolo dell’anestesia risiede proprio nel fatto che è ormai una metodica sicura.

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Scelta del tipo di anestesia La scelta di una fra le numerose tecniche di cui l’anestesista può attualmente disporre dipende da numerosi fattori quali, fondamentalmente, le caratteristiche del paziente, il tipo di intervento, la durata dello stesso, la postura obbligata sul tavolo operatorio, la dimestichezza dell’anestesista con le diverse metodiche, nonché le preferenze espresse da parte dell’operando. In linea di massima, le indicazioni più frequenti all’anestesia generale possono essere così compendiate:bambini,pazienti non cooperanti (handicappati); interventi di chirurgia toracica, addominale, endocranica, maxillofacciale ed ORL; interventi di lunga durata o nei quali il paziente deve mantenere una postura scomoda o tale da non consentire un agevole controllo delle vie aeree da parte dell’anestesista; qualora sia controindicata un’anestesia loco-regionale (reazioni indesiderate in occasione di precedenti esperienze; equilibrio emodinamico instabile; anomalie del sistema nervoso centrale; infezione della sede d’infiltrazione od ostacoli anatomici alla centratura del bersaglio; pazienti con importanti alterazioni della coagulazione o in trattamento anticoagulante); qualora il paziente desideri espressamente di “essere addormentato” e non sussistano condizioni di rischio maggiori rispetto alla anestesia locale. Quest’ultima può essere preferita, invece, in situazioni quali: interventi d’urgenza (quelli ostetrici in particolare) su pazienti a stomaco pieno; nei casi in cui vi sia controindicazione all’impiego dei miorilassanti (per es. miastenia gravis); quando si ritenga vantaggioso mantenere la respirazione spontanea ed evitare l’intubazione tracheale (per es. obesità, broncopneumopatia cronica ostruttiva); qualora sia necessaria la collaborazione del paziente in corso di intervento (per es. chirurgia della carotide); in odontoiatria, nella chirurgia degli arti e dell’anca, nell’endoscopia e nella chirurgia del tratto urogenitale, negli interventi perineali e per via vaginale; qualora il paziente chieda di “rimanere sveglio” e non vi siano controindicazioni particolari ad accontentarlo. Per comprendere quali e quante possano essere le tecniche anestesiologiche utilizzabili, si consideri, a titolo esemplificativo, il caso di un paziente candidato ad intervento d’elezione sulla vescica urinaria: un ottimo risultato si può ottenere impiegando indifferentemente sia l’anestesia locoregionale (scegliendo allora fra la tecnica peridurale, quella spinale ed il blocco sacrale), sia l’anestesia generale (con possibilità di scegliere fra tecnica inalatoria e tecnica endovenosa e, all’interno di queste sottosezioni, fra le diverse combinazioni di farmaci in grado di garantire: ipnosi, analgesia, miorisoluzione e, possibilmente, amnesia retrograda), oppure, ancora, associando al blocco anestetico loco-regionale la somministrazione di farmaci ipnoinducenti e sedativi allo scopo di controllare l’ansia e lo stress psichico che lo stato di veglia può comportare.  La chirurgia propone oggi trattamenti sempre più aggressivi nei confronti di pazienti affetti da patologie complesse e di età sempre più avanzata. Per questo all’anestesia moderna si chiede non solamente il controllo del dolore, l’abolizione della coscienza e del tono muscolare ai fini di poter eseguire l’atto chirurgico: in aggiunta a questo l’anestesista rianimatore deve fare fronte assieme al chirurgo al complesso delle problematiche generali del paziente, conciliandole con l’intervento. Pertanto deve contribuire alla preparazione all’intervento, al mantenimento degli equilibri fisiologici durante la fase intraoperatoria, e infine al controllo delle funzioni vitali nel periodo postoperatorio. Tutto questo si riassume nel concetto di medicina perioperatoria, che estende il ruolo dell’anestesista nella gestione complessiva del paziente chirurgico.

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Trattamento preoperatorio Sedazione della vigilia Il paziente che si presenta in sala operatoria riposato, tranquillo e fiducioso richiede normalmente una minor dose di farmaci anestetici e consente un miglior controllo della sintomatologia dolorosa nel periodo postoperatorio rispetto al paziente ansioso ed impaurito. La sedazione della vigilia consiste nel sostegno psicologico e nel trattamento farmacologico intesi a tranquillizzare l’operando nel giorno che precede l’intervento. Un atteggiamento di cortese disponibilità da parte del personale medico e paramedico del reparto chirurgico contribuisce grandemente a dissipare l’ansia per l’intervento e la paura dell’anestesia creando un’atmosfera di fiducia;la visita anestesiologica è poi l’occasione per un colloquio in cui il paziente può esprimere con naturalezza le proprie preoccupazioni ed i dubbi su ciò che lo aspetta e ricevere rassicuranti risposte. In questa circostanza occorre anche informare il paziente della tecnica anestesiologica programmata o delle possibili opzioni, in modo da documentare (anche formalmente) il consenso all’intervento. Ad integrazione, ma non in sostituzione, di un supporto psicologico siffatto possono essere prescritti, per la sera che precede il giorno dell’operazione, farmaci del gruppo delle benzodiazepine, quali flurazepam e flunitrazepam.

Premedicazione La premedicazione o preanestesia, somministrata 30-45 minuti prima dell’inizio vero e proprio dell’anestesia, generalmente per via intramuscolare, ha lo scopo di: z diminuire l’ansia del paziente nella fase di preparazione all’intervento; z prevenire l’insorgenza di riflessi indesiderabili causati dalla manovra di intubazione tracheale; z attenuare gli effetti indesiderati dei farmaci utilizzati per l’anestesia (per es. scialorrea da ketamina; istaminoliberazione da tiopentale; bradicardia da succinilcolina; aumento del tono vagale da fentanyl; depressione della conduzione atrioventricolare da alotano); z ottenere un’azione antiemetica; z produrre amnesia. Numerosi sono i farmaci disponibili per raggiungere tali scopi e la loro scelta da parte dell’anestesista si basa su criteri del tutto soggettivi. Maggiormente utilizzata è l’associazione fra atropina e diazepam, oppure atropina e prometazina. Il momento della premedicazione è anche il tempo ottimale per somministrare la prima dose di antibiotico, se vi è indicazione alla profilassi. In tal modo la concentrazione tissutale del farmaco sarà massima proprio tra il tempo di incisione della cute e le prime ore di intervento; solo in caso di interventi di lunga durata sarà necessario ripetere una seconda dose di antibiotico nel corso dell’intervento chirurgico.

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Anestesia generale Induzione L’induzione rappresenta la fase iniziale dell’anestesia generale, durante la quale il paziente passa dalla veglia al sonno ed allo stato di narcosi. Essa può essere realizzata somministrando i farmaci per via endovenosa o per via inalatoria, oppure combinando le due metodiche.

Induzione per via endovenosa La tecnica più comunemente utilizzata per l’induzione consiste nell’iniezione rapida endovena di tiopentale, barbiturico ad azione ultrabreve, sprovvisto di effetti analgesici, che determina perdita della coscienza entro 30 secondi circa. Dopo la somministrazione del tiopentale si osservano depressione respiratoria ed ipotensione arteriosa di entità variabile in rapporto alla dose, alla velocità di iniezione, alle condizioni del paziente. L’attività vagomimetica ed istaminergica del farmaco può causare reazioni cutanee eritematose e, sia pur raramente, reazioni anafilattoidi, laringospasmo, broncospasmo. In alternativa può essere impiegato il propofol, con cui l’induzione è rapida (30 sec.) e dolce e l’ipnosi dura circa 6 minuti. Provoca anch’esso depressione respiratoria e modica ipotensione arteriosa, ma, a differenza del tiopentale, non libera istamina e non dà accumulo. Generalmente impiegate in preanestesia e per la sedazione della vigilia, alcune benzodiazepine somministrabili per via endovenosa possono essere utilizzate anche come ipnoinducenti con i seguenti vantaggi: induzione dolce, con minimi effetti cardiocircolatori, amnesia. Gli inconvenienti, che consistono in sonnolenza protratta, risposte individuali con fenomeni di resistenza ed effetti indesiderati quali disartria ed euforia, sono osservabili soprattutto quando si impiega il diazepam e risultano meno evidenti se si utilizza il flunitrazepam, la diazepina con maggior potenza ipnotica. Gli effetti di un sovradosaggio e la sonnolenza prolungata dopo l’intervento possono essere antagonizzati mediante somministrazione di flumazenil. Il midazolam, benzodiazepina idrosolubile, viene utilizzato come farmaco induttore per la minima interferenza con l’assetto emodinamico, la breve durata d’azione e la qualità del risveglio. Una modalità del tutto particolare di induzione è quella che si realizza somministrando la ketamina che, da sola, consente di ottenere rapida perdita della coscienza, analgesia chirurgica (somatica più che viscerale) ed amnesia retrograda. È l’unico anestetico che può essere somministrato sia per via endovenosa che per via intramuscolare. All’induzione provoca aumento della pressione endocranica, del flusso ematico e del consumo di ossigeno cerebrale (controindicata nel paziente con patologia cranioencefalica), incremento della pressione endoculare (non è indicata in caso di lesioni aperte del globo oculare e di glaucoma) ed aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa (controindicata nell’iperteso e nel coronaropatico; indicata in caso di shock). Per la possibile insorgenza di fenomeni psicodislettici nella fase di risveglio l’impiego della ketamina è sconsigliato negli adulti al di sotto dei 60 anni e va assolutamente evitato nei pazienti schizofrenici e psichiatrici in generale, così come negli etilisti cronici.

Induzione per via inalatoria Si realizza facendo inalare al paziente, attraverso un circuito di anestesia ed una maschera, una miscela di ossigeno e di un vapore anestetico alogenato (classicamente alotano, enflurano, isoflurano, più di recente sevoflurano o desflurano). Dal distretto alveolare l’anestetico passa nel sangue e da questo ai tessuti; la sua concentrazione nel tessuto nervoso centrale dipende quindi 218

dalla concentrazione nella miscela inalata e, variando quest’ultima, è possibile modificare in modo abbastanza rapido il piano di profondità dell’anestesia. Entro 3-5 minuti si ha perdita di coscienza, ipotonia muscolare, depressione dei riflessi della tosse e della deglutizione oltre che, in diversa misura, della ventilazione spontanea. È una tecnica di induzione diffusamente impiegata per la chirurgia pediatrica e neonatale, per l’anestesia monofarmacologica nella piccola chirurgia ambulatoriale, o per la medicazione di ferite profonde ed ustioni. L’alotano o fluotano dà un’induzione rapida e piacevole senza irritare le prime vie respiratorie; ha azione broncodilatatrice (indicato negli asmatici); determina vasodilatazione (utile per l’ipotensione controllata); il risveglio è relativamente rapido. Presenta tuttavia degli inconvenienti dosedipendenti quali, soprattutto, depressione della contrattilità miocardica e della conduzione atrioventricolare con sensibilizzazione del cuore all’azione delle catecolamine endogene ed esogene (vasocostrittori associati agli anestetici locali). Circa il 20% del farmaco viene metabolizzato dal fegato; è segnalata e discussa la possibilità di un’azione epatolesiva (la cosiddetta “epatite da alotano”), specie in caso di anestesie ripetute nello stesso paziente entro un breve lasso di tempo. Assieme alla succinilcolina è indiziato quale responsabile nell’insorgenza di ipertermia maligna. L’enflurano o etrano determina tempi di induzione e di risveglio un po’ più rapidi ed una maggior miorisoluzione rispetto all’alotano. Ha effetti cardiocircolatori simili, ma meno accentuati, rispetto alle dosi di comune impiego clinico. Solo il 3% del farmaco viene metabolizzato dal fegato; si sono registrati casi isolati di epatotossicità in seguito a somministrazione di etrano, ma la responsabilità dell’anestetico non è mai stata provata. L’isoflurano è un isomero dell’etrano dotato di numerosi vantaggi rispetto ai precedenti, tra cui la rapidità d’induzione ed il risveglio pressoché immediato e minimi effetti collaterali. Trascurabile (0,17%), inoltre, è la quota metabolizzata dal fegato.A differenza dei precedenti, ha l’inconveniente di essere modicamente irritante per la mucosa delle prime vie aeree (il bambino scaccia la maschera dal viso). Sevoflurano e desflurano sono anestetici di più recente introduzione nella pratica clinica e presentano notevoli vantaggi rispetto ai precedenti per quanto attiene a tollerabilità al momento dell’induzione, stabilità intraoperatoria dei parametri emodinamici, rapidità del risveglio, percentuale di metabolizzazione epatica ed effetti tossici.

Controllo delle vie aeree ed assistenza respiratoria Tutti i farmaci induttori, ad eccezione della ketamina, causano depressione respiratoria più o meno accentuata e/o deprimono i riflessi tutelari della tosse e della deglutizione; tali effetti vengono potenziati dagli analgesici morfinomimetici somministrati in preanestesia o nei minuti che precedono l’induzione. Per garantire condizioni di massima sicurezza, prima e durante la somministrazione del farmaco induttore il paziente respira in maschera O2 puro o una miscela di aria/O2. Una volta indotta la narcosi il paziente viene curarizzato e può essere ventilato manualmente con pallone e maschera o, come ormai avviene nella maggioranza dei casi, attraverso un tubo introdotto in trachea. La curarizzazione può essere ottenuta somministrando per via endovenosa la succinilcolina, specialmente quando sia necessario ottenere rapido esordio della miorisoluzione e maggiore reversibilità dell’effetto miorilassante. Infatti questo è un farmaco di tipo depolarizzante ad azione ultrarapida con cui si ottiene una paralisi muscolare che è completa entro 30 secondi dall’iniezione e si mantiene per 5-10 minuti. Complessivamente, dunque, utilizzando un induttore ultrarapido quale tiopentale o propofol, seguito dalla somministrazione di succinilcolina,normalmente si induce l’anestesia e si effettua l’intubazione tracheale entro 60-90 secondi.Queste caratteristiche fanno della succinilcolina il curaro più indicato nelle situazioni di emergenza e dove si possa prevedere difficoltà all’intubazione.  La succinilcolina determina un’intensa contrattura della muscolatura scheletrica nella fase 219

iniziale della depolarizzazione, cui poi segue la paralisi per blocco dei recettori postsinaptici della placca neuromuscolare. Ciò causa un transitorio aumento della potassiemia, un incremento della pressione endoaddominale, con rischio di vomito ed inalazione, e di quella endoculare.L’intensa stimolazione muscolare iniziale non raramente causa intense mialgie postoperatorie della durata di 1-2 giorni, difficilmente prevenibili e trattabili, che sono particolarmente spiacevoli per il paziente (e per l’anestesista) se costituiscono l’unico motivo di dolorabilità dopo un intervento in cui la stimolazione chirurgica è stata di modesta entità. La succinilcolina viene metabolizzata dalle pseudocolinesterasi plasmatiche; nei soggetti con pseudocolinesterasi atipiche si può avere un anomalo prolungamento della curarizzazione. Assieme all’alotano è il farmaco maggiormente imputato nello scatenamento dell’ipertermia maligna (vedi oltre). In alternativa, sono impiegati curari non depolarizzanti quali vecuronio, rocuronio, atracurio, mivacurio e cisatracurio, che non presentano gli effetti indesiderati della succinilcolina, ma richiedono tempi più lunghi (mediamente di 1-2 minuti) perché si realizzi la paralisi muscolare e si possa procedere all’intubazione. L’intubazione orotracheale o rinotracheale mediante laringoscopia diretta (Fig. 7.1) consente di mantenere pervie le vie aeree, prevenire l’aspirazione di succo gastrico, saliva o altro materiale, aspirare le secrezioni tracheobronchiali, facilitare la ventilazione con pressione positiva mediante collegamento ad un respiratore automatico.

È una manovra che richiede manualità ed esperienza da parte dell’anestesista per evitare complicanze, quali lesioni della mucosa labiale e faringea, avulsione e rottura di denti, con possibile inalazione, formazione di false strade nel retrofaringe durante intubazione rinotracheale. Una volta posizionato in trachea, il tubo viene collegato ad un pallone ed il paziente è ventilato manualmente, come accade negli interventi di breve durata; più frequentemente, invece, il tubo viene collegato ad un circuito per anestesia ed il paziente è ventilato da un respiratore automatico. 220

 La prima condizione che deve essere garantita è la sicurezza del paziente durante l’atto operatorio, e il controllo delle vie aeree e della ventilazione ne rappresenta il prerequisito essenziale. Al contrario, difficoltà nel controllo delle vie aeree e della ventilazione possono diventare causa di morbilità e mortalità, anche in soggetti di giovane età, ritenute non più accettabili, né da parte del medico, né da parte del legislatore. Difficoltà nel controllo delle vie aeree o della ventilazione si possono verificare tra lo 0,5 e il 20% dei casi. Per questo ogni struttura operatoria deve essere dotata di presidi adatti ad affrontare la difficoltà di intubazione e la difficoltà di ventilazione del paziente, quali: x lame laringoscopiche alternative; x tubi di diametro diverso; x mandrini corti e pinza di Magill; x introduttori e tube-exchanger; x set per intubazione retrograda; x maschera laringea; x Combitube; x set per cricotirotomia; x analizzatore di CO2; x attrezzatura per intubazione fibroscopica. Se la tecnologia propone nuovi strumenti per risolvere queste situazioni, il coinvolgimento immediato di un secondo anestesista esperto di fronte alla situazione di emergenza è il primo passo riconosciuto da tutte le linee-guida sull’argomento. Nella Tabella 7.2 sono sintetizzate le raccomandazioni per affrontare l’intubazione difficile.

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Mantenimento Il mantenimento dell’anestesia generale si ottiene somministrando anestetici per inalazione o endovenosi da soli, o più spesso in associazione tra di loro e con altri farmaci che mediante sinergismo e potenziamento consentano di ridurre al minimo i dosaggi e gli effetti collaterali indesiderati dei singoli anestetici (anestesia bilanciata). Lo scopo è quello di garantire contemporaneamente e per periodi prolungati di tempo sonno, analgesia con soppressione delle risposte neurovegetative allo stimolo chirurgico, miorisoluzione.

Soppressione della vigilanza Il farmaco più comunemente impiegato per mantenere addormentato il paziente è il protossido d’azoto (N2O) che viene fatto inalare miscelato ad ossigeno nella percentuale di 3:2 o di 1:1. La concentrazione di N2O non deve superare il 70% nella miscela, altrimenti si rischia l’ipossia (l’aria che normalmente respiriamo contiene il 21% di O2).  Il protossido d’azoto è un gas inerte che non viene minimamente metabolizzato dall’organismo e non interferisce con la funzionalità dei principali organi ed apparati; estremamente diffusibile, è eliminato prevalentemente per via polmonare in 2-3 minuti dalla cessazione del suo apporto, con immediato risveglio del paziente. È anche dotato di potere analgesico proporzionale alla concentrazione inalata (se lo si potesse somministrare al 100% sarebbe un anestetico generale completo) e potenzia l’azione degli anestetici endovenosi o volatili in associazione ai quali viene comunemente somministrato. Farmaco estremamente maneggevole e sicuro, comporta tuttavia il rischio di patologia professionale da esposizione cronica per il personale di sala operatoria (vedi oltre). Una valida alternativa è costituita dall’infusione endovenosa continua di propofol. Il propofol è completamente sprovvisto di potere analgesico e serve unicamente per mantenere l’ipnosi; non dà fenomeni di accumulo e, pochi minuti dopo la sospensione della sua somministrazione, consente un risveglio di ottima qualità con recupero pressoché completo della reattività e dell’orientamento da parte dell’operato. Gli anestetici alogenati (alotano, etrano, isoflurano, sevoflurano, desflurano) deprimono la coscienza già a concentrazioni tali da determinare un piano superficiale di anestesia; si può associare la somministrazione di farmaci morfinomimetici per via endovenosa ad un’anestesia “leggera” con alogenati, ottenendo in tal modo potente analgesia e depressione della vigilanza. Il risveglio è più rapido quando si utilizza isoflurano, sevoflurano o desflurano.

Analgesia Anche i più intensi fra gli stimoli dolorosi possono essere agevolmente controllati somministrando per via endovenosa il fentanyl, potente oppiaceo di sintesi, 100 volte più potente della morfina e a rapida insorgenza d’azione. L’effetto analgesico di una singola dose dura circa 30 minuti per cui, negli interventi di lunga durata, è necessario somministrare boli ripetuti di fentanyl per mantenere la soglia del dolore costantemente al di sopra del livello di stimolazione chirurgica che caratterizza le diverse fasi dell’operazione.  Il fentanyl è un farmaco che praticamente non interferisce con la funzionalità cardiocircolatoria anche se somministrato ad elevati dosaggi (la tendenza alla bradicardia per attività colinergica è facilmente corretta dall’atropina). 222

Come tutti i narcotici morfinomimetici, deprime i centri respiratori e pertanto impone il ricorso alla ventilazione artificiale. Una dose somministrata negli ultimi 30 minuti dell’intervento può causare depressione respiratoria postoperatoria. Dopo il risveglio, il paziente dev’essere attentamente sorvegliato in quanto, una volta cessato lo stimolo chirurgico e rimosso il tubo endotracheale, può presentare oblio respiratorio: è cosciente, esegue gli ordini, ma non avverte nessuno stimolo a respirare spontaneamente, neppure quello dell’ipercapnia e dell’ipossia ingravescenti; respira solo “su invito”. Per evitare sequele facilmente immaginabili, o si procrastina l’estubazione e si mantiene la ventilazione artificiale in aria/O2 per alcune decine di minuti, oppure si somministra il naloxone, che antagonizza specificamente la depressione respiratoria da oppiacei senza interferire con il livello d’analgesia raggiunto. Un altro inconveniente, sia pur di relativa importanza, è costituito dal vomito postoperatorio, il quale però generalmente si presenta solo dopo anestesie di breve durata e con basso dosaggio di fentanyl. Mantenendo la depressione della coscienza con N2O/O2 o propofol, il fentanyl può essere impiegato da solo (anestesia a prevalenza analgesica) o, più comunemente,in associazione a deidrobenzoperidolo (neuroleptoanalgesia, NLA), un potente neurolettico della serie dei butirrofenoni che provoca atarassia, cioè deconnessione psichica per depressione della sostanza reticolare (il paziente resta mineralizzato). Esso agisce 10-15 minuti dopo la somministrazione endovenosa e l’effetto neurolettico permane per oltre 12 ore.  Il deidrobenzoperidolo (DBP) non è in grado di garantire un perfetto isolamento dall’ambiente durante l’anestesia, per cui è necessario mantenere la somministrazione dei farmaci ipnoinducenti. In certi casi, peraltro, questa può essere temporaneamente sospesa qualora sia necessaria la collaborazione del paziente sveglio, come durante interventi neurochirurgici di chirurgia stereotassica o cordotomia antero-laterale. Il DBP, inoltre, è un blando analettico respiratorio, ha una spiccata azione antiemetica, provoca vasodilatazione e modica ipotensione arteriosa per blocco Į-adrenergico. Alfentanil, remifentanil o sufentanil sono oppiacei di sintesi ad elevata potenza analgesica, e dotati di emivita più breve, così che sono particolarmente adatti alla somministrazione continua o alle situazioni di anestesia ambulatoriale. Nel complesso, la NLA determina una notevole stabilità cardiocircolatoria; il DBP potenzia l’azione analgesica del fentanyl e ne riduce l’intensità degli effetti collaterali indesiderati. Anche isoflurano, sevoflurano o desflurano possono garantire un livello soddisfacente di analgesia per interventi chirurgici di un certo impegno. Se utilizzati da soli, la copertura analgesica di stimoli dolorosi particolarmente intensi può richiederne concentrazioni elevate al punto da provocare depressione cardiovascolare, effetto dipendente dalla dose e dalle caratteristiche del paziente. In questi casi è opportuno ricorrere all’associazione con N2O e con i farmaci della NLA, in modo da ridurre la concentrazione necessaria di alogenati. La ketamina, somministrata in boli ripetuti od in infusione continua endovena, non risulta molto efficace nel controllo del dolore viscerale, tranne che nei pazienti anziani, mentre garantisce ottima analgesia nella chirurgia dell’apparato tegumentario e muscoloscheletrico.

Miorisoluzione In caso di interventi di breve durata (30 min.), dopo la dose iniziale di succinilcolina per l’intubazione, la miorisoluzione può essere mantenuta somministrando al bisogno altri boli dello stesso farmaco. Generalmente, tuttavia, si impiegano curari non depolarizzanti, quali pancuronio, vecuronio, rocuronio, atracurio, mivacurio e cisatracurio che competono con l’acetilcolina (Ach) 223

nell’occupazione degli Achrecettori sulla membrana postsinaptica della placca motrice, bloccando in tal modo la contrazione muscolare per un periodo di tempo variabile da 25 a 45 minuti. La somministrazione di un anticolinesterasico come la neo-stigmina determina accumulo di Ach a livello della fessura sinaptica, in quantità tale da spiazzare il curaro dai recettori, per meccanismo competitivo, e ripristinare l’attività muscolare. La neostigmina, peraltro, ha effetti collaterali di tipo muscarinico (bradicardia, scialorrea, broncorrea ecc.) che devono essere corretti con atropina. Durante l’intervento,l’anestesista sceglie dosi e tempi di curarizzazione tali da facilitare l’opera del chirurgo,da una parte,e da evitare una paralisi postoperatoria protratta, dall’altra. Se tale inconveniente si verifica, il problema è facilmente risolvibile prolungando l’assistenza ventilatoria per il tempo necessario alla ripresa di un tono muscolare adeguato,e mantenendo il paziente addormentato per evitargli la sgradevole esperienza di essere perfettamente cosciente e paralizzato. Al termine dell’intervento, pertanto, se la miorisoluzione non si è già esaurita spontaneamente in seguito alla metabolizzazione ed alla eliminazione dei curari, si provvede ad antagonizzare la paralisi muscolare residua mediante la somministrazione di prostigmina ed atropina.

Anestesia totalmente endovenosa Una condotta anestesiologica basata su farmaci endovenosi (total intravenous anesthesia,TIVA) è considerata una valida, moderna alternativa all’anestesia con agenti inalatori. Questa trova particolare indicazione in neurochirurgia, dove sono riconosciuti gli effetti sfavorevoli sul flusso ematico cerebrale da parte degli agenti alogenati, e sul metabolismo cerebrale da parte del protossido d’azoto; inoltre le problematiche sempre più sentite di inquinamento ambientale ed esposizione cronica agli agenti inalatori spingono spesso ad optare per tale soluzione; infine la disponibilità di agenti iniettabili a durata ultrabreve, somministrabili tramite pompe in infusione endovenosa continua, offre una alternativa razionale all’anestesia inalatoria. Pertanto una anestesia totalmente endovenosa può essere praticata con una somministrazione continua di un farmaco ipnotico (per es. propofol) per l’abolizione della coscienza, un oppioide a breve durata d’azione (per es. remifentanil o alfentanil), ed un curaro non depolarizzante (per es. cisatracurio).

Monitoraggio dell’anestesia La classificazione della narcosi in stadi e piani proposta da Guedel (Fig. 7.2), formulata sulla base dei segni clinici evidenziabili durante la lunga induzione dell’anestesia con etere dietilico, consentiva di evidenziare il progressivo interessa-mento del sistema nervoso centrale all’approfondirsi del livello di anestesia.

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Essa peraltro non è applicabile alle moderne tecniche di anestesia in cui si utilizzano gli induttori ultrarapidi ed i miorilassanti. I primi permettono di raggiungere in pochi secondi il III stadio della narcosi, evitando un lento passaggio attraverso lo stadio dell’eccitazione che ha caratterizzato in modo non raramente drammatico l’induzione eterea; i curari impediscono di valutare la maggior parte dei segni clinici di anestesia basati sulle variazioni di tono muscolare, reflettività, respirazione spontanea. Le attuali conoscenze sulla cinetica dei farmaci dell’anestesia, la precisione dei dispositivi che erogano gas e vapori alla concentrazione desiderata e,soprattutto, l’intubazione e la ventilazione artificiale: tutti questi fattori fortunatamente impediscono di raggiungere l’ultimo piano del III stadio e, ovviamente, il IV stadio descritto da Guedel. In pratica,durante un intervento effettuato con una delle tecniche di anestesia sovradescritte, l’anestesista sorveglia attentamente, ad intervalli ravvicinati di tempo, i parametri ventilatori e cardiocircolatori, la presenza o meno di lacrimazione e sudorazione, la temperatura cutanea delle estremità, il diametro pupillare, la reflettività ed il tono muscolare. Respirazione regolare e tranquilla (nei pazienti in ventilazione spontanea), polso ritmico e di ampiezza normale od aumentata con pressione arteriosa normale o modicamente diminuita per vasodilatazione, estremità calde ed asciutte: tutti questi segni testimoniano un livello adeguato di anestesia. Segni di superficializzazione della copertura analgesica sono: tachicardia, ipertensione, polipnea, sudorazione, lacrimazione, vasocostrizione periferica, riduzione della miosi, movimenti spontanei 225

del capo o degli arti ed anche, nel paziente in anestesia ketaminica e non intubato, vocalizzazioni. Se, come nella maggior parte dei casi, il paziente è curarizzato e ventilato artificialmente, è sempre necessario verificare che la reazione adrenergica non sia dovuta piuttosto ad una condizione di ipoventilazione alveolare e/o di ipossia. I segni precoci di superficializzazione della miorisoluzione consistono nella ricomparsa dei riflessi palpebrale e corneale e nell’aumento del tono muscolare. Possono comparire singhiozzo, aumento delle resistenze respiratorie, tosse, incremento della risposta muscolare alla stimolazione nervosa. Negli interventi addominali un inadeguato rilasciamento del diaframma e della parete spingono all’esterno le anse intestinali. Per utilizzare i miorilassanti ed i loro antagonisti in modo oculato ed in condizioni di estrema sicurezza, si può analizzare la risposta in contrazione di un muscolo in seguito alla stimolazione elettrica del nervo motorio corrispondente. In genere si stimola il nervo ulnare che fornisce le fibre motorie al muscolo adduttore breve del pollice: in base alle caratteristiche della contrazione in risposta ad uno stimolo elettrico tetanico o ad un treno di quattro stimoli, è possibile ottenere informazioni qualitative sul tipo di blocco in atto e quantizzare in termini percentuali la profondità di un blocco non depolarizzante.  Ancora una volta si sottolinea il concetto di sicurezza, quale obiettivo primario della pratica anestesiologica. A tale fine il monitoraggio clinico da parte dell’anestesista nel corso dell’atto operatorio rappresenta una condizione imprescindibile. Questo viene integrato da un monitoraggio strumentale che include: x ECG (controllo continuo di una o più derivazioni elettrocardiografiche); x pressione arteriosa incruenta, misurata automaticamente a intervalli di tempo programmati (3-5 min.),oppure rilevata in continuo con metodo cruento, dopo incannulamento dell’arteria radiale; x saturimetria a polso (controllo continuo della ossigenazione tissutale); x capnometria dei gas espirati (a garanzia della adeguatezza della ventilazione); x spirometria; x temperatura corporea (al fine di prevenire i rischi legati all’ipotermia accidentale, particolarmente frequente durante gli interventi di lunga durata); x misurazione delle concentrazioni inspirate ed espirate di O2 e, se possibile, di N2O e alogenati; x monitoraggio della funzione muscolare come indice del livello di curarizzazione (opzionale). In situazioni particolari (neurochirurgia, cardiochirurgia con circolazione extracorporea, chirurgia dell’arco aortico o delle carotidi) possono trovare indicazione monitoraggi dedicati al controllo dell’attività elettrica cerebrale (elettroencefalogramma, potenziali evocati), o dell’ossigenazione cerebrale. Da ultimo, il fenomeno del risveglio accidentale intraoperatorio (awareness) è da considerare “disdicevole” sia per il vissuto da parte del paziente, sia per le sequele legali che ne possono derivare. Questo problema ha stimolato l’industria a fornire tecnologie di facile applicazione (Bispectral Index, BIS) che consentono il monitoraggio intraoperatorio della attività elettrica cerebrale, in modo da ottenere informazioni continue sulla soppressione della funzione corticale del paziente in anestesia.

Risveglio In questa fase il paziente rientra in possesso delle funzioni della vita di relazione soppresse dalla narcosi, in seguito alla sospensione dell’erogazione di N2O e/o dei vapori alogenati, alla riduzione 226

dell’effetto degli anestetici endovenosi ed alla decurarizzazione spontanea o farmacologica. Una volta ripristinata la respirazione spontanea ed una forza muscolare di assoluta sicurezza (il paziente deve essere in grado di sollevare da solo la testa dal cuscino), si procede alla rimozione del tubo tracheale, a meno che il paziente non debba essere sottoposto ad assistenza respiratoria postoperatoria in terapia intensiva. Dopo un adeguato periodo di osservazione, durante il quale si controlla l’efficacia della ventilazione spontanea, l’eventuale presenza di oblio respiratorio e la stabilità dell’assetto emodinamico, il paziente può essere inviato al reparto di appartenenza. Del tutto particolare è la fase di risveglio dopo anestesia ketaminica, che può essere caratterizzata da reazioni quali negativismo, ostilità, apatia, se non anche aggressività. Le reazioni psicodislettiche al risveglio si rilevano caratteristicamente nei soggetti di età compresa fra 18 e 60 anni e possono essere prevenute e trattate somministrando benzodiazepine sia all’inizio che alla fine dell’anestesia.  L’estensione delle indicazioni chirurgiche a patologie sempre più complesse e l’esigenza di sicurezza che deve coprire anche la fase postoperatoria allargano le indicazioni al ricovero del paziente chirurgico in terapia intensiva, anche al di fuori delle situazioni di emergenza. Per questo l’atto chirurgico richiede sempre più spesso il controllo postoperatorio del paziente nell’ambito di strutture di terapia intensiva polivalente o di terapie intensive dedicate alle singole attività chirurgiche, quali la cardiochirurgia o la neurochirurgia. Da ultimo è importante la dotazione dei moderni quartieri operatori di aree di risveglio dedicate all’immediato periodo postoperatorio, o meglio l’istituzione di unità di sorveglianza e cura intensiva postoperatoria, sul modello delle Post Anesthesia Care Units (PACU), dove il paziente sottoposto ad interventi di un certo rilievo viene trattato per le prime ore postoperatorie. In tal modo possono essere garantiti recupero delle funzioni vitali, della ventilazione, della temperatura, dell’equilibrio idroelettrolitico e metabolico, monitoraggio cardiaco, controllo del dolore, sorveglianza da parte di personale qualificato e – ancora una volta – sicurezza per il paziente operato.

Ipotensione controllata Se ad un paziente chirurgico con assetto cardiorespiratorio normale viene somministrato un vasodilatatore ad azione ultrabreve (nitroprussiato o nitroglicerina), associato o meno ad un alogenato, è possibile ridurre in maniera deliberata i valori di pressione arteriosa sistolica, rimanendo nell’ambito fisiologico dell’autoregolazione del flusso dei diversi organi vitali. In tal modo la loro perfusione si riduce, ma la loro funzionalità risulta comunque garantita. Se poi la postura dello stesso soggetto viene modificata sollevando il capo di 25° rispetto al corpo, la pressione del sangue nel cervello diventa di circa 16 mmHg inferiore rispetto alla già bassa pressione esistente a livello del cuore,ma è ancora entro limiti accettabili, perlomeno in un paziente normale. I vantaggi derivanti dalla procedura ora descritta sono fondamentalmente: la relativa ischemia del campo operatorio, la riduzione delle perdite ematiche, la diminuzione di volume del cervello. Le indicazioni di questa metodica sono sempre più limitate per i rischi di cui si dirà più avanti, e, per quanto non esattamente codificate, possono essere: chirurgia plastica, interventi sull’apparato lacrimale, microchirurgia dell’orecchio interno, sanguinamento incontrollabile intraoperatorio, chirurgia vascolare maggiore, pazienti con gruppo raro o testimoni di Geova, interventi particolarmente emorragici come cistectomia totale, amputazione del retto per via addominoperineale, isterectomia radicale, exenteratio pelvica, chirurgia epatica ed altri, neurochirurgia, specie durante interventi per tumori vascolari ed aneurismi. L’ipotensione controllata non è una metodica scevra da pericoli, come testimoniano i numerosi e 227

gravi incidenti riferiti in letteratura: ischemia cerebrale e coronarica, trombosi carotidea e periferica, ischemia epatica e renale, ileo postoperatorio. Essa, pertanto, non dovrebbe essere impiegata nei pazienti particolarmente a rischio, quali quelli con vasculopatia cerebrale o coronarica, pressione arteriosa sistolica superiore a 170 mmHg e diastolica oltre i 110 mmHg, insufficienza epatica o renale, gravidanza. L’ipotensione controllata dovrebbe essere riservata ai casi nei quali essa rende possibile l’impossibile e non essere usata per rendere facile il possibile.

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Anestesia loco-regionale Rispetto all’anestesia generale, le tecniche di anestesia locoregionale (Tab. 7.3) possiedono i seguenti vantaggi: z minima interferenza con la funzionalità respiratoria; z possibilità di operare in urgenza pazienti con stomaco pieno senza rischio di inalazione; z riduzione del sanguinamento intraoperatorio; z minor incidenza di complicanze tromboemboliche; z miglior controllo del dolore postoperatorio; z assenza di inquinamento ambientale; z nessuna interferenza con il sistema immunocompetente; z precoce ripresa della funzionalità intestinale.

Tali tecniche, tuttavia, non sono esenti da rischi, svantaggi o limitazioni quali: z fenomeni tossici (per somministrazione di una dose eccessiva o iniezione intravascolare dell’anestetico, raramente per idiosincrasia) a carico del sistema nervoso centrale (fase di eccitazione con convulsioni jacksoniane o generalizzate e successiva evoluzione verso il coma) e dell’apparato cardiocircolatorio; z ipotensione arteriosa da vasodilatazione per blocco del sistema simpatico; z reazioni allergiche; z reazioni da vasocostrittori associati all’anestetico locale; z diffusione di germi in profondità dalla sede di infiltrazione; z possibilità di insuccesso del blocco anestetico; z limitazione delle indicazioni, riservate in genere ad interventi su arti, bacino, regione addominale sottombelicale, oltre alla chirurgia odontostomatologica; z coinvolgimento emotivo del paziente.

Anestesia peridurale Consiste nell’iniezione di 10-30 ml di anestetico locale nello spazio peridurale, in modo da bloccare le radici anteriori e posteriori dei nervi spinali che attraversano tale spazio. L’approccio allo spazio peridurale viene effettuato più frequentemente introducendo l’ago attraverso gli spazi intervertebrali 229

della regione lombare fra L3-L4 e L5-S1, oppure attraverso il legamento sacrococcigeo, nel qual caso vengono anestetizzate le radici della cauda equina (Fig. 7.3). Confrontata con l’anestesia subaracnoidea, la tecnica peridurale offre i seguenti vantaggi: z la dura non viene perforata e, quindi, non si ha cefalea postoperatoria né interessamento delle strutture subaracnoidee; z il livello dell’anestesia rimane stabile; z provoca vasodilatazione, ma le variazioni cardiocircolatorie sono meno intense che durante blocco spinale; z l’impianto di un catetere peridurale a permanenza permette di prolungare l’anestesia o anche l’analgesia mediante somministrazione di oppiacei. Gli svantaggi e le complicanze sono: z tecnica più indaginosa ed insorgenza lenta del blocco; z risultati a volte incostanti per anomalie anatomiche dello spazio peridurale; z rischio di tossicità da anestetici locali per iniezione intravascolare a livello del plesso venoso peridurale; z pericolo di blocco spinale totale, con arresto respiratorio e collasso cardiocircolatorio, da iniezione subaracnoidea accidentale.

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Anestesia subaracnoidea o spinale Consiste nell’introduzione di 1-3 ml di anestetico locale nello spazio subaracnoideo, così da bloccare le radici dei nervi spinali all’origine. L’approccio avviene necessariamente a livello lombare, al di sotto di L2 (Fig. 7.3), e risulta generalmente meno indaginoso rispetto alla tecnica peridurale. Vantaggi: z tecnica di rapida esecuzione, con pronta realizzazione del blocco; z piccola dose di anestetico necessaria; z costo minimo. Svantaggi e complicanze: z difficoltà a delimitare strettamente il livello del blocco anestetico; z rischio di liquorrea attraverso il foro della dura, con cefalea postoperatoria; z rischio di contaminazione del liquor; 231

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possibile insorgenza di ipotensione grave con ipoperfusione cerebrale e coronarica.

Controindicazioni assolute all’anestesia peridurale e subaracnoidea: z shock, ipovolemia; z cardiopatia ischemica; z postura sul tavolo operatorio tale da ostacolare il controllo delle vie aeree e la ventilazione spontanea del paziente; z interventi di lunga durata; z malattie infettive o degenerative del sistema nervoso periferico o malattie neoplastiche,traumatiche,vascolari del SNC; z importanti alterazioni della coagulazione; z cefalea cronica; z infezione in sede di puntura; z deformità del rachide.

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Anestesia per la chirurgia ambulatoriale È importante che il paziente si presenti alla visita anestesiologica qualche giorno prima dell’intervento per eseguire gli esami necessari ed attenersi alle prescrizioni che gli verranno rilasciate per iscritto ed illustrate in modo comprensibile (Fig. 7.4).

Gli interventi vanno fatti di primo mattino, iscrivendo nella lista operatoria per primi i diabetici ed i bambini, per evitare il rischio di ipoglicemia da digiuno prolungato. La preanestesia può essere evitata. L’anestesia inizia solo quando tutti sono pronti per l’intervento. La dose dei farmaci anestetici dev’essere la minima, compatibilmente con la sicurezza del paziente; si utilizzeranno preferibilmente farmaci a breve durata d’azione come N2O, propofol, sevorano o desflurano, succinilcolina o mivacurio, remifentanil. L’intubazione tracheale non è controindicata. L’anestesia locale, da sola o in combinazione con un’anestesia generale leggera, è la tecnica più maneggevole. Dopo blocco anestetico loco-regionale, è necessario verificare la ripresa della sensibilità e della motricità nelle zone anestetizzate. Dopo anestesia generale, l’idoneità del paziente ad essere dimesso viene valutata in base alla qualità del risveglio ed alla capacità di camminare da solo. Al momento di affidare il paziente a chi lo accompagnerà a casa, è opportuno sottolineare l’importanza delle prescrizioni cui dovrà attenersi: non bere alcolici né prendere farmaci tranquillanti che possono interagire con l’anestesia residua; non guidare la macchina né prendere importanti decisioni per almeno 48 ore, anche se soggettivamente si sente in forma; contattare il medico alla comparsa di qualche sintomo insolito.

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Complicanze dell’anestesia generale Nella Tabella 7.4 sono riportate le sequele e complicanze dell’anestesia generale in ordine regressivo di frequenza e progressivo di gravità. Notevole importanza rivestono complicanze particolarmente gravi, quali: pneumopatia ab ingestis, ipertermia maligna, reinfarto del miocardio ed epatotossicità.

Pneumopatia ab ingestis L’inalazione di contenuto gastrico, sangue, saliva ed anche di corpi estranei si può verificare in qualsiasi momento dell’anestesia, ma normalmente avviene al momento dell’induzione. La penetrazione di materiale solido nell’albero respiratorio può causare una crisi asfittica per ostruzione improvvisa delle prime vie aeree, oppure determinare l’occlusione di un bronco periferico con atelettasia che resta asintomatica nei giorni seguenti fino alla comparsa dei segni di infezione broncopolmonare e di ascessualizzazione. L’inalazione di succo gastrico con pH inferiore a 2,5 causa invece una sindrome da insufficienza respiratoria acuta e grave con ipossiemia ed edema interstizio-alveolare per diffusa alterazione della permeabilità capillare polmonare. La prevenzione della pneumopatia ab ingestis si basa sui seguenti punti: z posticipazione degli interventi differibili ad almeno 8 ore dall’ultima assunzione di cibo (nella gravida lo svuotamento gastrico è ulteriormente ritardato); z identificazione delle situazioni a rischio negli interventi d’urgenza (occlusione intestinale, gravidanza, pasto recente ecc.); z svuotamento dello stomaco con sondino nasogastrico; z somministrazione di farmaci che accelerano lo svuotamento dello stomaco (metoclopramide), 234

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o riducono la secrezione acida (ranitidina) o tamponano l’acidità del contenuto gastrico (idrossido di Al o di Mg); preossigenazione del paziente, somministrazione in rapida sequenza di tiopentale e succinilcolina o mivacurio, seguita da intubazione tracheale da parte di un anestesista esperto.

Ipertermia maligna È una risposta abnorme alla somministrazione dei farmaci dell’anestesia che determina un rapido rialzo della temperatura corporea del paziente, con esito spesso letale. La sua incidenza è di 1:15.000 anestesie pediatriche e di 1:50.000 anestesie nell’adulto. L’eziopatogenesi sembra doversi ascrivere ad una anomala liberazione di calcio all’interno delle miocellule dopo esposizione a farmaci quali, soprattutto, alotano e succinilcolina e, in minor misura, altri anestetici volatili, neurolettici, anestetici locali di tipo amidico. Questo comportamento anomalo è il risultato di un’alterazione genetica a trasmissione ereditaria,oppure si verifica con maggiore frequenza nei soggetti con miopatie, cifoscoliosi o elevati livelli plasmatici di creatinfosfochinasi. Un segno premonitore è costituito dalla comparsa di rigidità muscolare all’induzione dell’anestesia (specie ai masseteri: al momento dell’intubazione, nonostante la somministrazione di curaro, l’anestesista fatica ad aprire la bocca del paziente); la temperatura si eleva rapidamente fino a superare i 40 °C, con tachicardia, ipossiemia, acidosi mista, mioglobinuria, iperpotassiemia, scompenso cardiaco. Si interviene in questi casi con raffreddamento corporeo con mezzi fisici, ossigenoterapia ed alcalinizzazione, somministrazione di dantrolene, farmaco in grado di disattivare la contrazione muscolare calcio-mediata. L’ipertermia maligna può essere prevenuta identificando i soggetti a rischio e pretrattandoli con il dantrolene; l’anestesia deve allora essere effettuata utilizzando farmaci barbiturici, analgesici narcotici, N2O e curari non depolarizzanti, oppure anestetici locali di tipo esterico.

Reinfarto del miocardio I pazienti coronaropatici hanno una mortalità perioperatoria da recidiva infartuale che è strettamente correlata con la distanza dell’operazione dal precedente infarto (Tab. 7.5), oltre che con la durata ed il tipo di intervento chirurgico. Compatibilmente con il grado di urgenza che la patologia in atto impone, nel limite del possibile l’operazione dev’essere procrastinata fino ad almeno 6 mesi dall’episodio infartuale. In ogni caso, la condotta anestesiologica considererà l’impiego di farmaci in grado di assicurare profonda analgesia con minima depressione della contrattilità cardiaca e, sulla base di un adeguato monitoraggio cardiorespiratorio, la prevenzione ed il trattamento di ipotensione, ipertensione, tachicardia, aritmie, anemia ed ipossiemia, cioè di tutti i fattori capaci di alterare l’equilibrio fra richiesta e disponibilità di ossigeno a livello miocardico.

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Epatotossicità Benché l’alotano sia l’anestetico per inalazione che richiede la maggior compartecipazione metabolica a livello epatico, esso non è responsabile di danno epatico dopo una singola esposizione. Ma una seconda anestesia alotanica a distanza di meno di 3 mesi dalla prima, anche se di breve durata, può causare epatite con una frequenza variabile fra 1:7000 ed 1:30.000. Questo meccanismo in due tempi, associato al riscontro di eosinofilia, fa ipotizzare che il danno epatico dipenda da una reazione da ipersensibilità, indotta dall’alotano o dai suoi metaboliti. Fattore aggravante dell’epatotossicità da alotano è riconosciuto essere l’ipossiemia, che dalla metabolizzazione del farmaco porta alla formazione di un eccesso di radicali liberi dell’O2. Anche dopo anestesia condotta con etrano ed isoflurano somministrati in condizioni di ipossiemia o ipotensione profonda si possono rilevare alterazioni della funzionalità epatica, che peraltro sono difficilmente isolabili nel contesto di altre possibili cause quali, soprattutto, shock e sepsi.

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Rischio professionale per esposizione cronica ai farmaci anestetici Anestesisti, chirurghi e personale di sala operatoria sono cronicamente esposti a tracce di gas e vapori anestetici la cui mutagenicità, teratogenicità e cancerogenicità è considerata, almeno per il momento, solo potenziale. L’incidenza di aborto spontaneo tra il personale femminile risulta essere 1,5-2 volte superiore a quella tra la popolazione generale, ma non è possibile attribuire con sicurezza all’inalazione di anestetici o ad altri fattori nocivi di tipo occupazionale la ragione di questa differenza. A fronte di un rischio non esattamente quantificato, si cerca comunque di minimizzare la dispersione di anestetici volatili e gassosi adottando accorgimenti quali: apparati di evacuazione dei gas espirati e di monitoraggio delle concentrazioni ambientali; frequenti ricambi d’aria nelle sale operatorie; sistemi di anestesia inalatoria a circuito chiuso; scelta preferenziale delle tecniche di anestesia endovenosa totale o dei blocchi anestetici loco-regionali.

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Letture suggerite z

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Barash P.G., Cullen B.F., Stoelting R.K.: Clinical Anesthesia, 4th edition. William and Wilkins Publishers, Lippincott, 2001. Behumof J.L.: Clinical procedures in Anesthesia and Intensive Care. William and Wilkins Publishers, Lippincott, 1992. Cote C.J., Ryan J.F., Goudsouzian N.G.: A Practice of Anesthesia for Infants and Children. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 2001. Hurford W.E., Bailn M.T.: Clinical Anesthesia Procedures of the Massachusetts General Hospital. William and Wilkins Publishers, Lippincott, 1998. Kaplan J.A., Reich D.L., Konstad S.: Cardiac Anesthesia. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1999. Loeser J.D., Butler S.H., Chapman C.R.,Turk D.C.: Bonica’s Management of Pain. William and Wilkins Publishers, Lippincott, 2001. Miller R.D., Miller E.D. Jr, Reves J.G.: Anesthesia. Churchill Livingstone, New York, 2000. Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI): Linee guida on line. www.siaarti.it. Stoelting R.K.: Pharmacology and Physiology in Anesthetic Practice.William and Wilkins Publishers, Lippincott, 1999.

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8 Trasfusioni di sangue e coagulopatie 8.1 Trasfusioni di sangue 8.2 Coagulopatie 8.3 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 8

Trasfusioni di sangue e coagulopatie L. Dominioni, G. Chelazzi

Trasfusioni di sangue La trasfusione di sangue e di suoi componenti è una terapia sostitutiva, il cui maggior valore risiede nel fornire un supporto temporaneo al paziente, in attesa che venga risolto il problema primitivo che ha causato l’anemizzazione o l’emopatia. L’emotrasfusione viene impiegata in diverse malattie o situazioni di interesse chirurgico; dato però che la pratica trasfusionale comporta una serie di potenziali rischi per il ricevente (trasmissione di malattie infettive, immunizzazione, immunodepressione, ecc.) è importante che si ricorra ad essa solo quando vi è precisa indicazione clinica, supportata dai dati di laboratorio. La corretta applicazione clinica della pratica trasfusionale si basa sul monitoraggio e sul mantenimento entro certi limiti dei seguenti parametri: z volemia: è necessario mantenerla costante con infusioni pari alle perdite; z ematocrito: un ematocrito pari all’80% del normale riduce al minimo i rischi operatori e previene la malattia tromboembolica postoperatoria, in quanto riduce la viscosità ematica, senza incidere significativamente sulla funzione di trasporto dell’O2; z fattori della coagulazione: non si verificano di solito conseguenze dannose clinicamente rilevanti fin quando essi vengono mantenuti al di sopra del 25-35% del normale; z piastrine: non esistono rischi significativi per diminuzioni fino al 10% del normale e cioè fino a conte piastriniche di 20.000-30.000 elementi/mm3. In conseguenza di quanto sopra riportato, valgono i seguenti principi. z Perdite di sangue inferiori al 15-20%: infusioni di soluzioni cristalloidi e di soluzioni colloidi per correggere l’ipovolemia. z Perdite di sangue superiori al 20-25%: è necessario aggiungere all’infusione di cristalloidi e di espansori sintetici di volemia (plasma expanders) globuli rossi concentrati (GRC) risospesi in soluzioni additive, non essendo in pratica ormai più disponibile sangue intero, ed eventualmente plasma fresco congelato (PFC).La trasfusione di PFC dovrebbe essere effettuata in base alla presenza di sanguinamento a livello del microcircolo ed all’esito dei test della coagulazione.  Agli adulti non dovrebbe mai essere praticata la monotrasfusione (una sola unità). La trasfusione di una singola unità non è in grado di apportare di per sé apprezzabili risultati, aumentando solo gli effetti collaterali della pratica trasfusionale.

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Quando il valore ematocrito si aggira intorno al 30% (che corrisponde ad una concentrazione di Hb di circa 10 g/dl), c’è una certa depressione ventricolare cardiaca in quanto la vasodilatazione coronarica, a questi livelli di Hb, è già ai valori massimi. L’apporto ematico al cervello è, però, normale e la funzione ossiforica del sangue non è sensibilmente compromessa. Inoltre, è stato dimostrato che un valore ematocrito superiore al 35% non è un dato favorevole perché si accompagna ad una maggiore incidenza di episodi tromboembolici venosi nel periodo postoperatorio.  Pertanto, di regola, non è necessario trasfondere sangue prima di un intervento chirurgico se l’Hb non è inferiore a 10 g/dl e/o se il valore ematocrito non è inferiore al 30%. I livelli postoperatori dell’Hb o del valore ematocrito non dovrebbero essere maggiori di quelli trovati prima dell’intervento; nei giovani con funzione cardiaca e polmonare normali e con livelli di Hb superiori a 8 g/dl non è giustificato praticare trasfusioni se l’anemia è causata solo da una precedente perdita di sangue, in quanto la somministrazione di ferro in quantità adeguate curerà l’anemia in poche settimane. Viceversa, nei pazienti che presentano una compromissione della funzione cardiaca e/o polmonare, è bene praticare trasfusioni a livelli di Hb inferiori a 10 g/dl. Un’anemia secondaria ad emorragia dovrebbe essere trattata con emotrasfusioni solo se: z l’anemia non risponde a nessun’altra forma di trattamento; z l’anemia è prodotta da emorragie ricorrenti; z si tratta di donne nell’ultimo periodo della gravidanza, con livelli di Hb inferiori a 9 g/dl.

Tipizzazione del sangue e prove pretrasfusionali Allo scopo di assicurare al ricevente un prodotto che, una volta trasfuso, abbia normale sopravvivenza, la procedura dovrebbe essere la seguente: z corretta identificazione del ricevente e dei relativi campioni di sangue; z verifica delle indagini immunoematologiche eventualmente eseguite dal paziente in precedenza; z determinazione del gruppo AB0 e del tipo Rh del ricevente; z selezione dell’emocomponente AB0 ed Rh compatibile tra le unità valutate per la trasfusione; z ricerca degli anticorpi irregolari nel siero o plasma del paziente e controllo della compatibilità AB0 ed Rh oppure prova di compatibilità tra il siero o plasma del paziente ed i globuli rossi del donatore; z etichettatura e distribuzione dell’emocomponente.

Tipizzazione eritrocitaria Per la determinazione del sistema AB0 è necessario testare i globuli rossi con antisieri anti-A e antiB, allo scopo di evidenziare gli agglutinogeni eventualmente presenti, ed il siero o il plasma con globuli rossi noti A1,A2, B e 0, allo scopo di evidenziare le agglutinine anti-A e anti-B eventualmente presenti (Fig. 8.1). Nell’ambito del sistema Rh le emazie devono invece essere cimentate con siero anti-D per determinare il tipo Rh e con altri antisieri per la ricerca degli antigeni C, E, c ed e.

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Ricerca degli anticorpi irregolari Per anticorpi irregolari si intendono tutti gli anticorpi indotti da un’immunizzazione, solitamente non appartenenti al sistema AB0. I test per la ricerca di anticorpi irregolari cimentano il siero o il plasma del ricevente con un pannello di emazie di gruppo 0, selezionate antigenicamente in modo tale da svelare la presenza di anticorpi clinicamente significativi.Tale ricerca consente di omettere l’esecuzione delle prove di compatibilità tra i globuli rossi del donatore ed il siero o plasma del ricevente. Le prove di compatibilità debbono, invece, essere eseguite ogni qualvolta siano stati rilevati nel ricevente anticorpi irregolari antiemazie.

Scelta degli emocomponenti Di regola il paziente deve essere trasfuso con globuli rossi di gruppo AB0 identico al proprio. Qualora venga approntato, per particolari esigenze, sangue di gruppo 0 per un ricevente di gruppo AB o di gruppo A o B è opportuno somministrare emazie deplasmate, allo scopo di ridurre al minimo l’introduzione di agglutinine anti-A e anti-B. Per quanto riguarda il tipo Rh, i pazienti Rh negativi devono ricevere esclusivamente globuli rossi di tipo Rh negativo, per evitare l’immunizzazione nei confronti dell’antigene D. Nei casi di estrema urgenza, in cui non siano disponibili unità Rh negative,si può anche non rispettare l’identità Rh.Il rischio di immunizzazione, che in questi casi è del 70-80%, può essere, infatti,meno critico rispetto al non trasfondere il paziente. Nella selezione dell’unità da trasfondere, di norma non è necessario tener conto degli altri sistemi gruppoematici,a meno che non siano stati identificati nel siero o nel plasma del paziente anticorpi irregolari di rilevanza clinica o trasfusionale. Il plasma deve essere AB0 compatibile con le emazie del ricevente. La prova di compatibilità non è richiesta. La somministrazione di concentrati piastrinici o di concentrati granulocitari deve essere preceduta dalla ricerca sistematica di alloanticorpi irregolari sul ricevente in considerazione dell’elevato numero di globuli rossi presenti in questi prodotti.

Le varie componenti del sangue intero Ciascuna componente del sangue ha caratteristiche funzionali proprie che ne fanno un’entità biologica a sé stante. Il sangue per fini trasfusionali viene prelevato con una soluzione anticoagulante (per esempio CPD: citrato-fosfato-destrosio) e viene separato in vari prodotti 242

mediante l’utilizzo di sacche di plastica multiple a sistema chiuso e sterile. Il sangue di un unico prelievo può essere così suddiviso in emocomponenti: concentrati eritrocitari, piastrinici, granulocitari, plasma, crioprecipitati; dal plasma è possibile ottenere con tecniche industriali gli emoderivati: albumina, fattori plasmatici della coagulazione, immunoglobuline.

Sangue intero Un’unità di sangue intero ha un volume pari a 450 ml ± 10% ed un ematocrito che varia tra il 36% ed il 44%. Il sangue intero viene conservato in un frigorifero attentamente monitorato fra + 1 e + 6 ° C. Il sangue raccolto in sacche di plastica contenenti soluzioni anticoagulanti composte da CPD,deve essere utilizzato entro 21 giorni dal giorno del prelievo, mentre il sangue raccolto in CPD-adenina-1 (CPD-A1) deve essere utilizzato entro 35 giorni dal giorno del prelievo.

Indicazioni Le uniche indicazioni all’impiego di sangue intero sono le emorragie massive acute condizionanti ipovolemia e quindi stato di shock, e l’exsanguinotrasfusione. Tuttavia anche in queste situazioni si preferisce trasfondere GRC e PFC per disporre di tutti i fattori della coagulazione, compresi quelli labili (fattore V e fattore VIII). Nell’exsanguinotrasfusione si utilizza un sangue particolare, il cosiddetto sangue intero “modificato”, che viene preparato unendo GRC filtrati ed irradiati di gruppo 0 Rh negativo, prelevati da meno di 4-5 giorni, e PFC di gruppo AB.

Rischi ed inconvenienti Sono rappresentati principalmente da: z trasmissione di malattie infettive; z edema polmonare acuto per sovraccarico volemico; z iperkaliemia (a causa della degradazione delle emazie e delle proteine plasmatiche); z iperammoniemia.

Globuli rossi concentrati (GRC)  I GRC costituiscono attualmente il prodotto emotrasfusionale di base. Si ottengono dal sangue intero dopo rimozione della maggior parte del plasma, separato con centrifugazione. L’unità standard ha un volume di 280 ± 60 ml. Il valore ematocrito medio è 70%. Questo emocomponente, se è stato preparato senza interruzione del circuito chiuso, può essere conservato a 4 ± 2 °C per un periodo analogo al sangue intero. Il tempo consentito di conservazione dei concentrati eritrocitari risospesi, dopo l’allontanamento del plasma, in una soluzione contenente sodio cloruro, adenina, glucosio e mannitolo (SAGmannitolo) o in una soluzione contenente fosfati, adenina, guanosina, glucosio, sodio cloruro e sorbitolo (PAGGS-sorbitolo) è, invece, maggiore: 42 giorni. Ogni unità di emazie concentrate risospese in soluzioni additive ha un contenuto minimo di Hb pari a 45 g ed un ematocrito compreso tra 52% e 66%.

Indicazioni 243

Sulla base dei valori di Hb del paziente, si possono tracciare alcune linee-guida relative alle indicazioni alla trasfusione di GRC: z se l’Hb è superiore a 10 g/dl la trasfusione non è quasi mai necessaria; z se l’Hb è inferiore a 7 g/dl la trasfusione è necessaria; z se l’Hb è compresa tra 7 e 10 g/dl le necessità trasfusionali devono essere valutate in base alle condizioni cliniche del paziente.

Rischi ed inconvenienti Sono rappresentati principalmente dalla trasmissione di malattie infettive e dalla formazione di alloanticorpi antiemazie clinicamente significativi. A causa dell’alto valore ematocrito, l’unità di GRC presenta un’elevata viscosità che ne ostacola il regolare deflusso. Le emazie concentrate non diluite defluiscono ad una velocità che è circa il 35% di quella del sangue intero.L’aumento della velocità di infusione, che si ottiene con l’aggiunta di soluzioni tipo PAGGS-sorbitolo o SAG-mannitolo, rende accettabile questo prodotto anche nei reparti chirurgici e nelle sale operatorie.

Globuli rossi leucodepleti Le unità di emazie concentrate contengono un numero di leucociti variabile da 0,5 a 109 a seconda che siano state private oppure no dello strato leucopiastrinico (buffy-coat). La leucodeplezione può essere effettuata mediante una metodica di filtrazione, capace di determinare una purificazione leucocitaria del 99,9%, che lascia nell’unità filtrata un numero di leucociti inferiore a 5 × 106.

Indicazioni I globuli rossi filtrati sono impiegati per i seguenti scopi: z prevenzione delle reazioni trasfusionali febbrili non emolitiche in soggetti politrasfusi, precedentemente immunizzati verso antigeni HLA; z prevenzione della alloimmunizzazione leucocitaria in pazienti destinati ad essere trasfusi per lunghi periodi di tempo; z prevenzione della trasmissione di CMV, EBV e HTLV I/II.

Rischi ed inconvenienti Sono rappresentati principalmente da: z costo elevato; z massa eritrocitaria minore, a causa della perdita di una certa quota di globuli rossi durante la filtrazione; z tempo medio di infusione piuttosto lungo (usando la filtrazione “al letto del paziente”, intorno a 65 min/U).

Concentrati piastrinici I concentrati piastrinici si possono ricavare dal sangue intero fresco dopo centrifugazione ed in questo caso si tratta di concentrati piastrinici standard ottenuti da donatori random (piastrine random o piastrine da singola unità di sangue intero). 244

 Un’unità piastrinica da sangue intero contiene non meno di 6 × 1010 piastrine in un volume di 50-60 ml. I concentrati piastrinici standard possono essere conservati in sacche di plastica gas permeabili a 20-24 °C fino a 5 giorni, tenendoli in continua e delicata agitazione. I concentrati piastrinici possono essere anche ottenuti da pool di buffy-coat oppure mediante piastrinoaferesi. Il concentrato piastrinico da buffy-coat è ottenuto da un pool di 4-8 buffy-coat da singole unità di sangue intero fresco e contiene non meno di 2,5 × 1011 piastrine. La miscela di buffy-coat viene diluita con un’adeguata quantità di plasma o con una appropriata soluzione cristalloide in modo da ridurre il contenuto di leucociti a meno di 0,05 × 109 per singola unità di partenza. Un concentrato piastrinico da singolo donatore sottoposto a piastrinoaferesi utilizzando un separatore cellulare contiene non meno di 3 × 1011 piastrine in un volume di plasma di 200-400 ml. Il concentrato da plasma-piastrinoaferesi contiene non meno di 2 × 1011 piastrine.

Indicazioni Sono candidati a ricevere trasfusioni di concentrati piastrinici: z pazienti sanguinanti con trombocitopenia grave (piastrine inferiori a 10.000-20.000/mm 3) da ridotta produzione piastrinica midollare; z pazienti sanguinanti con tempo di emorragia superiore a 15 minuti (trombocitopatia); z pazienti da sottoporre ad intervento chirurgico o a biopsia, con piastrine inferiori a 50.000/mm 3.

Controindicazioni Le trasfusioni di piastrine di solito non sono efficaci nel trattamento di pazienti con: z porpora trombotica trombocitopenica; z sindrome uremico-emolitica; z porpora trombocitopenica idiopatica; z trombocitopenia causata da setticemia; z trombocitopenia causata da ipersplenismo.

Rischi ed inconvenienti Sono rappresentati principalmente da: z trasmissione di malattie infettive; z reazioni trasfusionali febbrili non emolitiche; z immunizzazione verso antigeni HLA e induzione di uno stato di refrattarietà a successive trasfusioni piastriniche.

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Concentrati granulocitari I concentrati granulocitari si ricavano da un singolo donatore mediante leucoaferesi.  L’emocomponente contiene un minimo di 1 × 1010 granulociti sospesi in 250-450 ml di plasma, deve essere conservato a 20-24 °C e trasfuso il più presto possibile.

Indicazioni Attualmente l’indicazione all’uso di concentrati granulocitari è limitata alla cura del paziente neutropenico grave (granulociti neutrofili inferiori a 500/mm3) per difetto di produzione midollare, con febbre superiore a 38,5 °C, già in trattamento con un’appropriata terapia antibiotica da oltre 48 ore, con sepsi da Gram-negativi.

Rischi ed inconvenienti Sono rappresentati principalmente da: z trasmissione di malattie infettive, in particolare da Citomegalovirus, che colpisce circa il 50% dei riceventi; z reazioni trasfusionali febbrili non emolitiche; z immunizzazione verso antigeni HLA e verso antigeni eritrocitari; z reazioni del tipo trapianto verso l’ospite (GVH) in pazienti immunodeficienti o immunosoppressi; z grave insufficienza polmonare. 246

Plasma fresco congelato (PFC) Il PFC viene preparato dal sangue intero di singolo donatore separando e congelando il plasma entro 6 ore dal prelievo.  Il volume medio è di circa 220-230 ml. Il PFC da singolo donatore può essere ottenuto anche mediante plasmaferesi. In questo caso il volume medio è di circa 600 ml. Il PFC è conservabile a temperatura inferiore a – 40 °C per un periodo di 24 mesi ed a temperatura inferiore a –30 °C per 12 mesi.

Indicazioni Il PFC viene impiegato nelle seguenti situazioni: z coagulopatie congenite o acquisite, con sanguinamento in atto o in previsione di un intervento chirurgico o di altre procedure invasive, quando il rapporto fra il tempo di protrombina (PT) o il tempo di tromboplastina parziale attivato (APTT) ed il valore di controllo è superiore a 1,4 e quando non siano disponibili (come in caso di deficit di fattore V o di fattore XI) emoderivati specifici; z sindrome emorragica da coagulazione intravasale disseminata (CID) oppure da coagulopatia da diluizione per trasfusione massiva (volume trasfuso nell’arco di 24 ore corrispondente al volume ematico totale del paziente, tenendo presente che il volume ematico totale corrisponde a 75 ml/kg di peso corporeo); z plasma-exchange per porpora trombotica trombocitopenica o per altre microangiopatie trombotiche; z necessità di neutralizzazione immediata dell’effetto anticoagulante dei farmaci del gruppo cumarina-indandione per interventi chirurgici o procedure invasive d’urgenza in pazienti con PT espresso come INR superiore a 1,6. Al di fuori di queste indicazioni l’impiego terapeutico del PFC viene di solito considerato improprio e non razionale. In particolare, il PFC non è indicato: z per espandere il volume plasmatico; z come apporto nutritivo; z nei pazienti con carenze congenite o acquisite di fattori della coagulazione che non devono sottoporsi ad interventi chirurgici o ad altre procedure invasive o che non presentano emorragie in atto; z a scopo profilattico in caso di circolazione extracorporea; z nelle epatopatie croniche a scopo emostatico, se non sono già state messe in atto altre misure di contenimento dell’emorragia.

Rischi ed inconvenienti I rischi della trasfusione di PFC sono rappresentati da: z trasmissione di malattie infettive; z reazioni allergiche e anafilattiche; z sovraccarico circolatorio. Allo scopo di ridurre il rischio infettivologico e immunologico è stato messo sul mercato plasma umano inattivato con solventi e detergenti. Le principali caratteristiche di questo plasma sono le seguenti: z proveniente da pool (1000-3000 donatori); 247

clinicamente trattato per ridurre la carica virale dei virus incapsulati (HBV, HCV,HIV); z confezioni standard di 200 ml, tra loro distinte a seconda della specificità gruppoematica AB0; z conservazione delle proteine plasmatiche (albumina, immunoglobulina, fattori della coagulazione); z conservazione dei fattori della coagulazione non inferiore al 70% del contenuto originale. Trattandosi di prodotto costoso e limitato, le indicazioni trasfusionali del plasma inattivato devono essere sottoposte alla valutazione restrittiva dei Comitati ospedalieri per il Buon Uso del Sangue. z

Concentrati di fattori della coagulazione Mediante il frazionamento del plasma è possibile ottenere vari concentrati di fattori della coagulazione. z Crioprecipitato: è un preparato costituito dalla frazione crioglobulinica del plasma fresco, ottenuto da una singola donazione, concentrato ad un volume finale di 10-20 ml; ha un periodo massimo di conservazione di un anno. Il crioprecipitato contiene fattore VIII, fattore von Willebrand, fibrinogeno, fattore XIII e fibronectina. Indicazioni: deficit dei fattori VIII e XIII, di fibrinogeno e di fattore von Willebrand, congeniti o acquisiti. Piccole quantità di crioprecipitato (specie autologo) vengono impiegate come fonte di fibrinogeno e, mescolate alla trombina, formano la “colla di fibrina” indicata nell’emostasi chirurgica. z Concentrati di fattore VIII o IX: sono concentrati stabili purificati e liofilizzati di fattore VIII o IX ottenuti da pool di plasma fresco congelato. Indicazioni: deficit di fattore VIII (emofilia A) o IX (emofilia B). z Concentrato del complesso protrombinico “attivato”: è il preparato, ottenuto da pool di plasma fresco congelato, contenente in forma concentrata i fattori della coagulazione del complesso protrombinico già attivati. Indicazioni: trattamento di emorragie e preparazione agli interventi chirurgici di pazienti emofilici A con inibitore del fattore VIII, non trattabili con il concentrato di fattore VIII.

Sostituti del sangue La trasfusione di sangue omologo e di suoi componenti non è esente da rischi e a volte è rifiutata dal paziente (motivi religiosi, paura).Vi sono alternative all’impiego del sangue omologo e di suoi componenti. Per la correzione dell’ipovolemia che frequentemente accompagna l’emorragia, per esempio, sono disponibili due categorie di liquidi sostituti del sangue: soluzioni cristalloidi e soluzioni colloidi.

Soluzioni cristalloidi Le diverse soluzioni cristalloidi utilizzabili contengono acqua ed elettroliti e/o monosaccaridi in varie concentrazioni.  Le soluzioni possono essere ipotoniche, raramente impiegate (NaCl 0,45%), isotoniche, di largo impiego (NaCl 0,9%; soluzione di Ringer; glucosio 5%, ecc.) oppure ipertoniche, raramente impiegate. Fino ad una perdita pari al 10-15% del volume ematico (600-700 ml), cioè quando l’anemizzazione e l’ipovolemia non sono tali da minacciare l’ossigenazione e la perfusione degli organi vitali, si possono impiegare le sole soluzioni cristalloidi per riequilibrare temporaneamente la volemia. 248

Queste soluzioni, però, essendo iponcotiche, dopo pochi minuti dall’infusione fuoriescono dal letto circolatorio, con importanti conseguenze cliniche: z la quantità di una soluzione cristalloide necessaria per ripristinare la volemia è di 3-4 volte il volume di sangue perso; z il passaggio dell’acqua solvente dal letto vasale verso lo spazio extracellulare provoca edema interstiziale generalizzato. Quest’ultimo, ben sopportato da un paziente il cui sistema cardiocircolatorio non è compromesso, è invece pericoloso nel paziente cardiopatico, che rischia la morte per edema polmonare. È perciò necessario il monitoraggio scrupoloso dei parametri vitali (polso, pressione, frequenza respiratoria) e della pressione venosa centrale allorché il paziente riceve infusioni di grandi quantità di soluzioni cristalloidi.

Soluzioni colloidi Le soluzioni colloidi (plasma expanders) hanno una pressione oncotica simile a quella del plasma umano, grazie alla presenza di macromolecole. Il loro effetto di espansione della volemia è molto più veloce e durevole rispetto a quello delle soluzioni cristalloidi.  Esse sono indicate in associazione alle soluzioni cristalloidi per perdite ematiche inferiori al 1520% della volemia, a condizione però che esista una adeguata ossigenazione dei tessuti. Per le emorragie gravi (oltre il 20-25% della volemia) le soluzioni colloidi vengono impiegate: z assieme alla trasfusione di GRC, per limitarne il consumo; z in emergenza, in attesa di disporre di GRC; z quando la trasfusione di sangue omologo è controindicata, o non è disponibile affatto, o è rifiutata dal paziente. Esistono attualmente in commercio due tipi di soluzioni colloidi plasma expanders: destrano e gelatine.

Destrano Il destrano è una molecola polisaccaridica ramificata (circa 200.000 unità glucidiche), dalla quale per idrolisi parziale si possono ottenere molecole più piccole di vario peso molecolare. Sono in commercio soluzioni di peso molecolare medio di 40.000 e di 70.000, rispettivamente alla concentrazione del 3% e 6% in acqua. La soluzione a più basso peso molecolare (40.000 P.M.) ha una emivita intravascolare relativamente breve (circa 3 ore). Il destrano ad alto peso molecolare (70.000 P.M.) viene eliminato dalla circolazione più lentamente (40-50% dopo 20 ore circa). Il destrano può interferire in modo imprevedibile con i test immunoematologici; è quindi importante che i prelievi per questi test vengano eseguiti prima della somministrazione di destrano. Le proprietà antitrombotiche del destrano possono essere sfruttate per la profilassi della tromboembolia postoperatoria in interventi chirurgici ad alto rischio. Il destrano è controindicato in caso di ipotensione marcata con riduzione del filtrato glomerulare, perché a causa dell’alta viscosità può ostruire il sistema tubulare renale. Nell’impiegare le soluzioni di destrano bisogna sorvegliare l’eventuale insorgenza di reazioni allergiche. Il destrano è infatti dotato di potere antigenico; l’incidenza di reazioni allergiche è bassa, ma quando queste si verificano possono essere gravi. 249

Gelatine I preparati plasma expanders a base di gelatina (Emagel) provocano una espansione plasmatica di breve durata (1,5 ore) e richiedono perciò ripetute somministrazioni; tuttavia essi sono ben tollerati (le reazioni allergiche alla gelatina sono rare) e sono attualmente tra i plasma expanders di più largo impiego.  Si deve limitare l’impiego di grosse quantità di plasma expanders per il rischio di edema interstiziale diffuso. Un’altra limitazione all’uso delle soluzioni colloidi è data dall’incapacità di trasportare l’ossigeno; esse quindi non permettono la correzione dell’ipossiemia che si verifica nelle emorragie importanti.

Complicanze delle trasfusioni di sangue ed emocomponenti  La trasfusione di emazie AB0-incompatibili provoca emolisi intravasale acuta, dovuta all’interazione degli anticorpi anti-A o anti-B del ricevente con gli eritrociti trasfusi. Questo tipo di reazione si manifesta precocemente e può comportare: z un grave quadro di coagulazione intravasale disseminata; z insufficienza renale acuta da tubulonecrosi; z attivazione del complemento e shock anafilattico; z ittero emolitico. La mortalità associata alle reazioni emolitiche trasfusionali gravi supera il 10%, anche nei pazienti tempestivamente trattati. Il trattamento consiste nell’immediata sospensione dell’emotrasfusione, nella somministrazione di diuretici e/o liquidi, adrenalina, cortisonici, ed eventualmente nella terapia intensiva dello shock.

È possibile una reazione anche in seguito alla somministrazione di plasma umano, se quest’ultimo contiene anticorpi anti-A o anti-B e viene infuso in un soggetto i cui globuli rossi presentano l’antigene corrispondente. In questo caso il numero di anticorpi è molto minore rispetto al numero di emazie aggredite e la reazione è meno grave, ma non è esente da rischio. Gli altri antigeni gruppoematici, compreso il sistema Rh, diventano clinicamente importanti solo in pazienti precedentemente trasfusi e nelle donne pluripare. Si è visto che la maggior parte delle reazioni emolitiche trasfusionali è dovuta ad errore umano per incorretta identificazione del paziente o delle provette di sangue da tipizzare.  La trasmissione di malattie infettive è l’altra più importante complicanza post-trasfusionale. La lista di agenti patogeni trasmissibili comprende i virus dell’epatite, i retrovirus HIV e HTLV, l’Herpes virus 8, il Citomegalovirus, il Treponema pallidum, il Tripanosoma, il Toxoplasma, i plasmodi della malaria ed altri patogeni ancora. Il rischio di contrarre un’infezione tramite trasfusione di sangue o emocomponenti è oggi molto basso.La stima del rischio da trasfusione per l’infezione da virus dell’epatite B è stata in Europa, relativamente al 1997, di un caso su 398.000 unità, per l’infezione da virus dell’epatite C di un caso 250

su 621.000 unità e per l’infezione da HIV di un caso su 2.324.000 unità. Altre possibili complicanze dell’emotrasfusione, quali la comparsa di deficit della coagulazione, di acidosi, di iperkaliemia, di tossicità da citrato possono verificarsi soprattutto dopo trasfusioni massive.

Autotrasfusione Con il termine “autotrasfusione” si intendono varie procedure che consentono di trasfondere al paziente il suo stesso sangue (trasfusione autologa). La pratica dell’autotrasfusione viene sempre più utilizzata in chirurgia non solo per la cronica carenza di emocomponenti, ma soprattutto per le pro-blematiche infettivologiche e immunologiche connesse alla trasfusione omologa. A tal fine, la Commissione Nazionale per il Servizio Trasfusionale, con le direttive emanate nel 1991, ha stabilito che tutti i pazienti da sottoporre ad intervento chirurgico debbono essere informati dal chirurgo sulla possibilità di effettuare l’autotrasfusione. Ciò è stato poi ribadito in successivi decreti ministeriali. Ci sono due momenti fondamentali per la raccolta del sangue autologo in relazione all’intervento 251

chirurgico: il periodo preoperatorio e quello intraoperatorio.

Raccolta preoperatoria (predeposito) La raccolta di sangue autologo nel periodo preoperatorio viene attuata tramite uno o più salassi effettuati anche ambulatoriamente di circa 350 ml, da conservare per reinfondere al paziente in caso di necessità intra- o postoperatoria. Il numero di salassi dipende dal tipo di intervento chirurgico e dalla crasi ematica del paziente.  Al termine dei salassi per il predeposito l’emoglobinemia del paziente dovrebbe essere non inferiore a 10 g/dl. Il predeposito è controindicato nei pazienti cardiopatici gravi o anemici di base oppure con un’infezione batterica in atto associata a batteriemia o in trattamento antibatterico. La stimolazione dell’eritropoiesi che si ottiene è un vantaggio potenziale per il paziente chirurgico; in caso di emorragia il suo midollo osseo sarà in grado di rispondere più rapidamente.

Emodiluizione preoperatoria normovolemica Per emodiluizione preoperatoria normovolemica si intende il salasso, immediatamente prima dell’intervento chirurgico, di una quantità di sangue sufficiente a sopperire alle eventuali necessità trasfusionali intraoperatorie del paziente. La massa sanguigna sottratta deve essere contemporaneamente sostituita con soluzioni plasma expanders adeguate a mantenere la normovolemia. Si ottiene così una diminuzione della viscosità del sangue da emodiluizione, seguita da una riduzione secondaria delle resistenze vascolari periferiche. Quando la funzione cardiaca è normale, la riduzione delle resistenze periferiche provoca un aumento riflesso della gittata cardiaca.  L’emodiluizione moderata fino a valori di Ht di 30-35% aumenta il flusso ematico e la perfusione del microcircolo, riducendo così il rischio di trombosi.

Emorecupero intraoperatorio Il recupero intraoperatorio è una tecnica di autotrasfusione che comporta la raccolta del sangue dal campo chirurgico o da un circuito extracorporeo. A tal fine sono disponibili diverse apparecchiature che separano, lavano e concentrano le emazie del sangue aspirato, la cui reinfusione può essere iniziata immediatamente,anche durante lo svolgimento di un altro ciclo di separazione e lavaggio.  L’emorecupero intraoperatorio è utile sia negli interventi in elezione sia in urgenza, quando si prospetta una perdita ematica superiore a 1000 ml; in pratica ciò si verifica negli interventi complessi sui grossi vasi, sul cuore aperto, su organi parenchimatosi lacerati (fegato, rene, milza), nelle resezioni epatiche maggiori e nella chirurgia dell’ipertensione portale. Precauzionalmente non si utilizza questa metodica quando il sangue da autotrasfondere deve essere aspirato in prossimità di tessuto neoplastico e in corso di interventi chirurgici potenzialmente contaminati.

Effetti delle trasfusioni sui trapianti d’organo 252

Per molti anni si è evitata la somministrazione di sangue omologo nei pazienti in attesa di ricevere trapianti d’organo, per timore che gli antigeni di istocompatibilità dei linfociti trasfusi potessero sensibilizzare il paziente, aumentando il rischio di rigetto. All’inizio degli anni Settanta è stato invece osservato che la sopravvivenza degli allotrapianti renali aumentava del 10-15% nei pazienti emotrasfusi. Le trasfusioni preoperatorie risultano più efficaci nel diminuire il rigetto rispetto a quelle postoperatorie e tale effetto dipende dalla presenza di leucociti nel sangue trasfuso; infatti non si osserva effetto antirigetto in seguito alla trasfusione di sangue omologo privo di globuli bianchi.  L’effetto antirigetto si osserva già dopo la somministrazione di una sola unità di sangue ed aumenta progressivamente con le successive unità, fino ad un massimo di 10-15. Il meccanismo con cui si ottiene il miglioramento della sopravvivenza degli organi trapiantati non è completamente chiarito. Secondo la teoria più accreditata l’emotrasfusione provocherebbe una depressione aspecifica dell’immunità cellulo-mediata, esercitando quindi un effetto immunosoppressivo antirigetto.

Effetti delle trasfusioni sulla sopravvivenza dei pazienti operati per neoplasia È stato osservato che l’incidenza di infezioni postoperatorie in pazienti operati per neoplasia del colon-retto è significativamente più alta in soggetti che hanno ricevuto sangue omologo. Inoltre, l’emotrasfusione in pazienti chirurgici neoplastici sembrerebbe essere associata con una riduzione della sopravvivenza. Questi due effetti sarebbero dovuti all’immunodepressione indotta dalla trasfusione omologa, che provocherebbe una diminuzione delle difese antinfettive e un deficit del controllo immunologico della crescita neoplastica. Numerosi studi hanno dimostrato una correlazione significativa tra le trasfusioni perioperatorie e la comparsa precoce di recidiva neoplastica in pazienti operati per tumore del colonretto, del polmone, della mammella, del rene, dell’utero, dello stomaco e per sarcomi dei tessuti molli. L’effetto negativo sul tempo di recidiva e sulla sopravvivenza sembra manifestarsi anche con la trasfusione di una sola unità di emocomponenti ed aumenta proporzionalmente alla quantità trasfusa. Lo stesso effetto si è osservato dopo trasfusioni autologhe. Perciò si ritiene che il fattore o i fattori responsabili dell’immunodepressione post-trasfusionale siano imputabili alla conservazione.  Alla luce di queste osservazioni è consigliabile limitare il più possibile la terapia trasfusionale ai pazienti neoplastici, ricorrendo ad essa solo in casi di assoluta necessità. Nei centri chirurgici più qualificati negli ultimi anni è stata messa in atto una politica di risparmio delle emotrasfusioni, ottenuta mediante: x contenimento delle perdite ematiche intraoperatorie, mediante meticolosa tecnica chirurgica; x ampliamento dell’uso dei plasma expanders e miglioramento delle tecniche anestesiologiche di controllo emodinamico.

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Coagulopatie Metodi di valutazione della coagulazione La complicanza emorragica intra- o postoperatoria può dipendere in alcuni casi da alterazioni dell’emostasi preesistenti o createsi in corso di intervento chirurgico (emorragia massiva, posizionamento di protesi vascolare, uso della CEC).  Un’attenta valutazione clinica del paziente e la determinazione di alcuni parametri della coagulazione al momento della pianificazione dell’intervento chirurgico riducono significativamente l’incidenza della morbilità e mortalità che possono derivare dalle coagulopatie. L’anamnesi e l’esame obiettivo offrono informazioni preziose per la valutazione preoperatoria del rischio emorragico. La raccolta dei dati anamnestici, estesa eventualmente anche ai familiari, può rivelare l’eventuale esistenza di una patologia emorragica congenita. Un dato anamnestico importante è quello relativo all’assunzione di farmaci che interferiscono con la fase vasculopiastrinica dell’emostasi. Quando il difetto dell’emostasi causato da un farmaco si combina con le modificazioni indotte dal trauma chirurgico, l’emorragia può assumere proporzioni allarmanti. Se l’anamnesi è positiva per l’assunzione di farmaci che interferiscono con la componente vasculopiastrinica del processo emostatico, l’intervento chirurgico va, nei limiti del possibile, differito. Nei casi in cui ciò non sia possibile e soprattutto per gli interventi di cardiochirurgia che richiedono l’uso della CEC, il paziente dovrebbe ricevere concentrati piastrinici prima dell’intervento e per 2 giorni nel postoperatorio. Per gli interventi di chirurgia addominale e toracica, tale procedura va adottata solo se il tempo di emorragia risulta significativamente allungato. L’esame obiettivo del paziente può fornire segni clinici di emostasi alterata (presenza di petecchie, ecchimosi, ematomi, emartri o esiti di emartri ripetuti, gengivorragia, epistassi).  La valutazione preoperatoria del rischio emorragico deve essere completata da alcuni test di laboratorio. Le tre indagini di laboratorio che vengono comunemente richieste sono: il tempo di protrombina (tempo di Quick), il tempo di tromboplastina parziale attivato (APTT), la conta piastrinica. Sebbene queste tre indagini permettano di evidenziare la maggior parte dei difetti emostatici, per uno screening dell’emostasi realmente efficace è consigliabile determinare anche il tempo di emorragia, che può mascherare un difetto congenito o acquisito della funzionalità piastrinica, ed il tempo di trombina che, se normale, consente di escludere indirettamente una fibrinolisi grave o un deficit di fibrinogeno (Tab. 8.3).

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Quando la valutazione preoperatoria della coagulazione interessa i pazienti che verranno sottoposti ad interventi che prevedono ipotermia (CEC),le indagini vanno completate con la ricerca delle crioglobuline e delle crioagglutinine.

Interventi chirurgici in pazienti con malattie emorragiche Solo di rado una coagulopatia costituisce una vera controindicazione ad un intervento chirurgico, se la malattia emorragica è stata correttamente inquadrata e se sono state prese le adeguate misure di profilassi. La preparazione agli interventi chirurgici dei pazienti con emofilia A o B è basata sulla somministrazione del fattore antiemofilico carente, in quantità sufficiente a raggiungere durante l’atto operatorio livelli ematici di almeno il 70% del normale, da ripetersi con frequenza e in quantità tali da mantenere questi livelli fino a completa cicatrizzazione delle ferite. Nella preparazione ad interventi chirurgici dei pazienti con emofilia C (deficit di fattore XI) è indicato il trattamento con PFC, mentre nei pazienti con malattia di von Willebrand si possono impiegare PFC o crioprecipitati. Accanto alla terapia sostitutiva, in tutti i pazienti affetti da sindromi emofiliche si è dimostrata efficace la somministrazione perioperatoria di emostatici sistemici quali l’acido İaminocaproico, l’acido tranexamico o la desmopressina (DDAVP). Nelle rare coagulopatie congenite non emofiliche la preparazione agli interventi chirurgici si basa sulla somministrazione di PFC oppure, in caso di deficit di fattore X o VII o II, di complesso protrombinico purificato.  Per quanto riguarda la preparazione agli interventi chirurgici dei pazienti con coagulopatie acquisite valgono i seguenti principi terapeutici: x somministrare 10-20 mg di vitamina K1 per via parenterale nei deficit di vitamina K, in assenza di insufficienza epatica; x trasfondere PFC nei difetti emostatici conseguenti ad epatopatie gravi.

Interventi chirurgici in pazienti in trattamento anticoagulante 255

La decisione di sospendere o meno un trattamento anticoagulante prima di un intervento chirurgico dipende: z dal tipo di intervento: alcuni possono comportare sanguinamenti importanti o gravi; altri invece devono essere eseguiti sotto trattamento anticoagulante (interventi vascolari); z dalla causa del trattamento anticoagulante: la sospensione di esso, anche solo per 48 ore, può essere a volte molto pericolosa (malattia tromboembolica recidivante, protesi valvolari, bypass coronarico recente).  Qualora si decida la sospensione preoperatoria del trattamento anticoagulante, ciò dovrebbe avvenire gradualmente. In caso di urgenza,si possono somministrare gli antidoti e/o gli emocomponenti e gli emoderivati. Il trattamento anticoagulante sarà ripreso 48 ore dopo l’intervento,preferibilmente con eparina e necessariamente con un accurato monitoraggio dei test dell’emostasi.

Antidoti L’effetto anticoagulante dell’eparina è neutralizzato dal solfato di protamina. La dose di solfato di protamina da somministrare dipende dalla quantità di eparina presente in circolo. Questa, a sua volta, dipende dall’entità, dalla velocità e dalla via di somministrazione dell’ultima dose. Il dosaggio di solfato di protamina raccomandato è di 1 mg per ogni 100 U di eparina presente nell’organismo. Esso dovrebbe essere somministrato per via endovenosa lenta con una velocità non superiore ai 5 mg/min. L’effetto antieparinico persiste per circa 2 ore. L’effetto anticoagulante dei farmaci del gruppo cumarinaindandione (acenocumarina, warfarin sodico e fenindione) può essere annullato dalla somministrazione di vitamina K1. In casi di estrema urgenza la vitamina K1 dovrebbe essere diluita in soluzione fisiologica e somministrata per via endovenosa lenta, con una velocità non superiore ad 1 mg/min.

Coagulazione intravasale disseminata (CID) La CID è una sindrome trombotico-emorragica acuta, subacuta o cronica coinvolgente tutto il processo emostatico (fase vasculo-piastrinica, fase plasmatica, fase fibrinolitica) innescata da vari agenti causali, fra cui si annoverano sostanze procoagulanti rilasciate dai tessuti dopo interventi chirurgici; essa è favorita da svariate situazioni quali lo shock, il trauma, la sepsi, patologie ostetriche, epatopatie, patologia allergica e autoimmune, malformazioni vascolari ed alcune neoplasie. Sul piano clinico la CID è caratterizzata da una diatesi emorragica più o meno grave e da lesioni ischemicomicrotrombotiche che interessano in prevalenza reni e cute. Sul piano laboratoristico le alterazioni più importanti sono: z aumento del fibrinopeptide A; z aumento dei prodotti di degradazione del fibrinogeno/fibrina (FDP) e del D-dimero (frammenti di fibrina); z piastrinopenia; z diminuzione del fibrinogeno; z allungamento di PT e di APTT. Il trattamento della CID consiste, oltre che nella eliminazione – quando sia possibile – della causa scatenante, nella somministrazione di plasma fresco congelato e di concentrati piastrinici, ed eventualmente nell’impiego di eparina.

L’eparinoterapia è indicata soprattutto quando c’è una evidente trombosi (per esempio nella porpora 256

fulminante); essa è sconsigliata se esiste una causa locale di emorragia (recente intervento chirurgico). La somministrazione di eparina deve essere eseguita in presenza di una concentrazione normale di antitrombina III e deve essere sempre associata ad energica terapia emotrasfusionale. Un problema complesso è rappresentato dalla dose di eparina da somministrare; la dose media raccomandata è di 200 U/kg/die in infusione endovenosa continua con microinfusore.

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Letture suggerite z

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American Association of Blood Banks: Terapia trasfusionale. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1996. Blood safety in the European Community: An initiative for optimal use. Wildbad Kreuth, Germany, 20-22 May, 1999. Decreto del Ministero della Sanità 26 gennaio 2001: Protocolli per l’accertamento della idoneità del donatore di sangue e di emocomponenti. Faustini A.: Il rischio di trasmissione delle infezioni virali mediante trasfusione. La Trasfusione del Sangue 45: 344-352, 2000.

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9 Shock 9.1 Definizione 9.2 Classificazione 9.3 Shock da patologia metabolica cellulare secondaria 9.4 Shock da patologia metabolica cellulare primitiva 9.5 Metodi di valutazione e monitoraggio del paziente in shock 9.6 Criteri di diagnosi 9.7 Principi di terapia 9.8 Conclusioni 9.9 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 9

Shock M. Castagneto, G. Sganga Il concetto di shock ha subito in questi ultimi anni numerose evoluzioni che dimostrano al contempo il contributo delle nuove acquisizioni e le incomplete conoscenze dei fattori eziologici, patogenetici, e delle alterazioni fisiopatologiche che lo producono. Tradizionalmente, lo shock è stato identificato con un quadro di ipotensione grave e di collasso cardiocircolatorio: tale interpretazione trovava giustificazione nelle limitate conoscenze, nella scarsità dei metodi di rilevazione e monitoraggio, nella inadeguatezza della terapia. In realtà, rappresentano, in maniera incostante, solo la fase terminale di complesse alterazioni fisiopatologiche che si realizzano ben più precocemente. Nel corso degli anni, gli sviluppi nel campo della fisiologia, della biochimica, della immunologia, insieme ai più perfezionati metodi di monitoraggio e alle più sofisticate tecniche di terapia intensiva e rianimazione, hanno fornito gli strumenti per un nuovo approccio metodologico al fenomeno shock; di conseguenza oggi si parla di shock indipendentemente dalla presenza di ipotensione se sulla base di rilevazioni dirette o indirette venga riconosciuta un’alterazione del trasporto e/o utilizzazione dell’ossigeno e dei substrati da parte dei tessuti.

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Il concetto di shock ha subito in questi ultimi anni numerose evoluzioni che dimostrano al contempo il contributo delle nuove acquisizioni e le incomplete conoscenze dei fattori eziologici, patogenetici, e delle alterazioni fisiopatologiche che lo producono. Tradizionalmente, lo shock è stato identificato con un quadro di ipotensione grave e di collasso cardiocircolatorio: tale interpretazione trovava giustificazione nelle limitate conoscenze, nella scarsità dei metodi di rilevazione e monitoraggio, nella inadeguatezza della terapia. In realtà, rappresentano, in maniera incostante, solo la fase terminale di complesse alterazioni fisiopatologiche che si realizzano ben più precocemente. Nel corso degli anni, gli sviluppi nel campo della fisiologia, della biochimica, della immunologia, insieme ai più perfezionati metodi di monitoraggio e alle più sofisticate tecniche di terapia intensiva e rianimazione, hanno fornito gli strumenti per un nuovo approccio metodologico al fenomeno shock; di conseguenza oggi si parla di shock indipendentemente dalla presenza di ipotensione se sulla base di rilevazioni dirette o indirette venga riconosciuta un’alterazione del trasporto e/o utilizzazione dell’ossigeno e dei substrati da parte dei tessuti.

Definizione  Al momento attuale delle conoscenze, quindi, lo shock può essere definito come una sindrome pluridisfunzionale dovuta all’alterazione dei processi di produzione energetica cellulare da diminuzione della disponibilità o della utilizzazione dell’ossigeno e ai meccanismi fisiopatologici di compenso che ne derivano. Questa definizione, a nostro avviso, meglio di altre dà l’idea dell’evento fisiopatologico principale e costante, e al contempo della potenziale gravità clinica, dello shock: qualunque ne sia la causa, infatti, l’alterazione del metabolismo cellulare appare essere un momento patogenetico fondamentale il quale si automantiene e a sua volta, interessando tutti gli organi e tessuti, ne può provocare la loro alterazione sino alla insufficienza e allo scompenso. Sotto questa angolazione è possibile concepire lo shock come un’entità patologica unitaria, anche se i fattori eziologici e i meccanismi che concorrono a realizzarne il quadro possono essere differenti. Sul piano nosografico lo shock contempla fenomeni plurieziologici (per es. cardiogeno, ipovolemico, traumatico, settico, neurologico, anafilattico), a ripercussione pluriviscerale ed evoluzione in complicanze di organi vitali (cuore, polmoni, reni, fegato, SNC). z

Sul piano clinico si tratta di una condizione che, senza predilezione di sesso o età, ha le caratteristiche di insorgere più o meno acutamente, di compromettere la stabilità cardiocircolatoria, di produrre a carico di organi vitali una perfusione inadeguata ai livelli di funzionalità richiesti in queste circostanze, di somigliare più a una “sindrome” che a una “malattia” perché racchiude una costellazione di sintomi e segni clinici che spesso, pur aiutandoci a individuarla, non ci indicano la o le cause. z

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Classificazione Sulla base dei meccanismi fisiopatologici in atto, l’alterazione metabolica cellulare può essere primitiva o secondaria (Fig. 9.1). z È primitiva quando sin dall’inizio si verifica direttamente a livello della cellula. Non vi sono alterazioni di perfusione, anzi il flusso ematico risulta aumentato nel tentativo di trasportare una maggiore quantità di ossigeno, per cui viene definito “shock ad alto flusso”. È quanto avviene nella sepsi (batterica, virale, fungina), ove, a causa dell’agente infettivo e/o delle sue tossine, si verifica un’alterazione di alcune tappe enzimatiche cruciali nel metabolismo ossidativo che porta ad un’alterazione del consumo di ossigeno e della ossidazione dei substrati – pur in presenza,almeno inizialmente,di una normale disponibilità di ossigeno – che si ripercuote su tutti gli altri organi e sistemi. Parleremo allora di shock da patologia metabolica cellulare primitiva.

È secondaria quando segue ad una riduzione del trasporto dell’ossigeno a causa di ipoperfusione (“shock a basso flusso”). Ciò avviene a seguito di: { ipovolemia (perdita di sangue, plasma, liquidi); { ipodinamismo da riduzione della gittata cardiaca dovuta sia a cause cardiache (infarto, aritmie, depressione miocardica) che extracardiache (embolia polmonare, tamponamento cardiaco, pneumotorace iperteso, ostruzione cavale); { ipodinamismo e ipovolemia da vasoplegia con aumento della capacitanza del microcircolo per motivi neurogeni (traumi del SNC, anestesia spinale, intossicazione da farmaci, riflessi neurogeni anormali) e umorali (vasodilatazione e alterazioni della permeabilità vasale del microcircolo indotta da reazioni antigene-anticorpo, istamina e sostanze istamino-simili come accade nella anafilassi). In questi casi parleremo allora di shock da patologia metabolica cellulare secondaria. z

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Appare ancora una volta chiaro come, sia in caso di riduzione nella disponibilità di ossigeno sia nella impossibilità di utilizzare l’ossigeno disponibile, le conseguenze del danno cellulare si ripercuotono negativamente su tutti gli organi e tessuti e come la gravità di tale ripercussione sia proporzionale all’entità della noxa patogena. A questa classificazione fisiopatologica, si affianca una classificazione eziologica basata cioè sulle cause che più frequentemente determinano gli stati di shock (Tab. 9.1); essa è clinicamente più utilizzata per gli ovvi risvolti terapeutici, ed offre indubbi elementi per la comprensione del “fenomeno shock”.

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La Tabella 9.2 riassume in maniera schematica le caratteristiche cliniche delle varie forme di shock riferendosi all’evento scatenante; per favorire un iniziale inquadramento vengono anticipati i dati più salienti riguardanti la patogenesi, gli esami di laboratorio e le linee generali di trattamento.  Parleremo prima dello shock da patologia metabolica cellulare secondaria (ipovolemico, ipodinamico, a basso flusso) perché tradizionalmente è stata la forma di shock più insita nella chirurgia, più studiata nell’eziologia e nelle modificazioni cardiocircolatorie, metaboliche, respiratorie e sistemiche in genere, e perché ha da sempre rappresentato il modello sperimentale e clinico di shock. Seguirà lo shock da patologia metabolica cellulare primitiva (iperdinamico, ad alto flusso), che più recentemente ha acquisito sempre maggiore importanza clinica per la notevole rilevanza della “sepsi” nei pazienti chirurgici, per la sua elevata morbilità e mortalità e per i grandi progressi di fisiopatologia compiuti negli anni più recenti, i quali hanno tra l’altro portato importanti contributi nel campo del monitoraggio e della terapia del paziente critico.

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Shock da patologia metabolica cellulare secondaria Risposta fisiopatologica Questo tipo di alterazione metabolica cellulare segue ad una ipoperfusione con conseguente riduzione dell’apporto di ossigeno e di substrati ai tessuti. È tipico dell’ipovolemia e dell’ipodinamismo (insufficienza cardiaca, vasoplegia). Tale forma di shock può essere prontamente ripresa se ne viene riconosciuta immediatamente la causa e se viene eliminata in modo adeguato come nella grave emorragia, corretta prontamente da rimpiazzo della volemia con liquidi, plasma, sostituti del plasma e soprattutto emotrasfusioni. La sua correzione è diversa e più problematica se sono in causa alterazioni organiche come nell’infarto miocardico o nell’embolia polmonare. Le condizioni di basso flusso (ipovolemia, ipodinamismo) e la conseguente ipoperfusione rappresentano uno stress per l’organismo, proporzionale alla gravità della noxa patogena, e se non rapidamente corrette provocano un insieme di modificazioni bioumorali conseguenti al mancato apporto di ossigeno a livello cellulare. Nel trattare la fisiopatologia di tale forma di shock faremo riferimento allo shock emorragico, non solo perché rappresenta la forma di shock ipovolemico più comune in chirurgia, ma anche perché storicamente è la più studiata sia dal punto di vista clinico che sperimentale. La riduzione della massa circolante (ipovolemia) comporta diminuzione del ritorno venoso (evidenziata dalla bassa pressione venosa centrale) con conseguente riduzione del riempimento ventricolare nella fase di diastole (precarico = pre-load) e quindi della gittata cardiaca (cardiac output). In risposta all’ipovolemia si verifica una immediata attivazione neurormonale indotta in gran parte dalla stimolazione di vari recettori con lo scopo di: { mantenere una adeguata perfusione degli organi vitali; z

{

ripristinare una volemia adeguata;

{

facilitare la mobilizzazione e la utilizzazione dei substrati energetici.

Tali effetti si esplicano in gran parte attraverso complessi archi riflessi che trovano i nuclei in diversi centri del sistema nervoso centrale, e i cui rami efferenti sono rappresentati dal sistema neurovegetativo e dall’asse ipotalamo-ipofisario (Fig. 9.2).Tale tipo di risposta è generalmente presente in ogni forma di stress e trauma, compreso quello chirurgico, e diventa più articolata negli stati infiammatori e settici (vedi fase preclinica della sepsi).

265

I recettori coinvolti in questa reazione sono: z barocettori (del seno carotideo e dell’arco aortico) sensibili alle modificazioni della pressione arteriosa; z volocettori (atriali) sensibili al volume di riempimento atriale; z chemocettori (del glomo carotideo) sensibili alle variazioni della pressione parziale di ossigeno e anidride carbonica nel sangue arterioso; z osmocettori (ipotalamici) sensibili alle variazioni della osmolarità plasmatica; z nocicettori (cutanei, viscerali, scheletrici) sensibili agli stimoli dolorosi. Gli effetti conseguenti alla loro stimolazione rappresentano costanti ed efficaci meccanismi di compenso all’ipoperfusione: z stimolazione del sistema nervoso simpatico cardiaco e vasomotore; z iperincrezione di numerosi ormoni ad azione metabolica e cardiovascolare: 266

z z z

z z z

catecolamine (midollare surrenale); vasopressina o ADH (neuroipofisi); attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone iuxtaglomerulare e corticale surrenale); ACTH, GH (adenoipofisi); cortisolo (corticale surrenale); glucagone (pancreas endocrino).

(apparato

z La risposta metabolica all’ipoperfusione consegue alla alterazione ossidativa derivante dal ridotto apporto di ossigeno e si prefigge di garantire ampia disponibilità di substrati energetici e in particolare di glucosio. La liberazione di catecolamine, cortisolo e glucagone facilita sia la risposta emodinamica (vasocostrizione, tachicardia, aumento della gittata) che quella metabolica. Tali ormoni, infatti, insieme all’inibita secrezione di insulina e all’instaurarsi di una insulino-resistenza periferica, determinano iperglicemia, lisi del glicogeno epatico e lipolisi: il glucosio rappresenta l’unico substrato energetico ossidato da alcuni organi e tessuti vitali (cervello, reni, globuli rossi). Sin dalle prime fasi si assiste, inoltre, a uno spiccato ipercatabolismo muscolare con dismissione di aminoacidi gluconeogenetici (per esempio alanina, glicina) che vengono trasformati a livello epatico in glucosio con produzione di urea. L’entità di tale trasformazione a scopo energetico può essere valutata dalla escrezione urinaria e giornaliera di urea o meglio di tutto l’azoto urinario (indice di catabolismo). Inoltre l’attivazione della lipolisi e della utilizzazione degli acidi grassi anche a livello dei tessuti periferici, visto l’elevato potere calorico dei lipidi, ha lo scopo di soddisfare le aumentate richieste energetiche. La ridotta disponibilità di ossigeno comporta un metabolismo cellulare prevalentemente anaerobio con liberazione di acido piruvico e accumulo di acido lattico, a loro volta utilizzati dal fegato a fini gluconeogenetici e trasformati quindi in glucosio. Nelle fasi avanzate il persistere della ipoperfusione comporta un mancato smaltimento dell’acido lattico liberato, con conseguente grave acidosi metabolica indice di uno scompenso metabolico spesso non facilmente correggibile (acidosi lattica).

La risposta cardiorespiratoria all’ipovolemia è assai precoce e spesso è da sola in grado di sopperire alla minore disponibilità di ossigeno. Essa è caratterizzata da fenomeni di compenso, per lo più mediati dalla già descritta attivazione simpaticoadrenergica, con lo scopo di redistribuire il volume ematico disponibile e assicurare un’adeguata perfusione agli organi più vitali: { vasocostrizione periferica sia venulare che arteriolare con lo scopo di mantenere il volume circolante e quindi il volume di riempimento cardiaco (vasocostrizione venulare) e la depressione arteriosa media (vasocostrizione arteriolare). Tale vasocostrizione è più marcata a livello di alcuni organi (cute, muscoli, reni, organi intraddominali), con lo scopo di rendere disponibile una maggiore quantità di sangue per ottenere una migliore perfusione nei distretti più “vitali” ad alto consumo di O2 (cuore, cervello); z

{ aumento della frequenza cardiaca e della contrattilità miocardica al fine di aumentare la gittata cardiaca e migliorare quindi il trasporto di O2. A ciò si associa altrettanto immediatamente, un’iperventilazione polmonare fino a situazioni di ipocapnia e alcalosi respiratoria, con il duplice scopo di facilitare l’assunzione di O2 e contrastare, insieme al compenso renale, l’acidosi metabolica conseguente all’ipoperfusione. A tali iniziali e rapide modificazioni seguono più lenti fenomeni di adattamento con lo scopo di ripristinare (o quanto meno migliorare) il volume di liquidi circolanti.

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Passaggio in circolo di liquidi (acqua, sodio, cloro) dal distretto extravascolare (refilling transcapillare) (Fig. 9.3) nella misura di 70-150 ml/ora, dovuto principalmente alla riduzione della pressione idrostatica intracapillare per effetto della costrizione arteriolare e degli sfinteri precapillari. A ciò si aggiunge un aumento della pressione osmotica extracellulare (aumento della concentrazione di glucosio) rispetto a quella intracellulare con ulteriore facilitazione del passaggio di liquidi al distretto extracellulare e quindi intravascolare. La stimolazione simpatico-adrenergica determina vasocostrizione arteriolare e venulare, e costrizione degli sfinteri precapillari; a ciò si aggiunge riduzione della pressione idrostatica intracapillare, per effetto dei fenomeni vasomotori, più intensi sul versante arteriolare, e dell’ipoperfusione prodotta dall’evento scatenante lo shock. Si modifica così l’equilibrio delle forze di Starling (pressione idrostatica ed oncotica dei compartimenti vascolare ed interstiziale, che regolano gli scambi di liquidi tra questi due compartimenti a livello del microcircolo) determinando un netto e prevalente passaggio di liquido interstiziale all’interno dei capillari, con conseguente incremento/espansione della volemia.Tale fenomeno viene indicato con il termine di refilling proprio per esprimere il riempimento del compartimento vascolare a spese del compartimento interstiziale (Fig. 9.3). z

z

Aumentato riassorbimento renale di sodio e acqua. Tale fenomeno è dovuto: { all’iperincrezione di renina determinata dalla stimolazione simpaticoadrenergica diretta e dall’ipotensione a livello delle arteriole glomerulari afferenti con conseguente produzione di aldosterone (aumentato riassorbimento di sodio e acqua a livello dei tubuli contorti distali); all’iperincrezione di ormone antidiuretico (ADH), quale espressione della risposta neuroendocrina (comune a tutte le forme di stress) con conseguente ulteriore riassorbimento di acqua a livello dei tubuli contorti distali e dei dotti collettori. {

z

La contemporanea perdita di idrogenioni per effetto dell’aldosterone incrementa la riserva alcalina contrastando la tendenza all’acidosi tipica dell’ipoperfusione.

Lo shock ipodinamico-ipovolemico da vasoplegia per cause neurogene o umorali (anafilattico) segue sul piano metabolico, emodinamico e cardiorespiratorio la fisiopatologia sopradescritta, considerando che l’alterazione primaria (aumento della capacitanza del microcircolo) si traduce in un sequestro di liquidi dal distretto intravascolare. z

Nello shock anafilattico predominano le modificazioni indotte dalla reazione antigeneanticorpo e dalla liberazione di istamina e sostanze istamino-simili (edema della glottide, broncospasmi) con intensa vasodilatazione periferica, permeabilizzazione capillare e ipotensione. z

z Nello shock cardiogeno l’alterazione fisiopatologica deriva dalla incapacità del cuore a produrre una gittata per mantenere un trasporto di O2 adeguato alle richieste dei tessuti periferici. Le cause di tale alterazione sono da ricercare in una diretta compromissione miocardica (tra le più frequenti: infarto, aritmie) o in una compromissione della contrattilità per compressione sul miocardio sano (tamponamento cardiaco, pericardite, pneumotorace iperteso) o infine per difficoltà più o meno marcata del flusso del piccolo circolo (embolia polmonare). Tali cause, cardiache ed extracardiache, sono riassunte nella Tabella 9.1. La riduzione della gittata cardiaca determina modificazioni emodinamiche simili a quelle dell’ipovolemia,con qualche differenza negli effetti,legata alla patologia intrinseca cardiaca: { aumento della pressione venosa centrale (reso evidente dal turgore delle vene giugulari e da cianosi nel distretto delle spalle e del collo) per difficoltà di contrattilità e quindi di pompa

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e per l’aumentato ritorno venoso; tendenza al sovraccarico ventricolare sinistro sino allo scompenso congestizio e nel distretto polmonare sino all’edema (edema polmonare cardiogeno), causato dall’aumentato ritorno venoso al cuore destro, effetto della vasocostrizione periferica venulare; {

aumento del lavoro cardiaco e del consumo di O2 cardiaco determinato oltre che dalla patologia primitiva, dalla tachicardia e dalla vasocostrizione arteriolare (aumento del postcarico . after load), con ulteriore aggravio ischemico a livello del circolo coronarico; {

{

z

aumento dell’estrazione periferica di O2 per sopperire al ridotto apporto di O2.

Appare evidente che l’andamento clinico e quindi la prognosi sono determinati dal trattamento dello shock e dall’evoluzione della patologia cardiaca o extracardiaca che ha determinato l’alterazione della contrattilità miocardica.

 Un cenno particolare merita lo shock dopo pancreatite acuta necroemorragica che nelle fasi iniziali è a basso flusso a causa di ipovolemia (plasmorragia, sequestro di liquidi nel retroperitoneo, ileo dinamico), di emorragia (emorragie pancreatiche), di vasoplegia (liberazione di chinine e altri mediatori umorali vasodilatanti). Successivamente in caso di evoluzione settica (necrosi pancreatica infetta, ascesso) segue l’andamento tipico di questa forma.

Segni clinici dell’insufficiente apporto di ossigeno Qualunque ne sia la causa, i segni clinici che caratterizzano questa condizione sono espressione dei meccanismi messi in atto dall’organismo per far fronte al ridotto o mancato apporto di O2 ai tessuti (su base circolatoria). Il prototipo di tale forma di shock è quello che segue a emorragia acuta, ma il comportamento clinico non è diverso in caso di ipovolemia da perdite di plasma o liquidi (ascite, occlusione intestinale, ustioni, diarrea, pancreatite) o in caso di insufficienza cardiaca contrattile o infine in caso di vasoplegia. Generalmente, un soggetto sano può perdere fino al 10% del volume ematico totale senza o con minime alterazioni della gittata cardiaca e della pressione arteriosa. Oltre tale limite compaiono progressivamente manifestazioni cliniche espressione della reazione neurormonale che ha come scopo primario il mantenimento di un adeguato flusso di O2 al cuore e al SNC, anche a spese di altri tessuti. 269

Tra i primi a comparire, gli effetti della stimolazione simpaticoadrenergica, ciò che peraltro incide in misura diversa a seconda dei distretti interessati. Così l’iniziale vasocostrizione arteriolare interessa la cute (pallida, fredda, sudata), i reni (oliguria con ritenzione di acqua e sodio), il distretto splancnico e muscolare (pur senza evidenza clinica diretta) con l’intento di redistribuire il volume ematico verso cuore e cervello le cui arteriole, tra l’altro, non subiscono vasocostrizione. Anche la vasocostrizione venosa trova solo in parte espressione clinica: è evidente il collasso delle vene superficiali ma manca l’evidenza clinica del ben più cospicuo svuotamento del reservoir venoso muscolare e splancnico. Il comportamento delle vene giugulari esterne al collo varia a seconda che si tratti di ipovolemia e/o vasoplegia (giugulari collassate) o di insufficienza cardiaca soprattutto se destra (giugulari turgide) per impedimento del ritorno venoso. L’oliguria è espressione dello stimolo adrenergico (vasocostrizione) e dell’aumentata increzione ormonale (aldosterone e ADH); è un sintomo precoce, spesso non rilevabile per la mancanza di un catetere vescicale, di entità diversa, spesso anche transitoria, correlabile con l’entità del danno (ipovolemia, ipoperfusione). Tale sensibilità del rene è finalisticamente correlata alla sua capacità di mantenere la volemia, e certamente precede modificazioni della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. La frequenza cardiaca subisce delle modificazioni variabili e non sempre precoci. La tachicardia, espressione della stimolazione simpatica, può essere assente o di moderata entità: diventa più evidente e in relazione all’entità del danno quando assume meccanismo di compenso (per aumentare nell’unità di tempo la gittata cardiaca) all’ipovolemia, alla vasoplegia o all’ipossia (embolia polmonare). Possono comparire, tuttavia, bradicardia o aritmie di vario tipo proprio su base ipossica, aggravate dall’acidosi. La pressione arteriosa nelle fasi iniziali, in virtù dei vari meccanismi di compenso, può essere normale o più spesso aumentata indicando l’efficacia della vasocostrizione arteriolare (aumento sistolica) e venulare (aumento diastolica). È frequente, tuttavia, riscontrare una ipotensione ortostatica, per mancanza del riflesso vasocostrittore, già intensamente attivo in posizione supina. Solo quando la perdita di volume circolante (per ipovolemia, ipogittata o aumento della capacitanza vascolare periferica) è di tale entità da superare la massima capacità di compenso, si assiste a ipotensione (Tab. 9.3). Viene così sfatato, anche sulla base dei segni clinici, il significato preminente dato alla tachicardia e all’ipotensione quali indicatori precoci della ipovolemia e della ipoperfusione. L’iperventilazione sino alla dispnea è segno costante che indica l’importante ruolo di controllo dei polmoni in risposta all’acidosi e all’ipossia. Sempre queste due condizioni sono alla base delle alterazioni a carico del SNC e che vanno da uno stato di agitazione e ansietà sino alla confusione e al coma.

Segni clinici particolari 270

In molte circostanze i dati anamnestici o l’obiettività clinica indirizzano verso la diagnosi eziologica di shock. Così per esempio: z dolore precordiale più o meno prolungato e non sensibile alla trinitrina, talora bradicardia e ipotensione (segni di iperattività vagale), aritmie ipercinetiche (extrasistolia-tachicardia ventricolare) o ipocinetiche (bradicardia, blocchi atrioventricolari), ritmo di galoppo, dispnea, rantoli polmonari (segni di disfunzione ventricolare sinistra) indicano l’infarto cardiaco o l’aneurisma dell’aorta toracica in fase di rottura; z dolore improvviso toracico, dispnea marcata, emottisi a seconda dei casi e della gravità fanno pensare all’embolia polmonare (soggetti a rischio) o al pneumotorace; z dolori addominali indirizzano verso la diagnosi di occlusione intestinale, infarto intestinale, pancreatite acuta, aneurisma dell’aorta addominale in fase di rottura; z dati anamnestici come traumi, anestesia, interventi chirurgici, uso di farmaci anafilattogeni, malattie del SNC, chiariscono di per sé la natura dello shock.

Evoluzione dello shock a basso flusso L’evoluzione clinica di tale forma di shock dipende dal pronto riconoscimento e precoce trattamento (vedi principi di terapia) della forma di shock in sé e della causa che lo ha determinato. Inizialmente la gravità è legata all’evento scatenante lo shock (emorragia, ipovolemia, insufficienza cardiaca, vasoplegia).Altrettanto precocemente, comunque, possono intervenire, quale effetto della ipoperfusione e del ridotto apporto di ossigeno, alterazioni a carico di organi e tessuti. Infatti al di là dei meccanismi di compenso fisiologico già menzionati, l’ipoperfusione e il ridotto apporto di ossigeno comportano danni tissutali a carico di tutti gli organi. L’entità di tale danno dipende dalla gravità dello shock, dalla sua durata, dalla sensibilità dei singoli organi all’ipossia, dalla prontezza e dall’adeguatezza degli interventi terapeutici.  L’insieme di tali fattori può concorrere a determinare insufficienza di una o più funzioni organiche (per es.: insufficienza renale, polmonare, cardiaca, epatica) sino al cosiddetto quadro di “insufficienza pluriorganica” o “multiple organ failure”analogo a quello che si osserva nei gravi traumatismi e nella sepsi. Ciò a dimostrare ancora una volta come l’alterazione cellulare, sia che consegua a un difetto di trasporto di O2 (shock ipovolemico, ipodinamico) o a un difetto di utilizzazione di O2 (sepsi), conduce a effetti sui singoli organi non dissimili tra loro con analoga evoluzione clinica.

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Shock da patologia metabolica cellulare primitiva È rappresentato fondamentalmente dagli effetti del danno alla cellula e ai suoi meccanismi biochimici determinato direttamente da microrganismi (batteri, virus, miceti) e da loro prodotti: alle iniziali alterazioni subcellulari, se il processo evolve, segue interessamento di organi e tessuti anche lontani dal focolaio infiammatorio, con lo scopo iniziale di compenso, ma che può evolvere (come per l’altra forma di shock) in un quadro di insufficienza multiorganica. Viene definito anche “shock ad alto flusso” per le importanti e costanti modificazioni cardioemodinamiche che assumono un ruolo determinante e una caratteristica peculiare nella evoluzione della malattia.

Definizione di infezione, sepsi e sindromi correlate Preliminarmente appare importante precisare la terminologia abitualmente utilizzata nell’ambito di questa patologia. A tale scopo, consci della difficoltà e delle tante definizioni applicate al paziente settico, nel 1991 due società scientifiche americane (l’American College of Chest Physicians e la Society of Critical Care Medicine) hanno promosso una riunione di esperti mondiali per definire le varie situazioni cliniche osservabili nei pazienti settici e uniformare la terminologia. Sono state così stabilite le seguenti definizioni:  x Infezione. È il fenomeno caratterizzato dall’invasione, da parte di qualunque tipo di microrganismo, di tessuti sterili dell’organismo: la gran parte delle infezioni provoca una risposta infiammatoria locale, moltissime restano subcliniche e solo “pochi” microrganismi che “infettano” provocano malattia. x Batteriemia. È data dalla presenza di batteri vitali nel sangue. Analoga terminologia è valida per la presenza nel sangue di virus, miceti, parassiti (rispettivamente: viremia, fungemia, parassitemia). x SIRS: Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica. È la risposta infiammatoria sistemica a una varietà di insulti clinici di una certa gravità compreso il trauma e lo stress chirurgico. È caratterizzata da due o più delle seguenti condizioni: Ⴜ temperatura > 38 °C o < 36 °C; Ⴜ frequenza cardiaca > 90 battiti/min.; Ⴜ frequenza respiratoria > 2 atti/min.o PaCO2 < 32 mmHg; Ⴜ globuli bianchi > 12.000 per mm 3,< 4000 per mm 3 o più del 10% di forme immature. x Sepsi. Rappresenta la risposta sistemica dell’organismo all’infezione. È manifestata da due o più condizioni cliniche (come la SIRS) come effetto di un insulto infettivo: Ⴜ temperatura > 38 °C o < 36 °C; Ⴜ frequenza cardiaca > 90 battiti/min.; Ⴜ frequenza respiratoria > 2 atti/min. o PaCO2 < 32 mmHg; Ⴜ globuli bianchi > 12.000 per mm3,< 4000 per mm 3 o più del 10% di forme immature. x Setticemia. Questo termine non dovrebbe essere più utilizzato, almeno comunemente.

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x Sindrome settica. Sepsi + una insufficienza di organo: anche questa definizione non viene più consigliata nella pratica clinica. x Sepsi severa. Sepsi associata a disfunzione di organo, ipoperfusione o ipotensione. Ipoperfusione o ipotensione possono comprendere acidosi lattica, oliguria, o alterazioni acute dello stato mentale. x Ipotensione determinata da sepsi. Una pressione arteriosa sistolica < di 90 mmHg o una riduzione di pressione > di 40 mmHg dal valore di base, in assenza di altre cause di ipotensione. x Shock settico. Sepsi nel “momento” in cui il compenso emodinamico è sopraffatto e quindi compare ipotensione, vasocostrizione, spesso ipotermia, nonostante una adeguata fluidoterapia. Segni di ipotensione possono comprendere acidosi lattica, oliguria, acuta alterazione dello stato mentale. In caso di somministrazioni di inotropi o farmaci vasopressori tali segni di ipoperfusione possono comparire senza che vi sia ipotensione. Tali modificazioni possono manifestarsi in qualunque stadio del processo settico, e sono più frequenti nelle fasi tardive quando vi è maggiore compromissione cellulare e organica, e ovviamente peggiorano la prognosi. x MODS: Sindrome da Disfunzione Multiorgano. Implica la presenza di alterazioni della funzione di vari organi in un paziente critico in cui non sia possibile mantenere una omeostasi senza interventi terapeutici. Qualunque sia il focolaio settico di origine (tra l’altro non sempre facilmente identificabile), si può verificare sul piano organismico una risposta fisiopatologica e sintomatologica correlata con la presenza del focolaio infettivo, con la presenza in circolo di microrganismi (batteriemia, setticemia) e/o loro prodotti tossici (endotossinemia), e infine con gli effetti dei numerosi mediatori umorali liberati e con i conseguenti meccanismi immunitari attivati a scopo difensivo: è questo il quadro morboso che definiamo sepsi o stato settico. Tuttavia spesso, nonostante l’evidenza clinica di uno stato settico, risulta difficile identificare il focolaio di infezione e documentare la presenza di microrganismi in circolo (emocolture negative). In ogni caso, sia che vi sia evidenza del focolaio e dei germi responsabili sia che questo avvenga successivamente, si assiste a più o meno importanti modificazioni dell’organismo dovute al danno cellulare indotto dai microrganismi. Gli studi più recenti unitamente alla constatazione della vastità, complessità e importanza sul piano diagnostico, prognostico e terapeutico di tale risposta fisiopatologica, confermano che la sepsi può essere considerata una malattia acquisita del metabolismo intermedio indotta da microrganismi o da loro prodotti e dalla stessa risposta immunologica dell’ospite all’invasione di agenti infettivi. La natura e l’entità di tale risposta non sono specifici e non dipendono né dal tipo di infezione (batterica, virale, fungina) né dalla carica dei microrganismi. Il coinvolgimento fisiopatologico dell’organismo è, come già detto, globale e rappresenta la risposta al danno cellulare (alterazioni del metabolismo ossidativo) determinato direttamente da microrganismi, da loro prodotti tossici e dai prodotti di degradazione tissutale. Di fronte a tale insulto, infatti, l’organismo opera una intensa risposta bioumorale, immunitaria e metabolica che, insieme all’adattamento cardio-emo-dinamico e respiratorio esposto successivamente in dettaglio, ha lo scopo di favorire: z un’azione di difesa diretta contro i microrganismi e i loro prodotti tossici; z una limitazione e riparazione dei danni indotti dai microrganismi; z un aumento dell’apporto di O2 ai tessuti (che presentano chiari segni di incapacità ossidative). La sepsi è condizione assai frequente nel paziente chirurgico e traumatizzato: è favorita dalla 273

malattia di base, da condizioni che provocano immunodepressione (malnutrizione, terapie immunosoppressive), dalle frequenti e indispensabili procedure diagnostico-terapeutiche (uso di cateteri, interventi chirurgici) che interrompono le barriere anatomiche di protezione dagli agenti patogeni. La mortalità, nonostante i progressi terapeutici, è ancora elevata: varia dal 20 al 50%, ed è ancor più elevata nelle fasi avanzate. Il termine di “shock settico”va riservato al “momento”più o meno duraturo, in cui il compenso emodinamico non è più adeguato nonostante adeguata fluidoterapia e quindi compaiono ipotensione (pressione sistolica < 90 mmHg), vasocostrizione, spesso ipotermia (shock algido): tali modificazioni possono manifestarsi in qualunque stadio del processo settico, ma sono più frequenti nelle fasi tardive quando vi è maggiore compromissione cellulare e organica, e ovviamente aggravano la prognosi. I pazienti che ricevono inotropi e vasopressori possono non presentare ipotensione nonostante siano evidenti i segni di ipoperfusione. L’instaurarsi di una sepsi comporta quindi un insieme di modificazioni neurormonali, immunologiche e metaboliche che alterano i meccanismi di difesa dell’organismo. L’alterazione primitiva è a livello cellulare e sconvolge i metabolismi: la difficoltà di utilizzare ossigeno da una parte e la messa in opera dei meccanismi di difesa dall’altra comportano una ristrutturazione biologico-umorale che è alla base di ulteriori alterazioni multisistemiche (cardio-emodinamiche, respiratorie, renali, epatiche, cerebrali), che concorrono a produrre il quadro tipico della sepsi clinica. Dalla lesività prodotta direttamente dai microrganismi o dai loro prodotti tossici a livello cellulare, dalla risposta bioumorale (effetti dannosi di mediatori) e dagli effetti derivanti dai meccanismi di adattamento possono derivare condizioni di scompenso organico (insufficienza cardiaca, circolatoria, respiratoria, renale, epatica, cerebrale), assai spesso responsabili dell’esito letale.  Sulla base delle modificazioni fisiopatologiche è possibile riconoscere diverse fasi (Fig. 9.4) nell’evoluzione del processo settico: x fase preclinica; x fase di compenso; x fase di scompenso; x fase di insufficienza pluriorganica.

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Sepsi: quadri clinici e corrispettivi stadi fisiopatologici Fase preclinica La maggioranza degli stati settici di interesse chirurgico fa seguito a un “evento traumatico” acuto che si configura per lo più come una distruzione di tessuti con interruzione della barriera naturale che esiste tra microrganismi e organismoospite; tale evento (“injury” degli autori anglosassoni o “trauma” in senso lato) può essere determinato da un vero e proprio traumatismo accidentale, da un trauma anestesiologicochirurgico o spesso da un evento patologico acuto (emorragia gastrointestinale massiva, pancreatite acuta, perforazione di un viscere cavo). Nel periodo che intercorre tra il “trauma” e l’eventuale sviluppo di una sepsi clinicamente evidente (iperpiressia, leucocitosi, emocoltura positiva, presenza di materiale purulento) avviene il confronto tra microrganismo e ospite: tra entità e qualità della invasione batterica e adeguatezza dell’attivazione delle difese specifiche e aspecifiche dell’organismo. Se fino a qualche tempo fa questa fase veniva qualificata principalmente sotto il profilo neuroendocrino, come aspetto della “risposta allo stress” (attivazione simpatica/parasimpatica con iperproduzione di corticosteroidi, catecolamine, glucagone, insulina), le ricerche di questi ultimi anni hanno evidenziato come accanto a tali fenomeni vi sia una più complessa attivazione immunobiologica (Fig. 9.5) che coinvolge il sistema immunitario, il sistema del complemento, il sistema reticoloendoteliale e una serie di mediatori, per lo più citochine, liberati principalmente dall’attivazione di macrofagi, monociti e altre cellule, che propiziano gli iniziali meccanismi di difesa al microrganismo invasore. Nelle fasi successive le azioni di tali mediatori e delle citochine in particolare contribuiscono ad automantenere, nella sepsi e ancor più nella MOF, le caratteristiche alterazioni fisiopatologiche.

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La Tabella 9.4 riassume alcuni dei mediatori umorali coinvolti nella patogenesi della sepsi. Molti di essi sono implicati nella risposta allo stress e al trauma (non settico) e spesso hanno azione sinergica o specifica su alcuni organi.

L’interleuchina-1 (IL-1) è stata tra le prime citochine studiate e sembrerebbe essere responsabile, insieme alla attivazione di tutti gli altri mediatori, di molti processi biologici già evidenziabili in questa iniziale fase della sepsi (Fig. 9.6): z stimolazione della gluconeogenesi epatica e della sintesi epatica di “proteine della fase acuta”; z induzione e mantenimento della proteolisi muscolare (attraverso un suo prodotto di clivaggio, 276

z z

il PIF o Proteolysis Inducing Factor); aumento della temperatura corporea, forse per azione diretta a livello diencefalico; stimolo, a livello del midollo osseo, della produzione e messa in circolo dei polimorfonucleati.

Per effetto globale dei mediatori implicati,si assiste quindi sin da questa fase a una attivazione dei metabolismi con ipercatabolismo proteico da una parte (muscolo) e contemporanea stimolazione della protidosintesi dall’altra (fegato): in pratica il muscolo e i tessuti periferici immolano le proprie proteine strutturali per assicurare energia (aminoacidi gluconeogenetici – alanina, glutamina) e aminoacidi per le sintesi di proteine con maggiore significato di “difesa” (proteine di fase acuta). L’entità di tale catabolismo viene documentata dalla escrezione giornaliera di azoto (urea, creatinina, acido urico e 3-metil-istidina) nelle urine delle 24 ore. Le proteine di fase acuta (Tab. 9.5) sembrano giocare un ruolo importante sin dall’iniziale invasione dei microrganismi: le azioni opsonizzante e favorente la fagocitosi, antiossidante, antiproteasica, antienzimatica, conferiscono loro un ruolo di protezione dell’organismo ospite. La presenza di tali proteine sin da questa prima fase sembra essere correlata con la capacità dell’organismo a resistere e a controllare l’insulto settico, mentre altre osservazioni suggeriscono che l’insufficienza epatocellulare e un’inappropriata sintesi proteica, insieme a uno stato di relativa immunodepressione (ridotta funzione leucocitaria e del sistema reticoloendoteliale, mancata attivazione del complemento) possono essere fattori critici di passaggio alle successive fasi della sepsi. Sempre in tale fase, è possibile riscontrare una neutropenia relativa, in parte segno di mancata attivazione leucocitaria e quindi di ridotta immunocompetenza, in parte per fenomeni di marginazione e di diapedesi con accumulo dei leucociti nel focolaio di infezione in via di formazione. Tra i meccanismi direttamente innescati dai microrganismi, da endotossine e da altri 277

prodotti batterici, tra i molti ancora sconosciuti e in fase di studio, ricordiamo l’attivazione della fosfolipasi a livello della membrana cellulare, che stimola la liberazione di leucotrieni, prostaglandine e trombossani. Le cellule che contengono fosfolipasi A2 (per es. neutrofili, monociti, piastrine) vengono stimolate a produrre un fattore attivante le piastrine (PAF: Platelet Activating Factor). Questi mediatori dell’infiammazione hanno influenza sul tono vascolare (riducendolo), sulla permeabilità del microcircolo, e sulla aggregazione di leucociti e piastrine configurando un “danno dell’endotelio” a carico di tutti gli organi, anche lontani dal primitivo focolaio settico.

Per esempio trombossano A2 e prostaglandina F2 producono marcata vasocostrizione polmonare, leucotrieni C4 e D4 producono marcata permeabilità capillare, leucotrieni B4 e PAF promuovono aggregazione piastrinica e attivazione dei neutrofili. I microrganismi attivano, ancora, la via classica del complemento, e le endotossine attivano la via alternativa: entrambe portano alla produzione dei fattori C3a e C5a del complemento con ulteriore effetto sulla aggregazione piastrinica e dei neutrofili e di riduzione del tono vascolare periferico. L’attivazione del complemento, la sintesi di leucotrieni e l’effetto diretto delle endotossine sui neutrofili promuovono l’accumulo di aggregati di tali cellule nell’interstizio polmonare, il rilascio dei loro enzimi lisosomiali, e la produzione di radicali liberi dell’O2, che si rivelano tossici per l’endotelio polmonare, iniziando, così precocemente, il quadro della insufficienza respiratoria acuta. L’attivazione del sistema coagulativo comporta la sintesi di trombina e la formazione precoce di trombi piastrinici nella microcircolazione di molti tessuti. L’interesse di tutti questi fenomeni risiede nel fatto che proprio in questa fase si decide l’eventuale evoluzione verso lo stato di sepsi clinicamente evidente.

Fase di compenso È lo stato di sepsi clinicamente evidente in cui l’invasione batterica prevale sulle difese dell’ospite e in cui si fa ancora più conclamata l’attivazione del sistema neuroendocrino e immunitario (macrofagi, interleuchine, PIF, complemento, e altri fattori non ancora conosciuti). Anche gli effetti delle endotossine – cui in passato è stata attribuita grande importanza patogenetica – sarebbero in realtà mediati dal sistema adrenergico e da vari mediatori umorali. Si assiste a un aumento delle richieste metaboliche di tutti i tessuti, del consumo di ossigeno e del metabolismo basale, soltanto in parte legato all’aumento della temperatura corporea, mentre a livello dei tessuti periferici vi è un aumentato catabolismo proteico (soprattutto delle proteine muscolari) e un certo grado di insulino-resistenza (fenomeno postrecettoriale di natura non del tutto chiarita e legato secondo alcuni studi a un deficit della piruvicodeidrogenasi) che si manifesta con iperglicemia, 278

relativa intolleranza alla somministrazione di glucosio e necessità di somministrare insulina. A ciò si associa una utilizzazione preferenziale di altri substrati (lipidi, proteine) con conseguente diminuzione relativa della produzione di anidride carbonica (VCO2) rispetto al consumo di ossigeno (VO2) e quindi con riduzione del quoziente respiratorio (RQ: Respiratory Quotient). A livello epatico vi è marcata sintesi e dismissione di proteine di fase acuta, con aumentata captazione da parte del fegato di aminoacidi (disponibili grazie al catabolismo muscolare) destinati alla sintesi di proteine e di glucosio. Recenti studi hanno evidenziato aumentata utilizzazione periferica ed epatica di aminoacidi ramificati (utilizzati sia perifericamente a fini energetici che nel fegato a fini protido-sintetici) e normale o ridotta utilizzazione di aminoacidi aromatici. Ne consegue uno squilibrio nei livelli plasmatici di aminoacidi ramificati (riduzione) e aromatici (aumento), quadro simile a quello osservato nei pazienti cirrotici con encefalopatia e che potrebbe essere alla base delle alterazioni mentali osservate nella sepsi.

L’aumentato catabolismo muscolare e l’utilizzazione di aminoacidi a fini gluconeogenetici giustificano l’aumentata ureogenesi con elevate perdite urinarie di azoto ureico e 3-metilistidina, con bilancio azotato complessivamente negativo. Alterazioni cardiocircolatorie. Lo stato di ipermetabolismo innesca una reazione di adattamento cardiocircolatorio che ha lo scopo di aumentare la disponibilità periferica di O2 e di diminuire le conseguenze del difetto cellulare di estrazione di O2. Il difetto, sia pure non marcato,della estrazione di O2 (riduzione della differenza arterovenosa di O2) e la perdita del tono vascolare (riduzione delle resistenze vascolari periferiche) sono alla base della sindrome z

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iperdinamica di compenso cardiocircolatorio all’insulto settico (Fig. 9.8): aumento della gittata cardiaca,della frequenza,del consumo di O2.La pressione arteriosa è normale a meno di insufficiente apporto di liquidi. Tale risposta iperdinamica, favorita dalla stimolazione adrenergica, può essere mascherata da ipovolemia per insufficiente apporto di liquidi o per la presenza di alcuni mediatori miocardiodepressori, frequenti, anche nelle fasi precoci della sepsi. Ne consegue un aumento del lavoro cardiaco che può protrarsi per settimane o mesi in condizioni di debilitazione funzionale.

Alterazioni respiratorie. La funzione respiratoria può risultare compromessa per il variabile combinarsi di modificazioni polmonari organiche e funzionali (maldistribuzione del flusso ematico e della ventilazione alveolare). Nelle fasi precoci le alterazioni organiche riguardano l’aumento della permeabilità vasale (per l’azione di mediatori) e l’edema interstiziale (facilitato dall’ipoalbuminemia). Da ciò derivano alterazioni della ventilazione e perfusione degli alveoli per riduzione della elasticità e della ventilazione degli stessi; l’aumentato drenaggio linfatico, a causa dell’edema, comporta ingorgo dei linfatici polmonari all’interno delle piccole vie aeree, riducendone il calibro, aumentando la resistenza al flusso aereo e causando ipoventilazione distrettuale.A queste lesioni si associano frequentemente microatelettasie (aggravate da alterazione del surfactant, da ritenzione di secrezioni, da ipoespansione toracica) e microembolie. Tali lesioni non sono sempre clinicamente o radiologicamente evidenti: è facile tuttavia che si complichino e che insorgano focolai infettivi. z

Le alterazioni funzionali non sono di minore importanza: tendono a manifestarsi precocemente, a complicarsi, a combinarsi con quelle organiche. La condizione iperdinamica e l’aumentato flusso ematico polmonare insieme all’azione vasoattiva dei mediatori umorali e delle catecolamine, inducono modificazioni dei regimi pressori nell’albero vascolare polmonare, con conseguente maldistribuzione del flusso che comporta iperperfusione di aree in cui prevalgono alveoli poco ventilati (effetto “shunt”) e ipoperfusioni di aree in cui prevalgono alveoli ben ventilati (effetto “spazio morto”). L’aumento dello shunt è causa di ipossiemia arteriosa; l’aumento dello spazio morto determina iperventilazione spesso aggravata dall’aumentata produzione di CO2, legata all’ipermetabolismo e all’acidosi.Tali alterazioni sono sul piano clinico e radiologico poco evidenti: un accurato monitoraggio della funzione respiratoria consente di evidenziarle sin dalle fasi più precoci e di instaurare le opportune terapie prima che esse si manifestino nelle forme cliniche più 280

gravi e spesso irreversibili. Caratteristica estremamente importante di questa fase della sepsi è una discreta risposta positiva alla terapia di sostegno metabolico-nutrizionale e cardiorespiratorio. Da sottolineare ulteriormente che l’iperdinamismo cardiovascolare rappresenta un modo di compenso al danno metabolico cellulare primitivo e da esso dipende in notevole misura la possibilità dell’organismo di far fronte all’evento settico. Da qui l’utilità di somministrare farmaci inotropi positivi (digitale, dopamina, dobutamina) e di ottimizzare la volemia, in quanto un’eventuale condizione di insufficienza cardiocircolatoria, in presenza di aumentate richieste di O2, è correlata con una alta letalità.

Fase di scompenso Avviene quando i meccanismi di compenso metabolico-circolatorio diventano insufficienti a soddisfare le aumentate richieste tissutali di energia: questo coincide con un peggioramento del danno ossidativo. Benché il consumo di O2 possa essere su valori apparentemente normali o di poco inferiori alla norma,è in realtà insufficiente alle richieste energetiche dell’organismo. A livello tissutale si sviluppa una resistenza evidente non solo ai substrati glucidici ma anche ai lipidi, in parte spiegata da un blocco enzimatico nel catabolismo lipidico e/o dal deficit di cofattori che ne facilitano l’ossidazione. Recenti studi sperimentali sull’animale hanno evidenziato che nelle fasi avanzate della sepsi vi sia un blocco dell’attività della piruvicodeidrogenasi (enzima dal quale dipende l’accesso del piruvato nel ciclo di Krebs via acetil-CoA) che avverrebbe più precocemente a livello del muscolo scheletrico e soltanto tardivamente a livello epatico. Le attività metaboliche epatiche appaiono ancora funzionanti: si mantiene elevata la gluconeogenesi e quindi la ureogenesi, e gli aminoacidi diventano il substrato energetico preferenziale. In particolare vi è una utilizzazione preferenziale di aminoacidi gluconeogenetici e ramificati (BCAA: Branched Chain Amino Acids), mentre si accumulano gli aminoacidi aromatici (AAA: Aromatic Amino Acids) con ulterio-re squilibrio del pattern aminoacidico plasmatico e riduzione del rapporto BCAA/AAA (valore normale = 2,15): ne consegue, come nella cirrosi, un’alterazione nella produzione dei neurotrasmettitori (per eccesso di fenilolanina, tirosina e triptofano precursori dei normali neurotrasmettitori del sistema dopaminergico e serotoninergico) con la sintesi di “falsi” neurotrasmettitori (octopamina, feniletanolamina) che dimostrano azioni sia sul sistema nervoso centrale (encefalopatia settica) che sul distretto circolatorio periferico (riduzione del tono vascolare tipico della sepsi). Dal punto di vista circolatorio, infatti, si assiste a estrema riduzione delle resistenze vascolari periferiche, ulteriore riduzione della differenza artero-venosa di O2 (indice della mancata estrazione di O2 da parte dei tessuti), persistenza dell’iperdinamismo (ormai insufficiente però a compensare lo stato dismetabolico), e soprattutto insorgenza di uno stato di acidosi metabolica da accentuazione della glicolisi anaerobica con iperproduzione di acido lattico.

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Il deficit di produzione di energia si riflette anche sulla pompa del sodio e del potassio a livello delle membrane cellulari. Ioni sodio cominciano ad accumularsi nel distretto intracellulare e richiamano con sé acqua, producendo rigonfiamento e peggiorando così le funzioni cellulari. Questa fase evolve facilmente, ma non sempre, in quella preterminale; nei casi potenzialmente reversibili (per esempio per la risoluzione del focolaio settico) le capacità di sopravvivenza sono legate alla adeguatezza dello stato nutrizionale e delle riserve calorico-protidiche precostituite nonché al mantenimento di una ottimale funzionalità cardiaca, oltre che alle condizioni degli altri organi vitali.

Complicanze intercorrenti: insufficienza di una singola funzione In qualunque momento del processo settico (sia in fase di compenso che di scompenso) la situazione clinica può mutare drasticamente in seguito alla comparsa di una patologia d’organo che può costituire una causa immediata di deterioramento delle condizioni di equilibrio fisiopatologico (che può condurre alla fase di insufficienza pluriorganica) o addirittura di rapida evoluzione mortale. Ciò può essere dovuto sia a fattori iatrogeni (non adeguata replezione idroelettrolitica,mancato supporto cardiaco) sia a spontaneo deterioramento a carico di un organo già “meiopragico” (per 282

es.preesistente insufficienza polmonare, cardiaca, o renale “borderline”; preesistenti anomalie della coagulazione) o deteriorato dalle modificazioni indotte dalla sepsi stessa (per es. aumento del lavoro cardiaco,respiratorio). La gravità della singola condizione patologica e la tempestività e adeguatezza dell’intervento terapeutico determinano l’evoluzione verso il superamento del problema “d’organo”, verso un quadro clinico di insufficienza pluriorganica, oppure verso l’exitus. Le alterazioni più comuni riguardano: z il cuore (scompenso cardiaco con riduzione della gittata e aumento della differenza arterovenosa di O2, nonostante lo stato settico persista); z i polmoni (insufficienza respiratoria acuta del tipo ARDS, Adult Respiratory Distress Syndrome, con gravi alterazioni degli scambi alveolocapillari oppure da focolai broncopneumonici, atelettasia, embolia); z i reni (insufficienza renale acuta da sepsi e/o da farmaci e/o su base circolatoria, in ogni caso con spiccato aumento del catabolismo proteico); z il fegato (insufficienza epatica da sepsi e/o da farmaci).

Fase di insufficienza multiorganica (MOFS: Multiple Organ Failure Syndrome) È caratterizzata dal massimo sconvolgimento metabolico, clinicamente riconoscibile per la progressiva malfunzione (MODS: Multiple Organ Dysfunction Syndrome) sino all’insufficienza (“failure”) di più organi (polmoni, cuore, reni, fegato, SNC). Sino a qualche anno fa giudicata fase terminale, a prognosi infausta, presenta a tutt’oggi una elevata mortalità, giudicabile mediamente intorno al 60%.

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Classicamente segue a eventi traumatici (politraumi con o senza shock ipovolemico) e/o settici, in organismi, quindi, che hanno mantenuto per un periodo piuttosto prolungato una profonda ristrutturazione metabolica nel tentativo di difendersi dalla noxa patogena. È ovvio, quindi, come possa rappresentare l’evoluzione sfavorevole anche dello shock a basso flusso. Proprio sulla base di questa definizione, la MOFS è caratterizzata dall’esaurimento da parte dell’organismo di molte capacità di difesa, dall’indebolimento dei sistemi di ossidazione dei substrati energetici, dalla produzione e messa in circolo di metaboliti anomali, lesivi per organi vitali, frutto di errori metabolici.

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Alterazioni metaboliche. Si esaurisce l’attivazione ormonale (riduzione della produzione di cortisolo, catecolamine, ormoni tiroidei), e soprattutto si riduce il consumo di O2 fino a valori subnormali, indicando così il complessivo deficit ossidativo con prevalenza del metabolismo anaerobio. Sul piano biochimico tale incapacità della cellula a utilizzare O2 deriva da blocchi enzimatici multipli. L’omeostasi glucidica non è più efficacemente regolata dal fegato: la diminuzione dell’attività gluconeogenetica è l’aspetto più caratteristico e può manifestarsi con normali valori di glicemia o con ipoglicemia. Recentemente è stata dimostrata una riduzione dell’attività della piruvicodeidrogenasi (PDH), enzima che trasforma il piruvato in acetilcoenzima A, dando così avvio al ciclo di Krebs e quindi alla glicolisi aerobica: tale alterazione avverrebbe progressivamente interessando inizialmente il metabolismo dei tessuti periferici, quindi dei muscoli e infine del fegato. Anche il metabolismo proteico subisce ulteriori sconvolgimenti che si sintetizzano in una inibizione delle vie metaboliche di riutilizzo degli aminoacidi; mancata utilizzazione degli aminoacidi; mancata utilizzazione degli aminoacidi a fine gluconeogenetico con conseguente riduzione dell’ureogenesi, e soprattutto incapacità protidosintetica (sintesi di anticorpi, proteine di fase acuta). z

Il metabolismo lipidico subisce più profonde alterazioni e, come già nella fase di scompenso, cessa di essere la fonte energetica preferenziale. La mancata ossidazione degli acidi grassi può essere secondaria a deficit di cofattori utili per la ȕ-ossidazione o più spiegabilmente ad anomalie metaboliche, quali per esempio l’accentuazione di processi lipogenetici patologici. La pompa sodio-potassio non riceve l’energia necessaria per il suo funzionamento e si assiste a inversione del contenuto ionico tra l’ambiente intra- ed extracellulare (Na+ dentro le cellule;K+ fuori). Ne deriva accumulo intracellulare di acqua che comporta rigonfiamento cellulare a carico di ogni organo e tessuto con edema,sino a una condizione di reale sequestro di liquidi dal compartimento intravascolare, che è causa di ipovolemia e quindi ipotensione (shock settico) nonostante il compenso cardiovascolare. In definitiva è questa la fase in cui l’utilizzazione di qualunque substrato è incerta (substrate energy failure): la condizione di grave ipometabolismo che ne deriva (riduzione del consumo di O2) ne è l’espressione fisiopatologica più evidente con rilevanti conseguenze a carico di ogni organo e 285

tessuto. Insufficienza respiratoria. È l’insufficienza organica più frequentemente riscontrata in corso di sepsi:può essere assai precoce, e spesso rappresenta l’innesco della sindrome da insufficienza pluriorganica (seguita da insufficienza renale, cardiaca, epatica, cerebrale, gastrointestinale, coagulopatia). È classicamente rappresentata da un quadro di grave ipossiemia e dall’evidenza radiologica di un addensamento diffuso, espressione di alveolite con alterazione della membrana alveolocapillare. Tale quadro ha assunto svariate denominazioni (polmone da shock, polmone settico, edema polmonare non cardiogeno, insufficienza respiratoria con ipossiemia acuta): attualmente viene definita ARDS (Adult Respiratory Distress Syndrome), volendo così accomunare la rapidità di insorgenza, la gravità, e le svariate cause (sepsi, trauma, chirurgia). È caratterizzata da aumentata permeabilità microvascolare con conseguente edema interstiziale, fibrosi delle pareti alveolari, obliterazioni della microvascolarizzazione, infiltrati leucocitari interstiziali (Fig. 9.12). Tali alterazioni sono effetti diretti dell’azione di alcuni tra i più tipici mediatori della sepsi quali alcune prostaglandine e trombossani e del conseguente danno endoteliale. z

Insufficienza renale. Il 40% dei decessi per insufficienza renale acuta è dovuto alla sepsi. Il meccanismo patogenetico che porta all’alterazione parenchimale renale è ancora sconosciuto. Recentemente è stata individuata una nuova molecola, l’endotelina, facente parte della grande famiglia dei mediatori umorali, capace di determinare vasocostrizione a livello renale. Sul piano clinico si assiste inizialmente a inappropriata poliuria (senza ipotensione) e successivamente oliguria sino all’anuria generalmente in correlazione con concomitanti alterazioni cardiache e del circolo. L’azione di mediatori (molti ancora sconosciuti) e l’iniziale condizione iperdinamica che può mantenersi per settimane, potrebbero essere all’origine del danno tubulare e glomerulare (proteinuria), responsabili dell’insufficienza renale. z

Insufficienza cardiaca. È conseguente al prolungato aumento del lavoro cardiaco, dovuto all’iperdinamismo: i pazienti settici, infatti, mantengono elevati valori di gittata e frequenza cardiaca per giorni, settimane o mesi. Spesso tale condizione è aggravata dalla presenza di cardiopatie preesistenti. L’insufficienza cardiaca può comparire in qualsiasi momento del decorso ed essere di per sé causa z

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di morte, anche se è in genere evento tardivo. Si può manifestare con il classico quadro dello scompenso: aumento della PVC, giugulari turgide, riduzione della gittata cardiaca, aritmie, ipotensione, slargamento dell’ombra cardiaca all’esame radiologico del torace. Tuttavia la forma di gran lunga più frequente è rappresentata dalla insufficienza cardiaca ad alta gittata, quadro clinico subdolo e di difficile diagnosi caratterizzato appunto da una gittata cardiaca superiore alla norma, ma inadeguata alle aumentate richieste con moderata acidosi metabolica, pressione venosa centrale e polmonare tendenzialmente elevate, abbassamento della pressione arteriosa differenziale e contrazione della diuresi. Nella patogenesi, oltre al prolungamento ed esagerato aumento del lavoro cardiaco, è ancora una volta da considerare il ruolo di alcuni mediatori e in particolare di un fattore ad azione miocardiodepressiva (MDF: Myocardial Depressant Factor). z Insufficienza epatica. Rappresenta l’alterazione più importante ai fini della prognosi: il mantenimento di una buona funzione epatica è correlato con la sopravvivenza. Clinicamente è evidente ittero ingravescente di tipo colostatico in assenza di alterazioni organiche delle vie biliari (in particolare vie biliari non dilatate all’ecografia). Gli esami di laboratorio documentano, oltre all’aumento della bilirubina totale e diretta, incremento delle transaminasi (SGOT, SGPT), della fosfatasi alcalina e delle gammaglutamiltransferasi: tra le alterazioni precoci iperammoniemia e un quadro aminoacidico plasmatico simile a quello riscontrato nella cirrosi (aumento degli aminoacidi aromatici e riduzione di quelli ramificati). L’ipoglicemia di tale stato indica il difetto gluconeogenetico. Istopatologicamente si riscontra necrosi epatocellulare periferica.

Alterazioni ematologiche. Anemia, leucocitosi o leucopenia, piastrinopenia (specie nelle sepsi da batteri Gramnegativi) sono modificazioni abituali in corso di sepsi. Più raramente insorge coagulazione intravascolare disseminata (CID) espressione di un più vasto difetto metabolico che interessa tra gli altri il sistema reticoloendoteliale (SRE), il fattore di Hagemann, il fibrinogeno, il complemento, che inevitabilmente si riflettono sul sistema coagulativo, sulla fibrinolisi e sulla generazione di chinine. Questo tipo di alterazioni è particolarmente importante in quanto – oltre all’insorgenza di una vera CID o in ogni caso di una diatesi emorragica (con ulteriore riduzione di piastrine e di fattori della coagulazione) e insieme alla liberazione di sostanze vasoattive con conseguente vasodilatazione e aumento della permeabilità capillare – comportano ischemia tissutale e deposito di fibrina nella microcircolazione (microembolie) che si ripercuotono sulla funzione di tutti gli organi. z

Alterazioni neurologiche. L’encefalopatia della sepsi è inizialmente rappresentata da iperventilazione, confusione e tremori.In caso di mancato controllo del focolaio settico,può progredire sino a deterioramento della coscienza e a comparsa di allucinazioni, movimenti tonicoclonici, segni di neuropatia periferica, coma. La patogenesi resta ancora oscura, anche se studi recenti indirizzano verso una ipotesi umorale che prevede la messa in circolo di falsi neurotrasmettitori (octopamina, feniletanolammina) prodotti dall’anormale profilo aminoacidico plasmatico (aumento di aminoacidi aromatici e riduzione di aminoacidi a catena ramificata) espressione dei difetti di utilizzazione dei substrati e dell’alterata funzionalità epatica. Simili alterazioni si riscontrano nei pazienti cirrotici encefalopatici,ma non si escludono altre teorie (ischemia cerebrale,interferenza con il sistema GABA). z

Alterazioni gastrointestinali. Si tratta fondamentalmente di lesioni della mucosa e della sottomucosa che portano a vere “ulcere” uniche, più spesso multiple con spiccata tendenza al sanguinamento. Lo spiccato stato catabolico, come abbiamo già detto, porta a un depauperamento delle riserve proteiche con importanti deficit protidosintetici. Così, nell’ambito di una malnutrizione acuta, anche la mucosa intestinale (che di per sé ha un elevato turnover rigenerativo) stenta a essere ricostituita; a ciò si aggiunga la defunzionalizzazione dell’intestino in conseguenza del mancato apporto nutrizionale per via orale. Questi fattori concorrono alla atrofia della mucosa e alla perdita z

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dei legami intercellulari. Recentemente queste stesse alterazioni intestinali sono state considerate responsabili dell’eziopatogenesi della stessa MOF, avendo individuato nella mucosa intestinale alterata l’interruzione della barriera fra germi intestinali (che in tali situazioni possono crescere abnormemente) e torrente circolatorio: il passaggio di batteri dall’intestino al sangue portale sarebbe così facilitato (teoria della traslocazione batterica) innescando e mantenendo la MOF, anche in assenza di riconosciuti focolai settici.

Segni clinici della sepsi Variano a seconda della fase della sepsi.

Fase di compenso Tipicamente i segni clinici della sepsi sono rappresentati da: z iperpiressia (intermittente e con brivido in caso di sepsi batterica; continua e senza brivido in caso di sepsi da miceti o virus); z sudorazione, stato di prostrazione, ansia; z tachicardia, tachipnea, normale pressione arteriosa. Anche durante questa fase possono comparire segni riferibili a insufficienza organica: così, per esempio, è possibile riscontrare un quadro di insufficienza respiratoria (da aumento del lavoro respiratorio), cardiaca (da aumentato lavoro conseguente all’iperdinamismo), renale (da insufficiente apporto di liquidi, da fattori umorali vasocostrittori tipo l’endotelina, da farmaci). Tali scompensi d’organo, se prontamente riconosciuti, possono regredire oppure essere preludio della sindrome da insufficienza multiorgano.

Fase di scompenso Ai segni iniziali si aggiungono: z alterazioni del SNC: agitazione, confusione,alterazioni della coscienza sino al coma; z può comparire ipotensione inizialmente ortostatica; z alterazioni renali: iperazotemia (conseguenza anche dell’ipercatabolismo), ipercreatininemia, oliguria, sino alla insufficienza renale manifesta che richiede trattamento emodialitico; z alterazioni cardiache: possono comparire aritmie; dal classico iperdinamismo compensatorio si passa a ipodinamismo (riduzione gittata), sino allo scompenso cardiaco; z alterazioni epatiche: iperbilirubinemia, aumento transaminasi (cosiddetta epatopatia settica); z alterazioni intestinali: nausea, vomito, diarrea, sanguinamenti; z alterazioni ematologiche: piastrinopenia (specie nelle sepsi da Gram-negativi), alterazioni del profilo coagulativo, episodi di CID.

Fase di MOFS Rappresenta lo scompenso di più organi. È tipico osservarla in corso di sepsi e di ogni altra forma di shock. In una classica sequenza il polmone (ARDS) e i reni (insufficienza renale oligoanurica) sono i primi a essere colpiti, seguiti poi da insufficienza cardiaca, gastrointestinale, epatica, turbe della coagulazione e alterazioni del SNC. Assai spesso, soprattutto nel decorso del paziente critico, non è facile riconoscere l’insorgenza di uno stato settico, per le difficoltà di individuare microrganismi in circolo o nelle sedi più abituali e per la mancanza di sintomi locali o generali (per es. normali valori di temperatura e globuli bianchi in pazienti anergici). 288

In queste circostanze i dati del monitoraggio sono di estrema utilità.  Tra i segni che più di tutti suggeriscono il sospetto di una sepsi ricordiamo: x iperglicemia con intolleranza alla somministrazione di glucosio e resistenza all’insulina; x iperazotemia, in assenza di insufficienza renale, e aumentata escrezione di urea; x aumento del consumo di O2; x aumento della gittata cardiaca e riduzione della differenza arterovenosa di O2; x aumentata saturazione venosa centrale di O2; x riduzione delle resistenze vascolari periferiche; x scompenso cardiorespiratorio in assenza di cause organiche. Va ricordata, tra l’altro, l’elevata frequenza di sepsi derivate dagli stessi presidi di monitoraggio e terapia (cannule venose, arteriose, cateteri vescicali, ventilazione meccanica, drenaggi esterni ecc.).

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Metodi di valutazione e monitoraggio del paziente in shock Il monitoraggio del paziente in shock o comunque in condizioni critiche non può prescindere da una costante e adeguata valutazione clinica: tutti gli altri dati di laboratorio e strumentali permettono di oggettivare il tipo di alterazione, di quantizzare l’entità della deviazione dalla normalità e di verificare l’efficacia del compenso funzionale dell’organismo nonché l’effetto delle terapie praticate. A essi vanno aggiunti e tanto più rapidamente possibile quanto maggiore è la gravità, tutti gli esami necessari per precisare la diagnosi eziologica (per es. endoscopie, ecografie, TC, angiografie). Oggi i dati del monitoraggio sono considerati indispensabili e certamente l’applicazione estensiva ai pazienti gravi ha globalmente di molto migliorato la loro prognosi. È ovvio, però, che a fronte del grande numero di dati disponibili, ci si aspetta un’adeguata valutazione da parte del medico sia in termini di validazione (accertarsi che il dato sia stato ben rilevato) che di interpretazione, entrambi imprescindibili da una buona conoscenza del malato, della malattia e della sua fisiopatologia. In considerazione poi delle necessità cliniche, del grado di invasività, della disponibilità di apparecchiature, il monitoraggio può essere effettuato a diversi livelli. La semplice semeiologia clinica è in grado di fornire informazioni qualitative sulla funzione respiratoria e sullo stato del circolo e del metabolismo. z La temperatura della cute delle estremità e il suo colore, lo stato di riempimento dei vasi del collo, la diuresi, la frequenza cardiaca sono indici di funzione emodinamica. z La tachipnea, la dispnea, la cianosi sono segni di insufficienza respiratoria. z La riduzione del pannicolo adiposo sottocutaneo, la presenza di edemi discrasici, l’ipotrofia muscolare, l’alterazione di misure antropometriche (peso, plica adiposa del braccio, circonferenza del braccio) sono elementi che offrono prime indicazioni sul grado di malnutrizione e di bilancio azotato negativo. La pressione arteriosa è il più semplice e comune dei monitoraggi strumentali. La sua utilità come indice di flusso è peraltro, come già detto, piuttosto scarsa dal momento che essa è condizione necessaria ma non sufficiente perché coesista una buona perfusione tissutale. È possibile misurarla anche in continuo, previo incannulamento percutaneo di un’arteria superficiale (radiale, femorale), con l’ausilio di manometri elettronici integrati nelle centraline di monitoraggio ECG:in questo caso sarà agevole, inoltre, effettuare frequenti prelievi arteriosi per emogasanalisi. Se a questi dati iniziali si aggiunge una emogasanalisi arteriosa (determinazione, con emogasanalizzatore, nel sangue arterioso di pH, PaO2, PaCO2, bicarbonati, eccesso basi) si ottengono importanti informazioni sulla situazione metabolica, respiratoria e, indirettamente, sul grado di compenso emodinamico. Il pH arterioso riassume, esprimendo la concentrazione degli ioni H+ nel sangue, lo stato dell’equilibrio acido-base dell’organismo – cui concorrono aspetti circolatori, metabolici, tissutali, renali e respiratori – orientato nel senso dell’acidosi o dell’alcalosi. Insieme al valore di PaCO2, consente di individuare il tipo di alterazione e determinare se essa è o meno compensata. Così l’acidosi metabolica (pH < 7,38 con PaCO2 normale), segno di depressione metabolica, può risultare corretta da una iperventilazione polmonare con l’intento di rimuovere l’eccesso di ioni H+ prodotti (spostamento a sinistra dell’equilibrio H2O + CO2 = H2CO3 = H+ + HCO3–): il pH allora potrà essere mantenuto a valori meno acidi o normali (a seconda dell’entità dell’alterazione iniziale e delle capacità di compenso), e la PaCO2 si abbasserà (tanto più quanto maggiore è l’iperventilazione). Valori elevati di PaCO2 (> 50 mmHg sono quasi invariabilmente segni di insufficiente ventilazione 290

alveolare (per insufficiente ventilazione/min. o per aumento dello spazio morto ventilatorio) e richiedono sorveglianza stretta e/o provvedimenti terapeutici adeguati (broncoaspirazione, ventilazione assistita, intubazione endotracheale, ventilazione meccanica con respiratore, tracheostomia). Valori bassi di PaCO2 indicano, come visto, una iperventilazione alveolare per compenso ad acidosi, ipossia, o per effetto di dolore e/o ansia. La PaCO2 fornisce un’informazione globale sull’efficacia dell’ossigenazione polmonare: i suoi valori normali sono fisiologicamente ridotti con l’età [102 mmHg – (0,33 u età)], e ogni ulteriore riduzione è sintomo di ipoventilazione,shunt polmonare (atelettasia) o maldistribuzione della ventilazione rispetto alla perfusione polmonare (VA/Qt = venous admixture = rapporto ventilazione/perfusione). Conoscendo la concentrazione di O2 nell’aria inspirata (= 21% in aria ambiente) si può calcolare approssimativamente con i dati dell’emogasanalisi arteriosa la differenza alveolo-arteriosa di O2 (A – aO2): A – aO2 = [(Pb – 47) u 0,21 – PaCO2] – PaO2 (Pb = pressione barometrica; 47 = pressione del vapor acqueo a 37 °C; 0,21 = frazione di O2 in aria ambiente; valori normali di A – aO2; (= 20 mmHg). Questo indice consente di discriminare l’ipossia da ipoventilazione pura (valori normali) dalle situazioni in cui è in causa una maldistribuzione del rapporto ventilazione/perfusione o un aumento dello shunt polmonare. Esso consente inoltre di quantificare l’entità dell’insufficienza respiratoria. Un secondo livello di monitoraggio prevede l’utilizzazione di dati ottenibili grazie al posizionamento di una cannula venosa centrale, indispensabile, tra l’altro, quale accesso venoso sicuro e per la nutrizione parenterale totale (infusione di soluzioni glucosate ipertoniche). La misura della pressione venosa centrale (PVC) è facilmente attuabile sia utilizzando il livello idrostatico, sia con più sofisticati manometri elettronici, spesso integrati alle centraline di monitoraggio ECG,che permettono, tra l’altro, una sua determinazione in continuo. Essa consente di valutare l’equilibrio tra gittata cardiaca e volemia: aumenta in caso di insufficienza di pompa (insufficienza cardiaca, embolia polmonare, tamponamento cardiaco), ipervolemia (eccessiva somministrazione di liquidi); si riduce in caso di ipovolemia. Un normale livello di PVC (7-12 cm H2O) consente al cuore una gittata adeguata e la possibilità di questo compenso deve essere mantenuta con un ottimale apporto di liquidi. L’emogasanalisi del sangue venoso centrale (sangue venoso misto) consente il confronto di questi dati con quelli arteriosi. In particolare la differenza artero-venosa dei contenuti di O2 (A-V O2 diff.; v.n. = 4-5 ml/100 cc) esprime l’entità dell’estrazione periferica di O2 da 100 cc di sangue che perfonde i tessuti. Sarà elevata, con evidente significato di compenso,quando il flusso ai tessuti (gittata cardiaca u saturazione di O2 u emoglobinemia u 1,34) si riduce, per effetto di uno o più dei parametri che lo determinano (ipovolemia, ipossia, anemia). Bassi valori indicano un difetto nella estrazione periferica di O2 per alterazione cellulare come avviene nella sepsi e nell’insufficienza epatica, ove tra l’altro si riscontrano elevati valori di consumo di O2 (VO2). Un terzo livello di monitoraggio si basa sulla integrazione dei precedenti parametri con dati ricavati dall’analisi dei gas espirati e dalla misurazione del volume espirato/min. La metodologia più semplice consiste nella misurazione del volume espirato/min. attraverso un respirometro di Wright collegato mediante un boccaglio alla bocca del paziente;contemporaneamente l’aria espirata viene raccolta, attraverso una valvola unidirezionale (l’aria ambiente va alla bocca, viene inalata e l’aria espirata viene convogliata nel sistema di raccolta) in un pallone di Douglas della capacità di 8-12 litri; contemporaneamente viene rilevato il numero degli atti respiratori al minuto (frequenza respiratoria). Per misura diretta (con l’emogasanalizzatore) si ottengono così le pressioni espiratorie medie di O2 (PEO2) e CO2 (PECO2). Metodologie più avanzate (strumenti basati sull’uso della spettrometria di massa o di analizzatori paramagnetici per l’O2 e a infrarossi per la CO2) 291

permettono di ottenere le medesime misure in continuo mediante l’analisi dei gas e dei volumi polmonari (per mezzo di pneumotacografo incorporato) direttamente in prossimità del boccaglio e possono essere applicati al paziente in ventilazione meccanica assistita. Tali apparecchiature, completamente automatizzate e computerizzate, offrono i dati della calorimetria indiretta in tempo reale e, immettendo gli altri dati misurati (emogasanalisi arteriosa, venosa mista o centrale, dati di monitoraggio dei segni vitali) da tastiera, calcolano rapidamente tutti i para-metri derivati riguardanti la funzione metabolica, emodinamica e respiratoria. Utilizzando questi ultimi parametri e integrandoli con i precedenti, infatti, con l’ausilio di opportune formule e/o di programmi di calcolo, si ottengono ulteriori dati: z metabolici: consumo di O2 (VO2), produzione di CO2 (VCO2), quoziente respiratorio (RQ); z emodinamici: gittata cardiaca (CO) attraverso l’equazione di Fick (CO = VO2/A-V O2 diff.), resistenze vascolari periferiche (TPR); z respiratori: volume corrente o di Tidal (VT), volume espirato/ minuto (VE), ventilazione alveolare, spazio morto fisiologico (VD/VT Fis.), indice di shunt intrapolmonare (Qs/Qt), rapporto ventilazione perfusione (VA/Qt). I dati della clorimetria indiretta (VO2,VCO2, RQ) consentono di stimare il consumo calorico giornaliero “consumo calorico giornaliero = metabolic rate (MR) u 24 ore = (VO2/BSA + 3,9 + VCO2/BSA u 1,1) u 60/1000” e identificare la qualità dei substrati prevalentemente utilizzati (RQ glucidi = 1; RQ lipidi = 0,7; RQ proteine = 0,8). Sarà così possibile stabilire da un lato la condizione metabolica (aumento VO2 = ipermetabolismo; riduzione VO2 = ipometabolismo) e adattare la terapia nutrizionale alle reali esigenze del paziente [Bilancio Energetico = Calorie introdotte - Dispendio Energetico (MR/24 ore)]. Se a questi dati si aggiunge la determinazione della escrezione giornaliera di azoto, determinabile nelle urine come tale (Kieldall) o sotto forma di urea, creatinina, acido urico e albumina, sarà possibile da un lato stimare l’entità del catabolismo (aumentata escrezione di azoto = ipercatabolismo; ridotta escrezione = ipocatabolismo) e quindi determinare la quantità di azoto da somministrare, sotto forma di proteine o aminoacidi, per mantenere un bilancio azotato positivo (bilancio di azoto = azoto introdotto – azoto escreto nelle 24 ore), e dall’altro identificare alterazioni metaboliche legate all’ureogenesi e/o all’utilizzazione di aminoacidi. Tra i dati di funzione polmonare rilevanti, calcolabili con i dati ottenuti con questo monitoraggio di terzo livello, ricordiamo: z lo spazio morto fisiologico,VD/VT Fis. (v.n. = 0,26-0,37), rappresenta la quota di ventilazione inefficace ai fini degli scambi dai gas nei polmoni;in pratica misura l’entità di aria alveolare che non viene scambiata con il sangue (per es. embolia polmonare); z la venous admixture (shunt intrapolmonare) rappresenta globalmente l’entità della perfusione ematica in zone polmonari mal ventilate e riassume gli effetti della maldistribuzione del rapporto ventilazione/perfusione: indici di shunt elevati si hanno nella atelettasia, broncopolmoniti, ARDS, ostruzione bronchiale. L’utilità di tali dati in clinica è data dalla fedeltà con cui seguono le alterazioni polmonari: essi si modificano molto precocemente e precedono di alcuni giorni l’evidenza radiologica di alterazioni polmonari. Sempre nell’ambito del terzo livello di monitoraggio è possibile inserire, al posto o contemporaneamente al catetere venoso centrale, uno speciale catetere di Swan-Ganz (Fig. 9.13) provvisto di palloncino gonfiabile in punta, che viene posizionato in arteria polmonare e consente il monitoraggio della pressione in tale distretto (PAP) ben più fedele indice di riempimento vascolare, rispetto alla PVC, nonché la misura della pressione a catetere bloccato (PAWP = pressione di incuneamento o “wedge pressure”) indice della pressione del distretto sinistro del cuore. Tali cateteri, inoltre, presentano speciali elettrodi termici che consentono di rilevare direttamente la gittata cardiaca con il metodo della termodiluizione: in questo caso, conoscendo la A-V O2 diff., è 292

possibile calcolare il VO2. In speciali cateteri dello stesso tipo, infine, è applicato un particolare elettrodo per la misurazione in continuo della saturazione di O2.

La Tabella 9.6 illustra i principali parametri di monitoraggio a seconda del livello di rilevamento.

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Gli attuali sviluppi tecnologici consentono dei sistemi di rilevamento molto sofisticati, accurati e computerizzati con il calcolo immediato di tutti i parametri derivati: generalmente vengono 294

applicati nelle sale di rianimazione e nei reparti di terapia intensiva ed offrono la possibilità di un controllo fisiopatologico completo e costante nel tempo facilitando, tra l’altro, la prevenzione e la cura degli stati di shock nei pazienti a rischio (Fig. 9.14).Tra le più recenti metodiche di monitoraggio va ricordata la tonometria gastrica, che permette di determinare il valore del pH intramucoso gastrico, indice di perfusione splancnica, che sembra trovare correlazione con la prognosi.

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Criteri di diagnosi Se è sempre vero che ci si può trovare di fronte a un paziente in stato di shock quale evento acuto e cioè con un tipo di sintomatologia sopradescritta (cute pallida, fredda, sudata, oliguria, dispnea, tachicardia, agitazione, ipotensione anche solo ortostatica) senza conoscerne la causa, è altrettanto importante, alla luce delle attuali conoscenze, riconoscere le situazioni a rischio e prevenire ogni alterazione che possa comportare ipoperfusione e ridotto apporto di O2 ai tessuti. Nel primo caso sarà difficile scindere le procedure diagnostiche da quelle terapeutiche; nel secondo caso sarà opportuno un adeguato monitoraggio per individuare quanto più precocemente possibile e correggere altrettanto rapidamente qualunque modificazione fisiopatologica che possa comportare alterazione nel trasporto di O2.

Procedure diagnostico-terapeutiche in caso di shock quale evento acuto z

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Controllo ventilazione e attività cardiaca (di fronte a un paziente in coma, la valutazione cardiorespiratoria precede o è contemporanea alla cateterizzazione venosa);può essere necessario effettuare: { intubazione tracheale e/o assistenza del respiro; { massaggio cardiaco e successiva terapia per l’arresto cardiaco. Incannulamento di una o più vene periferiche (1) (preferibilmente agocannule di grosso calibro e corte per poter infondere rapidamente grandi quantità di liquidi) con un duplice scopo: a) prelievo di sangue per eseguire esami ematochimici fondamentali: { emocromo, glicemia, azotemia, creatininemia, elettroliti (Na, K, Ca, Cl), bilirubinemia, transaminasi (SGOT, SGPT), LDH, CPK, diastasemia, test di coagulazione (TAP, PTT, fibrinogenemia); { gruppo sanguigno; { prove crociate di compatibilità sanguigna; b) infusione di liquidi cristalloidi e/o colloidi in attesa degli esami ematochimici (eventuale necessità di sangue).

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Emogasanalisi arteriosa per la valutazione di: { ossigenazione (paO2) e compenso respiratorio (paCO2); { equilibrio acido-base (pH, paCO2, bicarbonati, eccesso base). Apposizione di catetere vescicale, per monitoraggio della diuresi oraria (normale se superiore a 50 ml/ora). Elettrocardiogramma, per la valutazione di: { turbe del ritmo; { lesioni ischemiche infartuali; { segni indiretti di embolia polmonare; { segni di alterazioni elettrolitiche. Esame radiologico del torace, utile per documentare: { alterazioni dei tessuti molli (enfisema sottocutaneo), e delle ossa (fratture costali, sternali); { alterazioni pleuriche (pneumotorace, versamenti); { alterazioni parenchimali (atelettasie, contusioni, edema, congestione ilare, segni non sempre presenti di tromboembolia); 296

alterazioni mediastiniche (pneumomediastino, slargamenti, irregolarità del profilo aortico); { alterazioni morfologiche della immagine cardiaca (segni di insufficienza cardiaca, tamponamento cardiaco); { posizione del catetere venoso centrale (se introdotto). L’insieme di tali dati e l’iniziale terapia rianimatoria (assistenza cardiorespiratoria, terapia infusiva) consentono di identificare il tipo di alterazione (emorragica, cardiaca, polmonare) e di stabilizzare il paziente. Sarà così possibile procedere verso ulteriori accertamenti e verso forme terapeutiche più mirate e definitive. Così per esempio in caso di emorragia bisognerà identificarne la sede (lavaggio peritoneale in caso di trauma addominale, endoscopie in caso di perdite gastroenteriche); in caso di sospetta embolia polmonare valutarne l’entità (scintigrafia, arteriografia polmonare); in caso di infarto verificarne l’estensione e il danno emodinamico (ecocardiografia, cateterismo cardiaco, coronarografia). Si potrà quindi affrontare la terapia eziologica (chirurgica, sclerosi endoscopica, per l’emorragia; anticoagulanti-trombolitici per embolia e infarto; drenaggio toracico per il pneumotorace). {

Procedure diagnostiche del paziente a rischio o dopo episodi di ipoperfusione acuta Sia il paziente che abbia superato stati di ipoperfusione acuta, quanto il paziente a rischio per alterazioni ipossiche o settiche (dopo traumi chirurgici-anestesiologici maggiori, politraumi, emorragia, infarto, pancreatite) necessitano di un accurato monitoraggio fisiopatologico con lo scopo di individuare la gravità della malattia primaria e delle eventuali sequele, la sua evoluzione e infine la risposta terapeutica: in particolare dal monitoraggio ci si aspetta di conoscere quanto più fedelmente possibile la reale situazione e le possibilità di compenso delle funzioni cardioemodinamica, respiratoria e metabolica principalmente implicate nella patogenesi dello shock, in maniera da indirizzare il più miratamente possibile la terapia e mantenere tali funzioni nella traiettoria della sopravvivenza (v. il paragrafo Metodi di valutazione e monitoraggio del paziente in shock).

(1) Valutare la necessità di posizionare un catetere venoso centrale (dal braccio, dalla giugulare interna, dalla succlavia) nel caso: x le vene periferiche siano collassate; x si voglia misurare la pressione venosa centrale; x si debba introdurre un catetere-elettrodo quale pace-maker; x si intendano effettuare monitoraggi più accurati (emogasanalisi di sangue venoso centrale, saturazione di O2, misurazione della gittata cardiaca con il metodo di Fick) anche per mezzo di un catetere (di SwanGanz) introdotto nell’arteria polmonare per la misurazione delle pressioni nell’arteria polmonare (PAP, PAWP) e della gittata cardiaca con il metodo della termodiluizione; x si voglia mantenere un accesso venoso permanente e sicuro (utile per successivi monitoraggi o per effettuare nutrizione parenterale totale).

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Principi di terapia Shock a basso flusso Obiettivo della terapia è favorire la perfusione e l’apporto tissutale di O2, contemporaneamente alla rimozione o correzione del fattore eziologico dello stato di shock, unico o multiplo, quando accertato. In pratica si tratterà di correggere le alterazioni fisiopatologiche evidenti sin dall’inizio o man mano che si manifestano. Fondamentalmente bisognerà agire: x sul flusso ematico, che va mantenuto assicurando una adeguata gittata cardiaca e un normale volume intravascolare; x sul contenuto di O2 nel sangue arterioso, dipendente dalla saturazione di O2 e quindi dalla PaO2 e dall’emoglobina. Si tratta quindi di assicurare una adeguata disponibilità di O2 (O2 delivery = CO x CaO2 x 10), rappresentata per l’appunto dal prodotto del flusso (gittata cardiaca = CO) per il contenuto di O2 (CaO2). In questa ottica la terapia, avvalendosi dei dati del monitoraggio, si basa su: x ripristino del volume circolante: adoperando soluzioni cristalloidi, colloidi o “plasma expanders” in attesa del sangue, qualora si riconosca una causa emorragica o comunque di anemia. Un adeguato volume circolante mira a produrre normali valori di gittata cardiaca, pressione arteriosa, diuresi, perfusione periferica, senza sovraccarico (aumento della PVC); x somministrazione di O2 (uso di maschere facciali a contenuto noto di O2; valutare eventuale necessità di assistenza ventilatoria meccanica); x equilibrio acido-base; x correzione di alterazioni elettrolitiche; x prevenzione/correzione dell’oliguria e dell’insufficienza renale; x correzione di eventuale coagulopatia; x sostegno della contrattilità cardiaca; x correzione di eventuali aritmie. Riconosciuta la causa, ovviamente di grande rilevanza sarà l’instaurare una precoce terapia eziologica: x emorragia: arresto chirurgico, strumentale o farmacologico dell’emorragia; x infarto cardiaco o embolia polmonare: anticoagulanti, trombolitici; x tamponamento cardiaco: puntura evacuativa, eventuale intervento chirurgico se post-traumatico; x aritmie, blocchi atrio-ventricolari: antiaritmici, cardioversione, pace-maker; x pneumotorace iperteso: drenaggio endopleurico; x anafilassi: adrenalina, cortisonici, antistaminici.

Sepsi Obiettivo della terapia è conseguire l’eradicazione dell’agente invasore, prevenzione/recupero funzionale delle alterazioni di organi e/o apparati, ottimizzazione delle varie funzioni fisiologiche e prevenzione di complicanze, prolungando così il periodo utile entro cui la terapia chirurgica e/o antibiotica possa sortire il proprio effetto.

Controllo dell’infezione L’eradicazione del microrganismo infettante va attuata precocemente e nella maniera più mirata possibile: essa non può prescindere dall’isolamento dell’agente (batteri, miceti, virus) e da prove in vitro di efficacia dei farmaci chemioterapici (antibiogrammi).Esami colturali vanno eseguiti nei liquidi organici sospetti (drenaggi, urine, escreato, bile, sangue ecc.) e spesso vanno fatti estensivamente e intensivamente. L’esame colturale va richiesto per germi comuni (Gram-positivi, Gram-negativi, aerobi, anaerobi) e miceti. Nel sospetto clinico vanno richiesti esami virologici (colturali,immunologici) specifici. Va inoltre tenuto presente che oltre alla sensibilità del chemioterapico, vanno strettamente considerati eventuali effetti 298

collaterali di tali farmaci a carico di organi vitali (nefro, cardio, epatotossicità). Nell’ambito delle sepsi batteriche, soprattutto di natura chirurgica, va peraltro ricordato il ruolo dei batteri Gram-negativi aerobi e degli anaerobi. Così, insieme ad antibiotici attivi contro germi Grampositivi (penicilline, cefalosporine ecc.), sono assai spesso necessari antibiotici attivi verso germi Gram-negativi (aminoglicosidi) e contro gli anaerobi (clindamicina, metronidazolo). Accanto alla terapia antimicrobica, assume primaria importanza (più della terapia farmacologica) la rimozione chirurgica della causa di sepsi, pur se sotto copertura antibiotica. L’atto chirurgico deve essere effettuato il più precocemente possibile, deve mirare alla rimozione della causa che ha determinato la sepsi (per es.: appendicectomia, colecistectomia, rafia di ulcera perforata), deve favorire il migliore drenaggio in caso di ascessualizzazione, e soprattutto deve essere ripetuto in caso di segni clinici di recidiva, dimostrando così l’assoluta necessità di eliminare prima di tutto il focolaio d’origine della sepsi.

Terapia antishock Come già detto ha lo scopo di controllare l’omeostasi metabolica, cardiocircolatoria e respiratoria. In particolare si propone: x di mantenere un adeguato volume ematico e di sostenere la funzione cardiaca, migliorando, così, la perfusione e soprattutto la disponibilità di O2 per i tessuti; x di far fronte alle tipiche alterazioni metaboliche (ipermetabolismo, ipercatabolismo, difficoltà di utilizzare alcuni substrati), con l’intento di preservare le riserve calorico-protidiche endogene e di facilitare l’ossidazione dei substrati infusi, in modo da consentire le sintesi proteiche. Questi aspetti terapeutici, in pratica, si possono così riassumere: x ottimizzazione della volemia (bilancio idrico accurato, uso di colloidi quali plasma e albumina) e del trasporto di O2; x sostegno della funzione cardiocircolatoria (uso di inotropi positivi quali digitale, dopamina, dobutamina, isoproterenolo e di vasodilatatori periferici quali derivati della nitroglicerina per ridurre il postcarico cardiaco –after load – e migliorare il lavoro del cuore); x sostegno della funzione respiratoria (ossigenoterapia, fisioterapia, ventilazione meccanica quando necessaria); x correzione dell’eventuale anemia; (questi primi 4 presidi concorrono direttamente a migliorare la disponibilità e il trasporto di O2); x mantenimento dell’equilibrio acido-base ed elettrolitico; x correzione dell’eventuale coagulopatia; x inibizione dell’acidità gastrica (prevenzione di ulcere da stress); x prevenzione e cura (se presente) dell’encefalopatia; x attuazione di una nutrizione parenterale (NPT) con lo scopo di fornire: - adeguata quota di calorie non proteiche: 30-35 kcal/ kg/die, di cui 30-40% da lipidi (ricordare che i lipidi nella fase di scompenso non vengono utilizzati,mentre rappresentano il substrato ideale nella fase di compenso); - elevato contenuto di proteine: 1,5-2 g/kg/die,con un rapporto N/cal intorno a 1/80-100; l’arricchimento con aminoacidi ramificati sembra favorire le sintesi proteiche e migliorare il bilancio azotato; - vitamine: idro- e liposolubili, folati; - oligoelementi: Fe,Zn,Mg,Cu,per prevenire sindromi carenziali. Tra le misure terapeutiche in fase di studio, va ricordato l’uso di agenti in grado di neutralizzare le endotossine (anticorpi monoclonali contro il lipopolisaccaride A dei batteri Gram-negativi), di immunoglobuline, di farmaci immunomodulatori, di farmaci antagonisti delle endorfine e stabilizzanti il circolo (naloxone). La Tabella 9.7 riassume le strategie terapeutiche routinariamente utilizzate e una serie di agenti farmacologici, in fase di studio, che presentano un razionale per una potenziale applicazione clinica.

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Conclusioni Si diceva all’inizio come il concetto stesso di shock sia andato incontro negli anni recenti a notevoli evoluzioni. Anche il suo ruolo nelle discipline chirurgiche è cambiato: da quello di un argomento piuttosto oscuro e malcompreso, prerogativa di alcune specifiche patologie, all’attuale scienza che studia i meccanismi di base del danno cellulare e della conseguente risposta a livello di organo e di organismo. Da un punto di vista clinico esso rappresenta un aspetto parziale anche se importante, nelle impegnative problematiche che vengono affrontate nella terapia intensiva del malato critico o “acuto-grave”. Da un punto di vista investigativo lo shock rappresenta uno dei campi più affascinanti e promettenti della ricerca biologica e clinica ai cui risultati sono legati molti dei progressi della chirurgia moderna.

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Letture suggerite z

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Anderson R.W.,Vaslef S.N.: Shock – Cause e trattamento del collasso circolatorio. In: Sabiston D.C. (Ed). Trattato di Chirurgia. Antonio Delfino Editore, 1999. Baue A.E., Faist E., Fry D.E.: Multiple Organ Failure. Pathophysiology, prevention and therapy. Springer Verlag, Berlin-New York, 2000. Castagneto M., Giovannini I. et al.: Meccanismi fisiopatologici nella “Multiple Organ Failure”. Atti Società Italiana Chirurgia 3: 19-28, Edizioni L. Pozzi, Roma, 1991. Chiara O.: Lo Shock. In: Di Carlo V., Andreoni B., Staudacher V. (Eds): Manuale di chirurgia d’urgenza e terapia intensiva chirurgica. Masson, Milano, 1993. Cowley R.A.,Trump B.F.: Pathophysiology of shock, anoxia, and ischemia. Williams & Wilkins, Baltimore, 1982. Faist E., Baue A.E., Schildberg F.W.: The immune consequences of shock, trauma and sepsis. Pabst Sciences Publishers, Lengerich, 1996. Gullo A., Berlot G., Silvestri L., Sganga G.: Sepsis and organ failure. Systems Editore, Milano, 1992. Hollenberg S.M., Parrillo J.E.: Shock. In: Harrison. Principi di Medicina Interna. McGrawHill, New York, 1999. Reinhart K., Eyrich K., Sprung C.: Sepsis. Springer Verlag, Berlin, 1994. Schuster D., Lefrak S.: Shock. In: Civetta J.M.,Taylor R.W., Kirby R.R.: Critical Care, cap. 32, Williams & Wilkins, Lippincott, 1992. Sganga G.: Sepsi addominali chirurgiche e insufficienza multiorgano (MOFS). Systems Editore, Milano, 2000. Shoemaker W.C.: Shock states: pathophysiology, monitoring, outcome prediction, and therapy. In: Shoemaker W.C., Ayres S.M., Grenvik A., Holbrook P.R. (Eds). Textbook of critical care. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1999. Siegel J.H.: Trauma, emergency surgery and critical care. Churchill Livingstone, New York, 1987. Van Saene H.K.F., Sganga G., Silvestri L.: Infection in the critically ill: an ongoing challenge. Springer Verlag, Milano, 2001.

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10 Turbe idro-elettrolitiche e sindromi dismetaboliche 10.1 Fisiopatologia dell’equilibrio idro-elettrolitico 10.2 Alterazioni elettrolitiche 10.3 Fisiopatologia dell’equilibrio acido-base 10.4 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 10

Turbe idro-elettrolitiche e sindromi dismetaboliche P. Dionigi, G. Verde

Fisiopatologia dell’equilibrio idroelettrolitico L’integrità delle funzioni dell’organismo dipende dalla costanza dell’“ambiente interno”, la cui definizione era già stata fornita da Claude Bernard nel secolo scorso. Questo imperativo presuppone il mantenimento di un’idratazione normale, di un costante equilibrio tra acidi e basi e tra i differenti anioni e cationi.

Composizione e distribuzione dell’acqua corporea La quantità di acqua presente nell’organismo sano varia in funzione dell’età e della morfologia dell’individuo. Nel primo anno di vita costituisce il 75% del peso corporeo, scendendo al 60% nell’adulto giovane ed al 50% nel soggetto con più di 50 anni.Tuttavia gli scarti individuali possono essere notevoli in ragione della proporzione di tessuto adiposo, che contiene solo il 30-35% di acqua,e di massa magra,che ne è costituita per il 70% circa. L’idratazione è mantenuta costante grazie all’equilibrio tra le entrate e le uscite di acqua. Le entrate sono rappresentate dall’acqua esogena, derivante da alimenti e bevande, e dall’acqua endogena, derivante dal metabolismo cellulare. Le uscite sono rappresentate dalle perdite di acqua attraverso la perspiratio insensibilis (polmonare, cutanea), la sudorazione, le feci, le urine. Le porzioni regolabili di entrate (le bevande mediante la sensazione della sete) ed uscite (la diuresi da parte del rene), permettono il mantenimento del bilancio idrico rigorosamente in equilibrio. All’interno dell’organismo l’acqua corporea è ripartita in due grandi settori, il settore extracellulare, che rappresenta il 45% dell’acqua totale (plasma, liquido interstiziale, liquidi delle secrezioni mucose e sierose) e il settore intracellulare (55%). La composizione del plasma e del liquido interstiziale è molto simile per quanto riguarda l’assetto elettrolitico, la differenza è data dalla presenza nel plasma di circa 70 g/l di proteine.

 L’osmolalità del settore extracellulare dipende soprattutto dalla natriemia. Ogni aumento dell’osmolalità si accompagna spesso ad un aumento della natriemia ed a una disidratazione

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cellulare; ogni diminuzione dell’osmolalità plasmatica è invece indice di una iponatriemia e di una iperidratazione intracellulare. Il rene esplica un ruolo chiave nel mantenimento dell’equilibrio idrosodico. Nel soggetto normale, la natriuresi quotidiana corrisponde all’apporto di sodio della dieta. In circostanze patologiche la quota di sodio escreta dipende dalle modificazioni della velocità di filtrazione glomerulare e dal riassorbimento a livello tubulare. Circa l’80% del sodio filtrato viene riassorbito a livello del tubulo prossimale, mentre il 10-15% viene riassorbito mediante meccanismo attivo a livello del tubulo distale, ove ogni ione Na+ viene scambiato con uno ione H+. Tale riassorbimento attivo è sotto l’influenza dell’aldosterone. Ogni situazione di ipovolemia, attraverso l’attivazione del sistema renina-angiotensina, determina una iperincrezione di aldosterone.L’escrezione di acqua è soprattutto sotto il controllo dell’ormone antidiuretico (ADH). L’ADH regola l’escrezione di acqua libera in risposta a variazioni dell’osmolalità plasmatica, rendendo il tubulo distale ed il tubulo collettore più o meno permeabili all’acqua. L’iperosmolalità stimola l’increzione di ADH.

Deplezione ed eccesso di volumi In presenza di un malato con turbe dell’idratazione, il primo gesto medico è quello di valutare le variazioni del bilancio dell’acqua e del sodio. È necessario raccogliere informazioni circa il volume giornaliero delle urine e l’entità delle perdite extrarenali precedenti ed attuare una stretta sorveglianza delle medesime.  Le variazioni del peso corporeo rappresentano uno degli indici migliori del bilancio globale dell’acqua. Ogni aumento o diminuzione rapidi del peso corporeo sono fortemente suggestivi di ritenzione e di deplezione idrica. L’esame clinico, infine, è di fondamentale importanza per valutare l’esistenza di perturbazioni, per eccesso o per difetto, dei grandi settori idrici dell’organismo.

Iperidratazione extracellulare L’iperidratazione extracellulare è abitualmente la conseguenza di una ritenzione di acqua e di sodio in misura proporzionale. Eziologia. L’aumento del volume del liquido extracellulare (LEC) è proporzionale alla ritenzione idrosodica.  Le circostanze in cui ciò avviene più frequentemente sono: le glomerulonefriti acute, le sindromi nefrosiche, l’insufficienza cardiaca nelle cardiopatie congestizie, la cirrosi ascitogena e certi stati carenziali. La causa fondamentale è uno squilibrio glomerulotubulare consistente in un esagerato riassorbimento di sodio a livello tubulare a fronte di una velocità di filtrazione glomerulare diminuita. I principali fattori favorenti tale squilibrio sono un aumento della pressione venosa, una riduzione della pressione arteriosa, una riduzione importante della pressione oncotica del plasma (ipoprotidemia) e un’iperincrezione di aldosterone (per riduzione della massa circolante). Quadro clinico. È dominato dall’edema, che può non essere clinicamente apprezzabile per aumenti del peso corporeo d 2–3 kg. Per gradi maggiori di ritenzione idrosodica si può apprezzare una succulenza dei tessuti molli sottocutanei, più evidente a livello delle zone declivi (segno della fovea positivo). La condizione estrema è rappresentata dall’anasarca con interessamento anche delle 305

cavità a rivestimento sieroso. L’emodiluizione è incostante mentre la riduzione della concentrazione proteica, ove presente, è più spesso legata all’affezione causale (sindrome nefrosica, cirrosi). In questo caso la volemia è spesso ridotta, essendo l’espansione soprattutto a carico degli spazi interstiziali. La natriemia è normale quando l’iperidratazione extracellulare è pura. L’increzione, così come l’escrezione, di aldosterone sono aumentate. La terapia ha come cardine la restrizione dell’apporto e l’aumento dell’eliminazione renale di sodio. La disponibilità dei diuretici attuali consente di limitare la restrizione dell’apporto di sodio a 4 g di NaCl (70 mol di Na) al giorno, instaurando un regime alimentare congruo. La deplezione idrosodica è ottenuta mediante l’impiego di diuretici. La furosemide, per la sua azione rapida e di breve durata, persistente anche quando la filtrazione glomerulare è gravemente compromessa, è il diuretico di scelta nelle forme severe con ipertensione arteriosa e/o insufficienza renale. Occorre tenere presente che quando la creatininemia è superiore a 60 mg/l, le dosi di furosemide devono essere aumentate (80-160 mg, ripetibili). È necessaria una stretta sorveglianza dell’assetto elettrolitico per il rischio di ipovolemia, ovvero alcalosi ipocloremica o ancora dell’insorgenza di un iperaldosteronismo secondario. A tale scopo risulta indicata l’associazione di diuretici risparmiatori di potassio (spironolattoni). Nei casi di insufficienza renale grave, tuttavia, trova indicazione l’epurazione extrarenale (emodialisi, emofiltrazione, dialisi peritoneale).

Iperidratazione cellulare  L’iperidratazione cellulare corrisponde ad un eccesso di acqua nell’organismo (bilancio idrico positivo) o a deplezione di sodio proporzionalmente maggiore rispetto alla perdita di acqua. In tutti i casi è presente un’iposmolalità plasmatica ed un passaggio di acqua dal settore extra- a quello intracellulare. Tale alterazione solo raramente si presenta isolata, essendo generalmente associata a turbe dell’idratazione extracellulare.  Eziologia. Le forme di ritenzione idrosodica con prevalente ritenzione di acqua si osservano nelle stesse affezioni che contrassegnano le iperidratazioni extracellulari quando: x il paziente viene sottoposto ad un regime dietetico inadeguato (restrizione sodica stretta con apporto idrico troppo importante); x si instaurano dei fenomeni antidiuretici di origine puramente renale (iperidratazione extracellulare accompagnata da ipovolemia). La sindrome da inappropriata secrezione di ADH, classicamente descritta da Schwarz-Burtter nei casi di cancro polmonare a piccole cellule, è rinvenibile in un certo numero di affezioni: tubercolosi polmonare, pneumopatie, mixedema, insufficienza anteipofisaria, porfirie acute, lesioni nervose centrali, poliradicolonevriti, periodo postoperatorio.  Quadro clinico. È dominato da tre ordini di sintomi: x digestivi: assenza di sete, anoressia, nausea, vomito (quando l’iperidratazione cellulare è importante); x neurologici: crampi muscolari, cefalea, nevralgie, turbe del sensorio sino al coma; x generali: astenia,che è costante e precoce,tendenza all’ipotermia, diuresi spesso contratta con tendenza all’iperazotemia. I tegumenti non sono modificati, non c’è edema. Il segno biologico essenziale è l’iponatriemia con riduzione dell’osmolalità efficace del plasma. Il peso corporeo è di poco aumentato. La strategia terapeutica è in funzione dell’eziologia. Se la causa è la perdita di sodio, occorre

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somministrarlo; se la causa è un eccesso di acqua, è necessaria la restrizione e l’aumento della eliminazione di acqua. Nel primo caso, se l’equilibrio acido-base è normale, è sufficiente la somministrazione di NaCl, preferendo la via digestiva. Nelle somministrazioni per via venosa è indicato l’impiego di soluzioni ipertoniche. L’entità dell’apporto di sodio cloruro varia in base alla gravità del caso: 2-6 g di NaCl, ripetibili più volte nelle 24 ore nei casi più severi. Il compenso deve essere realizzato gradualmente, in quanto un trasferimento troppo rapido dal settore cellulare a quello extracellulare può tradursi in un edema polmonare. Le forme dovute a sovraccarico puro di acqua si giovano della restrizione idrica severa. I casi di insufficienza renale si giovano della depurazione extrarenale.

Disidratazione extracellulare La disidratazione extracellulare è dovuta ad una riduzione del patrimonio organico di sodio Compare quando le perdite superano gli apporti di sodio (bilancio del sodio negativo). Eziologia. Le perdite possono essere di origine digestiva (vomito, aspirazione gastrica prolungata fistole biliari o intestinali, diarree), renale (nefropatie che comportano una perdita obbligatoria di sodio con le urine, iperaldosteronismo primario e secondario, diuretici, diabete mellito ipercalcemie), cutanea (colpo di calore, ustioni, sudorazione profusa). La deplezione di sodio deve essere sistematicamente sospettata in ogni paziente nefropatico in fase uremica che non presenti edema né ipertensione. Quadro clinico. È caratterizzato da segni cutanei (cute ipotonica e ipoelastica con formazione di pliche a livello dell’addome, regioni sottoclaveari e sottorbitarie), ipotonia dei globi oculari tendenza al collasso specie in ortostatismo, riduzione della pressione differenziale.  La perdita di peso corporeo è marcata, mentre l’assenza di sete è un segno negativo distintivo, che testimonia il fatto che l’idratazione cellulare non è alterata. Sono inoltre presenti i segni di emoconcentrazione, la diuresi è contratta mentre la concentrazione dell’urea nelle urine è elevata. La natriemia è inizialmente normale. Per quanto riguarda la terapia, la reidratazione, nei casi tipici, va perseguita con la perfusione di soluzioni fisiologiche. Nei casi in cui si associa un’iperidratazione cellulare, si somministrerà una maggior quota di sodio cloruro rispetto all’acqua. Inversamente, nei casi con disidratazione cellulare associata si somministrerà più acqua che sodio. Alla reidratazione occorre associare il trattamento eziologico: mineraloattivi nel caso di morbo di Addison, insulinoterapia nel coma diabetico, rimozione delle cause che hanno determinato la perdita digestiva.

Disidratazione cellulare La disidratazione cellulare è il risultato di un bilancio dell’acqua negativo e compare quando le perdite di acqua sono superiori alle entrate. In tutti i casi è presente iperosmolalità plasmatica con ipernatriemia, condizione che favorisce il passaggio di acqua dal settore cellulare a quello extracellulare.  Eziologia. Nella maggior parte dei casi si tratta di perdite idriche abnormi che si verificano attraverso i polmoni e la cute (colpo di calore, sudorazione eccessiva, ipertermia nei pazienti comatosi, pazienti tracheostomizzati) o attraverso la via digestiva (vomito, diarrea) e renale (diabete insipido ipofisario o nefrogeno, diuresi osmotica, rimozione dell’ostacolo nelle uropatie, mieloma, amiloidosi, nefropatie interstiziali).

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La disidratazione cellulare è abbastanza rara nelle forme renali, in quanto il paziente tende a compensare le perdite aumentando l’apporto di acqua. Tuttavia compare allorché il paziente non è in grado di effettuare tale compenso (paziente anziano, costretto a letto, torpido o comatoso). Quando le perdite sono di origine renale il rapporto Osm U (urinaria)/Osm P (plasmatica) è inferiore a 1, il che equivale alla perdita del potere di concentrazione delle urine da parte del rene. Quando le perdite sono di origine extrarenale il rapporto Osm U/Osm P è sempre superiore a 1. Occorre ricordare che anche una dialisi peritoneale con soluzioni glucosate ipertoniche può indurre un’iperosmolalità plasmatica. Quadro clinico. Sul piano clinico, la sete è il segno più importante e più precoce.Si associano:secchezza delle fauci, anoressia e un certo grado di disfagia. Spesso sono presenti alterazioni del respiro (talora con ritmo di Cheyne-Stokes), torpore alternato a fasi di agitazione e delirio, iperriflessia con Babinski bilaterale positivo, crampi e scosse muscolari. Nei casi gravi si possono osservare quadri di coma con o senza crisi comiziali, iperpiressia, leucocitosi, perdita di peso importante. Nei neonati sono descritti ematomi sottodurali o intracerebrali. Sono possibili trombosi cerebrali. L’alterazione biologica costante è l’iperosmolalità plasmatica. L’ipernatriemia può mancare nel coma diabetico iperosmolare, essendo l’iperosmolalità sostenuta dall’iperglicemia, o nelle forme secondarie a infusione di abbondanti quantità di mannitolo in un paziente oligoanurico. In questi casi è anzi presente iponatriemia. La terapia consiste nella somministrazione di acqua, quale compenso del deficit idrico e per correggere l’iperosmolalità extracellulare. Se la via enterale è praticabile ed il sensorio conservato, la somministrazione di acqua per os o per sonda naso-gastrica è il trattamento elettivo. Diversamente, si deve ricorrere all’infusione endovenosa di soluzioni glucosate al 5%. Talora è necessario associare la somministrazione di insulina (1 U ogni 5-10 g di glucosio infuso) per assicurare la metabolizzazione del glucosio. Nelle forme gravi di coma diabetico è necessario iniziare la reidratazione con soluzioni glucosate ipotoniche al 2,5%. La quantità di acqua da apportare è spesso di più litri nelle 24 ore. Tuttavia la correzione del deficit idrico deve sempre essere attuata in modo graduale, per evitare il rischio di edema cerebrale. Il calcolo della quantità di acqua da apportare (in litri) può essere fatto solo in via approssimativa utilizzando la formula: H2O = (natriemia/142) x pc x 0,06 ove pc è il peso corporeo espresso in chilogrammi. In ogni caso l’entità del compenso deve superare l’entità del deficit idrico, in quanto durante la correzione, il paziente continua a perdere acqua. Nel diabete insipido ipofisario, da deficit assoluto di ADH, occorre associare la somministrazione di analoghi dell’ADH: vasopressina per via im o deamino-8-D-arginina per via nasale. Nelle forme da deficit parziale di ADH, è sufficiente la somministrazione di clorpropamide che stimola la secrezione e potenzia l’azione dell’ormone sul tubulo collettore.

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Alterazioni elettrolitiche Turbe del sodio plasmatico Come già si è accennato in precedenza, le variazioni del sodio plasmatico seguono strettamente le variazioni del bilancio idrico. Così, l’iponatriemia compare quando il contenuto di acqua nell’organismo è relativamente maggiore di quello del sodio. All’inverso, l’ipernatriemia compare quando il capitale sodico è proporzionalmente maggiore di quello idrico.

Iponatriemie Occorre in primo luogo distinguere tra vere iponatriemie e false iponatriemie.  False iponatriemie: si sviluppano quando una parte importante del volume del liquido extracellulare è “occupata osmoticamente” da sostanze diverse dal sodio. È questo il caso delle iperglicemie elevate di origine diabetica o iatrogene e della infusione di importanti quantità di mannitolo. In queste situazioni l’iponatriemia è associata ad iperosmolarità plasmatica e disidratazione cellulare. False iponatriemie si osservano anche in caso di infusione di elevate quantità di soluzioni macromolecolari (“plasma expanders”), nei casi di iperdislipidemie gravi o infine nelle gammopatie monoclonali. In queste circostanze la concentrazione di sodio/kg di acqua è normale e non ci sono alterazioni dell’idratazione del compartimento intracellulare.  Vere iponatriemie: è sempre presente un’iposmolarità plasmatica ed extracellulare che testimonia l’iperidratazione cellulare associata. Le cause vanno ricercate o in una perdita di sodio a patogenesi renale, gastro-intestinale, cutanea, o in una ritenzione idrica a patogenesi varia. Sul piano clinico, le forme dovute a deplezione sodica sono dominate dai segni clinici della disidratazione extracellulare, mentre le forme secondarie ad eccessiva ritenzione idrica sono caratterizzate dall’edema, testimone di un’iperidratazione extracellulare associata. La terapia delle iponatriemie da perdita di sodio si basa sulla ricostituzione del capitale sodico dell’organismo. L’apporto di sodio sarà realizzato sotto forma di cloruro di sodio e/o di bicarbonato di sodio in base allo stato dell’equilibrio acido-base. Nei casi di collasso vascolare, tuttavia, l’imperativo è il ristabilimento della volemia efficace che sarà attuata mediante l’infusione di plasma expanders, ovvero plasma o sangue in toto. Per quanto riguarda le iponatriemie da ritenzione idrica, il cardine del trattamento si basa sulla restrizione idrica, limitando l’apporto idrico giornaliero a 600-800 ml. Questi casi si avvalgono inoltre dell’impiego di diuretici in associazione a soluzioni saline ipertoniche. In tutti i casi deve essere associato il trattamento eziologico.

Ipernatriemie L’ipernatriemia (Na+ > 145 mmol/l) è una condizione assai meno frequente dell’iponatriemia. In genere risulta associata ad un’iperosmolarità plasmatica e del settore interstiziale, cui consegue disidratazione cellulare. L’ipernatriemia è quasi sempre la conseguenza di un bilancio idrico negativo con capitale sodico dell’organismo conservato. Il quadro clinico dominato dalla sete e il trattamento sono quelli della disidratazione cellulare. 309

Esistono tuttavia delle rare forme di ipernatriemie, dette essenziali, dovute ad una turba di regolazione degli osmocettori o del centro della sete, la cui caratteristica clinica è l’assenza totale di sete.

Turbe del potassio Il potassio è il catione quantitativamente più importante del compartimento intracellulare. In regime dietetico normale,l’apporto giornaliero di potassio è di 50-100 mmol. Esistono tuttavia fonti endogene di potassio rappresentate dal catabolismo cellulare e dall’emolisi fisiologica. L’escrezione urinaria di potassio è sotto il controllo dell’aldosterone, che favorisce la kaliuria. Una riduzione dell’apporto favorisce invece la ritenzione di potassio da parte del rene.Entrambi i meccanismi sono tuttavia lenti nell’operare, per cui ogni aumento dell’apporto o delle perdite di potassio espongono rispettivamente ad aumenti o riduzioni talora drastici del patrimonio organico di potassio. La valutazione del bilancio del potassio è di realizzazione difficile ed è in genere basata sul valore della kaliemia. Ma non sempre le variazioni della kaliemia,che è una stima del potassio extracellulare, riflettono variazioni significative del patrimonio totale del potassio dell’organismo. Infatti numerosi fattori sono in grado di far variare la kaliemia indipendentemente da effettive modificazioni del patrimonio organico di potassio, in ragione del trasferimento di potassio dal settore intra- a quello extracellulare e viceversa.  Ciò che più conta è il rapporto tra il potassio extracellulare (kaliemia) e quello intracellulare: variazioni della kaliemia, a fronte di una costanza di tale rapporto, non hanno effetti sul piano clinico, specie a livello cardiaco. Per tale motivo, l’elettrocardiogramma è il mezzo migliore per valutare l’entità e l’importanza delle variazioni di potassio.

Kaliopenia con ipokaliemia Eziologia. Un deficit di potassio con ipokaliemia associata riconosce essenzialmente tre fattori patogenetici che possono operare isolatamente o in associazione. Un primo fattore è costituito dalla carenza di apporto che solo in casi eccezionali è in grado di determinare ipokaliemia. Le perdite di potassio per via digestiva rappresentano la causa più frequente di ipokaliemia. Le forme secondarie a diarrea sono associate ad acidosi metabolica, a causa dell’alcalinità del materiale diarroico. Nelle forme dovute a vomito o aspirazione gastrica risulta invece associata un’alcalosi ipocloremica. In tutti i casi la kaliuria è minima, ad eccezione delle situazioni in cui s’instaura un iperaldosteronismo secondario. In queste situazioni la kaliuria è aumentata. Le perdite di potassio per via renale costituiscono una causa alquanto rara di ipokaliemia. In queste forme la kaliuria è normale o aumentata. Quadro clinico. Sul piano clinico, le maggiori ripercussioni dell’ipokaliemia si verificano a livello della muscolatura cardiaca, di quella digestiva e di quella striata.  Le alterazioni elettrocardiografiche sono le più precoci: sottoslivellamento del tratto ST, riduzione dell’ampiezza delle onde T, amplificazione della U. Possono comparire alterazioni del ritmo quali extrasistoli, tachicardie ventricolari, torsioni di punta. L’interessamento della muscolatura intestinale è responsabile di distensione gastrica, rallentamento del transito sino all’ileo paralitico, simulando un addome chirurgico. Le ripercussioni sulla 310

muscolatura scheletrica sono responsabili dell’astenia e ipotonia muscolare. Nelle kaliopenie gravi si possono avere delle vere e proprie paralisi e/o rabdomiolisi acute. L’associazione deplezione di potassio ed alcalosi è frequente, soprattutto nelle ipokaliemie acute. È dovuta sia al passaggio di ioni H+ dal compartimento extra a quello intracellulare, per rimpiazzare il potassio perduto, sia al deficit di cloruri, che innalza la soglia di riassorbimento dei bicarbonati a livello renale. Kaliopenia ed acidosi si associano assai più raramente; in genere la causa della perdita di potassio è anche la causa della perdita di basi tampone. Per valori di kaliemia inferiori a 2 mmol/l, il rischio di arresto cardiaco o di paralisi muscolare è significativo.Occorre ricordare, a questo proposito, che la contemporanea presenza di un’ipocalcemia, responsabile d’ipertonia muscolare, può mascherare i segni clinici dell’ipopotassiemia. Una nozione importante è infine il fatto che ogni ipokaliemia prolungata può indurre un’insufficienza renale caratterizzata da isostenuria e ridotta escrezione di sodio. La terapia deve tendere ad eliminare le perdite ed a correggere il deficit di potassio. Nei casi di deplezione potassica moderata è in genere sufficiente un regime alimentare ricco di potassio (carne, latte, frutta, legumi). Nei casi in cui si rende necessario un apporto supplementare di potassio per os o parenterale, il cloruro di potassio è il sale indicato nelle forme con alcalosi ipocloremica associata, mentre nelle altre situazioni si possono somministrare il citrato di potassio, ovvero il lattato di potassio o il potassio gluconato. 1 g di cloruro di potassio fornisce circa 13 mmol di K+, mentre 1 g degli altri sali fornisce rispettivamente 10, 7,5 e 4,4 mmol di K+. L’infusione endovenosa di potassio deve rispettare alcune regole. In genere è utilizzato il cloruro di potassio al 10% in fiale da 10 o 20 ml (12,5-25 mmol K+), diluito in soluzione glucosata al 5% o polisalina isotonica. È opportuno non superare la quantità di 50-75 mmol di K+ per litro di soluzione. La perfusione deve essere lenta, non superando le 25 mmol/ora e le 200 mmol/die nell’adulto. Nel bambino, l’apporto non deve superare le 2-4 mmol/ kg/24 ore. È preferibile effettuare la perfusione attraverso vene di grosso calibro, per evitare il dolore e l’irritazione lungo il decorso venoso. Nei casi di coma diabetico trattato con insulina, il potassio può essere diluito in acqua distillata (50 mmol di KCl/l) in quanto la glucosata, favorendo il passaggio di potassio nel settore intracellulare, può aggravare l’ipopotassiemia. In caso di aritmie gravi la velocità di perfusione può essere aumentata, ma solo sotto stretta sorveglianza del tracciato elettrocardiografico e previo il posizionamento di una sonda di elettrostimolazione sistolica endocavitaria. Nei casi di ipocalcemia associata è opportuno associare la perfusione di calcio, al fine di evitare la comparsa di spasmi tetanici e convulsioni. L’apporto di sodio è da evitare almeno all’inizio del trattamento, così come gli alcalinizzanti che favoriscono la penetrazione di potassio nelle cellule. La somministrazione di digitale è assolutamente da proscrivere in quanto segni di intossicazione digitalica del miocardio possono comparire anche per dosaggi minimi di digitale.

Ipokaliemia senza kaliopenia  L’ipokaliemia senza deficit di potassio è essenzialmente dovuta al passaggio di potassio dal settore extra- a quello intracellulare. La malattia di Westphal o paralisi periodica familiare riconosce questa eziologia. Fattori scatenanti sono: un pasto ricco di carboidrati, l’esposizione al freddo, l’infezione, un esercizio intenso. La paralisi compare in genere al risveglio e dura dalle 2 alle 4 ore. Lo spironolattone e l’acetazolamide svolgono azione profilattica. Il trattamento sintomatico si basa sulla somministrazione di cloruro di potassio. Un altro esempio di ipopotassiemia senza kaliopenia è quello osservato nel coma diabetico in trattamento con insulina. Infine, tutte le situazioni di alcalosi con alcalemia (aumento del pH ematico) possono essere responsabili di gravi ed improvvise ipopotassiemie.

Iperkaliemia con sovraccarico di potassio Eziologia. Due condizioni favoriscono l’aumento del patrimonio extracellulare di potassio: un 311

eccesso di apporto, endogeno o esogeno, ed un difetto di eliminazione.  In entrambi i casi, comunque, la presenza o l’instaurarsi di un’oligoanuria è la “condicio sine qua non”. L’iperpotassiemia dovuta ad eccessivo apporto è una circostanza alquanto rara. Una fonte importante di potassio è costituita dal plasma derivato da sangue conservato. Il potassio di provenienza eritrocitaria può raggiungere una concentrazione di 30 mmol/l di plasma derivato da sangue intero conservato per una settimana. Il rene, anche insufficiente, conserva a lungo la capacità di adattare la secrezione tubulare agli apporti di potassio. Per questo, l’iperkaliemia è rara in corso di insufficienza renale cronica. L’eccezione è costituita dai pazienti nefropatici in dialisi periodica. Nell’insufficienza surrenalica acuta, il deficit assoluto di mineralcorticoidi condiziona l’apparizione di un’iperkaliemia dovuta ad ipokaliuria. L’iperpotassiemia grave è invece di osservazione frequente nelle insufficienze renali acute con oligoanuria che si osservano a seguito di gravi politraumi e nei casi di emolisi intravascolare massiva. In queste situazioni, l’iperpotassiemia, inizialmente dovuta alla liberazione di potassio dalle cellule distrutte (rabdomiolisi, emolisi), viene mantenuta a livelli preoccupanti per la ridotta escrezione renale di potassio. L’acidosi e l’ipercatabolismo rappresentano fattori aggravanti. Quadro clinico. Dal punto di vista clinico, le ripercussioni sul miocardio sono le più precoci e le più gravi. A seconda della gravità dell’iperpotassiemia, all’elettrocardiogramma si rileva: z onde T ampie, aguzze, con branche simmetriche (più evidenti nelle derivazioni precordiali); z allungamento del PR e slargamento del QRS, con riduzione dell’ampiezza dell’onda R e aumento di quella S; z sovrapposizione delle P alle T, simulante la scomparsa dell’attività atriale e QRS notevolmente slargato. A quest’ultimo stadio la minaccia di una tachicardia o fibrillazione ventricolare è imminente. Il quadro clinico è completato da sintomi a carico dell’apparato neuro-muscolare: parestesie alle labbra ed alla lingua o alle estremità, paralisi flaccida con abolizione dei riflessi osteo-tendinei (molto rara). La terapia sintomatica consiste nella riduzione della kaliemia, nell’antagonizzare gli effetti dell’iperpotassiemia e nel sopprimere gli apporti di potassio. La riduzione della concentrazione plasmatica di potassio può essere ottenuta favorendo il passaggio del catione nel compartimento intracellulare. Questo si realizza mediante la perfusione di soluzioni glucosate ipertoniche al 10% e di 10-20 unità di insulina. L’effetto è immediato e la durata è di 2-4 ore. L’alcalinizzazione favorisce anch’essa la penetrazione di potassio nelle cellule. La somministrazione endovenosa di 45-90 mmol di bicarbonato di sodio ha lo stesso effetto della perfusione di 25-50 g di glucosio, tuttavia espone al rischio di sovraccarico circolatorio. Un altro metodo per ridurre la potassiemia è la sottrazione di potassio mediante resine a scambio ionico (Kayexalate, supp.). Con questo metodo è possibile ridurre la kaliemia di 1 o 2 mmol/l nell’arco di alcune ore.Tuttavia, quando la concentrazione plasmatica di potassio supera i 7 mmol/l è d’obbligo il ricorso all’epurazione extrarenale. Il calcio è l’antagonista del potassio. La somministrazione endovenosa di 10-30 ml di calcio gluconato al 10% può migliorare nettamente il quadro elettrocardiografico. L’effetto è immediato ma di breve durata, per questo talora viene somministrato in perfusione continua. Il calcio gluconato è indicato nei casi di oligoanuria, mentre è controindicato nei pazienti digitalizzati.

Iperkaliemie senza aumento del patrimonio di potassio Ogni riduzione del pH ematico favorisce il passaggio di ioni potassio dal compartimento intra- a 312

quello extracellulare. Una forma di iperpotassiemia periodica senza sovraccarico endogeno od esogeno è la malattia di Gamstorp o adinamia episodica familiare, peraltro assai rara. È caratterizzata da episodi di paralisi flaccida a carattere distrettuale. Tali episodi sono favoriti da un esercizio fisico intenso, dal freddo e dal digiuno. La frequenza degli accessi è massima tra i 15 e i 30 anni.

Turbe del calcio Il calcio è un catione prevalentemente intracellulare. La maggior quantità di calcio dell’organismo è a livello del tessuto osseo (circa 1200 mg). Il settore extracellulare ne contiene nel complesso meno di 1 g. Nel soggetto normale la concentrazione del calcio plasmatico ammonta a circa 2,5 mmol/l (100 mg/l). Il 70% circa del calcio plasmatico è ionizzato, mentre il 30% è legato alle proteine. Solo poco più dell’1% è presente sotto forma di sali indissociati, quali solfato e citrato di calcio. Solo il calcio ionizzato esplica effetti sull’eccitabilità neuromuscolare in quanto è il solo diffusibile. La sua concentrazione è influenzata dal pH ematico e dalla concentrazione di fosfati. La riduzione del pH determina un aumento del calcio ionizzato, mentre l’aumento del pH ne riduce la concentrazione. Le concentrazioni di calcio ionizzato e di fosfato sono tra loro in equilibrio. Nel soggetto normale il loro prodotto resta costante, così se l’uno tende ad aumentare, l’altro diminuisce. Diversamente il fosfato tricalcico, insolubile, precipiterebbe nei tessuti. L’apporto alimentare di calcio, nel soggetto normale, varia da 0,5 a 1 g/die. Circa la metà viene assorbita a livello del duodeno e del tenue.Tale assorbimento è regolato da un metabolita attivo della vitamina D3 (1,25 diidrossicolecalciferolo), che stimola la sintesi di proteine di trasporto per il calcio. L’assorbimento è favorito dall’acidità gastrica e dal paratormone, mentre è ridotto in occasione di pasti ricchi di grassi, vegetali, fosfati. Il cortisone ostacola l’assorbimento intestinale di calcio. A livello renale, circa il 55% del calcio filtrato viene riassorbito a livello del tubulo prossimale.A tale livello l’assorbimento del calcio è legato a quello del sodio ed è sotto l’influenza del paratormone.Il 20-30% viene riassorbito dall’ansa di Henle, mentre il restante 15-20% viene riassorbito a livello del tubulo distale ed è anch’esso influenzato dal paratormone. Fattori favorenti la calciuria sono: un aumento dell’apporto, un aumento della calcemia, l’acidosi metabolica, un’espansione del settore extracellulare, l’ormone tiroideo, la somministrazione di cortisone, la calcitonina, i diuretici dell’ansa.All’inverso, riducono la calciuria: l’alcalosi metabolica, il paratormone, la contrazione del liquido extracellulare, i fosfati, i tiazidici.

Ipocalcemie Eziologia. L’eziologia dell’ipocalcemia è quanto mai varia. Le cause principali sono spesso tra loro associate: ipoalbuminemia (malnutrizione, sindromi nefrosiche, cirrosi epatica), deficit di paratormone (ipoparatiroidismi, deficit di magnesio), refrattarietà del tessuto osseo all’azione del paratormone (insufficienza renale, deficit di vitamina D), pancreatite acuta, iperincrezione di calcitonina, metastasi ossee con ipercaptazione del calcio, iperfosforemie, farmaci (mitramicina, sali di platino, neomicina). L’insufficienza renale, acuta o cronica, è una delle cause più frequenti. I meccanismi patogenetici sono una riduzione dell’assorbimento enterale ed una refrattarietà dell’osso all’azione del paratormone per un difetto della conversione a livello renale della vitamina 25-(OH)D3 a 1,25(OH) 2D3 per deficit di 1-alphaidrossilasi. Ciò dà origine ad un’iperincrezione di paratormone che è tanto più marcata quanto maggiore è l’iperfosforemia. Nel deficit di vitamina D, all’ipocalcemia si accompagna, come nell’insufficienza renale, un iperparatiroidismo secondario. Le circostanze di apparizione sono un difetto dell’assorbimento enterale (pancreatite cronica, gastrectomia o resezioni intestinali ampie), un aumento delle perdite enterali di 25-(OH)D3 per alterazioni del circolo enteroepatico, un difetto di produzione epatica di 313

25(OH)D3 (alcool, phenobarbital, difenilidantoina). Negli ipoparatiroidismi all’ipocalcemia si accompagnano un’iperfosforemia e un’ipocalciuria.Tutti i fattori patogenetici, escluso le ipoalbuminemie, determinano una riduzione della frazione di calcio ionizzato. Quadro clinico. La sintomatologia è riferita ad alterazioni neuro-muscolari quali parestesie ed ipoestesie, fascicolazioni muscolari o contratture tetaniche alle estremità (segno di Trousseau positivo). Il segno di Chvostek (contrazione dei muscoli facciali alla percussione della regione parotidea) è spesso positivo e nel bambino può comparire uno spasmo laringeo con sindrome asfittica. All’elettrocardiogramma si registra un aumento del QT. La terapia mediante la somministrazione parenterale di calcio gluconato o calcio cloruro è indicato in tutte le forme acute con manifestazioni tetaniche. Un aumento dell’apporto enterale può essere sufficiente nelle forme di modica entità. La somministrazione di sali di potassio o di alcalinizzanti va evitata od effettuata con molta prudenza, così come le trasfusioni di sangue conservato, sia per la ricchezza di potassio sia per la presenza di citrato nell’anticoagulante. La somministrazione di vitamina D, specie l’1,25-(OH)2D3, è indicata nell’insufficienza renale.

Ipercalcemie Eziologia. Anche l’eziologia delle ipercalcemie è ampia,ma riconosce essenzialmente due meccanismi: z abnorme riassorbimento osseo (neoplasie, iperparatiroidismo primario, morbo di Paget); z esagerato assorbimento enterale (malattie granulomatose come tubercolosi, sarcoidosi, berilliosi, intossicazione da vitamina D, sindrome di Burnett). L’aumento della calcemia è moderato nei casi di iperparatiroidismo mentre raggiunge livelli elevati, talora superiori a 200 mg/l, nelle emopatie con iperattività osteoclastica o nelle estese osteolisi metastatiche. Quadro clinico. È caratterizzato da sintomi a livello dell’apparato digerente (anoressia, nausea, talora vomito incoercibile, rallentamento del transito intestinale sino a quadri di ileo, dolori addominali, ulcera gastro-duodenale), astenia muscolare, stato di prostrazione, apatia, fasi di confusione mentale sino al coma e/o crisi convulsive.A livello renale si osserva una poliuria ipotonica, resistente alla pitressina, che comporta una perdita obbligatoria di sodio. Spesso si associano un’iperkaliuria con aciduria ed alcalosi metabolica. In tale situazione la tossicità della digitale è notevolmente elevata e la sua somministrazione può scatenare una fibrillazione ventricolare. L’elettrocardiogramma registra un accorciamento del QT. Infine può verificarsi la deposizione di sali di calcio nei tessuti molli. La terapia si avvale di metodi che aumentano l’escrezione del calcio, ne riducono l’assorbimento o ne aumentano la captazione ossea. Il trattamento va sempre instaurato con urgenza quando la calcemia supera i 130 mg/l perché oltre tali valori il rischio di arresto cardiaco è elevato.Vari sono i metodi in grado di aumentare la calciuria: la perfusione di cloruro di sodio (aumenta la natriuria e quindi la calciuria), la furosemide (inibisce il riassorbimento tubulare di calcio), l’epurazione extrarenale. Il sodio cloruro è ovviamente controindicato in caso di insufficienza renale, mentre è indicato nei casi di disidratazione extracellulare. La furosemide può essere somministrata quando lo stato di idratazione è normale. I metodi che tendono a ridurre l’assorbimento enterale di calcio sono poco efficaci. Trova indicazione la corticoterapia nelle forme di intossicazione da vitamina D. Tra i farmaci che inibiscono il riassorbimento dell’osso, la mitramicina è uno dei più efficaci. Si somministra per via endovenosa alla dose di 25 mg/kg; le dosi vanno dimezzate in caso di insufficienza renale. La riduzione della calcemia si verifica dopo 24-48 ore. Essa riduce anche la calciuria e la fosforemia. Un altro farmaco di crescente impiego è il difosfonato, che viene somministrato alla dose iniziale di 2,5 mg/kg ev e di 5 mg/kg nei 6 gg. successivi. Si passa poi ad una dose di mantenimento di 3 g/die per os.

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Turbe del fosforo La quantità totale di fosforo nell’organismo ammonta a circa 1520 mg, di cui circa 600 mg si trovano nel tessuto osseo e poco più di 800 mg nei liquidi del settore extracellulare. La concentrazione plasmatica di fosforo inorganico è di 30-45 mg/l. Il 90% costituisce il sistema tampone dei fosfati, il 10% è legato alle proteine. L’apporto di fosforo con la dieta è di 1-2 g/die; di questo, il 50-70% viene assorbito. L’assorbimento è influenzato dalla vitamina D, dalla quantità di calcio del regime alimentare e dal pH dei succhi gastroenterici. Un’uguale quantità di fosforo viene escreta con le urine. Quasi tutto il fosforo filtrato (90-100%) viene riassorbito a livello del tubulo prossimale per trasporto attivo. Tale riassorbimento è influenzato positivamente dall’ormone somatotropo, mentre lo è negativamente dal paratormone e dalla calcitonina.

Ipofosfatemie Eziologia. Le cause di ipofosfatemia sono molte e riconoscono vari meccanismi: carenze d’apporto (denutrizione, malassorbimento, nutrizione parenterale con abbondante apporto glucidico), ridotto assorbimento intestinale (deficit di vitamina D), alcolismo acuto, ipercaptazione cellulare (alcalosi respiratoria, diabete chetoacidosico, metastasi ossee addensanti), perdite urinarie (iperparatiroidismi, diuretici e alcalinizzanti, tubulopatie congenite). La maggior parte delle ipofosfatemie è presente allo stato subclinico. Tuttavia, in alcune circostanze compaiono delle forme severe: alcolismo acuto, nutrizione parenterale di lunga durata, fase anabolica successiva a stato di denutrizione o dopo rabdomiolisi estesa, coma chetoacidosico. Si parla di ipofosfatemia severa quando la concentrazione plasmatica è inferiore a 9 mg/l. Quadro clinico. È caratterizzato da alterazioni ematologiche con riduzione dell’attività granulocitaria (aumentata suscettibilità alle infezioni) e fenomeni di emolisi (per riduzione del 2,3difosfoglicerato secondario a ridotta formazione di ATP), da turbe neuro-muscolari, quali ipotonia muscolare e/o rabdomiolisi, turbe nervose che vanno da uno stato di irritabilità al coma. La terapia si basa sulla correzione delle cause. Il supplemento di fosfato può essere fornito per os o per via parenterale (fosfato di sodio).

Iperfosfatemie L’insufficienza renale cronica è la causa più frequente e la ritenzione di fosfato determina una riduzione del calcio ionizzato ed un iperparatiroidismo secondario. L’iperfosfatemia favorisce la formazione di calcificazioni viscerali, cutanee, muscolari e vascolari. La terapia consiste essenzialmente nella soppressione degli apporti e nella correzione dell’insufficienza renale.

Turbe del magnesio Il patrimonio organico di magnesio ammonta a circa 20 g, di questi 14 g circa sono fissati al tessuto osseo, i 6 g restanti si trovano nel liquido e nelle strutture intracellulari. La concentrazione plasmatica di magnesio è di 19-20 mg/l, di cui il 30% legato alle proteine. 315

Il 50-80% del magnesio assunto con gli alimenti (300-600 mg/die) viene eliminato con le feci, la restante quota viene eliminata attraverso il rene. Le variazioni della magnesemia seguono in genere quelle della kaliemia.

Ipomagnesemie Eziologia. Le cause di ipomagnesemia sono più frequentemente un deficit di apporto (malnutrizione, nutrizione parenterale prolungata) e un aumento delle perdite per via intestinale (fistole, diarree, cirrosi epatica, resezioni intestinali estese). Il quadro clinico ricorda quello delle ipocalcemie: segno di Trousseau positivo, tetania, fascicolazioni. Talora compaiono alterazioni neuro-psichiche che mimano un delirium tremens. La terapia si basa sulla infusione di magnesio solfato in soluzione glucosata alla dose di 1 g.Tale dose deve essere ridotta in presenza di insufficienza renale. Controlli ripetuti della magnesemia vanno effettuati durante l’infusione. Nel neonato, la somministrazione di sali di magnesio può indurre ipotonia muscolare e precipitare un’insufficienza respiratoria.

Ipermagnesemie Eziologia. L’insufficienza renale, sia acuta sia cronica, è la causa dell’ipermagnesemia, che ha effetti depressivi sia sul sistema nervoso centrale, sia sulla trasmissione neuro-muscolare, sia infine sul cuore. Quadro clinico. All’elettrocardiogramma si registrano: bradicardia, aumento del QT e slargamento del QRS. Nelle forme gravi si può arrivare alla paralisi respiratoria, al coma, all’arresto cardiaco. La terapia consiste nella somministrazione di sali di calcio (calcio cloruro 100-200 mg in infusione lenta). Nelle forme gravi è indicata l’epurazione extrarenale.

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Fisiopatologia dell’equilibrio acido-base Il pH intracellulare può variare molto, da 4,5 a 7,6, a seconda delle varie “regioni” o organuli citoplasmici. Il range di variazione del pH dei liquidi extracellulari è minore, da 6,80 a 7,80, essendo sporadico il rinvenimento in vivo di valori al di fuori di tale range. La regolazione del pH intracellulare è prioritaria rispetto a quella del pH extracellulare. I sistemi che presiedono al loro controllo (sistemi tampone, meccanismi di regolazione polmonare e renale) sono molto efficienti ed in grado di regolare la concentrazione di [H+] con una precisione che è 104 più elevata rispetto agli altri ioni. Da ciò ne deriva che il rischio di squilibri così importanti da condizionare le funzioni cellulari è in realtà basso nella stragrande maggioranza dei casi. Al riguardo è comunque da ricordare che: z l’organismo è molto più “attrezzato” nel correggere riduzioni del pH che aumenti; z è importante mantenere un pH > 7,00 nei casi in cui sia necessario il supporto di amine vasoattive endogene ed esogene, in quanto per valori inferiori queste subiscono una notevole riduzione della loro attività.

Regolazione del pH Sistemi tampone L’organismo umano possiede numerosi sistemi tampone che operano a diversi livelli. z

Nel sangue: a. il sistema bicarbonati/ac. carbonico HCO 3–/ H2CO3 (pK = 6,10), è responsabile del 65% dell’attività tampone del sangue in toto; in condizioni normali la sua concentrazione è di 24 mmol/l; b. il sistema fosfati bivalenti/fosfati monovalenti HPO42– / H2PO4– (pK = 6,82) rappresenta meno dell’1% dell’attività tampone del sangue, in quanto presente in concentrazioni minime; c. le proteine comprendendo sia le proteine del plasma sia l’emoglobina degli eritrociti, sono responsabili del 35% dell’attività tampone del sangue in toto. Sono presenti in quantità abbondante (200 g/l) e, pur essendo degli anfoliti a pH ematico si comportano come acidi deboli trovandosi sotto forma di sali di Na.

Il pK dei vari sistemi proteinato/proteina H varia da 6,5 a 8; in particolare il pK dell’emoglobina ridotta è quello più prossimo al pH ematico, essendo pari a 7,7. Tali sistemi sono in grado di tamponare sia gli acidi fissi sia quelli volatili come l’acido carbonico: Proteinato Na+ + HCO3– H+ ˩ Proteina H + NaHCO3 Questa reazione appare molto importante in quanto ha come risultato la rigenerazione di bicarbonati. Il maggior contributo è fornito dall’emoglobina.

z

Nel liquido interstiziale: l’attività tampone dipende dai bicarbonati, in quanto il liquido 317

interstiziale è virtualmente privo di proteine, mentre i fosfati sono presenti in concentrazione trascurabile. D’altra parte, tenuto conto del volume del liquido interstiziale, esso costituisce i 3/4 della capacità tampone del liquido extracellulare.

z Nelle cellule: l’azione tampone è svolta dai fosfati, che sono in grado di operare a tale livello in modo assai efficiente essendo il loro pK prossimo al pH intracellulare, e dai proteinati. Il potere tampone delle cellule è notevole sul piano quantitativo, in quanto il 50% del carico acido viene tamponato all’interno della cellula.

Regolazione polmonare Il polmone svolge un ruolo capitale nell’eliminazione degli ioni H+ legati all’H2CO3. Questa attività amplifica in modo straordinario il potere tampone del sistema HCO3– / H2CO3.  In condizioni normali i polmoni eliminano circa 300 l di CO2 /die, che equivale al tamponamento di 13 miliardi di µmol di H+/die. Inoltre la messa in opera del compenso polmonare è immediata grazie alla sensibilità dei chemorecettori periferici e centrali.

Regolazione renale Benché alquanto più lenti ad operare, i meccanismi di compenso renale sono in grado di ristabilire il pH fisiologico. Il rene svolge un ruolo capitale nell’eliminazione degli ioni H+ legati agli acidi fissi e nella rigenerazione degli ioni HCO3–. In condizioni normali elimina circa 50-80 mmol/die di acidi, pari alla quota giornaliera di acido introdotta con la dieta. Il pH urinario può variare da 4,4 a 8, il che equivale a variazioni della concentrazione in ioni H+ da 40.000 µmol/l a 10 µmol/l. In condizioni metaboliche normali, allorché l’apporto di acidi è superiore a quello delle basi, il riassorbimento dei bicarbonati è completo sino ad un determinato livello soglia di bicarbonati plasmatici; tale valore soglia è pari a 28 mmol/l. Ogni ione HCO3 riassorbito viene scambiato con uno ione H +. Una quota di ioni H+ viene eliminata sotto forma di acidi deboli (soprattutto acido fosforico). Tale quota, che può essere misurata cimentando le urine con una base forte (acidità titolabile), ammonta a 20-40 mmol/die. Circa 2/3 degli ioni H+ (30-50 mmol/die) possono essere escreti come NH 4+, essendo quasi tutta l’ammoniaca delle urine presente sotto forma di ione ammonio quaternario in condizioni normali.

Alterazioni del pH Acidosi respiratoria  L’acidosi respiratoria corrisponde ad un accumulo di acido carbonico nel sangue, secondario ad un aumento di CO2 (ipercapnia) (Tab. 10.1).

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Data la scarsa solubilità nell’acqua e nel plasma della CO2 (0,003 mol/mmHg a 37 °C), il suo aumento determina uno spostamento verso destra delle reazioni di equilibrio: CO2 + H2O ˩ H2CO3 ˩ HCO3– + H+ Il risultato è un accumulo di ioni H+. L’acidosi respiratoria riconosce quindi come origine un’ipercapnia che determina acidemia senza diminuzione di basi tampone.L’acidosi respiratoria con acidemia è definita da un pH inferiore a 7,38 e da una PaCO2 superiore a 42 mmHg. Sul piano eziologico si identifica con tutte le situazioni di ipoventilazione alveolare globale, acute e croniche, di origine centrale, neuro-muscolare, bronco-polmonare. Alcune forme, meno frequenti, sono imputabili ad eccessivo assorbimento di CO2 o ad aumentata produzione endogena per aumento del metabolismo. Acidosi respiratoria acuta: il tamponamento degli ioni H+ provenienti dalla dissociazione dell’acido carbonico avviene prevalentemente a carico dell’emoglobina, soprattutto di quella ridotta (effetto Haldane). L’aumento della concentrazione intraglobulare di ioni HCO3 ne provoca la diffusione per gradiente nel plasma; per mantenere l’equilibrio cellulare (equilibrio di DonnanGibbs) ioni Cl – entrano nell’eritrocita. A livello del liquido cefalo-rachidiano (LCR),ove peraltro la CO2 diffonde facilmente, il pH si abbassa più rapidamente rispetto al plasma a causa della mancanza di proteine in grado di tamponare l’eccesso di H+.  Nelle forme acute il pH è francamente acido, non infrequentemente è inferiore a 7,20, mentre i bicarbonati e la CO2 totale sono di poco aumentati. Ciò provoca una risposta ventilatoria indotta che si sovrappone a quella provocata dalla stimolazione dei chemorecettori periferici. I fenomeni di compenso renale sono in questa fase poco influenti. · Acidosi respiratoria cronica: la correzione è principalmente dovuta ai meccanismi di compenso renale, che determinano un aumentato riassorbimento di HCO 3–, con conseguente aumentata escrezione di ioni Cl –, risultandone una ipocloremia, e un’aumentata escrezione di H+, con conseguente aumentato riassorbimento di K +, risultandone una iperkaliemia. 319

 Nell’acidosi respiratoria cronica, il pH è di poco ridotto o è nella norma, mentre la CO2 totale ed i bicarbonati plasmatici sono significativamente aumentati. Quadro clinico. La sintomatologia dipende dagli effetti della CO2 sul sistema neuro-vegetativo, che sono di stimolazione, e sulla muscolatura liscia del miocardio e dei vasi, al cui livello determina depressione. I segni e sintomi principali sono l’eritrosi, la sudorazione, la tachicardia, spesso aritmia, l’ipertensione arteriosa sistemica e polmonare. In relazione alla gravità del quadro umorale, compaiono turbe a carico del sistema nervoso centrale che vanno da alterazioni del tono mucolare “asterixis”, a turbe della vigilanza, quali agitazione, cefalea, convulsioni, sino al coma. Ciò è dovuto all’aumento della pressione intracranica, secondaria alla vasodilatazione cerebrale, ed alla comparsa di edema cerebrale. Quando l’ipercapnia acuta è secondaria ad eccessivo assorbimento o produzione endogena di CO 2, la ventilazione/ minuto è aumentata,divenendo il respiro ampio e rapido. Nell’ipercapnia cronica, l’aumento dei bicarbonati nel LCR e la normalizzazione del pH annullano la stimolazione respiratoria. Sul piano terapeutico, i casi di ipoventilazione alveolare acuta vanno trattati mediante il supporto di ventilazione artificiale. Nelle forme di origine centrale l’impiego di stimolanti è in genere controindicato per il rischio di convulsioni indotte da tali farmaci. Tuttavia, può essere indicata la somministrazione di naloxone nelle depressioni respiratorie da oppiacei. La somministrazione di neostigmina può risolvere un residuo di curarizzazione o ridurre il blocco miastenico. Le forme di insufficienza respiratoria cronica con componente ostruttiva si giovano del trattamento dell’ostruzione mediante broncodilatatori, aspirazione tracheale, cui va aggiunto il trattamento delle sovrainfezioni. L’ossigenoterapia, nei casi in cui si associ ipossiemia, va utilizzata con molta prudenza, inquanto l’ipossiemia è spesso l’unico stimolo dei centri respiratori. Può essere somministrato O2 a basso flusso (meno di 1 l di O2/min), mantenendo una stretta sorveglianza della PaCO2. L’aumento di quest’ultima in corso di ossigenoterapia indica il ricorso alla ventilazione artificiale. Due fatti vanno comunque tenuti sempre presenti. In primo luogo, la normalizzazione dell’ipercapnia va sempre attuata in modo graduale, per evitare una brusca cessazione nell’iperattività neuro-adrenergica (“collasso da riventilazione”). In secondo luogo, alla normalizzazione dell’ipercapnia non si accompagna una pari riduzione dei bicarbonati plasmatici che restano elevati. In questo caso trova indicazione l’impiego di inibitori dell’anidrasi carbonica, come l’acetazolamide, che aumentano l’escrezione renale di bicarbonati.

Alcalosi respiratoria  L’alcalosi respiratoria corrisponde ad una diminuzione della concentrazione di ioni H+ secondaria alla riduzione della CO2 plasmatica (ipocapnia). L’ipocapnia è sempre la conseguenza di un’iperventilazione alveolare. L’alcalosi respiratoria con alcalemia è definita da un pH maggiore di 7,42 ad una PaCO 2 inferiore a 36 mmHg; i bicarbonati plasmatici sono proporzionalmente ridotti. Alcalosi respiratoria acuta  Nell’ipocapnia acuta la PaCO2 appare notevolmente ridotta, anche minore di 15 mmHg, il pH è francamente alcalino, in genere superiore a 7,45, mentre il tasso di bicarbonati è ridotto in modo modesto, compreso tra 22-24 mmol/l (Tab. 10.2). A livello del LCR le variazioni del pH seguono quelle del plasma: ne deriva una depressione dei centri respiratori. La vasocostrizione cerebrale indotta favorisce l’ischemia cerebrale, da cui una prevalenza del metabolismo anaerobio a livello dei neuroni con conseguente aumento di lattati e ioni H+.Tra le modificazioni osservabili, di una certa importanza appare la riduzione del calcio ionizzato.

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Alcalosi respiratoria cronica L’ipocapnia cronica è contrassegnata da un’ipercloremia secondaria alla diffusione di ioni Cl – dal compartimento eritrocitario a quello plasmatico e per ridotta eliminazione a livello renale. L’aumento degli ioni Cl – riequilibra la colonna anionica. È pure presente un’ipokaliemia per aumentata perdita a livello renale dovuta allo scambio con gli ioni H+ che vengono ritenuti quale compenso all’aumento del pH. Quadro clinico. È dominato dai segni secondari alla vasocostrizione cerebrale ed all’ischemia neuronale: ipereccitabilità, convulsioni, tetania muscolare (cui contribuisce l’ipocalcemia), cefalea, disorientamento nello spazio e nel tempo. A carico del sistema cardiovascolare l’alcalosi esplica un effetto depressore che è soprattutto evidente nelle forme da iperventilazione passiva (in corso di ventilazione meccanica durante anestesia) in cui si può osservare una riduzione della gittata cardiaca.Tale circostanza, insieme alla vasocostrizione generalizzata, costituisce una situazione ad elevato rischio per i pazienti cardiopatici, coronaropatici e vasculopatici in generale, potendo esitare in un infarto miocardico o ictus cerebrale. Nelle forme dovute a iperventilazione attiva, la portata cardiaca è invece generalmente aumentata. La terapia dell’alcalosi respiratoria spontanea si basa sulla rimozione delle cause, mentre quella dell’iperventilazione passiva si avvale dell’adeguamento dei parametri di ventilazione meccanica alle esigenze del paziente.

Acidosi metabolica L’acidosi metabolica corrisponde quasi sempre ad un eccesso di acidi fissi nel sangue, che determina una riduzione delle basi tampone; talora è imputabile ad una perdita di basi tampone di origine renale o digestiva.  L’acidosi metabolica con acidemia è definita da un pH inferiore a 7,35 e da una concentrazione di HCO3- plasmatica inferiore a 24 mmol/l. La PaCO2 è funzione delle condizioni dell’effettore 321

polmonare, essendo abitualmente ridotta (Tab. 10.3).

D’altra parte si definisce acidosi lattica una concentrazione di lattato nel sangue > 5 mmol/l ed una 322

riduzione del pH < 7,25. In base alle condizioni cliniche di apparizione viene classificata in: z tipo A: associata a segni di ipossia tissutale; z tipo B: altre condizioni (per es.: deficit enzimatici, etilismo, fenformina, cirrosi eccetera). Tuttavia diversamente da quanto comunemente si ritiene, la produzione di acido lattico non comporta di per sé l’aumento della concentrazione di [H+] intracellulare. Il lattato viene prodotto a livello del cytosol a partire dal piruvato: Piruvato + NAD+ + H+ ൺ lattato + NAD In realtà, è l’idrolisi anaerobia dell’ATP associata al mancato riciclaggio di ADP, Pi e H+ nei mitocondri che aumenta la concentrazione di [H+]: ATP ൺ ADP + Pi + H+ + energia La proporzione [lattato] v [H+] è vera solo nei casi di ipossia globale severa (arresto cardiocircolatorio, shock ipovolemico acuto grave). In corso di sepsi o shock settico tale relazione non è vera a causa della marcata eterogeneità della perfusione che fa sì che l’ipossia cellulare sia a carattere regionale o anche distrettuale nell’ambito di un organo. Nella condizione definita come disossia, condizione nella quale la richiesta energetica della cellula oltrepassa l’energia prodotta aerobicamente, si ha un accumulo di AMP: ADP + ADP ൺ ATP + AMP Tale accumulo ha due conseguenze maggiori: z conversione dell’AMP in adenosina, che rappresenta la risposta metabolica a feedback della cellula all’ipossia, in quanto l’adenosina vasodilata il microcircolo aumentando il flusso tissutale; z conversione dell’AMP a IMP, che se da un lato aiuta la cellula a conservare i nucleotidi adeninici, dall’altro ha il possibile importante svantaggio della successiva metabolizzazione dell’IMP a xantina e acido urico in condizioni di ischemia-riperfusione. Ciò porta alla formazione di radicali liberi dell’O2. Quadro umorale. Il fatto costante è la riduzione più o meno importante dei bicarbonati plasmatici che possono scendere a meno di 10 mmol/l.Anche il pH è sempre ridotto nelle forme acute ed intense, potendo risultare inferiore a 7,0, mentre nelle forme croniche è normale o prossimo al normale. La riduzione della PaCO2 è costante, in ragione dell’iperventilazione alveolare di origine centrale. Le modificazioni elettrolitiche sono in parte ascrivibili ai movimenti ionici secondari al tamponamento di ioni H+, in parte dipendono dall’eziologia dell’acidosi. Schematicamente si osserva, nella maggior parte delle acidosi metaboliche, un’ipocloremia e un’iperkaliemia con conseguente aumento del gap anionico(1). Quando l’acidosi è dovuta a perdita di basi tampone, si nota invece ipercloremia, tendenza all’ipopotassiema senza aumento del gap anionico. Questa situazione non è tuttavia esatta qualora una forma di acidosi dovuta a perdita di basi tampone si complichi con uno shock ipovolemico o un’insufficienza renale funzionale. Quadro clinico. Gran parte della sintomatologia osservabile nei pazienti in acidosi metabolica è in rapporto alla causa dell’acidosi stessa. È comunque direttamente in relazione all’acidosi l’iperventilazione che si osserva nell’acidochetosi diabetica (respiro di Kussmaul), osservabile del resto in tutte le acidosi gravi. Nel coma diabetico la polipnea elimina non solo CO 2, ma anche forti quantità di acetone (alito acetonemico). L’iperventilazione è in parte responsabile della disidratazione che spesso si associa. Il collasso cardiovascolare è più spesso la causa che la conseguenza di un’acidosi metabolica. Le alterazioni della coscienza solo raramente sono riconducibili all’acidosi. 323

Per quanto riguarda la terapia, solo quella eziologica è in grado di correggere l’acidosi in caso di acidochetosi diabetica, ipossia tissutale ed in genere in tutte le forme da iperproduzione endogena di ioni H+. Nelle forme contrassegnate da insufficienza renale acuta con anuria, l’epurazione extrarenale è il presidio più adeguato, in quanto offre il vantaggio di correggere contemporaneamente sia l’iperazotemia sia le alterazioni elettrolitiche e l’acidosi. Il trattamento sintomatico si avvale dell’apporto di basi tampone allo scopo di neutralizzare l’eccesso di ioni H+. Il bicarbonato di sodio è il più utilizzato, in quanto è direttamente utilizzato dall’organismo. La soluzione isotonica 14 g% (166 mmol/l di NaHCO3) è la più indicata per l’infusione endovenosa. La quantità di sodio bicarbonato somministrabile nelle diverse situazioni è difficilmente prevedibile. Le varie formule di calcolo forniscono sempre stime errate ed espongono all’ipercorrezione dell’acidosi, evento questo più dannoso da un punto di vista fisiologico dell’acidosi stessa. Sono raccomandabili due linee guida: 1) correzione del pH allorché questo è < 7,20; 2) somministrazione refratta nel tempo di modeste quantità di sodio bicarbonato (per es.: 50 mEq di NaHCO3 in 20-30 min ogni 60-120 min). Il trattamento sintomatico con sodio bicarbonato appare controverso se non controindicato nella correzione dell’acidosi lattica, per il rischio di grave danno delle funzioni della cellula come conseguenza della riduzione del pH intracellulare secondaria alla diffusione intracellulare di CO2 liberata dall’azione del bicarbonato. D’altra parte ci sono evidenze del fatto che l’acidosi eserciterebbe una funzione di protezione in corso di ischemia-riperfusione, riducendo l’entità della formazione di radicali liberi dell’O2.

Alcalosi metabolica L’alcalosi metabolica corrisponde ad un eccesso di basi tampone nel sangue, dovuto sia ad un eccessivo apporto di alcalinizzanti, sia, più spesso, a perdita di ioni H+ ed altri elettroliti per via digestiva o renale.  È definita da un pH superiore a 7,42 e da un tasso plasmatico di HCO 3- maggiore di 27 mmol/l. La PaCO2 è in genere lievemente aumentata per depressione dei centri respiratori (Tab. 10.4).

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Le forme secondarie a perdite digestive sono dovute alla perdita di ioni Cl –, per cui l’ipocloremia è costante. In questa situazione, l’associarsi di uno stato di disidratazione aggrava l’alcalosi in quanto l’aumentato riassorbimento di sodio a livello del tubulo distale, indotto dalla contrazione del compartimento extracellulare, determina un aumento dell’escrezione di ioni H+ e K +, risultandone un’aciduria detta paradossa, a causa dell’alcalosi plasmatica concomitante. Il deficit di potassio rappresenta un fattore favorevole l’alcalosi in quanto la kaliopenia aumenta la soglia di riassorbimento dei bicarbonati a livello renale. Allo stesso modo, il calcio determina a livello del tubulo distale un aumento degli scambi Na/H e Na/K, aumentando la disponibilità del sodio a tale livello. La carbenicillina e la penicillina sono sali di sodio i cui anioni sono poco diffusibili, lentamente mobilizzati e poco riassorbibili a livello renale. Di conseguenza, per neutralizzare le cariche negative dovute all’anione, aumenta l’escrezione attiva di K+ e H+, che provoca un’alcalosi ipopotassiemica. Quadro clinico. Sul piano clinico, possono comparire alterazioni cardiovascolari (turbe del ritmo, depressione dell’-ST), neurologiche (tetania, convulsioni). La terapia eziologica, ove è possibile, è indispensabile: soppressione degli apporti alcalini, arresto dei diuretici, riduzione dell’aspirazione gastrica, trattamento chirurgico della stenosi pilorica e delle occlusioni alte, trattamento dell’iperaldosteronismo. Il trattamento sintomatico consiste nella ricostituzione del patrimonio di cloro e di potassio e nel compenso dell’eventuale ipovolemia. Talora è necessario somministrare 500/750 mmol di cloruro di potassio in 2-3 gg.Anche in caso di ipopotassiemia severa, il compenso va attuato mediante potassio cloruro, in quanto gli altri sali di potassio non sono in grado di 325

correggere l’alcalosi ipocloremica costantemente associata. Abitualmente si procede all’infusione venosa continua di potassio cloruro a concentrazioni inferiori all’1% in soluzione glucosata. La correzione degli stati di disidratazione mediante soluzioni polisaline è di capitale importanza, ma occorre tenere presente l’entità dell’apporto di sodio per il rischio di edema nei casi di ipokaliemia marcata, a causa della ritenzione sodica presente.La somministrazione di sali di calcio è talora utile nelle alcalosi metaboliche di origine digestiva. Nei casi di ipopotassiemia, la somministrazione di calcio è prescritta sino alla sua correzione. La somministrazione di acidificanti quali il cloruro d’ammonio, il cloridrato di arginina non trovano attualmente impiego razionale.

Reazione neuroendocrina allo stress Per stress, in medicina, si definisce l’aggressione contro un organismo vivente e l’insieme delle reazioni biologiche che l’organismo aggredito mette in atto. Benché i tipi di stress siano molti e diversi tra loro (traumatico, chirurgico, infettivo eccetera) la risposta dell’organismo all’aggressione è nei suoi tratti essenziali univoca, stereotipata, aspecifica. Essa è composta di elementi reazionali nervosi, endocrini, metabolici e immunologici, modulati in vario grado. L’entità di questa risposta non è proporzionale alla gravità dell’aggressione, piuttosto alla sede della lesione ed alle caratteristiche biologiche del malato.  Sistema microendocrino. Il “primum movens” sembra essere l’attivazione del cosiddetto “sistema microendocrino” costituito dalle interleuchine e prostaglandine, sostanze ormonosimili considerate i principali mediatori della risposta infiammatoria. L’attivazione del sistema microendocrino ha inizialmente carattere locale, verificandosi a livello della lesione, può tuttavia coinvolgere distretti dell’organismo più ampi di quello aggredito attraverso meccanismi di amplificazione e reclutamento. Le interleuchine e le prostaglandine si liberano in sede della lesione e sono prodotte le une dai macrofagi e dai neutrofili attivati, le altre dai tessuti lesionati. Il sistema microendocrino attivato è in grado, a sua volta, di attivare il sistema macroendocrino per via centripeta e di indurre a livello del fegato la cosiddetta “risposta di fase acuta”. La sensazione di dolore contribuisce in vario grado ed in via riflessa all’attivazione del sistema macroendocrino.  Sistema macroendocrino. L’attivazione del sistema macroendocrino comporta: x un ipertono ortosimpatico, con liberazione di catecolamine; x un ipertono neurodiencefalico, con iperincrezione di ACTH, aldosterone,ADH, GH. L’iperincrezione di catecolamine è a sua volta responsabile dell’aumento del glucagone, ed ha effetti inibitori sulla secrezione di insulina. Tuttavia l’insulinemia, che si riduce nelle prime ore che seguono allo stress, aumenta successivamente sia per stimolazione diretta da parte dell’interleuchina 1, sia per l’iperglicemia legata ad un difetto di utilizzazione periferica del glucosio. Questa insulino-resistenza relativa è in gran parte dovuta all’aumento della cortisolemia e del GH. In ogni caso il rapporto insulina/glucagone è ridotto oltre la norma. Fenomeni metabolici. Sul piano metabolico, la reazione ormonale si traduce in quattro effetti principali: z la già citata ridotta utilizzazione periferica del glucosio; z un aumento della neoglucogenesi epatica; z un aumento del catabolismo proteico a livello periferico (muscoli, intestino), con aumento della liberazione di aminoacidi dal tessuto muscolare da 3-5 volte la norma (fenomeno dell’autocannibalismo); z aumentata captazione di aminoacidi ed incremento parallelo dell’attività protido-sintetica a

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livello epatico. Risposta di fase acuta. Gli ultimi due effetti sono in gran parte ascrivibili all’azione dell’interleuchina 1, che induce la proteolisi muscolare stimolando la produzione di prostaglandine muscolari ed attivando le proteasi lisosomiali, mentre a livello epatico stimola la sintesi delle proteine di fase acuta (proteina C-reattiva, fibrinogeno, ceruloplasmina ed antiproteasi). Nel complesso, la risposta ormonale modifica l’assetto metabolico allo scopo di aumentare i substrati disponibili sia per le cellule che costituiscono il “tessuto di riparazione”,che utilizzano come unico substrato il glucosio, sia per il fegato, che nella fase di stress è l’organo centrale della risposta di fase acuta, principale reazione di difesa dell’ospite contro l’infezione. Fenomeni immunologici. Il cortisolo e le catecolamine sembrano d’altra parte avere effetti inibitori su alcune popolazioni linfocitarie, quali i linfociti T-helper, e provocherebbero una linfopenia con inversione del rapporto T-helper/Tsuppressor. L’immunodepressione indotta è soprattutto a carico dell’immunità cellulomediata. Infine sembra che alcune proteine di fase acuta possano avere funzioni immuno-depressive o di immuno-regolazione. Nell’insieme, la risposta neuroendocrina allo stress ha lo scopo di fornire all’organismo aggredito i mezzi per far fronte all’aggressione.Tuttavia essa risulta utile qualora sia limitata nel tempo. La persistenza dei fenomeni neuro-endocrini, metabolici e immunologici conduce l’organismo ad un esaurimento delle risorse e delle difese. D’altra parte un’abnorme amplificazione dell’attività e degli effetti del microsistema endocrino è in grado di determinare un danno strutturale irreparabile a vari organi e sistemi, con conseguente esaurimento delle funzioni vitali dell’organismo. Quadro clinico. Come già detto, la risposta da stress è essenzialmente stereotipata, ed è assimilabile sul piano clinico ad una “reazione di allarme” parziale. Caratteristiche comuni sono infatti una condizione iperdinamica dell’apparato cardiocircolatorio, reclutamento capillare con redistribuzione agli organi implicati nello sforzo fisico quali cuore, cervello, surrenali e muscolo scheletrico, e infine aumento dei lattati arteriosi.

(1) Nel sangue esiste un perfetto equilibrio tra anioni e cationi.A livello del liquido extracellulare la differenza tra [(Na+) + (K+)] e [(Cl–) + (HCO3–)] è costante ed è rappresentata da anioni non dosati,che ammontano normalmente a 16 ± 2 mmol. Gli indosati anionici sono costituiti da solfati, fosfati e dalle cariche negative delle proteine. Quando gli indosati anionici (gap anionico) superano i 20 mmol si può supporre un’invasione di acido nel plasma.Infatti l’addizione di acido al plasma determina: 1) una riduzione degli anioni abitualmente misurati, in quanto gli ioni H+ convertono il bicarbonato in acido carbonico che viene eliminato attraverso i polmoni; 2) un aumento del gap anionico (esclusa l’acidosi ipercloremica),in quanto l’anione dell’acido dissociato che va a riequilibrare la colonna anionica non è generalmente identificato.

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Letture suggerite z

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Arieff A.I., De Frarzo R.A.: Fluid, Electrolyte and Acid-Base Disorders. Churchill Livingstone, Edinburgh, 1985. Cogan M.G., Rector F.C. Jr: Acid-base disorders. In The kidney, 3rd ed. Brenner B.M., Rector F.C. Jr (Eds).W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1986. Gutierrez G.,Wulf M.E.: Lactic acidosis in sepsis: a commentary. Int. Care Med. 22:6-16, 1996. Lucas C.E. et al.: The fluid problem in the critically ill.Surg. Clin. North Am. 63:439, 1983. Weisberg L.S.: Pseudohyponatremia: A reappraisal.Am. J. Med. 86: 315, 1989.

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11 Il periodo postoperatorio 11.1 Le fasi del periodo postoperatorio 11.2 Il dolore postoperatorio 11.3 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 11

Il periodo postoperatorio L. Dominioni con la collaborazione di G. Giudice

Le fasi del periodo postoperatorio Il periodo postoperatorio procede attraverso fasi successive che si possono suddividere in: z periodo postoperatorio immediato; z periodo postoperatorio intermedio; z convalescenza. Tali fasi non sono nettamente separabili secondo rigidi criteri di classificazione; tuttavia, per convenzione, si definisce che: z il periodo postoperatorio immediato è rappresentato dalle prime 24 ore dopo l’intervento; z il periodo postoperatorio intermedio è compreso tra il giorno dopo l’intervento e quello della dimissione; z la convalescenza è il periodo successivo, di durata variabile, necessario per il ritorno alla normale vita di relazione.

Il periodo postoperatorio immediato Durante questa fase è necessario sorvegliare il paziente con particolare cura poiché possono comparire complicanze postoperatorie precoci, di varia natura e gravità, con frequenza direttamente proporzionale alla gravità delle condizioni cliniche, alla durata dell’anestesia e alla complessità delle soluzioni chirurgiche adottate.

Il risveglio anestesiologico Per i pazienti che hanno subito interventi chirurgici in anestesia generale o loco-regionale con sedazione profonda, si distingue, nell’ambito del periodo postoperatorio immediato, una fase iniziale di risveglio anestesiologico. In tale fase i pazienti devono essere strettamente sorvegliati da un anestesista-rianimatore e da personale infermieristico specializzato. Affinché questa sorveglianza possa svolgersi nel modo migliore è opportuno che nella fase del risveglio anestesiologico i pazienti rimangano nelle immediate adiacenze della sala operatoria, in un locale abitualmente definito come “sala di risveglio”, dove deve essere costante la presenza di personale per l’osservazione diretta degli operati e dove devono trovarsi i materiali e gli strumenti necessari per eventuali interventi di tipo rianimatorio. 330

 I pazienti che sono stati sottoposti ad anestesia generale o loco-regionale devono essere tenuti in sala di risveglio fino a quando: x permane il pericolo di complicanze immediate di tipo cardiocircolatorio o respiratorio; x hanno riacquistato un sufficiente stato di coscienza; x i principali parametri e segni vitali (polso,pressione arteriosa, respiro, sensorio) sono considerati stabili. Il periodo di osservazione in sala di risveglio dura solitamente circa un’ora, ma può protrarsi sino ad alcune ore, nei pazienti a maggiore rischio (per es. anestesia prolungata,insufficienza respiratoria, pazienti critici). Durante questo periodo la responsabilità del controllo della funzionalità cardiocircolatoria e respiratoria è dell’anestesista, mentre è compito del chirurgo sorvegliare la ferita, i drenaggi ed eventuali altre manifestazioni patologiche non correlate con l’anestesia (per es. emorragia, ischemia agli arti, fratture ecc.). Successivamente alla fase del risveglio, il paziente viene trasferito nel reparto di degenza e inizia la fase del monitoraggio e della terapia postoperatoria. Nel caso in cui si ravvisi la necessità di un monitoraggio intensivo delle funzioni vitali o sia necessaria una terapia rianimatoria prolungata, il paziente viene trasferito in unità di terapia subintensiva o intensiva. Durante i trasferimenti nell’immediato postoperatorio (dalla sala operatoria alla sala di risveglio, al reparto di degenza o all’unità di terapia intensiva), il paziente deve essere sempre accompagnato da personale infermieristico qualificato e, se necessario, da un medico;essi dovranno trasmettere ai rispettivi colleghi le informazioni essenziali circa l’intervento eseguito e le consegne relative alla prosecuzione del monitoraggio del paziente e della terapia.

Il periodo postoperatorio intermedio Il periodo postoperatorio intermedio, come abbiamo detto, inizia per convenzione dopo 24 ore dall’intervento e si protrae per il resto della degenza postoperatoria; se il decorso clinico è regolare, nel periodo postoperatorio intermedio avviene la stabilizzazione definitiva dei parametri vitali e la fase iniziale della guarigione dal trauma chirurgico. L’evoluzione del processo di guarigione durante il periodo postoperatorio intermedio deve essere accuratamente sorve-gliata mediante il monitoraggio dei parametri vitali, delle condizioni cliniche, della ferita chirurgica e mediante la determinazione dei parametri di laboratorio e degli esami strumentali che verranno indicati in dettaglio nei paragrafi seguenti. Durante questo periodo riveste particolare importanza il monitoraggio e il trattamento della ferita chirurgica e la gestione degli eventuali drenaggi. L’organismo umano sottoposto a intervento chirurgico sviluppa una complessa serie di risposte fisiopatologiche,in reazione al trauma tissutale. Queste risposte coinvolgono numerosi organi e apparati e comportano modificazioni complesse dell’omeostasi; dopo un intervento di media gravità, che si è svolto senza complicanze chirurgiche o anestesiologiche,possiamo distinguere dal punto di vista clinico tre fasi successive. Nella prima fase, della durata di circa 3 giorni, il paziente accusa astenia, anoressia, dolore in sede di ferita e presenta modico rialzo termico (37-37,5 °C); inoltre, nelle prime ore postoperatorie, frequentemente compare nausea e talvolta vomito. Negli interventi addominali l’intestino è disteso per la comparsa di ileo paralitico, con alvo chiuso ai gas. Il paziente presenta inoltre modificazioni del tono dell’umore: è chiuso in se stesso, si lamenta per il dolore e rifiuta di alzarsi. Dal punto di vista metabolico la prima fase di risposta al trauma chirurgico è caratterizzata da catabolismo tissutale. Si verificano numerose modificazioni del metabolismo glicidico, protidico e lipidico; compaiono inoltre variazioni del ricambio idroelettrolitico e dell’equilibrio acido-base, che hanno lo scopo di riportare il volume e la composizione dei liquidi extracellulari alla normalità. La ricostituzione e il risparmio dei liquidi extracellulari spetta essenzialmente al meccanismo di 331

antidiuresi mediato dall’ADH; l’urina diventa concentrata e in essa abbondano sostanze derivate da processi di necrosi cellulare (fosfati, potassio, urea). La seconda fase del decorso postoperatorio non complicato inizia al III-IV giorno; allora il paziente si sente meglio, la temperatura corporea si normalizza, l’alvo diviene pervio ai gas, la diuresi torna normale, dopo una breve poliuria. L’operato si alza più volentieri e incomincia a interessarsi di altre cose che non siano la sua malattia e i suoi dolori. In questa fase, della durata di pochi giorni, i parametri biologici precedentemente alterati ritornano progressivamente nella norma. La terza fase, della durata di alcune settimane, è quella della convalescenza, ed è caratterizzata da un bilancio azotato positivo; è perciò definita anche “fase anabolica”.  Per un adeguato monitoraggio del paziente nel periodo postoperatorio immediato e intermedio, si deve valutare la funzionalità dei principali organi e apparati, al fine di seguire l’evoluzione della risposta al trauma chirurgico e il processo di guarigione postoperatoria. È pertanto necessario valutare ripetutamente, a intervalli periodici che verranno specificati di seguito: x parametri e segni vitali; x funzionalità cardiocircolatoria; x funzionalità respiratoria; x temperatura corporea; x funzionalità renale e vescicale; x funzionalità epatica; x funzionalità gastrointestinale; x coagulazione del sangue; x esami di laboratorio generali e particolari. È inoltre necessario curare la posizione al letto e la mobilizzazione del paziente, sorvegliare e trattare la ferita chirurgica e gli eventuali drenaggi.

Parametri e segni vitali Di fondamentale importanza è la raccolta dei principali parametri e segni vitali indicativi delle tre principali funzioni: z cardiocircolatoria (polso, pressione arteriosa-PA); z respiratoria (frequenza e caratteristiche del respiro); z attività del sistema nervoso (caratteristiche dei riflessi e stato di coscienza). Durante la fase del risveglio anestesiologico il rilevamento di tali parametri viene effettuato ogni 10-15 minuti; successivamente, dopo che si sono stabilizzati i segni vitali,vengono controllati a intervalli regolari nel periodo postoperatorio immediato (ogni 2-4 ore),con frequenza direttamente proporzionale al rischio di complicanze e alle condizioni generali del paziente. Se il decorso clinico è regolare, durante il periodo postoperatorio intermedio la determinazione dei parametri e segni vitali viene solitamente eseguita 1-2 volte al giorno.Nel caso di interventi complessi o di pazienti critici o di gravi complicanze in atto (per es. embolia polmonare, insufficienza respiratoria ecc.) può rendersi necessario il monitoraggio continuo dei parametri vitali e una più stretta sorveglianza del paziente, che deve essere effettuata in unità di terapia intensiva.

Funzionalità cardiocircolatoria Dopo interventi chirurgici di entità minore, nel periodo postoperatorio immediato è sufficiente il monitoraggio dei due parametri di funzionalità cardiocircolatoria più semplici da rilevare: PA e 332

polso. È necessario inoltre controllare la buona perfusione dei tessuti visibili, valutando il colorito della cute e delle mucose e la temperatura cutanea al termotatto. Negli interventi più complessi e nei pazienti in condizioni emodinamicamente instabili o con gravi alterazioni del bilancio dei liquidi e degli elettroliti (per es. shock settico, politrauma ecc.) o che sviluppano complicanze cardiache, si rende necessario il monitoraggio di altri parametri quali l’ECG, la pressione venosa centrale (PVC), la pressione arteriosa (sistemica e/o polmonare) mediante catetere. Per il monitoraggio continuo di questi parametri i pazienti vengono trasferiti in unità di terapia intensiva. La PVC viene determinata mediante un catetere, la cui punta è situata a livello della vena cava superiore o dell’atrio destro; tale catetere viene solitamente inserito mediante puntura percutanea della vena giugulare interna o della vena succlavia o di una loro vena collaterale. La misurazione frequente della PVC è indispensabile per il trattamento dei gravi squilibri emodinamici (per es. shock, ipovolemia, insufficienza cardiaca) al fine di graduare correttamente la somministrazione endovenosa dei liquidi e del sangue. In terapia intensiva la PA viene spesso misurata in continuo mediante catetere inserito in una arteria periferica accessibile alla puntura percutanea (a. femorale, a. radiale). La PA polmonare viene misurata mediante catetere di Swan-Ganz inserito in a. polmonare; tale misurazione fornisce importanti indicazioni sulle condizioni del circolo polmonare e sulla funzionalità delle sezioni destre del cuore.

Funzionalità respiratoria Il monitoraggio postoperatorio della funzione respiratoria è essenziale. Si deve rilevare tempestivamente l’eventuale insorgenza di dispnea, di rantoli o di stridore respiratorio; tali sintomi devono sollecitare una rapida rivalutazione del paziente per escludere ostruzioni a livello delle vie aeree. Si deve sorvegliare la pervietà delle vie aeree in particolare nei pazienti operati a livello dell’orofaringe, del collo o del torace, nonché nei pazienti neurochirurgici, nei politraumatizzati, nei portatori di tracheostomia e in quelli in coma. Nell’immediato periodo postoperatorio in quasi tutti i pazienti sottoposti a intervento chirurgico in anestesia generale si riscontrano transitoriamente alcune alterazioni respiratorie: respiro superficiale; assenza del respiro profondo periodico; riduzione della PO2 arteriosa che perdura spesso oltre le 24 ore; aumento della PCO2,di durata minore; diminuzione della capacità funzionale residua (CFR), della capacità vitale (CV), della capacità polmonare totale (CPT), della velocità di flusso espiratorio forzato (FEV) e della compliance polmonare. Numerose sono le possibili complicanze polmonari postoperatorie (per es. atelettasia, stasi, embolia, polmone da shock, polmonite, versamento pleurico); esse si manifestano con maggiore frequenza nelle seguenti categorie di pazienti a rischio: z pazienti di età superiore ai 70 anni; z forti fumatori; z pazienti con malattie broncopolmonari croniche; z pazienti sottoposti a interventi al torace o ai quadranti addominali superiori. A questo fine si deve eseguire quotidianamente, nel periodo postoperatorio, l’esame obiettivo dell’apparato respiratorio, valutando le caratteristiche del respiro; nel sospetto di complicanze respiratorie, o per documentarne l’evoluzione se queste sono già presenti, si eseguono l’esame radiologico del torace, l’emogasanalisi e la determinazione della saturazione di O2 del sangue.

Temperatura corporea Se le condizioni del paziente sono stabili e il decorso è regolare, la misurazione della temperatura corporea nel periodo postoperatorio immediato viene effettuata 2 volte al giorno (solitamente alle ore 8 e alle ore 16). Se compaiono brividi o sintomi soggettivi di ipertermia, è necessario controllare ripetutamente la temperatura corporea. Se il paziente sviluppa infezioni postoperatorie gravi (per es. 333

setticemia, ascesso, polmonite ecc.) è necessario misurare la temperatura ogni 6 ore. Nei pazienti in condizioni critiche, in terapia intensiva, la temperatura viene misurata in continuo o a intervalli ravvicinati (ogni 2 ore).

Funzionalità renale e vescicale Il rene svolge una funzione fondamentale nella regolazione dell’acqua corporea, dell’equilibrio elettrolitico, dell’equilibrio acido-base e nella eliminazione delle scorie azotate; partecipa inoltre al controllo della pressione sanguigna, metabolizza ormoni e altre molecole e infine rappresenta la via principale di escrezione di molti farmaci somministrati al paziente chirurgico.Tra le funzioni del rene, quelle maggiormente impegnate in conseguenza del trauma chirurgico sono: il controllo osmolare e volumetrico dei liquidi extracellulari, la regolazione del pH ematico e l’eliminazione delle scorie azotate. La concentrazione plasmatica dell’azoto ureico (azotemia) è l’indice di funzionalità renale più comunemente usato; tuttavia esso manca di specificità essendo influenzato da fattori diversi dal filtrato glomerulare, come per esempio da un aumento dell’apporto proteico con la dieta, dal riassorbimento di azoto emoglobinico derivante da emorragia dal primo tratto del tubo digerente, da uno stato di ipercatabolismo, ecc. Al contrario, nei pazienti in cui vi è un ridotto apporto di proteine con la dieta, l’alterazione dell’azotemia è inferiore a quella del filtrato glomerulare. La determinazione della creatininemia è un indice più accurato della funzione renale, poiché è meno influenzato dalle variazioni di apporto proteico con la dieta, pur essendo dipendente dalla massa muscolare del paziente.  In pratica, il monitoraggio biochimico di routine della funzionalità renale si esegue con la determinazione sia dell’azotemia che della creatininemia. Inoltre si esegue routinariamente l’esame delle urine comprendente la determinazione del pH e del peso specifico, e la ricerca di eventuale proteinuria, glicosuria, ematuria, bilirubinuria. Questo esame, che normalmente viene eseguito in laboratorio, può essere effettuato in caso di urgente necessità anche al letto dell’ammalato, utilizzando apposite strisce fornite di indicatori rivelatori da imbibire nell’urina. L’esame microscopico del sedimento urinario per la ricerca di globuli bianchi, di cellule epiteliali e di batteri, spesso rappresenta per il chirurgo la possibilità di diagnosticare precocemente la presenza di una disfunzione renale o di una infezione delle vie urinarie. In caso di insufficienza renale acuta postoperatoria, il monitoraggio della funzionalità renale si avvale anche della determinazione della clearance della creatinina, della osmolarità urinaria e della concentrazione urinaria di Na e K (vedi Complicanze postoperatorie, al paragrafo Insufficienza renale acuta). Nel periodo postoperatorio immediato e nei primi giorni di quello intermedio, si deve sempre effettuare la raccolta delle urine emesse nelle 24 ore. La misurazione del volume di diuresi giornaliera (o la diuresi oraria, nel caso di monitoraggio intensivo) rappresenta un parametro di fondamentale importanza nel monitoraggio della funzionalità renale e per il controllo della pervietà e funzionalità delle vie escretrici urinarie. Nel periodo postoperatorio una diuresi normale (circa 1000-1500 ml/die oppure circa 45-60 ml/ora), in presenza di un adeguato apporto di liquidi, con esame delle urine normale, indica l’assenza di complicanze di rilievo a carico della funzionalità dell’apparato urinario e attesta la pervietà delle vie escretrici. Una diuresi normale indica inoltre una buona perfusione arteriosa renale ed è quindi un importante segno indiretto di buon compenso emodinamico nel periodo postoperatorio. Naturalmente tali dati da soli non consentono di escludere eventuali alterazioni funzionali e/o di pervietà renoureterale monolaterale, mascherate dal compenso 334

controlaterale. Se vi è ragionevole motivo di ritenere che per il tipo di patologia preesistente (per es. litiasi renoureterale) o per complicanze locali postoperatorie (per es. lesione ureterale) vi è rischio di lesione monolaterale delle vie urinarie, questa andrà studiata con metodiche adeguate (per es. ecografia renale, urografia, cistografia, nefrogramma ecc.). Nella maggior parte degli interventi chirurgici di entità minore, il monitoraggio postoperatorio della diuresi viene effet-tuato semplicemente raccogliendo in apposito contenitore tutte le urine emesse nelle 24 ore.  È necessario invece procedere al controllo della diuresi mediante cateterismo vescicale a permanenza, preferibilmente con catetere di Foley a palloncino, nel caso in cui vi siano: x ostacoli al deflusso dell’urina dalla vescica (per es. adenoma prostatico); x atonia vescicale; x mancato controllo neurologico della vescica (per es. coma); x paziente non collaborante o incontinente. Il monitoraggio della diuresi mediante catetere vescicale a permanenza è inoltre necessario intraoperatoriamente e nel periodo immediatamente postoperatorio in tutti gli interventi di chirurgia maggiore, di chirurgia pelvica e di chirurgia d’urgenza, allo scopo di monitorare la funzionalità renale e vescicale in modo continuo. Talora il controllo della diuresi avviene mediante la raccolta separata delle urine provenienti da ciascuno dei due ureteri, preventivamente incannulati mediante appositi cateteri di piccolo calibro; tale procedura viene impiegata negli interventi che interessano direttamente, o per contiguità, gli ureteri.

Funzionalità epatica Durante l’intervento chirurgico si verifica spesso una diminuzione del flusso ematico al fegato; ciò rallenta e ostacola transitoriamente le funzioni epatiche, pur non comportando manifestazioni cliniche apprezzabili se l’organo è in partenza sano. Il monitoraggio completo dei parametri ematochimici di funzionalità epatica (transaminasi, gammaGT, fosfatasi alcalina, bilirubina, fattori della coagulazione, albumina,ammoniemia) si rende indispensabile solo in pazienti epatopatici,o quando siano intervenuti fattori di danno epatico quali: ipossia da ipoperfusione arteriosa (shock) o rallentamento del flusso venoso portale (stasi portale), clampaggio del peduncolo epatico, farmaci epatotossici, sepsi.

Funzionalità gastrointestinale Nella maggior parte degli interventi chirurgici e soprattutto in quelli che interessano il tubo gastroenterico è importante monitorare nel periodo postoperatorio alcuni parametri che consentono di seguire il processo di normalizzazione della funzionalità gastrointestinale, alterata dal trauma chirurgico; ciò consente inoltre di diagnosticare precocemente lo sviluppo di eventuali complicanze addominali e di prendere tempestivamente i provvedimenti più idonei. Negli interventi di chirurgia addominale in cui si procede a estesa manipolazione di visceri o si eseguono anastomosi del tubo digerente, oppure in chirurgia d’urgenza, viene abitualmente posizionato un sondino nasogastrico (calibro 8-10 Fr.), con lo scopo di detendere lo stomaco dal contenuto liquido e gassoso e di verificare le caratteristiche del liquido di ristagno gastrico.

Ai fini del monitoraggio della ripresa della funzione gastrointestinale è opportuno rilevare una o più volte al giorno il volume e le caratteristiche del ristagno gastrico (secreto gastrobiliare; presenza di 335

sangue; liquido fecaloide). Per determinare la ripresa della funzione gastrointestinale si valutano: la comparsa di rumori di peristalsi, la canalizzazione dell’alvo ai gas e alle feci, nonché le caratteristiche delle scariche alvine. Il numero delle scariche alvine e le caratteristiche delle feci (formate, liquide, normo o ipocoliche, picee, verniciate di sangue, francamente ematiche) forniscono preziose informazioni circa l’esistenza di eventuali flogosi gastrointestinali, emorragie o alterazioni del deflusso biliare. L’entità e le caratteristiche del ristagno gastrico nonché il rilevamento di una diarrea cospicua sono indici da valutare accuratamente nel computo del bilancio idroelettrolitico e dell’equilibrio acido-base.

Coagulazione del sangue Nella maggior parte degli interventi chirurgici non avvengono sostanziali modificazioni della capacità di coagulazione del sangue. Se l’emostasi intraoperatoria è stata eseguita correttamente, è sufficiente constatare l’assenza di sanguinamento a livello della ferita chirurgica, l’assenza di petecchie emorragiche a livello di cute e mucose visibili, l’assenza di emorragie dal tubo digerente, dalle vie respiratorie o di ematuria, l’assenza di ematoma in sede d’incannulazione vasale. Se viene impiegata terapia anticoagulante a scopo di profilassi tromboembolica postoperatoria, è necessario procedere a controlli sistematici della attività protrombinica e di eventuali altri fattori della coagulazione, così come indicato nel Capitolo 3, nel paragrafo “Profilassi antitrombotica”. Analogamente andranno ripetutamente monitorati i parametri fondamentali della coagulazione del sangue (tempo di Quick, PTT, conta piastrinica, calcemia) nel caso di deficit della coagulazione presenti già prima dell’intervento (per es. piastrinopenia, epatopatia grave, deficit di vitamina K, emofilia, terapia anticoagulante in atto ecc.) o insorti intraoperatoriamente (emorragie gravi, emotrasfusioni massive).

Esami di laboratorio Dopo interventi di chirurgia minore, di breve durata, privi di complicanze intraoperatorie e in pazienti in buone condizioni generali, non sono solitamente necessari esami di laboratorio nell’immediato periodo postoperatorio.  Negli interventi di chirurgia maggiore è necessario controllare sempre, entro le prime 24 ore postoperatorie, i seguenti parametri: esame emocromocitometrico, azotemia, glicemia, elettroliti plasmatici, prove di coagulazione, volume ed esame delle urine; talora, dopo interventi complessi, è necessario determinare più volte alcuni di questi parametri (per es. emocromo, glicemia, elettroliti, coagulazione ecc.) nelle ore immediatamente successive all’intervento chirurgico, per correggere tempestivamente eventuali squilibri documentati. Dopo interventi chirurgici maggiori è necessario ripetere la determinazione degli esami di laboratorio di cui al paragrafo precedente: a giorni alterni nel corso della prima settimana postoperatoria, allo scopo di documentare il normale evolversi del decorso postoperatorio; successivamente il monitoraggio dei parametri viene solitamente interrotto in caso di decorso regolare, o continuato a seconda della necessità di seguire decorsi clinici prolungati (per es. dopo esofagectomia, pancreasectomia ecc.). In pazienti che hanno subito interventi chirurgici prolungati, che hanno avuto importanti emorragie intraoperatorie o che presentano rilevanti squilibri idroelettrolitici, shock o insufficienza respiratoria, è fondamentale eseguire il controllo dell’equilibrio acido-base. Vi sono condizioni patologiche (per es. diabete, pancreatite, insufficienza renale, respiratoria, epatica) o complicanze (per es. fistole intestinali, infezioni, emorragie ecc.) per monitorare le quali sono necessari controlli ripetuti, anche più volte nella giornata, di parametri di laboratorio specifici 336

(per es. glicemia,calcemia,emogasanalisi,prove di coagulazione, elettroliti ecc.). Il paziente in condizioni critiche o in condizioni emodinamiche, respiratorie o metaboliche instabili necessita del monitoraggio frequente di numerosi parametri di laboratorio e di determinazioni strumentali, oltre che di adeguati interventi terapeutici, che possono essere eseguiti correttamente solo in un reparto attrezzato per la terapia intensiva. Nei pazienti che debbono essere mantenuti in nutrizione parenterale totale (NPT) protratta, è opportuno valutare l’equilibrio acido-base almeno una volta alla settimana, fino alla stabilizzazione delle condizioni generali.

Criteri di ammissione in terapia intensiva L’Unità di Terapia Intensiva (UTI) è un reparto con strumentazione tecnologicamente avanzata e con personale specializzato, per il monitoraggio approfondito e continuo delle funzioni cardiocircolatorie, respiratorie, metaboliche e neurologiche, e per il supporto delle funzioni vitali. È insito nel concetto di terapia intensiva il presupposto che il sostegno delle funzioni vitali sia solo transitoriamente necessario e quindi che esista la possibilità di recupero del paziente.  Possono diventare candidati al ricovero in terapia intensiva i pazienti che dopo essere stati sottoposti a intervento chirurgico presentano funzionalità precaria di uno o più apparati vitali (per es. cardiocircolatorio, respiratorio) o presentano gravi alterazioni dell’omeostasi dell’organismo. È opportuno individuare già preoperatoriamente, i pazienti che, per la gravità delle loro condizioni, potenzialmente, necessitano di trattamento in UTI nel periodo postoperatorio; in chirurgia d’elezione tali pazienti devono essere sottoposti a intervento solo dopo adeguata preparazione, per migliorarne le condizioni generali. Le malattie che preoperatoriamente devono far prevedere la necessità di un ricovero in terapia intensiva nel decorso postoperatorio possono essere distinte in: z alterazioni cardiocircolatorie (miocardiopatie gravi, angina instabile, patologie valvolari gravi); z alterazioni respiratorie (paziente portatore di grave insufficienza respiratoria e in cui si prevede la necessità di un periodo di assistenza meccanica respiratoria); z alterazioni del sistema nervoso centrale e/o periferico (gravi alterazioni dello stato di coscienza, miopatie, miastenia ecc.); z patologie particolari (per es. insufficienza epatica, insufficienza renale). Nella chirurgia d’elezione è inoltre previsto, in relazione a interventi particolarmente demolitivi, il ricovero di routine nel decorso postoperatorio presso terapie intensive specialistiche, dedicate al particolare tipo di chirurgia (per es. cardiochirurgia, neurochirurgia, chirurgia vascolare maggiore, chirurgia dei trapianti).  In generale, i fattori che giustificano la necessità di un decorso postoperatorio in UTI sono: impegno emodinamico in relazione al particolare tipo d’intervento, alterazioni degli scambi respiratori, dello stato di coscienza, alterazioni metaboliche gravi. In chirurgia d’urgenza è più frequente la necessità di dover ricorrere al trattamento del paziente in UTI; infatti, spesso si presentano i seguenti problemi: z gravi condizioni generali del paziente; z impossibilità di una sua preparazione ottimale; z frequente presenza di malattie multisistemiche, quali sepsi, shock, MOF, ARDS; z perdite ematiche massive non tempestivamente compensate; z dislocazione di liquidi nel terzo spazio (per es. infarto mesenterico, occlusione intestinale). 337

Le seguenti alterazioni giustificano l’ammissione in terapia intensiva: z apparato respiratorio: tachipnea grave (frequenza respiratoria 30 atti minuto), ipossiemia (PaO2 < 60 mmHg), ipercapnia (PaCO2 > 50 mmHg con associata acidosi), alterazioni della meccanica respiratoria, aumento della quota di shunt, atelettasie gravi; z sistema cardiocircolatorio: ipotensione difficilmente trattabile, alterazioni del ritmo cardiaco, della gittata cardiaca, segni di ipoperfusione distrettuale, di inadeguato trasporto di O2, oliguria, necessità di sostenere il circolo con farmaci inotropi e vasodilatatori; z sistema urinario: incapacità di mantenere un’adeguata omeostasi idroelettrolitica e alterata funzione emuntoria renale (oliguria, clearance creatinina < 10 ml/min); z funzionalità epatica: coma epatico; z sistema nervoso centrale: alterazioni della coscienza (scala di Glasgow < 8,Tab. 11.1).

Il trattamento in terapia intensiva permette di poter intervenire in modo ottimale su questi squilibri; con il monitoraggio completo delle principali funzioni dell’organismo è possibile effettuare il supporto delle funzioni vitali e un sostegno razionale dell’equilibrio emodinamico e metabolico. Il sostegno precoce delle funzioni vitali consente di evitare l’instaurarsi di circoli viziosi autoperpetuantisi che sono spesso la causa dell’insuccesso del trattamento. Per esempio, nel paziente in precarie condizioni emodinamiche non adeguatamente trattato, rapidamente insorgono alterazioni delle funzioni di vari organi in relazione all’ipoperfusione e alla ridistribuzione del circolo (rene,cuore,SNC,circolo splancnico,polmone); si ha aumento della frazione di shunt, ipossiemia, acidosi metabolica, attivazione dei fattori dell’infiammazione, tutte alterazioni in grado di peggiorare l’emodinamica. Analoghe complicanze intervengono rapidamente nel caso di un’affezione respiratoria primitiva non trattata tempestivamente. Si deve pertanto ricordare che quando un’alterazione importante di una o più funzioni vitali e la necessità di un monitoraggio costante e intenso giustificano il trattamento in terapia intensiva, tanto più è precoce il trasferimento del paziente, tanto maggiore sarà la possibilità di successo del trattamento intensivo stesso.

Posizione a letto e mobilizzazione Il paziente deve assumere nel letto una posizione che diminuisca il rischio di stasi venosa e di 338

trombosi agli arti inferiori, di comparsa di atelettasia polmonare e di piaghe da decubito. Nel paziente vigile e cosciente la prevenzione di queste complicanze si esegue invitando il paziente stesso a cambiare ripetutamente posizione nel letto e a muovere gli arti inferiori; se il paziente non è collaborante, si deve provvedere a mobilizzarlo passivamente alternando sui due fianchi il decubito più volte al giorno. Se il paziente non è ipoteso è opportuno sollevare lo schienale del letto di 45°60° per facilitare l’esecuzione di atti respiratori adeguati e per prevenire l’atelettasia polmonare. I piedi del letto devono essere sollevati di 15°-20° per favorire il ritorno venoso dalle estremità inferiori.  Un principio fondamentale di prevenzione delle complicanze tromboemboliche e atelettasiche rimane la mobilizzazione precoce del paziente dal letto; anche dopo interventi chirurgici complessi (per es. esofagectomia, duodenocefalopancreasectomia, pneumonectomia ecc.), se il paziente è cosciente e collaborante, e non è ipoteso, già dalla prima giornata postoperatoria deve essere trasferito dal letto alla poltrona almeno per alcuni minuti al giorno, sotto vigile assistenza del personale infermieristico. Per i pazienti portatori di fratture del bacino o degli arti inferiori si dovrà procedere alla mobilizzazione passiva consentita dal caso specifico. L’impiego di gambali pneumatici, che permette la compressione intermittente degli arti inferiori e che favorisce quindi il ritorno venoso e linfatico da questi, è indicata in pazienti a elevato rischio di stasi venosa e tromboembolia (pazienti obesi, impossibilità alla mobilizzazione dal letto, pregresse tromboflebiti profonde).

Sorveglianza e trattamento della ferita chirurgica e dei drenaggi È responsabilità del chirurgo sorvegliare la ferita chirurgica più volte durante la prima giornata postoperatoria, per escludere complicanze locali immediate (per es. sanguinamento, deiscenza della ferita). Nel caso in cui si sospetti l’insorgenza di tali complicanze, la medicazione della ferita deve essere tolta, per consentire l’esame diretto della ferita stessa, e successivamente rifatta, con metodo asettico. Analogamente si devono controllare i drenaggi, verificando, al momento del trasferimento in reparto del paziente, che i collegamenti dei tubi di drenaggio siano corretti e saldamente connessi, che i drenaggi in aspirazione (in particolare i drenaggi del cavo pleurico) siano collegati alla depressione desiderata e che non vi sia sanguinamento importante o comparsa nel drenaggio di materiale indicativo dell’insorgenza di complicanze (per es. liquido enterico, bile, pus, sangue, urina, aria, trasudato, ascite, linfa, liquor). I drenaggi vanno controllati più volte nella prima giornata postoperatoria, allo scopo di diagnosticare tempestivamente l’insorgenza di complicanze e successivamente al fine di decidere la loro rimozione se non sono più necessari. Al termine dell’intervento chirurgico la ferita viene coperta mediante medicazione asettica con materiale sterile, per proteggerla dalla contaminazione nei primi giorni dopo l’intervento chirurgico. La protezione con medicazione sterile è indispensabile almeno per i primi 3-4 giorni postoperatori, periodo durante il quale avviene la fase iniziale della guarigione della ferita. Nel decorso postoperatorio non complicato, dopo 3 giorni la soluzione di continuo nelle ferite lineari suturate viene riempita e chiusa dalle cellule infiammatorie, dai fibroblasti e dai loro prodotti di secrezione; in superficie la soluzione di continuo viene ricoperta da cellule epidermiche proliferanti dai margini cutanei, che isolano la ferita dall’ambiente esterno. Anche se dopo 3-4 giorni la ferita è difficilmente contaminabile dall’ambiente esterno, è tuttavia buona norma tenerla 339

coperta con medicazione asettica fino alla VII giornata postoperatoria. Nel periodo postoperatorio intermedio almeno una volta al giorno si deve ispezionare la medicazione e si deve palpare la ferita. Non è necessario togliere la medicazione fino alla V giornata se il processo di guarigione della ferita procede regolarmente, cioè se non ci sono né segni locali di infezione (medicazione sporca di essudato, dolore spontaneo o alla palpazione della ferita,tumefazione, arrossamento della cute) né segni generali di infezione (febbre, astenia, anoressia, leucocitosi).  Di regola nel decorso postoperatorio normale il trattamento della ferita avviene pertanto nel seguente modo: in V giornata postoperatoria si sostituisce la medicazione, disinfettando la ferita con soluzione antisettica e riapplicando una nuova medicazione sterile; in VII giornata si esegue analoga medicazione, togliendo una parte dei punti di sutura e rinnovando la medicazione asettica; i rimanenti punti di sutura vengono asportati in IX giornata, e il paziente può successivamente lavarsi a livello della ferita. In casi particolari (suture cutanee in chirurgia plastica; incisioni cervicali o sul volto, o in altre aree del corpo in cui è importante il risultato estetico) si tolgono più precocemente i punti di sutura (IIIV giornata) e i lembi di ferita vengono tenuti ravvicinati con steril-strip.

Farmaci e trattamenti analgesici L’atto chirurgico è responsabile di lesioni tissutali con liberazione di sostanze algogene (chinine, potassio, istamina, pro-staglandine, serotonina, sostanza P) che attivano i nocicettori periferici; di qui gli impulsi tramite i fasci spino-talamici, vengono trasmessi al SNC,dove vengono decodificati. La percezione del dolore postoperatorio è influenzata da numerosi fattori, elencati in Tabella 11.2.

Allo scopo di attenuare gli effetti negativi del dolore sul decorso postoperatorio è necessario adottare un corretto trattamento analgesico. I farmaci più comunemente usati sono i FANS, gli anestetici locali e gli oppioidi. FANS: agiscono con meccanismo periferico inibendo l’enzima ciclo-ossigenasi e bloccando la cascata dell’acido arachidonico, con diminuzione della liberazione dei mediatori tissutali algogeni; pare siano dotati anche di un meccanismo centrale (sensibilizzazione dei recettori agli oppioidi endogeni). Vengono usati per i quadri dolorosi di lieve o di media entità. I FANS più comunemente impiegati sono: ketoprofene (100 mg 2-3 volte/die), diclofenac (50 mg 2-3 volte/die), ketorolac trometamina (30 mg 2-3 volte/die).I maggiori effetti collaterali dei FANS sono: gastrolesività, alterazioni piastriniche, turbe della coagulazione,reazioni allergiche,danno renale. z

Anestetici locali: vengono usati per diminuire e bloccare selettivamente la conduzione delle fibre nervose. Si usano anestetici locali a lunga durata d’azione (bupivacaina allo 0,125%-0,5%) per z

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iniezione singola o tramite catetere per somministrazioni ripetute o continue. Tra le tecniche più usate si ricordano: { il blocco dei nervi intercostali dopo chirurgia toracica tramite infiltrazione in sede paravertebrale; {

l’analgesia epidurale con posizionamento di un catetere a livello toracico o lombare.

Oppioidi: agli anestetici locali in somministrazione epidurale vengono talora addizionati farmaci oppioidi (per es. buprenorfina), al fine di ottenere un effetto sinergico (agiscono sulla via del dolore a differenti livelli); questi possono essere somministrati per via orale, sublinguale, rettale, transdermica, intramuscolare, endovenosa, spinale (epidurale, subaracnoidea). La più usata è la via intramuscolare, anche se per questa via è impossibile, usando dosi standard, ottenere una efficace copertura analgesica. Il dolore postoperatorio è responsabile di effetti negativi su numerosi apparati e sistemi dell’organismo. z

Apparato respiratorio: nel paziente sottoposto a chirurgia toracica o dell’addome superiore si hanno modificazioni dei volumi polmonari con riduzione di Capacità Vitale,Volume Corrente,Volume Residuo, Capacità Funzionale Residua e FEV.Queste modificazioni causano stasi delle secrezioni polmonari con formazione di microatelettasie, ipossiemia ed aumentato rischio di infezioni polmonari. z

z Sistema cardiovascolare: il dolore causa stimolazione del sistema simpatico con aumento delle catecolamine circolanti, tachicardia, aumento del lavoro cardiaco e del consumo d’ossigeno miocardico. La contemporanea presenza di ipossiemia aumenta notevolmente il rischio postoperatorio di ischemia miocardica.

Sistema neuroendocrino: si ha aumento delle catecolamine e degli ormoni dello stress (cortisolo,ACTH,ADH, GH, glucagone,aldosterone,renina);ciò comporta la ritenzione di NaCl e acqua, iperglicemia, aumento degli acidi grassi liberi e dei lattati, aumento del consumo di O2, bilancio azotato negativo. z

Le variabili individuali dell’assorbimento e della risposta al farmaco analgesico impediscono, essendo una dose prefissata in base al peso e/o alla superficie corporea, il raggiungimento di un efficace steady-state antalgico.

Il sistema più valido per ottenere una buona analgesia è la PCA (Patient Controlled Analgesia), che consiste in una perfusione endovenosa basale del farmaco analgesico, con la possibilità di dosi supplementari, su richiesta del paziente. È anche molto usata la tecnica di somministrazione dei farmaci oppioidi per via spinale tramite il posizionamento di un catetere a livello subaracnoideo o epidurale. Con questa tecnica si raggiunge una copertura analgesica migliore e più duratura, ma con un maggior rischio di effetti collaterali: ipotensione, nausea.

I farmaci oppioidi più usati sono: morfina e metadone (farmaci agonisti puri); buprenorfina 341

(farmaco parzialmente agonista); naloxone (farmaco antagonista puro). I più frequenti effetti collaterali dei farmaci oppioidi sono: prurito, nausea, vomito, ritenzione urinaria e depressione respiratoria; tali effetti sono comunque tutti neutralizzabili con il naloxone a dosi frazionate per via endovenosa.

Somministrazione di liquidi ed elettroliti L’acqua dell’organismo rappresenta circa il 50-70% del peso corporeo con variazioni dipendenti da età, sesso, costituzione e si distribuisce nei tre compartimenti: intracellulare, extracellulare, intravascolare. La composizione in soluti di questi compartimenti è diversa. La quantità totale di acqua e di soluti dell’organismo rimane pressoché invariata grazie all’intervento di meccanismi neurormonali (ADH, sistema renina-angiotensina-aldosterone,prostaglandine) che utilizzano il rene come organo effettore.  Il bilancio idrico dell’organismo dipende dall’equilibrio delle entrate e delle uscite. Le entrate sono rappresentate dalla quota introdotta con i cibi e con le bevande (circa 1,5 l/die) e dall’acqua di ossidazione metabolica (circa 300 ml/die); le perdite avvengono con le feci (circa 200 ml/die), con la perspiratio insensibilis (circa 600-800 ml/die) e attraverso il rene (circa 1-1,5 l/die). Le alterazioni del volume di acqua dell’organismo, associate o meno ad alterazioni della concentrazione dei vari elettroliti, sono molto frequenti nel paziente chirurgico e danno luogo a varie sindromi da squilibrio idroelettrolitico. Le mani-festazioni cliniche della deplezione idrica sono rappresentate da ipotensione, polso piccolo e frequente, anelasticità dei tegumenti (con segni delle pliche cutanee che persistono), mucose asciutte, astenia, oliguria con urine iperstenuriche. Compare inoltre iperazotemia prerenale, aumento dell’ematocrito e della protidemia. La sindrome da disidratazione del settore extracellulare è la più frequente. Essa si può manifestare in caso di perdite dal tubo digerente (aspirazione nasogastrica continua, diarrea, fistole enteriche, vomito), di sudorazione profusa, di perdite ematiche e plasmatiche abbondanti, di insufficienza surrenalica. La sindrome iperosmolare, in cui vi è un deficit preminente di acqua rispetto ai soluti, è rara in forma pura ed è dovuta a una netta riduzione di introduzione di acqua.Talora peraltro, si può avere un sovraccarico di volume – nel paziente chirurgico si hanno aumento del rilascio di ADH, vasocostrizione renale, aumento dell’aldosteronemia – che può essere aggravato da condizioni preesistenti quali: insufficienza cardiaca congestizia, epatopatia, insufficienza renale, ipoalbuminemia. Il pH del sangue deve essere compreso tra 7,38-7,42 perché possano svolgersi regolarmente i principali processi metabolici. L’equilibrio acido-base può essere definito dall’equazione di Henderson-Hasselbach: pH = pk + log (HCO3–)/(H2CO3). Se il rapporto bicarbonato/acido carbonico viene mantenuto intorno a 20:1 il pH rimane costante. L’equilibrio acido-base viene solitamente determinato su sangue arterioso sul quale vengono valutati: pH, PCO2, PO2, BE, HCO3. Da questi parametri si possono definire quattro sindromi cliniche: acidosi metabolica o respiratoria, alcalosi metabolica o respiratoria; nella realtà raramente questi quadri sono isolati, presentandosi per lo più misti, in quanto entrano in gioco meccanismi di compenso che riducono le variazioni del pH.  Per valutare ed eventualmente correggere l’equilibrio acido-base nella pratica clinica il medico deve schematicamente procedere in questo modo: x valutare lo stato di idratazione; x studiare il quadro idroelettrolitico e acido-base; x fare il calcolo giornaliero delle perdite e delle entrate di liquidi ed elettroliti; 342

x calcolare il volume delle soluzioni da infondere per compensare il bilancio negativo, definito come differenza tra uscite ed entrate; x calcolare la concentrazione delle soluzioni da infondere per correggere eventuali sindromi da squilibrio idroelettrolitico e acido-base. Le principali alterazioni degli elettroliti che si riscontrano nel paziente chirurgico sono le seguenti. z Sodio (valori plasmatici normali compresi tra 136-150 mEq/l): l’ipernatriemia è di solito conseguente a una perdita di acqua (febbre, diuresi osmotica) o a una ridotta introduzione di acqua, oppure a una eccessiva introduzione di sodio. L’iponatriemia è più frequente e si verifica per perdite derivanti da vomito, diarrea, sudorazione profusa, per deplezione di potassio, eccessiva introduzione di soluzioni povere in sodio (per es. nel decorso postoperatorio). z Potassio (valori plasmatici normali compresi tra 3,8-5,0 mEq/l): le condizioni che possono determinare un’iperkaliemia sono: insufficienza renale, insufficienza surrenale, condizioni ipercataboliche come traumi gravi e ustioni estese. Queste alterazioni metaboliche vere vanno distinte da altre altre quali l’iperemolisi, la trombocitosi, l’acidosi metabolica, che determinano un’iperkaliemia mediante il rilascio del potassio dalle cellule. Un’ipokaliemia si ha invece in corso di alcalosi, di perdite enteriche, di terapia diuretica, di diabete mellito, di iperaldosteronismo. Le manifestazioni cliniche comprendono sia sintomi neuromuscolari (ipotonia muscolare, parestesie) sia segni elettrocardiografici. z Calcio (concentrazioni plasmatiche normali comprese tra 4,2-5,2 mEq/l); strette correlazioni si hanno tra la calcemia e il pH plasmatico, in particolare per la frazione ionizzata del calcio. Frequenti condizioni in cui si ha ipercalcemia sono: l’iperparatiroidismo,comparsa di metastasi ossee, ipervitaminosi D, allettamento prolungato, ecc. L’ipocalcemia è invece frequente in corso di ipoparatiroidismo, ipomagnesemia, pancreatite grave, IRC, IRA,“crush syndrome”.In caso di ipercalcemia clinicamente si manifesta una ipoeccitabilità neuromuscolare; nella ipocalcemia compare ipereccitabilità neuromuscolare. z Cloro (concentrazione plasmatica normale: 95-110 mEq/l). Si ha un aumento della cloremia in seguito ad acidosi metabolica e ipernatriemia. L’alcalosi metabolica e l’iponatriemia determinano una diminuzione della cloremia. z Magnesio: svolge un importante ruolo nel metabolismo energetico della cellula. La condizione più frequente di ipermagnesemia si ha in corso di insufficienza renale,mentre l’ipomagnesemia può comparire durante nutrizione artificiale (NPT ed NE) con scarso apporto di magnesio. z Fosforo: è importante nel metabolismo energetico cellulare oltre che come costituente delle ossa. La carenza di fosforo compare spesso in corso di NPT e dà un quadro di ridotta attività neuromuscolare. La condizione opposta è asintomatica. Le richieste giornaliere basali di acqua sono valutabili in circa 1500-2000 ml e sono influenzate da vari fattori (temperatura ambiente, ustioni, febbre, drenaggi, iperventilazione). Le quote dei principali elettroliti da introdurre per compensare le normali perdite sono così valutabili: Na+ = circa 2 mEq/kg/die; K+ = circa 0,5 mEq/kg/die; Cl– = circa 2-4 mEq/kg/die; Ca++ = circa 0,5 mEq/kg/die. Solitamente 2000-2500 ml al giorno di soluzione glucosata al 5% mista a soluzione fisiologica sono sufficienti a coprire il fabbisogno giornaliero di liquidi. Nella maggior parte dei pazienti devono inoltre essere somministrati circa 20 mEq di potassio per ogni litro di soluzione nel caso in cui sia presente l’aspirazione nasogastrica. Le perdite che avvengono nel corso dell’intervento sono di solito adeguatamente compensate ma in certi casi si hanno importanti raccolte nel “terzo spazio” rappresentato dall’edema dei tessuti e dai trasudati (per es. occlusione intestinale, ascite, peritonite). Il bilancio idroelettrolitico deve quindi essere calcolato ogni giorno e la terapia deve essere valutata costantemente ed eventualmente modificata.

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Ripresa dell’alimentazione Durante il decorso postoperatorio il paziente necessita di un adeguato supporto nutrizionale che deve mirare a ridurre al minimo il catabolismo, soprattutto proteico, in attesa che l’alimentazione possa riprendere attraverso la via fisiologica. Tre sono i modi con cui si possono somministrare i nutrienti al paziente che non può alimentarsi per os: nutrizione parenterale periferica (NPP), nutrizione parenterale totale (NPT) e nutrizione enterale (NE). Queste due ultime modalità vengono riservate ai casi in cui si prevede un lungo periodo di nutrizione artificiale. La ripresa dell’alimentazione per os avviene in tempi variabili, dipendendo dal tipo di intervento (laparotomico o non, con resezioni gastrointestinali o non); dalle condizioni generali del paziente (per es. importanti squilibri idroelettrolitici, malnutrizione, malattie infiammatorie intestinali); dalla rapidità della ripresa della normale funzione gastrointestinale e dalla comparsa di eventuali complicanze (per es. sepsi).  Dopo un intervento laparotomico la normale attività peristaltica intestinale risulta temporaneamente depressa (ileo postoperatorio). Va però sottolineato che il piccolo intestino è poco interessato da questo fenomeno per cui la nutrizione enterale, attraverso una digiunostomia per esempio, può essere intrapresa in prima giornata. La peristalsi gastrica ricompare dopo circa 24-48 ore dall’intervento mentre l’attività del colon dopo circa 48 ore, iniziando a livello del cieco e proseguendo distalmente. Clinicamente l’ileo postoperatorio conduce a modesta distensione del colon e quindi dell’addome. Il ritorno della peristalsi viene notato dal paziente che riferisce modesti crampi addominali, emissione di gas dall’alvo, ritorno dell’appetito e infine pervietà dell’alvo alle feci. La ripresa dell’alimentazione deve compiersi in modo graduale iniziando con i liquidi e i cibi semisolidi per poi far assumere al paziente anche cibi solidi di crescente complessità (per ultimi vengono somministrati cibi ricchi di scorie).Tutto questo avviene nel giro di 3-4 giorni fino ad arrivare a una condizione di alimentazione completa nel corso della seconda settimana postoperatoria, compatibilmente con l’eventuale particolare tipo di dieta che il paziente dovrà seguire (per es. dieta per gastroresecati, dieta per epatopatici, dieta per nefropatici). Il ritorno a un’alimentazione per os comporta una graduale riduzione della nutrizione artificiale fino alla sua sospensione, che non deve mai avvenire in modo rapido e improvviso, in quanto bisogna permettere all’organismo l’adattamento necessario.

Prevenzione delle lesioni acute gastroduodenali L’instaurarsi di emorragie acute gastroduodenali è una evenienza abbastanza comune in pazienti sottoposti a interventi chirurgici ampiamente demolitivi, nei politraumatizzati, nei pazienti in terapia intensiva e in quelli con precedenti di gastroduodenite o di lesioni ulcerose peptiche, o in terapia con farmaci lesivi della barriera mucosa gastroduodenale (FANS, cortisone, antiblastici, aspirina). In tali categorie di pazienti a rischio è necessario impiegare farmaci per la profilassi delle lesioni ulcerose acute gastroduodenali, per impedire l’insorgenza di complicanze gravi e potenzialmente letali quali emorragie incontrollabili e perforazioni gastroduodenali. I farmaci idonei a proteggere la barriera mucosa gastroduodenale sono i seguenti. z Bloccanti dei recettori H-2 (ranitidina). Essi sono divenuti farmaci di elezione per la profilassi delle lesioni acute gastroduodenali, grazie alla loro efficacia, alla loro tollerabilità e alla possibilità di somministrarli sia per os che per via endovenosa. z L’omeprazolo, attraverso il blocco della pompa idrogenioni (H+), determina una drastica riduzione della secrezione acido-gastrica e consente un’ottima protezione della mucosa gastroduodenale. L’efficacia è maggiore rispetto agli antistaminici. 344

Antipepsinici quali il sucralfato. Quest’ultimo riduce di un terzo l’attività pepsinica e inoltre forma uno strato protettivo sulla mucosa gastroduodenale, proteggendola dall’azione digestiva della pepsina e dell’acido cloridrico. Studi recenti hanno indicato che l’impiego del sucralfato a scopo gastroprotettivo è particolarmente indicato nei pazienti comatosi e in terapia intensiva; tale molecola infatti, contrariamente ai farmaci anti-H2, non altera il pH gastrico e non favorisce la proliferazione batterica intragastrica, che può essere fonte di infezione delle vie respiratorie per via retrograda. z Metoclopramide, domperidone e cisapride migliorano la motilità gastrica riducendo il tempo di contatto tra la mucosa e la secrezione acida. Tra i provvedimenti di igiene comportamentale e dietetici per la prevenzione delle lesioni acute gastroduodenali si devono ricordare l’astensione dal fumo e dall’assunzione di alcolici e caffè; è invece indicata, ove possibile, l’ingestione di latte intero, che esplica funzione gastroprotettiva. Si deve abolire o comunque limitare la somministrazione dei farmaci gastrolesivi ricordati sopra. z

Fisioterapia e riabilitazione In ogni paziente sottoposto a intervento chirurgico si deve iniziare precocemente la fisioterapia motoria e respiratoria per prevenire le complicanze respiratorie e circolatorie che, com’è noto, insorgono con maggiore frequenza nei pazienti immobilizzati al letto. L’anestesia prolungata e il dolore provocato dal trauma chirurgico, che viene esacerbato spesso dagli atti respiratori, inducono una diminuzione della profondità degli atti respiratori stessi, degli scambi gassosi alveolari e della ventilazione di alcuni distretti periferici dell’albero respiratorio; inoltre la limitazione antalgica degli atti del respiro e il dolore legato ai colpi di tosse, riducono la capacità del paziente di espellere le secrezioni. Ciò favorisce la formazione di atelettasie clinicamente rilevanti. La prevenzione di queste ultime e della insufficienza respiratoria postoperatoria in generale è di fondamentale importanza soprattutto nei pazienti obesi,in quelli astenici o francamente anergici,nei forti fumatori,nei pneumopatici cronici. Tale opera è svolta nella maniera migliore da personale specializzato in fisioterapia e riabilitazione, che può individuare i pazienti a maggior rischio di complicanze, e spendere con questi tutto il tempo necessario a illustrare le manovre fisioterapiche, a effettuarle e a verificare che il paziente segua le istruzioni impartite.  Ai fini della prevenzione delle complicanze respiratorie dopo intervento chirurgico si devono pertanto effettuare le seguenti manovre fisioterapiche e riabilitative: x mobilizzazione precoce dal letto, frequente cambio di posizione nel letto e posizionamento dello schienale del letto in posizione semiseduta; ciò limita il ristagno di secrezioni nelle parti più declivi dell’albero respiratorio e pone il paziente nelle migliori condizioni per effettuare degli atti respiratori adeguatamente profondi ed efficaci; x impiego di semplici strumenti monouso per esercitare il paziente a compiere atti respiratori profondi (per es. soffiare per gonfiare un guanto di lattice; soffiare per sollevare delle palline di plastica in un cilindro); tali esercizi respiratori vanno compiuti più volte nella giornata; x spiegazione al paziente in modo semplice e convincente della importanza di effettuare atti respiratori profondi periodicamente nella giornata e di mantenere una corretta posizione nel letto, e istruzione per l’uso degli strumenti per gli esercizi respiratori. L’impiego di dosi appropriate di farmaci antalgici è utile a diminuire il dolore postoperatorio legato ai movimenti e agli atti respiratori e favorisce la fisioterapia e la prevenzione delle complicanze respiratorie e tromboemboliche. Al fine di prevenire le complicanze tromboemboliche il paziente deve essere adeguatamente mobilizzato dal letto più volte al giorno, come illustrato più sopra. 345

Nei pazienti non collaboranti o non mobilizzabili è necessario far compiere movimenti di ginnastica passiva sotto il controllo del fisioterapista e compatibilmente con le condizioni locali e generali di ciascun specifico paziente; ciò allo scopo di migliorare la circolazione periferica del sangue e di attenuare l’ipotrofia muscoloscheletrica e articolare da immobilizzazione. Nella fase della convalescenza postoperatoria, la fisiochinesiterapia riabilitativa assume importanza fondamentale per il recupero del trofismo muscolo-scheletrico dopo periodi di prolungato impedimento funzionale, soprattutto nei pazienti politraumatizzati, nei pazienti costretti a letto per lungo periodo e in quelli sottoposti ad amputazione delle estremità.

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Il dolore postoperatorio G. Giudice

Definizione Il dolore postoperatorio è una spiacevole esperienza di tipo sensitivo ed emozionale associata con un attuale o potenziale danno tissutale o descritta in termini di danno (definizione del Comitato Tassonomico dell’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore-IASP). Il dolore postoperatorio (DPO) può anche essere definito come un dolore acuto che inizia col trauma chirurgico e termina, generalmente, con la guarigione dei tessuti. Tale sintomatologia, transitoria, con remissione spontanea, è ancor oggi accettata e subita come un evento ineluttabile, collocata in un rapporto di causa-effetto con l’intervento chirurgico. Non si conosce esattamente l’incidenza, l’intensità e la durata del DPO, esistendo importanti variazioni tra i pazienti e tra i differenti interventi. Fattori che incidono sulla rielaborazione cosciente del dolore sono l’ansia, le aspettative (chirurgia plastica, chirurgia palliativa per cancro), nonché il trattamento anestesiolo-gico e chirurgico ed eventuali complicanze postoperatorie (Tab. 11.3).

Il DPO, se non adeguatamente trattato,può portare a risposte psicologiche ed emozionali negative, complicanze respiratorie, cardiovascolari, gastrointestinali, urinarie, metaboliche, ormonali e immunitarie. La capacità predittiva del dolore dipende anche da precedenti esperienze del paziente. Soggetti emotivi tendono a sovrastimare il dolore amplificandone i contenuti.

Misura Il DPO può, con una certa approssimazione, essere misurato indirettamente prendendo nota dei cambiamenti di colore, dei movimenti, dell’espressione facciale o del comportamento del paziente. Alcuni test possono darci informazioni sulla risposta al dolore: capacità vitale, volume espiratorio forzato, capacità funzionale residua, flusso di picco. Il dolore, come altre forme di stress, si accompagna inoltre ad aumento dei livelli plasmatici di alcuni ormoni (catecolamine, cortisolo, ADH ecc.) nonché a diminuzione dei livelli di oppioidi endogeni a livello cerebrale, ematico e nel liquor. La metodica di più facile e immediata applicazione clinica per valutare il DPO è l’Analogo Visivo di Scott-Huskisson, costituito da una linea retta di 10 cm sulla quale il paziente deve segnare l’intensità del dolore.

Fisiopatologia 347

Il DPO è considerato una vera e propria sindrome da deafferentazione iatrogena conseguente alla lesione chirurgica della rete nervosa sensitiva; le successive modificazioni fisiopatologiche a livello spinale determinano una ipersensibilità dolorosa post-traumatica. A seguito del danno tissutale e neuronale (cutaneo, somatico o viscerale) si innesca un’alterazione funzionale delle fibre C e A delta con diminuzione della soglia di eccitazione sia nella zona danneggiata (iperalgesia primaria) sia nella zona circostante (iperalgesia secondaria). La lesione tissutale porta alla liberazione di sostanze algogene: K+, H+, acetilcolina, acido lattico, serotonina, bradichinina, prostaglandine, istamina, sostanza P ecc. In presenza di questi mediatori della flogosi consegue un reclutamento di popolazioni neuronali normalmente inattive che diventano sensibili a stimoli minimali. Le fibre veicolanti questi stimoli, attraverso le radici posteriori, raggiungono il midollo spinale e, strutturate nella via spinotalamica e spinoreticolare, ascendono ai centri integratori del talamo (II neu-rone) e alle aree somatosensoriali della corteccia (III neurone) dove avviene l’integrazione delle afferenze e la percezione cosciente. La modulazione degli stimoli algogeni utilizza una serie di neurotrasmettitori, i più importanti dei quali sono: oppioidi endogeni (beta-endorfina, enkefaline, dinorfina), acido glutammico, sostanza P, VIP (Vasoactive Intestinal Polypeptide), somatostatina, noradrenalina.

Fattori che influiscono sul dolore postoperatorio Intervento chirurgico: il trauma tissutale è il fattore principale del DPO. Interventi sul torace o sull’addome alto risultano più dolorosi di altri. Le zone con più marcata rappresentazione a livello corticale (viso, dita,mani ecc.) appaiono più sensibili di quelle con una limitata rappresentazione (dorso, segmenti prossimali degli arti). La grandezza e la direzione dell’incisione sono importanti per le conseguenze sui tessuti danneggiati e sullo spasmo muscolare a causa della distribuzione delle terminazioni nervose coinvolte. Una colecistectomia effettuata per via laparoscopica o con incisione laparotomica sottocostale o mediana evoca DPO differente. L’incisione verticale determina un trauma maggiore rispetto a quella trasversale, che provoca la lesione di un minor numero di fibre nervose; così la separazione delle fibre muscolari piuttosto che il loro taglio determina un minore input nocicettivo. Il bisturi elettrico genera una zona anestetica in sede di incisione e una zona perimetrale algica con intensità inferiore rispetto a quella ottenuta col bisturi tagliente tradizionale. Il DPO non deriva solo da strutture somatiche, ma anche da organi viscerali: la contrazione di organi a muscolatura liscia o la loro distensione può risultare estremamente dolorosa. Importante è anche l’accuratezza nell’esecuzione dell’intervento: un uso forzato dei divaricatori può causare fratture costali e necrosi dei tessuti muscolari. Una buona emostasi evita la formazione di ematomi, causa di dolori; importanti sono anche i materiali di sutura e i drenaggi (preferibili quelli morbidi in silicone). Il DPO può essere riferito a distanza dalla sede dell’intervento. Un dolore al vertice della spalla può derivare da irritazione del diaframma da gas residuo dopo laparoscopia o da infiammazione (ascesso subfrenico). Distensione anche parziale dello stomaco, vescica piena, distensione di organi cavi (colon), piaghe da decubito, trombosi venose, embolie polmonari possono essere causa di dolore nel decorso postoperatorio. z

Anestesia: con le tecniche o le manovre connesse alla sua pratica può essere causa di DPO;faringodinia da intubazione, cefalea da puntura spinale, mialgie da succinilcolina, pneumotorace da posizionamento di catetere venoso centrale, ematomi o stravasi di liquidi per terapie infusive (Tab. 11.4). z

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Età: l’anziano tollera meglio il dolore; anche il bambino, senza esperienze precedenti, affronta l’avvenimento senza il circolo vizioso “paura-ansia-dolore”. z

z

Sesso, fattori genetici, razziali, situazioni economiche.

z Patologia di base: prospettive l’apprezzamento soggettivo del dolore.

di

guarigione

o

interventi

mutilanti condizionano

Personalità: ansietà e depressione incidono negativamente sul DPO; i nevrotici hanno la stessa soglia dolorosa ma hanno una reazione anormale. La semplice ospedalizzazione causa ansia con modificazioni apprezzabili quali tachicardia, ipertensione, aumento della tensione muscolare, sudorazione. Il dolore mal trattato o mal vissuto da un compagno di camera può risultare un “modello” seguito dal paziente e, viceversa,“ un esempio positivo”può avere un effetto benefico su chi deve ancora affrontare l’intervento. z

Preparazione all’intervento: lo stress da ricovero può essere opportunamente affrontato con adeguate notizie esplicative sulle procedure riguardanti gli esami preoperatori e l’intervento. Il paziente deve essere edotto sulla possibile insorgenza del dolore e sulla possibilità di poterlo controllare ricordandogli che è un errore attendere che il dolore sia diventato intenso prima di chiedere un analgesico. La mancanza di informazione e la rassegnazione dei pazienti davanti al DPO sono fattori limitanti l’efficacia della terapia analgesica postoperatoria. z

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Conseguenze 349

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Complicanze polmonari: il DPO non è solo causa di sofferenza per il paziente ma è responsabile di variazioni dell’omeostasi respiratoria che possono rivelarsi anche letali. Il paziente che non si muove per il dolore, che non respira profondamente, che non espettora perché la tosse gli provoca dolore, è un paziente che andrà facilmente incontro a complicanze respiratorie o ritarderà, nel migliore dei casi, le sue dimissioni. Il dolore successivo all’incisione addominale e all’infiammazione peritoneale è accompagnato da spasmo della parete muscolare dell’addome. La contrazione dei muscoli che controllano l’espirazione forzata aumenta la pressione addominale, diminuendo le escursioni diaframmatiche con conseguente riduzione dei volumi polmonari. Ne deriva una sindrome restrittiva con collasso delle vie aeree, atelettasie, alterazione del rapporto ventilazione/perfusione con aumento della quota di shunt e infezioni polmonari. Questa situazione è favorita da fumo, obesità, età avanzata, preesistenza di patologie broncopolmonari, distensione addominale per ileo, distensione gastrica e vescicale, bendaggi costrittivi. Segni della sindrome sono: tachicardia, dispnea, dolore toracico, sputo purulento, modificazioni ascoltatorie e radiologiche, ipossia, ipercapnia; sono pure presenti turbe neurovegetative come vasocostrizione, ipertensione, oliguria e sudorazione e turbe neuropsichiche: agitazione e confusione mentale da ipossia. Complicanze cardiovascolari: il dolore stimola il sistema simpatico con conseguente tachicardia, aumento del lavoro cardiaco e del consumo miocardico di ossigeno; ciò comporta un aumentato rischio di ischemia e infarto nonché di trombosi venose profonde a causa della diminuita attività fisica, della stasi venosa e della aumentata aggregazione piastrinica. Complicanze gastrointestinali e urinarie: ileo, nausea e vomito sono conseguenti a impulsi nocicettivi di origine viscerale o somatica. Il dolore causa ipomotilità vescicale con conseguente difficoltà urinaria. Conseguenze metaboliche e ormonali: le risposte soprasegmentali al dolore aumentano il tono simpatico e la stimolazione ipotalamica che instaurano una situazione catabolica. Ne conseguono modificazioni nel metabolismo dei carboidrati con mobilizzazione del glucosio dagli aminoacidi e dal grasso periferico, ridotta utilizzazione periferica del glucosio, iperglicemia. Il bilancio azotato negativo che si osserva per alcuni giorni è condizionato dall’aumento della secrezione di ormoni catabolici (catecolamine, cortisolo, ACTH, ADH, prolattina, glucagone, aldosterone) e dalla contemporanea diminuzione degli ormoni anabolici (testosterone, insulina). Risposta immunitaria: il DPO causa una diminuzione non specifica dei poteri immunitari del paziente con riduzione della chemiotassi, dell’attività fagocitica, diminuzione della funzionalità dei linfociti T e B e dei monociti (Tab. 11.5).

Terapia z

Analgesia bilanciata: tutti i farmaci analgesici provocano effetti secondari. Gli oppiacei danno 350

sedazione, stipsi, ritenzione urinaria, depressione respiratoria; gli anestetici locali provocano ipotensione e parestesie; i FANS sono nefrotossici, gastrolesivi e alterano i processi della coagulazione.Attualmente si tende ad associare farmaci a differente meccanismo d’azione (la trasmissione nocicettiva può essere bloccata a diversi livelli: recettori periferici, radici e tronchi nervosi, corna posteriori del midollo,tronco) per rinforzare l’effetto analgesico richiesto, con dosaggi ridotti dei singoli farmaci al fine di contenere i possibili effetti collaterali. Terapia preventiva: l’analgesia preventiva si basa sui presupposti neurofisiologici che hanno messo in evidenza che uno stimolo nocicettivo può indurre a livello centrale una ipereccitabilità neuronale prolungata. Questa plasticità del sistema nervoso sembra poter essere più prevenuta che non trattata.A tal fine si è dimostrata efficace l’anestesia loco-regionale che, bloccando la via periferica all’input nocicettivo, elimina l’iperalgesia secondaria e facilita un buon trattamento antalgico postoperatorio. In maniera analoga sembrano agire le infiltrazioni con anestetici locali nella sede di incisione chirurgica, gli oppiacei ad alte dosi e altri trattamenti antalgici effettuati prima che avvenga l’incisione chirurgica.

Vie di somministrazione dei farmaci analgesici Endovenosa: è la via con assorbimento più diretto e con effetto più rapido.A fronte di un picco rapido, si ha anche una rapida metabolizzazione e una durata di effetti più breve con maggior incidenza di effetti collaterali. Modalità di somministrazione: a bolo su domanda, a boli a tempi prefissati, in infusione continua con sistemi computerizzati, mediante PCA (Patient Controlled Analgesia), cioè con sistemi a domanda controllati dal paziente stesso. Farmaci impiegati: oppiacei, FANS. Intramuscolare: è la via più comunemente usata; tempo di assorbimento medio (ritardato in caso di shock o di ipotensione); durata degli effetti più lunga rispetto alla via ev. La velocità di assorbimento dipende dal flusso ematico del muscolo; l’iniezione può essere dolorosa, si può pungere accidentalmente un vaso o un nervo. Modalità di somministrazione: a domanda o a intervalli regolari. Farmaci impiegati: oppiacei, FANS. Sottocutanea: assorbimento lento anche se diretto, effetti più prolungati rispetto alla via im; la velocità di assorbimento dipende dal flusso cutaneo (rallentato in caso di shock o di ipotensione). Farmaci utilizzati: oppiacei in somministrazione continua. Transdermica: assorbimento lento e variabile; ha il vantaggio della somministrazione indolore e non invasiva; applicazioni a intervalli regolari con cerotto. Farmaco utilizzato: fentanil. Orale: assorbimento variabile e insorgenza lenta dell’effetto. Ha il vantaggio di non essere invasiva, ma è poco indicata nei pazienti chirurgici: rischio di inalazione in pazienti che non hanno completamente recuperato i riflessi, nausea,vomito, irritazione delle mucose digestive. Sublinguale: assorbimento variabile, velocità di assorbimento media, salta il filtro epatico passando direttamente nel circolo sistemico; ha le stesse problematiche della via orale. Somministrazione a domanda o a inter, valli regolari. Farmaco utilizzato: buprenorfina (Temgesic). Rettale: assorbimento variabile e incostante; possibilità di somministrazione sia a pazienti consci che non ancora autonomi; può provocare evacuazione e risultare pertanto inefficace. Somministrazione a domanda o a periodi fissi. Farmaci utilizzati: FANS e oppiacei. Spinale: assorbimento immediato e completo; rapida insorgenza di effetti e lunga durata d’azione (8-24 ore); inizialmente sono stati impiegati gli anestetici locali; con l’identificazione dei recettori midollari specifici sono stati impiegati gli oppiacei e successivamente gli agonisti alfa-2 adrenergici: clonidina (Catapresan). Somministrazione a domanda, a intervalli fissi, continua. Peridurale: con l’impiego delle pompe elastomeriche (palloncini di materiale plastico caricabili con 351

oppiacei e/o anestetici locali e collegabili ad un catetere peridurale) è possibile effettuare una somministrazione continua che assicura livelli stabili di analgesia per 24-72 ore. Qualunque sia l’analgesico scelto, la via di somministrazione o la modalità della stessa (a domanda, continua, a boli,a orari fissi ecc.),il fine di una adeguata terapia antalgica è quello di mantenere le concentrazioni del farmaco a un livello ematico costante e adeguato (finestra terapeutica). Uscire dalla finestra verso l’alto (sovradosaggio) implica l’insorgenza di effetti collaterali: nausea, depressione respiratoria ecc.; scendere al di sotto vuol dire non effettuare una adeguata copertura analgesica.

Farmaci FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei): agiscono bloccando la ciclo-ossigenasi con inibizione delle prostaglandine che normalmente sensibilizzano i nocicettori alle sostanze algogene. Recentemente si è evidenziata anche un’azione centrale (midollare e sovraspinale) con aumento della produzione ipotalamica di beta-endorfine e/o con sensibilizzazione dei recettori endorfinici. Sono considerati farmaci di elezione per i dolori di piccola e media entità, soprattutto con componente edematosa o infiammatoria. Hanno aumentato il loro potenziale terapeutico con l’introduzione in commercio di formulazioni somministrabili per via endovenosa.L’associazione con gli oppiacei nell’ottica dell’analgesia bilanciata, è in grado di risolvere i dolori più importanti con riduzione de dosaggi degli analgesici maggiori. Effetti collaterali: la loro lesività (stomaco, piastrine, rene ecc.) è legata all’inibizione della cicloossigenasi. La diminuzione dell’aggregazione piastrinica porta a un allungamento del tempo di sanguinamento; crisi di asma si osservano nei pazienti allergici e asmatici perché l’inibizione della cicloossigenasi favorisce la via lipo-ossigenasica con aumento dei leucotrieni ad azione broncocostrittrice. Complicanze digestive (gastralgie fino all’emorragia digestiva) e danno renale sono altre complicanze che ne controindicano l’uso in pazienti ulcerosi o con insufficienza renale. z

z Oppiacei: in virtù della loro azione sui recettori specifici (µ, ț, į) spinali e sovraspinali, questi farmaci mimano e rinforzano l’azione fisiologica delle endorfine. A livello spinale bloccano la liberazione di sostanza P contrastando quindi la trasmissione dell’impulso nocicettivo; a livello sovraspinale rinforzano l’inibizione effettuata dalle vie di controllo bulbospinale. Sono i farmaci di elezione per dolori importanti, sia viscerali che somatici. Gli agonisti di uso più comune sono morfina, meperidina, fentanile. Tra gli agonisti parziali ricordiamo la buprenorfina (Tamgesic) e la pentazocina (Talwin). Anche se la via intramuscolare e la sottocutanea continuano a essere le più usate,nonostante i loro svantaggi, la via endovenosa o la via intraspinale sono quelle razionalmente più idonee al controllo del DPO. I criterio terapeutico di base, anche con questi farmaci, è quello di raggiungere con una dose di carico una adeguata concentrazione plasmatica e di mantenerla poi con somministrazioni regolari. Effetti collaterali: depressione respiratoria, vomito, riduzione della motilità intestinale, stipsi sedazione, effetti psicotropi, miosi, effetto antitosse, spasmo dello sfintere di Oddi.

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Anestetici locali: sono impiegati per effettuare blocchi periferici, plessici e spinali (peridurale

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subaracnoideo) con possibilità di un controllo continuo del dolore mediante posizionamento di un cateterino a permanenza. Gli anestetici locali risultano di particolare efficacia nel controllo delle sindromi dolorose con componente spastica. Un blocco peridurale può essere praticato con anestetici locali, con oppiacei o con l’associazione dei due farmaci a dosi più basse e con minor incidenza di effetti collaterali; questa tecnica consente una adeguata fisioterapia respiratoria e una precoce deambulazione. z PCA (Patient Controlled Analgesia). Le prescrizioni sistematiche di posologie standard non consentono di adattarsi alle variazioni individuali dei bisogni dei pazienti né alla evoluzione del dolore nel tempo. Con l’analgesia controllata dal paziente con l’impiego di pompe programmabili, si consente di personalizzare la terapia: il paziente, al bisogno, preme un bottone che tramite una siringa introduce in vena un bolo prefissato di analgesico; la metodica assicura un’analgesia immediata in rapporto con la soglia di sensibilità del soggetto, riduce il lavoro infermieristico, diminuisce l’incidenza degli effetti collaterali grazie anche a un periodo refrattario programmabile che separa i boli con intervalli minimi obbligatori.

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Letture suggerite z z

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Bonica J.J.: The management of pain. Lea & Febiger, Philadelphia, 1990. Borgeat A., Perschad M. et al.: Patient-controlled interscalene analgesia with ropivacaine 0.2% versus patient-controlled intravenous analgesia after major shoulder surgery. Anesthesiology 92, 102, 2000. Dionigi R., Dominioni L.: Progressi in 25 anni di nutrizione artificiale in chirurgia. Chir. Ital. 46: 1-6, 1994. Djokovic J.L., Hedley-Whyte J.: Prediction of outcome of surgery and anesthesia in patients over 80. JAMA 242: 2301, 1979. Ferrante F.M., VadeBoncourer T.R.: Postoperative Pain Management. Churchill Livingstone, Edinburgh, 1993. Frownfelter D.L.: Chest physical therapy and pulmonary rehabilitation. An interdisciplinary approach. Year Book, Chicago, 1987. Kinney J.M., Richard H. et al.: Manual of Preoperative and Postoperative Care. American College of Surgeons,W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1988. O’Donohue W. Jr.: National survey of the usage of lung expansion modalities for the prevention and treatment of postoperative atelectasis following abdominal and thoracic surgery. Chest 87: 76, 1985. Wall P.D., Melzack R.: Textbook of pain. Churchill Livingstone, London, 1994.

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12

Complicanze postoperatorie

12.1 Complicanze di ferita 12.2 Complicanze respiratorie 12.3 Alterazioni della funzionalità gastrointestinale 12.4 Insufficienza renale acuta 12.5 Complicanze urinarie 12.6 Febbre postoperatoria 12.7 Multiple Organ Failure (MOF) 12.8 Adult Respiratory Distress Syndrome (ARDS) 12.9 Embolia adiposa 12.10 Complicanze cardiache 12.11 Emorragie postoperatorie 12.12 Pancreatite acuta 12.13 Parotite postoperatoria 12.14 Complicanze della terapia infusionale e dei monitoraggi 12.15 Complicanze psichiche 12.16 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 12

Complicanze postoperatorie L. Dominioni, P.F. Interdonato Durante il periodo postoperatorio possono insorgere complicanze assai varie, diverse per natura e localizzazione; oltre alla ferita chirurgica e alla sede anatomica di esecuzione dell’intervento, esse possono interessare quasi tutti gli organi ed apparati. L’insorgenza di complicanze postoperatorie può essere causata: dall’evoluzione di una patologia preesistente (per es. sanguinamento di ulcera peptica; polmonite in paziente bronchitico cronico ecc.),oppure dall’intervento chirurgico, in modo diretto (per es. ematoma di ferita) o in modo indiretto (per es. ARDS in seguito ad emotrasfusioni multiple; infarto miocardico da ipotensione postoperatoria ecc.). La comparsa di complicanze postoperatorie comporta il prolungamento della malattia, della durata della degenza, l’aumento dei costi complessivi del trattamento e, talora, è causa di mortalità; pertanto, sia nel periodo preoperatorio che nel postoperatorio è necessario attuare idonee misure di prevenzione delle complicanze. Descriviamo di seguito le complicanze postoperatorie più frequenti e quelle più gravi.

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Durante il periodo postoperatorio possono insorgere complicanze assai varie, diverse per natura e localizzazione; oltre alla ferita chirurgica e alla sede anatomica di esecuzione dell’intervento, esse possono interessare quasi tutti gli organi ed apparati. L’insorgenza di complicanze postoperatorie può essere causata: dall’evoluzione di una patologia preesistente (per es. sanguinamento di ulcera peptica; polmonite in paziente bronchitico cronico ecc.),oppure dall’intervento chirurgico, in modo diretto (per es. ematoma di ferita) o in modo indiretto (per es. ARDS in seguito ad emotrasfusioni multiple; infarto miocardico da ipotensione postoperatoria ecc.). La comparsa di complicanze postoperatorie comporta il prolungamento della malattia, della durata della degenza, l’aumento dei costi complessivi del trattamento e, talora, è causa di mortalità; pertanto, sia nel periodo preoperatorio che nel postoperatorio è necessario attuare idonee misure di prevenzione delle complicanze. Descriviamo di seguito le complicanze postoperatorie più frequenti e quelle più gravi.

Complicanze di ferita  Le complicanze più frequenti che si manifestano a livello della ferita chirurgica sono: x l’infezione; x l’ematoma; x la raccolta sierosa; x la deiscenza; x il laparocele.

Infezione È stato riconosciuto che il fattore più importante nel determinare l’insorgenza di infezione di ferita è il grado di contaminazione del campo operatorio. Attualmente, nei centri chirurgici dove si adottano correttamente le misure idonee a prevenire l’insorgenza delle infezioni, si osservano le seguenti percentuali di infezione di ferita, a seconda del grado di contaminazione degli interventi: puliti: 13%; pulito-contaminati: circa 5%; contaminati: 15-30%; sporchi: 20-40%.

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 L’infezione della ferita chirurgica è causata dalla contaminazione batterica che avviene intraoperatoriamente; raramente le ferite si infettano per contaminazione che avviene durante il periodo postoperatorio. Talora (per es. in alcuni reinterventi e in pazienti traumatizzati), la ferita può essere già contaminata preoperatoriamente. I germi che più frequentemente causano le infezioni di ferita sono quelli abitualmente presenti sulla cute e negli annessi cutanei (per es. stafilococco) e quelli presenti nei visceri cavi che vengono temporaneamente aperti durante l’intervento chirurgico (per es. E. coli, B. fragilis). A parità di inoculo batterico, altri fattori possono aumentare l’incidenza delle infezioni: età avanzata, lunga durata dell’ospedalizzazione preoperatoria, lunga durata dell’intervento. Al termine di quasi tutti gli interventi, anche se condotti con tecnica ineccepibile ed apparentemente puliti, si verifica inevitabilmente una modesta contaminazione batterica proveniente dall’ambiente della sala operatoria (aria, pulviscolo); tuttavia la scarsa quantità dell’inoculo batterico consente ai meccanismi di difesa, se pienamente efficienti, di impedire lo svilupparsi dell’infezione.  I segni locali precoci di infezione di ferita sono l’eritema, la dolorabilità e l’indurimento dei margini; segno locale tardivo è la fuoriuscita di pus dalla rima di ferita o dal tramite di passaggio dei punti di sutura. Le infezioni di ferita divengono clinicamente manifeste solitamente tra la V e la VII giornata postoperatoria, con un quadro conclamato caratterizzato da dolore ed eritema locale, indurimento ed infiltrazione dei margini, fuoriuscita di pus e presenza di segni generali di infezione: febbre e leucocitosi. Tuttavia in alcuni casi è già possibile rilevare la comparsa di pus dopo 48 ore dall’intervento; ciò è presumibilmente riferibile a contaminazione massiva o a inefficienza dei meccanismi di difesa. Alcune infezioni di ferita hanno invece insorgenza lenta e subdola e si manifestano anche molti giorni dopo la rimozione dei punti di sutura, con eritema cutaneo, deiscenza parziale della ferita e fuoriuscita di essudato.In alcuni casi l’insorgenza dell’infezione di ferita può essere assai tardiva 358

(uno o più mesi postoperatori); ciò è solitamente causato dalla contaminazione del materiale utilizzato per la sutura dei piani profondi della ferita,ed è più frequente quando si impiega filo di sutura non riassorbibile intrecciato (seta, lino). La rimozione dei punti di sutura infetti conduce alla risoluzione dell’infezione. Di regola non vi sono difficoltà nel diagnosticare l’infezione di ferita; talora, nella fase iniziale dello sviluppo dell’infezione, si può porre il problema della diagnosi differenziale con altre cause di febbre postoperatoria. In alcuni casi il decorso delle infezioni di ferita si può complicare con la comparsa di: z disseminazione dell’infezione: locale (flemmone) o generalizzata (setticemia); z deiscenza della ferita (parziale o totale) con possibile eviscerazione; z laparocele. La prognosi dell’infezione di ferita è di regola favorevole se il trattamento è adeguato; solo eccezionalmente si verifica un’evoluzione infausta, per la comparsa di complicanze successive (per es. deiscenza, peritonite, shock settico). Il trattamento dell’infezione di ferita avviene nel modo seguente. Se all’esame quotidiano della medicazione di ferita durante il periodo postoperatorio si riscontrano segni di flogosi (eritema, infiltrazione dei margini) o di infezione conclamata (fuoriuscita di pus) si palpano in modo asettico i margini della ferita scoperta, alla ricerca di tumefazioni o di dolorabilità del sottocutaneo; queste aree vanno spremute delicatamente e ciò può determinare la fuoriuscita di essudato sieroematico o di pus negli intervalli tra i punti di sutura. È allora necessario togliere i punti di sutura in corrispondenza della porzione di ferita infetta e procedere alla toilette in profondità del sottocute ed eventualmente del piano fasciale, mediante lavaggio con soluzione fisiologica, allo scopo di eliminare il materiale essudato e necrotico. Un principio fondamentale del trattamento delle ferite infette è quello di consentire il massimo drenaggio possibile dell’essudato dalla ferita; nel caso di infezione estesa a tutta la ferita ciò comporta la rimozione senza indugio di tutti i punti di sutura cutanei ed eventualmente anche di quelli a livello di aree suppurate del piano fasciale; la loro permanenza infatti ritarderebbe il processo di guarigione della ferita. Si deve inviare un campione di essudato di ferita al laboratorio di microbiologia per l’isolamento dei germi patogeni e per determinarne la sensibilità all’antibiogramma; è consigliabile eseguire anche un esame a fresco dell’essudato strisciandolo sul vetrino ed osservandolo al microscopio dopo colorazione col metodo di Gram; ciò consente di identificare con buona approssimazione i patogeni responsabili dell’infezione. La produzione di essudato diminuisce rapidamente in un periodo variabile da 1 a 7 giorni circa, in relazione all’estensione dell’infezione, alla presenza o meno di spazi ascessuali profondi non ben drenati, nonché alle capacità di difesa del paziente. Quando non si riscontra più la presenza di essudato nella ferita, questa verrà medicata giornalmente con l’apposizione di garza a piatto, per protezione. Successivamente si procede al trattamento della ferita in uno dei seguenti modi: la soluzione di continuo determinata dal focolaio settico è piccola: si avvicinano i margini della ferita con cerotti adesivi sterili (steril-strip), per facilitare la riparazione del tessuto di granulazione e la successiva riepitelizzazione superficiale; tale modalità di guarigione si definisce “guarigione per seconda intenzione”;

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la soluzione di continuo della ferita è notevolmente estesa, dopo che è avvenuta la completa detersione dell’essudato: dopo aver riscontrato che il fondo della ferita presenta tessuto di granulazione attivamente proliferante (di colorito roseo, facilmente sanguinante), si procede alla risutura della ferita con punti cutanei staccati; la guarigione che ne segue viene definita “guarigione per terza intenzione”. Quando la ferita infetta è stata drenata, si sospende la somministrazione degli antibiotici eventualmente impiegati per il trattamento dell’infezione, tranne nei pazienti gravemente immunocompromessi e nei casi in cui l’infezione di ferita non ha tendenza a circoscriversi (per es. flemmone; setticemia).

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Ematoma È la raccolta di sangue, misto a coaguli, nel contesto della ferita. È una complicanza meno frequente dell’infezione. I possibili fattori causali dell’ematoma di ferita sono: emostasi incompleta per difetto di tecnica chirurgica; terapia anticoagulante (eparina, dicumarolo ecc.); deficit primitivi della coagulazione. Fattori favorenti la comparsa di ematoma sono i traumi (per es. monconi ossei di frattura, traumi esterni violenti) e l’ipertensione arteriosa elevata. L’ematoma si può manifestare precocemente, già nelle prime ore postoperatorie, oppure 359

tardivamente, dopo qualche giorno. Si presenta come una tumefazione dolente della ferita; la cute sovrastante assume un colorito bluastro e negli ematomi voluminosi, in accrescimento, vi può essere emorragia dalla ferita. Vi sono sedi anatomiche dove l’ematoma può determinare un’evoluzione infausta, per compressione di strutture vitali, come per esempio a livello cerebrale e a livello del collo. Inoltre l’ematoma causa un aumento del rischio di infezione di ferita. Negli interventi sulle strutture anatomiche profonde del collo (per es. loggia tiroidea, a. carotide, esofago cervicale) è sempre opportuno posizionare dei drenaggi per sorvegliare l’emostasi e consentire il deflusso all’esterno di eventuali raccolte di sangue. Gli ematomi profondi del collo possono rappresentare un pericolo imminente per la vita, se esercitano compressione sulla trachea; se si verifica tale circostanza si deve immediatamente aprire la ferita ed evacuare l’ematoma. Il trattamento degli ematomi che non esercitano compressione su strutture vitali è in genere conservativo. Invece gli ematomi voluminosi ed in accrescimento, oltre a quelli che comprimono strutture vitali, come già detto, richiedono la revisione accurata della ferita.

Raccolta sierosa È la raccolta di liquido sterile nella ferita, contenente in diverse proporzioni, a seconda dei casi, siero, linfa, liquido trasudato, tessuto adiposo in necrosi, tracce di sangue. La raccolta sierosa si deve differenziare dall’ematoma (costituito pressoché totalmente da sangue e coaguli) e dall’infezione di ferita con raccolta liquida (presenza di pus). La raccolta sierosa tende a formarsi nella ferita dopo interventi in cui si eseguono estese dissezioni del tessuto sottocutaneo o adiposo o nelle sedi di svuotamento linfoghiandolare, per la ricchezza dei vasi linfatici e di tessuto adiposo; in quest’ultimo caso la raccolta può essere costituita esclusivamente da linfa (linfocele). Quando la raccolta è invece caratterizzata dalla presenza di tessuto adiposo colliquato, viene definita “liponecrosi”.  Le raccolte sierose di minime dimensioni tendono a riassorbirsi spontaneamente; quelle voluminose invece devono essere evacuate, mediante aspirazione con ago o chirurgicamente, perché costituiscono terreno favorevole alla moltiplicazione di batteri (infezione) e perché possono determinare deiscenza parziale della ferita e/o ritardarne il processo di guarigione.

Deiscenza È l’apertura spontanea della ferita determinata da cedimento parziale o totale della sutura o della cicatrice recente. La deiscenza può essere solo a carico dei piani superficiali (cute e sottocute) oppure può interessare anche i piani profondi (muscolo, fascia, peritoneo). Nelle ferite laparotomiche,quando vi è deiscenza di tutti i piani di sutura, può avvenire l’eviscerazione, ossia la fuoriuscita dei visceri dal cavo peritoneale. La deiscenza superficiale di una parte della ferita si verifica spesso in seguito ad infezione o ad ematoma sottocutaneo.  La deiscenza completa di ferita laparotomica è una complicanza grave, fortunatamente poco frequente, che riconosce i seguenti fattori causali: x infezione profonda di ferita; x ritardo di guarigione della ferita (età avanzata, malnutrizione, diabete, ittero, insufficienza renale, terapia immunosoppressiva o citostatica); x difetto di tecnica chirurgica impiegata nella sintesi della laparotomia (materiale di sutura inadeguato; punti di sutura troppo fitti o troppo radi; legatura inadeguata delle suture; spazi vuoti 360

residui; lesioni o mancato affrontamento della fascia); x aumento notevole della pressione endoaddominale (ascite, occlusione intestinale, tosse violenta). Essa si manifesta classicamente verso il termine della prima settimana postoperatoria, quando cioè la forza tensile della cicatrice è minima; è caratterizzata dalla comparsa di sanguinamento per strappamento dei vasi neoformati e da apertura dei margini della ferita, con possibile eviscerazione nel caso di deiscenza completa della sutura laparotomica. La prognosi della deiscenza di ferita è generalmente favorevole se la complicanza viene trattata adeguatamente. La terapia della deiscenza consta della revisione chirurgica e risutura della ferita, se questa non è infetta; in caso di infezione la risutura dovrà avvenire solo dopo risoluzione completa dell’infezione.

Le deiscenze laparotomiche complicate da eviscerazione sono gravate da aumento della mortalità, derivante sia dalla complicanza in sé, sia dalla gravità della malattia di base che solitamente contribuisce al mancato consolidamento della cicatrice.

Laparocele Il laparocele è trattato nel Capitolo 9 della Sezione II.

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Complicanze respiratorie Sono tra le complicanze postoperatorie più frequenti e potenzialmente più gravi. Infatti la riduzione degli scambi gassosi che ne consegue diminuisce l’ossigenazione dei tessuti e aumenta il rischio di ulteriori complicanze a carico di altri organi (per es. infarto miocardico, danno cerebrale). L’incidenza delle complicanze respiratorie è più elevata dopo interventi a carico degli organi toracici e a livello dell’emiaddome superiore, per la compressione che viene esercitata intraoperatoriamente sul parenchima polmonare. Le complicanze respiratorie postoperatorie più frequenti sono l’atelettasia, la polmonite, il versamento pleurico, il pneumotorace e l’aspirazione di ingesti.

Atelettasia L’atelettasia polmonare è la complicanza respiratoria più frequente in assoluto; si manifesta in oltre il 50% dei pazienti che hanno subito interventi di chirurgia toracica e in circa il 20% di quelli operati a livello addominale. L’eziologia dell’atelettasia è legata in alcuni casi a cause ostruttive: abbondanti secrezioni bronchiali, intubazione prolungata, aspirazione di sangue o di ingesti, esclusione di segmenti polmonari per ventilazione incompleta attraverso il tubo tracheale. Più spesso l’atelettasia è invece legata alla ipoventilazione di alcune porzioni del parenchima polmonare, sia durante l’intervento chirurgico (per compressione esterna) sia nel postoperatorio immediato (respiro superficiale per reazione antalgica, azione depressiva sul centro respiratorio da parte di farmaci anestetici ed analgesici). Queste cause determinano la chiusura dei bronchioli e il collasso degli alveoli polmonari, più frequentemente a livello delle basi.  L’atelettasia insorge precocemente, entro 24-48 ore postoperatorie, ed è responsabile in molti casi della frequente febbre postoperatoria precoce. L’atelettasia è una complicanza potenzialmente grave specialmente se è interessata una parte cospicua del parenchima polmonare (Fig. 12.1 a). Le atelettasie di piccole dimensioni non determinano significative alterazioni respiratorie e tendono a risolversi spontaneamente con adeguata fisioterapia respiratoria.  Un’atelettasia di vaste dimensioni (lobare) si manifesta clinicamente con: febbre, tachipnea, 362

tachicardia e iperemia cutanea in regione zigomatica; all’ascoltazione del torace si riscontrano rantoli fini crepitanti ai campi polmonari inferiori. L’esame radiologico del torace può evidenziare strie atelettasiche, oppure, in caso di atelettasie maggiori, aree di opacità triangolare con apice ilare. La profilassi dell’atelettasia si effettua con adeguata fisioterapia respiratoria pre- e postoperatoria, e mobilizzazione del paziente.  La terapia consiste nella fisioterapia respiratoria, nella somministrazione di farmaci fluidificanti delle secrezioni bronchiali e broncodilatatori. È necessario procedere senza indugio all’aspirazione tracheale con sondino ed eventualmente all’aspirazione endobronchiale diretta in broncoscopia al letto del paziente, anche ripetutamente, nel caso in cui si manifesti atelettasia massiva da ostruzione delle vie aeree da parte di secreto denso (Fig. 12.1 a, b).

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Polmonite La polmonite è una complicanza grave, che si accompagna ad un aumento significativo del rischio di mortalità postoperatoria. La comparsa di polmonite postoperatoria è favorita dall’atelettasia polmonare. La polmonite rappresenta una complicanza frequente nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica prolungata nei reparti di terapia intensiva postoperatoria. In generale, i fattori che predispongono allo sviluppo della polmonite sono il ristagno di secrezioni bronchiali, l’ipoventilazione del parenchima polmonare e una diminuzione dei meccanismi di difesa contro le infezioni (lesioni a livello della barriera mucociliare tracheobronchiale e deficit immunitari). L’insorgenza di polmonite è segnalata clinicamente dalla comparsa di febbre di tipo continuoremittente, solitamente dopo la terza giornata postoperatoria, associata alla comparsa di iperemia cutanea agli zigomi, di escreato purulento e talora accompagnata da modeste alterazioni del sensorio (agitazione; obnubilamento). La diagnosi di polmonite viene confermata dai reperti dell’esame obiettivo e radiologico del torace.  L’eziologia delle polmoniti postoperatorie è nella maggior parte dei casi riferibile a infezioni da batteri Gram+ (stafilococco) e Gram– (Pseudomonas, Klebsiella, Proteus); più raramente, nei pazienti immunocompromessi, si osservano polmoniti da Candida, da Aspergillus o da Citomegalovirus. La terapia consiste nella somministrazione di antibiotici (possibilmente mirati sulla base del reperto della coltura dell’escreato), farmaci mucolitici e broncodilatatori. Sono indispensabili la fisioterapia respiratoria e la mobilizzazione del paziente nonché l’aspirazione delle secrezioni abbondanti, qualora il paziente non sia in grado di provvedere autonomamente all’espettorazione.

Versamento pleurico Dopo interventi sul torace e sull’addome superiore è frequente la comparsa di un versamento pleurico, reattivo al trauma esercitato in maniera diretta o per contiguità sulla pleura. Dopo interventi che comportano toracotomia (e, in minor misura, anche dopo videotoracoscopia), è costante la formazione di modesta raccolta sieroematica pleurica (100-500 ml/die) per alcuni giorni; tale versamento pleurico viene evacuato tramite i drenaggi pleurici che di regola si posizionano al termine dell’intervento. È pressoché costante la formazione di un modesto versamento pleurico reattivo dopo splenectomia. Tali versamenti pleurici reattivi si riassorbono spontaneamene dopo alcuni giorni; raramente, nel caso di versamenti pleurici massivi che compromettono la ventilazione polmonare, è necessaria una toracentesi evacuativa. Se, dopo alcuni giorni dall’intervento chirurgico, si manifesta versamento pleurico monolaterale,con febbre intermittente,è probabile la formazione di un ascesso sottodiaframmatico o la formazione di un empiema pleurico.Una causa meno frequente di versamento pleurico è la pancreatite postoperatoria.

Pneumotorace La comparsa di pneumotorace è legata a lesione della pleura viscerale o parietale in corso di manovre anestesiologiche, rianimatorie o chirurgiche. La lesione della pleura viscerale avviene più frequentemente durante manovre chirurgiche sul polmone o durante incannulamento della vena succlavia; talora è invece causata dalla rottura di bolle polmonari in corso di ventilazione 364

meccanica. La lesione accidentale della pleura parietale può avvenire in corso di manovre di scollamento degli organi mediastinici (per es. durante esofagectomia) o in seguito ad interventi in prossimità del diaframma.Il pneumotorace di modesta entità non dà manifestazioni cliniche importanti e compare esclusivamente come falda aerea apicale in cavo pleurico ad un controllo radiografico del torace eseguito per altri motivi. Se non è rifornito, il pneumotorace minimo si riassorbe spontaneamente. Se invece il pneumotorace è massivo, o peggio, se è rifornito di aria in continuazione, compare collasso pressoché completo del parenchima polmonare, dispnea grave, cianosi e ipossia; è allora necessario procedere d’urgenza al posizionamento di un drenaggio toracico.

Aspirazione di ingesti È una complicanza grave che predispone all’insorgenza di polmonite. Nell’albero respiratorio può avvenire l’aspirazione di alimenti rigurgitati, di contenuto gastrico, oppure di sangue, proveniente dal cavo orofaringeo o da emorragie broncopolmonari. Nel caso in cui si verifichi contaminazione massiva dell’albero bronchiale con materiale aspirato, il rischio di polmonite ad esito letale è assai elevato. Il rischio di aspirazione polmonare di ingesti si verifica fondamentalmente in due circostanze: in caso di vomito al momento dell’estubazione tracheale al termine dell’anestesia, o nel paziente con sensorio obnubilato, anche nel postoperatorio tardivo. L’aspirazione polmonare si osserva più frequentemente in corso di interventi chirurgici d’urgenza, per mancata preparazione dello stomaco che contiene quindi ingesti, nei pazienti con ristagno gastrico, nelle gravide e nell’occlusione intestinale. La profilassi dell’aspirazione polmonare di ingesti consiste nell’adeguata preparazione dello stomaco negli interventi in elezione e in una accurata sorveglianza dei pazienti operati d’urgenza o con stomaco non adeguatamente preparato. La terapia consiste nell’aspirazione immediata delle vie aeree per prevenire l’estensione del danno parenchimale, eventualmente con l’ausilio del broncoscopio. È necessario somministrare antibiotici a largo spettro e cortisonici.

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Alterazioni della funzionalità gastrointestinale Negli interventi laparotomici il trauma chirurgico che comporta l’apertura del peritoneo,la manipolazione dei visceri addominali, la confezione di anastomosi, l’eventuale lesione di rami del nervo vago e la somministrazione di farmaci anestetici condizionano la scomparsa transitoria dell’attività peristaltica gastrointestinale, definita ileo paralitico postoperatorio. Questo può essere aggravato da uno stato di ipopotassiemia o,più raramente,dalla somministrazione di farmaci oppiacei e anticolinergici,o di antiblastici derivati dalla vinca. Anche dopo trauma a carico della colonna vertebrale a livello dorsale può comparire ileo paralitico, che può durare anche molti giorni, provocando vomito ripetuto e notevole sovradistensione addominale,ma che tende a risolversi spontaneamente.  La durata dell’ileo paralitico postoperatorio è mediamente di 2-4 giorni, con variazioni individuali a seconda della durata e del trauma dell’intervento chirurgico, della presenza o meno di anastomosi intestinali o di focolai infettivi endoaddominali. La ripresa della peristalsi avviene precocemente a livello ileale (I giornata postoperatoria), successivamente a livello gastroduodenale (II giornata postoperatoria) ed infine a livello colico (IIIII giornata postoperatoria). Pertanto, nel decorso postoperatorio regolare degli interventi di chirurgia addominale, in II-IV giornata compaiono rumori peristaltici intestinali e vi è apertura dell’alvo ai gas. Poiché nel decorso postoperatorio regolare la paralisi gastrica dopo interventi laparotomici dura 1-2 giorni, se dopo la III giornata postoperatoria compare vomito oppure si continua a riscontrare dal sondino gastrico un ristagno superiore a circa 500 ml/die si deve prendere in considerazione l’ipotesi di insorgenza di complicanze che rallentano la peristalsi gastrointestinale (per es. infezioni addominali, occlusione intestinale meccanica, deiscenza di anastomosi). Raramente può comparire nell’immediato postoperatorio una gastrectasia acuta, caratterizzata da enorme dilatazione dello stomaco, che è sovradisteso da secreto gastrico e gas; è questa una complicanza grave che in condizioni estreme può comportare l’insorgenza di altri problemi, quali necrosi, sanguinamento e perforazione della parete gastrica, volvolo gastrico, dispnea da compressione diaframmatica, compressione della vena cava e insufficienza cardiocircolatoria, singhiozzo grave e notevoli perdite idro-elettrolitiche. La gastrectasia acuta postoperatoria si manifesta nei pazienti in cui non è stato posizionato il sondino per l’aspirazione gastrica (oppure questo non funziona correttamente); l’eziologia di questa complicanza è riferibile a: z presenza di occlusione antro-pilorica o duodenale; z inalazione forzata di ossigeno con la maschera; z asma grave; z splenectomia (per dislocazione del corpo gastrico).  Le complicanze postoperatorie che più frequentemente causano alterazioni della canalizzazione intestinale durante la prima settimana dopo interventi di chirurgia addominale sono: x ascesso addominale; x deiscenza di anastomosi; x infezione profonda e deiscenza di ferita; x perforazione di ulcera peptica; x occlusione intestinale meccanica; x colecistite acuta. 366

Dopo la IV giornata postoperatoria se non compaiono segni di ripresa della funzionalità intestinale (rumori peristaltici, canalizzazione dell’alvo ai gas) si deve sospettare la comparsa di complicanze addominali.È allora necessario eseguire un accurato esame obiettivo addominale, esaminare la ferita, i drenaggi, il ristagno gastrico, valutare gli indici generali di infezione (febbre, leucocitosi). Può essere opportuno inoltre eseguire esami radiologici per accertare la diagnosi (radiogramma dell’addome diretto,ecografia o TC addominale), alla ricerca dei segni della presenza di gas libero in cavo addominale, di livelli idro-aerei intestinali o di ascessi. Alcuni pazienti, dopo risoluzione dell’ileo paralitico postoperatorio e ripresa della canalizzazione intestinale, manifestano nuovamente ileo paralitico (ileo tardivo), oppure occlusione meccanica, a distanza di qualche giorno.  Le cause più frequenti di ileo paralitico tardivo sono: x ascesso addominale; x deiscenza di anastomosi; x perforazione di ulcera peptica. Le cause più frequenti di occlusione meccanica postoperatoria sono: x formazione di aderenze e angolazioni intestinali; x ernie interne (tra i mesi); x invaginazione intestinale (più frequente in età pediatrica). Le caratteristiche delle scariche alvine alla ripresa della canalizzazione intestinale vanno valutate adeguatamente. Dopo anastomosi intestinale è normale l’emissione iniziale di feci melaniche; se l’anastomosi è a livello colorettale vi può essere inizialmente emissione di modesta quantità di sangue rosso vivo.Tuttavia il perdurare di scariche alvine melaniche o di enterorragia è patologico; le cause più frequenti di ciò sono rispettivamente il sanguinamento a livello di ulcera peptica o di stomia intestinale alta o di anastomosi a livello colico. La comparsa di diarrea postoperatoria è abbastanza frequente ed è spesso causata da tossicità intestinale da antibiotici. L’aumento del numero delle scariche alvine è frequente dopo colecistectomia e interventi sulle vie biliari, ed è dovuto a deflusso incontrollato di bile nell’intestino; è un problema facilmente controllabile con la terapia medica. L’insorgenza di diarrea mucosanguinolenta dopo interventi di anastomosi colica o rettale è una complicanza grave: si deve porre diagnosi differenziale solitamente tra colite acuta da farmaci (per es. antibiotici) e deiscenza dell’anastomosi. In alcuni pazienti si può manifestare stipsi postoperatoria prolungata, con formazione di fecaloma a livello rettale. Questa complicanza può essere dovuta all’uso di farmaci oppiacei o anticolinergici, ed è più facile che compaia in alcune situazioni a rischio: z pazienti anziani costretti a letto a lungo; z presenza di residui di mezzo di contrasto baritato nell’intestino; z megadolicocolon; z paraplegia. La diagnosi di fecaloma si accerta con l’esplorazione rettale; la terapia consiste nella digitoclasia del fecaloma, nella somministrazione di purganti o di clistere (qualora non controindicato) e nell’idratazione del paziente.

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Insufficienza renale acuta Si definisce insufficienza renale acuta (IRA) una rapida diminuzione della funzionalità renale, caratterizzata da riduzione della clearance della creatinina e/o da aumento della concentrazione sierica della creatinina e dell’urea; nella maggior parte dei casi l’IRA si manifesta clinicamente con oliguria grave o anuria. L’IRA postoperatoria è solitamente conseguente a ipoperfusione del parenchima renale, per effetto di una o più delle seguenti cause: z ipovolemia; z riduzione della gittata cardiaca; z sepsi; z shock neurogeno; z occlusione spontanea o iatrogena delle arterie renali; z aumento del tono arteriolare renale da stimolazione adrenergica.  Tra le cause più frequenti di ipovolemia, in grado di determinare la comparsa di IRA, si ricordano le emorragie gravi, le perdite di liquidi nel terzo spazio, un apporto idrosalino inadeguato. Dal punto di vista pratico, a prescindere dall’eziologia dell’ipoperfusione renale, è importante ricordare che se la pressione nell’arteria renale rimane < 80 mmHg per oltre 30 minuti, insorge solitamente IRA. I fattori eziologici e i meccanismi patogenetici dell’IRA postoperatoria sono schematicamente rappresentati nella Tabella 12.3.

Tra le cause iatrogene di riduzione del flusso attraverso le arterie renali si ricordano le manovre di clampaggio delle arterie renali o dell’aorta sovrarenale, che privano totalmente il rene dell’afflusso sanguigno. L’uso di farmaci adrenergici per il controllo dell’ipotensione, dello shock e dell’attività cardiaca, può condurre ad un brusco incremento delle resistenze a livello del microcircolo renale con grave 368

riduzione della perfusione parenchimale, che si rivela con contrazione della diuresi. La nefrotossicità dei farmaci è potenziata da un eventuale stato di disidratazione.  Si definisce oliguria la produzione di meno di 400 ml di urina nelle 24 ore. L’anuria è invece caratterizzata da una diuresi inferiore a 50-100 ml/24 ore. Esiste normalmente una autoregolazione renale del tono delle arteriole afferenti in risposta ad ipotensione; tuttavia valori di pressione sistolica < 80 mmHg non sono più adeguatamente compensabili con il meccanismo della vasodilatazione delle arteriole afferenti. È importante distinguere tra IRA funzionale, che può essere prontamente reversibile con adeguata e tempestiva terapia, e IRA organica, caratterizzata da alterazioni istopatologiche renali, di più difficile soluzione. La correzione della IRA funzionale, caratterizzata da oliguria postoperatoria da ipoperfusione, si realizza mediante reidratazione precoce e correzione della ipoperfusione; l’IRA organica si instaura quando, nonostante la correzione delle cause di ipoperfusione renale, i parametri di funzionalità renale non rientrano nella norma.  La causa più frequente di IRA organica è la necrosi tubulare acuta (NTA), secondaria a: x ischemia renale protratta; x azione di tossine batteriche liberate in corso di sepsi; x farmaci nefrotossici (FANS, antibiotici-aminoglicosidi, cefalosporine, vancomicina – alcuni anestetici, destrano P.M. 40.000, glicerolo, mezzi di contrasto radiologico); x emoglobinuria/mioglobinuria in esiti di ustioni estese, di politrauma o di rivascolarizzazione di arti ischemici; x emoglobinuria massiva da incompatibilità emotrasfusionale.  Il manifestarsi di IRA postoperatoria è più frequente in pazienti che presentano uno o più dei seguenti fattori di rischio: shock settico, età > 60 anni, clampaggio dell’aorta sovrarenale o delle arterie renali, patologie che comportano riduzione della riserva funzionale del rene (nefropatia diabetica, glomerulonefrite, pielonefrite, arteriosclerosi, nefrocalcinosi, ittero ostruttivo, pancreatite acuta). I parametri da monitorare con attenzione in caso di contrazione postoperatoria della diuresi, per evidenziare precocemente l’insorgenza di IRA sono: la diuresi oraria, l’azotemia, la creatininemia, la velocità di filtrazione glomerulare, l’esame del sedimento urinario, gli eletroliti sierici ed urinari, il pH arterioso, l’osmolarità plasmatica ed urinaria. Tali parametri devono essere valutati congiuntamente. L’IRA esordisce solitamente con una brusca contrazione della diuresi; tuttavia la diuresi giornaliera può successivamente risultare normale o addirittura aumentata per danno tubulare massivo con perdita nella capacità di concentrazione delle urine (IRA con diuresi conservata). Un valore di sodio urinario < 20 mEq/l è indice di IRA prerenale. L’IRA determina di solito la comparsa di iperazotemia, ma l’aumento dell’azotemia da solo non è necessariamente indicativo di IRA. Infatti l’iperazotemia può derivare da un incremento del catabolismo proteico, quale si ha negli stati settici e nei traumi tissutali, o in conseguenza di dieta iperproteica, di terapia diuretica o di riduzione del flusso urinario; inoltre, un valore normale di azotemia non indica necessariamente una funzionalità renale normale, poiché potrebbe conseguire ad una ridotta sintesi di urea da insufficienza epatica. La creatininemia è un valido indice della funzionalità renale. La clearance della creatinina è un indice diretto della filtrazione glomerulare, mentre il rapporto tra la concentrazione urinaria e plasmatica della creatinina è indice della capacità di concentrazione dei tubuli renali; il valore 369

normale di tale rapporto è 100-200; nell’ IRA può ridursi a meno di 10. In caso di NTA, l’osmolarità urinaria (normale: 700-1400 mOsm/l) tende a diminuire, raggiungendo quella del plasma (circa 300 mOsm/l) per incapacità progressiva del rene di concentrare le urine. Se l’osmolarità urinaria permane a valori > 800 mOsm/l è probabile che la contrazione della diuresi derivi solo dalla disidratazione. Per la diagnosi di IRA funzionale è importante valutare il rapporto Na/K urinari; se è < 1, è indice di IRA funzionale. Se si sviluppa NTA, nel sedimento urinario compaiono cellule tubulari e cilindri bruni, che consentono la diagnosi. Il trattamento dell’oligoanuria nel periodo postoperatorio deve mirare a garantire: x uno stato di idratazione ottimale; x l’equilibrio elettrolitico, metabolico ed acido-base; x il mantenimento di un adeguato regime pressorio. L’ottimizzazione emodinamica può richiedere la misurazione frequente della PVC, e nei malati più gravi, il monitoraggio con catetere di Swan-Ganz. Nei casi di contrazione della diuresi da causa prerenale, la somministrazione di liquidi ed elettroliti è spesso sufficiente a ripristinare la funzione renale; se la risposta a tale terapia è inadeguata o se compare ritenzione idrica, si ricorre alla somministrazione di: x diuretici dell’ansa (furosemide); x mannitolo; x dopamina a basse dosi, o dobutamina, al fine di provocare una vasodilatazione del circolo corticale.

Nel caso di NTA, pur non potendosi correggere farmacologicamente il danno anatomico, è utile cercare di convertire l’IRA oligurica in IRA a diuresi conservata, caratterizzata da una prognosi migliore. L’iperpotassiemia ingravescente (> 7 mEq/l) nei pazienti con IRA, per la sua potenziale pericolosità (arresto cardiaco) deve essere rapidamente corretta con trattamento medico o dialitico. La ripresa della funzionalità renale è di solito caratterizzata da una fase poliurica, durante la quale l’omeostasi idro-salina del paziente deve essere monitorata accuratamente.

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Complicanze urinarie Le complicanze urinarie postoperatorie più frequenti sono la ritenzione urinaria acuta e le infezioni dell’apparato urinario.

Ritenzione acuta L’impossibilità di svuotare in parte o totalmente la vescica nell’immediato postoperatorio può dipendere da tre cause: danno organico delle strutture nervose che controllano la minzione, alterazioni funzionali dei meccanismi della minzione, ostacolo meccanico nell’uretra. Alterazioni di tipo funzionale del meccanismo della minzione si instaurano frequentemente dopo anestesia generale o spinale, causate dai farmaci anestetici. Si può classificare come alterazione funzionale anche la diminuzione della capacità contrattile della vescica (atonia vescicale) dovuta all’eccessiva distensione delle pareti; ciò si verifica prevalentemente in pazienti con precedenti di ritenzione vescicale incompleta (da stenosi uretrale, da ipertrofia prostatica); quando l’urina accumulata in vescica è > 500 ml, lo stiramento passivo della parete vescicale può comportare incapacità del muscolo detrusore a contrarsi efficacemente, con conseguente sviluppo di ritenzione urinaria completa e comparsa di iscuria paradossa. La ritenzione completa di urina si può manifestare nel coma, nelle lesioni neurassiali, in seguito a lesione dei centri di controllo della minzione, localizzati a livello S2-S3 (parasimpatico sacrale), T9L4 (ortosimpatico) e a livello diencefalico e corticale (controllo volontario). In questi casi la ritenzione consegue spesso ad atonia vescicale. In altri casi, al contrario, la mancanza di controllo nervoso superiore può comportare incontinenza urinaria vera, per perdita del tono sfinterico. Qualunque ne sia la causa, lo sviluppo di ritenzione urinaria acuta è segnalato dalla mancata emissione spontanea di urina a distanza di qualche ora dall’intervento, con comparsa di sovradistensione (“globo”) vescicale. Se il paziente è cosciente riferisce incapacità di urinare, senso di distensione addominale e dolore sovrapubico. La diagnosi differenziale va posta con l’oliguria o l’anuria postoperatoria. Gli elementi che indirizzano verso la diagnosi corretta sono: tipo di intervento eseguito, esame obiettivo del paziente, valutazione dello stato di idratazione e dell’adeguatezza dell’infusione di liquidi, esami di laboratorio e l’esito del cateterismo vescicale. Il trattamento elettivo della ritenzione urinaria acuta postoperatoria consiste nel cateterismo vescicale estemporaneo; lo svuotamento della vescica va effettuato gradualmente, per evitare emorragia ex vacuo.

Se il cateterismo vescicale dà esito a meno di 1000 ml di urina, è opportuno togliere il catetere e mobilizzare il paziente invitandolo, se possibile, a deambulare. Nel caso di interventi di chirurgia addomino-pelvica estesamente demolitivi si possono verificare lesioni dei nervi sacrali e pelvici; è pertanto necessario posizione preventivamente un catetere vescicale a dimora per 5-7 giorni. Si deve quindi esercitare progressivamente la vescica a tollerare periodi prolungati di chiusura del catetere (“ginnastica vescicale”); solitamente nel volgere di alcuni giorni riprende l’autocontrollo della minzione.

Infezioni Le infezioni urinarie nosocomiali costituiscono circa un terzo di tutte le infezioni acquisite in ambito ospedaliero e rappresentano un problema di frequente riscontro nei pazienti chirurgici. Il principale fattore di rischio è rappresentato dalle manovre invasive a carico delle vie urinarie, in 371

particolare dal cateterismo vescicale. Circa il 25% dei pazienti chirurgici sviluppa nel corso del periodo postoperatorio una batteriuria o una infezione delle vie urinarie; tale percentuale però raddoppia se si considerano i pazienti in cui è stata eseguita almeno una volta una manovra di cateterizzazione. È stato calcolato che l’80% delle batteriemie insorte in ambito ospedaliero si sviluppa in seguito al posizionamento di catetere vescicale. Nei pazienti affetti da ritenzione urinaria acuta o cronica l’infezione urinaria è favorita dall’incompleto svuotamento della vescica e dalle frequenti e concomitanti infezioni subacute della prostata, le quali costituiscono spesso il meccanismo responsabile del mantenimento di batteriuria e di infezioni urinarie ricorrenti. Anche la litiasi urinaria, comportando ostruzione al deflusso urinario e microtraumi mucosi, facilita l’insorgenza di infezioni delle vie urinarie. La principale fonte di batteri responsabili di infezioni delle vie urinarie è rappresentata dall’intestino. Infatti il 50% circa delle batteriurie nosocomiali è attribuibile a ceppi resistenti di E. coli; il restante 50% è dovuto in gran parte a bacilli aerobi Gram– (Proteus, Providencia, Pseudomonas, Serratia, Enterobacter, Klebsiella).Tra gli aerobi Gram+ si segnalano per l’elevata frequenza lo Staphylococcus epidermidis, lo Staphylococcus aureus, l’Enterococcus. Più raro è il riscontro di infezioni da Candida, da bacillo di Koch, da Haemophilus influenzae e da Trichomonas vaginalis.  Un ruolo eziologico significativo per le infezioni urinarie nei pazienti chirurgici spetta anche alle terapie antibiotiche ad ampio spettro, in grado di alterare la flora batterica intestinale e di consentire la proliferazione di ceppi patogeni resistenti. Anche quando il posizionamento del catetere viene eseguito con rispetto della asepsi e facendo ricorso a sistemi chiusi per la raccolta delle urine, se il catetere viene lasciato a dimora, dopo una settimana si sviluppa notevole contaminazione urinaria (> 100.000 colonie/ml) nel 100% dei casi; impiegan-do sistemi aperti ciò avviene già dopo 4 giorni. Il cateterismo estemporaneo causa significativa contaminazione urinaria solo in circa il 10% dei casi, ed è quindi il sistema preferibile, qualora il recupero della funzionalità vescicale sia ritenuto imminente. Una batteriuria grave può essere anche asintomatica. I segni e sintomi clinici dell’infezione urinaria nel paziente cateterizzato sono: febbre elevata (38-40 °C, comparsa con brividi), irritazione uretrale, dolore sovrapubico, ematuria e piuria. La diagnosi di infezione urinaria viene confermata dalla positività dell’urinocoltura con conta batterica > 100.000 colonie/ml. Nel caso di infezione da Staphylococcus aureus, l’urinocoltura viene considerata positiva per valori di conta batterica > 10.000 colonie/ml. L’irradiazione del dolore alla loggia renale, la comparsa di brivido e di febbre > 39 °C indicano l’estensione dell’infezione urinaria in senso ascendente. La terapia delle infezioni urinarie è antibiotica, mirata in base all’esame urinocoltura e ai test di sensibilità antibiotica. È importante mantenere una buona diuresi.

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Febbre postoperatoria Si definisce febbre l’aumento della temperatura corporea conseguente ad un innalzamento del livello di termoregolazione ipotalamico. Per ipertermia si intende invece l’eccesso di produzione di calore in rapporto alla possibilità di termodispersione del corpo, senza che vi sia modificazione della attività del centro termoregolatore. La comparsa di febbre nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico è un evento assai frequente. Un modico rialzo termico (< 38 °C) nei primi 2-3 giorni postoperatori, non accompagnato da altri segni o sintomi di complicanze, si deve considerare facente parte della normale risposta fisiopatologica al trauma chirurgico; tale alterazione è transitoria e reversibile senza alcuna terapia. Il rialzo della temperatura corporea nel postoperatorio è quasi sempre indotto dalla immissione in circolo di interleuchina 1 (IL-1). L’IL-1, denominata anche pirogeno endogeno, viene prodotta e liberata dai monociti circolanti, dalle cellule del SRE epatico e splenico e dai macrofagi, in seguito a stimolazione da parte di microbi, di molecole di produzione batterica (per es. endotossina) e di immunocomplessi. L’IL-1 raggiunge il centro termoregolatore e vi induce la sintesi di PGE2, che provoca un aumento dell’attività del centro stesso. Si comprende quindi perché farmaci come l’acido acetilsalicilico, il paracetamolo e i FANS, il cui meccanismo d’azione consiste nel blocco della sintesi delle prostaglandine, possano controllare l’insorgenza della febbre. Quando compare febbre nel periodo postoperatorio è necessario cercarne la causa, allo scopo di chiarire se si tratta della normale risposta fisiopatologica al trauma chirurgico, oppure se la febbre è causata da complicanze postoperatorie di tipo settico. Nel 75% dei pazienti chirurgici che presentano febbre postoperatoria precoce e di breve durata non è possibile evidenziare alcun focolaio settico e in questi casi la febbre è attribuibile ad una delle seguenti cause: z rilascio di IL-1 in risposta al trauma chirurgico tissutale; z atelettasia polmonare; z reazione a farmaci. Tuttavia se la febbre (oltre 37,5 °C) si protrae oltre la IV o V giornata postoperatoria o se la febbre è > 39 °C, è molto probabile che sia secondaria ad infezione. Gli esami ematochimici ed ematologici solitamente non consentono di precisare la patogenesi della febbre postoperatoria, poiché le modificazioni rilevabili (leucocitosi neutrofila, aumento della VES, aumento della proteina C-reattiva, iperglicemia), sono comuni alle varie cause di febbre. Peraltro, il dosaggio dell’endotossinemia è specifico, poiché risulta positivo in caso di infezione da batteri Gram–. Per determinare l’eziologia della febbre postoperatoria è sempre necessario eseguire l’esame obiettivo completo del paziente. Si devono ricercare i segni locali dell’infiammazione nelle sedi più frequentemente interessate da infezioni postoperatorie (ferita, apparato respiratorio, vie urinarie, arti); per l’identificazione dei possibili focolai settici è inoltre necessario considerare le potenziali complicanze derivanti dal tipo specifico di intervento eseguito. È inoltre necessario eseguire gli esami microbiologici in grado di fornire indicazione su possibili infezioni in atto: emocoltura, urinocoltura, coltura dell’escreato bronchiale, dei liquidi provenienti dai drenaggi e dell’essudato eventualmente raccolto in sede di ferita. In caso di diarrea si esegue coprocoltura e ricerca dell’antigene per identificare l’infezione da Clostridium difficile. Se si attribuisce la febbre ad un’infezione da probabile deiscenza di anastomosi del tubo digerente, le indagini radiologiche con mezzo di contrasto non andrebbero eseguite prima della IX-X giornata postoperatoria, impiegando comunque mezzo di contrasto idrosolubile; gli spandimenti di mezzo di contrasto baritato sono infatti lesivi dei meccanismi di difesa peritoneale e sono di difficile eliminazione. Se dai drenaggi compare essudato purulento o materiale enterico, si può eseguire una 373

fistolografia per valutare la morfologia del tramite fistoloso di drenaggio di un ascesso endoaddominale o di una fistola enterocutanea. È utile distinguere la febbre postoperatoria precoce, che si manifesta entro 48 ore dall’intervento, dalla febbre postoperatoria tardiva, che compare successivamente.  La causa più frequente di febbre postoperatoria precoce è l’atelettasia polmonare; in questo caso la febbre si manifesta in genere entro 24 ore dall’intervento. L’atelettasia comporta riduzione del flusso d’aria e della clearance mucociliare,con accumulo di batteri e liberazione di IL-1 da parte dei macrofagi alveolari e conseguente comparsa di febbre. Le manipolazioni prolungate delle mucose dei visceri cavi (tubo digerente, vie genitourinarie), la contaminazione massiva della ferita o di cateteri, possono causare febbre postoperatoria precoce elevata (> 38 °C). La febbre postoperatoria tardiva compare dopo alcuni giorni dall’intervento, solitamente entro le prime 2 settimane; in genere è dovuta allo sviluppo di un’infezione.  Le cause di febbre postoperatoria tardiva sono, in ordine decrescente di incidenza: le infezioni di ferita, quelle polmonari, quelle endoaddominali (ascessi), quelle urinarie, le flebiti (chimiche, o più raramente settiche, associate alla presenza di cateteri venosi), l’embolia polmonare, la pancreatite e l’infarto del miocardio. Vi sono alcune caratteristiche della curva termica che possono indirizzare verso la diagnosi eziologica della febbre postoperatoria (Fig. 12.2). La febbre causata da infezione di ferita, da flebite e da infezione di catetere insorge progressivamente ed è di tipo continuo-remittente, con fluttuazioni solitamente comprese tra 37-38,5 °C. La febbre da broncopolmonite postoperatoria è anch’essa di tipo continuo-remittente, però a livelli più elevati di temperatura (37,5-40 °C). La febbre causata da infezione delle vie urinarie e quella legata a setticemia insorge di solito con brivido e presenta fluttuazioni a livelli molto elevati (38,5-40 °C). Nei pazienti che sviluppano un ascesso, la febbre è di tipo intermittente, “a dente di sega”, con una o più puntate quotidiane di febbre elevata.

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Talora non è possibile identificare un focolaio infettivo, ed allora è necessario prendere in considerazione le altre cause possibili, anche se meno frequenti, di rialzo termico postoperatorio, che sono: z reazione da farmaci; z reazione da incompatibilità emotrasfusionale; z febbre neoplastica (per es.: linfoma; epatocarcinoma); z collagenopatie; z ipertiroidismo. Talora, anziché febbre, i pazienti affetti da gravi infezioni manifestano ipotermia (< 36 ° C).L’ipotermia si verifica nelle fasi terminali delle complicanze settiche, quando compare shock ipodinamico; ciò rappresenta un segno prognostico infausto a breve termine. Ipertermia maligna. L’ipertermia maligna è una malattia caratterizzata da elevato ed improvviso rialzo termico (> 40 °C), in risposta alla somministrazione di farmaci miorilassanti ad azione depolarizzante, in corso di anestesia. Questa gravissima complicanza si verifica raramente (circa 1/50.000 anestesie) ma comporta una mortalità assai elevata. Le manifestazioni cliniche, oltre che da una elevata ipertemia, sono costituite da: tachipnea, ipotensione ed aritmia; le alterazioni ematochimiche sono rappresentate da: ipossia, ipercapnia, acidosi ed iperpotassiemia. La patogenesi è riferibile alla comparsa di elevato e persistente tono muscolare che comporta aumento incontrollato della termogenesi. La terapia dell’ipertermia maligna, oltre alla immediata interruzione dell’anestesia, è sintomatica, mirata a diminuire la temperatura corporea e a sostenere la funzionalità cardiocircolatoria e respiratoria; può essere utile la somministrazione di dantrolene (10 mg/kg ev).

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Multiple Organ Failure (MOF) La MOF è una sindrome caratterizzata dall’insorgenza di insufficienza funzionale progressiva di più apparati; essa rappresenta la principale causa di morte dei pazienti ricoverati nelle unità di terapia intensiva per il trattamento di complicanze conseguenti ad interventi chirurgici o a traumi. Le infezioni gravi sono tra le cause più frequentemente responsabili della MOF; quest’ultima infatti rappresenta spesso la fase evolutiva finale della sepsi a decorso ingravescente. Nel paziente chirurgico i focolai settici primitivi responsabili dello scatenamento della MOF sono localizzati nel 70% dei casi a livello intraddominale o polmonare; nei rimanenti casi sono a livello della ferita chirurgica, delle vie urinarie e in altre sedi. Il 25% dei pazienti affetti da shock emorragico sviluppa sepsi e successivamente MOF. A conferma del rischio legato alle emotrasfusioni ripetute si è osservato che una emotrasfusione massiva (oltre 6 unità di sangue) nei pazienti critici è accompagnata da MOF nel 28% dei casi. L’eziopatogenesi della MOF è stata in parte chiarita negli ultimi anni. Poiché le insufficienze funzionali si manifestano a carico di organi e tessuti diversi tra loro, è stato ipotizzato un meccanismo patogenetico comune, che consiste nella attivazione massiva dei meccanismi dell’infiammazione.

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Infatti la sepsi, l’ipossia tissutale, le reazioni immunologiche conseguenti a trasfusioni, i traumi gravi sono tutti fattori che provocano l’attivazione intravascolare del complemento. Questa alterazione determina l’aggregazione dei granulociti polimorfonucleati (PMN) a livello del microcircolo e la loro successiva degranulazione, con rilascio a livello dell’endotelio di enzimi lisosomiali e di radicali liberi dell’ossigeno. Tali sostanze provocano un danno diretto della barriera endoteliale, causano edema interstiziale e riducono la cessione d’ossigeno ai tessuti. Questa sequenza di alterazioni causata dall’attivazione del complemento determina danno strutturale e deficit funzionale dei parenchimi di organi vitali. L’esordio della MOF è insidioso, quasi sempre caratterizzato inizialmente dal deficit isolato di un organo/apparato, seguito nelle ore e nei giorni successivi dalla comparsa di insufficienza di altri organi/apparati. L’insufficienza respiratoria è solitamente la prima ad instaurarsi; di solito seguono l’insufficienza epatica dopo 1-3 giorni, poi quella cardiocircolatoria e quella renale dopo 1-2 settimane. Le alterazioni emocoagulative, assai gravi per la prognosi, possono esordire dopo la prima settimana. z Insufficienza respiratoria: è caratterizzata dalla formazione di edema interstiziale polmonare e da riduzione degli scambi gassosi alveolari. Inizialmente il paziente presenta tachipnea; l’emogasanalisi rivela moderata ipossia con ipercapnia e alcalosi respiratoria di compenso. L’esame radiografico del torace eseguito in questa fase precoce risulta raramente significativo. Più tardivamente, in seguito a danno delle pareti alveolari e a deposizione di proteine negli alveoli, si sviluppa ipossia grave, con cianosi, ipercapnia e acidosi respiratoria. La dispnea diviene ingravescente e impegna notevolmente i muscoli accessori della respirazione, in conseguenza della ridotta compliance polmonare; in questa fase l’esame radiografico del torace rivela il quadro conclamato di infiltrazione alveolare diffusa bilaterale. L’insufficienza respiratoria è spesso ulteriormente complicata dalla comparsa di pneumotorace, atelettasia, polmonite, ipertensione polmonare, insufficienza miocardica.

Insufficienza epatica: gli epatociti sono particolarmente sensibili all’ipossia e all’azione delle tossine batteriche. L’insufficienza epatica esordisce di solito con incremento dei livelli sierici di SGOT, SGPT, GammaGT, LDH (2-3 volte superiori alla norma) e modica iperbilirubinemia (prevalentemente diretta). Talora si evidenziano difetti emocoagulativi dovuti a deficit di sintesi epatica dei fattori della coagulazione. L’insorgenza spesso subdola dell’insufficienza epatica z

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impone una difficile diagnosi differenziale con altre forme di epatopatie e di ittero nel paziente critico: { iperbilirubinemia in seguito a trasfusioni multiple o a riassorbimento di ematomi estesi; { ittero emolitico trasfusionale; { colestasi intraepatica postoperatoria da farmaci; { epatite virale post-trasfusionale; { ittero ostruttivo delle vie biliari extraepatiche.

Insufficienza cardiocircolatoria: con alterazioni che vanno dallo stato iperdinamico iniziale allo shock irreversibile. z

Insufficienza renale: è caratterizzata da comparsa di oliguria persistente (flusso urinario < 20 ml/ora) nonostante il buon compenso della volemia e la pressione arteriosa normale. Vi è un progressivo aumento dell’azotemia e diminuzione della clearance della creatinina. L’osmolarità delle urine tende ad avvicinarsi a quella del plasma; il sedimento urinario contiene cellule tubulari e cilindri ialini. z

Alterazioni gastrointestinali: lo stomaco rappresenta un organo bersaglio per la comparsa di lesioni in corso di MOF. Le alterazioni gastriche sono caratterizzate da lesioni superficiali della mucosa e della sottomucosa, solitamente multiple, localizzate di preferenza al corpo e al fondo, che possono causare sanguinamenti massivi, con ematemesi e melena (gastrite acuta emorragica e ulcere da stress). La patogenesi di tali lesioni è ascrivibile all’ischemia della mucosa gastrica che si verifica in corso di ipotensione o sepsi; ciò favorirebbe l’incremento della secrezione acida e la retrodiffusione degli ioni idrogeno. Aree di necrosi mucosa si riscontrerebbero in seguito a shock emorragico anche nel tenue, nel colon e nella colecisti; tali alterazioni della barriera mucosa favorirebbero la traslocazione batterica e l’insorgenza di infezioni a distanza. z

z Alterazioni emocoagulative ed ematologiche: in corso di MOF è frequente l’instaurarsi di diatesi emorragica conseguente a coagulopatia da consumo. L’instaurarsi di una coagulazione intravascolare disseminata (CID) è caratterizzato da piastrinopenia, ipofibrinogenemia e aumento degli FDP. Le alterazioni della coagulazione si verificano comunque tardivamente, quando la MOF è in fase già avanzata, e possono conseguire anche alla ridotta sintesi epatica di fattori coagulativi. Le alterazioni ematologiche, oltre ad una diminuzione della conta piastrinica, sono caratterizzate da profonde alterazioni nel numero dei leucociti neutrofili circolanti: si possono raggiungere sia valori assai elevati di leucocitosi (> 50.000/mm3) sia livelli di grave leucopenia (< 3000/mm3),che hanno valore prognostico assai grave.

Alterazioni neurologiche: le manifestazioni di sofferenza del SNC sono difficili da interpretare. Inizialmente compaiono irritabilità e agitazione, quindi disorientamento, letargia e coma. La patogenesi delle turbe neurologiche appare legata all’ipossia cerebrale per danno del microcircolo e talora all’encefalopatia conseguente a insufficienza epatica e/o renale. Alle alterazioni neurologiche centrali si possono associare quelle periferiche, con un quadro di polineuropatia. Possono comparire anche alterazioni surrenaliche, fino all’insufficienza surrenalica acuta, ed alterazioni muscoloscheletriche, fino alla rabdomiolisi. z

 La prognosi nei pazienti affetti da MOF è assai grave. La mortalità è correlata al numero di organi/apparati lesi e alla durata dell’insufficienza. Quando è interessato un solo organo/ apparato (single organ failure) la mortalità media è inizialmente del 22%,ma raddoppia se l’insufficienza d’organo dura almeno 7 giorni. Nel caso di MOF con coinvolgimento di due organi/apparati, la 378

mortalità raggiunge il 68% entro la prima settimana. Se la MOF coinvolge tre o più apparati la mortalità raggiunge circa il 100%.A parità di numero di apparati coinvolti la mortalità non appare influenzata dalla causa specifica scatenante la MOF. L’età avanzata si associa a mortalità nettamente più elevata. Tra gli elementi prognostici più infausti vi sono la comparsa di leucopenia grave ( 15 mmHg l’infusione di liquidi è controindicata, mentre è utile il ricorso a farmaci cardiotonici vasoattivi. Se il paziente non mostra segni di anemia grave o diatesi emorragiche, la somministrazione di sangue intero o plasma andrebbe evitata. L’uso di soluzioni di albumina e colloidi a dosi elevate andrebbe limitato, per evitare che il passaggio di macromolecole nell’interstizio e negli alveoli peggiori l’edema polmonare. Il trattamento della sepsi presuppone il drenaggio o la rimozione chirurgica dei focolai settici ed una adeguata terapia antibiotica. Poiché le infezioni batteriche secondarie del polmone sono frequenti, è utile eseguire colture ripetute dell’escreato o dell’aspirato tracheale per istituire un trattamento antibiotico sulla guida dell’antibiogramma. Per il trattamento delle alterazioni respiratorie nelle forme lievi di ARDS può essere sufficiente la somministrazione di ossigeno a concentrazioni < 40%; il paziente va mobilizzato spesso ed invitato a tossire per eliminare le secrezioni. Utile in ogni caso l’istituzione di fisioterapia respiratoria. Se le condizioni cardiovascolari sono stabili e la somministrazione di ossigeno a concentrazioni comprese tra 40 e 50% appare insufficiente a mantenere buone condizioni di ossigenazione, può essere utile l’istituzione di un regime di pressione espiratoria finale positiva (PEEP). L’esame radiologico del torace va eseguito con frequenza giornaliera, per seguire l’evoluzione della malattia e soprattutto per evidenziare l’insorgenza di infezioni polmonari. Quando diventa necessario somministrare ossigeno a concentrazioni > 50% per mantenere la PaO2 a valori accettabili, oppure se la PaCO2 supera 48 mmHg o se la frequenza respiratoria è superiore a 25 atti al minuto, si deve provvedere all’intubazione del paziente e all’istituzione della respirazione assistita.

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Embolia adiposa L’embolia adiposa, contrariamente alla sindrome da embolia adiposa, è relativamente frequente. Il 90% dei pazienti che hanno subito fratture delle ossa lunghe o che sono stati sottoposti ad interventi di applicazioni di protesi articolari, presentano a livello del microcircolo polmonare particelle adipose. L’embolia adiposa può anche essere causata dalla somministrazione di emulsioni lipidiche e da trapianto di midollo osseo.  La sindrome da embolia adiposa, invece, è caratterizzata da alterazioni neurologiche, insufficienza respiratoria, petecchie in regione ascellare, dorsale ed in corrispondenza dell’origine degli arti superiori. In seguito a trauma di grave entità, la concentrazione a livello sierico di macromicelle lipidiche (20 µm di diametro) raggiunge i suoi massimi valori alla dodicesima ora e quindi ritorna lentamente a valori di normalità in pochi giorni. Le particelle di dimensioni superiori ai 10 µm si aggregano in corrispondenza del microcircolo polmonare e la loro distru-zione (lipolisi) comporta la liberazione di acidi grassi liberi, che possono indurre una vasculite acuta, liberare chinine e quindi alterare il sistema surfactante polmonare. Il quadro clinico che ne consegue è caratterizzato da edema polmonare, diminuita cessione di ossigeno a livello alveolocapillare e, quindi, ipossiemia. La liberazione di acidi grassi può comportare anche trombocitopenia ed inibizione della fibrinolisi, e di conseguenza coagulazione intravascolare disseminata. Occasionalmente l’embolia adiposa può verificarsi a livello cerebrale, cutaneo e renale. La sindrome da embolia adiposa compare solitamente tra 12 e 72 ore dopo l’evento lesivo, ma può presentarsi anche più tardivamente dopo diversi giorni. I segni clinici possono essere di diversa entità: dalle transitorie petecchie cutanee e dalla dispnea lieve alla grave insufficienza respiratoria. La diagnosi è quasi esclusivamente clinica; la presenza di particelle lipidiche nell’escreato o nelle urine è un’evenienza assai comune dopo traumi e non può essere considerata specifica.

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Complicanze cardiache L’insorgenza di complicanze cardiache, gravate da un’alta percentuale di mortalità, è correlata sia al tipo e alla modalità di esecuzione dell’intervento chirurgico, sia all’insorgenza di complicanze non cardiache postoperatorie. I più importanti fattori di rischio cardiologico sono comunque legati alle condizioni preoperatorie del paziente, la cui valutazione, secondo un punteggio variabile, si è dimostrata significativamente correlata al rischio di complicanze e di mortalità cardiaca postoperatoria. Nell’elenco descritto nella Tabella 12.7 non sono riportate alcune condizioni (fumo, ipertensione, angina stabile, infarto miocardico remoto, slivellamento tratto ST dell’ECG, blocco di branca, valvulopatia mitralica) la cui presenza, pur aumentando il rischio operatorio, non appare statisticamente correlata all’insorgenza di complicanze cardiache. È opportuno sottolineare il fatto che 28 dei 53 punti della valutazione preoperatoria possono essere controllati e modificati nel periodo preoperatorio, consentendo di eseguire l’intervento nelle migliori condizioni e, quindi, con prognosi più favorevole.

I quadri clinici più frequenti delle complicanze cardiache sono: disturbi del ritmo, infarto miocardico acuto, scompenso cardiaco. Le aritmie intraoperatorie presentano un’incidenza del 20%, con una prevalenza del 35% nei 384

pazienti con preesistente cardiopatia. Circa un terzo degli episodi avviene al momento dell’induzione dell’anestesia ed è in relazione all’uso di alcuni agenti anestetici (alotano, ciclopropano), di simpaticomimetici, digitale e a stati transitori di ipercapnia. Nel periodo postoperatorio sono in genere dipendenti da alterazioni dell’equilibrio elettrolitico (ipocalcemia) e acido basico (ipossiemia, alcalosi). Nella maggior parte dei casi le aritmie sono asintomatiche; occasionalmente possono segnare l’esordio di un infarto acuto, accompagnandosi a dolore toracico, dispnea, palpitazioni. La frequenza globale di infarto miocardico postoperatorio (esclusi gli interventi cardiochirurgici) è approssimativamente 0,4-0,5%, variando dal 6% nei pazienti con anamnesi positiva per cardiopatia allo 0,1-0,2% in quelli senza cardiopatia; l’incidenza è massima in chirurgia vascolare (5-12%).  Nei pazienti con pregresso infarto miocardico, il rischio di reinfarto e di mortalità cardiaca è in rapporto all’intervallo di tempo intercorso tra pregresso infarto e intervento chirurgico: 75% a distanza di 3 mesi; 35% tra 3 mesi e 6 mesi; 6% dopo 6 mesi. L’infarto miocardico compare generalmente nei primi giorni dopo l’intervento, spesso in associazione a ipotensione e ipossia e decorre completamente asintomatico in circa la metà dei casi. L’incidenza di scompenso cardiaco è circa il 4% nei pazienti sopra i 60 anni sottoposti ad intervento chirurgico in anestesia generale.Tra i fattori di rischio più comuni devono essere considerati gli stati settici, le trasfusioni multiple,i gravi traumi.

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Emorragie postoperatorie La comparsa di manifestazioni emorragiche nel decorso postoperatorio costituisce un problema assai rilevante che necessita di un trattamento immediato. Nelle emorragie importanti è indispensabile identificare rapidamente la causa per poter instaurare una terapia adeguata,in grado di correggere tutti quei fenomeni implicati nella genesi del sanguinamento, che porterebbero altrimenti ad exitus il paziente. Le emorragie postoperatorie riconoscono diverse cause che possono essere suddivise nei seguenti gruppi: z cause preesistenti all’intervento chirurgico; z cause provocate direttamente dall’intervento chirurgico; z cause successive all’intervento chirurgico o a sue complicanze.

Cause preesistenti all’intervento chirurgico Sono rappresentate essenzialmente dalle coagulopatie. Di solito la fonte di sanguinamento non è unica; può interessare sedi diverse, più frequentemente l’incisione chirurgica o quella di parete per il posizionamento dei drenaggi. La diatesi emorragica può manifestarsi anche nel corso dell’intervento con gemizio di sangue durante le manovre chirurgiche senza che si rilevi una precisa fonte di sanguinamento.Tale fenomeno indica l’alterazione dei meccanismi della coagulazione. La causa più frequente è costituita dalla trombocitopenia, dovuta a difetti di produzione di piastrine (leucosi, mielofibrosi), oppure ad eccessiva distruzione (porpora trombocitopenica). Affinché si verifichino dei reali disturbi è necessario che il numero delle piastrine sia inferiore a 50.000/mm 3. Anche le malattie emofiliche, in qualsiasi variante A, B, C, la malattia di von Willebrand e i più rari deficit congeniti dei fattori I e II possono essere responsabili di sanguinamenti postoperatori. La terapia consiste nel reintegro dello specifico fattore della coagulazione carente. La somministrazione di pappe piastriniche, di plasma fresco congelato e di specifici fattori della coagulazione riesce, di solito, a risolvere l’episodio acuto.

Un accurato studio della coagulazione in fase preoperatoria permette di prevenire le complicanze emorragiche.

Cause provocate direttamente dall’intervento chirurgico Si tratta essenzialmente di lesioni vascolari che non riguardano necessariamente un grosso vaso; infatti perdite persistenti anche da piccole arterie o vene possono creare gravi problemi. Un’emostasi insufficiente durante la dieresi dei tessuti, lo strappamento di peduncoli vascolari durante le manovre chirurgiche, la lesione o la dissezione di pareti vasali durante l’isolamento di masse neoplastiche, l’errata apposizione o sfilamento di legature emostatiche e la manipolazione grossolana e prolungata di visceri sono le condizioni, legate all’intervento, solitamente responsabili del verificarsi di una emorragia postoperatoria. La terapia consiste nella trasfusione di sangue in rapporto all’entità del sanguinamento. Se il quadro clinico è drammatico le misure immediate da adottare sono il trattamento dello shock ipovolemico ed il reintervento chirurgico.

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Cause successive all’intervento o alle sue complicanze Le complicanze emorragiche che compaiono più o meno tardivamente dopo un intervento chirurgico riconoscono cause diverse. I pazienti sottoposti all’infusione di una grande quantità di sangue sono da considerarsi ad alto rischio emorragico. Infatti, la diluizione delle piastrine, che si attua quando si trasfonde sangue conservato per più di 24 ore, l’eventuale e pericolosa attivazione del sistema coagulativo con conseguente insorgenza di coagulazione intravascolare disseminata ed il rischio di reazioni trasfusionali emolitiche, sono gravi complicanze emorragiche che fanno preferire, quando è possibile, altre modalità per il reintegro della massa sanguigna. Infatti, il predeposito di sangue da parte del paziente o il recupero previa filtrazione del sangue del paziente stesso durante l’intervento, sono metodiche da preferire. Anche le complicanze postoperatorie come le polmoniti massive, le infezioni gravi, la febbre elevata e protratta e lo shock settico possono essere causa di emorragie, in quanto capaci di instaurare un proceso fibrinolitico; si verifica allora un’importante riduzione ematica del fibrinogeno e dei fattori V e VII, con conseguente coagulopatia da consumo. La terapia consiste nella somministrazione di farmaci antifibrinolitici, come l’acido İ-amino-caproico, anche se il trattamento principale deve essere indirizzato alla risoluzione dello shock.

Nel periodo postoperatorio, infine, possono presentarsi episodi emorragici che originano dal tratto gastrointestinale. Infatti riacutizzazioni di ulcere peptiche stabilizzate o erosioni antrali gastriche possono conseguire al trauma chirurgico o al sovradosaggio di anticoagulanti utilizzati per la profilassi delle tromboembolie. La protezione con farmaci anti-H2 ed il monitoraggio del tempo di Quick e del PTT riescono, di solito, a consentire la prevenzione di tali complicanze.

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Pancreatite acuta La comparsa in fase postoperatoria di una pancreatite acuta costituisce una delle complicanze più gravi; la sua insorgenza è spesso mascherata dalla sintomatologia algica postoperatoria. Un aumento della amilasemia può presentarsi nel 10-20% dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico, ma a questo aumento non corrisponde sempre un processo patologico a carico del pancreas. La reale incidenza di questa complicanza oscilla tra il 2 e il 10% degli interventi di chirurgia addominale maggiore, con una mortalità dello 0,3-5%. Sebbene le cause delle pancreatiti postoperatorie siano poco chiare, talora esse insorgono per lesione diretta del pancreas; gli interventi sulla via biliare principale, e soprattutto sulla papilla di Vater, determinano pancreatite acuta con una frequenza più elevata rispetto ad altri interventi sull’addome superiore lontani dalla zona biliopancreatica. Ne sono più colpiti i pazienti che hanno sofferto in passato di episodi di pancreatite acuta. L’ipotesi più accreditata è che si verifichi una stasi di secreto pancreatico indotta da uno stato di edema della papilla, con conseguente aumento della pressione nel sistema canalicolare pancreatico. La diagnosi di una pancreatite acuta postoperatoria presenta alcune difficoltà, poiché: z il dolore all’inizio è mal distinguibile dal comune dolore postoperatorio; inoltre è poco avvertito per la terapia antalgica eventualmente adottata; z i reperti polmonari talora associati possono venire interpretati come fatti disventilatori e non collegati alla reale origine pancreatica; z la paresi intestinale è mascherata dagli effetti indotti sull’intestino dai farmaci usati in anestesia generale. Una serie di sintomi, inizialmente sfumati, devono essere attentamente valutati: z stato ansioso con agitazione psicomotoria, che erroneamente viene interpretata come abnorme reazione psichica all’intervento; z calo pressorio con tachicardia, dispnea, sudorazione profusa, ipovolemia o emoconcentrazione di difficile interpretazione, che possono portare alla diagnosi errata di insufficienza cardiocircolatoria o insufficiente somministrazione di liquidi; z sfregamenti pleurici, dolori toracici e versamenti pleurici, specialmente a sinistra, che inducono alla diagnosi di atelettasia, polmonite o embolia polmonare; z aumento del meteorismo addominale con scomparsa della peristalsi; z difesa della parete addominale di difficile spiegazione; z dolori in sede di ferita molto accentuati o troppo protratti; z febbre persistente di difficile interpretazione. L’insorgenza di pancreatite è facilitata dalla esecuzione di indagini radiologiche intraoperatorie con uso di mezzo di contrasto (colangiografia intraoperatoria). La determinazione dell’amilasemia orienta decisamente verso un processo pancreatitico se gli indici sono abnormemente elevati, anche se spesso l’amilasemia si eleva modicamente dopo un intervento sulle vie biliari o sul pancreas, anche in assenza di pancreatite clinicamente rilevante. La pancreatite acuta postoperatoria insorge generalmente in III-IV giornata; il paziente diventa irrequieto, lamenta dolori addominali diffusi più intensi, la peristalsi tarda ad attivarsi. La pancreatite acuta postoperatoria può presentarsi con quadri clinici di diversa gravità: dalla forma edematosa con “restitutio ad integrum” alla forma necroticoemorragica con mortalità elevata (30%). Altre gravi sequele sono la formazione di ascessi peripancreatici, l’instaurarsi di una peritonite diffusa, l’emoperitoneo, la deiscenza di anastomosi e suture realizzate nel corso dell’intervento. La terapia è del tutto simile a quella di altre forme di pancreatite acuta.

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Parotite postoperatoria La parotite postoperatoria è un’affezione che può complicare il decorso di qualsiasi intervento chirurgico, nonostante compaia più frequentemente dopo interventi di chirurgia addominale. Di solito è monolaterale; ne sono colpiti i soggetti defedati, gli anziani e i pazienti sottoposti a terapia con farmaci anticolinergici. Il digiuno, il sondino nasogastrico, la secchezza delle fauci e una scarsa igiene del cavo orale ne costituiscono i fattori predisponenti. L’agente eziologico è principalmente lo Staphylococcus aureus, anche se altri cocchi possono essere agenti causali. La parotite postoperatoria ha un’insorgenza variabile, potendo presentarsi sia in prima giornata dopo l’intervento sia nel postoperatorio tardivo. L’infezione avviene per via endocanalicolare ascendente. L’esordio è quasi sempre improvviso; la ghiandola si presenta aumentata di volume, dolente, con cute eritematosa; il meato del dotto di Stenone è edematoso ed arrossato; la compressione manuale della loggia parotidea talvolta permette di evidenziare la fuoriuscita di pus; non mancano inoltre i segni generali della sepsi: ipertemia e leucocitosi. La malattia non trattata ha una prognosi severa. Pertanto bisogna instaurare una terapia antibiotica diretta contro la flora batterica Gram-positiva ed eseguire dei prelievi per gli esami colturali.Spesso si rende necessario il drenaggio chirurgico che non deve mai essere procrastinato, anche in assenza di fluttuazione, allorché le cure effettuate non sono state risolutive. Molta importanza bisogna dare alla prevenzione della malattia. Infatti l’igiene buccale, l’alimentazione precoce quando possibile,l’idratazione e procedure anche semplici, come l’abluzione del cavo orale con ghiaccio o con l’uso di garzine intrise d’acqua, prevengono quelle condizioni che favoriscono il moltiplicarsi della flora batterica nel cavo orale.

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Complicanze della terapia infusionale e dei monitoraggi Complicanze della terapia infusionale Un attento monitoraggio e la conoscenza del ricambio idroelettrolitico sono i presupposti fondamentali per prevenire e correggere le alterazioni conseguenti alla terapia infusionale. La diuresi, la pressione venosa centrale (PVC), l’equilibrio acido-base, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa, sono i parametri che insieme al dosaggio degli elettroliti e alla valutazione clinica informano sulla omeostasi idrico-salina. Le complicanze della terapia infusionale sono dovute essenzialmente alla quantità ed alla qualità delle soluzioni somministrate.

Alterazioni di volume Anche se nel paziente chirurgico si rileva più frequentemente una situazione di ipovolemia, l’infusione di soluzioni identiche alla composizione del liquido extracellulare (LEC), con velocità superiore alla capacità di eliminazione, causa un’iperidratazione isotonica.Non c’è alterazione dell’osmolarità,ma solo aumento del volume del LEC,mentre si mantiene costante la composizione del liquido all’interno delle cellule (LIC). Il quadro clinico varia con il grado di sovraccarico del circolo sistemico. Infatti, da una semplice distensione delle vene periferiche e dall’aumento del peso corporeo si può passare a forme più gravi come l’anasarca, l’edema polmonare e lo scompenso cardiaco. L’ematocrito e le proteine totali diminuiscono, mentre gli elettroliti non si modificano; la pressione arteriosa e la PVC aumentano. La causa risiede in una incongrua somministrazione di sangue, di soluzioni fisiologiche, o di plasma expander. La terapia varia in rapporto all’entità del quadro clinico. Nelle forme lievi di sovraccarico, mantenendo un bilancio idrico negativo in un paziente con funzionalità renale conservata si riesce a correggere lo squilibrio. L’uso di diuretici, furosemide ed acido etacrinico, è indicato nei casi più conclamati. Va inoltre tenuto presente che i liquidi sequestrati nel “terzo spazio” non sono prontamente ricambiabili e pertanto la correzione dell’iperidratazione deve essere graduale.

Alterazioni di concentrazione La somministrazione rapida ed eccessiva di soluzioni saline causa una iperidratazione ipertonica. L’acqua lascia il compartimento intracellulare e ne consegue una disidratazione delle cellule. La natriemia e l’osmolarità sono aumentate, mentre l’ematocrito diminuisce per diluizione. La sete e la secchezza delle mucose visibili sono i primi sintomi, ma il quadro clinico si complica nelle forme più gravi con i segni dello scompenso cardiaco e con disturbi neurologici fino al coma iperosmolare. La terapia consiste nella somministrazione di diuretici e di acqua con soluzioni glucosate.

Responsabile di una iperidratazione ipotonica è l’aumentata infusione di soluzioni prive o povere di elettroliti, soprattutto in pazienti nefropatici. L’acqua diffonde liberamente attraverso le membrane cellulari e si distribuisce sia nel LEC che all’interno delle cellule. La natriemia e la kaliemia diminuiscono e si abbassa anche l’osmolarità plasmatica. La 390

sintomatologia è caratterizzata da disturbi neurologici, in conseguenza dell’aumento del liquido a livello delle cellule cerebrali. L’astenia e la nausea si associano ai sintomi della ipertensione endocranica. La comparsa di tremori e di convulsioni è segno prognostico sfavorevole. La terapia consiste nella restrizione dei liquidi e nella somministrazione di diuretici.

Altre complicanze Reazioni allergiche possono insorgere in caso di infusione di plasma expander. Sono caratterizzate da prurito ed orticaria; raramente possono essere più gravi, comportando la comparsa di shock anafilattico. Rare sono anche le infezioni dovute a contaminazione batterica delle soluzioni. Più frequentemente si osservano flebiti in sede di infusione quando la somministrazione è prolungata. Un’altra evenienza che può presentarsi è la rottura della vena d’infusione la fuoriuscita dell’ago, alla quale consegue uno stravaso del liquido nel tessuto sottocutaneo, responsabile solamente di bruciore e senso di tensione locale.

Complicanze dei monitoraggi Il controllo della funzionalità degli organi principali e la valutazione dei parametri emodinamici è fondamentale nei pazienti chirurgici più gravi. La pressione arteriosa, la pressione venosa centrale, la diuresi e in alcuni casi il rilevamento della pressione arteriosa polmonare, sono indispensabili non solo per una corretta valutazione del decorso postoperatorio, ma anche per poter prevenire in tempo gravi complicanze che comprometterebbero l’esito dell’intervento chirurgico e la vita stessa del paziente.Tuttavia, ad eccezione dell’elettrocardiogramma e della velocimetria doppler, la maggior parte delle altre metodiche sono invasive e non scevre da complicanze. I cateteri per monitoraggio invasivo devono essere rimossi il più precocemente possibile, non appena hanno esaurito la loro funzione.

Misurazione della pressione arteriosa Negli ultimi anni è diventato sempre più frequente il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa mediante incannulamento di un’arteria, che permette di eseguire con frequenza la determinazione dell’emogasanalisi. Tale metodica si rende necessaria negli interventi chirurgici di maggiore complessità. Di solito viene utilizzata l’arteria radiale, dopo aver accertato la buona funzionalità del circolo palmare e dell’arteria ulnare con il test di Allen, che consiste nel comprimere le due arterie (l’arteria radiale e quella ulnare), facendo stringere il pugno al paziente fino a quando la mano non diventa bianca; quindi si decomprime l’arteria ulnare e si osserva il colorito della mano; se entro dieci secondi il colorito non ritorna normale è sconsigliabile non solo procedere all’incannulamento, ma anche alla semplice puntura del vaso. Le complicanze sono costituite della trombosi, dalla formazione di ematomi e dalle infezioni. La trombosi dell’arteria può essere prevenuta con lavaggi sia intermittenti che continui con soluzione eparinata. Comunque, al primo segno di anormale funzionamento, il catetere deve essere rimosso.

Misurazione della pressione venosa centrale Il monitoraggio della PVC è divenuto una metodica indispensabile e viene eseguito solitamente di routine nei pazienti sottoposti ad interventi maggiori o ad elevato rischio di scompenso 391

emodinamico. Le complicanze sono quelle legate all’incannulamento di una vena centrale.

Cateterismo vescicale Il monitoraggio della diuresi è fondamentale sia durante l’intervento che nel periodo postoperatorio. Le complicanze sono di tipo settico (cistiti, cistopieliti) e traumatico (creazione di false vie ed emorragie uretrali).

Pressione arteriosa polmonare L’uso del catetere di Swan-Ganz per interventi di chirurgia maggiore a cui vengono sottoposti pazienti cardiopatici permette di avere in tempo reale le misurazioni della pressione polmonare media, sistolica e diastolica e la pressione di incuneamento polmonare.Tale catetere è provvisto di un palloncino nella sua parte terminale, che viene collegato ad un trasduttore di pressione. Il posizionamento viene effettuato tramite incannulamento della vena giugulare interna facendo procedere il catetere attraverso le camere del cuore, sino all’arteria polmonare, controllando sul monitor il tracciato per verificare l’esatta ubicazione della punta. Le complicanze sono costituite dalla possibile comparsa di aritmie durante il posizionamento, dalla rottura del palloncino (che non comporta conseguenze), dalla rottura dell’arteria polmonare (rara), dall’infarto polmonare, quando la punta del catetere si sposta e il palloncino viene lasciato gonfio per molto tempo; ed infine dalle complicanze legate all’incannulamento della vena giugulare.

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Complicanze psichiche Nei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici, diversi fattori psicodinamici, quali il dolore ed il senso di dipendenza totale, concorrono occasionalmente a generare atteggiamenti di paura e di ansia, modulati dalla capacità di autocontrollo del paziente stesso. Le manifestazioni cliniche compaiono generalmente dopo la terza giornata postoperatoria, più frequentemente come stato confusionale, paura, disorientamento spazio-temporale, fino ad un quadro di delirio con alterazione della coscienza. Una volta escluse le cause organiche, come gli squilibri idroelettrolitici e metabolici, oppure uno stato settico, è necessaria una valutazione psichiatrica del grado di alterazione comportamentale, per instaurare un adeguato trattamento. Tra le diverse forme di psicosi postoperatorie alcune assumono aspetti particolari. Sindrome da terapia intensiva: si manifesta con segni di distorta percezione visiva, uditiva e tattile; confusione, irrequietezza, incapacità di distinguere la realtà dall’immaginazione. Il trattamento consiste nell’assicurare un adeguato riposo, con isolamento dell’ambiente e riduzione del rumore e con la dimissione la più precoce possibile dall’unità di terapia intensiva. z

z Delirio post-miocardiotomia: si presenta con un’alterazione della memoria, dell’attenzione e della percezione e occasionalmente isteria,reazioni depressive e crisi ansiose.Le misure preventive della sindrome da unità di terapia intensiva e una modesta sedazione sono in genere sufficienti per controllare il quadro psicotico. Nei casi più gravi è consigliata la somministrazione di aloperidolo, piuttosto che fenotiazine, per una minore incidenza di effetti collaterali cardiovascolari.

Delirium tremens: rappresenta un’entità clinica ben conosciuta e si manifesta negli alcolisti, per l’improvvisa esclusione dalla dieta dell’etanolo che rappresenta, in questi soggetti, una delle più importanti fonti energetiche. La sindrome riconosce come segni prodromici: alterazione della personalità, tremori, stato ansioso fino alla comparsa di agitazione, allucinazioni, irrequietezza, stato confusionale, iperdinamicità e occasionalmente convulsioni ed ipertermia,con un quadro metabolico e cardiorespiratorio iperdinamico.Tra le misure preventive è da ricordare la somministrazione nel periodo perioperatorio di modiche quantità di alcool con mantenimento dell’alcolemia tra 2 e 10 mg/100 ml,o in alternativa clordiazepossido e vitamina B1. z

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Letture suggerite z

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13 Infezioni chirurgiche 13.1 Patogenesi 13.2 Metodi diagnostici 13.3 Terapia 13.4 Profilassi e controllo delle infezioni nosocomiali 13.5 Particolari tipi di infezione 13.6 Chemioterapia antibiotica 13.7 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 13

Infezioni chirurgiche L. Dominioni Nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico una delle complicanze più frequenti è l’insorgenza di infezioni. Queste comportano ritardo nella guarigione, prolungamento della degenza e talora alterazioni permanenti della funzionalità degli organi colpiti. Le infezioni gravi postoperatorie possono, talora, avere esito letale. L’epidemiologia delle infezioni postoperatorie è caratterizzata da una maggiore incidenza delle infezioni di ferita, che si manifestano con frequenza assai variabile, dall’1% ad oltre il 40%, a seconda del tipo di intervento chirurgico e del grado di contaminazione (v. Cap. 12). Seguono, in ordine di frequenza, le infezioni delle vie respiratorie, diagnosticate in circa il 5% dei pazienti sottoposti ad intervento; tra i fattori di maggiore rilevanza predisponenti all’insorgenza di infezioni respiratorie vi sono: la lunga durata dell’anestesia con intubazione tracheale ed una ridotta meccanica ventilatoria. Con analoga incidenza (circa il 5-10%) si osservano le infezioni delle vie urinarie, nella cui patogenesi ha un ruolo importante il cateterismo vescicale; si riscontrano, con frequenza minore, setticemie e infezioni delle vie biliari, infezioni di cateteri venosi o arteriosi (per nutrizione parenterale o per monitoraggio emodinamico di lunga durata), ascessi profondi (toracici, addominali, pelvici), ascessi dei tessuti molli superficiali, ulcere da decubito infette, tromboflebiti settiche. Con una frequenza del 5-10% il paziente operato presenta segni generali di infezione (febbre, leucocitosi, aumento della VES), senza che sia possibile localizzare il focolaio di infezione. Tra le cause più probabili di tali febbri postoperatorie di origine non identificata si ritiene vi siano l’atelettasia polmonare e l’infezione delle prime vie respiratorie. È importante riconoscere precocemente i sintomi generali delle infezioni e ricercarne i segni locali a livello degli organi e dei tessuti infetti, così da poter intervenire tempestivamente con le modalità terapeutiche chirurgiche o mediche più idonee.

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Nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico una delle complicanze più frequenti è l’insorgenza di infezioni. Queste comportano ritardo nella guarigione, prolungamento della degenza e talora alterazioni permanenti della funzionalità degli organi colpiti. Le infezioni gravi postoperatorie possono, talora, avere esito letale. L’epidemiologia delle infezioni postoperatorie è caratterizzata da una maggiore incidenza delle infezioni di ferita, che si manifestano con frequenza assai variabile, dall’1% ad oltre il 40%, a seconda del tipo di intervento chirurgico e del grado di contaminazione (v. Cap. 12). Seguono, in ordine di frequenza, le infezioni delle vie respiratorie, diagnosticate in circa il 5% dei pazienti sottoposti ad intervento; tra i fattori di maggiore rilevanza predisponenti all’insorgenza di infezioni respiratorie vi sono: la lunga durata dell’anestesia con intubazione tracheale ed una ridotta meccanica ventilatoria. Con analoga incidenza (circa il 5-10%) si osservano le infezioni delle vie urinarie, nella cui patogenesi ha un ruolo importante il cateterismo vescicale; si riscontrano, con frequenza minore, setticemie e infezioni delle vie biliari, infezioni di cateteri venosi o arteriosi (per nutrizione parenterale o per monitoraggio emodinamico di lunga durata), ascessi profondi (toracici, addominali, pelvici), ascessi dei tessuti molli superficiali, ulcere da decubito infette, tromboflebiti settiche. Con una frequenza del 5-10% il paziente operato presenta segni generali di infezione (febbre, leucocitosi, aumento della VES), senza che sia possibile localizzare il focolaio di infezione. Tra le cause più probabili di tali febbri postoperatorie di origine non identificata si ritiene vi siano l’atelettasia polmonare e l’infezione delle prime vie respiratorie. È importante riconoscere precocemente i sintomi generali delle infezioni e ricercarne i segni locali a livello degli organi e dei tessuti infetti, così da poter intervenire tempestivamente con le modalità terapeutiche chirurgiche o mediche più idonee.

Patogenesi Nel prendere in esame la patogenesi delle infezioni chirurgiche, si deve far riferimento alle interrelazioni esistenti fra tre fattori: agente patogeno infettante, difese dell’organismo, ambiente nel quale si sviluppa l’infezione. Nell’individuo sano, l’equilibrio esistente tra queste tre componenti evita la comparsa di infezioni; in condizioni particolari il prevalere dei microrganismi patogeni, le alterazioni dei meccanismi di difesa o di certe condizioni ambientali sfavorevoli comportano l’instaurarsi di un’infezione.

Agente patogeno infettante La contaminazione batterica, (in particolare da batteri della flora endogena presente nel tubo digerente, nell’apparato genitourinario e respiratorio) e da parte dei germi patogeni dell’ambiente nosocomiale, rappresenta uno dei fattori più importanti nella patogenesi delle infezioni chirurgiche ed in particolare delle infezioni della ferita. Numerose sono le specie batteriche che possono causare infezioni chirurgiche, tuttavia vi sono alcuni microrganismi che più frequentemente ne sono responsabili. Tra i germi Gram+ gli Stafilococchi sono spesso responsabili delle infezioni di ferita, degli ascessi e delle infezioni da corpo estraneo.Tra i germi Gram–, particolarmente frequente è il riscontro di Escherichia coli, seguita da Klebsiella,Proteus e Pseudomonas.Tra i patogeni anaerobi si incontrano con maggior frequenza i Bacteroides e, meno frequentemente, i Clostridi. Nella maggioranza dei casi le infezioni chirurgiche sono polimicrobiche, a maggiore o minore compartecipazione anaerobia, in relazione alla sede anatomica coinvolta. Le infezioni nelle quali si isolano prevalentemente germi anaerobi sono gli ascessi polmonari, gli ascessi pelvici e le infezioni endoaddominali. Se le modalità di raccolta del campione biologico sono idonee alla identificazione degli anaerobi, nella maggior parte delle infezioni chirurgiche è possibile isolare una flora batterica 397

mista, aerobia ed anaerobia. La flora anaerobia del tubo gastroenterico, procedendo dalla cavità orale sino all’ampolla rettale, presenta caratteristiche qualitative e quantitative diverse. La quantità e la patogenicità di questi germi è maggiore a livello del colon-retto, mentre è minore nei tratti superiori del tubo gastroenterico (esofago, stomaco, duodeno). Vi sono germi comunemente presenti sulla cute e sulle mucose dell’organismo che normalmente non provocano infezioni clinicamente evidenti, tra questi vi sono: Pseudomonas, Serratia, Staphylococcus epidermidis ed anche alcuni funghi, quali Candida ed Aspergillus; essi possono però diventare patogeni e provocare le cosiddette “infezioni opportunistiche”, in seguito a situazioni che comportano diminuzione delle difese dell’organismo. Le infezioni opportunistiche si manifestano prevalentemente in pazienti sottoposti a trattamenti immunosoppressivi o nel corso di malattie che causano immunodepressione, quali per esempio le neoplasie in fase avanzata, i gravi traumi e le ustioni diffuse. Negli ultimi anni è stato identificato il meccanismo patogenetico che spiegherebbe la particolare frequenza con cui i germi intestinali si possono riscontrare in focolai settici a distanza dal tubo gastroenterico. Tale meccanismo è definito traslocazione batterica e consiste in una aumentata permeabilità della barriera mucosa intestinale, che permette la fuoriuscita dei batteri e delle endotossine dal lume intestinale verso l’interstizio, e poi nei dotti linfatici mesenteriali e nel circolo portale, originando così focolai settici a distanza.

Difese dell’organismo I meccanismi di difesa dalle infezioni sono numerosi e strettamente integrati; essi sono costituiti dalle barriere anatomiche, dalle cellule fagocitarie circolanti, dal sistema reticoloendoteliale, dai fattori immunitari umorali, dall’immunità cellulare, dal sistema del complemento e dalle proteine di fase acuta (Tab. 13.1).

I meccanismi di difesa sono anche distinti in non specifici (barriere anatomiche, risposta infiammatoria, risposta di fase acuta) e specifici (immunità umorale e immunità cellulomediata). Talora il paziente può presentare alterazioni dei meccanismi di difesa già precedentemente all’intervento chirurgico. Di regola comunque nel periodo postoperatorio compare una immunodepressione transitoria, di durata variabile da una settimana a circa un mese, secondaria a vari fattori: trauma chirurgico, farmaci anestetici, emotrasfusioni, stress psicologico. In ogni caso la diminuzione della efficienza dei meccanismi di difesa porta ad un’aumentata incidenza di infezioni postoperatorie. 398

Le barriere anatomiche che si oppongono all’ingresso dei microrganismi nei tessuti e nel sangue sono rappresentate dalla cute e dalle mucose degli apparati gastroenterico, respiratorio, urinario, genitale e delle congiuntive. Le cellule fagocitarie nell’uomo sono presenti sia nel sangue (neutrofili e monociti), sia nei tessuti (macrofagi e sistema reticoloendoteliale).  Gli elementi cellulari ad attività fagocitaria hanno un ruolo assai importante nelle difese antibatteriche, poiché provvedono alla uccisione intracellulare dei microrganismi. In sintesi, l’attivazione del complemento da parte dei batteri o delle tossine batteriche provoca la liberazione di fattori complementari chemiotattici, che attirano i granulociti nella sede di invasione batterica; si verifica quindi la opsonizzazione dei batteri, cioè la facilitazione dell’adesione dei batteri alla superficie dei granulociti ad opera di opsonine (IgG e fattore C3b del complemento),per le quali i granulociti presentano recettori di membrana. Successivamente si verifica la fagocitosi, l’incapsulamento dei batteri in un fagosoma, la formazione del fagolisosoma e l’uccisione batterica per lisi intracellulare. L’immunità umorale è conferita dalla presenza in circolo di proteine anticorpali, le immunoglobuline, capaci di legarsi selettivamente agli antigeni batterici, di opsonizzarli e di formare complessi antigene-anticorpo-complemento; le immunoglobuline favoriscono la distruzione batterica mediante i meccanismi della opsono-fagocitosi, della lisi mediata dal complemento e della lisi mediata dai T-linfociti effettori. Le immunoglobuline sono prodotte dai Blinfociti che, in seguito a stimolazione antigenica, si differenziano in plasmacellule deputate alla anticorpopoiesi. L’immunità cellulare è mediata dai T-linfociti che possono avere funzione di memoria, di citotossicità diretta o di ipersensibilità: in particolare, i T-linfociti citotossici sono responsabili delle risposte immunitarie contro alcuni agenti batterici, come il M. tuberculosis, contro numerosi patogeni virali e fungini, contro i trapianti non autologhi e contro le cellule neoplastiche. Il complemento è costituito da un sistema di proteine sieriche che esplicano numerose funzioni nell’ambito delle difese dell’organismo. Il sistema del complemento viene attivato sequenzialmente dalle reazioni antigene-anticorpo, da sostanze di origine batterica o da reazioni infiammatorie. Le proteine di fase acuta, così denominate perché le loro concentrazioni plasmatiche aumentano in seguito ad episodi di danno tissutale (compreso quello da infezione), costituiscono una classe di proteine aventi proprietà chimico-fisiche e biologiche assai diverse (Tab. 13.2). L’aumento delle proteine di fase acuta è finalizzato al mantenimento dell’omeostasi in risposta ad eventi che provocano danni ai tessuti dell’organismo; rappresenta quindi un meccanismo protettivo.

 Per immunodepressione si intende un deficit delle risposte immunitarie dell’organismo che può 399

coinvolgere l’immunità cellulare, l’immunità umorale, le risposte infiammatorie o i meccanismi di fagocitosi. Per anergia agli skin-test si intende l’assenza di risposta infiammatoria alla somministrazione intradermica di antigeni cutanei; la risposta agli skin-test costituisce una valutazione globale dell’efficienza di numerosi meccanismi immunologici, quali il riconoscimento dell’antigene, la sua elaborazione da parte del macrofago, la liberazione di linfochine, la sintesi anticorpale, la chemiotassi leucocitaria e la risposta infiammatoria. Le cause più comuni di anergia sono: la presenza di neoplasie in stadio avanzato, gli stati di denutrizione grave e le terapie immunosoppressive.

Ambiente nel quale si sviluppa l’infezione Le caratteristiche anatomiche e funzionali dei tessuti sono importanti nel condizionare la suscettibilità alla comparsa di infezioni. Le superfici rivestite da epitelio costituiscono barriere di tipo meccanico e chimico che si oppongono all’insediamento batterico e al successivo sviluppo di infezioni. Vi sono numerose cause responsabili delle alterazioni delle barriere anatomiche nei pazienti chirurgici, quali le manovre strumentali invasive ripetute, la presenza di sondino nasogastrico, di tubo endotracheale o di tracheostomia, di drenaggi transcutanei o di catetere urinario. È necessario ridurre al minimo la permanenza di cateteri, drenaggi e strumenti invasivi, al fine di limitare il danneggiamento delle barriere mucocutanee e di diminuire la possibilità di colonizzazione batterica dovuta alla presenza degli strumenti invasivi. Qualora si renda indispensabile la permanenza prolungata di tali strumenti, si devono osservare scrupolosamente le regole dell’antisepsi nella medicazione dei punti di penetrazione mucosa o cutanea. Tra le situazioni favorenti l’insorgenza di infezione a livello locale, vi sono le condizioni di cattiva perfusione tissutale e la presenza di detriti necrotici, di raccolte liquide non drenate e di corpi estranei.

Risposta di fase acuta, mediatori delle risposte biologiche e segni generali di infezione La risposta di fase acuta all’infezione comprende varie reazioni fisiopatologiche messe in atto dall’organismo; è caratterizzata da numerose risposte emodinamiche, ormonali, metaboliche ed immunologiche, che rappresentano meccanismi di difesa. La risposta di fase acuta è mediata da molecole solubili, definite mediatori delle risposte biologiche, liberate dai macrofagi, dai monociti circolanti nel sangue e dalle cellule del SRE. La più importante di tali molecole è una citochina, denominata interleuchina-1 (IL-1), che viene liberata dai fagociti attivati in seguito a stimolazione da parte dei batteri o di endotossina (Tab. 13.3). Altri importanti mediatori sono il Tumor Necrosis Factor (TNF), l’endotossina, i prodotti di attivazione del complemento e le prostaglandine.

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Gli effetti emodinamici dei mediatori, in particolare del TNF, comprendono modificazioni della gittata cardiaca, diminuzione delle resistenze vascolari periferiche, ipotensione, tachicardia e aumento della permeabilità vascolare. Agli effetti biologici delle interleuchine, in particolare dell’IL-1 (Tab. 13.3) si attribuisce la comparsa dei segni generali di infezione: febbre, leucocitosi, aumento della VES, astenia, anoressia, mialgie, cefalea.

Modalità di diffusione delle infezioni chirurgiche La diffusione delle infezioni avviene con modalità diverse a seconda della natura dell’agente infettante, della sede di infezione primitiva e delle capacità di difesa dell’organismo. Le infezioni localizzate possono divenire generalizzate, cioè propagarsi in sedi anatomiche diverse e lontane, e invadere il torrente circolatorio, quanto più elevata è la carica batterica e la sua virulenza e quanto minori sono le capacità di difesa dell’organismo. Grazie all’efficienza dei meccanismi di difesa la maggior parte delle infezioni sono localizzate e la loro evoluzione è verso la risoluzione spontanea o verso la formazione di un ascesso; talora invece l’entità della carica batterica e uno stato di immunodepressione determinano l’evoluzione dell’infezione locale verso la formazione di un flemmone o di una infezione necrotizzante. La diffusione dell’infezione a distanza può avvenire attraverso le vie linfatiche o attraverso i vasi ematici. Il sistema linfatico partecipa attivamente alla difesa dalle infezioni; caratteristica è la comparsa di linfoadenite e linfangite satellite ai focolai settici. La linfangite superficiale è diagnosticabile clinicamente: è caratterizzata dalla comparsa di striature cutanee rossastre in corrispondenza dei vasi linfatici sottocutanei flogistici. L’invasione del sangue da parte di microrganismi può portare alla comparsa di: z batteriemia, cioè presenza di batteri nel sangue, transitoria e solitamente di breve durata se i meccanismi di difesa antibatterica sono efficienti; z setticemia, cioè presenza nel sangue di batteri patogeni virulenti che si moltiplicano attivamente, liberando tossine, se i meccanismi di difesa sono compromessi. La setticemia è una infezione gravissima che può dar luogo a disseminazione per via ematogena di focolai di infezione a distanza (per es. ascesso epatico, cerebrale; gangrena settica ecc.; Fig. 13.1) o alla comparsa di shock settico.

Per sepsi si intende un’infezione che ha determinato la comparsa di uno “stato settico”, cioè di una 401

importante reazione di fase acuta dell’organismo, caratterizzata da alterazioni emodinamiche, metaboliche, immunologiche e nutrizionali, indotte dai mediatori delle risposte biologiche.

Altre complicanze delle infezioni Lo sviluppo delle infezioni può portare alla comparsa di numerose complicanze di vario tipo. Oltre allo shock settico, si ricorda la possibile comparsa di insufficienze multiple di organi (multiple organ failure-MOF), descritte in dettaglio nel Capitolo 12. Gli organi e gli apparati più frequentemente colpiti in corso di complicanze settiche sono il rene, il fegato, l’apparato respiratorio e il sistema nervoso centrale. Inoltre si possono manifestare:gravi alterazioni del sistema della coagulazione (DIC), depressione midollare con piastrinopenia e leucopenia, microembolie settiche, con possibile sviluppo in gangrena settica (Fig.13.1).

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Metodi diagnostici I criteri clinici in base ai quali si pone la diagnosi di infezione, già illustrati nei Capitoli 11 e 12, vengono richiamati di seguito. Per le infezioni di ferita vi sono segni locali differenziati che vanno dalla comparsa di eritema, dolore ed indurimento, senza raccolta liquida, fino alla comparsa di raccolta purulenta e possibilità di deiscenza della ferita stessa. La diagnosi di infezione postoperatoria delle vie respiratorie viene comunemente posta in base al reperto dei segni di infezione all’esame obiettivo del torace, unitamente alla documentazione di addensamento polmonare all’esame radiologico, eventualmente confermato dalla positività dell’esame colturale dell’espettorato. Per le infezioni delle vie urinarie il criterio diagnostico è quello dell’urinocoltura positiva (> 105 colonie batteriche/ mm3). Per le altre infezioni meno frequenti, il criterio diagnostico di certezza è dato dalla positività degli esami colturali degli essudati o delle colture dei liquidi biologici raccolti nella sospetta sede di infezione, o dalla positività dell’emocoltura. Per la localizzazione degli ascessi addominali è assai utile l’esecuzione dell’ecografia. L’esame TC è utile e talvolta indispensabile per la diagnosi di ascessi profondi: a livello cerebrale, toracico, addominale e degli arti. Raramente si ricorre all’impiego della scintigrafia con leucociti marcati con 99Tc o con 111In (v. Capp. 11 e 12). Le specie di microrganismi isolati da pazienti con gravi infezioni sono spesso molteplici e la variabilità dei risultati degli esami colturali deve essere messa in relazione anche a problemi di metodologia microbiologica, soprattutto per le difficoltà che talora si incontrano nelle colture per l’isolamento di batteri anaerobi. I segni clinici che debbono far sospettare la presenza di una infezione sostenuta da germi anaerobi sono i seguenti: raccolta in sede di infezione di materiale di odore fetido; infezione in prossimità di mucose; presenza di tessuto necrotico; formazione di pseudomembrane o di gangrena; presenza di gas nei tessuti e nelle secrezioni; endocardite con emocolture negative per aerobi; infezioni associate a neoplasia o ad altre malattie che causano distruzione tissutale; tromboflebite settica; batteriemia in presenza di ittero; infezioni da morso; colorazione nerastra degli essudati emorragici; aborto settico; infezione successiva ad intervento chirurgico sul colon-retto. Per giungere ad una corretta diagnosi microbiologica, oltre all’accurata raccolta dei dati clinici, è doveroso osservare scrupolosamente alcune norme per la raccolta del materiale da esaminare (per es. essudato di ferita, essudato peritoneale, pus, sangue, urina, escreato bronchiale, bile), poiché spesso le infezioni anaerobie sono contigue a superfici mucose o epidermiche ricche di batteri anaerobi residenti, che potrebbero contaminare il materiale da esaminare. I metodi consigliati per la raccolta di materiale per colture microbiologiche in corso di infezioni chirurgiche variano in rapporto agli organi interessati dall’infezione. Per le infezioni delle vie respiratorie si esegue abitualmente l’esame dell’escreato bronchiale; più attendibile è il brushing bronchiale o l’aspirazione transtracheale previa puntura percutanea o puntura diretta polmonare. La toracentesi è indicata nelle infezioni del cavo pleurico. Per le gravi infezioni delle vie urinarie, si esegue abitualmente l’urinocoltura, con l’avvertenza di evitare di contaminare l’urina durante la minzione. Quando si vuole assolutamente escludere la contaminazione dell’urina durante il prelievo, è indicata l’aspirazione endovescicale percutanea per via sovrapubica. L’esame colturale delle raccolte ascessuali si può fare mediante aspirazione dell’essudato con ago e siringa. Nelle infezioni di ferita o di tragitti fistolosi è opportuno eseguire l’aspirazione con siringa il più profondamente possibile, per evitare il contatto dell’essudato con l’aria. Una volta raccolto il materiale per la coltura e l’isolamento dei germi, indagini queste che richiedono sempre alcuni giorni, è opportuno procedere ad un esame batterioscopico con la colorazione di Gram. Con un po’ 403

di esperienza infatti è possibile con ottima approssimazione avvicinarsi ad una diagnosi eziologica, giacché i batteri anaerobi hanno caratteristiche morfologiche e tintoriali che ne consentono l’identificazione.

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Terapia I criteri generali di terapia delle infezioni chirurgiche si possono suddividere in: z

misure generali di supporto;

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trattamento locale;

chemioterapia antibiotica. Fanno parte delle misure generali di supporto:

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il controllo delle alterazioni volemiche, idroelettrolitiche, della crasi ematica e metaboliche;

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il supporto nutrizionale;

la fisioterapia. Le misure generali di supporto hanno lo scopo di migliorare la funzionalità dei principali organi ed apparati, la cui efficienza rappresenta il presupposto per l’adeguato esplicarsi dei meccanismi di difesa immunitari. La correzione degli squilibri volemici, idroelettrolitici, metabolici e della crasi ematica ha come finalità il miglioramento delle condizioni di perfusione tissutale.Tale correzione è di primaria importanza poiché la diminuzione della funzionalità complessiva degli organi ipoperfusi comporta l’accumulo locale e generalizzato di metaboliti tossici, l’insufficiente apporto di elementi cellulari e di fattori umorali effettori del sistema immunitario e, in definitiva, una facilitazione dell’impianto dei microrganismi patogeni. Un adeguato apporto nutrizionale, mediante nutrizione parenterale o enterale, è essenziale per fornire all’organismo i substrati energetici (carboidrati e lipidi) e plastici (aminoacidi) necessari per sopperire al fabbisogno metabolico. Durante le infezioni infatti,la presenza di alterazio-ni quali l’anoressia,la nausea,il vomito,la diarrea,l’ileo paralitico impediscono un’alimentazione orale sufficiente. Tra le misure generali di supporto si deve ricordare anche un’adeguata fisioterapia respiratoria postoperatoria, che ha lo scopo di migliorare la ventilazione e la perfusione polmonare,nonché le condizioni emodinamiche. La corretta e tempestiva esecuzione della fisioterapia consente l’eliminazione delle aree di atelettasia polmonare, nonché una riduzione del catabolismo muscolare secondario allo stato di inattività dei muscoli. Il trattamento locale delle infezioni consiste nel drenaggio delle raccolte ascessuali e nella toilette chirurgica dei focolai infetti. I principi generali del trattamento locale sono:

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rimozione del pus e dei detriti necrotici mediante incisione chirurgica e drenaggio degli ascessi;

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abbondante detersione dei focolai infetti con soluzione fisiologica;

applicazione di medicazione antisettica. I principi della chemioterapia antibiotica sono illustrati nell’omonimo paragrafo di questo Capitolo (vedi oltre).

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Profilassi e controllo delle infezioni nosocomiali Per prevenire l’insorgenza delle infezioni chirurgiche è possibile agire a due livelli: aumentando le capacità di difesa dell’organismo e riducendo o abolendo la contaminazione batterica. Per la profilassi delle infezioni è importante il riequilibrio metabolico dei pazienti dismetabolici (per es. diabete, insufficienza epatica o renale). Spesso tali condizioni dismetaboliche hanno già portato a modificazioni profonde ed irreversibili della funzionalità di vari organi ed apparati, condizionando un’aumentata suscettibilità alle infezioni. È importante a tale fine perseguire il ripristino della omeostasi glicemica, dell’equilibrio acido-base e, per quanto possibile, della funzionalità renale ed epatica. Il ripristino dello stato nutrizionale rappresenta un obiettivo di primaria importanza nella preparazione del paziente all’intervento chirurgico; parimenti importante è evitare l’eccessiva deplezione nutrizionale durante il periodo catabolico postoperatorio o posttraumatico. È possibile raggiungere questi obiettivi mediante l’impiego di tecniche nutrizionali artificiali quali la nutrizione parenterale totale e la nutrizione enterale specializzata. Una meticolosa antisepsi è da perseguire sia in fase di preparazione che di esecuzione dell’atto operatorio. Ciò comprende: z rasatura della cute senza provocare soluzioni di continuo dell’epidermide, che favoriscono l’impianto di germi; z preparazione della cute con soluzione disinfettante efficace (per es. sol. di povidone ioduro); z esecuzione dell’atto chirurgico con la minima contaminazione possibile; z preparazione e pulizia meccanica del tubo digerente, per diminuire la contaminazione da parte dei germi contenuti entro i visceri che vengono aperti durante l’atto operatorio.  Un’adeguata profilassi antinfettiva in chirurgia comporta i seguenti provvedimenti: x antisepsi pre- ed intraoperatoria e cura delle ferite chirurgiche; x accurata manutenzione e rimozione precoce dei cateteri infusionali, dei drenaggi e degli strumenti invasivi usati per il monitoraggio; x somministrazione profilattica di antibiotici. I principi generali della chemioprofilassi antibiotica si basano anzitutto sulla distinzione degli interventi in: puliti, puliti-contaminati, contaminati e sporchi (v. Cap. 12,Tab. 12.1 Classificazione degli interventi chirurgici in relazione al grado di contaminazione batterica). La chemioprofilassi va sempre attuata prima dell’esecuzione di interventi contaminati, puliti-contaminati e sporchi, avendo cura che l’antibiotico raggiunga, al momento dell’inizio dell’atto chirurgico, la concentrazione plasmatica efficace. La chemioprofilassi non dovrebbe essere eseguita negli interventi puliti, ad eccezione di quegli interventi che prevedono l’impianto di materiali protesici ed in quelli che si prevedono particolarmente lunghi. È stata infatti osservata una maggior incidenza di complicanze infettive dopo interventi chirurgici puliti che si protraggono per oltre 3 ore. La scelta dell’antibiotico o della combinazione di antibiotici da somministrare a scopo di profilassi antinfettiva deve essere fatta conoscendo la composizione della flora batterica che presumibilmente contaminerà il campo operatorio al momento della sezione chirurgica del viscere su cui si opera.

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Particolari tipi di infezione Infezione di ferita I segni locali precoci di infezione di ferita sono l’eritema, la dolorabilità e l’indurimento dei margini; la fuoriuscita di pus è evento tardivo. Il dolore è sempre presente in sede di incisione chirurgica, ma deve progressivamente ridursi dopo il primo giorno postoperatorio ed infine deve scomparire; se invece il dolore di ferita permane o si accentua bisogna sempre sospettare un’infezione. In tal caso è bene anticipare la medicazione della ferita per la ricerca di eventuali altri segni di infezione e per la terapia del caso. Il trattamento di una ferita suppurata consiste nella rimozione della sutura cutanea, nella apertura della ferita e nel drenaggio del pus; si procede quindi ad una accurata detersione meccanica con soluzione fisiologica sterile (la presenza di antibiotici in queste soluzioni non è necessaria),provvedendo sia all’esame batteriologico del pus, sia alla sua coltura. Nella maggior parte dei casi la febbre scompare entro 24 ore se l’infezione di ferita ne è l’unica causa; se la febbre invece permane, è da sospettare che vi siano altri focolai infettivi altrove.

Foruncolo Il foruncolo è un’infezione purulenta del follicolo pilifero. I foruncoli possono essere semplici o multipli (foruncolosi) e possono frequentemente recidivare. Il foruncolo si può sviluppare in qualsiasi sede cutanea, ad eccezione di quelle in cui non vi sono follicoli piliferi (palmi delle mani e piante dei piedi).Vi sono aree cutanee elettivamente sede di foruncoli (collo, tronco, ascelle, inguini, glutei). La foruncolosi colpisce solitamente i giovani in età puberale e si associa a squilibri endocrini che comportano modificazioni del trofismo follicolare. Gli agenti eziologici più frequenti del foruncolo sono lo Staphylococcus aureus ed i germi anaerobi difteroidi. Il foruncolo si presenta come un nodulo cutaneo, duro, dolente, con alone eritematoso. L’evoluzione è verso l’ascesso follicolare, con formazione di pus che solitamente trova sfogo attraverso la cute sovrastante il foruncolo; ciò porta a guarigione spontanea. Raramente i foruncoli possono complicarsi,dando origine ad un flemmone o ad un ascesso sottocutaneo che può richiedere il trattamento chirurgico.

Favo Il favo è costituito da un insieme di follicoli vicini che si sono ascessualizzati contemporaneamente. È caratterizzato dalla presenza di molteplici comunicazioni tra i vari foruncoli e da una raccolta purulenta nel derma e nel tessuto sottocutaneo. Il pus tende a fuoriuscire dalla cute attraverso i canali follicolari e da una miriade di tragitti neoformati. Il favo, aumentando di dimensioni, dà luogo alla formazione di un piastrone cutaneo-sottocutaneo, duro, edematoso, che va incontro a necrosi ischemica settica. Il diabete non controllato rappresenta la condizione predisponente più frequente che si associa alla comparsa del favo. La terapia è chirurgica e consiste nell’ampia incisione e nel drenaggio.

Idrosadenite È un’infezione delle ghiandole sudoripare sostenuta prevalentemente dallo Staphylococcus aureus, 407

con tendenza alla suppurazione e alla ascessualizzazione (vedi oltre), che si localizza più frequentemente nelle aree cutanee in cui è ricca la presenza di ghiandole apocrine sudoripare, cioè a livello ascellare, inguinale e perineale. Condizioni predisponenti sono i microtraumi cutanei, la scarsa igiene e la sudorazione abbondante. L’idrosadenite si distingue dal foruncolo per l’assenza di un follicolo pilifero al centro del nodulo. L’ascesso ghiandolare tende ad affiorare alla cute, dove si apre spontaneamente. L’affezione ha tendenza a cronicizzarsi e a recidivare. La terapia è chirurgica e consiste nell’incisione e drenaggio dell’ascesso in fase precoce.Talora si può procedere all’asportazione radicale della ghiandola sudoripara.

Ascesso Per ascesso si intende una raccolta purulenta, contenente leucociti, detriti di necrosi cellulare e batterica, e liquidi essudati, circoscritta da una membrana reattiva piogenica e da una parete di tessuto infiammatorio; la cavità ascessuale è spesso pluriconcamerata, con sepimenti di tessuto necrotico e infiammatorio. Gli ascessi hanno tendenza ad accrescersi per aumento del contenuto purulento e del tessuto infiammatorio di parete, comprimendo e necrotizzando i tessuti e gli organi adiacenti. Essi si espandono in direzione delle aree di minore resistenza tra quelle che li circondano. Gli ascessi superficiali hanno la tendenza ad aprirsi spontaneamente attraverso la cute, dopo averla infiltrata, riversando all’esterno il contenuto purulento (Fig. 13.2). Gli ascessi profondi, nel loro accrescimento, comprimono i visceri cavi adiacenti (per es. intestino, vie biliari, vie urinarie, vie respiratorie); erodendone la parete scaricano in essi il contenuto purulento. In tal modo gli ascessi possono dare luogo alla formazione di fistole, cioè a comunicazioni neoformate tra la cavità ascessuale e i visceri adiacenti o la cute (Fig. 13.3).

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La sintomatologia degli ascessi superficiali è caratterizzata dalla comparsa dei segni locali dell’infiammazione (tumor, dolor, rubor, calor; talora functio laesa), del segno della fluttuazione del contenuto ascessuale e dei segni generali di infezione. Gli ascessi siti in profondità sono spesso difficili da diagnosticare per la iniziale scarsità della sintomatologia locale; per confermare il sospetto diagnostico di ascesso profondo sono assai utili l’esame ecografico e la TC (v. Cap. 12). La terapia degli ascessi è chirurgica: consiste nella incisione e drenaggio, con toilette della cavità ascessuale. La guarigione dell’ascesso avviene per chiusura della cavità ascessuale ad opera di tessuto di granulazione.Talora gli ascessi profondi difficili da drenare attraverso un’incisione chirurgica possono venire drenati mediante puntura e posizionamento di un catetere percutaneo, sotto controllo ecografico (v. Cap 11 e Cap. 12).

Flemmone Il flemmone è costituito da un’infezione dei tessuti che, contrariamente all’ascesso, non ha tendenza ad essere circoscritta da tessuto infiammatorio, ma diffonde nei tessuti connettivali. Caratteristiche dei flemmoni sono: un notevole grado di edema dei tessuti ed iperemia, assenza di parete infiammatoria limitante e scarsità o assenza di essudato purulento. Si distinguono flemmoni superficiali (flemmone sottocutaneo) e flemmoni a carico dei tessuti e dei visceri profondi (per es. flemmone della colecisti, dell’appendice). La terapia dei flemmoni dei visceri è chirurgica e consiste nella exeresi dell’organo gravemente infetto (per es. colecistectomia per il trattamento della colecistite flemmonosa). Per il trattamento dei flemmoni dei tessuti molli causati da ritenzione di corpi estranei infetti è necessaria la toilette chirurgica e talora la fasciotomia, per attenuare la tensione dei tessuti dovuta all’edema flogistico (vedi oltre); si associa di regola la terapia antibiotica.

Infezioni necrotizzanti Le infezioni necrotizzanti sono caratteristicamente sostenute da batteri anaerobi quali i Clostridi e i 409

Bacteroides. Esse hanno la tendenza a diffondere nei tessuti molli, scollando i piani anatomici lungo le linee di separazione connettivali e fasciali, causando caratteristicamente necrosi tissutale, trombosi vasale, aree di ischemia, che a loro volta costituiscono terreno favorevole alla diffusione dell’infezione. L’esempio più tipico è quello della fascite necrotizzante, cioè l’infezione dei tessuti muscoloaponeurotici e sottocutanei (Fig. 13.4). La terapia è chirurgica, in associazione alla terapia antibiotica (vedi oltre).

Empiema È un’infezione suppurativa che si verifica all’interno di un viscere cavo o di una cavità corporea preesistente. La raccolta purulenta empiematosa si distingue dall’ascesso perché quest’ultimo ha pareti neoformate costituite dalla reazione infiammatorio-connettivale. Esempi sono l’empiema della colecisti e l’empiema del cavo pleurico. Il trattamento degli empiemi è chirurgico: consiste nella exeresi del viscere infetto (per es. colecistectomia per empiema della colecisti) e nel drenaggio della cavità infetta (per es. drenaggio pleurico per empiema pleurico).

Infezioni da Clostridi I Clostridi sono batteri anaerobi che provocano infezioni di interesse chirurgico ad evoluzione potenzialmente molto grave, quali la gangrena gassosa e il tetano. Si conoscono numerose specie di Clostridi patogeni per l’uomo, tra cui il Cl. welchii (il più frequente), il Cl. novyi, il Cl. septicum e il Cl. tetani. I Clostridi sono dei saprofiti, le cui forme vegetative e spore sono ubiquitariamente presenti nell’ambiente.Le spore si trasformano in forme vegetative, in grado di produrre tossine, negli ambienti in cui scarso è l’apporto di ossigeno e dove sono presenti tessuti devitalizzati, corpi estranei ed altri germi. I Clostridi si moltiplicano e producono tossine necrotizzanti (per es. alfatossina) che distruggono i tessuti circostanti, favorendo l’ulteriore proliferazione dei bacilli.Quando una quantità considerevole di tossina si diffonde nei tessuti ed entra in circolazione, compaiono sintomi gravi di tossiemia, quali agitazione, tachicardia, delirio, ittero e, da ultimo, shock settico. Il Cl. tetani produce una tossina particolarmente lesiva a livello del sistema nervoso. Le infezioni da Clostridi colpiscono particolarmente i pazienti neoplastici e quelli che presentano aree tissutali scarsamente vitali (tessuti ischemici, ferite infette con margini necrotici, tessuti traumatizzati infetti, 410

tessuti sottoposti a compressione da docce gessate). Le infezioni da Clostridi possono evolvere con vari livelli di gravità e con manifestazioni cliniche diverse: ascesso, flemmone, gangrena gassosa. Nella fase iniziale della infezione da Clostridi vi è solo presenza di essudato sieropurulento nel contesto dei tessuti, senza segni di diffusione della malattia. L’ascesso da Clostridi è una forma localizzata di infezione. Il flemmone o cellulite da Clostridi rappresenta una forma invasiva che tende a diffondersi lungo i piani connettivali e fasciali superficiali. La gangrena gassosa è la forma di infezione da Clostridi più grave, che diffonde nei tessuti molli in profondità, evolve in poche ore o in pochi giorni ed è caratterizzata da necrosi tissutale (Fig. 13.5), dolore, edema, essudato bruno grigio, con presenza di bolle gassose. Queste ultime possono dare origine al reperto palpatorio di crepitio dei tessuti e possono divenire radiologicamente evidenti. Nella gangrena gassosa compaiono segni clinici di grave tossiemia, con compromissione della funzionalità dei principali organi ed apparati. La prevenzione delle infezioni da Clostridi si fonda sulla eliminazione dei tessuti necrotici e scarsamente vitali, nonché sulla completa toilette delle ferite da trauma, con eliminazione di ogni corpo estraneo. È necessaria la profilassi antibiotica con penicillina, nel caso vi sia il sospetto clinico di infezione da Clostridi; la profilassi antibiotica, peraltro, non sostituisce una corretta toilette della ferita. La terapia è chirurgica: apertura della ferita infetta, estesa recentazione dei tessuti necrotici o scarsamente vitali, fasciotomia per decomprimere i tessuti molli profondi edematosi,prolungata toilette con soluzione fisiologica e acqua ossigenata. Nei casi più gravi può essere necessaria l’amputazione delle estremità infette da Clostridi.Alla terapia chirurgica si deve associare la terapia antibiotica con penicillina ad elevato dosaggio e, talora, la terapia con ossigenazione iperbarica.

Tetano Il tetano è un’infezione grave, sostenuta dal Cl. tetani, bacillo anaerobio che produce una neurotossina in grado di provocare paralisi muscolare spastica. La patogenesi dell’infezione tetanica è simile a quella precedentemente descritta per gli altri Clostridi. Il Cl. tetani predilige i tessuti scarsamente vitali e le ferite contaminate da corpi estranei. L’evoluzione dell’infezione può essere fulminante ma solitamente richiede alcuni giorni. La sintomatologia compare in seguito alla immissione in circolo di neurotossina tetanica e si manifesta localmente con dolore in sede di ferita. Compaiono inoltre sintomi generali caratterizzati da 411

limitazione dei movimenti per contrazione muscolare con spasmo della muscolatura striata, particolarmente evidente a livello del volto (trisma, risus sardonicus); si associano difficoltà della deglutizione, della respirazione, della minzione, tachicardia, ipertermia e leucocitosi. Il paziente affetto da tetano è a rischio di morte per apnea e deve essere quindi trattato in unità di terapia intensiva con ventilazione meccanica nel caso di comparsa di difficoltà respiratorie.

La profilassi della infezione tetanica inizia con la immunizzazione attiva con anatossina tetanica, che viene routinariamente effettuata in età scolare.Sono necessarie dosi di richiamo dell’immunizzazione nel caso di sospetta infezione. La profilassi, nel sospetto di infezione tetanica, comprende inoltre la somministrazione di immunoglobuline umane antitetaniche (250-500 U im).

Tifo Il tifo è una malattia infettiva, sostenuta dalla Salmonella typhi, le cui complicanze possono diventare di interesse chirurgico. L’infezione del tessuto linfatico presente nella parete intestinale può evolvere infatti verso l’ulcerazione e,raramente, verso la perforazione.La comparsa di addome acuto peritonitico nel corso di attacchi di febbre tifoide deve indurre al sospetto di perforazione intestinale; ciò è confermato dal reperto di aria libera all’esame radiografico dell’addome in bianco. La complicanza perforativa intestinale e quella emorragica grave necessitano di intervento chirurgico d’urgenza, di sutura della perforazione o di resezione intestinale. A ciò si deve naturalmente aggiungere la terapia medica dell’infezione. Un altro aspetto chirurgico della infezione tifoidea concerne il trattamento dei portatori di Salmonella typhi nella colecisti, sede nella quale il microrganismo può essere presente cronicamente. Raramente si osserva la comparsa di colecistite salmonellosa, per la quale vi è indicazione all’intervento di colecistectomia. Vi può essere indicazione all’exeresi della colecisti quando questa diventa il réservoir dal quale la Salmonella viene continuamente escreta nell’intestino. Per la terapia antibiotica del tifo è indicato l’uso di ampicillina o cotrimoxazolo, oppure di cloramfenicolo.

Echinococcosi È una malattia parassitaria causata da un elminta, l’Echinococcus granulosus, le cui larve formano cisti nei tessuti dell’organismo umano. L’Echinococcus è presente sotto forma di verme adulto nell’intestino dei cani e dei carnivori selvatici.Tali animali, portatori delle tenie adulte, eliminano con le feci le uova, che possono poi venire accidentalmente ingerite dagli ospiti cosiddetti “intermedi”, tra cui l’uomo, gli ovini e i bovini. Le uova, ingerite dagli ospiti intermedi, vengono digerite dal succo gastrico e si ha così la liberazione delle larve, che attraverso la parete intestinale passano nel circolo portale per impiantarsi nel fegato o per entrare nel circolo sistemico, sino ad insediarsi nei polmoni o, più raramente, in altri organi (tra cui il cervello, i reni e la milza). A livello degli organi colpiti le tenie si sviluppano in cisti (o idatidi) a contenuto liquido, che possono raggiungere il diametro di diversi centimetri. La cisti libera numerosi scolici che in essa sono contenuti; gli scolici possono, in caso di rottura della cisti, disseminare l’infezione a livello intraparenchimale o nel cavo peritoneale. Gli scolici, se ingeriti dagli ospiti definitivi, si trasformano in tenia adulta a livello intestinale, che inizia il nuovo ciclo. Nella patogenesi della malattia sono importanti le condizioni di scarsa igiene e la convivenza con animali portatori dei parassiti adulti. Lo sviluppo della cisti a livello epatico (Fig. 13.6) comporta epatomegalia, dolore ipocondriaco destro o epigastrico e disturbi da compressione degli organi vicini. L’evoluzione della cisti può avvenire in diversi modi: verso la morte della cisti con arresto del suo sviluppo e calcificazione della parete, oppure verso la rottura della cisti (per trauma a livello epatico; più frequentemente per rottura spontanea a livello polmonare). La rottura della cisti epatica da echinococco può portare alla 412

comparsa di ittero e coliche epatiche per invasione delle vie biliari. La rottura delle cisti idatidee epatiche superficiali può determinarne la disseminazione peritoneale con comparsa di gravi reazioni anafilattiche. Le cisti polmonari possono provocare dolore toracico e comparsa di dispnea.La rottura delle cisti nei bronchi può portare alla loro superinfezione con altri germi e alla suppurazione delle stesse. La diagnosi di cisti da echinococco si pone in base all’anamnesi di convivenza con animali portatori di tenia in aree geografiche endemicamente colpite, sulla scorta di reperti dell’esame obiettivo e delle indagini radiologiche (radiografia in bianco,ecografia,ERCP,esame TC) e in base alle prove diagnostiche immunologiche (ricerca di anticorpi antiechinococco; test di deviazione del complemento).La presenza di eosinofilia rafforza il sospetto diagnostico della malattia. La terapia delle cisti da echinococco voluminose o sintomatiche è l’exeresi chirurgica.

Amebiasi L’amebiasi è una malattia parassitaria causata dal protozoo Entamoeba histolytica. L’infezione è endemica in aree geografiche tropicali e subtropicali. I visitatori occasionali di tali aree possono venir colpiti e sviluppare la malattia a distanza di mesi. La via d’infezione è di solito rappresentata dalla ingestione di acqua inquinata o avviene per trasmissione orofecale. L’ameba si localizza in forma vegetativa (trofozoiti) nel colon dell’uomo, organo nel quale il parassita si moltiplica e può causare lesioni ulcerative della mucosa (colite amebica), oppure può frequentemente rimanere asintomatico. All’interno del colon i trofozoiti diventano cisti e vengono eliminati con le feci. Dal colon per via portale i trofozoiti possono raggiungere il fegato causando l’ascesso amebico. A livello intestinale le alterazioni anatomo-patologiche dell’amebiasi sono costituite dalla colite amebica, che può presentarsi con gravità variabile: come dissenteria amebica, come colite grave perforativa, o come ascesso intestinale. L’alterazione anatomo-patologica fondamentale è costituita dalla formazione dell’ascesso conformato a “bottone di camicia”, che mette in comunicazione lo spessore della parete colica con il lume intestinale, attraverso una soluzione di continuo della mucosa. La sintomatologia è caratterizzata da dolori addominali crampiformi intermittenti; nel volgere di 413

numerose settimane compare diarrea con perdite muco-emorragiche, accompagnate da rialzo termico e leucocitosi. La diagnosi si pone in base al reperto del parassita all’esame microbiologico delle feci e mediante esame colonscopico, che dimostra la presenza di ulcere amebiche nel colon; tale esame viene eseguito con cautela al fine di evitare la perforazione dell’intestino. Talora la diagnosi si pone all’esame istologico dei segmenti intestinali resecati d’urgenza per complicanze perforative o ascessuali. L’amebiasi colica diventa malattia chirurgica allorquando le forme di colite acuta ascessualizzata o le forme croniche nella loro evoluzione determinano perforazione intestinale, con peritonite localizzata o diffusa. La peritonite localizzata pericolica, viene definita ameboma ed è rappresentata da una massa granulomatosa intorno al colon; ciò può determinare un restringimento del lume intestinale, per il trattamento del quale può rendersi necessario l’intervento di resezione. L’epatite amebica è caratterizzata dalla formazione di ascessi amebici che si manifestano in circa il 10% dei casi di dissenteria amebica. L’ascesso amebico contiene un liquido color cioccolato; la sintomatologia è caratterizzata da febbre intermittente di tipo settico, da dolorabilità, tumefazione epatica e leucocitosi. La diagnosi si pone in base al dato anamnestico di soggiorno in aree endemiche, di pregressi episodi di diarrea, dei reperti obiettivi addominali e in base all’esame ecografico o TC del fegato. La terapia della colite amebica consiste nella somministrazione di chemioterapici antimicrobici (metronidazolo o iodochinolo); l’ascesso amebico richiede il drenaggio chirurgico o percutaneo.

Actinomicosi L’actinomicosi è una malattia infettiva causata dagli actinomiceti (Actinomyces bovis o israelii), funghi anaerobi Gram+ di aspetto filamentoso. Gli actinomiceti sono presenti nella flora normale delle prime vie aeree come parassiti. La via d’infezione è costituita dalla penetrazione dei funghi attraverso le vie aeree, il tubo digerente o la cute. La localizzazione più frequente è a livello cervicofacciale,per penetrazione attraverso le prime vie digerenti ed aeree ed è caratterizzata dalla comparsa di neoformazioni nodulari dei tessuti molli del collo, ascessualizzate, che drenano attraverso tragitti fistolosi cutanei. Nel pus fuoriuscito dai tramiti fistolosi si possono reperire i caratteristici “granuli di zolfo” (granuli giallastri), oppure si possono reperire microscopicamente i filamenti miceliali. L’actinomicosi intestinale colpisce prevalentemente il cieco, l’appendice ed il sigma-retto; può causare ascessi e perforazioni intestinali. La terapia si fonda sull’impiego di chemioterapici antibiotici (penicillina a dosi elevate); la terapia degli ascessi e delle perforazioni è chirurgica.

Infezioni da funghi Le infezioni micotiche sono relativamente rare in chirurgia ad eccezione della candidiasi (orale, esofagea), sostenuta dalla Candida albicans, che si incontra con frequenza abbastanza elevata come infezione opportunistica in pazienti debilitati, in quelli sottoposti a polichemioterapia antibiotica, nei diabetici e negli immunodepressi (per es. pazienti sottoposti a radioterapia, chemioterapia antineoplastica ecc.). La terapia della candidiasi orofaringea ed esofagea consiste nell’impiego orale di nistatina o di violetto di genziana; le forme generalizzate (setticemia da Candida) vengono trattate con fluconazolo, o con 414

amfotericina B.

Le altre infezioni fungine opportunistiche che si riscontrano in pazienti chirurgici immunodepressi sono la coccidioidomicosi e la aspergillosi; esse si manifestano clinicamente come polmonite, o come reperto occasionale di infiltrato polmonare in pazienti anergici. La diagnosi di queste micosi opportunistiche si effettua con l’esame dell’espettorato polmonare o con la biopsia polmonare. La terapia consiste nella somministrazione endovenosa di fluconazolo e di amfotericina B.

Malattie da virus Le infezioni virali sono aumentate negli ultimi anni, in conseguenza dell’impiego esteso di terapie immunosoppressive, che com’è noto provocano una diminuzione delle difese dell’immunità cellulomediata. I pazienti maggiormente a rischio per le infezioni virali sono quelli sottoposti a radioterapia, a terapia cortisonica e a terapia antineoplastica citostatica. Inoltre, l’impiego massivo di terapie antibiotiche predispone all’insorgenza di superinfezioni virali, alterando l’equilibrio microbiologico Particolarmente suscettibili alle infezioni virali sono anche i pazienti gravemente ustionati e politraumatizzati ed i pazienti neoplastici cachettici, per l’anergia che caratterizza queste malattie. Tra le malattie virali più importanti nei pazienti chirurgici sono da ricordare quelle da herpes virus citomegalovirus e poxvirus che caratteristicamente compaiono come complicanze della terapia immunosoppressiva antirigetto in pazienti con trapianto d’organo. Sono inoltre da ricordare le epatiti da virus B e C che colpiscono una piccola ma non trascurabile percentuale di pazienti chirurgici o traumatizzati sottoposti a trasfusione di sangue o di emoderivati. Tra le infezioni virali è da ricordare anche la rabbia,che si trasmette attraverso il morso di animali infetti. La malattia diventa di interesse chirurgico perché le ferite da morso di animale sospetto rabbioso dovrebbero essere sbrigliate e trattate chirurgicamente. Il virus della rabbia è neurotropo e causa una encefalopatia gravissima in seguito alla trasmissione dall’animale portatore (cane, volpe) all’uomo. Dopo un periodo di incubazione di alcune settimane compaiono alterazioni psicomotorie, alterazioni della trasmissione neuromuscolare e coma. La malattia conclamata ha decorso solitamente letale. La terapia consiste nella toilette chirurgica della ferita sospetta di infezione rabbiosa e nella somministrazione della vaccinazione antirabbica.

AIDS Il chirurgo può avere un ruolo importante nella diagnosi e nel trattamento del paziente con AIDS (Acquired Immuno Deficiency Syndrome – malattia causata dallo Human Immunodeficiency Virus – HIV);è pertanto necessario conoscere le basi di un’appropriata profilassi della trasmissione della malattia.  Gli aspetti chirurgici dell’infezione da HIV comprendono: la possibilità di contagio in seguito alla trasfusione di sangue ed emoderivati nel periodo perioperatorio; il rischio di trasmissione dell’infezione dal paziente malato di AIDS al personale di sala operatoria e dei reparti chirurgici; problemi di diagnosi differenziale con malattie chirurgiche; necessità di interventi chirurgici su malati di AIDS. Le procedure diagnostiche di competenza chirurgica che vengono più frequentemente condotte sui 415

malati di AIDS comprendono: biopsie linfonodali, biopsie di altre masse interessanti i tessuti molli e biopsie polmonari per la diagnosi di infiltrati, quando la biopsia transbronchiale non ha avuto successo. Le cure di supporto ed il trattamento delle complicanze nei pazienti affetti da AIDS coprono un vasto campo di interesse per il chirurgo; le terapie di supporto includono per esempio la necessità di accesso venoso chirurgico, per il trattamento a lungo termine di un processo infettivo o per la chemioterapia in caso di neoplasie maligne associate.

Le complicanze di interesse chirurgico nei pazienti con AIDS comprendono essenzialmente quelle di tipo settico; sono di frequente riscontro gli ascessi dei tessuti molli, le tromboflebiti settiche ed inoltre le gastriti da stress ed il pneumotorace. Anche i pazienti affetti AIDS possono occasionalmente presentare patologie di interesse chirurgico, quali appendicite, colecistite, ulcera peptica e loro complicanze; in tali circostanze è spesso importante risolvere delicati problemi di diagnosi differenziale con l’enterite in corso di AIDS, per la quale è indicata la terapia medica.A causa della scarsa reattività del paziente immunodepresso, le flogosi acute dei visceri addominali possono infatti manifestarsi con quadri clinici ed ematochimici attenuati (febbre e leucocitosi scarse o assenti), di difficile interpretazione. I principi della profilassi della trasmissione della malattia in ambiente chirurgico consistono nella rigida applicazione delle regole igieniche di manipolazione di materiale infetto o potenzialmente tale, e nell’impiego di misure specifiche preventive da attuare durante gli interventi chirurgici: uso di barriere idonee (doppi guanti, camici impermeabili, occhiali); sostituzione, ove possibile, degli strumenti da taglio e appuntiti con altri a punta smussa; riduzione del contatto diretto delle mani con i tessuti ed i fili di sutura; esecuzione di un’emostasi immediata e meticolosa; impiego tassativo di materiale monouso per la preparazione del campo operatorio.

Infezioni a trasmissione sessuale La terapia delle infezioni a trasmissione sessuale è essenzialmente medica, tuttavia per alcune di esse può essere necessario l’intervento chirurgico.

Gonorrea L’interesse chirurgico della gonorrea è legato alla possibilità di formazione di stenosi uretrale come complicanza dell’uretrite essudativa gonococcica. Nella femmina l’infezione può portare alla 416

formazione di stenosi tubarica e sterilità; è talora indicato il trattamento chirurgico di tali lesioni stenosanti. Un’altra possibile complicanza dell’infezione gonococcica nelle donne è la pelviperitonite.La comparsa di ascesso tuboovarico può rendere necessario l’intervento di drenaggio chirurgico o di annessiectomia. La diagnosi di gonorrea si fonda sull’esame dello striscio dell’essudato uretrale, che mette in evidenza le Neisseriae gonorrhoeae, diplococchi intracellulari Gram–. Il trattamento precoce dell’infezione,in grado di prevenire le complicanze,consiste nell’impiego di amoxicillina. È noto che spesso l’infezione gonococcica si associa all’infezione da Chlamydiae; pertanto la terapia della gonorrea comprende solitamente anche un ciclo di 7 giorni di assunzione di tetraciclina, efficace nell’eradicare le Chlamydiae.

Sifilide La sifilide è raramente malattia di interesse chirurgico. Le neoformazioni nodulari cutanee caratteristiche delle lesioni secondarie sifilitiche possono entrare in diagnosi differenziale con i tumori della cute. Nelle fasi avanzate della malattia le gomme sifilitiche possono interessare il tubo digerente o causare la comparsa di tumefazioni nel fegato e a livello osseo; queste lesioni raramente possono diventare di interesse chirurgico. La diagnosi di sifilide si fonda sull’esame, in campo oscuro o con immunofluorescenza, dell’essudato a livello dell’ulcera primaria e in base agli esami sierologici. La terapia della sifilide è fondata sull’impiego di alte dosi di penicillina G.

Chlamydiae L’infezione da Chlamydiae è diventata una delle più comuni malattie a trasmissione sessuale; essa può provocare la comparsa di proctite, uretrite ed epididimite nell’uomo, e di proctite, cervicite, uretrite e malattia infiammatoria pelvica (pelviperitonite) nella donna. L’infezione da Chlamydiae può decorrere tuttavia in modo asintomatico. L’interesse chirurgico delle infezioni da Chlamydiae risiede nella possibilità di comparsa di stenosi anale in seguito a proctite ulcerativa, che può rendere necessario l’intervento chirurgico. La diagnosi di infezione da Chlamydiae si pone in base alla valutazione del titolo anticorpale e all’esame in fluorescenza dell’essudato. Le infezioni da Chlamydiae sono sensibili alle tetracicline.

Condilomi acuminati I condilomi acuminati sono lesioni papillomatose di piccole dimensioni, a forma di cavolfiore, che si presentano a livello genitale e anale, dolenti. L’infezione è causata da un papillomavirus. La malattia è di interesse chirurgico in quanto i condilomi acuminati possono diffondersi sia a livello genitale che anale con possibile formazione di stenosi, particolarmente a livello anale. Il trattamento dei condilomi acuminati si effettua mediante elettrocauterizzazione, crioterapia o exeresi chirurgica delle lesioni, o con applicazione di tintura di podofillo. Nel caso di lesioni diffuse, per evitare stenosi cicatriziali anali postoperatorie, il trattamento può essere eseguito in più tempi.

Sono molto frequenti le recidive.

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Chemioterapia antibiotica Principi di scelta dei farmaci La scelta dei farmaci da impiegare per il trattamento delle infezioni sensibili agli antibiotici può essere decisa secondo i seguenti criteri: z sulla base di una valutazione clinica, in assenza di esami di laboratorio che documentino la sensibilità agli antibiotici dei microrganismi responsabili dell’infezione; la scelta degli antibiotici si può effettuare anche sulla base del reperto microbiologico colturale, che consente spesso di selezionare l’antibiotico in base alla sensibilità abituale dei microrganismi isolati. z mirata, sulla scorta dei test di sensibilità agli antibiotici. L’efficacia dell’antibioticoterapia è direttamente proporzionale alla tempestività di impiego dei farmaci.Molto spesso il chirurgo deve fondare la propria decisione circa l’inizio dell’antibioticoterapia senza disporre dei test di sensibilità in vitro. La decisione clinica in tali circostanze si deve così articolare: z valutazione della sintomatologia legata all’infezione, con formulazione di ipotesi diagnostiche sul tipo di infezione e sul probabile agente patogeno; z scelta dell’antibiotico o della combinazione antibiotica che più probabilmente è efficace contro i microrganismi sospetti responsabili dell’infezione; z raccolta e coltura di adeguati campioni biologici (sangue, escreato, essudato, urina, ecc.) prima d’iniziare l’antibioticoterapia, così da ottenere successivamente una diagnosi microbiologica. È compito del chirurgo valutare la risposta clinica al trattamento antibiotico così da confermare la scelta terapeutica o modificarla, soprattutto se si ottengono informazioni circa la sensibilità in vitro agli antibiotici dei microrganismi patogeni isolati dal focolaio infettivo.

Esami di laboratorio per la scelta degli antibiotici Il test di sensibilità in vitro dei microrganismi agli antibiotici fornisce informazioni circa la MIC (Minimal Inhibitory Concentration) dei farmaci. È così possibile stabilire se i patogeni sono sensibili o resistenti alle concentrazioni che ciascun antibiotico abitualmente raggiunge nei liquidi biologici con i dosaggi di comune impiego. Talora non si ottiene risposta clinica al trattamento, nonostante l’antibioticoterapia mirata. Si devono allora prendere in considerazione numerosi possibili fattori di errore: z inadeguata raccolta del campione biologico (contaminazione, difetto di conservazione); z persistenza di focolai necrotici o ascessuali che non possono essere curati esclusivamente con la sola terapia antibiotica, perché il farmaco non raggiunge la concentrazione efficace a livello di tali lesioni; necessita quindi il drenaggio e la toilette chirurgica; z superinfezione con altri microrganismi o presenza di focolai di infezioni polimicrobiche, dai quali è stato isolato un solo germe; z comparsa di resistenza al farmaco somministrato. La durata della terapia antibiotica dipende dalla risposta clinica, valutabile come risoluzione dell’infezione. L’attenuazione significativa o la scomparsa dei segni generali di infezione da più di 24-48 ore, associata a significativa diminuzione dei segni locali di infezione, rappresentano i criteri fondamentali che consigliano la sospensione della terapia. Questa, tuttavia, deve essere interrotta o modificata nel dosaggio o nella scelta del farmaco se ciò è suggerito dai reperti colturali e di sensibilità o se compaiono reazioni tossiche o allergiche significative. In particolare per gli antibiotici (la maggioranza) che vengono escreti per via urinaria, è da ricordare la necessità di diminuzione del dosaggio nei pazienti affetti da insufficienza renale. 418

Vi sono farmaci notoriamente nefrotossici, mielotossici e neurotossici che possono essere impiegati a dosaggi elevati e per lunghi periodi solo se assolutamente indicati e sotto stretta sorveglianza dello stato clinico e degli esami di laboratorio rilevanti. Nei pazienti con infezioni gravi e in quelli con alterazioni della funzionalità gastrointestinale, si darà la preferenza agli antibiotici per via parenterale, che consentono di ottenere con certezza livelli ematici terapeutici. Talora può essere necessario impiegare antibiotici in combinazione. Ciò diventa necessario nel caso di: infezioni polimicrobiche con sensibilità diverse; impiego sinergico di farmaci per ottenere un effetto terapeutico superiore (per es.amoxicillina e acido clavulanico; trimethoprim e sulfametossazolo). È consigliabile evitare per quanto possibile l’associazione di più antibiotici, perché questa aumenta in modo significativo la comparsa degli effetti collaterali e delle resistenze batteriche.

Tra gli effetti secondari, che possono variare a seconda dei farmaci impiegati, va segnalata la frequente comparsa di candidiasi orale (vedi sopra); inoltre è particolarmente temibile nel paziente chirurgico la comparsa di diarrea. La patogenesi della diarrea da antibiotici è in alcuni casi legata a superinfezione da Clostridium difficile, che elabora una tossina in grado di provocare colite pseudomembranosa grave. Il Clostridium difficile è solitamente sensibile alla vancomicina.

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Letture suggerite z

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Camussi G., Montrucchio G. et al.: Septic shock – the unravelling of molecular mechanisms. Nephrol. Dial. Transplant. 10: 1808-1813, 1995. Dominioni L., Carcano G., Dionigi R.: Profilassi antibiotica delle infezioni chirurgiche. Medicina-Riv. E.M.I. 9: 1-9, 1989. Dominioni L., Dionigi R. et al.: Sepsis score and the acute-phase protein response as predictors of outcome in septic surgical patients. Arch. Surg. 122: 141-146, 1987. Dominioni L., Dionigi R. et al.: Effects of high dose IgG on survival of surgical patients with sepsis score of 20 or greater. Arch. Surg. 126: 236-240, 1991. Dominioni L., Raso M. et al.: Imaging infection in the intensive care unit. Current Opinion in Critical Care 5: 363-367, 1999. Imperatori A., Rovera F. et al.: Infections after lung resection in 252 consecutive patients. Br. J. Surg. 2001. Morris W.T.: Prophylaxis against sepsis in patients undergoing major surgery.World J. Surg. 17: 178-183, 1993.

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14 Terapia medica nel paziente chirurgico 14.1 Effetti collaterali e interazioni dei farmaci 14.2 Lesioni iatrogene 14.3 Farmaci comunemente usati in chirurgia 14.4 Malattie internistiche nel paziente chirurgico 14.5 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 14

Terapia medica nel paziente chirurgico G. Carcano, P.F. Interdonato

Effetti collaterali e interazioni dei farmaci Tossicità dei farmaci Il problema della tossicità dei farmaci si presenta con frequenza nella pratica clinica, contribuendo talora all’aumento della morbilità e della mortalità. Solo un’attenta prescrizione della terapia può ridurre questo rischio. In generale le reazioni ai farmaci si dividono in quattro categorie: z z z z

reazioni dose-dipendenti; reazioni dose-indipendenti; reazioni a lungo termine; effetti teratogeni.

Reazioni dose-dipendenti: l’iperdosaggio può essere assoluto oppure relativo. Talvolta è possibile osservare la comparsa di manifestazioni tossiche tipiche dell’iperdosaggio in conseguenza della somministrazione di farmaci in dosi terapeutiche o addirittura inferiori.Tale fenomeno può essere spiegato con la variabilità individuale di risposta ai farmaci e talvolta può essere dovuto ad interazioni farmacologiche. z

Reazioni dose-indipendenti: l’idiosincrasia e l’intolleranza sono manifestazioni tossiche acute provocate dalla somministrazione di farmaci in dosi terapeutiche o inferiori, senza che sia possibile evidenziare concause note, quali la insufficienza epatica e renale; questi fenomeni sono verosimilmente legati a carenze metaboliche individuali. z

Reazioni a lungo termine: sono prodotte da sostanze somministrate per un lungo periodo di tempo: una nefrite cronica interstiziale può essere l’esito di un trattamento prolungato con aspirina. Gli effetti possono comparire tardivamente, sviluppandosi a distanza di mesi o di anni dalla fine del trattamento. z

z Effetti teratogeni: si possono verificare in seguito ad assunzione in gravidanza di farmaci dotati di particolare tossicità.

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Quando l’uovo fecondato si impianta sulla mucosa uterina si innesca un processo morfogenetico molto rapido durante il quale può essere esercitata un’azione teratogena. Le manifestazioni cliniche del fenomeno idiosincrasico possono essere così classificate. Reazioni allergiche ritardate: eruzioni cutanee di tipo orticarioide, morbilliforme, scarlattiniforme o emorragiche, manifestazioni asmatiche. z

Reazioni tipo malattia da siero: si presentano con febbre, orticaria, linfoadenopatia, dolori articolari; esse possono insorgere anche dopo diverse settimane dalla fine del trattamento farmacologico. z

Reazioni tipo dermatite da contatto: si verificano in seguito ad applicazioni di unguenti o polveri aspersorie contenenti penicillina;presentano carattere di dermatite esfoliativa, eritema vescicolo-bolloso, glossite, congiuntivite. z

Reazione anafilattica: preceduta da sintomi quali debolezza, palpitazioni, vertigini, senso di oppressione e sudorazione è caratterizzata da cianosi, ipotensione, broncospasmo, convulsioni, edema della glottide, sincope fino all’arresto cardiaco. Insorge in genere circa mezz’ora dopo la somministrazione del farmaco. z

Interazione dei farmaci Tale fenomeno è legato a diversi meccanismi: z modalità di somministrazione dei farmaci; z modificazione dell’assorbimento, dei meccanismi di trasporto, di metabolizzazione e di eliminazione; z competizione recettoriale. L’associazione di farmaci può provocare il potenziamento di un effetto terapeutico, ma può anche condurre ad un incremento della tossicità o, addirittura, alla comparsa di effetti indesiderati, che non si presentano se i farmaci vengono utilizzati singolarmente. L’aggiunta di più medicinali nei flaconi di infusione può provocare inattivazione di alcune sostanze: l’eparina è completamente inattivata e la furosemide precipita in una soluzione di destrosio; i sali di calcio precipitano in una soluzione di sodio bicarbonato. Alcune molecole antibiotiche risultano non miscibili tra di loro in una soluzione iniettabile. Alcune sostanze interagiscono, in vivo, determinando modificazioni nell’assorbimento dei farmaci o anomalie di trasporto a livello dei siti recettoriali. Altri farmaci, infine, interagiscono a livello renale: per esempio, il fenilbutazone interferisce con l’eliminazione della cloropropamide, antidiabetico orale, causando ipoglicemia. Le interazioni farmacologiche possono avvenire, infine, per competizione recettoriale: pazienti in terapia antipertensiva possono andare incontro a severe crisi ipotensive per l’interazione di sedativi, anestetici, narcotici, analgesici, tranquillanti. I possibili effetti negativi delle interazioni farmacologiche devono essere presi in considerazione soprattutto nel periodo postoperatorio. Frequenti sono in tale periodo gli squilibri elettrolitici per assunzione di farmaci steroidei o digitalici: si possono instaurare infatti ipokaliemia e/o iponatriemia, con effetti ipotensivi e aritmogeni indesiderati. Vengono ora riassunti alcune caratteristiche ed i problemi connessi con l’uso nella pratica clinica di alcuni tra i farmaci più usati nei pazienti chirurgici.

Farmaci inibitori della secrezione gastrica 423

Sono sostanze che neutralizzano o diminuiscono gli acidi presenti nel contenuto gastrico. Gli antiacidi sono dei farmaci che agiscono tamponando l’acidità gastrica e conseguentemente riducono la sintomatologia algica, mantenendo il pH fra 3 e 5: essi ostacolano l’assorbimento di altri farmaci, quali le tetracicline, la digitale, i salicilati, mentre aumentano la disponibilità degli anticoagulanti. Va considerato inoltre che la neutralizzazione del contenuto gastrico ne incrementa la motilità e che l’eccessiva alcalinizzazione del pH permette una maggior aggressività da parte di microrganismi patogeni, come la Brucella abortus. In pazienti trattati con cimetidina, antistaminico bloccante i recettori H2,va tenuto presente che la sostanza, attraverso l’inibizione delle trasformazioni microsomiali dipendenti dal citocromo P450, può compromettere la clearance di teofillina, lidocaina, benzodiazepine. Un’altra interazione farmacologica può avvenire tra la cimetidina e i beta-bloccanti; la cimetidina interferisce aumentandone la biodisponibilità ed inibendone il metabolismo.

Farmaci antiaritmici Usati per la cura delle aritmie cardiache, presentano interazioni anestesiologiche tali per cui è necessario un monitoraggio della funzione cardiaca pre-, intra- e postoperatoria. I calcioantagonisti per esempio, hanno un effetto dromotropo e cronotropo negativo, associato ad un effetto inotropo negativo che è sfavorevole durante anestesia.

Digitale Farmaco usato in pazienti che soffrono di scompenso cardiaco per la sua proprietà di aumentare la forza di contrazione miocardica, cioè per la sua azione inotropa positiva; ed in pazienti con fibrillazione o flutter atriale, per la sua azione dromotropa negativa, riducendo il numero degli impulsi capaci di passare dagli atrii ai ventricoli. L’intossicazione digitalica si presenta con nausea,vomito,vertigini, visioni confuse, aumento dell’escrezione urinaria, diminuzione della frequenza cardiaca (fino a 35 battiti al minuto), sudorazione fredda, convulsioni, sincope ed infine la morte. Quando alla somministrazione di digitale vengono associati diuretici che causano deplezione di potassio, il rischio di intossicazione è più elevato. Tale farmaco agisce a livello del muscolo cardiaco dove, se in eccesso, determina un’alterazione dell’automatismo della ripolarizzazione e della conduzione cardiaca, fino ad un blocco completo atrio-ventricolare. Non sono rare le tachicardie giunzionali e la fibrillazione ventricolare. Gli effetti collaterali riguardanti l’apparato gastroenterico (anoressia, nausea, vomito) sono i segni precoci di un sovradosaggio digitalico. Più raramente sono presenti dolori addominali e diarrea, eruzioni cutanee scarlattiniformi ed orticarioidi, non sensibili agli antistaminici, eosinofilia, ginecomastia e sintomi extrapiramidali.  La prevenzione dell’intossicazione digitalica è resa possibile grazie al dosaggio routinario del farmaco nel siero del paziente.

Farmaci diuretici I diuretici vengono utilizzati per incrementare la formazione e l’eliminazione delle urine. La più importante indicazione al loro uso è la mobilizzazione dell’edema fluido, cioè dell’eccesso di liquido presente nel compartimento extracellulare. Le complicanze che possono insorgere sono attribuibili alla diuresi forzata: l’eccessiva rapidità con cui si riduce l’edema può portare ad astenia e 424

malessere. Un rapido cambiamento degli equilibri pressori nel sistema cardiovascolare, pur in presenza di espansione del liquido extracellulare (LEC), dà ragione della insorgenza di sintomi correlabili con uno stato ipovolemico. Se la terapia con farmaci diuretici viene condotta per molto tempo si può verificare una perdita di NaCl con una diminuzione del LEC con o senza iponatriemia.

Farmaci anticoagulanti I farmaci utilizzati nella prevenzione dei processi tromboembolici si possono dividere in quattro categorie: z sostanze che prevengono l’aggressione piastrinica (antiaggreganti piastrinici, ticlopidina, FANS); z gli anticoagulanti (l’eparina, i cumarinici); z sostanze che eliminano il fibrinogeno dalla circolazione (trombolitici); z farmaci che stimolano il sistema fibrinolitico endogeno (fibrinolitici). Numerose sono le possibili interazioni fra questi anticoagulanti e altri farmaci: gli antibiotici a largo spettro o le resine a scambio ionico impediscono l’assorbimento intestinale della vitamina K; il fenilbutazone, i salicilati staccano i cumarinici dal legame con l’albumina, aumentandone la disponibilità. Interagiscono con il metabolismo dei cumarinici a livello dei microsomi epatici la maggior parte dei sedativi ed ipnotici accelerando la loro degradazione per induzione enzimatica.  Un trattamento protratto per più di 6 mesi con eparina porta ad un decremento dell’attività dell’antitrombina III, con paradossale aumento della possibilità di trombosi, e può causare inoltre osteoporosi con fratture costali e vertebrali spontanee. L’eparina presenta effetti collaterali: reazioni ipertensive con brividi, febbre, orticaria e shock anafilattico, ma la complicanza più frequente è l’insorgenza di emorragie a carico del tratto gastroenterico e genitourinario.

Cortisonici Farmaci molto usati per le loro proprietà antinfiammatorie (ostacolano la dilatazione capillare, l’edema locale, la migrazione leucocitaria, la deposizione di collageno per la mediazione di stimoli immunologici, meccanici e chimici) vengono utilizzati, a dosi elevate, per il loro potere linfocitolitico nella terapia antirigetto dei trapianti e nelle malattie immunitarie. Tuttavia il sovradosaggio o la somministrazione per lunghi periodi provocano effetti indesiderati. Tra i più frequenti effetti collaterali si ricordano: z iperglicemia con aumento del peso e insulinoresistenza; z ipertensione; z osteoporosi (nei trattamenti prolungati oltre 6 mesi); z ulcera peptica; z pancreatiti acute ed atrofie pancreatiche; z insufficienza surrenale al momento della sospensione della terapia.

Antibiotici La tossicità intrinseca delle penicilline è modesta e molto rari sono gli effetti collaterali. I problemi clinici riguardano la chemioresistenza, la superinfezione e le reazioni allergiche. Per quanto 425

riguarda altri antibiotici, ricordiamo che dosi elevate di cefalosporine sono nefrotossiche e che l’associazione degli aminoglicosidi con farmaci diuretici, tipo furosemide, determinano necrosi del tubulo prossimale. Classici esempi di incompatibilità sono offerti dall’inattivazione di aminoglicosidi da parte di carbossipenicilline e dalla degradazione dell’ampicillina sodica in soluzione di carboidrati a temperatura ambiente. Sono numerose le interazioni tra diverse molecole antibiotiche: z incompatibilità fisiche e fisicochimiche possono essere evidenziate all’esame visivo dei preparati da somministrare (modificazioni del colore, formazione di gas, precipitati) e non comportano in genere una perdita eccessiva dell’attività antibatterica dei farmaci interessati; z incompatibilità chimiche, che determinano invece la degradazione irreversibile di uno o entrambi i farmaci, con perdita dell’attività terapeutica e spesso con formazione di composti tossici.

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Lesioni iatrogene La somministrazione prolungata di farmaci può compromettere la funzionalità di organi ed apparati. Gli effetti tossici sono talvolta importanti e tali da porre in secondo piano le azioni terapeutiche indotte dal farmaco.

Sindrome LES simile La prima segnalazione della comparsa di una sindrome LES simile indotta da sulfamidici risale al 1945: da allora innumerevoli altri casi sono stati consegnati alla letteratura.I farmaci segnalati come causa di una sindrome LES simile sono l’idralazina, la procainamide,la clorpromazina,l’isoniazide, gli anticonvulsionanti ed i contraccettivi orali.La forma più studiata è tuttavia quella indotta dalla idralazina,che si manifesta entro 2 anni dall’inizio della terapia: circa il 50% dei pazienti trattati presenta positività per gli anticorpi antinucleo specifici, diretti contro istoni e DNA a singola elica, ma di questi solo il 3% sviluppa in seguito una sindrome LES simile. Il quadro clinico si presenta con febbre, artromialgie, manifestazioni polmonari e pleuropericardiche. Il LES iatrogeno trova quasi immediata risoluzione in seguito alla sospensione della terapia.

Nefropatie Il rene è particolarmente predisposto alle lesioni da farmaci:in tale organo, infatti, vengono filtrate tutte le sostanze presenti nel sangue e moltissime di esse vengono concentrate nelle urine, perciò le varie strutture renali sono esposte a concentrazioni di sostanze chimiche estranee all’organismo,superiori a quelle con le quali vengono a contatto le altre cellule. Il meccanismo dell’azione tossica può essere: z immunologico (glomerulonefriti, vasculiti); z tossicità diretta (antibiotici, aminoglicosidi, cefalosporine, analgesici, mezzi di contrasto); z tossicità indiretta (precipitazione di sali di calcio per iperdosaggio della vitamina D).

Epatopatie A livello epatico i farmaci possono: z interferire con il metabolismo della bilirubina (fenilidrazina, vitamina K, steroidi anabolizzanti); z avere un’azione tossica diretta (tetracicline, farmaci antineoplastici); z determinare fenomeni di ipersensibilità. Quando il danno è diffuso e di discreta gravità si ha ittero.

Alterazioni del metabolismo glicidico Le interferenze dei farmaci sul metabolismo glicidico possono determinare: ridotta tolleranza ai glicidi (ACTH, glucocorticoidi, estrogeni, glucagone) e ipoglicemia (beta-bloccanti, salicilati e antiMAO).

Gastroenteropatie 427

Numerosi sono i farmaci che possono determinare alterazioni a livello gastroenterico. Spesso la sintomatologia clinica che si associa agli effetti lesivi indotti da farmaci sull’apparato gastroenterico configura una situazione addominale acuta: emorragie intestinali, ematomi parenchimali o retroperitoneali, occlusione intestinale dinamica, pancreatite.Tra i molteplici farmaci con possibili effetti gastroenterolesivi, i più frequentemente utilizzati nella pratica clinica sono i FANS. Il termine FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei) raggruppa un lungo elenco di farmaci largamente impiegati che agiscono a livello periferico, i cui capostipiti sono l’acido acetilsalicilico, il fenilbutazone, l’indometacina.Tutti i FANS sono facilmente assorbibili in ambiente acido. Questa caratteristica è estremamente importante sia perché permette un facile assorbimento a livello della mucosa gastrica, sia perché consente il raggiungimento a livello delle zone di flogosi,ove il pH è basso. I FANS alle dosi terapeutiche possono causare epigastralgie, nausea e vomito; questi sintomi sono espressione di fenomeni di irritazione a livello della mucosa gastrica, oppure di vere e proprie erosioni. Il 50-70% dei pazienti trattati con salicilati presenta sangue occulto nelle feci, talvolta emorragie intestinali macroscopiche. L’uso protratto può portare all’insorgenza di ulcere e a perforazione gastrica. I FANS possono altresì arrecare danno a livello renale con due tipi di meccanismi: lesione tissutale diretta e modificazioni funzionali conseguenti l’inibizione della sintesi di prostaglandine (PG). Da un punto di vista funzionale, in un soggetto normale, l’inibizione della sintesi renale di PG non sembra determinare squilibri; in presenza di spiccata attività renina angiotensina, è invece possibile la comparsa di ipertensione arteriosa sistemica e una riduzione del flusso ematico renale e del filtrato glomerulare.

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Farmaci comunemente usati in chirurgia La razionale somministrazione di alcuni farmaci può aiutare il chirurgo nell’adeguata preparazione all’intervento di pazienti critici e nella correzione di alcune alterazioni pre- e postoperatorie che comporterebbero un aumento della morbilità e della mortalità.

Terapia reidratante I pazienti chirurgici affetti da lesioni acute e quindi in situazione di emergenza spesso sono in un grave stato di disidratazione; in questi casi è di fondamentale importanza ripristinare l’equilibrio idroelettrolitico avvalendosi dei dati emodinamici e di laboratorio, prima di avviarli all’intervento chirurgico. In commercio esistono diverse soluzioni elettrolitiche che possono essere utilizzate in base alle necessità del caso specifico. I principali preparati sono: soluzione fisiologica che contiene cloruri in quantità superiore a quella del plasma, il cui effetto è lievemente acidificante; la soluzione di Na bicarbonato utilizzata nelle acidosi; le soluzioni elettrolitiche, glucosate, aminoacidiche e lipidiche presenti in commercio in diverse concentrazioni. Tale terapia costituisce anche un supporto fondamentale nell’immediato periodo postoperatorio per il mantenimento del ricambio idroelettrolitico, soprattutto in quelle frequenti situazioni nelle quali non è possibile l’assunzione di liquidi per via orale.

Antibiotici L’uso indiscriminato di antibiotici avvenuto negli ultimi anni ha comportato l’insorgenza di ceppi resistenti e la necessità di disporre di chemioterapici sempre nuovi. La scelta di un antibiotico deve essere dettata dall’esperienza clinica e dalla conoscenza sia del farmaco che dell’agente infettivo presumibilmente responsabile. In quasi tutti i reparti chirurgici viene oggigiorno eseguita la chemioprofilassi in pazienti candidati ad interventi pulitocontaminati, contaminati o che prevedano l’impianto di protesi. La prima somministrazione viene effettuata all’atto della preanestesia, 30 minuti prima dell’intervento e può essere seguita da una seconda e terza dose. Si preferisce utilizzare un solo antibiotico e la scelta è determinata dal ceppo batterico che verosimilmente agirà da contaminante endogeno durante l’intervento. Prima di iniziare una terapia antibiotica è corretto inviare i campioni di liquidi biologici per l’esame colturale con antibiogramma ed eseguire una colorazione di Gram,la quale fornisce in tempi brevi importanti informazioni sulla flora batterica implicata.

Analgesici e tranquillanti minori Il dolore è il sintomo più frequente per il quale il paziente si presenta al medico; è buona norma comunque accertarne le cause prima di iniziare una terapia antalgica. In chirurgia notevole importanza clinica assume la sintomatologia dolorosa postoperatoria, dovuta alla dieresi dei tessuti. Infatti il paziente, per non provocare esacerbazioni del dolore, soprattutto dopo interventi per via laparotomica, limita le escursioni respiratorie e i movimenti attivi creando i presupposti favorevoli per l’insorgenza rispettivamente di atelettasie polmonari e di tromboflebiti agli arti inferiori. Per tali motivi l’uso di analgesici maggiori sintetici come la meperidina o semisintetici come la bupremorfina, nei primi giorni dopo l’intervento, permette di ovviare alle complicanze suddette. 429

Farmaci anticoagulanti La terapia anticoagulante ha avuto negli ultimi anni, in chirurgia, una sempre più vasta applicazione. I farmaci anticoagulanti possono essere distinti in: z antiaggreganti piastrinici; z farmaci anticoagulanti propriamente detti: eparina e cumarinici; z trombolitici: urochinasi, streptochinasi e defibrotide. L’immobilizzazione e la presenza di varici agli arti inferiori predispongono all’insorgenza di tromboflebiti e conseguente rischio di embolia polmonare. L’uso dell’eparina a basso peso molecolare, della calcieparina o del defibrotide a basse dosi, somministrati nell’immediato periodo postoperatorio, hanno ridotto l’incidenza di processi trombotici. L’urochinasi e la streptochinasi sono controindicati dopo un intervento chirurgico per il pericolo di sanguinamento, ma vengono impiegati con successo nel trattamento conservativo dell’embolia polmonare e degli episodi tromboembolici. Anche gli antiaggreganti piastrinici sono dei farmaci molto utili e trovano indicazione in tutte le forme di piastrinosi e dopo interventi di splenectomia.

Diuretici I diuretici rappresentano una classe di farmaci che incrementando la escrezione urinaria e sono indicati nelle ritenzioni idrosaline e nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. L’anestesia,seppure transitoriamente,deprime la funzionalità renale; pertanto, dopo l’intervento chirurgico, soprattutto in pazienti che presentano una riduzione della filtrazione glomerulare, vi è indicazione alla somministrazione di diuretici, i quali aumentando il volume urinario riequilibrano l’omeostasi idrosalina. Nel caso in cui sia necessario un drastico decremento del liquido extracellulare si utilizzano la furosemide e l’acido etacrinico; quando invece occorre ottenere un effetto più lieve ma più prolungato,vengono impiegati i diuretici osmotici. Lo spironolattone è indicato nella cura dell’iperaldosteronismo primario e secondario e nella terapia diuretica a lungo termine.

Farmaci cardiovascolari I farmaci cardiovascolari sono molto utilizzati nei reparti chirurgici soprattutto nel periodo postoperatorio sia come mantenimento della terapia in soggetti cardiopatici, sia come cura di eventuali disturbi cardiaci insorti dopo l’intervento. Alcuni pazienti infatti tollerano male l’anestesia e lo stress chirurgico e possono presentare alterazioni anche gravi della funzionalità cardiovascolare. Il rapido riconoscimento e l’instaurazione di una terapia adeguata permettono di controllare tali complicanze. La maggior parte di questi farmaci, tuttavia, presenta numerosi effetti collaterali e pertanto la loro utilizzazione deve essere appropriata e vagliata attentamente. Tra i farmaci simpaticomimetici, la dopamina è, in confronto con le altre catecolamine, quella dotata di un minor numero di effetti collaterali. Può essere impiegata anche in fase di scompenso cardiaco; infatti, a basse dosi provoca una dilatazione delle coronarie e delle arteriole renali. È frequente nel postoperatorio l’insorgenza nel paziente cardiopatico di aritmie che necessitano di trattamento. La chinidina, i farmaci beta-bloccanti, i calcioantagonisti e la digitale vengono di volta 430

in volta impiegati per la loro azione antiaritmica. La nitroglicerina è particolarmente efficace nel dolore anginoso, anche se altri farmaci, come alcuni calcioantagonisti, hanno acquistato un’importanza considerevole nel trattamento dell’angina pectoris.

Farmaci che agiscono sulle attività dell’apparato digerente e sulla vescica Esofago-stomaco-duodeno: gli antiacidi,prima della scoperta dei farmaci bloccanti i recettori dell’istamina, rappresentavano il trattamento fondamentale dell’ulcera peptica. Neutralizzando l’acidità gastrica, senza tuttavia rendere alcalino il pH, riducono il dolore e diminuiscono l’attività della pepsina. Con l’avvento dei farmaci anti-H2 è andato sempre più diminuendo il numero degli interventi per ulcera gastroduodenale e la terapia chirurgica è indicata solo per le complicanze della malattia. I farmaci anti-H2, per il controllo modulato della secrezione acida, vengono impiegati non solo come trattamento dell’ulcera peptica, ma anche come prevenzione di quei pazienti particolarmente predisposti ad emorragie gastriche e in terapia con cortisonici. L’omeprazolo infine rappresenta il capostipite della più recente classe di farmaci antisecretori che inibiscono la secrezione di acido cloridrico bloccando l’attività dell’enzima H+ K+ ATPasi. z

Pancreas: la somatostatina, ormone del sistema APUD, è una sostanza introdotta da pochi anni in commercio, che trova molte indicazioni in ambiente chirurgico. Infatti viene somministrata a pazienti con emorragie del tratto gastroenterico, nelle flogosi acute e nelle fistole pancreatiche. Può essere utile nella prevenzione delle complicanze nella chirurgia resettiva del pancreas. z

z Vescica: nella atonie vescicali postoperatorie è indicato un farmaco parasimpaticomimetico: il betanecolo,che agisce con una certa selettività sulla muscolatura liscia vescicale.

Ormoni Nella pratica chirurgica l’ormone che più frequentemente viene utilizzato è sicuramente l’insulina. L’insulina viene somministrata non solamente nei pazienti diabetici operati, ma anche in casi di iperglicemie iatrogene. Infatti per via sottocutanea o introdotta direttamente nei contenitori delle soluzioni glucosate ipertoniche, seguendo particolari precauzioni, può essere utilizzata nei soggetti sottoposti a supporto nutrizionale artificiale.

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Malattie internistiche nel paziente chirurgico In chirurgia generale è molto importante eseguire, oltre che una scrupolosa anamnesi ed un attento esame obiettivo, anche uno studio accurato della funzionalità cardiovascolare, respiratoria, renale ed epatica. Infatti, grazie al progresso e allo sviluppo delle tecniche anestesiologiche che utilizzano metodiche molto sofisticate, sono sempre più numerosi i soggetti con compromissione d’organo di vario tipo e grado, che vengono sottoposti ad intervento chirurgico. Per tale motivo una adeguata preparazione dei pazienti e una corretta valutazione del rischio chirurgico permettono di prevenire o di ridurre non solo le complicanze strettamente legate all’intervento, ma anche quelle conseguenti alle patologie associate.

Malattie cardiovascolari L’incidenza nel periodo postoperatorio dell’infarto del miocardio, che è molto bassa (0,8%) in pazienti senza precedenti di cardiopatia, aumenta in modo significativo in pazienti coronaropatici che hanno subíto uno o più episodi ischemici. Molti studi confermano che se l’intervallo di tempo fra l’infarto del miocardio e l’intervento chirurgico è inferiore ai 6 mesi, la mortalità, a seconda delle statistiche, varia dal 37 al 50%. Anche la durata dell’anestesia aumenta il pericolo di reinfarto, che ha un’incidenza del 16% quando l’intervento supera le 3 ore.  È necessario pertanto, nei casi di chirurgia elettiva, procrastinare l’intervento chirurgico di almeno 6 mesi dall’infarto per diminuire il rischio di un ulteriore episodio ischemico, e comunque eseguire sempre una valutazione emodinamica per controllare la funzionalità cardiaca. I disturbi del ritmo cardiaco devono essere osservati attentamente e monitorizzati nel periodo postoperatorio. I blocchi atrioventricolari di II e III grado pongono l’indicazione al posizionamento, anche temporaneo, di uno stimolatore cardiaco.

Epatopatie I farmaci ed i gas utilizzati durante l’anestesia vengono metabolizzati dall’epatocita e possono essere causa di lesioni epatiche; se, inoltre, la funzionalità del fegato è già compromessa prima dell’intervento chirurgico il rischio di epatiti tossiche è molto elevato. La valutazione preoperatoria della funzionalità dell’epatocita con la determinazione degli enzimi epatici, della bilirubinemia, dell’elettroforesi sieroproteica, della sideremia, dell’ammoniemia rappresenta la tappa iniziale per lo studio del paziente epatopatico candidato all’intervento chirurgico. Ciò permette non solo di prevedere il danno postoperatorio, ma anche di attuare un adeguato trattamento di preparazione all’intervento stesso. Infatti, la normalizzazione dell’albumina, la riduzione dell’ammoniemia, la somministrazione di neomicina e lattulosio, di glucosio e di aminoacidi a catena ramificata costituiscono i canoni fondamentali su cui si basa il trattamento preoperatorio dell’epatopatia. In casi di ittero ostruttivo si rendono necessari anche la somministrazione della vitamina K per via parenterale ed il controllo frequente del PTT e del tempo di Quick. Infatti, in questi casi è alto il pericolo di emorragie postoperatorie dovute alla diminuzione dei fattori della coagulazione vitamina K dipendenti ed alle turbe dei meccanismi coagulativi per le gravi alterazioni della funzionalità epatica. 432

Broncopneumopatie Anche nei pazienti affetti da broncopneumopatie croniche la valutazione preoperatoria della funzionalità respiratoria è essenziale. Infatti, l’asma bronchiale, l’enfisema e le bronchiectasie sono tutte cause predisponenti a complicanze polmonari postoperatorie, che hanno un’incidenza 5 volte maggiore rispetto a quella riscontrata nei soggetti sani.  L’esecuzione della prova spirometrica, la determinazione dell’emogasanalisi e la saturimetria permettono di ottenere un’accurata conoscenza sullo stato funzionale respiratorio dei pazienti. Infine l’astensione dal fumo, l’utilizzazione dei mucolitici e soprattutto della fisioterapia iniziata diversi giorni prima dell’intervento e continuata nel postoperatorio riducono in modo significativo le complicanze respiratorie postoperatorie.

Obesità I soggetti con peso corporeo superiore del 20% al peso ideale che devono essere avviati alla sala operatoria sono da considerarsi pazienti ad alto rischio. Infatti, oltre alla presenza di eventuali malattie associate come il diabete e l’aterosclerosi, già all’atto dell’intervento il chirurgo può trovare indaginosa anche la semplice manovra di esposizione del campo operatorio. L’alterazione della respirazione e l’immobilizzazione che caratterizzano l’immediato postoperatorio di questi pazienti possono rappresentare dei momenti causali molto importanti nel favorire l’insorgenza di complicanze anche gravi, quali polmoniti e tromboflebiti.

Diabete In tutti i diabetici candidati all’intervento chirurgico è corretto eseguire un profilo glicemico. Questo permette di avere una esatta valutazione della malattia diabetica e rende più agile e sicura la sua correzione non solo durante l’intervento, ma anche nel postoperatorio; lo studio e una corretta preparazione del paziente all’intervento rendono meno probabile la comparsa di complicanze metaboliche dovute alla iperglicemia. I farmaci antidiabetici orali e l’insulina lenta devono essere sospesi ed è opportuno instaurare una terapia con insulina pronta. L’esecuzione dell’equilibrio acido-base, il dosaggio del glucosio e dell’acetone nelle urine e il monitoraggio della glicemia permettono di controllare e prevenire la complicanza postoperatoria più frequente nel paziente chirurgico: l’acidosi metabolica.

Insufficienza renale La terapia infusionale e i farmaci usati in corso di anestesia possono instaurare o aggravare uno stato di insufficienza renale anche lieve. Una corretta valutazione del filtrato glomerulare e il dosaggio della azotemia e della creatininemia permettono di instaurare, nel periodo preoperatorio, una terapia che prepari il paziente all’intervento. Infatti, l’idratazione con soluzioni glucosate o fisiologiche nei casi a rischio, ha una funzione preventiva.  La diuresi deve essere superiore a 50 ml/ora e la sua stimolazione con diuretici si rende necessaria quando è costantemente al di sotto di tali valori. 433

Il monitoraggio della PVC e degli elettroliti forniscono ulteriori notizie utili per la correzione degli squilibri idroelettrolitici.

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Letture suggerite z

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Glasser S.P. et al.: When cardiac patients become surgical patients. Hosp. Pract. (March) 14: 165, 1979. Griffith G.L. et al.: Acute reversible intrinsic renal failure. Surg. Gynecol. Obstet. 146: 631, 1978. Kim P.S. et al.: Acute pain management of the surgical patient. Contemp. Surg. 55: 84, 1999. Meyer E.J. et al.: Diabetic management by insulin infusion during major surgery. Am. J. Surg. 137: 323, 1979. Moroni M., Esposito R.: La profilassi delle infezioni chirurgiche. Malattie Infettive, UTET, Torino, 1991. Smiddy F.G. et al.: Medical therapy in surgical practice. In: Cuschieri A. et al.: Essential Surgical Practice. Wright PSG, Bristol, 1990. Townsend C.M., Sabiston R.: Textbook of surgery.W.B. Saunders Co., Philadelphia, 2001.

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15 Nutrizione del paziente chirurgico 15.1 Cenni storici 15.2 Vari tipi di malnutrizione 15.3 Valutazione dello stato nutrizionale 15.4 Esigenze nutrizionali e substrati disponibili 15.5 Fisiopatologia della denutrizione 15.6 Metodi di supporto nutrizionale artificiale 15.7 Nutrizione parenterale 15.8 Nutrizione enterale 15.9 Letture suggerite

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Sezione I - Aspetti generali

Capitolo 15

Nutrizione del paziente chirurgico P. Dionigi, L. Dominioni, T. Cebrelli, V. Jemos,