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[Dom] DOMANOVSZKY, ENDRE. – Filosofo ungheDomanovszky rese d’indirizzo hegeliano, n. a Budapest nel 1817, m. a Tótkomlós nel 1895. Discepolo di J.E. Erdmann, solo a 59 anni divenne professore universitario a Nagyszeben. Subì l’influsso di Erdmann e la sua filosofia assunse un’impronta hegeliana. Pur non seguendo pedissequamente Hegel, non sostituì nulla di nuovo alle costruzioni hegeliane. Restò lontano dalle polemiche del tempo, che si svolgevano fra positivismo e neokantismo, e si dedicò alla storia della filosofia. Acuto e profondo il suo libro A philosophia története (Storia della filosofia, Budapest 1870-90, 4 voll.) rimasto incompiuto (non oltrepassa il Rinascimento). S’occupò di varie figure dell’umanesimo: il suo argomento preferito fu la dottrina di Machiavelli, cui dedicò vari saggi, fra cui: Machiavelli Miklós politikája (La politica di Niccolò Machiavelli, in «Magyar Philosophiai Szemle», 8, 1889, pp. 344-384) e Machiavelli «Fejedelme» (II «Principe» del Machiavelli, ibi, pp. 430-450). Altre opere: A bölcsészet skükségképeni tudomány (La filosofia come scienza necessaria), Budapest 1872; A logica fogalma (Il concetto della logica), ivi 1874; Dante, ivi 1888. T. Hanak BIBL.: B. ALEXANDER, Domanovszky Endre, Budapest 1904.
DOMAT, JEAN. – N. nel 1625 e m. nel 1696, Domat Domat, esponente della filosofia del diritto giansenista, è considerato uno dei precursori della codificazione napoleonica, poiché ha avuto il merito di dare una prima sistemazione alle fonti del diritto in Francia nel suo capolavoro: le Loix civiles dans leur ordre naturel (pubblicate insieme al Traité des loix tra il 1689 e il 1694, mentre il Droit public vide la luce postumo nel 1697). Il «giansenismo» di Domat si colloca idealmente di fronte alla teologia della seconda scolastica e al giusnaturalismo di Grozio: ma è una concezione che non coincide completamente né con l’Augustinus di Giansenio né con le opere di morale o di logica di Port-Royal. Per capire il suo sistema giuridico, è necessario fare riferimento alla sua antropo-
logia e alla sua metodologia. Bisogna comprendere come è fatto l’uomo, qual è la sua natura; e per comprendere la natura dell’uomo, bisogna capire qual è il suo fine. Ora il vero fine dell’uomo è Dio; solo il possesso di Dio dà all’uomo la beatitudine. Ma in questa concezione cristiana tradizionale si fa luce un nuovo taglio metodologico, vicino al Discours de la méthode cartesiano. Il metodo scientifico per eccellenza è il metodo deduttivo, che pone certi assiomi e ne trae tutte le conseguenze di cui si compone il sistema. Sul tronco antropologico giansenistico (o piuttosto agostiniano) si innesta una mentalità geometrica. Domat pone così due principi fondamentali, che si convertono in altrettante leggi: l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo. Poi viene inserita una distinzione fondamentale, fra leggi immutabili e leggi arbitrarie. «Le leggi immutabili si chiamano così perché sono naturali e talmente giuste sempre e dappertutto che nessuna autorità può cambiarle o abolirle; e le leggi arbitrarie sono quelle che un’autorità legittima può stabilire, cambiare o abolire secondo il bisogno» (Traité des loix, XI, 1); le leggi immutabili, poi, «sono tutte quelle che sono conseguenze necessarie delle prime due». Si capisce così, in prima approssimazione, che leggi immutabili e leggi arbitrarie sono differenti, perché divergono anche nella loro origine. Le prime riposano sulle prime due leggi, di cui rappresentano un’estensione; esse sono divine, perché trovano la loro giustizia «nella legge divina che ne è la fonte», e naturali, perché Dio le ha scolpite nella nostra natura e «le ha rese così inseparabili dalla ragione che questa basta a conoscerle». Invece le leggi arbitrarie procedono dal legislatore umano per cause molteplici e variegate. Per decifrare questo complesso sistema è necessario confrontarlo con le grandi caratteristiche del giusnaturalismo secentesco. Per quanto riguarda il razionalismo, a Domat è stato attribuito il titolo di «Descartes de la jurisprudence» (Jouvet-Desmarand); e davvero, nell’impiego strategico dei concetti di ordine e di metodo, egli «sembra aderire per più di un aspetto al progetto 3055
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Domenico de’ Domenici cartesiano, adesione che giunge perfino ad accentuare, in certi punti, la dimensione razionalistico-deduttiva della méthode» (Adinolfi). Tuttavia è bene tenere presente il carattere strutturalmente ambivalente del suo pensiero. L’ambivalenza è dovuta sia al «tentativo di conciliare il pensiero giuridico della tradizione giurisprudenziale culta con quel razionalismo di ispirazione cartesiana, che, sul finire del Seicento, stava per aprire le porte alla modernità e alla secolarizzazione della cultura e della società europea» (Sarzotti); sia al fatto che, partendo da una concezione non razionalistica (l’antropologia agostiniana), Domat segue poi nella propria metodologia dei canoni affini al matematismo cartesiano. Sotto il profilo dell’individualismo v’è un punto del suo pensiero, che potrebbe far presagire un risultato in tal senso: è là dove Domat, riprendendo con Nicole e Pascal terminologia e temi dell’antropologia giansenistica, afferma che l’uomo, in statu viae, è spinto ad agire fondamentalmente dall’amour-propre: e questo non è il doveroso rispetto verso se stessi, ma è l’amore egoista. Tuttavia questo pessimismo subisce una sorta di rovesciamento: anziché far scaturire dall’amour-propre un bellum omnium contra omnes, Domat pensa che la divina provvidenza se ne serva paradossalmente per consolidare i legami sociali. Non si può, infine, affermare che Domat offra una visione laicistica del diritto: non v’è in lui separazione fra il mondo della religione e quello del diritto. «La force de cette oeuvre est pour partie de rester fidèle, dans leur hétérogénéité même, aux convictions et aux inquiétudes qui furent celles d’une grande partie des esprits de son temps, et de montrer comment, en matière de droit, ces thèmes qui s’entrelacent et parfois s’entrechoquent chez lui, conduisent à poser comme nécessaire, un bouleversement des méthodes traditionnelles de la science du droit» (M.-F. Renoux-Zagamé). F. Todescan BIBL.: N. MATTEUCCI, Jean Domat un magistrato giansenista, Bologna 1959; C. VENTIMIGLIA, Società, politica, diritto. Il cristiano e il mondo in Pascal e Domat, Parma 1983; F. TODESCAN, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico, vol. II, Milano 1987; M.-F. RENOUX-ZAGAMÉ, Domat, le salut et le droit, in «Revue d’Histoire des Facultés de Droit et de la Science Juridique», 8 (1989), pp. 69-111; C. SARZOTTI, Jean Domat. Fondamento e metodo della scienza giuridica, Torino 1995; M. ADINOLFI, L’esperienza giuridica in Jean
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Domat, in «Il Pensiero Politico», 31 (1998), pp. 239270; Y.CH. ZARKA, Philosophie et politique à l’âge classique, Paris 1998, cap. XIII; C. SARZOTTI, Domat criminalista, Padova 2001.
DOMENICO Domenico de’ Domenici DE’ DOMENICI. – Maestro d’arti e di sacra teologia, n. a Venezia nel 1416, m. a Brescia il 17 febbr. 1478. Laureatosi a Padova nel 1436, fu vescovo di Torcello dal 1448 al 1464 e quindi vicario generale di Roma. Scrisse opere di teologia, filosofia e astrologia, molte delle quali sono ancora inedite. Da ricordare il De potestate pape et terminus eius (ed. a cura di H. Smolinsky, Münster 1976) intorno alle relazioni tra la chiesa e lo stato, con argomenti tratti anche da Aristotele: l’unità del fine ultimo, comune a tutti gli uomini, postula l’unità del regime (cfr. G. Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, Venezia 1752-54, vol. I., pp. 386-439). A. Tognolo BIBL.: R. AUBERT, s. v., in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, Paris 1912-, vol. XIV, coll. 584-588; M. GRABMANN, Studien über den Einfluss der aristotelischen Philosophie auf die mittelalterlichen Theorien über das Verhältnis von Kirche und Statt, «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse», vol. II, München 1934; H. JEDIN, Studien über Domenico de’ Domenichi, «Abhandlungen der Geistes- und Sozialwissenschaftlichen Klasse», vol. V, Wiesbaden 1957.
DOMENICO DI FIANDRA (Domenico di Domenico di Fiandra Flandria). – Filosofo e teologo tomista, domenicano, n. a Merris (o Merville; dipart. del Nord) nel 1425 ca., m. a Bologna il 16 lug. 1481. Studia a Parigi, insegna a Bologna (1462-70) e a Firenze (1471-72); poi, per volere di Lorenzo il Magnifico, insegna fisica all’Accademia di Pisa; nel 1478, infine, è chiamato a reggere lo studio domenicano di Firenze. Presso i contemporanei Domenico di Fiandra poté godere di larga fama, particolarmente come logico sottile e rigoroso; oggi gli si riconosce un certo talento nell’analisi, benché talvolta eccessivamente sottile, che non manca di originalità e di profondità. Tra le opere principali si devono ricordare: In XII libros Metaphysicae Aristotelis secundum expositionem Angelici Doctoris lucidissimae atque utilissimae quaestiones (Venetiis 1499; 1637; Coloniae 1621; ripr.
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New York - Frankfurt 1967); Quaestiones in Thomae de Aquino Commentaria super libros Posteriorum (Venetiis 1514; ripr. Frankfurt 1967); Expositio super tractatum Thomae de Aquino De fallaciis (Venetiis 1507 ss.); Quaestiones et annotationes in tres libros De anima, cum commentariis sancti Thomae in eosdem (Venetiis 1503 e 1518); Quaestiones quodlibetales (Venetiis 1500). L’essere assoluto e incondizionato è assolutamente uno in quanto è pura realtà che non patisce negazione. Ora, è proprio la negazione a determinare la differenziazione fra gli esseri e, perciò, la distinzione fra gli individui reali. Tale distinzione può essere fondamentalmente di quattro tipi: essenziale, che riguarda la natura stessa dell’essere (per es., fra finito e infinito, essere o non essere); reale, quando gli esseri differiscono per proprietà fondamentali, pur risultando del medesimo genere in quanto provvisti della medesima natura (per es., uomo e animale); formale, quando gli esseri differiscono per il grado o l’intensità delle proprietà (per es., uomo e Dio per quanto riguarda la ragione); logica, quando la distinzione appare da un confronto operato dal soggetto (per es., il caso in cui il soggetto considera maggiori o minori l’uno dell’altro individui reali della medesima natura). A. Cardin BIBL.: H. HURTER, Nomenclator literarius theologiae catholicae, Innsbruck 1903-133 (ripr. Cambridge 1962), vol. II, coll. 997-98; U. SCHIKOWSKI, Dominicus de Flandria O. P.: sein Leben, seine Schriften, seine Bedeutung, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», 10 (1940), pp. 169-221; L. MAHIEU, Dominique de Flandre: sa métaphysique, Paris 1942; M. MARKOWSKI, Definicje substancji w «Komentarzn do Metafizyki» Dominika z Flandrii, in «Studia Mediewistyczne», 5 (1964), pp. 19-52 (riassunto in francese, pp. 52-54); A.F. VERDE, Domenico di Fiandra, intransigente tomista non gradito nello studio fiorentino, in «Memorie Domenicane», 7 (1976), pp. 304-321; F. RIVA, L’analogia dell'ente in Domenico di Fiandra, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 86 (1994), pp. 287-322.
DOMINIO (rule; Herrschaft; domain; dóminio). Dominio – La nozione di dominio possiede una sua connotazione già nel periodo arcaico e classico della grecità. La civiltà greca arcaica, fondata su modelli eroici, è essenzialmente imperniata sulla violenza come suo nucleo semantico originario, ma riflette anche sull’idea di dominio, cui dà dei connotati negativi. L’unico dominio legittimo, ancorché spesso crudele e
Dominio sempre imperscrutabile, è quello degli dei: l’eroe al contrario non deve mai improntare il suo comportamento in modo da generare hybris. Nell’età classica della filosofia, invece, la riflessione sul dominio investe interamente l’ambito umano, e anche qui si mescola al concetto di violenza, inteso stavolta come sopraffazione a opera del tiranno e prevaricazione dei più forti. In quest’epoca compaiono tanto le prime teorizzazioni sulla legittimità del dominio in generale, quanto, specialmente sotto l’influsso della sofistica, le prime posizioni che legittimano apertamente il dominio nella sua accezione negativa. Contro di esse si scaglia risolutamente Platone: la Repubblica non solo è la confutazione di tali teorie (libri I-II), ma soprattutto è il tentativo di fondare il dominio come positività semantica ed etica, cioè come esercizio del potere secondo giustizia. La risposta platonica, che oscilla tra ottimismo speculativo e pessimismo storico, risulta alla fine un compromesso tra i due: prova ne sia il fatto, non certo marginale, che i reggitori dello stato perfetto sono sì filosofi, ma anche guerrieri. L’inevitabilità della forza, come elemento che indebolisce il tentativo teorico di costruire tale filosofia del dominio positivo, ritorna nel Politico, dove le figure del filosofo e del reggitore dello stato vengono separate e dove la realizzazione di un dominio positivo privo dell’apporto della forza viene spostata nel tempo mitico in cui legislatore era il daímon (Politico, 271 b - 272 d). Tale soluzione, che seguita a non rispondere al problema di un’implicita negatività intrinseca alla storia, probabilmente non soddisfaceva Platone, che nelle Leggi ritorna a una posizione più simile a quella della Repubblica, ma senza aver risolto il problema. Se il dominio commisto alla forza è per Platone in qualche modo accettabile, o quanto meno indifferibile, in Aristotele, essendo che per lui la vita felice è la vita virtuosa, il dominio appare depotenziato nelle sue potenzialità pericolose dall’esercizio della media virtus. La brama di onori, comunque, non di dominio, è la molla che spinge alcuni a occuparsi di politica (Etica Nicomachea, I, 3, 1095 b 22-23). La migliore riflessione sul dominio in ambito greco appartiene però a Tucidide. Nel dialogo tra i meli e gli ateniesi (Bellum Peloponnesiacum, libro II), l’opinione dell’autore, sebbene non dichiarata, è implicitamente di condanna per ogni uso prevaricatore della forza mascherato da ragioni di ne3057
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Dominio di sé cessità politica, la cui radice l’autore fa risalire al moltiplicarsi dei bisogni, e quindi della ricchezza e dei commerci, proprio alle comunità democratiche. L’ambito cristiano accoglie e acuisce l’aporia platonica tra il tentativo di formulare una positività teoretica del dominio e l’inevitabilità della forza, nella separazione tra città terrena e città divina: così, per Agostino, gli stati non sono se non «magna latrocinia» (De civitate Dei, IV, 4), la cui gloria procede in realtà dalla legittimità dei vincitori. Il dominio diviene però oggetto filosofico precipuo solo a partire dalla modernità. Giustificando i mezzi col fine, il Principe di Machiavelli compie in realtà il passo fondamentale di porre apertamente per la prima volta il dominio come fine in se stesso. Se si escludono le scuole giusnaturalista e hobbesiana, che favoriranno l’idea di un dominio anche ingiusto e tirannico purché eviti l’anarchia, il filone razionalistico della modernità (coronamento del quale sarà lo scritto kantiano Sulla pace perpetua del 1795) tenderà a condannare ogni abuso del dominio, cercando, come Spinoza, di darne una fondazione razionale e non basata sul superamento contrattuale dello stato di natura nella descrizione dello stato forte attuata nel Trattato teologico-politico (1670); questo, pur non giungendo ancora a dare una risposta teorica convincente al problema del giusto dominio e del suo rapporto con l’inevitabilità della forza. L’idealismo hegeliano, col suo brutale richiamo all’insuperabilità dell’orizzonte storico, introduce la temperie contemporanea, che fondamentalmente giustifica il dominio, spesso anche nelle sue accezioni più violente, come insopprimibile componente della volontà e progettualità umane. Il marxismo e tutti i filoni rivoluzionari che ne discendono fino a Lenin e Mao parleranno di necessità, per la rivoluzione proletaria, di instaurare un dominio dittatoriale e di recare con sé la violenza come conseguenza necessaria. Un filone più esistenziale e irrazionalistico, che ha invece per capostipite F. Nietzsche, pone il dominio come autoaffermazione di sé: il dominio diviene l’unica possibile salvezza per l’individuo in un mondo retto ormai da strutture sempre più impersonali. A questo filone si possono anche ricondurre tutte le teorizzazioni di gusto decadentistico, che vedono nella realizzazione di un ideale estetico l’affermazione del dominio di sé, nonché la singolare riflessione di G. Sorel sulla legittimità della violenza. Di contro al dila3058
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gare del dominio inteso come oggettivazione del mondo e conferimento di senso ad esso a opera di una soggettività assoluta, le posizioni di M. Heidegger e S. Freud costituiscono le due eccezioni più rilevanti. Il primo ha il merito di aver evidenziato come in realtà l’idea di dominio sia centrale alla filosofia in quanto tale sin dai suoi esordi greci, e pone nell’abbandono di ogni orizzonte legato al dominio il definitivo superamento di tale eredità metafisica (posizione approfondita, per strade diverse, da J. Derrida e soprattutto da E. Levinas); il secondo trova un concetto positivo e non sopraffacente di dominio come affermazione di sé nella liberazione del soggetto dai pesi costituiti dalle memorie inconsce. Entrambi rifiutano fermamente l’equazione tra esistenza autentica e legittimazione immoralistica del dominio. Negli ultimi decenni, con l’esaurirsi del filone marxista e di quello esistenzialistico, il dibattito sul dominio ha ripreso connotati più classici, ossia si è nuovamente spostato sull’interrogazione se esista la possibilità di fondare teoricamente un dominio giusto, e quali siano, se vi sono, le ragioni per l’uso della forza. Accentuato dall’evolversi dell’economia e delle dinamiche sociali in senso globale, tale riflessione sul dominio si orienta oggi verso l’estensione dei diritti alla popolazione dell’intero pianeta, ma vede anche l’interrogazione critica verso ogni forma di egemonia globale nella discussione dell’idea di «impero»; coinvolge processi di trasformazione politica tendenti ad aggregazioni supernazionali, come l’allargamento dell’Unione Europea; e interroga infine la nozione di dominio dell’uomo sulla natura mettendo in discussione il tradizionale portato umanistico dell’uomo al centro dell’universo e ridiscutendo il suo posto nell’ordine naturale inteso come unica reale struttura di riferimento. C. Chiurco ➨ FORZA E DIRITTO; IMPERO; VIOLENZA.
DOMINIO Dominio diDI sé SÉ (self-control; Selbstbeherrschung; maîtrise de soi-même; dominio de sí). – Il dominio di sé può essere inteso sia come figura antropologica sia come figura morale. Nella prima accezione, esso indica la strutturale capacità di disporre liberamente dei propri atti; nella seconda, invece, indica l’abituale capacità di orientarli in modo coerente col proprio giudizio morale, vincendo l’avversità delle circostanze fattuali e passionali.
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SOMMARIO: I. In senso antropologico. - II. In senso morale. I. IN SENSO ANTROPOLOGICO. – Plotino riconosce il pieno autodominio solo all’essere; mentre non sarebbe sensato attribuirlo all’uno, nel quale nessuna distinzione formale tra dominante e dominato avrebbe fondamento. L’uomo, in quanto partecipe dell’essere che lo signoreggia, può dirsi in qualche modo, già in questa vita, «signore [kuvrio"] di sé» (Enn., VI 8, 12). Tommaso d’Aquino parla di dominium sui actus, per indicare la capacità di esercitare il libero arbitrio, che differenzia l’uomo dalle creature irrazionali (Sum. theol., Ia-IIae, q. 1, artt. 1-2). Dunque, «siamo signori dei nostri atti, in quanto possiamo scegliere questo piuttosto che quello» (Sum. theol., I, q. 82, art. 1). Un importante commentatore cinquecentesco di Tommaso, Francisco De Vitoria, fonda proprio sul dominium sui actus, di cui anche gli indiani d’America sono capaci, il loro diritto ad essere proprietari delle terre che abitano; diversamente dai bruti, i quali, non avendo dominio su se stessi, neppure possono averne su altro da sé (cfr. De Indis relectio prior, I, 12). Spinoza, invece, ritiene che la tesi secondo cui l’uomo avrebbe «una assoluta potenza sulle proprie azioni», sia un pregiudizio; da cui deriva l’errore di attribuire «la causa dell’impotenza e dell’incostanza umane, non alla comune potenza della natura, bensì a non si sa qual vizio dell’umana natura» (Ethica, s. l. 1677, tr. it. di S. Giametta, Etica, Torino 1959, parte III, Prefazione). Anche Kant tratta il tema del dominio di sé, in riferimento a quello della libertà: «La libertà interna esige due condizioni: esser padroni di noi stessi in un caso dato (animus sui compos), e avere una assoluta padronanza su di noi (imperium in semetipsum), cioè poter moderare i propri moti d’animo e dominare le proprie passioni» (Metaphysik der Sitten, in AA, vol. VI, p. 407, tr. it. di G. Vidari, revisione di N. Merker, La metafisica dei costumi, Roma-Bari 1983, p. 261). Schopenhauer, a sua volta, vede nella capacità di dominare il proprio agire, la differenza che specifica l’uomo dai bruti (Preisschrift über die Grundlage der Moral [1841], in Sämtliche Werke, a cura di A. Hübscher, vol. IV, Wiesbaden 19502, p. 215). Certo pensando a Kant, alcuni autori più recenti hanno visto nel dominio di sé una figura discutibile, in quanto implicante qualche forma di dualismo antropologico (quasi ci fosse, in noi, un io che controlla un altro io). Tra que-
Dominio di sé sti, Fritz Mauthner (cfr. Wörterbuch der Philosophie, Leipzig 1923-242), ma anche Otto F. Bollnow, il quale, oltretutto, interpretando il dominio di sé come un controllo innaturalmente esercitato sugli slanci affettivi, preferisce parlare di «Besonnenheit» o di equilibrio interiore (Wesen und Wandel der Tugenden, Frankfurt am Main 1958). Ma questo già ci porta alla seconda accezione del termine. II. IN SENSO MORALE. – Il dominio di sé, nella accezione morale, indica il genere di alcune possibili declinazioni specifiche, tra loro non sempre facilmente discernibili: principalmente enkráteia e sophrosýne, che alcuni identificano nella complessiva figura della temperanza, altri distinguono come introduzione, la prima, alla seconda; altri ancora (nel Novecento) contrappongono l’una all’altra. L’autocontrollo fu sentito fin dalla gnomica più antica e dalla filosofia presocratica come un dovere, anche sociale (cfr. Democrito, in F.W.A. Mullach, Fragmenta philosophorum graecorum, Parisiis 1860-81, vol. I, p. 345: «Vincere se stesso è la prima e migliore di tutte le vittorie; l’essere vinto da sé è quanto mai turpe e cattivo»; Antifonte Sofista, in H. Diels [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1903, 3 voll., poi a cura di H. Diels e W. Kranz, Berlin 1934-375, 1951-526 [rist. Zürich 1996], 87 B 58: «Non di alcun altro uomo si deve giudicar retta la saggezza se non di colui che [...] è riuscito a dominare e a vincere se stesso da sé»). Nella filosofia socratica la padronanza di sé (’ejgkravteia) è posta come libertà spirituale contro la schiavitù dell’intemperanza (Senofonte, Memorabilia, IV, 5, 5: th;n kakivsthn douleivan oiJ ’ajkratei'" douleuvousin); ed è celebrata in quanto capace di dare la swfrosuvnh: l’assennata serenità dell’animo (Platone, Carmide). Le scuole socratiche minori continuano su questa strada con la teoria cirenaica del «dominare il piacere» (cfr. Fragmenta philosophorum graecorum, cit., vol. II, p. 412: «Domina il piacere non chi se ne astiene, ma chi ne usa senza però lasciarsene dominare»), e col precetto cinico della «libertà dalle cose esterne» (ibi, p. 329: «Ho domato atleti fortissimi [...]: la povertà [...], e la belva più crudele e ingannevole di tutte: il piacere»). Già in questi sistemi il dominio di sé è un aspetto particolare del «bastare a se stessi». In Platone il dominio di sé è uno dei temi dominanti della Repubblica (IV, 430 e - 443 b). Qui, l’espressione kreivttwn aujtou' («padrone di sé») viene considerata nella sua problema3059
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Dominio di sé ticità: sembra, infatti, «che tale espressione voglia significare che nella medesima persona ci sono due anime: l’una migliore e l’altra peggiore; e quando la natura migliore domina la peggiore, si dice che si è padroni di se stessi». L’aporia viene poi sciolta introducendo la nota articolazione, nell’anima e nello stato, tra l’elemento regolatore (logistikovn) e il regolato (ejpiqumhtikovn). Il dominio di sé vale, platonicamente, non solo all’interno dell’uomo – come via di purificazione dell’anima e liberazione dal corpo (Phaed., 65 a) –, ma anche all’interno della vita sociale (Leg., 689 b), dove, per la salute dello stato, la moltitudine deve stare soggetta a chi ha l’autorità per governare e alle leggi. Aristotele, nella sua trattazione sulle virtù, si intrattiene su alcune precisazioni relative al dominio di sé. Anzitutto, egli distingue tra enkráteia e sophrosýne, in quanto il primo atteggiamento indica uno stato di lotta interiore, che il secondo suppone ormai stabilmente superato (Et. Nic., VII, 3; 11). In tal senso, l’enkráteia potrà considerarsi solo come una tappa verso la virtù, e non come una virtù essa stessa (ibi, IV, 1128 b 34). In secondo luogo, egli oppone l’enkráteia al proprio contrario – l’akrasía (ajkrasiva) –, che analogamente non potrà qualificarsi come un vizio in senso proprio (ibi, VII, 11). I sistemi postaristotelici insistono sull’intima connessione tra virtù e dominio di sé: Epicuro vede nell’autodominio la base della felicità, che inizia appunto con la moderazione dei desideri; nello stoicismo la lotta per l’autodominio è una delle parti più vive e drammatiche del sistema; e anche nello scetticismo l’autodominio è necessario per raggiungere l’adiaforia. Nel mondo romano, in cui l’educazione attingeva tradizionalmente alla disciplina militare, la battaglia interna per la virtù trova la sua più piena espressione. Cicerone (Tusculanae, II-IV) innesta tale concetto tradizionale nell’etica stoica. Enfatizzando la lotta del sapiente per affermare la razionalità su affezioni e passioni (specie il dolore), anch’egli giunge all’ideale dell’autarchia. Questa battaglia assume toni ancora più drammatici nello stoicismo romano successivo: in Seneca la ferma volontà è artefice di virtù (cfr. De ira, II, 12: «Quodcumque sibi imperavit, animus obtinuit»). Epitteto e Marco Aurelio descrivono con forti immagini questa lotta (Epitteto, Manuale, 48: «Conviene stare all’erta con se stesso non altrimenti che con un nemico o un insidiatore»; Marco Aure3060
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lio, Ricordi, VII, 61: «L’arte della vita è più simile a quella della lotta che della danza»). Nelle teosofie filoniana, neopitagorica e neoplatonica, il dominio di sé si esplica nella lotta per la liberazione dal corpo e il raggiungimento del bene in sé. Il «vince te ipsum» è poi elemento fondamentale dell’ascesi cristiana. Nell’età moderna, Cartesio sviluppa tecnicamente il tema del dominio dell’anima sulle proprie passioni: passioni le cui dinamiche sono normalmente condizionate dagli influssi del corpo sulla «ghiandola pineale». Egli insiste sul fatto che la lotta per l’autodominio ha come antagonisti, appunto, l’anima e il corpo, e non due potenze dell’anima (la razionale e la passionale), come pensava Platone (R. Descartes, Passions de l’âme, Paris 1649, §§ 45-50). Anche Spinoza, nonostante quel che abbiamo sopra richiamato, teorizza la possibilità di un approccio ancipite (razionalmente coerente o meno) al mondo delle passioni, e afferma al riguardo: «Chiamo schiavitù l’impotenza umana a dominare e impedire gli affetti; poiché l’uomo soggetto agli affetti non appartiene a se stesso ma alla fortuna, ed è in suo potere in modo tale che spesso, benché veda il meglio, è costretto tuttavia a seguire il peggio» (Ethica, tr. cit., parte IV, praefatio). In Kant il dominio di sé ha pure un imponente rilievo morale; infatti, «la virtù, in quanto è fondata sulla libertà interna, contiene per gli uomini anche un comando positivo, quello cioè che si sottomettano al proprio potere (all’autorità della ragione) tutte le facoltà e inclinazioni, ossia comanda la padronanza di noi stessi; il qual comando viene ad aggiungersi al divieto di lasciarsi dominare dai propri sentimenti e tendenze (il dovere dell’apatia); perché, se la ragione non tiene le redini del governo, queste inclinazioni diventano ben presto padrone dell’uomo» (Metaphysik der Sitten, cit., p. 408, tr. cit., pp. 261-262). Nietzsche, preparando la dottrina freudiana del «principio di realtà», pretende di smascherare il dominio di sé come espressione raffinata del mimetismo animale, il cui senso ultimo è comunque la lotta per la sopravvivenza: «si presta orecchio con diffidenza alle parole suadenti della passione, ci si reprime e si rimane in guardia contro se stessi; l’animale comprende tutto questo al pari dell’uomo, anche in esso l’autodominio germoglia dal senso del reale (dalla saggezza)» (Morgenröthe, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III, München 1999, tr. it. di F. Masini, Aurora, in Opere
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Donagan
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di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. 5, t. 1, Milano 1986, § 26). Nel Novecento, Nicolai Hartmann torna a distinguere tra ejgkravteia e swfrosuvnh. La prima è un «tiranneggiare sugli affetti», che pure non ne ottiene l’estirpazione; la seconda, invece, coincide con l’armonia e la bellezza interiore dell’uomo completamente formato (Ethik, Berlin 19493, pp. 435-438). Il tema del dominio di sé (come enkráteia) è poi presente – almeno indirettamente – nella recente letteratura analitica, attraverso la discussione del tema opposto: quello della akrasía e delle sue condizioni di possibilità (cfr. A.R. Mele, Irrationality. An Essay on akrasia, Self-deception, and Self-control, New York - Oxford 1987; J. Gosling, Weakness of Will, London - New York 1990). G. Garuti - P. Pagani ➨ ADIAFORIA; APATIA; ASCESI; ATARASSIA; AUTARCHIA; EUDAIMONIA; EUNOMIA; ISTINTO; LIBERO ARBITRIO; SOPHROSYNE; TEMPERANZA.
DOMNINO. Domnino – Filosofo e matematico neoplatonico, n. a Larissa (Siria) all’inizio del V secolo d. C., m. intorno al 470-475. Discepolo di Siriano e condiscepolo di Proclo, rappresentò, non meno di Asclepiodoto, l’indirizzo scientifico e razionalistico della Scuola di Atene. Fonti: Proclo, Commentario al Timeo, Damascio, Vita Isidori, Marino, Vita Procli. L’unica testimonianza che attesterebbe la successione di Domnino a Siriano nello scolarcato, quella di Marino, Vita Procli 26 (che si riferisce a Domnino con l’espressione filosovfw· kai; diadovcw/), è stata ritenuta nulla da Saffrey e Westerink, Proclus. Théologie platonicienne I (Paris 1968, Introduction, XVII). Ci sono rimasti: un Manuale di introduzione all’aritmetica (a cura di J. Fr. Boissonade, in Anectoda graeca, Paris 1829-33, IV, 413-429; ripr., Hildesheim 1962; tr. fr. di P. Tannery, in «Revue des études grecques» 19, 1906, 359-382; ed. critica con tr. it. di F. Romano, Domnino di Larissa. La svolta impossibile della filosofia matematica neoplatonica. Manuale di introduzione all’aritmetica. Introduzione testo e tr. it., Catania 2000) e un frammento di argomento matematico dal titolo Come trarre rapporto da rapporto, forse tratto da uno scritto su Gli elementi di aritmetica (testo e tr. fr. di C.E. Ruelle - J. Dumontier, in «Revue de Philosophie», 7, 1883). G. Faggin - R.L. Cardullo Scientific Biography, New York 1971, vol. IV, pp. 159-160; J.
BIBL.: I. BULMER - THOMAS, s. v., in Dictionary of
MAU, s. v., in Der Kleine Pauly, München 1975, vol. II, coll. 135-136; A.-PH. SEGONDS, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des Philosophes Antiques, vol. II, Paris 1994, pp. 892-896.
DONAGAN, ALAN. – N. nel 1925, m. nel 1991. Donagan Filosofo australiano di formazione analitica, ha insegnato tra l’altro nelle università del Minnesota, di Chicago e al California Institute of Technology. Si è occupato di argomenti storico-filosofici, in particolare di Collingwood (The Later Philosophy of R.G. Collingwood, Oxford 1962) e di Spinoza (Spinoza, Chicago 1989). Muovendo da interessi di filosofia della storia, si è poi rivolto alla filosofia dell’azione e all’etica. Riprendendo alcune tesi di Davidson, ha difeso la concezione tradizionale, di derivazione aristotelica e tomista, dell’agente come causa delle proprie azioni (Choice, London 1987). Le azioni sono eventi causati dalle scelte, ossia dall’assunzione di atteggiamenti proposizionali di tipo appetitivo, ma intellettuale; la capacità di assumere tali atteggiamenti in maniera non deducibile da eventi precedenti in base a leggi di natura è ciò che la tradizione medievale chiama volontà. L’affermazione della volontà come forma di causalità libera rende ragione del privilegio accordato alle creature razionali, come realtà di valore superiore e perciò meritevoli di rispetto. L’idea della persona come fine in sé costituisce, secondo Donagan, il fondamento della common morality, ossia della morale ereditata dalla tradizione ebraico-cristiana. In The Theory of Morality (Chicago 1977), Donagan sostiene la continuità tra la concezione kantiana dell’autonomia della ragion pratica e la teoria medievale della legge naturale e pone il principio del rispetto per la creatura razionale come fine in sé, in quanto versione filosofica del comandamento dell’amore, a fondamento del sistema morale. La lettura di Kant operata da Donagan presenta due caratteristiche principali: in primo luogo, Donagan nega l’equivalenza tra le diverse formule dell’imperativo categorico, affermando la priorità della formula dell’umanità; di conseguenza, nega che l’etica kantiana vada interpretata in senso meramente deontologico e formale: il sistema deontologico dei principi si fonda su una più profonda teleologia, ossia sulle persone come fini autosussistenti in nome dei quali ogni altro fine può essere perseguito. Donagan rivaluta quindi la Metafisica dei costumi, mostrando co3061
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Donati me, accettata la priorità della formula dell’umanità, l’etica kantiana si mostri pienamente in grado di generare contenuti specifici. Tali contenuti vengono articolati in The Theory of Morality, dove Donagan distingue tra doveri perfetti e doveri imperfetti, affronta svariate questioni di etica applicata, si confronta criticamente con l’utilitarismo e mostra come le risorse della casistica tradizionale consentano di risolvere le situazioni di conflitto. I suoi principali saggi sono raccolti in tre volumi postumi: The Philosophical Papers of Alan Donagan, a cura di J.E. Malpas, Chicago 1994, 2 voll., e Reflections on Philosophy and Religion, a cura di A.N. Perovich Jr, Oxford 1999. M. Reichlin BIBL.: J. STOUT, The Philosophical Interest of the HebrewChristian Moral Tradition, in «The Thomist», 47 (1983), pp. 165-196; S. KAGAN, Donagan on the Sins of Consequentialism, in «The Canadian Journal of Philosophy», 17 (1987), pp. 643-653; T.E. HILL JR, Donagan’s Kant, in «Ethics», 104 (1993), pp. 22-52; M. REICHLIN, Fini in sé. La teoria morale di Alan Donagan, Torino 2003.
DONATI, ALAMANNO. – Filosofo, n. a Firenze Donati il 20 magg. 1458, m. a Firenze nel 1488. Allievo prediletto di Marsilio Ficino, del quale seguì il corso sul Simposio, è autore di un volgarizzamento dell’Historia de duobus amantibus, di Enea Silvio Piccolomini (pubblicato a Firenze forse nel 1492), che si collega a quell’interesse per il tema dell’amore tipico della filosofia ficiniana. Fra il 1482 e il 1487 scrisse un opuscolo De intellectus voluntatisque excellentia, nel quale l’esaltazione tanto dell’intelletto (potenza quasi divina, fonte della suprema felicità consistente nella contemplazione) quanto della volontà (che nella sua libertà comanda l’intelletto) conduce al riconoscimento della grandezza dell’uomo. L.M. Bianchi BIBL.: P. VITI, s. v., in Dizionario biografico degli Italiani, Roma 1960-, vol. XLI, pp. 6-9; S. GENTILE - S. NICCOLI - P. VITI (a cura di), Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, Firenze 1984, pp. 107-108; J. HASKINS, The Myth of the Platonic Academy of Florence, in «Renaissance Quarterly», 44 (1991), p. 466.
DONATI, BENVENUTO. – Filosofo del diritto, Donati n. a Modena l’8 nov. 1883, m. ivi l’8 febbr. 1950. Insegnò filosofia del diritto nelle università di Camerino, Perugia, Sassari, Cagliari, Macerata e infine, dal 1924 in quella di Modena. Legato 3062
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all’inizio della sua attività scientifica e didattica a premesse positivistiche, se ne è a poco a poco liberato, avvicinandosi nell’ultima fase del suo pensiero al neokantismo, rappresentato in Italia soprattutto da Del Vecchio. Nel campo teoretico, di Donati vanno ricordati in modo particolare due scritti: Fondazione della scienza del diritto. Parte prima di una Introduzione alla scienza del diritto (Padova 1929) e Il principio del diritto (ivi 1933), dai quali meglio si deduce la sua dottrina filosofico-giuridica, che egli stesso ha definito «idealismo storico». Il diritto è un fenomeno sociale, è «un agire per un fine concreto, entro certi limiti segnati dalla regola, pur sempre sostenuto da un ideale etico». Esso dà prevalente rilievo all’azione, anziché all’intenzione, e al coordinamento esteriore degli atti e dei fini, anziché all’ordine interiore della vita; per questo si distingue dalla morale e da tutte le altre forme dell’attività teoretica e pratica. Il diritto tende a garantire le condizioni di possibilità delle relazioni umane in base a tre principi: il principio costitutivo (il riconoscimento reciproco dei soggetti come esseri razionali e liberi); il principio commutativo (l’eguaglianza dei soggetti); e il principio distributivo (la disuguaglianza del «suo» di ciascuno). Da ciò la conseguenza, che il primo precetto del diritto va ricercato nell’honeste vivere. L’ultima fase della speculazione di Donati è stata caratterizzata dallo studio del problema sociale. La conclusione alla quale è pervenuto è la seguente: occorre capovolgere il trinomio libertà, eguaglianza, fratellanza, così caro ai rivoluzionari dell’89, perché è necessario elevare a principio primo, a «scopo generico» del diritto il principio di solidarietà, il principio di «onestà sociale»; e a tale principio debbono essere subordinati tanto l’arbitrio individuale, quanto l’eguaglianza formale. Notevoli anche alcuni studi storici, che hanno gettato nuova luce sulla vita e sul pensiero di Vico (raccolti in gran parte in Nuovi studi sulla filosofia civile di G.B. Vico. Con documenti, Firenze 1936) e di Muratori (L.A. Muratori e la giurisprudenza del suo tempo. Contributi storico-critici, Modena 1935; L.A. Muratori, ivi 1942; Muratori e Verney, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 26, 1949, pp. 450-465). Un elenco completo degli scritti di Donati fino al 1937 è stato curato dallo stesso autore (Pubblicazioni 1907-1937, Modena 1937). Per gli scritti successivi al 1937, si veda l’appendice a A. Grop-
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pali, In memoria di Benvenuto Donati, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 27 (1950), pp. 181-187. Fra essi: Rosmini e Gioia, Firenze 1949; Natura e diritto, uno scritto inedito a cura di G. Ambrosetti, Bologna 1973. R. Orecchia BIBL.: F. BATTAGLIA, In memoria di Benvenuto Donati, in «Archivio giuridico», 1950, pp. 87-90; W. CESARINI SFORZA, Oggettività e astrattezza nell’esperienza giuridica, in «Bollettino dell’Istituto di filosofia del diritto della Reale Università di Roma», 1950, pp. 91-208; G. PERTICONE, Il diritto e lo Stato nel pensiero italiano contemporaneo, Padova 1950 (rist. 1964), pp. 61-62; G. SOLARI, Benvenuto Donati, in «Atti dell’Accadademia delle Scienze di Torino», 1949-50 (trattazione completa); G. AMBROSETTI, Rievocazione di Benvenuto Donati, Bologna 1969; F. TAMASSIA, Benvenuto Donati, in A.M. GHISALBERTI (a cura di), Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLI, Roma 1992.
DONATI, GIACOMO. – Filosofo e psicologo, n. Donati a Savignano sul Rubicone (Forlì) il 26 lug. 1888, m. a Bologna il 24 ag. 1948. Fu docente di Filosofia teoretica nelle università di Padova e Bologna. Ne La logica (Forlì 1920) collegò tutti gli elementi dell’esperienza immediata (sensazione e percezione) e mediata (concetto, giudizio e ragionamento) sotto la categoria dell’esistenza; tutti i rapporti fra gli elementi stessi sotto la categoria dell’equivalenza. Mentre la prima categoria si riferisce al dato intuibile, la seconda si riferisce alla comprensione di esso conciliando l’identico e il diverso. Intuire e comprendere costituiscono un unico metodo, induttivo e deduttivo a un tempo: il processo per cui si percepiscono i fatti, traducendoli in formule. Nel metodo si manifesta poi l’attività dello spirito come forma individua, animata da una tensione interiore. L’intuizione e la comprensione di tutta la realtà come un sistema di forme tendenti individue, delle quali ciascuna riassume in sé il proprio passato e porta, nella propria tensione interiore, la capacità di uno sviluppo futuro, Donati espone nelle sue opere successive: Tu e il mondo, Bologna 1924; Noi e la legge, ivi 1925; L’evoluzione, Roma 1932; Il cosmo, Padova 1937; Dio, ivi 1940. Donati in quest’ultima opera, decisamente orientata nel senso di una metafisica cristiana, prospetta l’assoluto come valore trascendente, in cui trovano fondamento e unificazione le due categorie dell’esistenza e dell’equivalenza. Dio infatti, scrive Donati, «è
Donato la pura identità, che si diversifica in sé pur mantenendosi identità pura» (p. 76). Non è, infine, da trascurare il contributo che egli diede agli studi di psicologia con le seguenti opere: L’equivalenza psichica, Rimini 1914; La psicologia scientifica, Forlì 1917; Le penombre dell’anima, Ferrara 1922; La psicologia, Bologna 1923; Il manuale della volontà, ivi 1928. A.M. Moschetti
DONATISTI. – Protagonisti della vita non Donatisti soltanto ecclesiastica in Africa dagli inizi del IV secolo sino almeno all’invasione dei vandali (426), essi prendono il nome da Donato di Casae Nigrae, eletto metropolita di Cartagine in opposizione a Ceciliano, la cui consacrazione, intorno al 312, era stata aspramente contestata in quanto, fra i tre ordinanti, c’era un vescovo, Felice di Aptungi, accusato di essere un traditor, vale a dire uno di quei chierici che, durante la persecuzione di Diocleziano (dal 303), avevano consegnato (traditio) le sacre scritture all’autorità romana che provvedeva poi a bruciarle. Il nucleo fondamentale della dissidenza sta proprio nella valutazione dell’efficacia del sacramento – a cominciare da quello battesimale – in dipendenza dalla dignità morale di colui che lo amministra (ex opere operantis), contro la prassi cattolica per cui esso sacramento resta valido indipendentemente dalla dignità del ministro (ex opere operato). Di qui la convinzione donatista di costituirsi come l’autentica Ecclesia Sanctorum, erede delle promesse scritturistiche, in opposizione a una Catholica, cinghia di trasmissione del potere politico romano. R. Cacitti BIBL.: fonti: H. MAIER (a cura di), Le dossier du Donatisme, «Texte und Unterschungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur», voll. CXXXIV-CXXXV, Berlin 1989, 2 voll. Insuperata resta la monografia di P. MONCEAUX, Histoire littéraire de l’Afrique chrétienne depuis les origines jusqu’a l’invasion arabe, vol. V: Le Donatisme, Paris 1912; un’estesissima rassegna bibliografica può ora leggersi in S.LANCEL - J.S. ALEXANDER, s. v., in C. MAYER (a cura di), AugustinusLexikon, Basel 2001, vol. II, coll. 606-638.
DONATO, ELIO. – Grammatico latino (metà Donato sec. IV) vissuto a Roma, maestro di s. Girolamo. Autorevole nel Medioevo fino all’età moderna la sua Ars grammatica, divisa in Ars prima o minor (elementare), in cui sono analizzate, do3063
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Donazione manda e risposta, le 8 parti del discorso, e Ars maior o secunda, non dialogata, che tratta de voce, littera, syllaba, pedibus, tonis, posituris e stilistica (ed. H. Keil, Grammatici Latini, IV, Leipzig 1864; rist. Hildesheim 1961). È giunto incompleto un suo commento a Virgilio (introduzione alle Bucoliche e Vita Vergilii attinta a Svetonio) e uno a Terenzio in cui manca la parte dell’Heautontimoroumenos. I. Ramelli BIBL.: B. LÖFSTEDT - L. HOLTZ - A. KIBRE, Liber in partibus Donati, Turnholti 1986, CCM 68; G. GERMANO, Iacobi Curuli Epitoma Donati in Terentium, Napoli 1987; M. BUFFA, Expositio artis Donati, Genova 1990; L. NICASTRI, Problemi di biografia virgiliana, in «Vichiana», 4 (1993), pp. 67-99, 222-253; V. MAZHUGA, Observations sur les sources de l’Ars de Aelio Donato, in «Hyperboreus», 5 (1995), pp. 139-154; F. STOK, Prolegomeni a una nuova edizione della Vita Vergilii di Svetonio-Donato, Roma 1991; J.W. BECK, Zur Zuverlässigkeit der bedeutendsten lateinischen Grammatik: Die «Ars» des Aelius Donatus, Stuttgart 1996; R. JACOBI, Die Kunst der Exegese im Terenzkommentar des Donat, Berlin - New York 1996.
DONAZIONE (giveness; Gabe, Gegebenheit; doDonazione nation, donnée; donación). – Il concetto di donazione appartiene alla fenomenologia, la quale, nel suo impianto husserliano, si assegna come oggetto la Gegebenheit assoluta di un fenomeno, cioè il darsi di una presenza effettiva a una coscienza che tiene in vista la certezza. Husserl teorizza una essenziale correlazione tra la pura visione (la sfera immanente degli atti di coscienza) e il carattere assoluto del dato che appare (oggetto di conoscenza), perché, in regime di riduzione fenomenologica (epoché), la visione afferra immediatamente il dato. Ciò significa che la coscienza è sempre coscienza di qualcosa (intenzionalità) e che le cose acquistano senso ed essere solo per una coscienza «che coglie direttamente e adeguatamente la cosa stessa» (E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie, in Hua, vol. II, tr. it. di A. Vasa, L’idea della fenomenologia, Milano 1981, p. 90). In questo contesto, l’apparire intenzionale (la donazione soggettiva che è donazione di senso alla cosa intenzionata) e la cosa che appare (il dato intuitivo o l’intuizione riempiente) si trovano, nell’immanenza dei vissuti della coscienza, per così dire intrecciati ma anche giocati l’uno contro l’altro, in una tensione interna tra formalismo e intuizionismo. La donazione può essere allora intesa sul versante soggettivo 3064
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(intenzionale o noetico come Sinngebung) o in quello oggettivo (intuitivo o noematico come Erfüllung). Se nella traduzione francese la Gegebenheit è stata resa, a seconda del contesto, sia con donation (designante il lato attivo e l’azione di dare) sia con donnée (che sta per l’oggetto dato o il risultato della donazione), in ciò aiutata dalla ricchezza semantica del verbo francese donner (dare e donare), in italiano Gegebenheit è stato tradotto con il neutro «datità» a indicare il riempimento dell’intenzionalità significante e costituente attraverso la «visione [Anschauung] originariamente offerente» (principio di tutti i principi). In questo caso, l’essere che si manifesta (il fenomeno) consiste non tanto nell’apparire soggettivo, ma nel suo darsi all’istanza originaria dell’intuizione che soddisfa le esigenze di afferramento diretto, di presenza permanente e di evidenza immediata. Il termine «donazione», invece, è stato riservato all’attività di costituzione o conferimento di senso operato dalla intenzionalità gnoseologica, facendo in questo modo propendere la prospettiva husserliana, in tema di donazione, verso l’idealismo trascendentale. La costituzione, infatti, pur non essendo produttiva, nella misura in cui non crea né l’oggetto né il senso, è una sorta di posizione (Setzen) che rende presente l’oggetto, assicurando il discernimento delle significazioni intenzionali. Ne consegue che l’atto della coscienza che conferisce senso (sinngebendes) va innanzi a ogni donazione intuitiva del contenuto dell’esperienza. Spostandosi dal territorio gnoseologico a quello dell’ontologia, Heidegger pensa l’essere non già come il fondamento dell’essente ma come donazione (Gabe) e disvelamento, a partire dalla figura dell’es gibt. La differenza tra la cosa data (l’ente) e il movimento di donazione originaria (il si dà quale essenza dell’essere) fa percepire nel dato una profondità ontologica, come profondità inapparente dell’atto donativo, il quale ostende e porta innanzi l’ente mentre si ritira, si trattiene e differisce dal contenuto della manifestazione. In questa dinamica, l’essere, al di là di ogni sua riduzione a oggetto, ente o presenza, è pensato come ciò che originariamente si dona, non alla stregua di un ente, ma nella sua differenza con ogni ente. Il darsi, del resto, appartiene tanto all’essere come destinare (versare nella presenza), quanto al tempo come arrecare (portare all’aperto):
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l’istanza che tiene insieme, nella loro co-appartenenza, «l’invio destinale» e l’«arrecare liberante» è attestato come Ereignis («evento appropriante im-propriante»). Esso succede all’essere, nel doppio senso che ne rappresenta l’ultima figura e soprattutto che sporge su ogni precedente costellazione ontologica: idea, energheia, actualitas, concetto, volontà. Tuttavia, Heidegger oscilla ancora nell’attribuire l’ultima parola all’essere (di cui l’Ereignis rappresenta l’inveramento e la più alta possibilità) o all’Ereignis stesso (come «donazione» [Er-gebnis], della quale «l’essere ha ancora bisogno, per pervenire, come essere presente, a ciò che gli è proprio», Unterwegs zur Sprache, Pfullingen 1971, tr. it. a cura di A. Caracciolo, In cammino verso il linguaggio, Milano 1973, p. 202). In quest’ultimo senso, «l’essere sarebbe un modo dell’Ereignis e non l’Ereignis un modo dell’essere» (Zur Sache des Denkens, Tübingen 1969, tr. it. a cura di E. Mazzarella, Tempo e essere, Napoli 1987, p. 127). L’Ereignis viene esperito dall’uomo «all’interno del dire originario come il donante». Ciò avviene quando il pensiero, abbandonandosi alla donazione (Er-gebnis) dell’evento che si destina all’uomo, fa esperienza del reciproco appartenersi (Zu-einander-Gehören) di uomo ed essere come com-propriati. Nella fenomenologia contemporanea, il filosofo francese Jean-Luc Marion, raccogliendo l’eredità della Gegebenheit husserliana e dell’es gibt di Heidegger, declina in piena autonomia la figura della donazione (donation), in cui l’essere è fatto precipitare, divenendo un semplice caso, regionale e particolare, dell’orizzonte originario della donazione. La donazione appare come la maniera d’essere degli enti: alla base di ogni «dato» si dispiega il movimento di donazione, come risalita del fenomeno alla propria manifestazione, per cui il dato ridotto (cioè l’apparire ristretto alla autentica donazione attraverso la sospensione di ogni trascendenza così come degli orizzonti dell’oggettività e dell’essere) va inteso anche come dono, rivelando il suo carattere di «donato» solo a uno sguardo addestrato fenomenologicamente. S. Zanardo BIBL.: E. HUSSERL, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in Hua, vol. I, tr. it. a cura di F. Costa, Meditazioni cartesiane con l'aggiunta dei Discorsi parigini, Milano 1988; M. HEIDEGGER, Identität und Differenz, Pfullingen 1957, tr. it. di U. Ugazio, Identità
Donders e differenza, in «aut aut», 187-188 (1982), pp. 2-37; E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, in Hua, voll. III-V, tr. it. a cura di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino 2002, 2 voll.; E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, in Hua, voll. XVIII-XIX, tr. it. di G. Piana, Ricerche logiche, Milano 2001, 2 voll.; M. HEIDEGGER, Über den Humanismus, in GA, vol. IX, pp. 311-360, tr. it. di F. Volpi, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, Milano 1987, pp. 267315; J.-L. MARION, Réduction et donation, Paris 1989; J.-L. MARION, Etant donné: essai d’une phénoménologie de la donation, Paris 19982, tr. it. di R. Caldarone, Dato che: saggio per una fenomenologia della donazione, Torino 2001. ➨ DATO; DONO; EREIGNIS; ESPERIENZA; FENOMENO; INTENZIONALITÀ; OGGETTO.
DONDERS, FRANCISCUS CORNELIS. – FisioloDonders go e oftalmologo olandese, n. a Tilburg il 27 magg. 1818, m. a Utrecht il 24 mar. 1889. Si laureò in Medicina presso l’università di Utrecht e i suoi primi interessi in ambito scientifico riguardarono i movimenti oculari, l’accomodazione e il suono delle vocali. Nel 1846 elaborò il principio secondo cui, per ogni direzione dello sguardo, l’occhio assume sempre la stessa posizione; fu Helmholtz che, nel 1886, definì questa regola come legge di Donders. Nel 1854 Donders fondò, con A. von Gräfe, l’«Archiv für Ophthalmologie». Dapprima medico nell’esercito olandese, nel 1842 gli furono assegnati gli insegnamenti di anatomia, istologia e fisiologia nella scuola medica militare di Utrecht. Nel 1858 fondò il primo ospedale oftalmico olandese, e nel 1862, alla morte del maestro, il fisiologo Van der Kolk, ne ereditò la cattedra di Fisiologia dell’università di Utrecht. Investito del nuovo impegno accademico, Donders, insieme con l’allievo Johan Jacob de Jaager, iniziò ad indagare la connessione fra neurofisiologia e coscienza. Escludendo dal proprio orizzonte ogni principio vitalistico come causa dei fenomeni mentali, Donders era convinto che mediante i metodi della fisiologia si potesse riuscire ad oggettivare la coscienza. A partire dalle prospettive di ricerca sulla cosiddetta «equazione personale» in astronomia e sulla velocità dell’impulso nervoso in neurofisiologia, si occupò quindi di misurare i fatti psichici. Nel 1865 pubblicò un famoso report (Over de snelheid der gedachte en der wilsbepaling: Voorloopige mededeeling, in 3065
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Dondeyne «Nederlandisch Archiv voor Genees-en Natuurkunde, 1, 1865, pp. 518-521») sulla possibilità di valutare il lavoro mentale mediante il calcolo dei tempi fisiologici, in seguito definiti da Exner «tempi di reazione»; nel 1868, la traduzione tedesca di questo report fece conoscere le sue importanti ricerche fra i fisiologi e gli psicologi. La misura del tempo giocò, da allora, un ruolo chiave per lo sviluppo di un metodo che fornisse alla psicologia una base scientifica; si sconfessava infatti l’idea che la psicologia non sarebbe mai potuta essere una scienza della natura al pari delle altre poiché non c’era un modo per applicarle la matematica. Donders, ipotizzando che la differenza tra il tempo necessario per eseguire un compito complesso e quello richiesto per un compito semplice fosse dovuta al fatto che, nel primo caso, erano messi in gioco processi mentali in misura quantitativamente maggiore, e determinando tale differenza, fornì la misura oggettiva del tempo necessario per lo svolgimento dei processi mentali implicati nell’esecuzione di compiti, come, ad esempio, scegliere fra differenti risposte. La possibilità di associare un parametro quantitativo a un fenomeno psichico contribuì a realizzare il distacco della psicologia dall’alveo della filosofia e a inserirla in quello delle scienze naturali. Donders dette avvio, quindi, alla cosiddetta psicocronometria, tecnica di ricerca fondamentale nella tradizione di psicologia sperimentale wundtiana. Affiancando l’introspezione sistematica alla misurazione dei tempi di reazione, la psicologia sperimentale di tradizione tedesca si diffuse come principale corrente psicologica alla fine del XIX secolo. A partire dal secondo dopoguerra, dopo una parentesi rappresentata dall’egemonia comportamentista, si riscontra un rinnovato interesse per i tempi di reazione all’interno del contemporaneo indirizzo cognitivista. R. Foschi BIBL.: E.G. BORING, A History of Experimental Psychology, New York 19502; J. BROZEK, Contributions to the History of Psychology: XII. Wayward history: F. C. Donders (1818-1889) and the Timing of Mental Operations, in «Psychological Report», 26 (1970), pp. 563-569; J. BROZEK - M.S. SIBINGA, Origins of Psychometry: Johan Jacob de Jaager, Student of F. C. Donders on Reaction Times and Mental Processes, Nijeuwkoop 1970; E. S. GOODMAN, Citation Analysis as a Tool in Historical Study: a Case Study Based on F. C. Don-
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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
ders and Mental Reaction Times, in «Journal of the History of the Behavioral Sciences», 7 (1971), pp. 187-191; F. W. NEWELL, Franciscus Cornelis Donders (1818-1889), in «American Journal of Ophthalmology», 107 (1989), pp. 691-693.
DONDEYNE, Dondeyne ALBERT. – Filosofo e teologo belga, n. a Lovanio il 10 mag. 1901 e m. ivi il 12 febbr. 1985. Dopo gli studi teologici, dal 1925 si trasferì a Lovanio; sacerdote dal 1926, ritornò a Bruges come insegnante di teologia dogmatica, dove diresse le Collationes Brugenses fino al 1933. Dal 1936 al 1971 insegnò all’università di Lovanio, ricoprendo, oltre la presidenza della locale Société philosophique, la direzione della Revue Philosophique de Louvain e del Répertoire bibliographique de la Philosophie. La speculazione filosofica e la riflessione teologica di Dondeyne è orientata a fondare filosoficamente la possibilità della fede e a connetterla alla comprensione della concreta esistenza storica testimoniata dal pensiero contemporaneo. L’ultima fase della sua riflessione è caratterizzata dall’incontro con il pensiero di E. Levinas. C. Palermo BIBL.: L’intellectuel chrétien, Bruxelles 1948; con J. GIBLET, Christianisme et vérité, Paris 1959; Foi chrétienne et pensée contemporaine, Louvain 19613; Geloof en wereld, Antwerpen 1961, tr. it. di V. Pagani, La fede in ascolto del mondo, Assisi 1966; Miscellanea Albert Dondeyne, Louvain 1974. Su Dondeyne: «Université catholique de Louvain, bibliographie académique», VI, pp. 45-46; VII, pp. 357-60; VIII, p. 22; J. LADRIÈRE, In memoriam Mgr Albert Dondeyne, in «Revue Philosophique de Louvain», 83 (1985), pp. 462-484; B. WILLAERT (a cura di), Miscellanea Albert Dondeyne: Godsdienstfilosofie. Philosophie de la religion, Louvain 1974; A. VERGOTE, Mgr Albert Dondeyne, in «Ephemerides theologicae Lovanienses», 1985, pp. 445-448.
DONG ZHONGSHU. – Vissuto tra il 179 ca. Dong Zhongshu e il 104 ca. a. C. Confuciano del primo periodo Han autore del Chunqiu fanlu (Gemme depositate come rugiada negli Annali delle Primavere e degli Autunni). Sulla base del Commentario di Gongyang agli stessi Annali, elabora la dottrina della «mutua risonanza» fra Cielo e mondo umano, introducendo il concetto di «volon); «volontà» che «rità celeste» (Tianzhi sponde» (ying ) alle azioni (gan ) armoniche o disarmoniche degli uomini – e in particolare del Sovrano inteso come intermediario fra il Cielo e la Terra. Le applicazioni più pro-
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Dono
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
priamente politiche della sua prospettiva cosmologica contribuiranno in maniera rilevante all’adozione del confucianesimo come «dottrina di stato». A. Cadonna BIBL.: S. DAVIDSON - M. LOEWE, Ch'un ch'iu fan lu, in M. LOEWE, Early Chinese Texts. A Bibliographical Guide, Berkeley 1993, pp. 77-87.
DONIO, AGOSTINO. – Filosofo, di Cosenza, Donio vissuto nella seconda metà del XVI secolo. Intelligente divulgatore della filosofia di Telesio, scrisse il trattato De natura hominis (Basileae 1581) in cui espone, da un punto di vista critico-interpretativo, le soluzioni telesiane dei problemi filosofici concernenti l’anima e le attività umane. L’aspetto più interessante dell’opera è costituito da un approfondimento in senso agostiniano (che già preannuncia Campanella) della gnoseologia di Telesio, per cui Donio afferma il primato conoscitivo del primus sensus come intellectio sui ipsius. Muovendo da questo punto di partenza coscienzialistico, egli delinea anche una metafisica generale di impronta naturalistica e panpsichistica, secondo cui il principio che unifica e regge tutta la realtà naturale è il calore, inteso come senso universale e causa di ogni mutamento. M. Schiavone BIBL: G. SAITTA, Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, vol. III: Il Rinascimento, Firenze 19612, pp. 76-79; L. DE FRANCO, L’eretico Agostino Doni, medico e filosofo cosentino del 500, Cosenza 1973 (in appendice il De natura hominis, con tr. a fronte).
DONNOLO, SHABBETAJ BEN AVRAHAM. – EruDonnolo dito ebreo italiano, n. a Oria (Brindisi) nel 913, m. attorno al 982. Autore di un celebre trattato farmacologico, il Sefer ha-Jaqar (Il libro Prezioso), Donnolo espose il proprio sapere enciclopedico nel Sefer Chakhmoni (Libro Sapiente), uno dei più antichi commenti al Sefer Jetzirah. In quest’opera, medicina, astrologia e tradizione esoterica ebraica sono organizzate in un sistema di tipo neoplatonico che tradisce l’influenza su Donnolo della cultura greco-bizantina. Incentrato sull’analogia microcosmo-macrocosmo, il Sefer Chakhmoni rappresenterà una fonte importante per le successive speculazioni mistiche sulla creazione, soprattutto presso i chassidim ashkenaziti. V. Putzu
BIBL.: D. CASTELLI, Il commento di Shabbetaj Donnolo sul Libro della Creazione - pubblicato per la prima volta nel testo ebraico con note critiche e introduzione da David Castelli, Firenze 1880; A. SHARF, The Universe of Shabbetaj Donnolo, Warminster 1976; G. FIACCADORI, Donnolo Shabbetaj bar Abraham, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1992, vol. XLI, coll. 213218; E.R. WOLFSON, The Theosophy of Shabbetaj Donnolo, with Special Emphasis on the Doctrine of the Sefirot in Sefer Hakhmoni, in «Jewish History», 6 (1992), pp. 281-316; P. MANCUSO - D. SCIUNNACH (a cura di), Sefer Yetzirà - Libro della Formazione. Con il commentario Sefer Chakhmonì (Libro Sapiente) di Shabbetaj Donnolo, Milano 2001; G. LACERENZA (a cura di), Shabbetaj Donnolo. Scienza e cultura ebraica nell’Italia del secolo X, suppl. agli «Annali Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”», 2004; V. PUTZU, Shabbetaj Donnolo: un sapiente ebreo nella Puglia bizantina altomedievale, Cassano delle Murge 2004.
DONO (gift; Geschenk, Gabe; don; don). – La riDono flessione intorno al dono, che oggi viene da più parti rivisitata da un punto di vista speculativo e pratico-politico, trae origine dal Saggio sul dono scritto nel 1924 da Marcel Mauss, sulla base dell’osservazione antropologica delle società arcaiche. Il dono vi compare come un principio strutturante e un «fenomeno sociale totale»: è collettivo, ritualizzato e riguarda tutti gli aspetti della società: è, infatti, creatore simbolico di socialità e motore della circolazione materiale dei beni. La sua essenza relazionale si riassume nel triplice obbligo di donare, ricevere e restituire. Segue che il contro-dono è implicato e inscritto nella natura stessa del dono, pena l’estromissione dall’ordine sociale del donatario insolvente. La circolarità dei beni prodotta dalla catena di offerte e di controprestazioni introduce, però, una nozione di reciprocità che trascende il semplice arco delle interpretazioni economiche. Infatti, l’obbligo alla restituzione non è regolato da qualcosa di simile a un contratto, né rientra nella pratica del baratto, ma è una proprietà intrinseca della cosa donata, nella misura in cui essa rimane permanentemente legata alla persona del donatore: nel dono risiede una «virtù», forza o azione vitale e spirituale (il mana), che rappresenta il vero motivo e il fondamento dello scambio (di doni). La logica soggiacente a questa pratica è di assumere il debito come intrinsecamente congiunto al dono: il debito, mentre impegna gli attori sociali a mantenersi in rapporto, introduce una circolarità aperta, consistente nel fatto che il dono ricambiato 3067
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Dono non è mai uguale a quello ricevuto e rimane sospeso in una indecidibilità costitutiva. Il dono arcaico non è funzione della gratuità né pretende di essere disinteressato, ma nasce nell’interrelazione di quattro componenti che rappresentano anche le fonti di senso dell’azione sociale: obbligo (in vista del mantenimento del legame sociale), libertà (nella forma del differimento temporale e della fluidità delle forme di restituzione), interesse strumentale (legato al bisogno di appartenenza) e piacere (nella tessitura interminabile di rapporti). Nella sua ripresa di Mauss, Georges Bataille sovradetermina la dimensione agonistica del dono (inconsciamente ammessa nelle pratiche arcaiche del potlatch), trasformandolo in un gesto ostentatorio (di affermazione personale legata al piacere di perdere) e in uno strumento di potere (ciò di cui il soggetto si disfa, nella distruzione e nel consumo di risorse, si trasforma in un potere che lo rinforza socialmente). Il dono diventa funzione di dispendio energetico (dépense), il cui scopo è il ritiro dei beni dal regime dell’utilità e dal circuito della produzione. Alla razionalità economica retta dall’interesse e dal profitto, Bataille oppone le pratiche improduttive, aventi il proprio fine in se stesse (attività edonistiche, pratiche di consumo individuale e sociale, forme dell’arte e della scrittura): esse propiziano la creazione per mezzo del «principio di perdita», avendo di mira l’esperienza di spossessamento del soggetto, chiamato con ciò a trascendere il senso del limite e a raggiungere l’intimità perduta con un fondo veritativo coperto e inaccessibile. Fondamentalmente disinteressato al legame, il dono viene così declinato nella dimensione della dispersione, nella soppressione della misura e nel sogno di anarchia creativa all’indirizzo della «sovranità»: l’essenza del dono «che è di aprire, di dare, di perdere, e che esclude calcoli» viene così eletta a luogo di senso della vita umana che, per un verso, si smarca dalla mercificazione del mondo e dei rapporti e, per altro verso, nello smarrimento dell’inutile coltivato per se stesso, si deposita in un nodo di contraddizioni e di inganni riflessi nella storia e ancor più «nelle operazioni di pensiero». Il lavoro intorno al dono è proseguito nelle scienze sociali a partire dagli anni ottanta per merito del Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales (MAUSS), che di Mauss ha assunto il nome e l’aspirazione a una antropolo3068
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gia normativa. Autori come A. Caillé, J. Godbout e S. Latouche, tra gli altri, hanno interrogato l’universale relazione donante allo scopo di ripensare la genesi e il consolidamento del legame sociale sul fondamento di «una terza rete di circolazione di beni e servizi», terza rispetto allo scambio di mercato e alla redistribuzione statale. Il «paradigma del dono» si oppone, perciò, tanto all’assiomatica dell’interesse individuale promosso dalle istituzioni economiche (dove le scelte sono regolate dal rapporto di appropriazione dei beni secondo il calcolo costi/benefici), quanto alle derive olistiche, dove i soggetti diventano momenti estrinseci della riproduzione di un sistema funzionale ipostatizzato e formalizzato. Il modello teorico che ne risulta è costruito intorno a due tesi centrali: anzitutto, il dono è uno scambio (un obbligo liberamente contratto), per cui la risposta e il rilancio del dono sono immanenti al sistema; in secondo luogo, questa forma di scambio è irriducibile a ogni movente utilitaristico: dona colui che, invece di rendere, comincia a sua volta a donare. La logica del dono esprime in questo modo una reciprocità asimmetrica che, assicurando la sporgenza del gesto oblativo su ogni comportamento di tipo acquisitivo e su ogni ricerca di proporzionalità diretta o di equità formale, tiene innanzi un doppio traguardo normativo: il rafforzamento del senso di debito simbolico diffuso tra gli attori sociali e il primato del legame (il bene relazionale) sul bene scambiato. Parallelamente alla trattazione sociologica, l’analisi filosofica del concetto di dono compare con Husserl (nella Gegebenheit come intuizione donatrice originaria) e soprattutto con Heidegger (nella costellazione di figure che rimandano alla semantica del dare: es gibt, Gabe, Ereignis, Er-gebnis). In questo senso, la donazione diventa l’orizzonte teorico in cui si gioca l’ontologia contemporanea post-metafisica, oltre ogni riduzione dell’essere a oggetto, ente o semplice presenza. Il dono, espressione più radicale della differenza ontologica, rappresenta un nuovo sorgere, in qualità di evento inappropriabile, nella misura in cui scioglie il coagulo sostanziale, mentre inietta, nell’essere, il divenire, il movimento di dis-propriazione e l’azione di disvelamento. In questa direzione si inseriscono le recenti proposte teoriche di J. Derrida e di J.-L. Marion, che, mentre respingono ogni interpretazione economica e ogni lettura relazionale del dono (Mauss), sug-
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geriscono la decostruzione o l’oltrepassamento dell’ontologia. In Jacques Derrida, che annoda antropologia e ontologia generale, il dono assume la forma del paradosso: se giunge a manifestarsi nell’esperienza secondo il modello causale (Aristotele) o quello circolare (Mauss), il dono si insabbia nel suo contrario (lo scambio), perché il semplice senso intenzionale del dono gratifica il donatore, risarcendolo della perdita, e trattiene il donatario nell’insolvenza oppure lo proietta nel calcolo dei tempi e dei modi di estinzione del debito. In questo modo, le condizioni di possibilità del dono, individuate da Mauss nelle categorie di reciprocità, contro-dono e identità, descriverebbero in realtà l’annullamento del dono, trasformandolo in un prestito da rimborsare. Se, invece, il dono non accede alla scena della fenomenalità, ma si ritira dietro ogni apparire, esso si dilegua nella figura dell’impossibile. Questa impossibilità del dono (di ordine fenomenico) si rende pensabile nella cifra dell’evento, imprevedibile, irriducibile a un significante e casuale: l’evento donante lacera il continuum temporale mentre si espone alla possibilità della perdita senza riserve. Immettendo nel «presente» lo scarto dell’assenza (il dono non può farsi presente senza dileguarsi), vi introduce la plastica e informe potenza della khora, quale oscurità fluida e indifferenziata: in questo modo il dono precede ogni questione, differisce l’essere e sfalda la coscienza autoreferenziale della modernità nel suo disegno di colonizzare l’alterità. A questa lettura antieconomica del dono segue, in Donare la morte, un’interpretazione «ultra-etica», nel senso che il puro dono incrocia le figure del sacrificio e della «donazione iperbolica», in ragione di un obbligo intransitivo e senza condizioni che, sulla scia di Levinas, impegna l’essere umano verso ogni altro in quanto «totalmente altro» (tout autre), trascendendo così il piano giuridico-politico-etico retto da simmetria, giustizia e proporzionalità. Jean-Luc Marion, nell’impresa di purificazione eidetica delle componenti relazionali del dono, (riduzione di ogni trascendenza dietro al dono e affrancamento dal regime dello scambio), ripensa il dono sullo sfondo della donazione ed eleva quest’ultima a principio «ultimo» e «originario» che apre l’intero campo dell’apparire, rimanendo immanente alla manifestazione di ogni fenomeno d’essere. La cifra della donazione intende così restituire la
Dono sovrabbondanza dell’inapparente atto donativo su ogni contenuto della manifestazione, mostrando che al cuore di ogni dato agisce il suo carattere donato, ovvero il suo essere-peril-dono (il fondo donato di ogni dato). La risposta di Marion allo stupore del c’è qualcosa piuttosto che il nulla, lo conduce a trasformare l’accadimento dell’essere (appiattito sulla presenza) nell’azione di donazione e il soggetto da coerenza autofondativa e immanenza autarchica a originaria passività ontologica (adonato): vedere significa ricevere un dono, perché apparire è darsi da vedere. Spingendo il dono fino all’ipotesi della interdonazione (fra adonati), Marion allude poi a un’antropologia relazionale: la donazione libera l’ego da se stesso, imprimendogli non un quid, ma la sua energheia: la forma del dono e il modo d’essere della ritrazione. La disposizione al per-altri è quindi il primo gesto del pensiero e la condizione dell’apertura della coscienza, giacché nessuno può iniziare la dinamica del donare, se dal dono è già sempre preceduto. Illuminante è, infine, la posizione di Paul Ricoeur che, saldando etica e ontologia, colloca il dono all’intersezione tra la verticale della gratuità e della generatività di agape (la disimmetria e la logica della sovrabbondanza) e l’esigenza orizzontale della relazione di scambio. La forza paradossale del dono sembra insistere su questo: dare senza chiedere il contro-dono rappresenta la condizione di possibilità del dono, ma dare senza interesse alla risposta significa perdere la relazione di dono. S. Zanardo BIBL.: G. BATAILLE, La part maudite: précédé de La notion de dépense, Paris 1967, tr. it. di F. Serna, La parte maledetta: preceduto dalla nozione di “dépense”, Torino 1992; J. BAUDRILLARD, L’echange symbolique et la mort, Paris 1976, tr. it. di G. Mancuso, Lo scambio simbolico e la morte, Torino 1984; C. LÉVI-STRAUSS, Le strutture elementari della parentela (1947), Milano 1984; J. DERRIDA, Donner le temps, Paris 1991, tr. it. di G. Berto, Donare il tempo. La falsa moneta, Milano 1996; J. GODBOUT, L’esprit du don, Paris 1992 (scritto in collaborazione con A. Caillé), tr. it. di A. Salsano, Lo spirito del dono, Torino 1993; M. GODELIER, L’énigme du don, Paris 1992; J. STAROBINSKI, Largesse, Paris 1994, tr. it. di A. Perazzoli-Tadini, A piene mani. Dono fastoso e dono perverso, Torino 1995; J.-L. MARION, Etant donné, Paris 1997, tr. it. di R. Caldarone, Dato che, Torino 2001; A. CAILLÉ, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono (1988), Torino 1998; J.D. CAPUTO - M. SCANLON (a cura di), God, the Gift and Postmodernism, Bloomington 1999; J. DERRIDA, Donner la mort, Paris
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Donoso Cortés
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
DONOSO CORTÉS, JUAN FRANCISCO, priDonoso Cortés mo marchese di Valdegamas. – Politico e
Donoso Cortés è stato chiamato il de Maistre spagnolo, per lo spirito della sua dottrina, più ancora che per comunanza di idee. Afferma che la scienza teologica comprende tutte le altre scienze, che sono tali nella misura in cui sono permeate di dottrina teologica. Tali affermazioni si fondano su alcuni postulati di chiara intonazione tradizionalistica o fideistica, cui Donoso Cortés era portato dalla sua fede di convertito al cattolicesimo e dalla conoscenza dell’Europa del suo tempo. Egli accentua il fideismo e la sfiducia nella ragione. Conformemente a questo tradizionalismo scettico, Donoso Cortés considera il linguaggio come una delle proprietà in attributo ricevuto dall’uomo nell’atto stesso della creazione. Nel linguaggio risiedono le prime e fondamentali idee dell’uomo. Come pensatore politico, Donoso Cortés (dopo l’esperienza rivoluzionaria del 1848) ricerca le cause determinanti della crisi europea e mondiale e i rimedi adeguati per risolverla. Sostiene che il cattolicesimo è la contraddizione assoluta della rivoluzione, e perciò ne può essere, esso solo, il rimedio radicale. A una delle forme di civiltà, e cioè alla forma filosofica che è negativa e decadente, egli contrappone la forma cattolica, che è positiva e costruttiva. La mentalità razionalistica, egli scrive, ha avvelenato la società europea.
filosofo della storia spagnolo, n. a Valle de la Serena (Badajoz) il 6 magg. 1809, m. a Parigi il 3 mar. 1853. I suoi lavori, sebbene siano in gran parte solo polemici e occasionali, rivelano grande penetrazione filosofica. L’opera principale è Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo, Madrid 1851 (subito tradotto in francese e in italiano). Tra i lavori occasionali: gli articoli del 1838 sul «Correo nacional» circa la Scienza Nuova di Vico, che egli aveva allora conosciuto rimanendone fortemente impressionato: Donoso Cortés accentua l’opposizione fra storia ideale eterna, da lui identificata con una «metastoria» (Agostino), e la storia temporale; alcuni discorsi alle Cortes (sulla situazione della Spagna, 4 marzo 1847; sulla dittatura, 4 gennaio 1849; sull’Europa, 30 dicembre 1850); alcune lettere, specie quelle al cardinale Fornari, nelle quali egli si difende dall’accusa di manicheismo: sul piano naturale la storia si concluderebbe col trionfo del male, se Dio, mediante interventi soprannaturali, non portasse a compimento l’opera frammentaria dei suoi santi.
A. Muñoz Alonso BIBL.: J. JURETSCHKE (a cura di), Obras completas de Donoso Cortés, Madrid 1946, 2 voll.; L. CIPRIANI PANUNZIO - G. DE ROSA (a cura di), Antologia degli scritti. Il potere cristiano, Brescia 1965; C. VALVERDE (a cura di), Obras completas, Madrid 1970, 12 voll. Su Donoso Cortés: E. SCHRAMM, Donoso Cortés Leben und Werken, Hamburg 1935, tr. sp. Donoso Cortés, su vida y su pensamiento, Madrid 1936; P. DIETMAR WESTMEYER, Donoso Cortés, Staatsmann und Theologe. Eine Untersuchung seines Einsatzes der Theologie in die Politik, Münster 1940; C. SCHMITT, Positionen und Begriffe, Hamburg 1940; R. CEÑAL, La filosofía de la historia de Donoso Cortés, in «Revista de Filosofía», 11 (1952), pp. 91-113; E. SCHRAMM, Donoso Cortés, ejemplo del pensamiento de la tradición, Madrid 1952; C. SCHMITT, Interpretación europea de Donoso Cortés, Madrid 1952; G. DE ARMAS, Donoso Cortés, Madrid 1953; J. CHAIX-RUY, Donoso Cortés, théologien de l’histoire et prophète, Paris 1956; R. DEMPF, Die Ideologiekritik des Donoso Cortés, in «Philosophisches Jahrbuch», 64 (1956), pp. 298-338; R. FERNÁNDEZ CARVAJAL, Las constantes de Donoso Cortés, in «Revista de Estudios políticos», 95 (1957), pp. 75-107; A. CATURELLI, Donoso Cortés Ensayo sobre su filosofía de la historia, Córdo-
1999, tr. it. di L. Berta, Donare la morte, Milano 2002; R. GUIDERI, Ulisse senza patria: etica e alibi del dono, Napoli 1999; P. SEQUERI, Dono verticale e orizzontale: fra teologia, filosofia e antropologia, in G. GASPARINI (a cura di), Il dono tra etica e scienze sociali, Roma 1999; M. MAUSS, Saggio sul dono (1924), in Teoria generale della magia, Torino 2000; P. GILBERT - S. PETROSINO, Il dono. Un’interpretazione filosofica, Genova 2001; G. MARANIELLO - S. RISALITI - A. SOMAINI, Il dono. Offerta ospitalità insidia, Milano 2001; E. PULCINI, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino 2001; M. HÉNAFF, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Paris 2002; G. RICHARD, Nature et formes du don, Paris 2002; P. SEQUERI, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Milano 2002; C. VIGNA, Sul dono come relazione pratica trascendentale, in C. VIGNA (a cura di), Etica trascendentale e intersoggettività, Milano 2002; G. FERRETTI (a cura di), Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del Novecento, Pisa-Roma 2003; S. LABATE, La buona verità. Senso e figure del dono nel pensiero contemporaneo, Assisi 2004; P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance, Paris 2004, tr. it. a cura di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento, Milano 2005; S. CURRÒ, Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Levinas e Marion, Roma 2005; L. HYDE, Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà (1979), Torino 2005. ➨ ECONOMIE PRIMITIVE.
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Dooyeweerd
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
ba 1958; S. GALINDO HERRERO, Donoso Cortés y su teoría política, Badajoz 1958 (dissertazione); B. MONSEGÚ, Clave teológica de la historia según Donoso Cortés, Badajoz 1958 (dissertazione); C. VALVERDE, Presupuestos metafísicos en la filosofía social y política de Donoso Cortés, in «Miscelanea Comillas», 16 (1958), pp. 5-81; P. SIENA, Donoso Cortés, Roma 1966; B. PERRINI, Donoso Cortés. La concezione della storia e la sua polemica con i liberali e i socialisti, Milano 1980; A. SCHWAIGER, Christliche Geschichtsdeutung in der Moderne: eine Untersuchung zum Geschichtsdenken von J. Donoso Cortés, E. Von Lasaulx und V. Solov’ev, Berlin 2001.
DONS, WALDEMAR THEODOR. – Filosofo norDons vegese, n. nel 1849, m. nel 1917. Incaricato all’università di Kristiania dal 1875 al 1882. Come scolaro di Monrad ebbe una formazione essenzialmente hegeliana e nello scritto Sul Boströmianismo (in «Norske universitets og skoleannaler», serie III, 1874) attaccò l’idealismo oggettivo del pensatore svedese e ricondusse i presupposti di questo sistema, per metà platonico e per metà romantico, ai principi della dialettica hegeliana. In saggi pubblicati in «Nyt norsk tidsskrift» («Nuova rivista norvegese», 1877) diede poi un’esposizione, sotto molti aspetti benevola e anche penetrante, delle idee fondamentali del positivismo. Più tardi si convertì al cattolicesimo. A. Nyman BIBL.: A. AALL, Filosofien i Norden, Kristiania 1919.
DONZELLI, GIUSEPPE. – Filosofo sensista, Donzelli abate, vissuto nella seconda metà del Settecento e nei primi decenni del sec. XIX. Ispirandosi alle teorie di Condillac e Bonnet, scrisse: Principi di diritto naturale, Palermo 1813; Logica ed elementi dell’arte di pensare, ivi 1818. I Principi sono fondati sul presupposto che i sensi e la ragione sono i soli mezzi concessi dalla natura per conoscere il vero e che le sensazioni, dandoci la prima cognizione delle cose, sono la base dei giudizi e dei ragionamenti. Il fine dell’uomo è la felicità, e la norma per giungere a tal fine è la retta ragione. Sulla ragione, per mezzo dell’obbligazione, è fondato il diritto, che è la facoltà di agire e il mezzo che ci concede la natura per ottenere ciò che è necessario alla nostra felicità. Nei Saggi sui vantaggi della monarchia moderna (Palermo 1794-1813) difende le teorie liberali inglesi. A. Viviani
BIBL.: G. CAPONE BRAGA, La filosofia francese e italiana del Settecento, Arezzo 1920 (Padova 19412), vol. II, p. 103; G. NATALI, Il Settecento, Milano 19646, p. 316.
DOOYEWEERD, HERMAN. – Giurista e filoDooyeweerd sofo olandese, n. ad Amsterdam il 7 ott. 1894, m. nel 1977. Laureatosi in diritto civile all’università libera (riformata) di Amsterdam nel 1926 (cfr. la prolusione De beteekenis der wetsidee voor rechtswetenschap en rechtsphilosophie [Il significato dell’idea della legge per la scienza e la filosofia del diritto]), divenne professore di filosofia del diritto e di diritto storico olandese nella stessa università. Insieme a D.H.Th. Vollenhoven, Dooyeweerd ha posto i fondamenti di una filosofia trascendentale cristiana. Questo tipo di filosofare è consapevole, nella riflessione trascendentale sul pensiero teoretico, dei propri presupposti cristiani fondati sulla fede, e mette capo a un’idea trascendentale fondamentale (idea della legge e idea del soggetto), determinata nella direzione e nel contenuto da questo motivo religioso di fondo. In quanto «teoria della struttura della realtà temporale», la filosofia comprende una teoria delle «strutture modali» (l’ordine e la connessione degli aspetti del reale) e una teoria delle «strutture individuali», cioè delle individualità temporali nella diversificazione modale delle loro funzioni. Sul pensiero di Dooyeweerd hanno influito largamente le dottrine neokantiane della Scuola di Marburgo e specialmente il metodo fenomenologico di Husserl; tuttavia la sua speculazione si sviluppa proprio come critica trascendentale a queste dottrine sulla base della rivelazione cristiana, che egli professa nell’ambito della tradizione riformata del calvinismo, sebbene a partire dal 1940 accentui sempre più il carattere ecumenico del proprio pensiero. Nel 1936 Dooyeweerd ha fondato, insieme a Vollenhoven, una Società per la filosofia calvinistica e la rivista «Philosophia reformata». M. Marlet BIBL.: De wijsbegeerte der wetsidee (Filosofia dell’idea della legge), Amsterdam 1935-36, 3 voll. (tr. ingl. completamente rifatta, A New Critique of Theoretical Thought, Amsterdam-Philadelphia 1953-57; un quarto vol. di indici è uscito nel 1958); Introduction à une critique transcendentale de la pensée philosophique, in Mélanges Philosophiques, Bibliothèque du Xme Congrès International de Philosophie, vol. II, Amsterdam 1948, pp. 70-82; Reformatie en Scholastiek in de wijsbegeerte (Riforma e scolastica nella filosofia),
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Dopp vol. I, Franeker 1949; La sécularisation de la science, in «La revue réformée», 1954, pp. 138-157; Philosophie et théologie, in «La revue réformée», 1958, pp. 48-60; Mouvements progressifs et regressifs dans l’histoire, in «La revue réformée», 1958, pp. 1-13; Cinq conférences données au Musée social à Paris, in «La revue réformée», 1959, pp. 1-76 (La prétendue autonomie de la pensée philosophique; La base religieuse de la philosophie grecque, scolastique, humaniste; La nouvelle tâche d’une philosophie chrétienne); Roots of Western Culture, Toronto 1979. Su Dooyeweerd: W. YOUNG, Toward a Reformed Philosophy. The Development of a Protestant Philosophy in Dutch Calvinistic Thought since the Time of A. Kuyper, Grand Rapids - Franeker 1952; M.F.J. MARLET, Grundlinien der kalvinistischen «Philosophie der Gesetzidee» als christlicher Transzendentalphilosophie, München 1954; A.M. CONRADIE, The Neo-calvinistic Concept of Philosophy, Natal 1960; V. BRUMMER, Transcendental Criticism and Christian Philosophy. A Presentation and Evaluation of H. Dooyeweerd’s «Philosophy of the Cosmonomic Idea», Franeker 1961; R. NASH, Dooyeweerd and the Amsterdam Philosophy, Grand Rapids 1962; AA.VV., Philosophy and Christianity. Philosophical Essays Dedicated to Professor Dr. H. Dooyeweerd, Kampen-Amsterdam 1965 (bibl. degli scritti, pp. 449-452); C.T. MCINTIRE (a cura di), The legacy of H. Dooyeweerd, Lanham 1985; C.T. MCINTIRE, H. Dooyeweerd in North America, in D. WELLS (a cura di), Reformed Theology in America, Grand Rapids 1985, pp. 172-185.
DOPP, JOSEPH. – Logico belga, n. a Bruxelles Dopp il 21 apr. 1901, m. a Eizer-Overijse il 22 febb. 1978. Pensatore di stampo neoscolastico, si è occupato soprattutto di logica, dedicandosi al confronto dell’impostazione tradizionale con quella matematica. A partire dal suo orientamento epistemologico realista venato da tendenze empiristiche, si avvicinò alle correnti di filosofia analitica (tradusse, con P. Gochet, Word and Object di W.v.O. Quine, Paris 1977). Professore all’università di Lovanio dal 1938, ricoprì anche l’incarico di segretario di redazione della «Revue philosophique de Louvain» e di «Logique et Analyse»; fu membro dell’Istitut international de philosophie e dell’Association for Symbolic Logic. F.V. Tommasi BIBL.: Félix Ravaisson, la formation de sa pensée d’après des documents inédits, Louvain 1933; Leçons de logique formelle, Louvain 1950, 3 voll. (nuova edizione in un volume, Notions de logique formelle, Louvain 1965); Essai d’une présentation de la logique combinatoire, in «Logique et Analyse», 3 (1960), pp. 183-201; Logi-
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ques construites par une méthode de déduction naturelle, Louvain 1962. Curò l’edizione, aggiungendovi alcune parti, di R. FEYS, Modal Logics, Louvain 1965. Su Dopp: J. LADRIÈRE, In memoriam. Le professeur Joseph Dopp, in «Revue philosophique de Louvain», 76 (1978), pp. 273-282.
DORFLES, GILLO. – N. a Trieste il 10 apr. Dorfles 1910, si laurea in medicina specializzandosi in psichiatria, libero docente e poi ordinario di estetica, visiting professor in numerose università degli USA e dell’America Latina e come pittore tra i fondatori a Milano del Movimento Arte Concreta (1948). Manifesta una costante curiosità nei confronti di diversi campi del sapere attraverso la comprensione delle motivazioni antropologiche che stanno dietro le singole espressioni artistiche. Lo stimolante panorama culturale milanese del dopoguerra lo pone di fronte a una nuova cultura, fatta di grafica, pubblicità, disegno industriale, che avrà le sue conseguenze nel pensiero di Dorfles. La collaborazione come redattore della rivista bimestrale di filosofia «aut-aut» diretta da Enzo Paci (dal 1951) costituisce una fondamentale palestra per i suoi studi di estetica caratterizzati da una larga apertura di orizzonti. Il non assoggettarsi ad alcuna scuola di pensiero gli permette di sconfinare in fenomeni culturali contemporanei senza pregiudizi critici. In uno dei primi libri Le oscillazioni del gusto (1958) analizza alcuni aspetti dell’incomprensione dell’arte moderna dove mette in moto nuovi scenari lievitati da inediti nessi tra creatività artistica e comportamenti sociali. Ne Il divenire delle arti (1959) analizza il continuo processo metamorfico dei diversi linguaggi artistici sottoposti a un costante consumo tanto che ogni tentativo di sistematizzarli si rivela precario. Al disegno industriale e alla grafica pubblicitaria delle Oscillazioni, in questo saggio aggiunge lo studio oltre che delle tipologie artistiche canoniche anche delle nuove manifestazioni della cultura: la musica elettronica, la fantascienza, il fumetto. Nei testi degli anni sessanta le due costanti del rito e del mito fanno da filtro a un’ulteriore indagine esteticoantropologica. Per i numerosi scritti si rimanda al repertorio bibliografico: Gillo Dorfles Scritti di architettura 1930-1998, Mendrisio 1999. E. Torelli Landini
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Dorner
DORIA, PAOLO MATTIA. – Filosofo e politico, Doria n. a Genova il 24 febbr. 1667, m. a Napoli il 25 febbr. 1746. Esponente dell’alta nobiltà genovese, ricevette un’educazione frivola e bigotta, alla quale, recatosi a Napoli, reagì con un decennio di vita mondana e rissosa. Stanco di tale modo di vivere e attratto dall’ambiente culturale napoletano, entrò in contatto con il pensiero di Gassendi e Descartes, aderendo alle dottrine di quest’ultimo. Tale adesione, però, riguardò più i fondamenti platonico-agostiniani della speculazione cartesiana che le sue metodologie «scientifiche», le quali, al contrario, erano al centro degli interessi dei «modernizzatori» napoletani. A partire da ciò, il pensiero di Doria evolse in una progressiva accentuazione della sua componente neoplatonica e antisensistica e nella rivendicazione della superiorità regolativa della metafisica sulle altre discipline, che egli coltivò opponendosi all’assolutismo politico e al clericalismo religioso.
tes als soziales Reformsystem (München 1895) in cui si afferma che Senofonte soltanto può fornire la fonte genuina del pensiero di Socrate; Geschichte der griechischen Philosophie (Leipzig 1903, 2 voll.) ecc. Lasciò inoltre scritti di logica (Grundzüge der allgemeinen Logik, Dortmund 1880) e, segnatamente, di morale (Philosophische Güterlehre, Berlin 1888; Handbuch der menschlich-natürlichen Sittenlehre, Stuttgart 1899). Il sommo bene risiede, secondo lui, nella soddisfazione del bisogno di «autoestimazione motivata» (begründete Selbstschätzung) quando, cioè, ognuno, promuovendo il bene (il piacevole) di altri esseri, appaga l’interiore esigenza di attribuire a se stesso un «valore oggettivo» generale.
M. Forlivesi BIBL.: La vita civile, Francfort [ma Napoli] 1709-10 (ristampa 2001 dell’edizione 1753); Opere matematiche, Venezia 1722-26, 2 voll.; Discorsi critici filosofici intorno alla filosofia degl’antichi, e de i moderni, ed in particolare intorno alla filosofia di Renato des-Cartes. Con un progetto di una metafisica, Venezia [ma Napoli] 1724; Filosofia di Paolo Mattia Doria, con la quale si schiarisce quella di Platone, Amsterdam [ma Napoli] 1728, 2 voll.; Difesa della metafisica degli antichi filosofi contro il signor Giovanni Locke, ed alcuni altri moderni autori, Venezia 1732-33, 2 voll.; Il capitano filosofo, Napoli 1739 (ristampa 2003); Lettere e ragionamenti vari, Perugia [ma Napoli] 1741, 2 voll.; Massime del governo spagnolo a Napoli, a cura di V. Conti, Napoli 1973; Manoscritti napoletani, Galatina 197982, 5 voll.; Altri manoscritti, Galatina 1986. Su Doria: P. ZAMBELLI, Il rogo postumo di Paolo Mattia Doria, in P. ZAMBELLI (a cura di), Ricerche sulla cultura dell’Italia moderna, Bari 1983, pp. 149-198; E. NUZZO, Verso la «Vita civile». Antropologia e politica nelle lezioni accademiche di Gregorio Caloprese e Paolo Mattia Doria, Napoli 1984; G. PAPULI (a cura di), Paolo Mattia Doria fra rinnovamento e tradizione, Galatina 1985; M. RASCAGLIA, Gli interlocutori di Vico nei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», 30 (2000), pp. 109-124.
go protestante, n. a Schleuzingen nel 1680, m. a Wolffenbüttel il 12 ag. 1752. Fu dal 1705 magister e poi rettore della scuola di Blankeburg; nel 1752 fu nominato secondo bibliotecario a Wolffenbüttel, ove morì nello stesso anno. La sua attività letteraria è concentrata nell’edizione di testi e nella raccolta bibliografica secondo i criteri del genere polistorico coltivato nel Seicento da Jonsius e da Morhof e continuato nel Settecento da Fabricius e da Struve. È noto soprattutto per la riedizione dei tre libri De scriptoribus historiae philosophicae (Jena 1716) di J. Jonsius, cui aggiunse un quarto libro dedicato alla letteratura filosofica dell’età moderna, coprendo tutto il Seicento.
DÖRING, AUGUST. – Positivista tedesco, n. a Döring Elberfeld nel 1834, m. a Oporto nel 1912. Studioso di filosofia antica, scrisse: Die Kunstlehre des Aristoteles (Jena 1867) importante per la trattazione della catarsi; Die Lehre des Sokra-
DORNER, AUGUST. – Filosofo idealista tedeDorner sco, n. a Schiltach (Baden) nel 1846, m. a Hannover nel 1920. Fu professore a Königsberg. Il suo pensiero sentì l’influsso di Kant, Schleiermacher, Schel-
A.M. Moschetti BIBL.: V. CATHREIN, Moralphilosophie, Freiburg im Breisgau 1893, 2 voll., tr. it. di E. Tommasi, Filosofia morale, Firenze 1913, vol. I, pp. 274-275.
DORN, JOHANN CHRISTOPH. – Erudito e teoloDorn
M. Longo BIBL.: tra le altre opere: Oratio de vita et obitu H. Kelleri, Jenae 1702; Diss. De doctis impostoribus, Jenae 1703; Biblioteca theologico-critica, secundum singulas divinioris scientiae partes disposita, Jenae 1721-25, 2 voll. Su Dorn: M. LONGO, Le storie generali della filosofia in Germania, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, ad indicem.
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Dorp ling e in particolare R. Eucken. Un dualismo teistico ne costituisce l’aspetto più significativo: Dio, che si raggiunge con un metodo dialettico-speculativo, è un’essenza spirituale e trascendente, che si rivela nella natura e nella storia. Le sue opere principali sono: Das menschliche Erkennen, Berlin 1887; Grundriss der Religionsphilosophie, Leipzig 1903; Eine Metaphysik des Christentums, Stuttgart 1913. A.M. Moschetti BIBL.: G.G. FREBOLD, Dorners philosophische Grundstellung, Hannover 1917; P. LAU, August Dorners Religionsphilosophie, Königsberg 1928.
DORP, GIOVANNI. – Nominalista del XV secolo. Dorp II suo nome compare nell’elenco dei maestri ockhamisti (nominalisti o terministi) espulsi dall’università di Parigi, per ordine di Luigi XI, nel 1474. Red. BIBL.: F. EHRLE, Der Sentenzenkommentar Peters von Candia, des Pisaner Papstes Alexander V, Münster 1925, p. 313; M. DE WULF, Histoire de la philosophie médiévale, Paris 1934-476, pp. 129, 146, tr. it. di V. Miano, Storia della filosofia medievale, Firenze 19572, vol. III, pp. 125, 150; H. WOJTCZAK, Johannes Dorp, Autor des Kommentars zu Summulae logicales von Johannes Buridan, in «Acta Mediaevalia», 12 (1999), pp. 311-332.
DOSSOGRAFI. – Termine passato in uso per Dossografi designare gli autori che, nell’antichità, scrissero sui più antichi filosofi greci, fornendo notizie sulla loro vita e dottrine; dopo che Hermann Diels ebbe a escogitare il neologismo latino che compare nel titolo della sua opera monumentale sui Doxographi graeci (Berlin 1879; 19764), seguita e completata, nel 1903, dalla prima edizione della raccolta Die Fragmente der Vorsokratiker (Berlin; Hamburg 19516, rist. Dublin-Zürich 1972). Occorre distinguere la dossografia propriamente detta, vale a dire i compendi e le antologie redatti in base all’esigenza storico-erudita predominante nell’età dell’ellenismo alessandrino, dall’attenzione storiografica anteriore, che è più spesso intimamente connessa, se non subordinata, alla riflessione teoretica personale. Il filosofo che per primo fa riferimento alle dottrine precedenti è Platone, per quanto i richiami storici, criticamente importanti, non figurino nei dialoghi in modo sistematico. È invece con Aristotele che la considerazione delle filosofie anteriori acquista ampiezza di 3074
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svolgimento organico (cfr. in particolare Metaph., A, 983 a - 993 a); infatti, grazie al metodo «dialettico» (Aristotele, Top., I.14), gli enunciati e i «problemi» che contrassegnano le dottrine precedenti, vengono esaminati e valutati; la prospettiva storico-dialettica appare modalità essenziale per la più piena verifica della validità dei risultati conseguiti; perciò, rispetto a quest’ultimi, il «dialogo» con i sistemi filosofici da Talete a Platone, unito alla rassegna di quanto rientra nel convincimento dei più o degli «esperti» (ta; e[ndoxa), delinea lo spazio concettuale in cui si prospetta la ricerca, ed è, insieme, banco di prova delle soluzioni proposte. Il modello «dialettico» con cui Aristotele introduce molti dei suoi scritti condizionò il metodo utilizzato, all’interno del Liceo, nel raccogliere testi e notizie storiche riguardanti la storia della filosofia, con speciale riguardo per i principi dei sistemi «fisici» e le «cause» della «sostanza», le scienze naturali e le teorie etico-politiche. Punto di partenza decisivo dell’attività di questo tipo devono considerarsi i 18 libri del trattato su Le dottrine fisiche di Teofrasto (372-288 a. C.), allievo e successore di Aristotele nella direzione della scuola peripatetica (il titolo, riferito da Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi V II, 48, fu dapprima interpretato da Diels come Le opinioni dei Fisici); conserviamo buona parte del primo (sui «principi», ajrcaiv), e citazioni significative dell’ultimo libro (sulla percezione sensoriale); l’esposizione delle «opinioni» (dovxai) segue un criterio sistematico ed è accompagnata da commenti critici che si ispirano alla filosofia aristotelica. Non a Teofrasto, ma certamente all’ambiente scientifico del Peripato, risale lo scritto pseudo-aristotelico De Melisso, Xenophane et Gorgia, che, verosimilmente, doveva far parte di un ampio programma di studio della filosofia presocratica. La ricostruzione d’insieme dello sviluppo della letteratura dossografica, nell’interna sua differenziazione, ramificazione e trasmissione di fonti, presenta difficoltà di non facile risoluzione, anche dopo le conclusioni cui è giunto Diels, sulla scia delle indicazioni fornite dal suo maestro Hermann Usener. Snodo importante sembra essere la Raccolta di opinioni (´Aetivou th;n peri; ajreskovntwn sunagwghvn) di Aezio (I-II sec. d. C), autore per altri aspetti sconosciuto, la cui opera è segnalata nel V secolo dal padre della chiesa Teodoreto; essa deriva a sua volta da una fonte più antica, i Vetusta Pla-
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cita (prima metà del sec. I a. C.), uscita dalla scuola di Posidonio, la cui esistenza Diels ha ipotizzato sulla base delle concordanze esistenti fra i Placita, in cinque libri (sec. II d. C.), attribuiti erroneamente a Plutarco di Cheronea, e l’antologia (Eclogae) di Stobeo (V secolo d. C.). In generale, nell’ambito della produzione dossografica in senso stretto, occorre distinguere, sia pure schematicamente, tre diversi generi letterari, tendenzialmente diversi per i temi trattati e il metodo adottato. Alcuni autori – com’è il caso dei già citati Aezio, pseudo-Plutarco e Stobeo – si dedicano a comporre rassegne – che con il tempo diventano sempre più brevi e schematiche – delle vedute filosofiche apparse storicamente, con estratti dalle opere dei loro autori. A questo tipo di derivazione pseudoplutarchea appartengono la Confutazione di tutte le eresie, dello scrittore cristiano Ippolito (inizio III secolo), specialmente importante per la documentazione presocratica, e la Storia filosofica (III-V secolo d. C.), falsamente attribuita a Galeno; oltre allo scritto in difesa dei cristiani di Atenagora, lo pseudo-Giustino, e lo Scherno dei filosofi pagani di Ermia. Un altro gruppo di dossografi preferisce invece narrare le vite dei filosofi – sotto l’influsso dello stoicismo considerate esemplari per il conseguimento della saggezza –, le loro relazioni personali o di scuola; in questo campo, l’opera più significativa è certamente la Raccolta delle vite e dottrine dei filosofi, scritta in dieci libri da Diogene Laerzio (prima metà sec. III), ricca di informazioni preziose; cui va aggiunta quella Sulle scuole di uno scrittore dalla cronologia incerta, Ario Didimo (I-III secolo). Per la dossografia «biografica» vanno inoltre ricordati il primo libro della Confutazione di tutte le eresie di Ippolito, che per le sezioni dedicate a Talete, Pitagora, Eraclito ed Empedocle, ha presumibilmente utilizzato qualche raccolta di aneddoti apocrifi. Una terza e ultima tendenza si occupa di presentare, facendo ricorso quasi sempre al criterio della connessione «dialettica», la «successione» (diadochv) intercorsa tra i filosofi (per esempio, nel rapporto maestro-scolaro) e, soprattutto, tra i diversi orientamenti, o «scuole» filosofiche. A questo proposito, si possono ricordare gli scritti del filosofo e poeta greco Filodemo (sec. I a. C.), che si occupa di stabilire i rapporti fra l’Accademia e lo stoicismo (che critica) ed espone ciò che i filosofi hanno detto circa gli dei, in stretto parallelismo con quanto
Dostoevskij Sulla natura degli dei scrive Cicerone, i cui diversi trattati filosofici (De finibus bonorum et malorum, De officiis, De fato) offrono, peraltro, scorci essenziali del dibattito filosofico che si accese fra gli indirizzi dello stoicismo, epicureismo e scetticismo. E tuttavia, per quanto le notizie trasmesse risultino spesso indispensabili per la migliore conoscenza del pensiero classico greco e romano, le opere di questi ultimi scrittori, come del resto quelle di Plutarco e di Clemente d’Alessandria, per citare solo i maggiori, non fanno parte della tradizione dossografica tecnicamente intesa. G.F. Pagallo BIBL.: Per i singoli autori, cfr. voci e bibl. relative: fondamentale H. DIELS, Doxographi graeci, Berolini 1879 (rist. anast. Berolini 1965), tr. it. di L. Torraca, I dossografi greci, Padova 1961, integrato da P. WENDLAND, Eine doxographische Quelle (Vetusta Placita), in «Sitzungsberichte der Akademie der Wissenschaften in Berlin, Gesellschaftswissenschaften», Philosophie 1897. Vedi anche: M. GIUSTA, I dossografi di etica, vol. l, Torino 1964. STUDI: M. DAL PRA, La storiografia filosofica antica, Milano 1948; AA.VV., Storiografia e dossografia nella filosofia antica, a cura di G. Cambiano, Torino 1986; D.E. HAHM, The Ethical Doxography of Arius Didymus, in W. HAASE - H. TEMPORINI (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, vol. II, cap. 36.4, Berlin New York 1990, pp. 2935-3055; J. MANSFELD, Doxography and Dialectic: the Sitz im Leben of the «Placita», in W. HAASE - H. TEMPORINI (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Berlin - New York 1990, pp. 3056-3229; J. MANSFELD, «Physikai doxai» and «Problemata physica» from Aristotle to Aëtius (and Beyond), in W.W. FORTENBAUGH - D. GUTAS (a cura di), Theophrastus: His Psychological, Doxographical and Scientific Writings, New Brunswick 1992, pp. 63111; J. MANSFELD, Sources, in The Cambridge History of Hellenistic Philosophy, Cambridge 1999, pp. 3-30; D.T. RUNIA, What is Doxography?, in PH.J. VAN DER EIJK (a cura di), Ancient Histories of Medicine: Essays in Medical Doxography and Historiography in Classical Antiquity, Leiden 1999, pp. 33-55; L. ZHMUD, Revising Doxography: Hermann Diels and his Critics, in «Philologus», 145 (2001), pp. 219-243; J. MANSFELD, Deconstructing Doxography, in «Philologus», 146 (2002), pp. 277-286.
DOSTOEVSKIJ, FËDOR MICHAJLOVIC. – N. a Dostoevskij Mosca il 30 ott. 1820, m. a Pietroburgo il 28 genn. 1881. Figlio di un medico militare, viene iscritto dal padre ai corsi di ingegneria del collegio militare di Pietroburgo. In realtà la sua vocazione è letteraria: terminati gli studi ottie3075
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Dostoevskij ne un modesto incarico burocratico che lascia quasi subito per dedicarsi alla professione di scrittore, scelta che manterrà tra molte sofferenze e umiliazioni (epilessia, debiti, lutti familiari, arresto e deportazione in Siberia) e che gli regalerà comunque inattese soddisfazioni e, alla fine, una grande notorietà. I romanzi di Dostoevskij, intrisi di filosofia, affrontano sempre problemi universali: Dio, il male, la colpa, la libertà, le profondità dell’anima. La vita attiva dei suoi personaggi, liberata dalle incombenze del quotidiano, corrisponde alla nostra vita profonda. Spesso si è sottolineato, forse non a torto, il carattere profetico dell’opera di Dostoevskij, vedendo in essa un’anticipazione e una critica ante litteram del pensiero di Nietzsche, del nichilismo ateo moderno e degli esiti totalitari delle ideologie utopistiche. Si è soliti indicare, sulla scia di Lev Šestov, nelle Memorie dal sottosuolo (1865) una svolta cruciale nella produzione di Dostoevskij: il passaggio da un socialismo umanitario – presente in Povera gente (1846), Umiliati e offesi (1862) e nelle Memorie da una casa di morti (1861), resoconto dell’atroce prigionia siberiana – a una concezione tragica del mondo e della sofferenza. Ciò che la spietata autoanalisi dell’uomo del «sottosuolo» mette in luce è infatti una regione nascosta e inquietante dell’animo umano, nella quale il dolore appare nella sua irriducibile ambiguità, dove il soggetto scopre il piacere morboso di impersonarsi vittima e carnefice di se stesso. Le umiliazioni che il protagonista di questo racconto volontariamente ricerca e si infligge dimostrano l’impossibilità di un distacco dal male e dalla degradazione proprio perché condizioni delle quali l’uomo arriva a compiacersi. Raskolnikov, lo studente protagonista di Delitto e castigo (1866), è un autentico uomo del sottosuolo: un’idea lo ossessiona, quella della libertà propria dell’«uomo superiore» di uccidere per fini più alti. Tale idea, a lungo covata sotterraneamente e assaporata fino al tormento, una volta messa in pratica finisce per schiacciarlo: dopo aver ucciso una vecchia usuraia e sua sorella per procurarsi del denaro, Raskolnikov si accorge di essere solo un banale omicida, di non aver raggiunto una libertà al di là del bene e del male e di non essersi dimostrato all’altezza della sua idea. Per questo, anche se confessa e affronta la pena volendola, presentendo in qualche modo la sua colpevolezza (soprattutto at3076
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traverso terribili incubi), non può pentirsi né condannare se stesso: la storia della sua rinascita grazie all’amore per Sonja, la prostituta che lo ama e lo segue fino in Siberia, non viene narrata ma solo accennata alla fine del romanzo. Stavrogin, il personaggio centrale dei Demoni (1873), è ancora al di là di Raskolnikov: non ha nessuna norma da violare e nessuno scopo da perseguire in quanto ignora ogni distinzione di bene e male. Individuo eccezionale, affascinante, è l’incarnazione di una forza negatrice fine a se stessa destinata a distruggere e ad autodistruggersi: ogni sua azione e provocazione è motivata solo dalla noia, dall’indifferenza e dalla volontà di sperimentare. Disincantato spettatore di se stesso, Stavrogin sposa una povera infelice solo per la sadica curiosità di impersonarsi improbabile benefattore; distribuisce fra i suoi amici idee titaniche da lui coltivate senza aderirvi solo per vederne gli esiti mortiferi (il nichilismo rivoluzionario di Pëtr Verchovenskij, l’ateismo suicida di Kirillov, il nazionalismo religioso di Šatov non sono che frammenti della sua personalità viventi di vita propria); seduce e violenta una bambina per spiare in lei il tormento della colpa che la porta infine al suicidio. Proprio quest’ultimo delitto – che ora lo perseguita dopo una lunga rimozione – viene rievocato nella confessione che Stavrogin consegna al vescovo Tichon: atto estremo ancora nel segno dell’ambiguità, ove il rimorso si mescola con il piacere della propria degradazione e con la vanità dell’ostentazione. Stavrogin in realtà cerca la croce, vorrebbe soffrire ma non può perché si vergogna del pentimento, perché si rifiuta di patire lo scherno al quale la sua confessione lo condannerebbe: il suicidio non è che la conferma della sua demoniaca vocazione al nulla e alla distruzione, vocazione che finisce per inghiottirlo. Se Stavrogin è l’incarnazione del male, il principe Myškin, protagonista dell’Idiota (1868-69) vuole essere, secondo le parole di Dostoevskij, la rappresentazione di un uomo «assolutamente buono», il simbolo di Cristo stesso. Myškin è un disadattato, infermo nel fisico e nella mente, epilettico, un «idiota» appunto, eppure è capace di un’infallibile penetrazione psicologica, prevede le azioni degli uomini comprendendole e perdonandole in anticipo, è sempre mite e generoso, attira e affascina le anime più sensibili delle donne e dei bambini:
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proprio la sua povertà di spirito e la sua infantile estraneità all’opportunistica morale comune rendono il suo sguardo (uno sguardo da nessun luogo) così chiaro. Riapparso a Pietroburgo dopo un soggiorno in Svizzera dove ha curato una malattia nervosa, il principe è accolto inizialmente come un ritardato da deridere e di cui profittare, ma pian piano tutti i personaggi restano incantati dal sua figura enigmatica e dalla sua altezza d’animo: «questo intruso diventa indispensabile. [...] Agli occhi di tutti è la prova di un’altra esistenza, di un altro mondo possibile» (H. Troyat, Dostoevskij, Paris 1940, pp. 334 ss). Ma questo mondo alternativo non si realizza. Due donne si innamorano di Myškin, Aglaja e Nastasja: quest’ultima è ricambiata ma si sente indegna di lui e si abbandona al perfido Rogozin che alla fine la uccide in preda alla gelosia. Il principe, che presentiva un simile esito, ripiomba nella follia. Diversi autori (L. Šestov, P. Evdokimov, H. Troyat, H. De Lubac) hanno letto la vicenda dell’Idiota nel segno dell’insufficienza e del fallimento di un amore che non è che compassione: Myškin in effetti non sa agire ma solo amare, e quando agisce sbaglia; può solo consolare, non salvare. Il suo ricadere nella follia dimostrerebbe (questo il messaggio di Dostoevskij) lo smacco di una concezione del bene fondata sulla passività e non opposizione al male. Altri (R. Guardini, L. Pareyson) hanno invece insistito più sull’equazione Myškin-Cristo, riconoscendo nella fugace apparizione mondana del protagonista e nella sua incapacità di adattamento il destino tragico del bene che si incarna senza essere «di questo mondo». Nell’ultimo romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov (1879-80), è la sofferenza stessa a rivelarsi, tragicamente, l’unica espiazione possibile: solo rivivendo l’esperienza di Cristo, riconoscendosi colpevoli verso tutti e tutto, si può riscattare la sofferenza altrui con la propria, perdonare ed essere perdonati. Dmitrij Karamazov, accusato di parricidio e condannato ai lavori forzati, anche se innocente accetta la pena e vuole soffrire per tutti, soprattutto per coloro che soffrono inutilmente, i bambini (come quel bambino che lui stesso ha ferito per sempre umiliandone il padre davanti agli occhi). Questa è la vera risposta all’ateismo del fratello Ivan, il quale in un fondamentale dialogo con il novizio Alëša (il terzo dei fratelli), aveva rifiutato di ammettere la compatibi-
Dostoevskij lità di Dio e della sofferenza umana: non è accettabile l’idea che Dio si serva di essa per realizzare il suo piano di riconciliazione finale, in particolare nel caso in cui a patire siano i bambini. Se il prezzo dell’armonia finale è anche la sola lacrima di un solo bambino, Ivan dichiara di volersi tenere fuori da tutto ciò: quella lacrima basta di per sé a dimostrare l’assurdità del mondo e l’inesistenza di Dio. Anche la redenzione ha fallito: Cristo, invece di liberare l’uomo dal dolore, non ha fatto che peggiorare il suo stato caricandolo del peso insostenibile della libertà. L’ateismo di Ivan culmina però in un indifferentismo etico (se Dio non esiste «tutto è permesso») e in un nichilismo che lacerano la sua anima assetata di giustizia e lo condannano alla dissociazione e alla follia. La risposta di Alëša a Ivan esprime bene il comportamento di Dmitrij: c’è chi può perdonare tutto e riscattare la sofferenza inutile proprio perché anch’egli ha patito innocente, ed è Cristo. Dio stesso, lungi da voler piegare la sofferenza ai propri piani, l’ha presa su di sé e ha condiviso con l’uomo l’abisso del dolore e dell’abbandono fino alla morte. L’unico senso possibile della sofferenza è allora quello della consofferenza col redentore: l’assurdità e lo scandalo del male sono tolti e vinti per il fatto stesso che Dio li ha accolti in sé partecipandovi. Questo il messaggio di Dostoevskij, «tormentato da Dio» (sono sue parole) e dall’ateismo per tutta la vita: le parole di Ivan, da Dostoevskij profondamente sentite e scritte di getto in pochi giorni trovano nella theologia crucis la loro tragica e sofferta soluzione. Il destino dell’uomo che rifiuta Dio è cadere nelle braccia del demonio: demoni sono coloro che uccidono e incendiano cercando di costruire una società perfetta senza Dio; diabolica la follia in cui precipita Ivan; pura fantasticheria il sogno (messo in bocca a Versilov nell’Adolescente, 1875, e al demonio nei Fratelli Karamazov) di un’umanità liberata dall’amore per Dio e unita in una trepidante dedizione al finito. M. Rossi Monti BIBL.: L. ŠESTOV, Dostoevskij i Nitse. Filosofija tragedii, Berlin 1922, tr. it. di E. Lo Gatto, La filosofia della tragedia, Napoli 1950; R. GUARDINI, Religiöse Gestalten in Dostoevskijs Werk: Studien über den Glauben, München 1951, tr. it. di M.L. Rossi, Il mondo religioso di Dostoevskij, Brescia 1951; N. BERDJAEV, Mirosozercanie Dostoevskago, Praha 1923, tr. it. di B. Del Re, La concezione di Dostoevskij, Torino 19772; P. EVDOKIMOV, Dostoevskij et le problème du mal, Paris 19782; S. GIVO-
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Dottore NE,
Dostoevskij e la filosofia, Roma-Bari 1984; H. DE LUBAC, Le drame de l’humanisme athee, Paris 1944, tr. it. di A. Tombolini, Il dramma dell’umanesimo ateo, Milano 19922; L. PAREYSON, Dostoevskij, Torino 1993; V. IVANOV, Dostojewskij: Tragodie-Mythos-Mystik, Tübingen 1922, tr. it. di E. Lo Gatto, Dostoevskij. Tragedia Mito Mistica, Bologna 1994.
DOTTORE (doctor; Doctor; docteur; doctor). – Dottore Etimologicamente significa: colui che è atto a insegnare; in senso più rigoroso, definisce un grado accademico, il cui sviluppo storico è connesso allo sviluppo delle università. Fu adoperato da principio come puro titolo onorifico e conferito, accompagnato da un aggettivo, ai più insigni maestri del tempo; divenne quindi un equivalente di maestro, e soltanto più tardi, sembra per la prima volta a Bologna, acquistò un valore a sé, distinto dagli altri gradi accademici. In questo senso il titolo di dottore veniva conferito a chi, svolto un determinato corso di studi e superati gli esami, si dimostrava capace di insegnare. Fra i più famosi soprannomi di dottore si possono ricordare: Alano di Lilla, Alberto Magno e Abelardo, Doctor universalis; Bernardo di Chiaravalle, Doctor mellifluus; Alessandro di Hales, Doctor irrefragabilis; Tommaso d’Aquino, Doctor angelicus, communis; Bonaventura di Bagnorea, Doctor seraphicus; Enrico di Gand, Doctor solemnis; Ruggero Bacone, Doctor admirabilis; Goffredo di Fontaines, Doctor venerandus; Giovanni Duns Scoto, Doctor subtilis; Raimondo Lullo, Doctor illuminatus; Egidio Colonna o Romano, Doctor fundatissimus; Durando di San Porciano, Doctor resolutissimus; Gregorio di Rimini, Doctor authenticus; Niccolò Cusano, Doctor christianus; Gabriele Biel, Doctor profundissimus; Francisco Suárez, Doctor eximius. Il titolo di «dottore della chiesa» è conferito dalla chiesa cattolica a un esiguo numero di scrittori ecclesiastici, i quali, grazie all’eccezionale conoscenza teologica profusa in maniera originale nei loro scritti, hanno contribuito in maniera determinante all’approfondimento e alla relativa diffusione della dottrina e dell’ortodossia cattolica. Inizialmente, il titolo di dottore della chiesa venne attribuito a personaggi famosi («padri della chiesa») che, oltre che proclamati santi, furono unanimemente riconosciuti e considerati meritevoli di questo titolo. Successivamente, circa dal VI secolo in poi, il titolo di dottore della chiesa fu attribuito mediante ufficiale proclamazione del som3078
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mo pontefice, non necessariamente in coincidenza con la canonizzazione a santo. Nel XVI secolo, il pontefice san Pio V stabilì un formulario liturgico per celebrare la memoria dei santi dottori; nel 1970, a opera di Paolo VI, furono proclamate dottori della chiesa, per la prima volta, due sante, Caterina da Siena e Teresa d’Avila. Il titolo non coincide con quello di padre della chiesa (solo alcuni padri sono dottori). Red. BIBL.: G. LE BRAS, Velut splendor firmamenti: Le docteur dans le droit de l’Église médiévale, in AA.VV., Mélanges offerts à Étienne Gilson, Toronto-Paris 1959, pp. 373-388.
DOTTRINA MONOFILETICA (dal gr. moDottrina monofiletica vno" «solo», fulhv «radice» - monophyletic theory; monophyletische Lehre; théorie monophyletique; doctrina monofilética). – Dottrina secondo cui tutte le specie di organismi avrebbero avuto origine da una unica specie originaria attraverso successive e progressive evoluzioni. Ne fu sostenitore E. Haeckel. A questa teoria altri oppongono invece la dottrina polifiletica, secondo la quale non una, ma molte sarebbero le specie originarie. Red. ➨ EVOLUZIONISMO.
DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA Dottrina sociale della chiesa (the church’s social teaching; Soziallehre der Kirche; magistère social de l’église; doctrina social de la iglesia). – Per dottrina sociale della chiesa s’intende un corpus di principi dottrinali e d’indicazioni operative attraverso cui la chiesa ha interpretato (e interpreta) la questione sociale, alla luce del Vangelo e della tradizione successiva, offrendo in particolare ai credenti e alle comunità cristiane criteri di giudizio per valutarne il significato e indirizzi concreti secondo i quali sviluppare il proprio impegno nella società. Si suole far risalire l’inizio di tale dottrina all’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), documento che ha assunto storicamente il ruolo di «magna charta», cioè di paradigma letterario e dottrinale al quale i documenti successivi, in gran parte commemorativi della sua promulgazione, si sono ispirati. SOMMARIO: I. Lo sviluppo storico della dottrina sociale e le principali categorie interpretative della realtà sociale. - II. Le diverse accezioni di dottrina sociale e i criteri di valutazione delle
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varie affermazioni. - III. Il rinnovamento della dottrina sociale e le prospettive per il futuro. I. LO SVILUPPO STORICO DELLA DOTTRINA SOCIALE E LE PRINCIPALI CATEGORIE INTERPRETATIVE DELLA REALTÀ SOCIALE. – Nonostante l’arco di tempo piutto-
sto ristretto – poco più di un secolo – e il numero limitato di documenti prodotti, la dottrina sociale della chiesa è andata soggetta a profonde trasformazioni, sia sul terreno della struttura formale che dei contenuti, a causa soprattutto dei profondi e rapidi mutamenti verificatisi in tale periodo nella società. I testi che ad essa fanno capo sono, oltre alla già citata Rerum novarum, l’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI (1931), alcuni radiomessaggi di Pio XII (in particolare quelli del 1 giugno 1941, cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Rerum novarum, e quelli del 1 settembre e del 24 dicembre 1944), le encicliche Mater et magistra (1961) e Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII, la costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II (1965), l’enciclica Populorum progressio (1967) e la lettera apostolica Octogesima adveniens di Paolo VI, il documento del sinodo dei vescovi Giustizia nel mondo (1971) e infine le encicliche Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II. Oltre a questi documenti, che costituiscono il blocco più consistente e più autorevole, importanti riferimenti alla questione sociale sono reperibili in altri interventi papali e delle congregazioni romane, mentre notevole significato rivestono le prese di posizione di numerose conferenze episcopali nazionali o di interi continenti (basti pensare ai documenti conclusivi degli incontri della conferenza episcopale latino-americana a Medellín e a Puebla). L’interesse per la realtà sociale e l’impegno a interpretarla secondo la logica evangelica sono una costante della tradizione cristiana. I padri della chiesa hanno affrontato ripetutamente, sia pure in modo occasionale, questioni che avevano attinenza con la giustizia sociale; mentre, a loro volta, i teologi medioevali hanno approfondito, con rigore teoretico, le categorie che definiscono la struttura portante della socialità umana. La dottrina sociale della chiesa non è dunque un masso erratico nell’ambito della riflessione ecclesiale; ha precisi antecedenti, ai quali fa peraltro spesso riferimento nell’esposizione delle sue linee orientative. L’elemento di novità che in essa si riscontra è costituito dal carattere di organici-
Dottrina sociale della chiesa tà con cui si accosta ai problemi della vita sociale; organicità resa necessaria dall’emergere in senso proprio, con l’avvento della rivoluzione industriale, della cosiddetta «questione sociale», dall’affermarsi cioè di una situazione di grave conflitto tra le classi che compongono il tessuto della società – in particolare tra la classe borghese e la classe operaia – e dalla necessità di intervenire in termini globali, creando i presupposti per l’attuazione di un ordine giusto. Le direttrici attorno alle quali tale ordine va costruito sono ben espresse da alcune fondamentali categorie di lettura della realtà sociale, che rivestono, nello stesso tempo, il significato di criteri di valutazione dell’esistente e di prospettive per la costruzione del futuro. Al centro di tali direttrici vi è anzitutto il concetto di giustizia sociale, la quale viene identificata (contrariamente a quanto avveniva nella manualistica morale del tempo, dove centrali erano i concetti di giustizia commutativa e distributiva) con la giustizia tout court, in quanto a costituirne l’oggetto è il bene di tutti e di ciascuno. Il fatto che l’uomo sia essenzialmente un essere sociale e sia, nel contempo, fine (e non mezzo), impone che il vero bene della comunità venga riferito trascendentalmente – come osserva acutamente la Mater et magistra – al bene della persona e che, a sua volta, il bene di quest’ultima non possa essere determinato senza tenere conto dei vincoli di solidale comunione, anteriori a ogni forma di organizzazione sociale. Questa concezione riceve ulteriori approfondimenti nel corso del tempo, sia a seguito dell’introduzione della categoria di «umanesimo plenario», che conferisce allo sviluppo una dimensione «umanistica» (cfr. Populorum progressio), sia grazie al riferimento a un «parametro interiore», destinato a garantire la promozione di ogni soggetto umano nel rispetto della radicale uguaglianza tra gli uomini (cfr. Sollicitudo rei socialis, nn. 27-33). Accanto a questi contributi, che determinano un affinamento qualitativo, è poi doveroso ricordare il graduale ampliamento di orizzonti cui il concetto di giustizia sociale va soggetto, con l’assunzione, in conseguenza dell’avanzare del processo di interdipendenza tra i vari settori della convivenza e tra i popoli (fino all’attuale globalizzazione), di dimensioni universalistiche e con il superamento di una prospettiva puramente sincronica e l’apertura a una prospettiva diacronica – resa urgente dalla gravità 3079
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Dottrina sociale della chiesa della crisi ecologica – che tiene in seria considerazione la promozione umana delle generazioni future (Sollicitudo rei socialis, n. 34). Così definito, il concetto di giustizia sociale è l’humus nel quale affondano le loro radici due grandi principi, che secondo la dottrina sociale della chiesa vanno posti alla base degli ordinamenti socioeconomici e politici: il principio di sussidiarietà e il principio della destinazione universale dei beni. Il principio di sussidiarietà, enunciato per la prima volta, in termini precisi, dalla Quadragesimo anno (n. 80) per tutelare l’autonomia dei singoli e dei gruppi intermedi – oggi si direbbe della «società civile» – di fronte all’indebita invadenza dello stato, ha subito, successivamente, un processo di graduale ridimensionamento con l’introduzione del principio di solidarietà, che assume con la Populorum progressio il carattere di presupposto fondante dell’ordine sociale (cfr. nn. 5961). Per questo lo sforzo dei documenti più recenti – si veda in particolare la Centesimus annus (n. 39) – è teso a ristabilire un giusto equilibrio tra i due principi, assegnando al principio di solidarietà il carattere di orizzonte ultimo di riferimento e attribuendo al principio di sussidiarietà il significato di mezzo per il coinvolgimento responsabile dei diversi soggetti individuali e sociali nel processo di ricerca del bene comune. Il secondo – il principio della destinazione universale dei beni – è invece il punto di arrivo di un cammino che è venuto facendosi strada gradualmente nell’ambito della dottrina sociale della chiesa, ridimensionando la centralità assegnata in partenza all’istituto della proprietà privata, e che ha ricevuto la sua definitiva consacrazione nella Populorum progressio (n. 22). Con esso si afferma, in termini inequivocabili, il diritto di tutti gli uomini e di tutti i popoli ad attingere dai beni della terra quanto è necessario alla soddisfazione dei propri bisogni, esigendo, di conseguenza, che ogni ordinamento socio-economico sia fondato sulla ricerca di un’equa distribuzione dei beni secondo criteri di giustizia non disgiunta dalla carità. A partire da tali presupposti viene anzitutto affrontato il problema dei rapporti tra capitale e lavoro, che rappresenta, nella prima fase di sviluppo della questione sociale, il nodo critico più rilevante, partendo dalla difesa dei diritti dei lavoratori – dal diritto al salario al diritto al rispetto dell’integrità fisica e morale, fino al diritto alla libertà di associazione e al 3080
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pieno inserimento nella vita sociale – per giungere alla richiesta della creazione di un sistema economico che si sviluppi secondo una logica di partecipazione e di solidarietà (cfr. Centesimus annus, nn. 30-43). In una seconda fase – che ha inizio con la pubblicazione della Populorum progressio e, successivamente, della Sollicitudo rei socialis –, nella quale la questione sociale non può più limitarsi a considerare le ineguaglianze fra le classi ma deve porre al centro della riflessione la questione dei rapporti tra i popoli della terra, essenziale diventa la denuncia dello stato di sperequazione esistente tra Nord e Sud del mondo e l’individuazione dei presupposti sui quali costruire un nuovo ordine internazionale. La solidarietà s’identifica qui con la promozione dell’intera famiglia umana e deve concretamente tradursi nella elaborazione di progetti di collaborazione mondiale e nella creazione di relazioni commerciali ispirate a criteri di vera equità sociale. II. LE DIVERSE ACCEZIONI DI DOTTRINA SOCIALE E I CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE VARIE AFFERMAZIONI. – Accostando i vari documenti del magistero sociale non è difficile individuare la presenza, nel succedersi delle varie fasi storiche, di accezioni diverse del concetto di dottrina sociale della chiesa. La prima di queste accezioni coincide con lo sviluppo di un modello ideologico-dottrinale, che interpreta l’intervento della chiesa nei confronti della realtà sociale come offerta di un progetto autonomo, contrapposto tanto al liberalismo capitalista, che negava l’esistenza di un ordine oggettivo capace di fondare il bene comune, quanto al collettivismo marxista, che sosteneva il primato della struttura sociale sulla persona. Questo modello, presente anzitutto nella Rerum novarum e ripreso, successivamente, dalla Quadragesimo anno, finiva per trasformare la dottrina sociale della chiesa in una vera e propria «terza via», caratterizzata dalla pretesa di ricavare immediatamente dal messaggio evangelico un preciso progetto socio-politico, con la tentazione della caduta nell’integrismo, ma anche con il pericolo di riduzione della fede a una ideologia storico-sociale. La presa di coscienza di questi limiti e il tentativo del loro superamento si verificano soprattutto all’epoca del Vaticano II, in concomitanza con l’avanzare di forti critiche al concetto di dottrina sociale della chiesa non solo al di fuo-
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ri della chiesa – si pensi alla radicalità della critica marxista – ma soprattutto al suo interno: ad essere contestata è la possibilità della chiesa di costruire un progetto coerente, capace di mediare i valori della parola di Dio nella concretezza delle situazioni, fino a pervenire a decisioni tecniche che concernono la regolamentazione dei processi propri della società industriale. Le piste che nel periodo del concilio e del postconcilio vengono percorse, nel tentativo di uscire da questo stato di impasse, sono riconducibili alla produzione di due modelli: il modello antropologico-etico e il modello critico-profetico. Il primo identifica il compito della chiesa nei confronti della realtà sociale con l’indicazione di alcuni valori irrinunciabili che ogni sistema deve acquisire e porre alla base del proprio progetto, se intende conferirgli un significato umanizzante. Sono espressione di questo indirizzo la Mater et magistra e la Populorum progressio, ma il documento che getta le basi per tale impostazione è soprattutto la costituzione Gaudium et spes del Vaticano II, dove avviene il pieno riconoscimento dell’autonomia delle realtà terrestri come esito dell’accoglienza positiva della secolarizzazione e dove emerge, nello stesso tempo, la considerazione dell’importanza di una valutazione etica dell’economia, della politica e dell’organizzazione sociale come condizione per fornire ad esse una prospettiva liberante, nonché il ruolo della fede in quanto orizzonte capace di conferire senso ultimo a ogni attività umana (cfr. nn. 33-39). Il secondo modello – quello critico-profetico – è contrassegnato dalla critica alle ideologie e ai sistemi esistenti e dalla evocazione del «nuovo» e del «diverso» come possibili. Il documento in cui soprattutto si esprime quest’orientamento è l’esortazione apostolica Octogesima adveniens; in essa, mentre si riconosce che la chiesa non è portatrice di un proprio progetto politico ma indica semplicemente una serie di valori in base ai quali regolare i rapporti di convivenza nel rispetto del pluralismo delle opzioni concrete, si spinge la comunità cristiana a un permanente discernimento critico e a una testimonianza adulta (cfr. n. 4) e soprattutto alla ricerca, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, di soluzioni creative animate da una forte «immaginazione sociale» (cfr. n. 19) e da una tensione prospettica e utopica (cfr. nn. 36-40).
Dottrina sociale della chiesa III. IL RINNOVAMENTO DELLA DOTTRINA SOCIALE E LE PROSPETTIVE PER IL FUTURO. – Con il pontificato di
Giovanni Paolo II ha luogo una forte ripresa della dottrina sociale della chiesa (lo stesso termine viene pienamente recuperato); ripresa che coincide tuttavia con un consistente mutamento del suo contenuto concettuale. È stata soprattutto la Sollicitudo rei socialis a intervenire al riguardo, sottolineando che la dottrina sociale della chiesa non è una «terza via» e neppure un’ideologia ma una categoria a sé, che appartiene al campo della teologia, e specialmente della teologia morale (cfr. n. 41) e rilevando come ad essa non spetti soltanto il compito di denunciare le situazioni di ingiustizia presenti nel mondo, ma anche di annunciare la possibilità del loro superamento mediante il rispetto di alcune irrinunciabili istanze, quali l’opzione preferenziale per i poveri e il principio della destinazione universale dei beni della terra (cfr. n. 42). I documenti più recenti della dottrina sociale della chiesa indicano dunque con chiarezza le modalità secondo le quali la chiesa è chiamata a intervenire, se intende impegnarsi in seno alla realtà sociale in conformità agli indirizzi della teologia conciliare e postconciliare e alle domande che scaturiscono dall’attuale stato di globalizzazione. La riflessione ecclesiologica del Vaticano II ha posto le basi per tale rinnovamento, mettendo l’accento sulla necessità di un rapporto privilegiato con il territorio sul quale la chiesa opera – è questo uno degli esiti della riscoperta della chiesa locale – e recuperando un rapporto positivo e insieme critico nei confronti del mondo e della storia. Tensione critico-profetica e articolazione più decentrata e più pluralista degli interventi sono pertanto le istanze alle quali la dottrina sociale della chiesa deve sempre più conformare il proprio modo di affrontare la realtà sociale per esercitare il ruolo di permanente stimolo al cambiamento, con attenzione alla concretezza delle situazioni storiche. G. Piana BIBL.: J. KANAPA, La doctrine sociale de l’Eglise et le marxisme, Paris 1962; C. VAN GESTEL, La doctrine sociale de l’Eglise, Paris 19643, tr. it. di D. Calderari, Introduzione all’insegnamento sociale della Chiesa, Roma 1966; J.B. METZ, Zur Theologie der Welt, München 1968, tr. it. di G. Ruggieri, Sulla teologia del mondo, Brescia 1969; A. MANARANCHE, Y-a-t-il une éthique sociale chrétienne?, Paris 1969, tr. it. di M. Ronzoni, Esiste un’etica sociale cristiana?, Bologna 1971; E. SCHIL-
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Dovere LEBEECKX, God the Future of Man, London 1969; M.D. CHENU, La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Brescia 1977; R. CORTESE, Un impegno critico e profetico. Il magistero sociale della Chiesa, Casale Monferrato 1984; AA.VV., La dottrina sociale della Chiesa, Milano 1989; H. CARRIER, The Social Doctrine of the Church Revisited. A Guide for Study, Vatican City 1990, tr. it. di S. Bronzini, Dottrina sociale. Nuovo approccio all’insegnamento sociale della Chiesa, Cinisello Balsamo 1993; G. PIANA, Magistero sociale, in Nuovo Dizionario di teologia morale, Cinisello Balsamo 1990, pp. 681-708; G. GUTIÉRREZ, teología de la liberación. Perspectivas, Salamanca 1992, tr. it. di L. Bianchi - E. Demarchi, Teologia della liberazione, Brescia 1992; F. APPI, Cos’è la dottrina sociale della Chiesa, Roma 1996; G. FROSINI, Il pensiero sociale dei Padri, Brescia 1996; E. BENVENUTO, Il lieto annunzio ai poveri. Riflessioni storiche sulla dottrina sociale della Chiesa, Bologna 1997.
➨ ASSOCIAZIONE, LIBERTÀ DI; COSMOPOLITISMO; GIUSTIZIA SOCIALE; GLOBALIZZAZIONE; LAICO - LAICITÀ; LAVORO; PERSONA; PROPRIETÀ, DIRITTO DI; SECOLARIZZAZIONE; QUESTIONE SOCIALE; SOLIDARIETÀ; SOLIDARISMO; SUSSIDIARIETÀ , PRINCIPIO DI ; UGUAGLIANZA.
DOVERE (dal lat. debere: verbo; come sost.: Dovere officium - duty, oughtness; Pflicht, Sollen; devoir; deber). – Etimologicamente debere (da de e habere) indica che si è ricevuto qualche cosa e che qualcosa si deve restituire. Questo è anche il senso dei vocaboli derivati: debitum (dehabitum) e debitor (de-habitor). Con il termine dovere si intende, nel comune linguaggio, sia l’azione da compiere o l’omissione a cui l’uomo è obbligato; sia l’obbligazione morale in virtù della quale l’uomo è tenuto a compiere o a omettere qualcosa. Considerato nella prima accezione, il dovere risulta declinabile al plurale, e può risultare: a) con riferimento alla sua causa: naturale o positivo, secondo che proceda dalla legge naturale o dalla legge positiva; b) con riferimento al soggetto: individuale o sociale, secondo che debba compiersi dall’individuo o dalla società; c) con riferimento al termine, cioè alla persona a cui si riferisce: dovere verso Dio, dovere verso se stesso, dovere verso il prossimo. Considerato nella seconda accezione, che è la più profonda e veramente essenziale (quindi la più importante speculativamente), il concetto del dovere presenta, nella storia della filosofia, un’estesa varietà d’interpretazioni. Su queste ultime si rivolge qui l’attenzione in linea principale, mentre, per la problematica 3082
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generale del dovere dal punto di vista teoretico, si rinvia alla voce «obbligazione». SOMMARIO: A) Aspetto filosofico: I. Il dovere nel pensiero greco. - II. II dovere nel pensiero cristiano. - III. Il dovere nel pensiero moderno: 1. Kant, Fichte, Hegel. - 2. Il pensiero italiano nell’epoca del risorgimento. - 3. Schopenhauer e Nietzsche. - 4. Concezioni positivista e aprioristica del dovere. - IV. Il dovere nel pensiero contemporaneo: 1. Croce e Gentile. - 2. I fenomenologi. V. Essere e dover-essere: 1. La «ghigliottina di Hume». - 2. Tentativi di un suo superamento. - VI. Dovere e potere: 1. Dovere e potere secondo Kant. - 2. Sviluppi formali. - B) Aspetto giuridico. A) ASPETTO FILOSOFICO. I. IL DOVERE NEL PENSIERO GRECO. – Una prima esplicita trattazione filosofica del dovere si trova, nell’ambito della filosofia greca, nel Critone di Platone. Nella prosopopea delle Leggi, contenuta in questo dialogo (nn. 11-16), il concetto del dovere si profila chiaramente: l’uomo, con l’accettare liberamente di far parte di una repubblica, si deve impegnare a rispettarne le leggi, cioè a «fare ciò che ella ordina di fare, e soffrire se ella ci ordina di soffrire» (Crit., 51 b, tr. it. di M. Valgimigli, Bari 1966). È l’impegno assunto con il pactum unionis politico: «Dimmi: se uno si trovi d’accordo con un altro nel riconoscere che una cosa è giusta, questa cosa colui la deve fare, o deve cercare di eludere l’altro e non farla? – La deve fare» (ibi, 49 e). Sino a questo punto il dovere morale, per Socrate, non si configura diversamente che come un pactis standum del tutto umano. Il dovere socratico assume però assai presto un carattere di religiosità trascendente, di comando divino. La condanna di Socrate, infatti, è stata formulata contro giustizia e rettitudine dai responsabili della cosa pubblica. Per questo, argomenta Critone nel suo tentativo di persuadere l’amico a fuggire, Socrate non è più tenuto ad obbedire alle leggi, ch’egli accettava solo in quanto erano fondate sul giusto. La pretesa di Critone è logicamente fondata dal punto di vista della saggezza umana, e Socrate può rifiutarla solo perché si pone da un punto di vista superiore, cioè dal punto di vista del comando divino. Infatti la condanna ingiusta, secondo Socrate, non infirma il valore delle leggi, ma mostra soltanto che ingiusti sono gli uomini che male le applicano. In tal modo il principio della morale, astratto da ogni contingente applicazione giusta o ingiusta, è valido in sé per il suo fondamento tra-
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scendente riposto in Dio. Solo per questo l’uomo deve ascoltare la voce del dovere: «ché questa è la via per cui ci conduce Iddio» (ejpeidh; tauvth/ oJ qeo;" uJfhgei'tai: ibi, 54 e; cfr. Apol. Soc., 28 e). La piena trascendenza della legge morale è altrove riaffermata da Platone: Dio ha dato all’uomo l’anima come genio tutelare; l’uomo deve ascoltare la sua voce e sollevarsi in tal modo alla parentela col cielo (cfr. Theaet., 176177; Tim., 90 a-c). Il dovere sommo, per l’uomo, è dunque di assomigliare a Dio, dato che in Lui, e non nell’uomo (come voleva il soggettivismo protagoreo), è la misura di tutte le cose: «Ora per noi la misura di tutte le cose è Dio soprattutto [...] chi pertanto vorrà essere amico d’un tal essere, è necessario che anche lui cerchi di divenire, quanto più è possibile, quale egli è» (Leg., IV, 716 c, tr. it. di A. Cassarà, I, Bari 1920, p. 121). La morale aristotelica, fondata sul concetto di felicità, potrebbe sembrare escludere la possibilità di una trattazione adeguata del dovere; potrebbe infatti sembrare che la virtù morale sia intesa da Aristotele come un «mezzo» in vista della felicità intesa come fine. Considerato però che per questo autore la felicità non consiste nei piaceri, negli onori, nelle ricchezze, ma nel perfezionamento della natura razionale dell’uomo, nell’acquisto quindi delle virtù dianoetiche ed etiche, si può dire che – nella sua prospettiva – l’uomo che non s’impegna all’acquisto delle virtù, non segua il dettame della retta ragione; e che il vizioso sia uno snaturato e un malvagio. L’uomo è obbligato a compiere il bene e a evitare il male perché la sua natura glielo comanda; si tratta di un dovere veramente morale, anche se non è concepito come emanante da un’autorità trascendente. Il concetto di dovere fu trattato molto diffusamente dagli stoici. Si deve ad essi l’introduzione del termine kaqh'kon, che i più traducono appunto con «dovere». Opere dal titolo Peri; tou' kaqhvk onto" scrissero Zenone, Cleante, Sfero e Crisippo. Secondo la definizione di Zenone, che fu il primo a usare questo termine, kaqh'kon «è quello che, quando sia compiuto nell’azione, si può pienamente giustificare davanti alla ragione. Es.: la coerenza nella vita, un principio naturale che si estende anche alle piante e agli animali, i quali noi vediamo svolgersi e agire in modo conforme alla propria natura. Quel principio stesso, applicato all’animale ragionevole, dà la formula ”coerenza nel-
Dovere la vita”. Il kaqh'kon è quindi un atto inerente alle istituzioni conformi alla natura» (N. Festa, I frammenti degli Stoici antichi, I: Zenone, Bari 1932, p. 72). Questa definizione ci mostra chiaramente che il concetto di dovere non si ritrova ancora nel termine usato dagli stoici. Kaqh'kon, conformemente alla propria origine etimologica da to;; katav tina" h{{kein (l’avvicinarsi a qualcuno), significa semplicemente «conforme», «convenevole» – come traduce Festa –, o «conveniente» – come suggerisce Mondolfo (Il pensiero antico, Firenze 19502, p. 406). Come già faceva notare Cicerone, il kaqh'kon, o commune officium, si trasforma in perfectum officium, o katovrqwma, solo per effetto della retta ragione (De officiis, I, 3, 8). Se la trattazione del kaqh'kon rimane estranea a una vera e propria teorica del dovere, l’etica stoica è d’altronde tutta informata al concetto di una voce superiore all’umano, che prescrive imprescindibilmente a tutti gli uomini una missione da realizzare. Ogni uomo, secondo gli stoici, ha il dovere di conformarsi, nelle sue azioni, a quell’ordine razionale e divino, che è immanente nel mondo: dovere che si estrinseca nel rispetto e nell’amore alla persona altrui, nella fratellanza umana e nel cosmopolitismo, nell’altruismo e nel sacrificio, nella comprensione per la fragilità dell’uomo e nel rifiuto di giudicare – tutte qualità, le quali, nonostante gli stoici non posseggano ancora il concetto della personalità di Dio e dell’immortalità dell’anima, avvicinano questa filosofia alla visione cristiana della vita. Cicerone ci dà un’esplicita e compiuta trattazione del dovere, che egli fa coincidere con il pieno adempimento delle quattro virtù cardinali: sapienza («in perspicientia veri»), giustizia («in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique»), fortezza («in animi excelsi atque invicti magnitudine ac robore»), temperanza («in omnium quae fiunt quaeque dicuntur ordine et modo»). I doveri, poi, si dispongono in diversi gradi: «sunt gradus officiorum, ex quibus, quid cuique praestet, intelligi possit, ut prima dis immortalibus, secunda patriae, tertia parentibus, deinceps gradatim reliquis debeantur» (op. cit., I, 45, 160). II. IL DOVERE NEL PENSIERO CRISTIANO. – Col cristianesimo il dovere trova la sua più profonda giustificazione. Secondo la fede cristiana, infatti, la persona umana non possiede tanto un valore autonomo, indipendente e assoluto, quanto un valore che trae ogni sua realtà dall’infini3083
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Dovere ta trascendenza creatrice di Dio. La morale cristiana si radica profondamente nella trascendenza; ma caratteristica fondamentale di essa è la capacità di costituire sull’eteronomia morale la piena rivalutazione dell’autonomia della persona umana. L’uomo, infatti, ha come dovere sommo quello di amare Dio; a questo dovere fondamentale tengono dietro gli altri doveri, che si riassumono nell’amare il prossimo: «Ama il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il massimo e il primo dei comandamenti. Il secondo, poi, è simile a questo: ama il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende l’intera legge e i profeti» (Mt 22, 37-40). A queste fondamentali premesse sono conformi numerose precettistiche dei doveri, che mettono capo a san Paolo (p. es., il dovere del lavoro: 2 Ts 3, 10), e che si sviluppano nella patristica. Celebre, p. es., il De officiis ministrorum di Ambrogio. Il vescovo di Milano non nega la teorica ciceroniana del dovere, ma la supera in una visione più ampia, nella quale il dovere sommo, o amore di Dio, si costituisce come l’unità inscindibile di utile e di honestum, eliminando quelle ultime incertezze circa un possibile contrasto tra i due termini, che ancora permanevano nel filosofo romano (cfr. Cicerone, op. cit., III, 2 ss.; Ambrogio, op. cit., III, 2). Agostino esalta la trascendenza della morale: Dio è il fine «ad quod adipiscendum omnia officia referenda sunt» (cfr. De civ. D., X, 18); nel dovere più che la materialità dell’opera vale l’intenzione: «officium nostrum non officio, sed fine pensandum est» (Enarr. in psalmum 118, 12, 2); il dovere è adesione alla volontà divina «ordinem naturalem conservari iubens, perturbari vetans» (Contra Faustum, XXII, 27): concetto che fonda una tradizione di pensiero. III. IL DOVERE NEL PENSIERO MODERNO. – Nell’epoca moderna l’indagine intorno al dovere trova poco spazio, ed assume invece importanza l’indagine intorno ai diritti dell’uomo: un uomo che è orientato a una realizzazione sempre più complessa della propria personalità. Giusnaturalismo e illuminismo, fenomeni improntati a una piena esaltazione dei diritti dell’uomo, trascurano per voluta polemica un’indagine approfondita attorno al dovere. La riflessione sul dovere si sviluppa nell’età moderna, appunto come reazione alle correnti illuministiche. Il primo esponente di questa opposizione è Rousseau, per il quale la viva 3084
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coscienza del dovere è l’unico sostegno dell’umana fragilità, l’unico segno del divino in noi: «Coscienza! Coscienza! divino istinto; voce immortale e celeste; guida sicura di un essere ignorante ma intelligente e libero, giudice infallibile del bene e del male che rende l’uomo simile a Dio» (Émile, l. IV, cap. 6, tr. it. di G. Tarozzi, Emilio, Bologna 1934, p. 430). 1. Kant, Fichte, Hegel. – L’indagine intorno al dovere diventa fondamentale nell’etica di Kant. Per questo autore, «il concetto del dovere [...] contiene quello di una volontà buona, sebbene con certe determinate limitazioni e ostacoli soggettivi, i quali però, lungi dal celarlo o dal renderlo irriconoscibile, lo rendono evidente per contrasto, facendolo risaltare con ciò in modo tanto più chiaro». Kant distingue tra: azioni che contrastano il dovere; azioni che ad esso si conformano vincendo avverse inclinazioni; e azioni che ad esso si conformano, anche col concorso di favorevoli inclinazioni. Nel secondo caso, è chiaro che il dovere è compiuto per il dovere. Nel terzo caso, invece, occorrerà chiedersi se il movente prevalente di simili azioni stia nell’inclinazione oppure nella considerazione stessa del dovere: solo in quest’ultimo caso, infatti, l’azione realizza la sua autonoma purezza morale. Lo stesso perseguimento della propria felicità e lo stesso amore per il prossimo, hanno un contenuto morale – secondo Kant –, solo se vengono intesi come determinazioni del dovere morale, cioè se sono vissuti, non come «inclinazioni», bensì come contenuti pratici di un precetto. Il valore propriamente morale dell’azione non sta negli «scopi» e negli «effetti» che essa si propone, e neppure nel suo contenuto (Gegenstand), bensì nel «principio del volere», cui essa obbedisce: essa è buona, se è determinata dalla legge propria di ogni essere razionale. In tal senso, «dovere è necessità di un’azione per rispetto della legge» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Riga 17862 [1785], sezione I, tr. it. di F. Gonnelli, Fondazione della metafisica dei costumi, Roma-Bari 1997, pp. 23-31). Al di là di ogni imperativo ipotetico, eteronomo e utilitario, la legge morale deve fondarsi sulla propria essenziale e categorica formalità: «tu devi» (du sollst). Il «dover essere» – spiega Kant – è la formula che esprime «il rapporto di una legge oggettiva della ragione con una volontà che, secondo la sua costituzione soggettiva, non viene con ciò determinata in modo necessario», non viene cioè costretta: dunque, il «tu
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devi» ha senso solo in relazione a una volontà libera di scegliere (ibi, sezione II, pp. 57-59). Sugli stessi temi, Kant ritorna nella Critica della ragione pratica: «il concetto del dovere richiede nell’azione, oggettivamente, l’accordo con la legge, ma nella massima di essa, soggettivamente, il rispetto alla legge, come il solo modo di determinazione della volontà mediante la legge» (KpV, parte I, l. I, cap. 3, tr. it. di F. Capra, riveduta da E. Garin, Critica della ragion pratica, Roma-Bari 1997, pp. 177 ss.). L’esaltazione del dovere è fondamentale per tutta la filosofia di Kant, dato che questo concetto permette di fondare non solo il regno dell’assoluta moralità, adempiendo in tal modo, nella sfera pratica, quel compito di introduzione nella realtà assoluta, che spetta, nella sfera teoretica, alla ragione, ma altresì sancisce quel primato della ragione pratica, che porta l’uomo all’assoluta certezza dei tre postulati. È proprio il dovere che diviene la riprova interiore dell’esistenza di Dio: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me» (ibi, p. 353). E l’esaltazione del dovere assume un tono lirico, che ricorda Rousseau e prelude al romanticismo: «Dovere! Nome sublime e grande, che non contieni niente di piacevole implicante lusinga, ma desideri la sommissione; che, tuttavia, non minacci niente donde nasca nell’animo naturale ripugnanza e spavento che muova la volontà, ma esponi soltanto una legge, che da sé trova adito nell’animo, e anche contro la volontà si acquista venerazione» (ibi, p. 189). Nella Metafisica dei costumi Kant si occupa anzitutto della distinzione tra il dovere in senso giuridico e il dovere in senso morale: «Tutti i doveri sono: o doveri giuridici (officia iuris), cioè tali per i quali è possibile una legislazione esterna, o doveri di virtù (officia virtutis s. ethica), per i quali non è possibile una tale legislazione. Questi ultimi non possono essere soggetti a nessuna legislazione esterna, perché sono diretti ad un fine che è nello stesso tempo un dovere (o che è nostro dovere di raggiungere)». Kant propone anche una ideale tavola dei doveri («divisione secondo il rapporto oggettivo della legge con il dovere»), generata dall’incrocio tra due coordinate: la qualità del dovere (perfetta o imperfetta), e il suo referente (se stessi o gli altri). In tal senso, ci sono: (1) do-
Dovere veri perfetti verso se stessi; (2) doveri perfetti verso gli altri; (3) doveri imperfetti verso se stessi; (4) doveri imperfetti verso altri. Quelli indicati all’(1) e al (2) sono «doveri di diritto»; quelli indicati al (3) e al (4) sono «doveri di virtù». I doveri di diritto hanno senso per l’uomo – osserva Kant – solo se vissuti in relazione con esseri a loro volta capaci sia di diritti che di doveri, cioè in relazione con altri uomini (e non in relazione agli animali, che non hanno diritti, oppure a Dio, che non ha doveri) (Die Metaphysik der Sitten, Königsberg 1797, tr. it. di G. Vidari poi riveduta da N. Merker, La metafisica dei costumi, Roma-Bari 1989, pp. 48-50). Solo i doveri di diritto hanno come corrispettivo il diritto altrui di «costringere» il portatore del dovere; mentre i doveri di virtù sono semplicemente soggetti alla interna «obbligazione» morale (ibi, pp. 231-232). Non tutti i «doveri etici» sono anche «doveri di virtù»: questi ultimi sono i doveri che si riferiscono, non a principi formali da rispettare, ma a contenuti determinati da attuare. Ai doveri di virtù, Kant dedica, nella sezione della Metaphysik dedicata alla dottrina della virtù, una trattazione che si propone di essere «scientifica», cioè di tenere come filo conduttore per la deduzione dei doveri la legge morale, e non i fini che gli uomini si propongono di fatto (mentre sarebbe autocontraddittorio proporsi come fine l’ottenimento di quella eudaimonia che deriva dall’aver compiuto disinteressatamente il proprio dovere) (ibi, pp. 221-224). Identificando «etica», «dottrina della virtù» e «dottrina dei doveri», Kant spiega che «il concetto del dovere contiene già in se stesso il concetto di una obbligazione esercitata dalla legge sul libero arbitrio; questa costrizione può essere o esterna o imposta da noi stessi. L’imperativo morale con il suo decreto categorico (il dovere assoluto) indica questa condizione [...]. Siccome però l’uomo è un essere libero, il concetto del dovere [...] non può contenere altra costrizione se non quella che ci imponiamo da noi stessi (con la sola rappresentazione della legge). [...] Ma allora il concetto del dovere rientrerà nel dominio dell’etica». «Il rapporto del fine con il dovere si può concepire in due modi: o, partendo dal fine, cercare la massima dell’azione conforme al dovere; o al contrario, partendo dalla massima, cercare il fine che è nello stesso tempo un dovere». Ora, la dottrina del diritto segue la prima via, cioè lascia all’arbitrio di ciascuno di 3085
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Dovere individuare i propri fini, e impone ad essi di accordarsi col criterio della universalizzabilità; l’etica invece segue la seconda via, cioè va determinando i fini nella forma di altrettanti doveri, cioè di altrettante determinazioni della legge morale (ibi, pp. 227-232). Quanto ai fini che nello stesso tempo sono doveri, Kant ne individua fondamentalmente due: «la propria perfezione» (corporea, intellettuale e morale) e «la felicità altrui» (fare propri i fini leciti altrui, senza danno per i propri). Mentre, la felicità propria non ha bisogno di essere proposta come un dovere, e la perfezione altrui è concepibile come un dovere solo per altri (ibi, pp. 235-238). La legge morale, diversamente da quella giuridica, «può soltanto imporre la massima delle azioni, non le azioni stesse»: quindi, indica i suoi doveri in modo «largo» o «imperfetto» – in un modo, cioè, che indica una direzione, ma che non ha un termine definito; mentre «stretto», o ben definito, è il dovere giuridico. Ora, «quanto più largo è il dovere, e più imperfetta quindi l’obbligazione per l’uomo di agire, e quanto più egli, nell’osservanza di un dovere largo, avvicina tuttavia la sua massima al dovere stretto (al diritto), tanto più perfetta è la sua azione virtuosa» (ibi, p. 240). La virtù – secondo Kant – è una sola, quando la si intenda come l’intenzione di compiere il dovere per il dovere; ma, in relazione ai fini che è possibile proporsi nell’agire virtuoso, si possono distinguere parecchie virtù, e parecchi «doveri di virtù» (ibi, p. 246). Nel tentativo di dedurne una tavola, Kant articola i doveri in relazione al loro referente; e distingue così: doveri dell’uomo verso l’uomo (se stesso; gli altri), e doveri dell’uomo verso esseri non umani (sottoumani, sovraumani) (ibi, p. 267). Egli poi, sulla base di tale articolazione, costruisce la sua «dottrina degli elementi dell’etica». A ben vedere, però, «l’uomo ha soltanto dei doveri verso l’uomo», o, più precisamente, verso un soggetto che sia persona e insieme sia oggetto d’esperienza (il che esclude sia gli animali bruti, sia i puri spiriti) (ibi, pp. 303-305). Che si parli di doveri dell’uomo verso se stesso, e quindi di un idem che sia obbligante e insieme obbligato, non è contraddittorio se si distingue tra homo phaenomenon (l’uomo naturale, oggetto di obbligazione) e homo noumenon (l’uomo libero, soggetto d’obbligazione). Tali doveri, a loro volta, si dividono – in senso oggettivo – tra «negativi» e «positivi»: i primi 3086
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proibiscono all’uomo di agire contro il fine della sua natura (riguardano quindi la conservazione morale di sé), i secondi comandano di tendere al perfezionamento morale di sé. In senso soggettivo, invece, tali doveri si dividono in doveri verso di sé come «essere animale e morale nello stesso tempo» (che riguardano la conservazione fisica di sé, la conservazione della specie, la conservazione delle proprie forze), e doveri verso di sé come «essere puramente morale» (riguardanti il mantenimento della propria dignità personale) (ibi, pp. 271275). I doveri umani possono legittimamente essere interpretati come ordini di un «giudice della coscienza», identificabile con Dio stesso (ibi, p. 300). Quanto ai doveri verso gli altri, Kant li distingue in doveri che creano obbligazione nell’altro (o meritori) e doveri che non ne creano (o obbligatori). Entrambi, comunque, implicano sia l’amore che il rispetto: «il dovere dell’amore del prossimo può essere anche espresso come dovere di far propri i fini degli altri (in quanto questi non siano immorali); il dovere del rispetto dei miei simili è contenuto nella massima che proibisce di abbassare chiunque al rango di puro mezzo per i miei fini» (ibi, pp. 315-317). Kant parla anche dei doveri religiosi, intendendoli – «entro i limiti della pura ragione» – come gli stessi doveri morali considerati come se fossero comandi divini. E afferma che il «dovere relativo a Dio è un dovere dell’uomo verso se stesso, vale a dire non è l’obbligazione oggettiva di prestare certi servizi a un altro, ma soltanto l’obbligazione soggettiva di fortificare l’impulso morale nella nostra propria ragione legislatrice» (ibi, pp. 367-369). Questa salda coscienza del dovere viene ripresa e sviluppata da Fichte, che su questa continua tendenza a superare e realizzare sempre più il proprio io, costituisce l’idealismo etico. La filosofia di Fichte è la filosofia del Sollen, cioè del «dover essere», tensione continua verso una realtà infinita che continuamente ci sfugge, perché, una volta raggiunta, la meta diviene finita e risulta insoddisfacente. Secondo le Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, la missione dell’uomo, il suo dover essere, consiste appunto in questo avvicinamento all’infinito, in questo costante perfezionamento, che non potrà mai terminare nella perfezione: «avvicinarsi, e avvicinarsi all’infinito; questo egli può, e questo egli deve» (op. cit., tr. it. di C. Mazzantini, La missione del dotto, Torino
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1949, p. 113). In questa lotta senza tregua per sottomettere la natura alla ragione, si realizza la completa missione dell’uomo, il quale potrà sostenere con Fichte: «io sono un sacerdote della verità» (ibi, p. 158). La posizione di Fichte è importante non solo per questo approfondimento del dovere kantiano, ma anche perché la nozione stessa del dovere chiarisce a se medesima la necessaria contraddizione dell’etica immanentistica e, sulla crisi di questa, pone le basi di un’etica della trascendenza. Scopo di Fichte, infatti, era quello di liberare il kantismo da ogni residuo trascendentistico. Sennonché proprio l’aver tentato, nelle Vorlesungen e nella prima Wissenschaftslehre, di costituire un dover essere immanentistico, dimostra chiaramente, per l’impossibilità di conseguire questo scopo, la necessità di legare il Sollen a un principio trascendente. Per questo le ultime opere di Fichte cercano decisamente di fondare il concetto di dovere su di un principio trascendente, per modo che la vita morale si presenti come una sorta di itinerario, che dal dubbio attraverso il sapere conduca alla fede, alla beatitudine (cfr. Die Anweisung zum seligen Leben), che l’uomo consegue immedesimandosi in Dio: «Così vivo e sono, e così sono immutabile, saldo e perfetto per tutta l’eternità» (Die Bestimmung des Menschen, tr. it. di R. Cantoni, Milano 1944, p. 212). La critica del dovere diviene costitutiva nel sistema di Hegel. «La filosofia kantiana e fichtiana assegna come il punto più alto della risoluzione delle contraddizioni della ragione il dover essere, che invece non è che la posizione del persistere nella finità, e quindi nella contraddizione» (Wissenschaft der Logik, tr. it. di A. Moni riveduta da C. Cesa, Scienza della logica, Roma-Bari 1988, vol. I, l. I, sezione I, cap. II, B, c, b, Nota, p. 137). Ciò che Hegel rimprovera ai kantiani è l’aver voluto fondare il Sollen su di un puro fatto di coscienza, affetto dalle determinazioni della soggettività; mentre per Hegel il vero essere coincide con la realtà, esistente indipendentemente dall’attività del soggetto. Anche in lui, pertanto, si rispecchia la crisi dell’etica immanentistica, la necessità di legare la legge morale a un principio valido oggettivamente, non limitato alla pura attività soggettiva della coscienza. Sennonché Hegel si rifiuta di fondare il dovere in Dio e, conformemente alla sua attitudine di realismo empiristico, egli pone a fondamento del Sollen la Sittlichkeit, ossia il costume. Tutto
Dovere ciò che deve essere, per lui, si ritrova nel fatto: il mondo reale è come deve essere. In tal modo si viene a eliminare il divario esistente tra Sein e Sollen, solo perché si risolve questo nel seno di quello. Il punto conclusivo della critica hegeliana al concetto di dovere avvicina dunque la sua filosofia a tutte quelle filosofie che, come l’empirismo o il materialismo, fondano il diritto sul fatto: parentela, che è esplicitamente confessata dallo stesso Hegel (Enzyklopädie, tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, nuova ed. a cura di N. Merker, Roma-Bari 1983, § 38). Più in particolare, nella Enciclopedia la figura del dover essere viene mostrata come la situazione contraddittoria – tipica della soggettività astratta – di chi vive qualcosa che è e che insieme non è: «la contraddizione sotto tutti gli aspetti, che viene espressa in questo molteplice dover essere – l’essere assoluto, che tuttavia insieme non è –, contiene l’analisi più astratta dello spirito in se stesso» (ibi, § 511). Nei Lineamenti di filosofia del diritto, Hegel identifica la Moralität con «il punto di vista del rapporto, del dover essere, ovvero dell’esigenza» (Grundlinien der Philosophie des Rechts, Berlin 1821, tr. it. di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari 1987, § 108). Il dovere è una formalità che può essere riempita tramite l’attuazione del «diritto» e del «benessere». Ciò significa che qualunque insistenza sul «dovere per il dovere» è una retorica affermazione del formalismo astratto: il dovere ha senso solo in relazione a ciò di cui è dovere, e un tale vario contenuto gli è offerto solo dal contesto della vita etica (Sittlichkeit) (ibi, §§ 133-137). 2. Il pensiero italiano nell’epoca del risorgimento. – La salda coscienza del dovere, che informa tutta la filosofia italiana del risorgimento, deriva dall’avversione comune per le teorie dei diritti formulate dall’illuminismo, e dall’esigenza religiosa di evitare l’utilitarismo morale settecentesco. Nell’opera di Pellico, Dei doveri degli uomini, la precettistica è possibile solo in quanto esiste una idea del dovere, alla quale l’uomo non può sottrarsi. L’uomo deve essere ciò che deve essere, cioè deve tendere a Dio. Similmente in Mazzini la teorica dei doveri verso Dio, l’umanità, la patria, la famiglia, se stessi, è possibile in quanto il concetto di dovere si fonda nella realtà infinita di Dio: «L’origine dei vostri doveri sta in Dio. La definizione dei 3087
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Dovere nostri doveri sta nella sua legge» (Dovere dell’uomo, Lugano 1860, cap. 2). Rosmini compie una critica ed una più esatta interpretazione del dovere kantiano, che egli dimostra soggettivo e quindi incapace di fondare l’universalità della legge morale: «il principio morale di Kant è immorale» (Storia comparativa e critica de’ sistemi intorno al principio della morale, in Principî della scienza morale, Edizione Nazionale e Critica, vol. 23, Roma-Stresa 1990, p. 265). È necessario, invece, se veramente si vuole fondare un concetto universale della morale, radicare il concetto di dovere nel concetto di essere: «In questa necessità morale consiste il concetto dell’obbligazione e del dovere. L’uomo deve con la sua volontà operare secondo l’ordine dell’essere, perché altrimenti il suo atto, la sua volontà, egli stesso sarebbe indeclinabilmente guasto e malvagio» (Compendio di etica e breve storia di essa, in Edizione Nazionale e Critica, vol. 29, Roma-Stresa 1998, n. 48, p. 43). La riconduzione dell’obbligazione morale alla non-contraddizione, è operata con grande chiarezza nei Principî, dove l’autore distingue tra verità conosciuta (la norma) e verità riconosciuta (l’operare secondo la norma). Scrive Rosmini: «Dico che l’obbligazione in questa prima operazione del riconoscere ciò che pur si conosce è per sé evidente [...]. Io sono dunque l’autore del male in me, perché io colla mia volontà sono l’autore della contraddizione e della pugna in me stesso, cioè della pugna fra la ricognizione e la cognizione». Dunque, «non abbiamo ridotta con ciò la scienza dei costumi alla sua prima ragione? [...] Se noi diciamo di non conoscere ciò che pur conosciamo, non facciamo noi con ciò uno sforzo per fare che non sia ciò che è, e che sia ciò che non è? in tal modo non operiamo noi contro il principio di non contraddizione, che dice “ciò che è non può non essere, e ciò che non è non può essere”? non oppugniamo noi con questo l’essere, poiché ci sforziamo di fare che non sia ciò che pur è e che sia ciò che pur non è?» (cfr. Principî della scienza morale, cit., pp. 138-140). Gioberti, in piena fedeltà alle sue premesse teoretiche, critica non solamente il dovere kantiano, ma altresì il dovere teorizzato da Rosmini, che egli accusa di soggettivismo: «il principio cardinale dell’etica rosminiana guida dunque di necessità all’immoralismo, che considera la legge morale come una disposizione subiettiva dello spirito umano, priva di fonda3088
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mento nell’eterna essenza delle cose» (Del buono, ed. naz., XII, Milano 1940, p. 19). Mentre «la legge è obbiettiva e indipendente dagli spiriti creati [...] la sua obbiettività deriva dalla sua medesimezza con l’oggetto conoscitivo» (ibi, p. 86). Il progressivo cammino morale si configura così come I’ascensus per cui l’«Esistente» ritorna all’«Ente». 3. Schopenhauer e Nietzsche. – Anche Schopenhauer rivolge una critica alla concezione kantiana del dovere. Secondo lui, il tentativo di Kant di fondare un dovere incondizionato doveva necessariamente fallire, dato che in questa definizione è evidente la contradictio in adiecto consistente nel voler porre incondizionatamente una nozione, che è necessariamente legata ai concetti condizionati di pena o ricompensa. La morale kantiana, per Schopenhauer, è morale egoistica, come ogni concezione che congiunge virtù e felicità: «ogni virtù che venga esercitata per una qualche ricompensa, riposa sopra un avveduto, metodico, lungimirante egoismo» (Kritik der kantischen Philosophie, in appendice a Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, Bari 1928, p. 649; cfr. anche Über das Fundament der Moral, cap. 4). La morale kantiana – per questo autore – riposa, al pari d’ogni altra morale, su di un principio eteronomo e teologico, e si mostra, a un attento esame, fondata su di un imperativo ipotetico e non categorico. Anche la critica schopenhaueriana dunque mostra l’impossibilità di fondare, immanentisticamente, la nozione del dovere. E la nuova morale, che Schopenhauer propone, fondata non più sul dovere ma sulla compassione (Mitleid), finisce per implicare la trascendenza di un principio etico, che ponga la giustificazione dell’intenzione morale, mediante un concetto innato, che Schopenhauer chiama «genio etico», «amore istintivo», «virtù spontanea» o, assai più chiaramente, «grazia» (cfr. ibi, l. IV, §§ 66 e 70; Über das Fundament der Moral, cap. 16). In Nietzsche la critica del dovere coincide con la prefigurazione dell’Übermensch, che, imponendo la propria morale, nega quella dell’accettazione di un ordine etico precostituito. In Also sprach Zarathustra la sostituzione della morale del dovere con la morale del volere è simboleggiata dalla metamorfosi per cui il cammello, che pazientemente si era caricato del fardello del «du sollst», si trasforma nel le-
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one, che nega tutti i valori tradizionali: «Là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria. Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? “Tu devi” si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice “io voglio”. “Tu devi” gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro “tu devi!”» (op. cit., tr. it. di M. Montinari, Così parlò Zarathustra, Milano 1988, p. 24). Nietzsche non comprende come ogni morale del dovere implichi in realtà non già la rinuncia alla dignità umana, ma proprio il potenziamento sommo di questa dignità. La singolare contraddizione di Nietzsche, che alimenterà di sé gran parte del pensiero del Novecento, consiste nella sua coscienza della impossibilità di fermarsi alla fase leonina dello spirito e alla funzione puramente critica e negativa di questa fase. Nelle allegorie dello Zarathustra si rende, infatti, necessaria una terza metamorfosi: quella che trasforma il leone in fanciullo, ristabilendo lo stato dell’innocenza («innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì»; cfr. ibi, p. 25). In tal modo, Nietzsche finisce per criticare tutto il pensiero moderno, la sua filosofia e la sua stessa critica del dovere Se infatti si vuole evitare per l’Übermensch la conclusione nichilista dell’«Unico» stirneriano, è necessario fondare la negazione della civiltà umana su di un criterio superumano, che non può provenire che da un principio sia pur enigmaticamente trascendente. Solo in tal modo l’Übermensch, superate le smanie ferine della distruzione, potrà, al pari del fanciullo evangelico, entrare nel regno dei cieli. 4. Concezioni positivista e aprioristica del dovere. – Tra Ottocento e Novecento, la discussione intorno al dovere vede formarsi due atteggiamenti opposti, che oppostamente risolvono il problema dell’origine di questo significato. Già nella morale utilitaristica inglese (cfr. J. Bentham, Deontology, London-Edinburgh 1834, vol. I, 1) si tende a sostituire il concetto di dovere con quello di interesse. I doveri verso sé e verso gli altri si riducono a una forma di interesse individuale e sociale. In seguito, i fi-
Dovere losofi positivisti teorizzeranno pienamente l’origine sociologica della nozione del dovere. Per Spencer è l’elemento coattivo della coscienza che ha dato origine alla figura del dovere e che trasforma la primitiva coazione estrinseca in coazione intrinseca (Data of Ethics, London 1879, §§ 46-47). Achille Ardigò sostiene l’origine aposterioristica del dovere, che si sarebbe formato da una generalizzazione empirica (La morale dei positivisti, in Opere, vol. III, Padova 19013, pp. 430 ss.). Di questo parere sono anche Harald Høffding (Etik [1876], tr. fr. di L. Poitevin, Paris 19072, pp. 131 ss.), Friedrich Paulsen (System der Ethik, Berlin 19129, pp. 342 ss.), Friedrich Jodl (L’etica del positivismo, Messina 1909, pp. 19 ss.), Jean-Marie Guyau (Esquisse d’une morale sans obligation ni sanction, Paris 1885), Alfred Loisy (La morale humaine, Paris 1923). Per tutti i seguaci della scuola sociologica – Lucien Lévy-Bruhl (La morale et la science des moeurs, Paris 1903), Émile Durkheim (Les règles de la méthode sociologique, Paris 1895), Eugène Dupréel (Traité de morale, Bruxelles 1932), Edvard Westermarck (The Origin and Development of Moral Ideas [190608], tr. fr. di R. Godet, Paris 1923, 2 voll.) –, non è già l’assolutezza del dovere che impone l’imperatività, ma, al contrario, è l’imperatività reale che impone l’assolutezza. A tutti questi autori che, insieme a molti altri, sostengono l’origine empirica della nozione di dovere, fanno riscontro numerosi altri filosofi, che si fanno sostenitori dell’apriorità di questo concetto. Fra questi basti ricordare Hermann Cohen (Ethik des reinen Willens, Berlin 19072, pp. 468 ss.), Georg Simmel (Hauptprobleme der Philosophie [1910], tr. it. di A. Banfi, Firenze 1920, pp. 202 ss.), Heinrich Rickert (System der Philosophie, vol. I, Tübingen 1921, pp. 324 ss.), Viktor Cathrein (Moralphilosophie [1910-11], tr. it. di E. Tommasi, I, Firenze 1913, pp. 422 ss.), Nicolai Hartmann (Ethik, BerlinLeipzig 19332, cap. 6). In tutti questi filosofi (ad eccezione di Cathrein, che lega il concetto di dovere alla realtà trascendente di Dio) si nota la preoccupazione di fondare la nozione di dovere approfondendola in senso immanentistico. La loro posizione è chiaramente espressa da Wilhelm Windelband (Präludien [1884], tr. it. di R. Arrighi, Preludi, Milano 1947, cap. 7), che sostiene l’indipendenza e l’apriorità del concetto stesso, necessarie per fondare ogni giudizio morale: «la coscienza del dovere è il principio morale in quanto è la condizione su3089
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Dovere prema della possibilità di una vita morale» (ibi, p. 177). Si rispecchia in questi pensatori la crisi dell’etica immanentistica, la necessità di legare la nozione di dovere alla trascendenza di un principio ideale, come ha chiaramente mostrato Francis H. Bradley (Appearence and Reality [1893], tr. it. di C. Goretti, Apparenza e realtà, Milano 1947), per il quale il fine della moralità trascende l’uomo e il mondo della morale stessa: «ogni aspetto separato dell’universo finisce per esigere qualche cosa di più alto di se stesso, e come ogni altra apparenza il bene implica ciò che per realizzarlo deve assorbirlo» (ibi, pp. 468-69; cfr. pure, dello stesso autore, Ethical Studies, Oxford 19272, cap. 4). IV. IL DOVERE NEL PENSIERO CONTEMPORANEO. – 1. Croce e Gentile. – Benedetto Croce formula una critica della nozione di dovere: esso è tautologico e inutile alla vita etica stessa (Filosofia della pratica, Bari 1909, pp. 304-305). Merito della civiltà moderna, secondo Croce, è stato quello di approfondire il concetto di libertà contro il concetto di dovere, il concetto di individualità contro quello di universalità (Cultura e vita morale, Bari 19262, p. 302). Il vero dovere, quindi, coincide con la libertà e col diritto del singolo, quale si viene storicamente determinando. La fedeltà all’immanentismo porta Croce a una forma di utilitarismo etico, come in politica lo porta a una forma di atomismo sociale: «L’individuo è la situazione storica dello spirito universale in ogni istante del tempo, e, quindi, l’insieme degli abiti che, per effetto delle situazioni storiche, si producono» (Filosofia della pratica, cit., p. 167). Il concetto di dovere è invece il cardine della filosofia morale di Giovanni Gentile, che molto deve a Fichte. L’uomo realizza veramente se stesso, solo allorquando nega ciò che immediatamente egli è e cerca di ritrovare se stesso in un dover essere che lo trascende: «tendere a una realtà in cui non è ma sarà la nostra realtà, questo è lo slancio morale dell’uomo» (Discorsi di religione, Firenze 19343, p. 41). La voce del dovere, che nella filosofia di Gentile si fa tanto più forte, quanto più egli accentua il suo distacco dall’immanentismo crociano, è l’unica base trascendente della morale: «C’è una voce dentro l’anima dell’uomo che non tace mai, e lo sprona a non ristare, ad andare avanti: dove? Verso se stesso: quello che egli deve essere» (Genesi e struttura della società, Firenze 1946, pp. 7-8). 3090
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2. I fenomenologi. – Edmund Husserl mette in evidenza la dimensione del dovere, nella sua fenomenologia dell’umano: infatti, «l’essereuomo implica un essere-teleologico e un dover-essere» (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale [1954], tr. it. di E. Filippini, Milano 1961, p. 290). Husserl connette il dovere al fine. Entrambi acquistano senso – a suo avviso – entro la «temporalità originaria» dell’io, per cui esso è «possibilità». Secondo Husserl, «in quanto io vivente-fluente io sono la possibilità di me stesso, una possibilità molteplice; cioè io sono libero. Ma che cosa significa questa libertà? Essa significa che all’io, che è originariamente temporale, spetta anche sempre originariamente una “volontà” e un “dovere”, che l’io non si limita semplicemente ad essere, ma può essere, deve essere e vuol essere» (G. Brand, Mondo io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl [1955], tr. it. di E. Filippini, Milano 1960, pp. 217-218). L’altro caposcuola della fenomenologia, Max Scheler, vuole invece approfondire la dimensione concreta e «materiale» del dovere; e lo fa in polemica con la concezione kantiana, di cui però cerca di potenziare l’istanza di intransigenza anti-utilitaria. Il soggetto in tanto deve, in quanto intuisce preliminarmente il valore: l’intuizione (o «percezione emozionale») del valore antecede la coscienza del dovere, che non costituisce dunque il fenomeno morale originario, ma una spontanea e pur necessaria conseguenza della intuizione del valore. In tal modo l’astrattezza e il rigorismo impliciti nella nozione kantiana di dovere vengono vinti dalla concreta partecipazione all’ordine assiologico gerarchicamente scoperto: il dovere non è più obbligazione, l’etica non è più qualificata dal dovere, ma dal discernimento (cfr. Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle 19273, pp. 192-196). Martin Heidegger, da parte sua, indica nella «distinzione di essere e dovere», l’ultima delle delimitazioni dell’essere, e, precisamente, quella «verso l’alto»; come a dire che il dovere, lungi dall’esser misurato dall’essere, è una possibile «misura» per l’essere. Infatti, da Platone a Kant, «è l’essere stesso che, proprio per via della sua specifica interpretazione come idea [...], implica il riferimento a qualcosa di esemplare, di dovuto»; e, a un tale impoverimento deontologico dell’essere, fa appunto riscontro la concezione che pone qualcosa al di sopra dell’essere: qualcosa che esso «non è
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ancora, ma che deve ognora essere» (Introduzione alla metafisica [1953], tr. it. di G. Masi, Milano 1968, p. 201). Culmine di un tale processo teorico, è il primato del Sollen sul Sein, che si afferma nella filosofia di Kant (ibi, p. 402). Oltretutto, la divaricazione dell’ordine del dover essere da quello dell’essere diviene drammatica nell’«epoca della tecnica», in cui si assiste alla tendenziale riduzione dell’essere a un insieme di oggetti sperimentabili. Ciò rende inevitabile che il dovere pretenda di emanare da qualcosa di ulteriore all’essere, e cioè dal valore. «Ciò che pretende di valere in sé come imperativo deve essere in se stesso legittimato a ciò. Qualcosa come un dovere non può emanare che da ciò che in se stesso è in grado di avanzare una tale pretesa, da ciò che ha in sé un valore, che è esso stesso un valore. I valori in sé divengono ora il fondamento del dovere» (ibid.). Quindi, è inevitabile che la figura del dovere venga coinvolta nella polemica – avviata da Nietzsche – intorno all’«origine problematica» del «concetto di valore» (ibi, pp. 203-204). IV. ESSERE E DOVER ESSERE. – 1. La «legge» di Hume. – Un’obiezione radicale – espressa da Hume nel XVIII secolo, e vigorosamente ripresa in età a noi contemporanea – mette in questione le modalità della fondazione teorica del dovere morale. Hume, nel suo Treatise of Human Nature (1739-40), affermava che la determinazione di ciò che è bene e ciò che è male, non può che avvenire per intuito affettivo (Moral Sense), e che la riflessione razionale non ha alcuno spazio in tale materia. Infatti, (a) «la moralità non consiste in nessun dato di fatto che si possa scoprire con l’intelletto»; e (b) «la morale non consiste in certe relazioni che sono invece gli oggetti della scienza» (cfr. ibi, tr. it. di E. Lecaldano ed E. Mistretta, Trattato sulla natura umana, Roma-Bari 1982, l. III, parte I, sez. 1, p. 495). In questa duplice affermazione sta il nocciolo della cosiddetta «legge di Hume»; esaminiamolo dunque più da vicino. (a) La prima affermazione humiana equivale al riconoscimento che «questo è bene», non è un giudizio che corrisponda a una constatazione di fatto, alla descrizione di un pezzo di mondo. Moralmente buona, infatti, non è la realizzazione che è frutto dell’atto, e neppure la materiale esecuzione del medesimo (l’azione fisica). Sarà proprio questo carattere «non fisico» del bene e male morali, a far dire a Ludwig Wittgenstein, nel suo Tractatus logico-philosophicus, che «buono» e «cattivo» sono esclusi dalla ca-
Dovere tegoria dei «fatti» (cioè non sono componenti del «mondo») (cfr. ibi, 6.43; 6.423). Dunque, possiamo dire che il primo divieto che dal discorso di Hume viene alla teoria morale, è quello di tradurre il linguaggio normativo («questo è bene», «devo fare questo»), in un linguaggio descrittivo («il bene è questo», «questo deve essere fatto»). Fatalmente, infatti, al linguaggio descrittivo sfugge la dimensione interiore dell’intenzionalità morale, e quindi la qualità morale stessa dell’atto. Ora, questo primo divieto humiano corrisponde, a ben vedere, a una considerazione classica: quella che distingue tra «azione fisica» (actus secundum genus naturae) e «azione intenzionale» (objectum actionis). (b) Il secondo divieto humiano, dice che «questo è bene» (o «questo deve essere fatto») non è neppure interpretabile come la conclusione di un’argomentazione, dunque come una verità introdotta logicamente a partire da altre verità più note. Infatti, il carattere obbligante del bene morale, non può – secondo Hume – essere dedotto da altri elementi. Insomma, se ben interpretiamo, il «dover essere», o è dedotto da un altro (già noto) dover essere – dunque da un elemento a sé omogeneo –; oppure è dedotto da un semplice «essere» – dunque da un elemento a sé disomogeneo. Ma, nel primo caso si verrebbe a riconoscere che il discorso morale ammette già in partenza il «dover essere» – e, dunque, non lo giustifica, ma lo presuppone. Nel secondo caso, invece, la deduzione (cioè il passaggio logico) avverrebbe da una premessa di tipo descrittivo (riguardante l’«essere»), a una conseguenza di tipo normativo (riguardante il «dover essere»). Sennonché, una simile deduzione rappresenterebbe uno slittamento da un genere all’altro della realtà – dall’aletico al deontico –: generi che non sembrano riconducibili l’uno all’altro, ma piuttosto cooriginari. Leggiamo, in proposito, le parole stesse di Hume: «In ogni sistema di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo più consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve, esprimo3091
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Dovere no una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti. Ma poiché gli autori non seguono abitualmente questa precauzione, mi permetto di raccomandarla ai lettori, e sono convinto che un minimo di attenzione a questo riguardo rovescerà tutti i comuni sistemi di morale e ci farà capire che la distinzione tra il vizio e la virtù non si fonda semplicemente sulle relazioni tra gli oggetti e non viene percepita mediante la ragione» (cfr. Hume, op. cit., l. III, parte I, sez. 1, pp. 496-497). Il secondo divieto humiano si può allora esprimere così: da asserti descrittivi, non può essere dedotto alcun asserto normativo. Vale a dire: dal fatto – ad esempio – che l’uomo sia fatto in un certo modo, non si può far discendere che debba comportarsi in un certo modo. Ora, è proprio questa pretesa humiana a costituire la vera e propria «ghigliottina», che avrebbe la pretesa di separare, senza possibilità di comunicazione, l’osservazione e la norma, l’ontologia e la morale, e, più a fondo, i trascendentali «essere» e «bene». 2. Tentativi di superamento. – Dopo una ricezione assai larga della «ghigliottina di Hume» – mediata anche dalla teoria della «fallacia naturalistica», sostenuta da Gorge Edward Moore –, si è assistito a una diffusa reazione a questo luogo comune, e a vari i tentativi di superarlo. In particolare, al tentativo di superare il primo dei due divieti humiani sono dedicate alcune ricerche di Alan R. Anderson (allievo di G.H. Von Wright). Anderson sembra partire dalla diffusa tendenza a ridurre il diritto a diritto positivo (e, più in generale, le discipline prescrittive, come l’etica, a scienze descrittive dei comportamenti o costumi). In particolare, egli intende mostrare che i concetti «deontici» (che parlano dell’obbligo e del divieto) sono traducibili nei concetti «modali» (che parlano di possibilità e impossibilità), grazie all’inserimento, nel linguaggio modale, del concetto fattuale (cioè descrittivo) di «sanzione». La costante proposizionale S descrive – in Anderson – quello stato di cose consistente nell’esserci della sanzione; di modo che, una certa indicazione è obbligatoria, se e solo se la sua mancata realizzazione implica necessariamente la sanzione (cfr. A.R. Anderson, A Reduction 3092
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of Deontic Logic to Alethic Modal Logic, in «Mind», 1958, pp. 100-103). Il «riduzionismo» andersoniano è stato imputato – tra gli altri, dal logico latino-americano Hector Neri Castañeda – di «fallacia naturalistica» (cioè di una confusione tra il piano dei fatti – le sanzioni – e il piano degli obblighi morali). In particolare, la fallacia starebbe nel far corrispondere necessariamente, e surrettiziamente, il non esserci della sanzione, con il non esserci della infrazione all’obbligo (cfr. H.Neri Castañeda, Obligation and Modal Logic, in «Logique et Analyse», 3, 1960). Al tentativo di superare il secondo divieto humiano, si è dedicato, tra gli altri, l’americano John R. Searle, che – insieme all’inglese John L. Austin – è uno dei principali interpreti della teoria degli Speech Acts. Searle presenta dei controesempi al divieto di Hume, servendosi di «fatti istituzionali» (cioè che fondano un impegno), quali l’atto di promettere. Affermare un tale fatto istituzionale – spiega Searle – è già un invocare le regole costitutive dell’istituzione. Sono proprio queste regole a dare alla parola “promessa” il suo significato; ma esse sono tali che impegnarmi all’opinione che Tizio ha fatto una promessa, comporta l’impegnarmi anche a quel che egli dovrebbe fare, perlomeno per quanto riguarda l’obbligo che egli si è assunto promettendo. Ad esempio, se Tizio ha enunciato – sotto certe condizioni – le parole «ti prometto, Caio, di pagarti tot», allora «Tizio dovrebbe pagare a Caio tot» (cfr. J.R. Searle, How to derive ‘Ought’ from ‘Is’, in «The Philosophical Review», 73, 1964, pp. 48-53). Al tentativo di Searle si è opposto John L. Mackie, osservando che i fatti istituzionali sono obbliganti, non di per sé, ma solamente per chi accetta di collocarsi al loro interno (Hume’s Moral Theory, London 1980, p. 159). Di altro rilievo è, in proposito, la riflessione del logico polacco Jerzy Kalinowski. Le indicazioni forniteci da Kalinowski sono tre. In primo luogo, egli chiarisce che il divieto humiano di dedurre proposizioni normative da proposizioni descrittive non va confuso – come molti fanno – con l’analogo divieto posto a suo tempo da Henri Poincaré alla deducibilità degli «imperativi» dalle proposizioni descrittive. Ora, confondere normativo e imperativo (le norme, di cui ci si occupa in morale, con gli ordini, che di per sé possono anche non avere un contenuto morale), è proprio – secondo Kalinowski – di un certo «volontarismo», che dà
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per scontato che non si possa parlare della norma morale in termini di verità o di falsità (cfr. J. Kalinowski, Le problème de la vérité, Lyon 1967). Quanto poi al secondo divieto humiano – quello che dà luogo all’autentico divisionismo etico –, Kalinowski lo accetta, ma con una precisazione decisiva: dire che dall’«è» non si può far derivare il «deve», non significa che la norma morale sia qualcosa di indeducibile; ma, piuttosto, che è deducibile a partire da un proprio ordine di evidenze, diverso da quello delle constatazioni. La conoscenza pratica come la conoscenza teorica – spiega Kalinowski – ha le sue proposizioni seconde, conclusioni di tali o tali ragionamenti, e le sue proposizioni prime, evidenti, la cui verità è colta senza alcun ragionamento. Allo stesso modo che nell’ordine delle definizioni bisogna arrestarsi a qualche termine primo, indefinito, il cui significato chiaro e netto s’impone senza definizione, così nell’ordine dei ragionamenti, teorici o pratici che siano, è inevitabile partire da premesse autoevidenti. La legge morale naturale, che termina nei giudizi di coscienza, non è altro – spiega Kalinowski – che un insieme di premesse morali che si propongono come evidenti, e che sono sottoponibili alla disgiunzione «vero/falso» Questo però non significa dedurre l’etica dalla metafisica; anche se «la metafisica permette di cogliere l’evidente verità della legge naturale»: fornisce, cioè, quel quadro di significati (concernente Dio, l’uomo, il bene, l’azione umana), entro il quale acquistano senso le indicazioni fondamentali della legge naturale (cfr. J. Kalinowski, Initiation à la philosophie morale, Paris 1966, pp. 127-130). Ma è proprio una «logica delle norme», che indichi anche formalisticamente i modi secondo cui è corretta la deduzione delle norme pratiche dalle verità morali prime, quella che manca nel panorama contemporaneo: una logica che tenti di illustrare, insomma, il modo di argomentare della coscienza. Kalinowski osserva, in proposito, che i teorici della logica deontica ci danno solo, in realtà, «logiche degli enunciati sulle norme». Essi, cioè, si occupano di esprimere in formule e operazioni i rapporti tra obblighi normativi, oppure tra obblighi normativi e sanzioni, oppure tra obblighi normativi e possibilità di attuazione; finendo, insomma, per sottintendere che si dia quella logica produttiva di norme, sulla quale esitano a impegnarsi. Invece si tratterebbe di concentrarsi proprio sui criteri e i modi di formulazio-
Dovere ne delle norme stesse (cfr. J. Kalinowski, Théorie des propositions normatives, in «Studia logica», 1, 1953, pp. 147-182). Secondo Alasdair MacIntyre, il principio «nessuna conclusione sul dovere a partire da premesse sull’essere», può essere fatto valere solo all’interno di una morale che abbia rifiutato il «concetto funzionale di uomo», proprio dell’etica classica: il concetto che riconosce all’uomo una certa natura essenziale, che attende un certo tipo di compimento (After Virtue [1981], tr. it. di p. Capriolo, Dopo la virtù, Milano 1988, pp. 77-78). In altre parole, l’«essere» che la morale ha in vista è, in primo luogo, l’essere dell’uomo. Ora, l’essere dell’uomo è una realtà dinamica, e parlare dell’uomo, è parlare del suo orientamento al fine ultimo. Alla considerazione di questo orientamento strutturale, la morale aggiunge, di suo, solo una esigenza: che l’uomo non contraddica tale orientamento, che non entri quindi in contraddizione con se stesso. Il «dover essere» è semplicemente la non contraddittorietà ovvero la coerenza interna della vita appetitiva, e non un’esigenza che ad essa sopraggiunga da altrove. VI. DOVERE E POTERE. – 1. Dovere e potere secondo Kant. – Il tema è proposto da Kant nella discussione della terza antinomia della ragione pura. Il dovere (die Pflicht) – cioè il contenuto del dover-essere (Sollen) – è una qualità ontologica eterogenea rispetto allo «è, era, sarà», su cui si attesta l’intelletto scientifico. Il doveressere, infatti, è una qualità che inerisce, non a fatti, bensì ad atti: cioè, a realtà extra-temporali, che non stanno in relazioni di tipo temporale. Più precisamente, il Sollen esprime un atto possibile; e ciò, in due sensi. (1) «Possibile» (möglich), anzitutto, nel senso che l’atto potrebbe non tradursi mai in un fatto attuale, ed essere però ugualmente reale – anche se in una dimensione diversa da quella empirica. La possibilità qui in questione, sembra essere quella normalmente considerata nell’ambito della filosofia moderna, dove il possibile, inteso come non-internamente-contraddittorio, è la base comune tra l’ideale (o meramente possibile) e l’attuale (che traduce il possibile in realtà effettiva). (2) Ma, il contenuto del Sollen è detto da Kant «possibile» anche in un altro senso: e precisamente, nel senso che esso non può non essere anche «possibile in condizioni naturali». In altre parole, Kant ritiene che, se so che devo fare x, per ciò stesso so anche che 3093
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Dovere posso fare x; vale a dire: so che x, non solo è un contenuto non-internamente-contraddittorio (in astratto), ma è anche un contenuto realizzabile nelle condizioni empiriche in cui deve essere attuato (cioè, non è neppure contraddittorio rispetto al contesto che deve accoglierlo). Leggiamo dal testo kantiano: «La ragione non s’arrende al principio, che è dato empiricamente, e non segue l’ordine delle cose, com’esse si presentano nel fenomeno; ma si fa, con piena spontaneità, un suo proprio ordine secondo idee, alle quali adatta le condizioni empiriche, e alla stregua delle quali dichiara necessarie perfino azioni che per anco non sono accadute e probabilmente non accadranno; ma di tutte, nondimeno, suppone che la ragione, rispetto ad esse, possa esercitare una causalità, giacché senza di ciò dalle sue idee non attenderebbe verun effetto nella esperienza» (KrV, tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riveduta da V. Mathieu, Critica della ragion pura, Roma-Bari 1987, pp. 438439). Quando invece non è il dovere la causa dell’umano volere, ma piuttosto «un impulso sensibile» (ein sinnlicher Trieb), allora l’oggetto (il contenuto) dell’azione non avrà le caratteristiche (1) e (2) ora indicate; e la volizione di quell’oggetto sarà solo condizionata, e non libera. Riguardo a quell’oggetto, l’uomo potrà farsi libero, in tanto in quanto lo investirà con la categoria morale del dovere, che esprime la ragione che è in lui, e che assegna agli oggetti pratici (cioè agli atti) «misura e scopo», «inibizione e autorità» – come Kant si esprime (ibid.). 2. Sviluppi formali. – La tesi per cui il dovere comporta il potere – tesi qualificante per il discorso kantiano sulla libertà – può essere approfondita con l’aiuto di qualche forma di linguaggio simbolico. In un ambito di logica puramente deontica – ad esempio nel calcolo OKD (per una esposizione del calcolo O-KD, e del calcolo KQ si veda: S. Galvan, Introduzione alle logiche filosofiche II: applicazioni filosofiche della logica deontica, Milano 1987) –, è derivabile una formula come: (a) ¬(Oα ∧ O¬α), la quale viene a dire che non può essere obbligatoria la autocontraddizione, cioè, nessuno è tenuto a porre insieme atti contraddittori tra loro («non si dà che sia obbligatorio a e insieme sia obbligatorio non-a»). La (a) è derivabile grazie alla presenza in O-KD dell’assioma O-D, il quale asserisce che «se a è obbligatorio, allora c’è almeno un mondo possibile e buono (ossia 3094
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una alternativa deontica) in cui a è vero (cioè, realizzato)». Applicando all’assioma O-D la «regola di contrapposizione», si può derivare che, se non c’è alcuna alternativa deontica in cui a è vero, allora a non è obbligatorio. Kant probabilmente sottoscriverebbe questa conclusione: infatti, dal suo punto di vista, il contenuto del dovere (cioè a) ha una propria realtà (diciamo pure nel «regno dei fini»), che è indipendente dall’attuazione empirica. La (a) equivale a: (b) ¬O ⊥ , cioè: non c’è obbligo all’autocontraddizione. La possibilità implicata dall’obbligatorietà – in O-KD – consiste infatti nella semplice non-contraddittorietà. Sennonché, il potere (la possibilità operativa) cui alludeva Kant, è certamente qualcosa di più ricco, di quanto qui riconosciuto. Qui si documenta piuttosto la povertà espressiva di un sistema di logica puramente deontica. Più espressivo al riguardo risulta un sistema «aletico di logica deontica»: cioè, un sistema che usi un linguaggio misto, in cui le costanti deontiche (come O) trovano posto accanto ai simboli modali, come quello della possibilità (◊ ). Ad esempio, nel sistema misto KQ, risulta derivabile: (c) Oα → ◊α. La (c) significa che l’obbligo di compiere a, implica materialmente che sia possibile compiere a. Anche qui, comunque, occorre intendersi bene sul significato dei simboli usati. Infatti, se ◊α significasse, non la possibilità di realizzare a, ma solo l’astratta non-interna-contraddittorietà di a, allora ciò non sarebbe sufficiente a esprimere quel che la formula kantiana indicava. Ma anche riguardo all’implicazione ci sono problemi. Se la leggo genericamente così: «non si dà che a sia obbligatorio e non sia insieme possibile», allora essa è approvabile (dal punto di vista di Kant). Ma, con una simile formula, non si sarebbe ancora colto il senso filosofico della questione. Ne è prova il fatto che, per contrapposizione, si potrebbe rovesciare la (c) in: (c’) ¬◊α → ¬Oα (se a non è possibile, allora non è neppure obbligatorio); il che, oltre che formalmente lecito, sarebbe forse anche accettato da Kant – senza però che, con questo, il senso della sua affermazione venga minimamente espresso. Non a caso, Jaakko Hintikka (cfr. Models for Modalities, Dordrecht 1969) nega che (c) sia espressione adeguata della formula kantiana, e propone in alternativa: (d) O(Oα → ◊α); formula nella quale – come si vede – la freccia dell’implicazione materiale è sottoposta all’operatore deontico O, e viene dunque a
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Dovere
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esprimere una implicazione deontica. La (d) può esser letta come segue: la realizzabilità di a è una condizione deonticamente esigita nel mondo in cui a è obbligatorio; il che è certamente più impegnativo della semplice affermazione – proposta in alternativa da altri autori –, per cui la realizzabilità di a è condizione di senso per il valere della obbligatorietà di a (ibi, pp. 196-198). Come si può notare, Kant – con la formula che stiamo discutendo – propone un tipo di inferenza che è l’inverso di quello che la «ghigliottina di Hume» intendeva vietare. Uno dei divieti previsti dalla «ghigliottina di Hume», era che non si potesse passare argomentativamente dall’«essere» al «dover-essere» (dall’is all’ought): Kant propone piuttosto di passare dal «dover-essere» al «poter-essere» (che comunque presuppone in vario modo l’«essere»). Kant, insomma, inferisce dal deontico il modale, il quale presuppone in qualche modo l’aletico (infatti, che un contenuto di dovere sia possibile a realizzarsi, è un asserto che dice anche alcunché su come stanno le cose).
privatistica, è popolata di esempi in tal senso. Questa assenza di correlazione assoluta tra diritti e doveri consente di definire il dovere in senso specifico come quella situazione giuridica svantaggiosa, posta dall’ordinamento giuridico a carico di un soggetto, senza che vi sia un beneficiario di essa che si possa considerare come soggetto di un diritto correlativo (es. il dovere costituzionale di esercitare il voto). Diversamente, si definisce obbligo un comportamento che una norma impone a un soggetto nell’interesse o a vantaggio di un altro soggetto, titolare di una pretesa. Quest’ultimo si configura come obbligazione nel caso in cui abbia a oggetto una prestazione suscettibile di una valutazione economica. Un cenno a parte merita il concetto di onere, nel quale l’azione del soggetto è posta in funzione di un interesse proprio che si vuole realizzare. In tal senso l’onere, è un dovere condizionato, che esige un comportamento nella misura in cui il soggetto voglia ottenere un risultato giuridico (es. la validità di un atto), risolvendo un conflitto intra-subiettivo di interessi.
G. Morra - P. Pagani
G. Gambino BIBL.: parte A: studi di carattere generale: J. P. BULNES, La filosofía del Deber, Madrid 1947; R. LE SENNE, Le devoir, Paris 1950; A. GUZZO, La moralità, Torino 1950, pp. 386 ss.; J. DE FINANCE, Essai sur l’agir humain, Roma 1962; R. M. HARE, Freedom and Reason, Oxford 1963; G. MORRA, La crisi dell’autonomismo etico e la riproposizione della morale teologica, ivi 1967. Per la storia del concetto di dovere: R. LE SENNE, Traité de morale générale, 2ª ed., Paris 1947; A. SERTILLANGES, Il cristianesimo e le filosofie, tr. it., 2 voll., 2ª3ª ed., Brescia 1954-56; J. LECLERCQ, Les grandes lignes de la philos. morale, Parigi 1954; J. MARITAIN, La philos. mor. Examen histor. et crit. des grands systèmes, ivi 1960. Per l’antichità classica: R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica, Firenze 1958; ID., Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro, Milano-Napoli 1960; E. C. WELSKOPF, Probleme der Musse im Alten Hellas, Berlin 1962. Per Socrate: A. FOUILLÉE, La philos. de Socrate, ivi 1874, p. 298 ss.; R. GUARDINI, Der Tod des Sokrates, tr. it. di E. Pocar, Milano 1948. pp. 118 ss. Per Platone: L. STEFANINI, Platone, 2ª ed., Padova 1949 (con bibl.). Per Aristotele: G. ZUCCANTE, Aristotele e la morale, Firenze 1926, p. 106 ss.; R. A. GAUTHIER, La morale d’Aristote, Paris 1958. Per lo stoicismo: G. MANCINI, L’etica stoica da Zenone a Crisippo, Padova 1940, pp. 69 ss.; E. MARTINAZZOLI, Seneca. Studio sulla morale ellenica nell’esperienza morale, Firenze 1945; O. LUSCHNAT, Das Problem des ethischen Fortschritts in der alten Stoa, in «Philologus», 1958. Per il cristianesi-
B) ASPETTO GIURIDICO. – Il dibattito filosoficogiuridico sul concetto di dovere lascia tradizionalmente emergere la distinzione tra dovere morale e dovere giuridico, che ha ricevuto una specifica formulazione nella differenziazione evidenziata da Thomasius tra forum internum e forum externum, e nell’idea che il dovere giuridico sia, da un lato, necessariamente accompagnato dalla minaccia di una sanzione, e dall’altro fondato sul presupposto che sia concretamente possibile adempierlo. Nell’ambito proprio della teoria generale del diritto, il concetto di dovere si è venuto delineando nell’epoca moderna come momento autonomo e fondamentale dell’esperienza giuridica. In senso generico, il dovere si può definire come un comportamento di obbedienza che sorge in conseguenza di un atto normativo e di una fattispecie determinata. Titolare di un dovere può essere solo il soggetto cui spetta di provvedere al suo adempimento, venendo così in rilievo la coincidenza tra titolarità ed esercizio del dovere. In ordine al contenuto, il dovere può essere positivo (impone un contegno attivo, in virtù della bona fides romana) o negativo (impone un contegno passivo, in parte riconducibile al principio del neminem laedere). Non tutti i doveri corrispondono a dei diritti: l’esperienza giuridica, sia pubblicistica che
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Doxa mo: F. CAYRÉ, Patrologia e storia della teologia, tr. it. di T. Pellizzari, Roma 1938, 2 voll.; A. D. SERTILLANGES, La philosophie morale de St Thomas d’Aquin, Paris 1947. Per il dovere in Kant: G. RENSI, L’eteronomia morale nel kantismo, nel vol. La trascendenza, Torino 1914, pp. 47-84; P. MARTINETTI, Kant, 2ª ed., Milano 1946, pp. 150 ss. (con bibl.); H. REINER, Pflicht und Neigung, Meisenheim 1951; G. A. SCHRADER, Autonomy, Heteronomy, and Moral Imperatives, in «Jour. Philos.», 1963, pp. 65-77 ; P. PAGANI, Schematismo trascendentale : etica e intersoggettività in Kant, in C. VIGNA (a cura di), Etica trascendentale e intersoggettività, Milano 2002. Per Fichte: X. LÉON, La philos. de Fichte, Paris 1902. Per Hegel: P. MARTINETTI, Hegel, Milano 1943, pp. 171-96. Per Schopenhauer: U.A. PADOVANI, Schopenhauer, ivi 1934, pp. 156 ss.; G. FAGGIN, Schopenhauer, il mistico senza Dio, Firenze 1951, pp. 195 ss. (con bibl.). Per l’interpretazione cristiana di Nietzsche: A. TILGHER, Cristo e noi, Modena 1934, pp. 59-72; T. MORETTI COSTANZI, Il cristianesimo in Nietzsche, nel vol. Kierkegaard e Nietzsche, Roma 1953, pp. 201-7. Sulla filosofia italiana del sec. XIX: B. BRUNELLO, Rosmini, Milano 1941, cap. 6; L. STEFANINI, Gioberti, ivi 1947, pp. 360 ss. Sulla morale nel sec. XIX: E. FOUILLÉE, Critique des systèmes de morale contemporains, Paris 1883. Su Croce: E. CIONE, Croce, Milano 1944, pp. 183 ss.; F. OLGIATI, B. Croce e lo storicismo, ivi 1953, pp. 245 ss. Su Gentile: V. A. BELLEZZA, L’esistenzialismo positivo di G. Gentile, Firenze 1944, pp. 95 ss. Sul dovere nella filosofia contemporanea: R.B. BRANDT, The Concepts of Obligation and Duty, in «Mind», 73 (1964); W.D. HUDSON (a cura di), The Is/Ought-Question, London 1969; G. FJ.K. MISH’ALANI, «Duty”, “Obligation» and «Ought», in «Analysis», 30 (1969); PH. FOOT, Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Oxford 1978; I. ADINOLFI, Dovere, in Gli strumenti del sapere contemporaneo. Volume II: I concetti, Torino 1997. Parte B: C. THOMASIUS, Fundamenta iuris naturae et gentium, Halle - Leipzig 1705 (rist. anast. Aalen 1963); H. KELSEN, General Theory of Law and State, Cambridge (Massachusetts) 1945, tr. it. di S. Cotta e G. Treves, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano 1952; S. ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1947, pp. 91-110; F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma 19513, pp. 168-175; E. BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, vol. I, Milano 1953; N. BOBBIO, Teoria della norma giuridica, Torino 1958; H.L.A. HART, Legal and moral obligation, in A.I. MELDEN (a cura di), Essays in moral Philosophy, Seattle 1958, tr. it. a cura di V. Frosini, Obbligazione morale e obbligazione giuridica, in Contributi all’analisi del diritto, Milano 1964; W. CESARINI SFORZA, Sul concetto di obbligo, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 40 (1963), pp.431-445; M. KRIELE, L’obbligo giuridico e la separazione positivistica fra diritto e morale, in «Rivista di Filosofia», 57 (1966), pp.
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193-213; N. IRTI, Due saggi sul dovere giuridico (obbligo-onere), Napoli 1973; J.C. SMITH, Legal obligation, London 1976; U. SCARPELLI, Dovere morale, obbligo giuridico, impegno politico, in L’etica senza verità, Bologna 1982; R. GUASTINI, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Torino 1996; G. OPPO, La prestazione in adempimento di un dovere non giuridico (cinquant’anni dopo), in «Rivista di diritto civile», 43 (1997), 4, pp. 515-527; L. BAGOLINI, David Hume on Legal Obligation and Sanction, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 77 (2000), 3, pp. 395-402. ➨ CONSEQUENZIALISMO; DEONTOLOGISMO; DIRITTI UMANI; DIRITTO, FILOSOFIA DEL; ETHOS; ETICA, EPISTEMOLOGIA DELL’; ETICHE DEONTOLOGICHE / TELEOLOGICHE ; FILOSOFIA MORALE ; IMPERATIVO ; NORMA; OBBLIGAZIONE; OBBLIGO; PIACERE; SANZIONE; SITTLICHKEIT.
DOXA (dovxa). – La doxa è l’opinione, cioè la Doxa conoscenza relativa che non coglie l’autentica verità e che, dunque, è fonte di errore. In tal senso, è contrapposta all’episteme (ejpisthvmh). Una sostanziale svalutazione della doxa si riscontra negli eleati, soprattutto in Parmenide, secondo cui essa si contrappone alla retta ragione (cfr. H. Diels - W. Kranz [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-526 [rist. Zürich 1996], fr. 28 B 1.) Anche Melisso vede in essa la fonte delle illusioni (cfr. ibi, fr. 30 B 8). Il termine viene poi sviluppato da Platone, che lo inserisce coerentemente nel proprio pensiero, facendo della doxa la conoscenza sensibile, articolata in eikasia (eijkasiva, immaginazione o conoscenza delle immagini sensibili) e pistis (pivsti", credenza o conoscenza degli oggetti sensibili). Facendo dell’essere sensibile un piano intermedio (metaxy) tra il vero essere (il mondo delle idee) e il nulla, Platone considera la doxa come una conoscenza mediana, che richiede però di essere confermata e trasformata in episteme (cfr. Men., 97 ss.; Conv., 202 a; Theaet., 187 b ss.; Resp., 476 d - 479 d). Nel Menone (cfr. 97 b- 100 b) doxa ricorre anche in un contesto etico, per indicare una forma iniziale e spontanea di virtù dell’uomo comune, corrispondente a una sorta di intuizione spontanea del bene da compiere nel mondo sensibile. Aristotele parla della doxa soprattutto in riferimento al sillogismo dialettico (appunto fondato sulle opinioni, cioè sugli «elementi che appaiono accettabili a tutti, o alla maggioranza, o ai sapienti» (cfr. l’intero passo in Top., 100 a 18 - b 23). In età ellenistica
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Dramma
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non viene meno la critica verso la doxa, che gli stoici considerano come fonte di passioni (cfr. H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsiae 1903-24, vol. III, 378, 380, 381. Cfr. infine Plotino, Enn., II 1, 2; VI 1, 1). E. Vimercati ➨ EPISTEME; METAXY.
DRAGHETTI, ANDREA. – Filosofo eclettico, Draghetti gesuita, n. a Novara nel 1736, m. nel 1825. Fu professore di metafisica nel Collegio di Brera. Insegnò logica e metafisica anche nell’università di Pavia. Scrisse un’opera organica di filosofia: Psychologiae specimen (divisa in tre parti: De voluntate; De attentione, memoria, imaginatione; De reflexione, ratione, libertate), Milano 1771-72. Avversò il tentativo condillachiano e bonnetiano di spiegare il sistema delle facoltà dell’anima coi sensi e col movimento delle fibre cerebrali. Nell’Ethica (Reggio Emilia 1818) fondò il principio della morale sull’istinto morale combinato con la ragione. Scrisse anche: Istituzioni logiche, Modena 1820; Elementa metaphysices, ivi 1821. A. Viviani BIBL.: AA.VV., Memorie e documenti per la storia dell’Università di Pavia e degli uomini più illustri che vi insegnarono, parte I, Pavia 1878, p. 468; G. CAPONE BRAGA, La filosofia francese e italiana del Settecento, Arezzo 1920 (Padova 19412), vol. II, p. 98.
DRAKE, DURANT. – Realista americano, n. nel Drake 1878, m. nel 1933. Di famiglia puritana, studiò a Harvard con Royce, James, Santayana, e a Columbia con Dewey e Montague. Ha insegnato al Vassar College. Le sue opere principali sono: Problems of Conduct, Boston 1914; Problems of Religion, New York 1916; Mind and Its Place in Nature, ivi 1925; The New Morality, ivi 1928. Contribuì, con altri, al libro Essays in Critical Realism, New York - London 1920. Come realista critico, indirizzo rappresentato anche da A.O. Lovejoy, J.B. Pratt, A.K. Rogers, G. Santayana, R.W. Sellars, C.A. Strong, Drake sostiene che l’esperienza tende a una realtà oggettiva che la trascende e la cui esistenza non può essere logicamente provata, ma deve essere posta come una ipotesi necessaria all’azione e alla scienza. La realtà non ci è mai data immediatamente: i dati della conoscenza sono essenze, che non hanno esistenza, ma solo un puro stato logico. Secondo Drake la loro presenza alla mente indica l’esistenza di un
meccanismo psichico, mediante il quale gli stati mentali vengono proiettati nel mondo esterno. In esso si esprimerebbe la stessa vita organica, e non una sostanza separata o anima. D’altra parte l’intera realtà avrebbe carattere psichico. L’errore si verifica allorché l’essenza da noi intuita e interpretata come una qualità dell’oggetto non corrisponde alla struttura di esso. In etica Drake è un migliorista; la felicità è per lui la sola norma valida da cui trarre, sperimentalmente, i precetti morali. Egli non mira tuttavia alla felicità individuale, ma a quella del genere umano nel suo complesso. N. Bosco BIBL.: Autoesposizione: La filosofia di un migliorista, in J.H. MUIRHEAD, Filosofi americani contemporanei, Milano 1939, pp. 87-114; A. FERRO, Orientamenti della filosofia angloamericana (Drake), in «Archivio di Storia della Filosofia italiana», 2 (1934); R. CAPONIGRI, in Les grands courants. Tendances, pp. 954-955, 958 ss.
DRAMMA (drama; Drama; drame; drama). – Dramma Accettando per il termine l’indicazione dell’etimo greco, dramma indica il momento operativo di ogni azione teatrale. Dra'ma vale infatti «opera», e quindi a ragione lo stesso termine poteva servire alla tragedia ditirambica del V secolo a. C. ad Atene e al melodramma dell’Italia barocca e romantica. E l’intenzione di accentuare appunto il momento attivo dello spettacolo, sia come contrasto patetico, sia come dialettica di un antagonismo che si ricompone in vista di un ulteriore approdo, è presente nell’applicazione aggettivale del termine. Quando si parla di poesia drammatica, infatti, non si intendono tanto i testi disposti a una elaborazione spettacolare degli attori, ma un’opera letteraria attenta agli esempi dell’azione teatrale. E di qui deriva o qui s’appoggia il tentativo di gerarchizzare le varie forme letterarie (lirica, narrativa, drammatica), in vista di un primato ora della drammatica ora della lirica, lasciando oramai alla narrativa, se non alla saggistica, d’essere oggi il luogo proprio di ogni scrittura. II termine, più specificamente inteso, indica invece un particolare genere di opera teatrale, che ebbe inizio nel Settecento, procurando un modo di riflessione più adatto allo spirito illuminista e a una classe borghese che poneva la sua candidatura al potere politico. 3097
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Dray Il rigore onde erano stati distinti e divisi i due generi tradizionali di spettacolo teatrale, tragedia e commedia, cede a una più accorta e più rassegnata modulazione del reale. Anche se tragedia e commedia erano state confuse nella tradizione mimica della commedia dell’arte e nella tradizione musicale del teatro dell’opera, esse rimanevano tuttavia ben distinte, specie dove l’intellettualismo della cultura, come in Francia, faceva volentieri capo alle distinzioni accademiche. Si parla ora di «tragedia civile» e di «commedia lacrimosa», capovolgendo le indicazioni semantiche più vulgate che individuavano nella tragedia il «luogo» del pianto e nella commedia il «luogo» del riso. Se ciò rischiava di portare a una forma di teatro svincolata dalla responsabilità dell’impegno civile e a un personalismo eccentrico, le ragioni positive prevalsero sulle negative. Il «genere», variamente avviato dagli italiani (qualche commedia di Carlo Goldoni, come Il padre di famiglia, sembra esserne il capostipite), dai francesi (Denis Diderot), dai tedeschi (Gotthold E. Lessing), anche se in parte contraddetto da quel recupero di estremismo e di impegno etico-religioso che fu il romanticismo, ebbe grande successo nell’Ottocento, soprattutto nelle forme del teatro naturalista e realista. Ogni nazione d’Europa mette in scena la propria storia: a cominciar dalla Francia di Diderot, di Emile Augier e di Dumas figlio; e ognuna di esse, cominciando o ricominciando a fare un teatro rispondente alle aspirazioni medie della vita comune, si esprimeva in forma di dramma: dall’Italia di Paolo Giacometti e di Paolo Ferrari, prima, di Marco Praga e di Giuseppe Giacosa poi, alla Germania di Hermann Sudermann e di Gerhart Hauptmann, all’Inghilterra di Arthur W. Pinero e di Bernard Shaw, alla Scandinavia di Henrik Ibsen e alla Russia di Anton Cechov. M. Apollonio BIBL.: W. WETZ, Die Anfänge der ernsten bürgerlichen Dichtung des achtzehnten Jahrhundert, Worms 1885; J. GUILLEMINOT, L’évolution de l’idée dramatique chez les maîtres du théâtre de Corneille à Dumas Fils, Paris 1909; F.C. NOLTE, Early Middle Class Drama, Lancaster 1935; H. GOUHIER, L’essence du théâtre, Paris 1943; R. PIGNARRE, Histoire du théâtre, Paris 1949; G.R. MORTEO, Idee per una storia morale del teatro, Torino 1953; A.F. JOHNSON, Drama: Technique and Philosophy, Valley Forge 1963; G. LUKÁCS, Il dramma moderno, Milano 1977; S. D’AMICO, Storia del teatro drammatico, Roma 1982, 4 voll.; M.L. SCELFO, Le teo-
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rie drammatiche nel romanticismo, Catania 1996; P. SZONDI, Theorie des modernen Dramas, Frankfurt am Main 1996, tr. it. di G.L., Teoria del dramma moderno, Torino 2000; P. SZONDI, Das lyrische Drama des Fin de siècle, Frankfurt am Main 2001; M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano, Milano 2003. ➨ ATTORE; COMICO; TEATRO.
DRAY, WILLIAM HERBERT. – Filosofo canadeDray se, n. a Ottawa il 23 giu. 1921. Addottoratosi in filosofia a Oxford, ha insegnato fino al 1986 all’università di Ottawa. Va ricordato principalmente come critico delle teorie positiviste sulla spiegazione storica, in particolare quella di Hempel, secondo cui anche in storia valgono spiegazioni mediante «leggi di copertura», sul modello della fisica. L’opera principale è Laws and Explanation in History (Oxford 1957, tr. it. di R. Albertini, Leggi e spiegazioni in storia, Milano 1974): sulla base delle idee di R. Collingwood, Dray propone un modello di spiegazione per cui l’evento storico, data la sua unicità, va ricostruito attraverso il riferimento a elementi valutativi propri dell’agente, e non è pertanto riconducibile a mere leggi empiriche. M. Bastianelli BIBL.: Philosophy of History, London 1964, tr. it. di G. Baroncini, Filosofia e conoscenza storica, Bologna 1969; Philosophical Analysis and History, New York London 1966; Perspectives on History, London 1980; Substance and Form in History: a Collection of Essays in Philosophy of History, Edinburgh 1981; On History and Philosophers of History, Leiden 1989, 2 voll.; History as Re-enactment: R.G. Collingwood’s Idea of History, Oxford 1995; Introduction, in R.G. COLLINGWOOD, The Principles of History and Other Writings in Philosophy of History, Oxford 1999. Su Dray: R. SIMILI (a cura di), La spiegazione storica, Parma 1984; M.V. PREDAVAL MAGRINI (a cura di), Filosofia analitica e conoscenza storica, Firenze 1979; W.C. SALMON, Four Decades of Scientific Explanation, Minneapolis 1990, tr. it. di M.C. Di Maio, Quarant’anni di spiegazione scientifica. Scienza e filosofia 19481987, Milano 1992.
DREBEN, BURTON SPENCER. – Logico, mateDreben matico e filosofo statunitense, n. a Boston il 26 sett. 1927 e m. ivi l’11 lug. 1999. Compiuti gli studi (Deductive Completeness of n-valued Quantification Theory, Harvard 1949), insegnò a Chicago, Harvard e Boston. Si è occupato prevalentemente di problemi di logica matematica connessi alla teoria della quantificazione e, in particolare, alla decidibi-
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lità. In The Decision Problem, con W.D. Goldfarb, Reading (Massachusetts) 1979, partendo dall’impostazione di Hilbert e dai risultati di Turing, trasforma il problema della decisione nel problema della classificazione delle formule decidibili. Allievo e collega di Quine, in Quine and Wittgenstein (in R. Arrington - H. Glock [a cura di], Wittgenstein and Quine, London - New York 1996, pp. 39-62), sostiene che la filosofia analitica, iniziata con i tentativi di rigorizzazione di Frege e Russell, ha esaurito il suo compito con il tardo Wittgenstein e con Quine. Al rapporto tra filosofia e logica e alle origini della filosofia analitica ha dedicato l’ultima fase della sua riflessione. In On Rawls and Political Liberalism (in S. Freeman [a cura di], The Cambridge Companion to Rawls, Cambridge 2001, pp. 316346), ridimensiona gli aspetti kantiani della dottrina di Rawls. È noto per aver affermato che «il nonsenso è spazzatura, ma la storia della spazzatura diventa dottrina». M. Bastianelli BIBL.: H. PUTNAM, A Half Century of Philosophy, «Daedalus», 1 (1997), pp. 175-208; J. RAWLS, A Reminiscence (of Burton Dreben), in J. FLOYD (a cura di), Future Pasts: The Analytic Tradition in Twentieth-Century Philosophy, Oxford 2001, pp. 417-430.
DREHEN - HEBEN (ruotare - sollevare). – Il Drehen - Heben pensiero dialettico oltrepassante, proprio del «principio speranza» di Ernst Bloch, sul piano gnoseologico fonda la possibilità della buona riuscita sia dell’esperimento dell’uomo, sia di quello del mondo (experimentum possibilis salutis) nella coppia categoriale del «ruotare» e del «sollevare», operanti sinergicamente. La coppia categoriale drehen - heben illumina la mediazione riflessiva dell’immediato, nella quale il passivo si rivela come l’altro lato dell’attivo: un ruotare l’immediatezza del fenomeno volta a individuarne le possibilità inespresse, e inscritte nel soggiacente piano della «tendenza» e «latenza» in cui il fenomeno stesso affonda le sue radici. Ora, per produrre effetti conoscitivi critici, demistificanti e anticipatori, il ruotare (drehen) deve operare sinergicamente col sollevare (heben), che eleva valorialmente il visto più in alto del vedente, consentendo a questi di esercitare uno sguardo che va dal basso all’alto, senza pregiudizi ma anche senza risolversi in un atteggiamento oggettivante. Il primo, fondamentale, esito speculativo pro-
Dressler dotto dalla coppia drehen - heben è la focalizzazione della differenza tra l’oggettivazione, nel senso dell’astrazione indispensabile a ogni conoscenza razionale, e l’estraneazione, di cui la mercificazione capitalistica per Bloch è il caso più evidente. S. Mancini
DREIER, FREDERIK. – Pensatore danese, n. Dreier nel 1827, m. nel 1853, chiamato «il primo socialista danese». I suoi studi universitari furono rivolti alle scienze: studiò medicina e volle esercitare la professione. Subì l’influenza di Condorcet e dei socialisti francesi, come pure di Bentham, Stuart Mill, Marx ed Engels; si propose di combattere tutte le superstizioni correnti; si presentò come nemico dichiarato di ogni teologia, metafisica e mistica, e aspirò a un rinnovamento della civiltà, da conseguirsi anzitutto mediante una migliore educazione del popolo fondata sulle scienze. Queste idee sono espresse particolarmente nelle opere Fremtidens Folkeopdragelse (L’educazione nazionale del futuro), København 1848 e Aandetroen og den fri Taenkning (La credenza negli spiriti e il libero pensiero), apparsa nel 1852. Alla base del suo pensiero sta una concezione monistico-naturalistica. A. Nyman BIBL.: H. HÖFFDING, Danske Filosofer (Filosofi danesi), København 1906; H. NORREGARD POSSELT (a cura di), Frederik Dreier og samfundets reform, Kobenhavn 2003.
DRESSLER, JOHANN GOTTLIEB. – Filosofo e Dressler pedagogista tedesco, n. nel 1799, m. nel 1867. Si propose di spiegare e difendere il pensiero filosofico e pedagogico di F.E. Beneke. Le sue più importanti opere sono: Beiträge zu einer besseren Gestaltung der Psychologie und Pädagogik, anche sotto il titolo Beneke und die Seelenlehre als Naturwissenschaft, Bautzar 1840-46; Praktische Denklehre, ivi 1852; Ist Beneke Materialist?, Berlin 1862; Die Grundlehren der Psychologie und Logik, Leipzig 1867 (2ª edizione riveduta e ampliata da F. Dittes e O. Dressler, ivi 1872). Red.
DRESSLER, MAX. – Pensatore tedesco, n. a Dressler Karlsruhe nel 1863, m. ivi nel 1936. I suoi principali scritti sono: Vorlesungen über Psychologie. Die Welt als Wille zum Selbst, Hei3099
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Drewnowski
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delberg 1904; Der Monismus des Gesetzes und das Ideal der Freiheit, in A. Drews (a cura di), Der Monismus, Jena 1908, vol. I. Il suo monismo è di intonazione volontaristica: ne sono fonti principali Schopenhauer e Haeckel. Red.
DREWNOWSKI, JAN FRANCISZEK. – Filosofo Drewnowski polacco (n. nel 1896 e m. nel 1979. Fortemente influenzato dalla filosofia analitica fiorita in Polonia nel XX secolo, studiò a Varsavia con T. Kotarbinski, S. Lesniewski e J. Lukasiewicz, dopo aver anche compiuto studi di fisica e matematica. Alla fine della seconda guerra mondiale ottenne la cattedra di filosofia presso l’Accademia Teologica Cattolica di Varsavia. Nel 1936 fondò, con J. M. Bochenski, J. Salamucha e B. Sobocinski, il Circolo di Cracovia, di ispirazione cattolica ma assai vicino alle posizioni del pensiero analitico. Drewnowski elaborò un programma filosofico basato sulla scienza e la matematica. Suo scopo era trasformare la filosofia in una disciplina scientifica rigorosa, costruendola assiomaticamente e partendo da nozioni primitive esatte. Lo stesso discorso valeva, a suo avviso, per la teologia, in quanto anche alcuni dogmi teologici possono essere spiegati con metodi razionali. In questo senso anticipa alcune vedute contemporanee secondo cui la teologia va sottoposta a verifica e può essere sostenuta dai dati empirici. Drewnowski e gli altri filosofi del Circolo di Cracovia intendevano modernizzare il pensiero neoscolastico facendo ricorso alla logica matematica. I suoi articoli sono raccolti nel volume: Filozofia i precyzja. Zarys programu filozoficznego i inne pisma (in it., Filosofia e precisione. Esposizione di un programma filosofico e altri saggi), Lublin 1996. M. Marsonet BIBL.: J. WOLENSKI, Logic and Philosophy in the LvovWarsaw School, Dordrecht 1989; F. CONIGLIONE, Nel segno della scienza. La filosofia polacca del Novecento, Milano 1996.
DREWS, ARTHUR. – Filosofo tedesco, n. a Drews Ütersen (Holstein) l’1 nov. 1865, m. a Karlsruhe il 19 lug. 1935. Discepolo di E. v. Hartmann, elaborò un monismo concreto. Nel «monismo concreto» il mondo s’identifica con lo stesso operare divino; è un mezzo annullando il quale Dio consegue la propria liberazione. Non discorda con questo irrazionalismo teore3100
tico la negazione che Drews ha tentato dell’esistenza storica di Gesù. Red. BIBL.: Die deutsche Spekulation seit Kant, Leipzig 1893, 2 voll.; Das Ich als Grundproblem der Metaphysik, Tübingen 1897; Hartmanns philosophisches System, Heidelberg 1902; Nietzsches Philosophie, Heidelberg 1904; Die Religion als Selbstbewusstsein Gottes, Jena 1906; Geschichte des Monismus im Altertum, Heidelberg 1913; Einführung in die Philosophie, Berlin 1922; Die Christusmythe, Jena 19242, 2 voll. (190911); Psychologie des Unbewussten, Berlin 1924; Die Leugnung der Geschichtlichkeit Jesus, Karlsruhe 1926; Das Wort Gottes, Mainz 1933; Deutsche Religion, Berlin 1934. Su Drews: autopresentazione in R. SCHMIDT (a cura di), Die deutsche Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, vol. V, Leipzig 1924, pp. 67-128; F. UEBERWEG, Grundriss der Geschichte der Philosophie, Berlin 1923-2812, vol. IV, p. 339 e seguenti; J. MACQUARRIE, s. v., in P. EDWARDS (a cura di), The Encyclopedia of Philosophy, New York - London 1967, vol. II, pp. 417-418.
DRIESCH, HANS. – Biologo e filosofo tedeDriesch sco, n. a Kreuznach il 28 ott. 1867 e m. a Lipsia il 17 apr. 1941. Scolaro di E. Haeckel, si dedicò dapprima agli studi zoologici, lavorando a lungo alla stazione zoologica di Napoli. I frutti delle sue ricerche lo portarono gradualmente a respingere la concezione meccanicisticodarwiniana dei processi vitali, ad affermare il carattere autonomo della biologia come scienza, alla quale è essenziale la categoria della finalità, e a sostenere la dottrina del vitalismo dinamico (Der Vitalismus als Geschichte und als Lehre, Leipzig 1905, tr. it. di M. Stenta, Il vitalismo: storia e dottrina, Milano 1911). A partire dal 1902 gli interessi di Driesch divennero prevalentemente filosofici. Gifford-Lecturer all’università di Aberdeen nel 1907-08, l’anno seguente si abilitò in filosofia della natura a Heidelberg ove ottenne la cattedra nel 1911. Successivamente fu professore a Colonia (1920) e a Lipsia (1921). Driesch espose il suo pensiero con una chiarezza e una organicità classiche. Driesch concepisce la filosofia come intuizione comprensiva del mondo: il punto d’inizio di essa è nella consapevolezza che ognuno ha circa il proprio sapere, e il suo sviluppo risulta dalla dottrina dei principi categoriali strutturanti la conoscenza (Ordnungslehre) e dalla metafisica o dottrina della realtà (Wirklichkeitslehre) che Driesch, contrariamente al criticismo
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kantiano, ritiene costituibile, entro limiti, sulla base della filosofia della natura. Nella ricerca categoriale di Driesch ha particolare importanza la sua teoria della causalità totale (Ganzheitskausalität), caratteristica della natura organica e presente nei sistemi che, da un grado originario di molteplicità di ripartizione, passano a un grado superiore di essa, senza l’intervento di un’azione esteriore. Le categorie organologiche aprono a Driesch la via della metafisica, poiché egli afferma che lo sviluppo organico è determinato da un fattore extraspaziale e superindividuale: l’entelechia. Essa è una realtà non materiale, non fisica o chimica, esigita appunto dal fatto che i fattori materiali fisico-chimici sono insufficienti a spiegare i fenomeni biologici. Se si divide un meccanismo in parti qualsiasi, è assurdo che ognuna di queste parti contenga il meccanismo completo, capace di produrre l’organismo intero. L’entelechia, che determina il comportamento dei sistemi armonici equipotenziali, non è una realtà «costituita di elementi disposti l’uno accanto all’altro. Essa è, all’opposto, un fattore naturale sui generis e appare accanto ai fattori naturali noti alle scienze fisiche e chimiche come un principio peculiare elementare assolutamente nuovo». (Il vitalismo: storia e dottrina, cit., p. 303). La funzione dell’entelechia si compone con quella dei geni, però in tal modo che «l’entelechia usa i geni come propri mezzi e tutto l’ordine nella morfogenesi è esclusivamente dovuto alla entelechia» (The Science and Philosophy of the Organism, London 19292, p. 154). F. Barone BIBL.: tra le opere filosofiche più notevoli: Die Logik als Aufgabe, Tübingen 1913; Ordnungslehre. Ein System des nicht-metaphysischen Teiles der Philosophie, Jena 19232 (1912); Leib und Seele, Leipzig 19233 (1916); Wissen und Denken, Leipzig 19232 (1919); Metaphysik, Breslau 1924; Metaphysik der Natur, München 1926; Behaviorismus und Vitalismus, Heidelberg 1927; Grundprobleme der Psychologie, Leipzig 19292 (1926); Philosophie des Organischen, Leipzig 19304 (1909), 2 voll.; Wirklichkeitslehre, Leipzig 19313 (1917); Die Überwindung des Materialismus, Heidelberg 1935; Alltagsrätsel des Seelenlebens, Stuttgart 19392 (1938); Selbstbesinnung und Selbsterkenntnis, Leipzig 1940. Su Driesch: autoesposizione in R. SCHMIDT (a cura di), Die Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, vol. I, Leipzig 19232, pp. 49-78; O. HEINICHEN, Driesches Philosophie, Leipzig 1924; H. SCHNEIDER - W. SCHINGNITZ (a cura di), Festschrift zum 60. Geburtsta-
Drobisch ge, Leipzig 1927; E. CASSIRER, Storia della filosofia moderna, vol. IV, Torino 19644, pp. 300-311; T. MILLER, Konstruktion und Begründung. Zur Struktur und Relevanz der Philosophie H. Driesches, Zürich - New York 1991.
DRIYARKARA, NICOLAUS. – N. a DedungguDriyarkara bah (Indonesia) nel 1913, m. a Jakarta (Indonesia) nel 1967. Filosofo e teologo gesuita, si è formato al Collegio Ignaziano di Yogyakarta (Indonesia) e poi a Maastricht e all’Università Gregoriana di Roma. Ha insegnato all’università di Jakarta. Al centro dei suoi interessi la persona, la libertà e l’etica, temi trattati secondo una prospettiva da lui definita di «fenomenologia trascendentale». Unisce nella sua prospettiva filosofica neo-tomismo, esistenzialismo e fenomenologia. Importante per la cultura filosofica del suo paese, in quanto ha fatto conoscere indirizzi fondamentali del pensiero occidentale contemporaneo, forgiando la relativa terminologia filosofica in Indonesia. P. Valenza BIBL.: Participationis cognitio in existentia Dei percipienda secundum Malebranche utrum partem habeat, Yogyakarta 1954; Sosialitas sebagai eksistensial (La socialità, un “esistenziale”), Jakarta 1962; Riflessioni filosofiche, Jakarta 1964; Opere scelte, Yogyakarta, s. d.; Filosofia umana, Jakarta 1969; Driyarkara sull’uomo, Jakarta 1980; Driyarkara sull’educazione, Jakarta 1980; Driyarkara sulla cultura, Jakarta 1980; Driyarkara sullo Stato e sulla nazione, Jakarta 1980.
DROBISCH, Drobisch MORITZ WILHELM. – Filosofo tedesco, n. a Lipsia il 16 ag. 1802 e m. ivi il 30 sett. 1896. Dal 1826 insegnò matematica e dal 1842 anche filosofia all’università di Lipsia. Tra i maggiori sostenitori della filosofia herbartiana, cui dedicò i suoi primi scritti, improntò ad essa i suoi ampi studi di logica formale, di psicologia empirica e di filosofia della religione. Tra essi: Neue Darstellung der Logik nach ihren einfachsten Verhältnissen, mit Rücksicht auf Mathematik und Naturwissenschaft, Leipzig 1836 (con fondamentali mutamenti nella 2ª edizione del 1851 [18875], uno dei manuali classici dell’Ottocento); Grundlehren der Religionsphilosophie, ivi 1840; Empirische Psychologie nach naturwissenschaftlicher Methode, ivi 1842 (Hamburg 18982); Erste Grundlinien der mathematischen Psychologie, ivi 1850; Ueber die Fortbildung der Philosophie durch Herbart, ivi 1876. 3101
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Droga Drobisch insiste sul carattere matematico della filosofia: i fenomeni psichici sono intesi herbartianamente come rappresentazioni e quindi come forze cui è applicabile il calcolo; pur considerando la logica come mediata anche dalla conoscenza empirica, Drobisch insiste sulla sua struttura formale opponendosi allo psicologismo indipendentemente dalle correnti logicistiche. Applicò metodi herbartiani anche alla «filosofia della religione» come comprensione concettuale del dato religioso. Dal sentimento della limitatezza nasce nell’uomo l’esigenza dell’elevazione a un ente superiore, ma perché il concetto di Dio abbia una validità oggettiva è necessaria una prova logica. Drobisch ritiene insoddisfacenti le prove ontologica e cosmologica dell’esistenza di Dio, mostrata invece con alta probabilità dalla prova teleologica, cui si aggiunge la forza convincente dell’argomentazione morale. F. Barone BIBL.: M. BRASCH, Leipziger Philosophen, Leipzig 1894; L. CREDARO, Maurizio Guglielmo Drobisch, Roma 1897; W. NEUBERT-DROBISCH, Moritz Wilhelm Drobisch, Leipzig 1902; W. GERALD - L. KREISER, Moritz Wilhelm Drobisch anlässlich seines 200. Geburtstages, Stuttgart-Leipzig 2003.
DROGA (drug; Droge; drogue; droga). – SOMMADroga RIO:
I. Definizioni e distinzioni. - II. Il contesto generale. - III. Questione morale e questione legislativa. I. DEFINIZIONI E DISTINZIONI. – Il termine droga, nel linguaggio corrente, indica varie sostanze che agiscono a livello psichico. Altri termini sono sostanze psicotrope (o psicoattive) o anche sostanze stupefacenti, ma quello più in uso è droga. La classificazione in droghe leggere (marijuana, analgesici, allucinogeni minori, inalanti ecc.) e pesanti (eroina, cocaina, LSD, barbiturici), sia pure corretta dal punto di vista medico, è ritenuta imprecisa e pericolosa. L’uso (abuso) di droga è diversamente interpretato: dipendenza da sostanze tossiche (tossicodipendenza); desiderio o ricerca di piacere; evasione; tentativo di cambiare la situazione della persona. Quale sia l’aspetto prevalente, dipende spesso dal soggetto. II. IL CONTESTO GENERALE. – Il fenomeno droga è specifico, ma non isolabile dal contesto delle nostre società, dai modelli e stili di vita dominanti. Secondo diversi esperti, rivela un profondo malessere, un rifiuto di un modello di società incapace di offrire ragioni di vita; para3102
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dossalmente, una sfida alla permissività, alla società dei consumi, che tradiscono o ignorano le genuine aspirazioni della persona. Le società ricche sono chiamate in causa anche per un altro aspetto. I popoli del Nord hanno diritto di esigere che i popoli poveri non producano sostanze di morte – sulle quali si muovono con spregiudicatezza e cinismo i narcotrafficanti imprendibili e più forti del potere locale e internazionale – ma, prima ancora, hanno il dovere di rendere possibili produzioni alternative. La droga chiama in causa la famiglia nel suo insostituibile ruolo di integrazione affettiva e socializzante della persona in formazione. Non si tratta solo delle famiglie fallite per divorzio o separazione, ma anche per disarmonia coniugale e/o parentale. Alla radice, tuttavia, la droga chiama in causa la libertà-responsabilità individuale sia nella prevenzione come nella cura e terapia. III. QUESTIONE MORALE E QUESTIONE LEGISLATIVA. – Il fenomeno droga è un problema eminentemente morale non solo per le cause che sono riconducibili a una crisi di valori, a fattori etico-sociali e familiari, ma anche per la necessità di una convergenza di assunzione di responsabilità individuali e sociali per superarlo. Non esiste un diritto alla droga: è solo un male morale per le gravi conseguenze sulla persona e sulla società. Soltanto una convinta e collettiva disapprovazione etica può costituire la base delle strategie preventive, terapeutiche e politico-legislative. Sul piano legislativo, le tendenze sono riconducibili a un triplice modello: liberalizzazione, coercizione, strategie di contrasto. La liberalizzazione (legalizzazione, depenalizzazione) è sostenuta attualmente per le droghe leggere, negando superficialmente che il passaggio alla droga pesante sia inevitabile. Inoltre, è rivendicata allo scopo della riduzione del danno, qualora la liberazione dalla droga non sia programmabile in tempi brevi. Tali obiettivi vantano una certa razionalità, ma risultano insoddisfacenti dal punto di vista etico, in quanto mostrano una resa al male droga. Inoltre, lo stato appare nel ruolo ambiguo di diffusore e, insieme, curatore del male. All’opposto, la repressione ha il merito di dare alla società una chiara indicazione pedagogica e formativa. Tuttavia, se deve essere perseguita con fermezza nei confronti degli spacciatori, non sembra efficace nell’intento dissuasivo nei confronti dei consumatori, se resta unicamente nell’ambito repressivo. Al di là del proibizionismo/antiproibizionismo, la strategia del
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Droysen
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contrasto offre maggiori opportunità e speranze: prende a cuore la prevenzione sociale, si preoccupa dell’informazione nelle scuole e nei luoghi di lavoro; organizza una repressione efficace sulla distribuzione e sullo smercio e, quindi, punta sull’efficienza delle forze dell’ordine; suscita solidarietà civile e ampia collaborazione. L. Lorenzetti BIBL.: M. GARAVELLI - G. CASELLI, In nome della legge, Torino 1990; G.M. GILLI - M.T. CAIRO, Famiglia e tossicodipendenze: il dibattito e le ricerche, Milano 1990; S. CANALI et al. (a cura di), Contro le droghe. Cultura e strategie preventive contro la diffusione di sostanze stupefacenti 1980-1992. Rassegna bibliografica, Perugia 1993; P. UGOLINI - F.C. GIANOTTI (a cura di), Valutazione e prevenzione delle tossicodipendenze. Teoria, metodo, strumenti valutativi, Milano 1998; AA.VV., Atti della III Conferenza Mondiale sulla prevenzione dall’uso di droghe, Palermo 2000; C.A. ROMANO - G. BOTTOLI, La normativa sugli stupefacenti in ambito europeo, Roma 2002; G. VENTAVOLI PRIVITERA, Tossicomanie: un’epidemia psicosociale. Verso l’ecocidio della mente, Milano 2002. ➨ FAMIGLIA; PSICOPATOLOGIA.
DROSSBACH, MAXIMILIAN. – Atomista tedeDrossbach sco del secolo XIX. Con la dottrina atomistica Drossbach spiega l’immortalità dell’anima e la presenza del divino nell’universo, quale acme supremo della gerarchia delle monadi-atomi. Opere: Die individuelle Unsterblichkeit von monadistmethaphysischen Standpunkt, Olmütz 1853; Die Harmonie der Ergebnisse der Naturforschung mit den Forderungen des menschlichen Gemütes oder die persönliche Unsterblichkeit als Folge der atomistischen Verfassung der Natur, Leipzig 1858; Die Genesis des Bewusstseins nach atomistischen Prinzipien, ivi 1866; Über die scheinbaren und die wirklichen Ursachen des Geschehens in der Welt, Halle 1884. Red.
DROYSEN, JOHANN GUSTAV. – N. a Treptow il Droysen 6 lug. 1808, m. a Berlino il 19 giu. 1884. La sua educazione, nell’ambito della famiglia e dell’ambiente sociale a cui apparteneva, fu profondamente influenzata dai valori del luteranesimo e del prussianesimo che restarono determinanti anche nel seguito della sua vita. Studiò all’università di Berlino, frequentando, tra gli altri, i corsi di filologia di Boeckh e quelli di filosofia di Hegel, dai quali trasse i principi della sua teoria della storiografia e della sua
visione della storia. Libero docente di filologia classica nel 1833, dal 1835 ebbe un insegnamento a Berlino come professore straordinario. I suoi studi riguardarono, in questo primo periodo, l’Antike sia dal punto di vista filologico-letterario che storico. Dopo la Doktordissertation De Lagidarum regno Ptolomaeo VI Philometore rege (Berlin 1831), in cui si cominciava già a delineare una rivalutazione dell’età ellenistica, Droysen pubblicò la Geschichte des Alexanders des Grossen (Berlin 1833, tr. it. di L. Alessio, Alessandro il Grande, Milano 1978), a cui seguirono la Geschichte der Nachfolger Alexanders (Hamburg 1836), e la Geschichte der Bildung des hellenistischen Staatensystems (Hamburg 1843), costituenti le due parti della Geschichte des Hellenismus. Secondo la innovativa tesi di Droysen, l’«ellenismo», definito come «l’evo moderno del paganesimo», alla storia che sa vedere «il nesso degli svolgimenti storici» non si presenta come un’età di tramonto e degenerazione, ma come quell’epoca che «ha accolto l’eredità sia del mondo greco, sia dell’antichità orientale» e da questa «mescolanza» ha prodotto «qualche cosa d’altro, di nuovo, che, così mediato, non cessa di rimandare al suo prossimo antecedente» (come scrive Droysen nella Privatvorrede – Theologie der Geschichte – alla seconda parte della Geschichte des Hellenismus). Divenuto nel 1840 professore ordinario di storia a Kiel, Droysen spostò l’asse dei suoi studi nella storia e diede maggiore risalto alla funzione politica della storiografia. Nel 1846 pubblicò infatti le Vorlesungen über das Zeitalter der Freiheitskriege (Kiel 1846), che orientarono la sua stessa attività politica al cui centro si poneva il problema dell’unità tedesca. Nel 1848 partecipò quale rappresentante dello Holstein all’assemblea nazionale di Francoforte, schierandosi su posizioni moderate e propendendo per una soluzione «piccolo-tedesca» della questione unitaria. La principale opera storica, a cui lavorò a partire dagli anni cinquanta, è la imponente Geschichte der preussischen Politik (Leipzig 1855-86, 5 parti in 14 voll.). La sua teoria della storia è esposta sistematicamente nei corsi di lezioni su enciclopedia e metodologia della storia tenuti dal 1857 al 1882, di cui Droysen nel 1858 fece circolare a Jena come manoscritto un sommario (Grundriss der Historik), che ebbe tre edizioni a stampa nel 1868, nel 1875 e nel 1882. R. Hübner ha pubblicato l’ultimo corso di lezioni del 1881-82 con il titolo di Historik. Vorlesungen 3103
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Droz über Enzyklopädie und Methodologie der Geschichte (Oldenburg 1937, tr. it. a cura di L. Emery, Istorica, Milano-Napoli 1966), mentre P. Leyh ha pubblicato in edizione critica il corso del 1857 (Historik. Die Vorlesungen von 1857, Stuttgart - Bad Cannstatt 1977, tr. it. a cura di S. Caianiello, Istorica, Napoli 1994). Tra gli scritti postumi sono importanti il Briefwechsel (a cura di R. Hübner, Berlin 1929), e le Politische Schriften (a cura di F. Gilbert, München 1933). Nella Istorica Droysen, sotto l’influsso oltre che di Hegel e Boeckh, anche di W. von Humboldt, e in dura polemica con il positivismo storiografico, elabora una compiuta metodologia della storia. I punti fondamentali della sua esposizione riguardano: i caratteri del metodo storico, l’euristica, la critica delle fonti, l’interpretazione, la sistematica del lavoro storico, la topica, cioè i vari tipi di trattazione (indagativa, narrativa, didattica, discussiva). Il vero campo della storia è per lui quello morale in senso largo e si distingue nettamente da quello della natura: la sua conoscenza non è fondata sul metodo statistico e generalizzante ma sulla comprensione. La ricerca storica nasce da un problema, la soluzione del quale illumina non solo il passato ma anche il presente. La storia, infatti, è sviluppo e progresso, come qualitativa crescita dello spirito su se stesso («epidosis eis auto»): l’universale vive solo nel particolare, onde la vanità del tentativo di scoprire o verificare «leggi» astratte nel processo storico. La storia è una giustificazione della presenza di Dio nel mondo e in questo senso lo studio delle forze storiche presenta il carattere e il significato di una teodicea. R. Franchini - G. Cantillo B IBL.: F. GILBERT, J.G. Droysen und die preußischdeutsche Frage, Berlin 1931; H. ASTHOLZ, Das Problem «Geschichte» untersucht bei J.G. Droysen, Berlin 1933; J. RÜSEN, J.G. Droysen, in H.-U. WEHLER (a cura di), Deutsche Historiker, vol. II, Göttingen 1971; L. CANFORA, Ellenismo, Roma-Bari 1987; G. CANTILLO, L’eccedenza del passato, Napoli 1993, parte II; S. CAIANIELLO, La duplice natura dell’uomo. La polarità come matrice del mondo storico in Humboldt e in Droysen, Soveria Mannelli 1999; E. STRAUB, J.G. Droysen und die Geschichte Preußens, Berlin - New York 2000.
DROZ, FRANÇOIS-XAVIER-JOSEPH. – Pensatore Droz francese, n. a Besançon nel 1773, m. a Parigi nel 1850. Non formulò un sistema né aderì a una precisa scuola. Nell’Essai sur l’art d’être heureux (Paris 3104
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1806, tr. it. L’arte di essere felice, Milano 1808) si mostra vicino all’epicureismo, inteso nel più largo senso possibile. Droz sviluppa queste idee in De la philosophie morale, ou des différents systèmes sur la science de la vie (Paris 1823): il fine della vita non è il bene né la felicità, ma la loro unione: l’azione conforme al valore implica la gioia della coscienza. L’epicureismo si raffina così sino a divenire quasi spiritualismo. Altri scritti: Etudes sur le beau dans les arts, Paris 1815; Applications de la morale à la politique, ivi 1825; L’économie politique, ou principes de la science des richesses, ivi 1829; Histoire du règne de Louis XVI pendant les années où l’on pouvait prévoir et diriger la Révolution française, ivi 183942, 3 voll. Le opere di Droz anteriori al 1826 sono riunite in due volumi. G. Morra BIBL.: T.S. JOUFFROY, De la philosophie morale de M. Droz, ou de l’Eclectisme moderne, in «Globe», 1 (1824); G. DAMIRON, Essai sur l’histoire de la philosophie en France au XIXe siècle, Bruxelles 1832, pp. 288-295.
DRTINA, FRANTIŠ EK. – Filosofo e pedagogiDrtina sta cecoslovacco, n. a Hnevsín il 3 ott. 1861, m. a Praga il 14 genn. 1925. Studiò filologia classica in Germania e in Francia; nel 1891 professore di filosofia e dal 1898 di pedagogia all’università di Praga. Negli anni 1907-11 deputato del parlamento, nel 1918 segretario del ministero della pubblica istruzione. Drtina scrisse opere storiche, fra le quali più importante è Myslenkový vývoj evropského lidstva (L’evoluzione del pensiero della umanità europea, Praha 1902), dove espone la sua tesi sull’origine della civiltà contemporanea. Questa, secondo Drtina, è una sintesi da una parte del naturalismo che appare nell’antichità e nel Rinascimento, e dall’altra parte dell’ideale morale cristiano che si manifestò al tempo della Riforma. La sintesi di questi due elementi rappresenterebbe l’umanesimo moderno. L’opera fu ampliata ed edita sotto il titolo Úvod do filosofie (Introduzione alla filosofia; 2 parti, Praha 1914-26). Fra le opere pedagogiche la più importante è Ideály výchovy (L’ideale dell’educazione; 1900, 1930), dove Drtina cerca di trovare una relazione tra le correnti pedagogiche e la storia della cultura generale. Drtina è piuttosto uno storico che filosofo secondo l’esempio del suo maestro Paulsen; riuscì, però, felicemente nella ricerca dei principi generali che dominano le diverse correnti culturali e con chiarezza espose l’unità del pro-
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gresso continuo e coerente della cultura umana. Con entusiasmo e in un buon stile letterario comunicava ai suoi lettori e ascoltatori la sua persuasione ottimistica sul progresso della civiltà e della morale. Le sue concezioni religiose inclinano al panteismo. T. Spidlík BIBL.: O. CHLUP, in «Ceská Revue», 1907; Miscellanea in onore del cinquantesimo anno di Drtina, 1911, a cura di F. CÁDA - O. KÁDNER - J. TÚMA - O. WAGNER; e del suo sessantesimo anno, 1921, a cura di J. V. KLÍMA; J. TVRDÝ e O. CHLUP, in «Nase doba» (L’era nostra), 1925; J. PATOCKA, in «Nase doba» (L’era nostra), 1932.
DRUMMOND, HENRY. – Positivista inglese, Drummond n. a Stirling nel 1851, m. ivi nel 1897. Insegnò per qualche tempo nel College della Chiesa libera di Scozia, poi viaggiò in Africa e in Australia e si dedicò all’attività di scrittore. La sua opera fondamentale è Natural Law in the Spiritual World (London 1883) il cui successo, oltre che allo stile facile, fu dovuto all’assunto: conciliare il positivismo con la coscienza religiosa e con la dottrina cristiana. Drummond mira a estendere le leggi della natura (tra cui ha importanza preminente la «legge di continuità») al regno dello spirito, senza però che si possa capire se ne risulti una spiritualizzazione della natura o una naturalizzazione dello spirito. In On the Ascent of Man (ivi 1894) Drummond sostituisce al concetto evoluzionistico di «lotta per l’esistenza» quello di «lotta per l’esistenza altrui», in quanto secondo Drummond la moralità è propria anche degli animali e in tutta la natura si mostra una tendenza altruistica non meno forte dell’egoistica. V. Mathieu BIBL.: W. ZOLLER, Evolution der Liebe, Stuttgart 1997; T.E. CORTS (a cura di), Henry Drummond: a Perpetual Benediction; Essays to Commemorate the Centennial of his Death, Edinburgh 1999.
DSM (acronimo di Diagnostic and Statistical Dsm Manual). – Il DSM, redatto a cura dell’American Psychiatric Association (APA), è giunto alla sua quarta edizione nel 1994, rivista con alcune modificazioni nel 2000 (DSM-IV-TR). La prima edizione, del 1952, rappresentava il primo manuale ufficiale americano di psichiatria: nella sua nosologia rifletteva, tra le altre, le concezioni psicobiologiche di Adolf Meyer. Ebbe scarsa diffusione al di fuori degli Stati Uniti e si dovette attendere il 1968 per vederne
Dsm la seconda edizione, che utilizzava la classificazione dei disturbi mentali dell’ICD 8 (ottava revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie redatta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). Il tentativo di facilitarne la diffusione internazionale fu favorito anche dall’abbandono del termine «reazione» e di riferimenti teorici particolari per i disturbi mentali non organici. Nel 1974 l’APA designò un gruppo di lavoro incaricato di redigere la terza edizione del DSM, in quanto la classificazione dei disturbi mentali contenuta nell’ICD 9 non era ritenuta esauriente dagli psichiatri americani. Questa task force, selezionata sulla base delle esperienze specifiche nei vari ambiti delle patologie psichiatriche, stabilì gli obiettivi prioritari del manuale, che rappresentarono le linee guida anche per le successive edizioni, vale a dire: l’utilità clinica, l’affidabilità diagnostica, l’accettabilità in abiti teorici diversi, l’utilità per l’istruzione, la compatibilità con l’ICD 9, la rinuncia a terminologie e concetti nuovi, il consenso sul significato dei termini diagnostici e l’esclusione di quelli oramai superati, l’accordo con i dati che convalidavano le categorie diagnostiche. La pubblicazione dell’edizione definitiva del DSM III, nel 1979, fu preceduta da numerose modifiche della prima provvisoria stesura, suggerite dai pareri di altre organizzazioni mediche, di istituzioni psicoanalitiche, psicologiche, oltre che da varie prove sul campo. Questa elaborata e prolungata metodologia di redazione è stata da allora utilizzata anche nelle edizioni successive; quella del 1979 rappresenta anche il punto di riferimento per i «concetti di base» del manuale, qui di seguito riassunti. Ogni disturbo mentale è descritto come una «sindrome» o una «situazione clinicamente significativa», comportamentale o psicologica, associata tanto alla sofferenza quanto ad alterazioni del funzionamento sociale, lavorativo o scolastico. L’approccio descrittivo dei singoli quadri morbosi consente al DSM di mantenersi «ateoretico» rispetto all’eziopatogenesi, tranne nei casi ove questa sia dimostrata e quindi inclusa nella definizione stessa del disturbo. Rispetto alle precedenti edizioni e all’ICD-9, il DSM III fornisce allo psichiatra criteri diagnostici espliciti e specifici per ciascun quadro clinico, migliorando radicalmente l’affidabilità e la riproducibilità diagnostica. Viene inoltre in3105
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Dualismo trodotto per la prima volta un sistema di «valutazione multiassiale» che classifica in Asse II i disturbi di personalità e i disturbi specifici dello sviluppo; in Asse I tutti gli altri disturbi mentali; in Asse III i disturbi e le condizioni di ordine fisico; in Asse IV la gravità degli eventi psicosociali stressanti; in Asse V il massimo livello di adattamento, raggiunto nell’anno precedente. L'organizzazione gerarchica delle classi diagnostiche, oltre a facilitare le diagnosi differenziali, rende possibile la creazione di «alberi decisionali» sistematici. La descrizione sistematica dei seguenti elementi: caratteristiche essenziali delle diverse patologie; manifestazioni associate; età d’insorgenza; decorso; grado di compromissione; complicanze; fattori predisponenti; prevalenza; distribuzione tra i sessi; familiarità e diagnosi differenziale – trascurando, però, le teorie eziologiche e le condotte terapeutiche – stabilisce in modo inequivocabile che l’utilità del DSM è ristretta ai soli fini diagnostici e statistici. Un’ulteriore importante peculiarità del DSM consiste nella controversa omissione, già con la seconda edizione, della categoria diagnostica unitaria delle nevrosi, che viene frammentata e distribuita tra i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, i disturbi dissociativi e quelli psicosessuali. L’edizione italiana del manuale, curata da Vittorino Andreoli, Giovanni Battista Cassano e Romolo Rossi, ha visto la luce la prima volta nel 1983 con la traduzione del DSM III (DSMIII. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, a cura di A.P.A., Washington 19793, tr. it. di C. Maggini et al., DSM-III. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano 1983). In questi ultimi vent’anni l’importanza e la diffusione del DSM sono cresciute in tutto il mondo, parallelamente alle dimensioni stesse del volume, passato dalle iniziali 464 pagine alle attuali 1002. L’accettazione del DSM come principale punto di riferimento per la nosografia psichiatrica ha consentito il miglioramento dell’affidabilità e della riproducibilità diagnostica, con indiscutibili effetti benefici anche sulla confrontabilità degli studi clinici e sperimentali. Le iniziali perplessità – soprattutto nell’Europa continentale, forte delle solide tradizioni della psicopatologia classica di scuola francese, tedesca e italiana – suscitate dalle eccessive semplificazioni pragmatistiche del manuale, sono state ora ampia3106
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mente superate da una sua definitiva ricollocazione storica, nosografica e applicativa. R. Rossi - S. Mungo BIBL.: C. MAGGINI - R. DALLE LUGHE, La diffusione del DSM-III: verso una nuova ideologia?, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», 115 (1991), pp 491-503; AA.VV., DSM-IV-TR. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Text Revision, a cura di A.P.A., Washington 20004, tr. it. di S. Banti e M. Mauri, DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Text Revision, Milano 2001. ➨ NEVROSI.
DUALISMO (dualism; Dualismus; dualisme; Dualismo dualismo). – In senso ampio con dualismo s’intende ogni concezione che ricorre a due enti o principi tra loro irriducibili per rendere conto di un certo ambito problematico. Nel corso della storia del pensiero le grandi aree tematiche a cui sono state date soluzioni dualistiche sono l’area cosmogonico-religiosa, con la contrapposizione ad esempio della luce alle tenebre, o del bene al male; l’area metafisico-ontologica, nella quale spesso lo spirito è visto in opposizione alla materia, o, in alcuni autori, il pensiero opposto all’estensione; l’area gnoseologica, sovente segnata dalla difficile spiegazione del rapporto tra soggetto e oggetto; l’area antropologica, che talora ravvisa nell’essere umano la compresenza di bene e male, pensiero ed emozioni, mente e corpo; l’area politica, che sovente registra conflitti incomponibili tra gli individui, oppure tra individui e stato. Specifico dell’ambito psicoanalitico è il dualismo degli istinti, che Freud intende come lotta nella psiche umana tra eros, o istinto di vita, e thanatos, o istinto di morte. Il termine dualismo compare per la prima volta in Historia religionis veterum Persarum (Oxford 1700) di Thomas Hyde per indicare il carattere di dottrine religiose che riconoscono l’attività di due principi coeterni, il bene e il male, nella generazione del mondo. Venne in seguito impiegato nelle edizioni del Dizionario di Bayle successive alla prima e da Leibniz in Theodicaea. Wolff ne estese l’uso al campo psicologico, per designare i rapporti dell’anima con il corpo. SOMMARIO: I. Dualismo cosmogonico-religioso. - II. Dualismo metafisico-ontologico: 1. Dualismi irriducibili. - 2. Dualismi relativi. - III. Dualismo gnoseologico. - IV. Dualismo antropologico. - V. Dualismo politico-sociologico.
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I. DUALISMO COSMOGONICO-RELIGIOSO. – Molte cosmogonie arcaiche e antiche, documentate presso gruppi culturali umani variamente dislocati da un punto di vista geografico e virtualmente reperibili in ogni parte del globo (Cina, India, Africa, Sud-America, Australia, Persia, Egitto), soggette a differenti vicende di permanenza storica (alcune sono ancora oggi vive), spiegano l’origine del cosmo e della terra come dovuta all’azione e all’interazione di due principi diversi, talora visti in lotta perpetua, talora in collaborazione. Il dualismo fondamentale che, con modalità diverse, tutte le cosmogonie condividono è quello tra caos e cosmo ordinato. Le singole tradizioni mitologiche o religiose rispondono con modalità proprie al problema del modo in cui dal caos, da talune meglio identificato come virtuale, o come pre-essere, si passa al cosmo ordinato, o attuale, o essere. Alcune ricorrono al concetto, unificante e non dualistico, di creatore supremo del cosmo, dando così origine al vasto filone delle cosmogonie religiose creazionistiche da cui derivano le grandi religioni occidentali (ebraismo, cristianesimo, islamismo); altre fanno derivare il mondo degli umani da una interazione tra due principi, che restano separati e distinti. Tra le cosmologie dualistiche vanno ricordate quella cinese, quella vedica, la egiziana, la zoroastriana, il manicheismo, lo gnosticismo, l’orfismo. La cosmogonia cinese, le cui antichissime e mitiche origini vengono fatte risalire all’imperatore FuXi vissuto nel III millennio a. C., pur ponendo il Tao quale principio unitario, invisibile e impercettibile a origine di tutto l’universo, interpreta l’intera realtà come concretamente composta di due elementi, yin e yang, contrapposti ma complementari, che entrano nella costituzione di ogni cosa esistente. Lo yin rappresenta la contrazione, il riposo, il freddo, la notte, il femminile, mentre lo yang costituisce tutto ciò che si espande, si muove, è caldo, luminoso, maschile; yin e yang non esistono allo stato puro o assoluto, ma entrambi entrano in proporzioni diverse in ogni cosa e sono tali solo in modo relativo. Ad esempio la primavera, che è yang rispetto all’inverno, è yin rispetto all’estate e lo stesso essere umano si costituisce attraverso l’interazione tra il corpo, manifesto, che è yin, e lo spirito, meno manifesto, ma generatore, che è yang. Lo yin e lo yang sono principi di realtà e di riferimento universali, utilizzati non solo
Dualismo per spiegare qualunque fenomeno, ma anche per regolare l’azione umana nel mondo; valgono come principi d’azione morale, come ideali di riequilibrio nelle pratiche mediche, come chiavi di lettura e comprensione delle vicende storiche e politiche. Altra grande e complessa cosmogonia è quella vedica, espressa tra il 2000 e il 500 a. C. dalla cultura indiana di lingua indoeuropea. In essa l’ordine del mondo, dominato da Varuna, è difeso da Indra, che lotta contro le forze della disgregazione e del caos. Le incessanti battaglie di Indra vanno sostenute con le attività rituali e con il comportamento morale dagli esseri umani sulla terra, che partecipano, sia pure indirettamente e secondariamente, al mantenimento della stabilità ordinata del mondo. In questa cosmogonia il dualismo irriducibile, espresso in forma di mito, è tra le forze che aggregano e quelle che disgregano il cosmo. Anche la cosmogonia egiziana vede contrapposti due principi: quello divino, celeste e solare, dal nome arcaico di Oro, più recente di Osiride, e quello, fratello e nemico di Osiride, di nome Seth, dio della tempesta e della notte. La cosmogonia dell’antico Iran, pur legata per molti aspetti a quella vedica, si caratterizza per un dualismo radicale. Fondata verso la fine del II millennio a. C. da Zarathustra, detto anche Zoroastro, da cui deriva la denominazione di zoroastrismo, viene codificata nel testo sacro Avesta. È dominata dallo spiccato dualismo tra l’ordine-verità e la disgregazione-menzogna, che vengono rappresentati in diverse forme mitologiche di divinità in lotta tra di loro: Spanta Mayniu, lo spirito benefico, combatte Angra Mayniu, lo spirito malefico; Ohrmazd, dio della luce, del bene, dell’ordine del mondo, è perpetuamente attaccato da Ahriman, dio delle tenebre, del male, del disfacimento. Gli attacchi disgreganti del male non prevarranno, ed è atteso in prospettiva escatologica e soteriologia il trionfo del bene. Nel manicheismo, fondato da Mani nel III secolo in area mesopotamica, confluiscono elementi cristiani, buddhisti e zoroastriani; dallo zoroastrismo è assunto e drammaticamente accentuato il dualismo cosmogonico. Tutta la realtà è espressione di una perpetua lotta tra due principi opposti e coeterni: Dio, come bene, luce, spirito, in opposizione a Spirito demoniaco, male, tenebre, materia. Dalla lotta, espressa in forma mitologica, tra principe delle tenebre e mondo della luce nasce il mondo umano, nel 3107
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Dualismo quale frammenti di luce restano imprigionati nelle tenebre. Nella costituzione ontologica dell’uomo è drammaticamente presente il dualismo bene-male, e l’uomo, che porta in sé il marchio delle tenebre, può liberarsi di esse solo con una intensa e attenta cooperazione con il bene (osservando numerosi precetti, tra i quali la castità, il rifiuto di mangiare carne). Il manicheismo in Occidente si fuse con correnti gnostico-neoplatoniche e influenzò direttamente Agostino, che per vari anni ne fu convinto seguace. Lo gnosticismo è una complessa corrente spirituale e dottrinale fiorita in età ellenistico-romana, anche in concomitanza e sincretismo con il cristianesimo, nella quale un elemento cosmogonico rilevante reca il marchio del dualismo: a un Dio supremo, perfetto e irraggiungibile, fa da contrasto il mondo materiale e contingente, gravato di sofferenza, male e morte. Il dramma del macrocosmo si riproduce nel microcosmo umano, nel quale l’elemento materiale contrasta con quello spirituale, e per il quale la salvezza consiste nel pervenire, attraverso numerose e faticose tappe intermedie, alla totale liberazione dagli elementi inferiori e alla finale assunzione della piena e pura essenza luminosa. L’orfismo, affermatosi soprattutto in Grecia come movimento religioso esoterico e iniziatico tra il VI secolo a. C. e il III dell’era cristiana, intrecciato in Magna Grecia con il pitagorismo, scorge nell’essere umano un dualismo irriducibile e compresente di un’anima spirituale e immortale con un corpo che la imprigiona come una tomba. Il complesso percorso iniziatico codificato nei riti orfici e in una serie di prescrizioni ascetiche facilita e consente la liberazione dell’anima dal corpo e il suo finale ritorno alla condizione divina. II. DUALISMO METAFISICO-ONTOLOGICO. – In ontologia e metafisica il dualismo è rintracciabile in due forme principali, una fondamentale e irriducibile, l’altra relativa, o secondaria. Nella forma fondamentale il dualismo metafisico riporta la costituzione e l’intellegibilità della realtà a due principi, o anche enti, quali l’essere e il non-essere, la materia e il pensiero. Si oppone al monismo, che considera la realtà configurata da un solo principio o ente. Nelle varie forme secondarie il dualismo risolve un problema specifico facendo ricorso a due principi o enti; chiama in causa, ad esempio, la materia e la forma per risolvere il problema della strut3108
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tura ontologica del mondo, l’atto e la potenza per rendere conto del divenire, l’essere e l’essenza per spiegare le sostanze. Il dualismo può quindi costituire una presenza dominante e imprescindibile di un certo sistema filosofico, o può caratterizzarlo solo per aspetti marginali; di conseguenza possiamo avere dualismi irriducibili e dualismi relativi a tematiche regionali. 1. Dualismi irriducibili. – Eraclito fiorisce a Efeso tra il VI e il V secolo a. C.; osserva che le cose del mondo esistono in quanto mutano continuamente, e conclude che «il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte re». Si tratta di un’opposizione feconda, in quanto il suo armonico svolgimento rende possibile il mondo. In Eraclito è anche presente un altro livello, più profondo, di dualismo, tra la realtà naturale che percepiamo con i sensi e il logos, che è la ragione profonda ordinatrice delle cose. Capire il cosmo per Eraclito vuol dire andare al di là del fisico raggiungendo il logos; si tratta di un percorso difficile, che pochi sono capaci di seguire. La scuola pitagorica, fiorita nell’Italia meridionale tra il VI e il IV secolo a. C., vede nel numero il principio di tutte le cose, nel senso che ogni cosa è riconducibile a un numero; siccome i numeri sono pari o dispari, anche le cose sono diversamente caratterizzate a seconda che derivino da un numero pari o da un numero dispari. Il dualismo tra pari e dispari è spiegato a sua volta ricorrendo a due altri più fondamentali principi, che sono l’illimitato e il limitato, alla cui interazione si deve la generazione dei numeri: i numeri pari si generano da una prevalenza dell’illimitato, quelli dispari da un dominio del limitato. L’universo pitagorico, pur generato da due principi, riconduce l’ordine del cosmo e la produzione delle cose alla loro armoniosa collaborazione. Parmenide, fondatore della scuola eleatica, nella sua via della verità assoluta oppone in modo insanabile l’essere e il non-essere; l’essere è il puro positivo, pensabile ed esprimibile, il nonessere è la totale negazione dell’essere, impensabile e inesprimibile, dunque indicibile. Parmenide intende l’essere in modo univoco e con piena valenza ontologica, respingendo da esso tutto ciò che andrebbe spiegato ricorrendo in qualche modo al non-essere. L’essere deve essere ingenerato, incorruttibile, immobile, continuo, compiuto. È colto con il logos, che è la via della ragione, mentre i sensi attestano il divenire, cioè una mescolanza di esse-
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re e non-essere. Dunque per Parmenide occorre abbandonare l’apparenza sensoriale (doxa) e seguire la ragione (logos). La filosofia di Parmenide attribuendo positività al solo essere scava un solco profondo con il mondo del divenire e del mutamento, pagando per il monismo metafisico il prezzo di un radicale dualismo tra quanto ci attesta il logos e quanto ci attestano i sensi. Platone cercherà di ricomporre la frattura parmenidea, riuscendovi solo in parte. Per Platone i sensi corporei ci consentono di cogliere le forme fisiche delle cose, transeunti, cangianti e contraddittorie; se però vogliamo capire la realtà a livello più elevato, sarà solamente grazie alla visione intellettuale; con essa coglieremo l’idea, o forma, incorporea e immutabile delle cose. Il mondo delle idee risulta quindi opposto a quello empirico, ma tale dualismo è ricomposto da Platone con la messa a fuoco della relazione tra i due mondi: il mondo ideale è la causa superiore, metafisica e incontraddittoria, da cui nasce il sensibile. Se il dualismo tra mondo ideale e mondo sensibile è sanato da Platone in maniera abbastanza soddisfacente, nel piano puramente metafisico resta una tensione irrisolta tra l’uno e la diade, che sono i principi cui Platone fa ricorso per giustificare il sorgere del molteplice (sia ideale che empirico). I molti derivano dalla diade, che è il principio della disuguaglianza; l’uno agisce su di essa garantendo l’unità. Tutti gli enti sono una mescolanza dei due principi originari, che pur restando distinti cooperano nella costituzione delle cose. Una forma drastica di dualismo metafisico è presente in Descartes, per il quale la realtà va spiegata riconducendo ogni cosa a due sostanze eterogenee e irriducibili, la res extensa e la res cogitans. La res extensa comprende le cose materiali, esprimibili quantitativamente, e costituisce l’universo fisico; la res cogitans è puro pensiero colto con la riflessione introspettiva, e inerisce al dominio spirituale. Tra sostanza spirituale e sostanza materiale non c’è mediazione, e il loro dualismo si riflette anche nell’essere umano, composto di corpo materiale e anima, o pensiero, spirituale. 2. Dualismi relativi. – Aristotele all’interno di un impianto metafisico fortemente monistico, in cui la priorità ontologica e logica è attribuita all’essere, per spiegare come mai le cose mutino introduce i due concetti di atto e di potenza. La potenza è la capacità che gli enti materiali hanno di ricevere o assumere una for-
Dualismo ma; l’atto è l’effettiva realizzazione e assunzione di una forma da parte di un certo ente. Gli enti materiali divengono, cioè sono soggetti a mutamento, in quanto in essi sono presenti sia la potenza sia l’atto, cioè in quanto non sono totalmente in atto. Aristotele riesce così a spiegare il divenire senza sacrificare il generale, e più soddisfacente, monismo metafisico. L’atto infatti è comunque superiore alla potenza, ed è il modo delle sostanze superiori, cioè eterne. Plotino, fiorito nel III secolo, riprende il dualismo platonico tra mondo sensibile e mondo intelligibile, ma li riconduce a forte unità metafisica dando all’intelligibile un totale primato produttivo sul sensibile: il sensibile, sprovvisto di una sua indipendenza ontologica, è solo derivazione dal soprasensibile uno, che è infinita capacità creativa. Tommaso d’Aquino introduce i due concetti di ente e di essenza per spiegare l’individualità ontologica e l’intelligibilità logica delle sostanze. L’essenza è ciò per cui una singola cosa è se stessa, è ciò che fa essere una cosa proprio quella determinata cosa; è sinonimo di forma o natura e viene espressa dalla definizione. L’ente è ciò che possiede l’essenza. I due termini si definiscono l’uno con l’altro, e si implicano anche ontologicamente in quanto entrambi costituiscono il soggetto. III. DUALISMO GNOSEOLOGICO. – Una forma particolare di dualismo viene sviluppata nell’età moderna, con residui anche nel pensiero contemporaneo, allorché la filosofia fa oggetto di problematizzazione il rapporto tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Descartes per primo sottolinea l’importanza specifica di tale tema, e, nella sua ricerca di una fondazione certa del sapere filosofico, afferma che l’oggetto è garantito solo in quanto pensato, mentre le cose attestate dai sensi sono incerte e mutevoli. In tal modo consuma la frattura tra il soggetto e le sue idee da un lato e l’oggetto dall’altro, e rende l’oggetto empirico irraggiungibile al pensiero; tale frattura, talora indicata come il problema del ponte, segna la speculazione filosofica a venire. Hobbes esprime con molta chiarezza la sua condivisione del dualismo gnoseologico affermando che anche se il mondo venisse annichilito, un uomo sopravissuto manterrebbe le idee e le immagini delle cose scomparse, e non le vedrebbe come fantasmi interni, ma come idee di cose esterne. Anche Locke si concentra sul problema 3109
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Dualismo della conoscenza, che per lui è costituita fondamentalmente dalle idee; alcune idee presentano un carattere di particolare certezza, e tra queste le idee dei corpi sensibili. Hume ritiene che ogni attività conoscitiva consista in percezioni, cioè in presenze alla mente di dati sensoriali, o emozionali o di puro pensiero. Anche nel pensiero di Kant è rintracciabile una forma di dualismo gnoseologico; Kant ritiene che il soggetto umano conosca il mondo fenomenico grazie alla sintesi tra i dati della sensibilità e gli elementi trascendentali in suo possesso (spazio, tempo e categorie). Alla conoscenza fenomenica si oppone quella noumenica, o della cosa in sé, che risulta inattingibile all’uomo in quanto consiste in una intuizione intellettuale, che possiamo capire solo in modo negativo, come negazione di ogni determinazione sensibile. Il dualismo gnoseologico diventa un presupposto accettato da molti autori e correnti sia nell’Ottocento che nel Novecento, ed è spesso implicitamente condiviso sia da coloro che sostengono il primato delle idee, trascurando l’empirico, sia da chi afferma il primato dell’oggettività e minimizza il ruolo del soggetto. IV. DUALISMO ANTROPOLOGICO. – Spesso il dualismo presente in teorie cosmogoniche, metafisiche e gnoseologiche riverbera in modo più o meno diretto sulle antropologie che conseguono o fanno da corollario a quelle teorie più generali. Così i manichei ritengono che nell’uomo convivano il bene e il male; Descartes vede nell’essere umano la compresenza di un elemento spirituale, l’anima, e del corpo materiale e meccanico; e per Hobbes la ricostruzione razionale del mondo deve eliminare la conoscenza ordinaria. Una descrizione dualistica dell’essere umano si trova anche indipendentemente dall’esplicitazione di generali posizioni metafisiche o ontologiche, e consiste nell’individuazione di due elementi o parti costitutive irriducibili l’una all’altra, entrambe degne di essere prese in considerazione ai fini di una descrizione antropologica completa e soddisfacente. L’essere umano di Kierkegaard è lacerato da molteplici, inconciliabili paradossi: ragione e fede, storia ed eterno, disperazione e speranza, finito e infinito. Tale dualismo è l’impasto ontologico, drammatico nella sua contraddittorietà, con cui l’essere umano deve convivere ed entro cui deve fare la sua scelta. Bergson contrappone l’intelligenza geometrica e analitica, utilizzata dalle scienze 3110
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empiriche, all’intuizione intesa come sapere assoluto, capace di fare a meno delle mediazioni logiche e analitiche. Le filosofie femministe rintracciano nella storia politico-sociale occidentale la presenza costante dell’oppressione maschile ai danni delle donne, alle quali è stata negata l’espressione e il riconoscimento di un’identità strutturalmente e radicalmente diversa da quella maschile. Il vasto filone della filosofia della mente contemporaneo nasce come tentativo di ricomporre il dualismo tra cervello e mente, cioè tra la struttura materiale pubblicamente osservabile, quale appunto è il cervello, e i qualia, o esperienze private e soggettive, che costituiscono la vita mentale del soggetto umano. Un dualismo antropologico particolare, registrato dall’antichità a oggi, è quello tra ragione e passioni, o tra intelletto ed emozioni. Quasi tutte le filosofie occidentali hanno valorizzato e studiato il pensiero, inteso secondo una vasta gamma di significati, ma prevalentemente in esclusione o in opposizione rispetto al vissuto emozionale. Le emozioni sono state viste soprattutto come fonti di disturbo e di alterazione del percorso della ragione, e se ne è raccomandato l’emendamento o purificazione. Un ripensamento generale del dualismo pensiero-emozioni è oggi suggerito alla filosofia dalle neuroscienze, in particolare da Damasio. V. DUALISMO POLITICO-SOCIOLOGICO. – Molte teorie politiche delineando i rapporti tra individuo e stato o quelli tra individui scorgono in essi motivi di conflitto insanabile. Per Hobbes i rapporti tra individui sono all’insegna della guerra di tutti contro tutti, in quanto ognuno pretende per sé il diritto a tutto; l’istituzione dello stato è il risultato di un patto, effettuato comunque all’insegna di una rinuncia. Per Marx il tessuto economico del capitalismo sorge su interessi in conflitto, quelli del salariato e del capitalista. L’arricchimento del capitalista non può che avvenire grazie all’impoverimento dell’operaio, così come a un arricchimento dell’operaio, conseguito attraverso un aumento del salario, consegue l’impoverimento del capitalista, che vede diminuire il suo profitto. Tra capitalista e operaio può esserci una relazione esclusivamente conflittuale, superabile solo con l’eliminazione delle forme di produzione che l’hanno generata. Per Dahrendorf nella società contemporanea è continuamente in atto un conflitto insanabile tra coloro che hanno potere legittimato e colo-
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ro che non ne hanno, come pure tra potere politico-burocratico e organizzazioni economiche. L. Urbani Ulivi BIBL.: B. NARDI, Il dualismo cartesiano dagli occasionalisti a Leibniz, Roma 1954; M. MORETTI, Dualismo greco e antropologia cristiana, L’Aquila 1972; S. VANNI ROVIGHI, Appunti di antropologia filosofica, Milano 1978; U. BIANCHI, Il dualismo religioso. Saggio storico ed etnologico, Roma 19832; S. NICOLOSI, Il dualismo da Cartesio a Leibniz, Venezia 1987; I. HANNOVER, Dualität, Dualismus und Bipolarität. Ein philosophischer Essay, Frankfurt am Main 1991; J.R. SEARLE, The Rediscovery of the Mind, Cambridge (Massachusetts) 1992; K. ALT, Weltflucht und Weltbejahung. Zur Frage des Dualismus bei Plutarch, Numenios, Plotin, MainzStuttgart 1993; J. ARANA CAÑEDO-ARGÜELLES, La mecánica y el espíritu. Leonhard Euler y los origines del dualismo contemporáneo, Madrid 1994; M.K. LACEWING, Dualism: a feminist perspective, Oxford 1995; G. BONTADINI, Dall’attualismo al problematicismo, Milano 1996 (1945); M. ROZEMOND, Descartes’ Dualism, Cambridge (Massachusetts) - London 1998; F. REGO, La relación del alma con el cuerpo. Una reconsideracíon del dualismo agustiniano, Buenos Aires 2001; G. CLOITRE, Dualisme et énigme de la raison. De Platon à Schiller, tesi di dottorato, Dijon 2003. ➨ CORPO; COSA; EMOZIONE; FEMMINISMO; MANICHEISMO; MENTE, FILOSOFIA DELLA; PENSIERO; YIN E YANG; ZOROASTRISMO.
DUBARLE, DOMINIQUE. – Filosofo e teologo Dubarle francese, domenicano, n. a Bivier (Isère) il 23 sett. 1907, professore all’Institut Catholique di Parigi dal 1944 al 1980 (decano di filosofia dal 1967 al 1973), m. a Parigi il 25 apr. 1987. Dubarle si è formato alla scuola del tomismo, ma anche dell’hegelismo, della logica matematica e della fisica. Le sue prime pubblicazioni affrontano il problema del rapporto tra scienza e fede (Humanisme scientifique et raison chrétienne, Paris 1955; La civilisation de l’atome, Paris 1962), fino ad approdare a una teologia delle scienze in Approches d’une théologie de la science (Paris 1967): un insieme di articoli che vanno dal problema dell’evoluzione fino all’attitudine alla preghiera dello scienziato, passando per una riflessione sul senso del mistero ecc.; Dubarle sostiene che la teologia non può impossessarsi dei risultati della scienza, ma è di sua pertinenza riflettere piuttosto sull’atteggiamento dell’uomo in ricerca di razionalità scientifica. Dubarle si è però interrogato soprattutto sulla possibilità di parlare filosoficamente di Dio oggi, in un contesto se-
Dubbio gnato da categorie originali (quale, per esempio, il concetto di geometria proiettiva che si rivela particolarmente importante per comprendere l’idea d’infinito), dalla logica formale (Initiation à la logique, Paris 1957) e dalla filosofia del linguaggio (Logos et formalisation du langage, Paris 1977). La sua attenzione alla scienza si appoggia su una uguale padronanza della tradizione tomista (L’ontologie de Thomas d’Aquin, Paris 1996§ – edizione di un corso tenuto tra il 1976-1977 – in cui il pensiero filosofico dell’Aquinate veniva spiegato internamente in relazione alla sua intenzione teologica) e del pensiero contemporaneo (Dieu avec l’être. De Parménide à S. Thomas, Paris 1986, titolo che evoca ovviamente le discussioni heideggeriane sull’onto-teologia). P. Gilbert BIBL.: AA.VV., Recueil D. Dubarle, in «Revue de l’Institut Catholique de Paris», 26 (1988), pp. 161-188; AA.VV., D. Dubarle. Une liberté pensante, in «Transversalités», 67 (1998), pp. 1-106.
DUBBIO (gr. aj p oriv a; lat. dubium - doubt; Dubbio Zweifel; doute; duda). – In senso lato il termine indica, da un punto di vista più soggettivo, uno stato di indecisione o di incertezza circa scelte da effettuare o azioni da compiere, oppure, da un punto di vista più oggettivo ma non opposto al precedente, una situazione di sospensione, di problematicità e talora di indeterminazione circa la verità di un’affermazione o di una cosa oppure la sua negazione. SOMMARIO: I. Aspetti teorici. - II. Percorso storico: 1. La filosofia antica. Dall’ironia socratica al dubbio scettico. - 2. La filosofia cristiana. Il valore del dubbio e la ricerca della verità. - 3. Da Cartesio a Husserl. Il dubbio come strumento gnoseologico. - 4. Il dubbio antropologico e morale. I. ASPETTI TEORICI. – Il termine «dubbio» si accompagna all’idea stessa di filosofia, all’idea di una filosofia come interrogazione, come sforzo costante di ricerca di una verità mai pienamente raggiungibile in un orizzonte temporalmente determinato, eppure cercata e desiderata, mai totalmente possedibile, eppure avvertita come originaria certezza: una verità non ancora conosciuta, svelata, incontrata. La ricerca della verità implica una tensione che assume caratteristiche sia morali che intellettuali, di cui il dubbio, nella molteplicità delle sue forme, rappresenta uno strumento positivo e fecondo che aiuta l’individuazione di evidenze inerenti all’oggetto stesso e di argo3111
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Dubbio mentazioni razionalmente e universalmente adeguate, assumendo, secondo le situazioni, dimensioni di ordine più speculativo o di ordine più pratico. Si può distinguere tra dubbio necessario e dubbio volontario. Il dubbio necessario è il dubbio che si impone a motivo della mancanza di evidenza degli oggetti di conoscenza. Il dubbio volontario invece è determinato dall’influsso della volontà. La volontà, infatti, può agire indirettamente sulla percezione e comprensione di fatti, principi, valori, e può indurre alla sospensione dell’assenso. Qualora venga ad assumere un carattere stabile e definitivo, il dubbio può generare una situazione di blocco, di indeterminazione problematica e problematizzante che produce, in senso teoretico, la paralisi del giudizio e della ricerca; in senso morale, l’incapacità di decidere, di scegliere: un’incapacità, vissuta talora come impossibilità, che sfocia nella disperazione e nell’abbandono. In quest’ultimo caso il dubbio si configura come dubbio esistenziale, che è un mettere totalmente in discussione se stessi. Se inteso come radicale e assoluto, il dubbio può attestare una resa – il non voler più cercare – oppure può indicare una ben precisa presa di posizione, specie di ordine intellettuale: la radicale messa in questione di ogni verità e quindi, conseguentemente, il ritenere vana e inutile ogni sua ricerca. Va in questa linea il dubbio scettico, che può avere caratteri di definitività. Il dubbio tuttavia non può essere confuso con l’ignoranza, che indica assenza di spirito di ricerca e di ogni cognizione per quanto incerta possa essere, né con il sospetto, che può avere solo un connotato negativo. La storia del pensiero indica nel dubbio un metodo di ricerca, frequentemente utilizzato, capace di sottoporre a continua verifica ogni tipo di determinazione (dubbio metodico). Il dubbio metodico ha carattere solo provvisorio, in quanto si pone come via verso il raggiungimento della certezza, e tuttavia può costituirsi come stimolo alla ricerca di altre soluzioni ai problemi, come sforzo di esercitare pienamente la fatica del pensare anche quando questo significa la coltivazione di pensieri difficili e coraggiosi. Il dubbio, infine, può porsi utilmente anche come punto di intersezione tra l’ambito strettamente filosofico e altri campi del sapere (p. es., tra filosofia e psicologia, da un lato, e filo3112
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sofia e diritto, dall’altro). L’esercizio del dubbio appare infatti fondamentale anche per la ricerca storica, come per la critica letteraria e per l’analisi politica, divenendo contestualmente un fruttuoso strumento d’insieme al di là della parcellizzazione dei saperi, indicando uno stile e un metodo per ogni intellettuale disponibile a una genuina ricerca del vero. Anche per gli scienziati, nel tempo del prepotente dominio della tecnologia, il dubbio può rappresentare un pungolo fecondo nel contesto di una ricerca di senso del lavoro scientifico che eviti la caduta in forme fideistiche incapaci di assumere criticamente i risultati del progresso scientifico e tecnologico. Allo stesso modo, si può affermare che il dubbio rappresenta un apporto caratterizzante anche all’interno di una ricerca di fede. Per quanto paradossale possa sembrare, non c’è vera fede, autentica ricerca religiosa che non faccia i conti con il dubbio nella polivalenza delle sue dimensioni. II. PERCORSO STORICO . – 1. La filosofia antica. Dall’ironia socratica al dubbio scettico. – Socrate (specie nella sua polemica con i sofisti) e gli scettici rappresentano nella filosofia antica le due espressioni più caratteristiche della polivalenza del termine «dubbio». L’ironia socratica, come «sapere di non sapere», esprime la funzione positiva del dubbio. Essa consiste nel rifiuto di ogni accettazione passiva e irriflessa di quanto appare ovvio, per procedere a un esame critico delle motivazioni che fondano il giudizio. In tal senso, il dubbio si configura quale percorso razionale per accedere alla verità e fondare così validamente la decisione pratica. Il dubbio esprime, pertanto, la fecondità e il pregevole valore di ogni autentica ricerca. «Socrate, – così dice Menone nel noto dialogo platonico rivolgendosi al filosofo – anche prima di incontrarmi con te sapevo che tu non fai altro che mettere in dubbio te e gli altri», e Socrate rispondendo si definisce «più di chiunque altro dubbioso» e poi continua: «Fo sì che anche gli altri siano dubbiosi» (Men., 79-80). Dunque nessuno, per Socrate, è escluso dal dubbio. E il dubbio, che ha carattere costruttivo, ha una funzione preliminare ed essenziale in ordine alla maieutica. Il dubbio è positiva provocazione per la conoscenza, in quanto mette in discussione ciò che si crede di conoscere e spinge a riconoscere ciò che non si conosce realmente. La via tracciata dal dubbio socratico nella ricerca della verità apre
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alla teoria platonica della conoscenza, in quanto implica che sia oltrepassato il livello dell’opinione generata dalla conoscenza sensibile fino ad arrivare, nella sospensione delle credenze consolidate, alla conoscenza di ciò che la ragione coglie con assoluta certezza. Nel «mito della caverna», descritto nella Repubblica, la conoscenza si perfeziona per gradi, a partire da quello più basso, rappresentato dalla conoscenza sensibile che genera l’opinione, fino ad arrivare, attraverso la conoscenza razionale e dimostrativa, alla visione intuitiva delle idee. Anche nella metodologia filosofica aristotelica il dubbio svolge un ruolo importante, poiché Aristotele, prima di procedere alla determinazione sistematica dei problemi, discute le difficoltà intrinseche e le soluzioni proposte dai precedenti filosofi. Nel libro III della Metafisica, Aristotele chiarisce il valore metodologico del dubbio: «Ora, se si intende dare una felice soluzione alle difficoltà, è utile farne immediatamente un’approfondita disamina, giacché lo stato di agiatezza in cui dopo verremmo a trovarci non è altro se non lo scioglimento delle precedenti aporie, ed è impossibile sciogliere quando non si conosca il nodo; la perplessità del pensiero, invece, sta a indicare proprio la presenza di un tal nodo nell’oggetto dell’indagine, giacché per tutto il tempo che la mente versa nell’aporia, è più o meno nelle condizioni di un uomo incatenato: in entrambi i casi infatti non si può fare un passo in avanti» (Metaph., III, B, I, 995 a). Perplessità e dubbio sono generati in molti casi dall’equivalenza dei ragionamenti contrari: «Quando infatti ragioniamo in entrambe le direzioni e tutti gli elementi del discorso ci sembrano svilupparsi con pari validità in ciascuno dei due sensi, siamo incerti quale delle due azioni intraprendere» (Top., VI, Z, 6, 145 b). Il dubbio che scaturisce da questa situazione può contribuire a porre metodicamente i problemi ed è, in quanto tale, avviamento alla scienza. Esso tuttavia non può estendersi ai primi principi che sono il fondamento stesso della ricerca e della scienza e che meritano la massima fiducia del sapiente. Con gli scettici il dubbio diviene sistematico e definitivo, perde il suo carattere metodico di via per la ricerca della verità e si afferma quale unica modalità possibile di approccio al reale sia a livello teoretico che pratico. Il dubbio scettico non riguarda l’effettualità dei fenomeni. Non a caso, Timone afferma:
Dubbio «Sempre vige il fenomeno, ovunque si manifesti» (Frammenti, 69). Il dubbio scettico è relativo alla possibilità di spiegarne la vera natura, alla possibilità di giungere alla realtà in sé delle cose e induce perciò la sospensione del giudizio (epoché), determinando l’impossibilità di qualsiasi asserzione. Dal punto di vista dello scettico, ogni tentativo di argomentazione è un inutile spreco di tempo. La sospensione del giudizio, piuttosto che portare alla disperazione e generare la paralisi dell’azione, conduce l’animo alla tranquillità. Secondo Sesto Empirico, chi dubita è imperturbabile, perché «non sa se una cosa sia buona o cattiva per natura, e perciò non desidera, né fugge, né persegue nulla con desiderio» (Ipotesi pirroniane, I, 10, 20). Già nell’antichità lo scetticismo presenta forme diverse. Secondo Popkin si può distinguere tra uno scetticismo assertivo (accademico) e uno scetticismo non assertivo (pirronismo). Per lo scetticismo assertivo, l’unica cosa saputa è non sapere nulla, ma poiché ciò implica pur sempre sapere qualcosa, lo scetticismo accademico «si confuta da sé», configurandosi come una forma di dogmatismo negativo. I pirroniani, invece, «dubitano di ogni proposizione e sospendono il giudizio su ogni proposizione, anche su quella che afferma che tutto è dubbio» (The History of Scepticism, tr. it. R. Rini, Storia dello scetticismo, Milano 2000, p. 64) ed è quest’atteggiamento che costituisce la vera contestazione di ogni dogmatismo. 2. La filosofia cristiana. Il valore del dubbio e la ricerca della verità. – La riflessione agostiniana sul dubbio si sviluppa nel confronto con lo scetticismo dell’Accademia e oltrepassa il piano teoretico per investire il rapporto dell’uomo con Dio. L’interesse fondamentale di Agostino è la conoscenza di Dio e dell’anima, come egli stesso dichiara all’inizio dei Soliloqui: «Io desidero conoscere Dio e l’anima. [...] Nient’altro, assolutamente» (Sol. 1, 2,7). Tutta la sua filosofia è un itinerario verso Dio che conduce a ritrovare la ricchezza dell’interiorità dell’uomo, compresa quale luogo privilegiato del rivelarsi di Dio. Il dipanarsi del suo pensiero può essere letto come una lunga «prova» dell’esistenza di Dio, un argomentare la verità che è Dio e la possibilità che l’uomo ha di riconoscerla e di aderire ad essa. Non siamo dinanzi a una dimostrazione che si sviluppa sul piano puramente gnoseologico di una considerazione delle pos3113
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Dubbio sibilità conoscitive della ragione, ma a una riflessione intensa e profonda sulla ricerca che l’uomo vive nella concretissima realtà della sua esistenza. Quanto Agostino afferma circa il dubbio si lega così strettamente a questa ricerca della verità, che è ricerca di ciò che solo consente la felicità dell’uomo. Il dubbio è momento essenziale nel riconoscimento della verità, passaggio che di per sé conduce all’affermazione della verità che è nel vivere stesso di ogni uomo. Nella sua giovinezza Agostino era stato vicino agli ambienti dello scetticismo accademico, ma se ne distacca nettamente nell’adesione al cristianesimo, per prenderne poi esplicitamente le distanze nell’opera Contra Academicos dove mostra come sia per noi possibile pervenire ad alcune indubitabili certezze e quale relazione sussista tra conoscenza della verità e sapienza, e tra sapienza e felicità. Posso cadere in errore qualora presupponga una costante corrispondenza tra ciò che mi appare e la realtà, ma non posso dubitare del fatto di avere delle impressioni. Neppure lo scettico può confutare chi dice: «So che questo oggetto mi sembra bianco, so che questo suono mi fa piacere, so che questo odore mi piace, so che questo mi sembra dolce, so che questo mi sembra freddo» (C. Acad., 3, 11, 26); il sentire è di per sé certo (io sono certo del mio sentire), l’impressione si dà con indubitabile certezza (una certezza che viene sicuramente prima e che va oltre la possibile corrispondenza alla realtà oggettiva). D’altra parte, chi dubita sa di dubitare, così che la sua stessa capacità di dubitare dimostra il fatto indubitabile che egli esiste: «Se tu non esistessi, non potresti ingannarti su nessuna cosa» (De lib. arb., 2, 3, 7). Si fallor sum: se mi inganno esisto, perché se non esistessi non potrei nemmeno dubitare e ingannarmi. Il dubbio conduce alla certezza dell’esistenza, fa risaltare una certezza di per sé evidente che è il fatto di esistere, cui si accompagna un’altra certezza altrettanto indubitabile: l’esser vivo di colui che esiste. Ciascuno di noi è certo di esistere e di esser vivo, e dunque tre sono le certezze che si danno nel fatto stesso della nostra esistenza: la certezza di esistere, di vivere e di conoscere. Più specificamente, poiché so di esistere, sono certo di conoscere, ma sono certo anche di volere, perché per il fatto stesso di dubitare non solo conosco, ma voglio conoscere. Esse, nosse e velle segnano il superamento del dubbio e tuttavia è 3114
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il dubbio stesso che ci conduce a tali certezze. Il dubbio ci porta alla verità perché ci introduce nella realtà dello spirito, a ciò che conosciamo cioè con assoluta certezza in quanto si lascia cogliere nell’esperienza interiore che non ha bisogno, di per sé, della mediazione dei sensi. Non c’è nulla di più presente allo spirito dello spirito stesso. «Noi esistiamo e sappiamo di esistere, amiamo il nostro essere e la nostra conoscenza; in queste tre cose che abbiamo elencato non temiamo di ingannarci, dal momento che non le raggiungiamo per mezzo di sensi corporei, come avviene per gli oggetti esterni» (De Civ. D., 11, 26). «Gli uomini hanno dubitato se attribuire la facoltà di vivere, ricordare, comprendere, volere, pensare, sapere, giudicare all’aria o al fuoco o al cervello o al sangue o agli atomi o a un quinto ignoto elemento corporeo al di fuori dei quattro elementi conosciuti, oppure se tutte quelle operazioni le possa compiere la struttura e l’armonia del nostro corpo; chi si è sforzato di ricordare, di sostenere un’opinione, chi un’altra. Di vivere tuttavia, di ricordare, di comprendere, di volere, di pensare, di sapere e giudicare, chi potrebbe dubitare? Poiché, anche se dubita, vive; se dubita, ricorda donde provenga il suo dubbio; se dubita, comprende di dubitare; se dubita, vuole arrivare alla certezza; se dubita, pensa; se dubita, sa di non sapere, se dubita, giudica che non deve dare il suo consenso alla leggera. Perciò chiunque dubita di altre cose, non deve dubitare di tutte queste, perché, se non esistessero, non potrebbe dubitare di nessuna cosa. [...] Lo spirito si conosce anche quando si cerca» (De Trin., 10, 14.16). La verità si dà dunque nell’interiorità di ogni uomo. Tuttavia l’uomo non è la verità. Distinto dalla verità, l’uomo è colui che la ricerca e la riceve come dono. La verità non può essere che Dio. In quanto presuppone il rapporto dell’uomo con la verità e aiuta a cogliere tale rapporto come assolutamente certo, il dubbio conduce perciò esso stesso a Dio. Minore rilievo è attribuito al dubbio dal pensiero di Tommaso d’Aquino, che riprende i termini della riflessione aristotelica. Tommaso non ignora il fondamento oggettivo del dubbio e tuttavia ne sottolinea soprattutto il carattere soggettivo, considerandolo quale ignoranza o deficienza dell’informazione. Il dubbio può agire come impedimento e vincolo del pensiero e va adeguatamente discusso, in modo che ne sia possibile la soluzione. Per Tom-
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maso, però, il dubbio non può mai intendersi come universale sospensione dell’assenso, dal momento che i primi principi sono da ritenere assolutamente certi. È comunque compito della metafisica discutere il dubbio concernente la verità in se stessa. 3. Da Cartesio a Husserl. Il dubbio come strumento gnoseologico. – Con la modernità il dubbio si caratterizza nettamente in senso gnoseologico divenendo un fondamentale strumento di ricerca e di conoscenza, un metodo per affermare o rafforzare la ricerca dell’indubitabile. Ciò appare particolarmente evidente in Cartesio, che per primo fa uso del dubbio quale elemento corrosivo di certezze consolidate e via per la definizione della conoscenza universalmente valida. Il dubbio cartesiano è volto alla ricerca dell’indubitabile, di ciò che è indubitabile sotto il profilo psicologico, logico e gnoseologico. Il dubbio non è perciò fine a se stesso, ma è lo strumento di un metodo rigoroso nella ricerca della verità, una ricerca che non procede per semplici approssimazioni o per un puro calcolo di probabilità. Il dubbio è prima di tutto, in Cartesio, dubbio metodico, critica preliminare a ogni contenuto che non sia adeguatamente fondato su un principio di certezza. «L’utilità di un dubbio così generale – scrive Cartesio – benché non appaia manifesta a prima vista, tuttavia è grandissima in questo, che quel dubbio ci libera da ogni sorta di pregiudizi, e ci prepara un cammino facilissimo per assuefare il nostro spirito a distaccarsi dai sensi, ed infine grazie ad esso non potremo più avere alcun dubbio su quel che scopriremo in appresso esser vero» (Meditazioni metafisiche, tr. it. di A. Tilgher, rivista da F. Adorno, in Discorso sul metodo. Meditazioni filosofiche, Roma-Bari 1978, p. 67). Da metodico il dubbio si fa poi iperbolico, spingendo fino all’assurdo le sue istanze e introducendo l’ipotesi di un genio maligno che ingannerebbe l’uomo facendogli apparire come reali cose inesistenti. Ma è proprio a partire da questa ipotesi, in cui tutto è sottoposto al dubbio, che il filosofo perviene a un fondamento di incrollabile certezza e si trova così in grado di costruire la nuova scienza. Anche se infatti non esistesse in realtà un mondo fisico, anche se vivessimo in un mondo di sogno, una cosa sarebbe tuttavia certa: che benché io possa dubitare di tutto, per dubitare devo esistere. «Lo spirito che, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le cose, della cui esi-
Dubbio stenza è possibile anche il minimo dubbio, riconosce essere assolutamente impossibile che, nel frattempo, non esista egli stesso» (ibid.). Questa è la prima certezza assoluta: «Io penso, dunque sono». Ed è fondamentale che questa certezza, posta da Cartesio come verità prima, sia conquistata a partire dal dubbio. Il «dunque» non è la conclusione di un sillogismo, esprime piuttosto un’intuizione di assoluta e immediata evidenza: io esisto pensando. Il criterio del vero è l’indubitabilità. Le prime verità non sono quelle che fondano logicamente il percorso argomentativo (i primi principi) né quelle che fondano ontologicamente il sistema (Dio): la prima verità è l’esistenza dell’io pensante ed è all’interno del pensiero che possono essere riguadagnate tutte le altre verità, compresa l’esistenza stessa di Dio. Cartesio costruisce la sua metafisica facendo perno su quello che si può conoscere con assoluta certezza a partire dal soggetto finito. Assolutamente vero è ciò che non è passibile di alcun dubbio. Non si può accettare come vero se non ciò che si presenta come assolutamente certo, indubitabile e si deve rifiutare invece qualsiasi opinione che possa essere confutata per un qualunque motivo. Il dubbio discrimina così tra il vero e il falso e orienta la ricerca non verso una conoscenza semplicemente verosimile o probabile, ma verso la vera scienza che riconosce come caratteri essenziali della verità la chiarezza e la distinzione. Sbaglierebbe pertanto chi ritenesse il dubbio una fase soggettiva della ricerca. Il dubbio cartesiano esprime, infatti, la fase critica di un sapere che riconosce l’insufficienza dei suoi fondamenti. Cartesio stesso scrive: «Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto una quantità di false opinioni, onde ciò che poi ho fondato su principi così mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio e incerto, e dovevo necessariamente disfarmi di tutte le opinioni alle quali avevo creduto se volevo stabilire qualcosa di fermo e durevole nelle scienze» (ibid.). E nella Seconda Meditazione annota: «La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi che non posso più dimenticarli [...]. Nondimeno mi sforzerò e seguirò a capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il minimo dubbio proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre su questa 3115
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Dubbio strada finché non incontrerò qualcosa di certo» (ibid.). Il dubbio cartesiano non lascia dunque alcun margine allo scetticismo poiché intende dimostrare che la certezza esiste. In tal senso il dubbio delinea il percorso che è proprio della scienza. «Come Cartesio – afferma Gadamer – nella sua famosa meditazione sul dubbio, mette in opera un dubbio iperbolico, artificiale come un esperimento, che conduce poi al fundamentum inconcussum dell’autocoscienza, così il metodo scientifico insegna a dubitare radicalmente di tutto ciò di cui si possa dubitare, per giungere in tal modo alla sicurezza dei suoi risultati» (Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, tr. it di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 1983, p. 283). Il dubbio non definisce una condizione esistenziale, ma apre a un processo di accertamento teso a stabilire criteri di rigore. Il dubbio radicale conduce alla certezza della scienza. Ciò nonostante non è mancato chi, come Rorty, ha accusato Cartesio di fare il gioco degli scettici, in quanto la distinzione del dualismo cartesiano fra l’«interno mentale» quale regno dell’indubitabile e l’«esterno corporeo» (cfr. Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton 1979, tr. it. a cura di D. Marconi e G. Vattimo, La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1979), che è il regno del sempre dubitabile, produce la problematizzazione dell’esistenza dell’esterno, nel momento stesso in cui afferma la certezza razionale delle nostre rappresentazioni. Il progetto cartesiano mira in realtà a mettere in discussione ogni scienza che sia costruita sulla generalizzazione dei dati sensibili per procedere alla matematizzazione del mondo. Se infatti si può senz’altro dubitare dell’affidabilità dei sensi, le scienze matematiche, che hanno per oggetto le nature semplici, si sottraggono all’incertezza e consentono di ricavare da esse le regole fondamentali del metodo. L’indubitabilità delle scienze matematiche è posta così alla base del progetto di fondazione della scienza cartesiana. Partito dal dubbio radicale, Cartesio giunge così alla convinzione che ci sono molte cose che possiamo conoscere con certezza assoluta. «È certo che io esisto; che Dio esiste e non è un genio maligno; che tutte le idee chiare e distinte sono vere; che i teoremi della matematica, essendo chiari e distinti, sono veri, e che infine esiste un mondo esterno alle nostre idee. Non possiamo però sapere se appartengono a tali oggetti i colori, i suoni, gli odori, i 3116
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sapori e le sensazioni tattili che abbiamo, dal momento che nessuna di queste idee è sia chiara sia distinta. La nostra conoscenza è perciò meno estesa di quanto immagini la persona comune, ma è più estesa di quanto avremmo potuto credere quando abbiamo preso l’avvio con il metodo del dubbio sistematico» (R.H. Popkin - A. Stroll, Skeptical Philosophy for Everyone, 2002, tr. it. di L. Sosio, Il dovere del dubbio, Milano 2004, p. 62). Proprio per questa sua capacità di indicare la necessità di un’adeguata interrogazione critica per la conoscenza, il dubbio cartesiano assumerà carattere paradigmatico nella vicenda filosofica della modernità, influenzerà lo sviluppo successivo della filosofia moderna, anche al di là degli aspetti metodici che lo hanno contraddistinto. Il dubbio cartesiano agisce nell’empirismo di Locke e nella sua ricerca circa la certezza e l’estensione della conoscenza, agisce nella visione scettica di Hume, nonostante questi esplicitamente lo contesti affermando che «il dubbio cartesiano, anche se si potesse conseguire da parte di qualcuno (il che evidentemente non è) sarebbe assolutamente irrimediabile» (Enquiry on Human Understanding, XII, I, tr.it. di M. Dal Pra, Ricerca sull’intelletto umano, in Opere filosofiche, RomaBari 1992, p.160). Ma il dubbio cartesiano ha avuto rilevante significato anche per la critica della ragione di Kant, per la sua ricerca di una conoscenza universale e necessaria fondata sul soggetto conoscente. Il dubbio cartesiano è inoltre presente nella stessa filosofia di Hegel, che considerò la necessità che «alla scienza debba preceder il dubitar di tutto, cioè la mancanza di presupposti in tutto» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 78). Tuttavia nella visione hegeliana il negativo è risolto nel positivo e il dubbio (Zweifel), collegato alla disperazione (Verzweiflung) – il dubitar di tutto è un disperar di tutto –, è riassorbito nel cammino della ragione hegeliana. Il rapporto tra dubbio e disperazione, affermato da Hegel, è ripreso da Kierkegaard che, nel porre in connessione i due termini, distingue nettamente la disperazione dalla pratica intellettuale del dubbio. In Aut-Aut Kierkegaard scrive: «Si è parlato più che a sufficienza del fatto che tutta la speculazione comincia col dubbio; d’altra parte io, quando mi son dovuto occupare di queste meditazioni ho inutilmente cercato degli schiarimenti per sapere in che cosa il dubbio sia diverso dalla disperazione [...]. Il dubbio è la di-
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sperazione del pensiero, la disperazione è il dubbio della personalità [...]. Il dubbio è il movimento interno del pensiero stesso e nel mio dubbio mi comporto più impersonalmente che posso. Supposto che il pensiero, quando il dubbio si completa, trovi l’assoluto e si riposi in lui, esso riposa in lui non in seguito a una scelta ma in seguito alla stessa necessità per cui dubitava, poiché il dubbio stesso è una determinazione di necessità e così pure il riposo [...]. Il dubbio e la disperazione stanno dunque di casa in due sfere completamente diverse, sono corde assai diverse dell’animo che vengono messe in movimento. Ma questa conclusione non mi soddisfa affatto, poiché il dubbio e la disperazione vengono in questo modo coordinati e questo non deve avvenire. La disperazione è un’espressione molto più profonda e completa. Il suo movimento è molto più ampio di quello del dubbio. La disperazione è l’espressione di tutta la personalità, il dubbio solo del pensiero. La presunta obiettività del dubbio, che lo rende tanto aristocratico, è proprio un’espressione della sua imperfezione. Il dubbio sta perciò nella differenza, la disperazione nell’assoluto. Per dubitare occorre del talento, ma per disperare non ne occorre affatto» (S. Kierkegaard, Aut-Aut, tr. it. di K.M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Milano 1975, pp. 8889). Strettamente legato all’ambito dell’azione, piuttosto che dimensione del pensiero, appare invece il dubbio nella prospettiva di Peirce. Il dubbio è la sospensione dell’azione quando le nostre credenze sono contraddette dall’esperienza ed è condizione che provoca la verifica e l’eventuale cambiamento dei nostri comportamenti e delle nostre abitudini. Il dubbio è lo stato di inquietudine con il quale lottiamo per pervenire a una credenza che possa regolare l’agire. Anche per W. James «il dubbio di per sé è una decisione della massima portata pratica» (The Will to Believe and Other Essays in Popular Philosophy, New York - London 1904, tr. it. di P. Bairati, Volontà di credere, Milano 1984, p. 132). L’attitudine a credere presenta caratteristiche originarie e il dubbio assoluto non è possibile non solo per la natura della mente umana, ma per le esigenze della vita. Sui risvolti pragmatici e contestuali del dubbio insiste anche J. Dewey. «Noi siamo dubbiosi perché la situazione è nella sua essenza dubbiosa» (Logic, the Theory of Inquire, tr. it. a cura di A. Visalberghi,
Dubbio Logica. Teoria dell’indagine, Torino 1974, p. 137) e la ricerca, che è provocata dalla situazione problematica, conduce a sempre nuovi assetti nella relazione dell’uomo con l’ambiente. Una sistematica e chiara ripresa del dubbio cartesiano e delle questioni ad esso inerenti si ha con Edmund Husserl. La fenomenologia husserliana che mira all’intuizione diretta delle «cose stesse» ha nell’epoché circa ogni teoria o giudizio preconcetto un momento essenziale dell’articolarsi del suo metodo. Residuo indubitabile dell’epoché è la sfera del cogito, poiché di tutto si può dubitare per la fenomenologia, tranne che delle evidenze caratterizzanti gli atti della coscienza. L’epoché implica la sospensione dell’atteggiamento naturale, delle convinzioni derivanti dal senso comune per procedere a una fondazione rigorosa del sapere che riconduca le nostre certezze a un’evidenza razionale immediata. In tale direzione l’epoché husserliana ripropone la funzione metodica propria del dubbio cartesiano che esprime di per sé la criticità della ricerca filosofica. La fenomenologia non deve accettare alcunché come scontato, non deve «lasciar valere alcuna datità». Ma se ogni cosa può essere posta tra parentesi, ciò di cui non si può dubitare è il soggetto dubitante stesso: «È indubbiamente certo che io dubito». Allo stesso modo è certo che le mie cogitationes non sono investite dal dubbio: non posso dubitare né di me come soggetto dubitante né delle percezioni che ricevo: «È assolutamente chiaro che io percepisco questo o quest’altro». Così Husserl affermava già nel 1907 (Die Idee der Phänomenologie, Den Haag 1950, tr. it. di A. Vasa, L’idea della fenomenologia, Milano 1981, pp. 65-66) nella stessa direzione in cui si porrà con le successive Meditazioni cartesiane. All’interno di questa visione generale si situano le considerazioni più specifiche sull’importanza del dubbio in ordine al giudizio che Husserl propone in Ideen I e nelle Lezioni sulla Sintesi passiva. Nel par. 103 di Ideen I il dubbio è descritto come uno dei modi di darsi della cosa stessa. «Il modo della credenza “certa” – scrive Husserl – può passare in quello della semplice pretensione o supposizione, o della domanda o del dubbio; e correlativamente ciò-che-appare (pur essendo caratterizzato, rispetto alla prima dimensione di caratterizzazioni come originario, riproduttivo e simili) assume la modalità 3117
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Dubbio di essere del possibile, del verisimile, del discutibile, del dubbioso» (Ideen zu einer reiner Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Den Haag 1950, tr. it. di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro I, Torino 1976, p. 233). Nelle Lezioni sulla Sintesi passiva Husserl considera il dubbio come una modalità del giudicare e ne descrive il configurarsi come luogo di intersezione tra la dimensione teoretica e quella «affettiva» della conoscenza, emblematica attestazione del radicarsi del sapere nell’antepredicativo del mondo della vita. Il dubbio è quella modalità intenzionale che fa esperienza della complessità delle cose, dell’ambiguità del loro apparire, del loro darsi alla coscienza relativamente (perché altre rispetto alla coscienza), un vissuto reso possibile proprio dalla recettività originaria della coscienza, quindi dal suo carattere sensibile-emotivo. Io sono colpito da possibilità problematiche tra loro inconciliabili (dubbio passivo) e oscillo fra di esse in modo ondivago senza sapermi decidere per nessuna (dubbio attivo): «La tensione passiva e disgiuntiva delle possibilità problematiche (il dubbio in senso passivo) motiva un dubitare attivo, un atteggiamento che pone l’io in una scissione d’atto (Aktspaltung)» (Analysen zur passiven Synthesis, Dodrecht 1966, tr. it. di V. Costa, Lezioni sulla sintesi passiva, Milano 1993, p. 99). La scissione che immobilizza l’io, tenendolo nell’incertezza, genera il domandare, come esplicita tendenza mirante a superare l’impasse, ovvero il disagio in cui versa l’io. Il dubbio, quindi, porta con sé lo strumento che permette di affrontare positivamente la problematicità, cercando di diradarla. Quel che è interessante sta nel fatto che il dubbio non è una semplice indecisione teoretica, una neutra incertezza, bensì un disagio che nasce a livello sensibile: l’incertezza teoretica affonda le sue radici nella sensibilità originaria, nel momento cioè in cui si impongono al soggetto i dati percettivi inconciliabili, ovvero possibilità di esperienze incompossibili. L’esperienza originaria della problematicità delle cose, della loro ambiguità, l’incapacità di ricondurle immediatamente a una struttura e a un ordine ben precisi e riconoscibili, genera nell’io una sorta di sgomento e insieme un disagio, un’insofferenza. La coscienza è attraversata da tendenze inconciliabili, ognuna delle quali troppo debole per potersi imporre sulle 3118
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altre. Essa «patisce» il carattere disgiuntivo di tali possibilità, subisce il travaglio della loro reciproca esclusività o poca chiarezza. L’impulso a superare tale disagio è alla base del domandare che si assume il compito di vagliare le possibilità e di prendere una decisione su di esse. La situazione spiacevole del dubbio motiva in altri termini una volontà positiva tendente al superamento del dubbio verso la certezza. La domanda è definita da Husserl come tendenza pratica, tendenza «a più livelli»: essa incorpora in sé la situazione di sgomento propria del dubbio e tende al suo superamento, pone cioè come obiettivo da raggiungere la certezza del giudizio. «La vita giudicativa, anche quella che giudica razionalmente, è un terreno per un desiderare peculiare, per un tendere, volere ed agire i cui scopi sono appunto giudizi» (ibid., p.102). Il dubbio teoretico trova pertanto la sua genesi in una dimensione originariamente sensibile/emotiva: il dubbio è sì una modalità del giudicare, ma il giudicare, come mostra l’analisi genetica, non è un atto teoretico ab origine, poiché affonda le proprie radici nell’esperienza preteoretica (quella che Husserl chiamerà poi Lebenswelt). Come atto teoretico, il giudicare è un «composto» intenzionale che si costituisce di vari «strati»: al fondo di essi vi è quell’intenzionalità passiva sensibile che è alla base di ogni possibile esperienza nel mondo. 4. Il dubbio antropologico e morale. – Al di là della figura caratterizzante di Husserl, che propone la riflessione teoreticamente più rilevante, e di pochi altri tra cui il neoscolastico Mercier che, in termini classici, ritiene il dubbio momento decisivo per la filosofia, si può sicuramente affermare che la questione del dubbio, nella filosofia del Novecento, subisce decisive modificazioni. Il dubbio, per così dire, non fa più notizia, nel senso che la filosofia convive con il dubbio perché in tutti i campi della vita privata e pubblica si registra uno stato di smarrimento e una mancanza di fondamenti che significa anche semplicemente assenza di punti di riferimento condivisi e che fa da sfondo all’incertezza nelle decisioni, al conflitto dei valori, alla fatica dell’agire. Ciò vale, pur con le dovute differenze, anche in campo più strettamente scientifico per il prevalere della nozione di probabilità e/o di relatività e di visioni indeterministiche. «Insomma il dubbio gnoseologico o epistemico – scrive La Vergata – ha perso drammaticità: è diventato un vicino un po’
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scomodo con cui si convive, tutto sommato, meno difficilmente di quanto si temesse. Il dubbio metafisico, quello, non solo non angoscia più nessuno, ma ha addirittura perso popolarità: cosa oggi peggiore. La forza smarrita per strada da queste due forme di dubbio si è ritirata nell’ultima roccaforte: il dubbio morale, inteso in modo da comprendere non solo l’incertezza sulle scelte etiche, ma anche la confusione sui valori [...]. Esso è alimentato dall’esperienza moderna della relatività e delle contingenza delle forme sociali, dei quadri mentali e dei valori. È soprattutto nel campo morale, politico e sociale che sperimentiamo la dispersione nel molteplice, lo spaesamento, l’incertezza dell’identità, la frammentazione. Queste sono le forme contemporanee del dubbio antropologico del Duemila» (Dubbio antropologico e attestazione morale, in L’altro, l’estraneo, la persona, a cura di A. Rigobello, Roma 2000, pp. 101-102), di quel dubbio antropologico di cui, alla fine degli anni cinquanta, Lévi Strauss scriveva: «La ricerca sul terreno, da cui ha inizio ogni carriera etnologica, è madre e matrice del dubbio, atteggiamento filosofico per eccellenza. Questo “dubbio antropologico” non consiste solo nel sapere che non si sa nulla, ma nell’esporre risolutamente quel che si credeva di sapere, e persino la propria ignoranza, agli insulti e alle smentite inflitte, a idee e abitudini carissime, da idee e abitudini che possono contraddirle al più alto grado» (Elogio dell’antropologia, in Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Torino 1967, p. 75), una «profanazione» di cui l’antropologo si rende complice, «quando assume senza restrizioni mentali né secondi fini, le forme di una società straniera» (ibid., p. 63), una esposizione che è totale. Ora il dubbio in senso antropologico può essere vissuto in senso esclusivamente traumatico, come un totale essere messi in questione, oppure in senso maieutico. Come afferma Rigobello: «Abbisogniamo di una scossa maieutica, e anche il trauma della profanazione ha una sua efficacia morale, ma non è dalla sola iconoclastia che sorge una fede più pura, e l’iconoclastia stessa diventa una posa se eretta a sistema, ossia a costume. Cerchiamo invece di cogliere, nell’esercizio terapeutico di un “dubbio antropologico”, l’impostazione rigorosa di un procedimento che conduca all’arresto del dubbio il quale, anche qui, ha funzione metodica» (Legge morale e mondo della vita, Roma 1968,
Dubislaw pp. 170-171) . È questo, senz’altro, il nucleo più fecondo del dibattito attuale sul dubbio. La possibile funzione metodica, sia pure in senso nuovo, del dubbio antropologico (e dell’esplorazione consapevole delle tante filosofie dell’«assurdo» da Rensi a Michelstaedter, per fare solo qualche esempio) può condurre alla responsabilità etica e al rinnovato esercizio di una ragione che prova ad applicarsi ai diversi campi della vita in modo concreto e rigoroso insieme. F. Miano BIBL : PLATONE, Menone, tr. it. di F. Adorno, in Opere Complete, vol. 5, Roma-Bari 1982, pp. 249-296; SESTO EMPIRICO, Ipotesi pirroniane; AGOSTINO, Contra Academicos; E. HUSSERL, Cartesianische Meditationen und Pariser Vörtrage, The Hague 1950, tr. it. di F.Costa, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, Milano 1966; E. HUSSERL, Analysen zur passiven Synthesis, Dodrecht 1966, tr. it. di V. Costa, Lezioni sulla sintesi passiva, Milano 1993; C. LEVI-STRAUSS, Elogio dell’antropologia, in Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Torino 1967, pp 47-82; A. RIGOBELLO, Legge morale e mondo della vita, Roma 1968; E. M. CIORAN, Le mauvaise démiurge, Paris 1969, tr. it. di D. Grange Fiori, Il funesto demiurgo, Milano 1986; S. KIERKEGAARD, Enten-Eller, tr. it. di K. M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Milano 1975; CARTESIO, Meditazioni metafisiche, tr. it. di A. Tilgher, rivista da F. Adorno, in Discorso sul metodo. Meditazioni filosofiche, Roma-Bari 1978; A. LA VERGATA, Dubbio antropologico e attestazione morale, in L’altro, l’estraneo, la persona, a cura di A. Rigobello, Roma 2000, pp. 63-104; H. POPKIN, The History of Scepticism, tr. it. R. Rini, Storia dello scetticismo, Milano 2000; R. H. POPKIN - A. STROLL, Skeptical Philosophy for Everyone, 2002, tr. it. di L. Sosio, Il dovere del dubbio, Milano 2004. ➨ CERTEZZA; CONOSCENZA; EPOCHÉ; OPINIONE; PIRRONISMO; SCETTICISMO; VERITÀ; .
DUBISLAW, WALTER ERNST OTTO. – Filosofo Dubislaw della scienza, n. a Berlino il 20 sett. 1895, m. a Praga il 17 sett. 1943. Ottenuta l’abilitazione alla Technische Hochschule di Berlino, vi fu professore dal 1931. Dubislaw fu membro della «Società berlinese per la filosofia empirica» che, unitamente al Circolo di Vienna, intese la filosofia come analisi della struttura logica della ricerca scientifica, polemizzando contro ogni interpretazione metafisica di essa. I suoi studi sono rivolti essenzialmente ai fondamenti della matematica e al carattere della logica formale: Über die sogenannten analytischen und synthetischen Urteile, Berlin 1926; Die Friessche Lehre von der Be3119
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Duboc
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gründung, ivi 1926; Die Definition, 1926; Die Philosophie der Mathematik in der Gegenwart, Berlin 1932; Naturphilosophie, ivi 1933; Zur Unbegründbarkeit der Forderungssätze, in «Theoria», 1937, pp. 330-342. Collaborò anche alle riviste «Annalen der Philosophie» ed «Erkenntnis», l’organo ufficiale del neopositivismo. Dubislaw critica l’intuizionismo matematico sia nella forma kantiana sia in quelle contemporanee e sostiene una concezione formalistica della logica e della matematica di tipo hilbertiano. Il calcolo logico-matematico, nell’applicazione alle scienze della natura, determina unicamente in modo chiaro le asserzioni già implicite nell’insieme di proposizioni empiriche accettate. Dubislaw non aderisce tuttavia a un empirismo atomistico: non si può parlare di un «dato» indipendentemente da ogni teoria; egli si accosta, quindi, alla teoria della verità come coerenza, sostenuta nel neopositivismo da Neurath e Carnap, per quanto non prenda posizione rispetto al fisicalismo. L’inferenza induttiva non è per lui giustificabile razionalmente, ma si risolve in una decisione ad accettare una teoria. F. Barone BIBL.: K. GRELLING, Bemerkungen zu Dubislaws «Die Definition», in «Erkenntnis», 1933, pp. 189-200; R. LÖHRICH, Towards a Convention on Engaging Postulates, in «Theoria», 1938, pp. 181-182; A. MENNE, s. v., in «Neue deutsche Biographie», IV, Berlin 1959, p. 145.
DUBOC, JULIUS (pseudonimo: JULIUS LANZ). – Duboc Evoluzionista tedesco, n. ad Amburgo nel 1829, m. a Dresda nel 1903. Le principali opere in cui si trova esposto iI suo monismo evoluzionistico e ateo sono le seguenti: Leben ohne Gott. Untersuchungen über den ethischen Gehalt des Atheismus, Hannover 1875 (18842); Grundriss einer einheitlichen Trieblehre vom Standpunkt des Determinismus, Leipzig 1892; Die Lust als sozial-ethisches Entwicklungsprinzip, ivi 1900. Red.
DU BOIS, FRANÇOIS (Sylvius). – Teologo n. a Du Bois Braine-le-Comte in Belgio nel 1581, m. a Douai il 27 febbr. 1649. Addottoratosi nel 1610, nel 1613 successe a Estio sulla cattedra di teologia a Douai. Tra i primi avversari del giansenismo, oltre a commentari biblici pubblicò: S. Thomae Aquinatis Opuscula, Douaci 1608-09, 2 voll.; Explicatio doctrinae sancti Thomae [...] De motione primi 3120
motoris, ivi 1609; Apologetica pro Sancto Thoma Aquinate [...] oratio, ivi 1624; Litterae [...] ad Leopoldum Belgii gubernatorem, ivi 1648 (contro i giansenisti); Commentaria in Summam theologicam sancti Thomae, ivi 1620-35; 1622-482. N. Beghin BIBL.: le opere di Du Bois furono più volte riedite; NORBERTO D’ELBECQUE ne curò un’edizione completa (Antwerpen 1682-98; ristampa Paris 1714 e Venezia 1726). Su Du Bois: J.-N. PAQUOT, Mémoires pour servir à l’histoire littéraire des dix-sept Provinces Unies, Louvain 1763, vol. II, pp. 285-298; É. AMANN, s. v. Sylvius, in Dictionnaire de Théologie catholique, vol. XIV, Paris 1941, coll. 2923-2925.
DUBOIS, PIERRE. – Scrittore politico, n. a Dubois Coutances, in Normandia, tra il 1250 e il 1255, m. intorno al 1320. Discepolo a Parigi di Tommaso d’Aquino e di Sigieri di Brabante, «avvocato del re» sotto Filippo IV il Bello, Dubois visse in un contesto di vicende politiche che avrebbero portato all’aspro conflitto tra il re di Francia e papa Bonifacio VIII. Nei suoi scritti mostra una solida conoscenza del codice di diritto romano, per cui si suppone che egli abbia compiuto anche studi giuridici, che gli consentirono di svolgere la professione di avvocato. La complessa personalità di Dubois è messa in luce dalle tesi centrali dei suoi due trattati più organici (le altre sette opere pervenuteci rivelano un carattere occasionale): nel Summaria brevis et compendiosa doctrina felicis expedicionis et abreviationis guerrarum ac litium regni Francorum (1300; ed. a cura di H. Kämpf, «Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters und der Renaissance», vol. IV, Leipzig-Berlin 1936), egli propone una nuova tattica di guerra e progetta uno sveltimento della procedura giudiziaria, tale da porre rimedio all’ingerenza dei tribunali ecclesiastici nel campo della giurisdizione civile; la sua opera più significativa, il De recuperatione Terre Sancte (13051307; ed. a cura di Ch.V. Langlois, Paris 1891) dedicato a Edoardo I d’Inghilterra nella prospettiva di una più generale diffusione in Europa, ma in realtà destinato a Filippo il Bello, ha come movente politico la prospettazione di una crociata destinata a un sicuro successo dei cristiani nella liberazione dei luoghi santi dagli infedeli, che, dopo la riconquista di San Giovanni d’Acri nel 1291, erano tornati padroni
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di tutta la Terra Santa. La preparazione e lo svolgimento dell’impresa sono progettati in modo del tutto nuovo e originale e si sviluppano in una serie di riforme che tendono a riorganizzare l’assetto politico dell’Europa, la ratio studiorum, la politica degli stati e l’istituzione ecclesiastica, nella quale il primato del papa rimane indiscusso benché si affermi il principio della completa gestione da parte di laici dei beni ecclesiastici patrimoniali e del divieto del possesso di beni produttivi. Si può affermare che in Dubois è rispecchiato il permanere dell’universalismo spirituale, mentre va attenuandosi l’idea imperiale di fronte alla presa di coscienza dell’immensità dell’Oriente. Si manifesta la consapevolezza che l’universalità cattolica è realizzabile soltanto nel quadro di uno sforzo volontario comune, attraverso il rinnovamento culturale (lo studio delle lingue orientali e il conseguente confronto comparato tra culture cristiana, ebraica e islamica). Si possono rintracciare in Dubois chiari riferimenti a pensatori del XIII secolo; tra i contemporanei che sembrano avere direttamente influito sul suo pensiero figurano Sigieri di Brabante, per l’autonomia della critica filosofica; Ruggero Bacone, il cui influsso fu determinante soprattutto nell’affermazione dell’altissimo valore metodologico dell’esperienza, e dell’importanza dello studio delle lingue; infine Raimondo Lullo, per il forte ottimismo circa la buona riuscita delle riforme politico-ecclesiastiche e circa il loro potenziale apologetico e missionario nella diffusione del cristianesimo. A. Ghisalberti BIBL.: M. DELLE PIANE, Vecchio e nuovo nelle idee politiche di Pietro Dubois, Firenze 1959; L. GATTO, I problemi della guerra e della pace nel pensiero politico di Pierre Dubois, Roma 1959; A. DIOTTI (a cura di), «De recuperatione Terrae Sanctae»: dalla «Respublica Christiana» ai primi nazionalismi e alla politica antimediterranea, Firenze 1977; A. GHISALBERTI, Ideali etici e pensiero politico nel «De recuperatione Terre Sancte» (1306) di Pierre Dubois, in «Veritas», 159 (1995), pp. 643-658; A. GHISALBERTI, La filosofia medievale, Firenze 2002, pp. 237-247.
DU BOIS-REYMOND, EMIL. – ElettrofisioDu Bois-Reymond logo, n. a Berlino il 7 nov. 1818, m. ivi il 26 dic. 1896. Incerto sull’indirizzo di studi da intraprendere, nel 1837 si iscrisse all’università di Berlino seguendo i corsi di teologia, filosofia e psicologia. All’università di Bonn studiò logi-
Du Bois-Reymond ca, metafisica e antropologia. L’incontro con il grande fisiologo J. Miller, alla cui scuola si formarono scienziati quali Schwann, Virchow e Helmholtz, lo convinse a iscriversi alla facoltà di medicina. Ricevuto da Müller l’Essai sur les phénomènes électriques des animaux di C. Matteucci, con l’invito a verificare l’esistenza di una corrente elettrica associata all’attività muscolare, nel 1843 si laureò in medicina con una tesi sull’elettricità animale. Dai suoi raffinati metodi elettrofisiologici di misurazione di deboli correnti bioelettriche nacquero le monumentali Untersuchungen úber die thierische Elektricität (1848). Nel 1851 fu eletto membro dell’Accademia Prussiana delle Scienze. Nominato professore di fisiologia (1858), fu per due volte rettore dell’università di Berlino, nel 1869-1870 e nel 1882-1883. Segretario perpetuo dell’Accademia delle Scienze di Berlino, le sue pubblicazioni posteriori al 1877 raccolgono i numerosi discorsi pubblici tenuti all’Accademia. Le sue commemorazioni di Müller (1858), Helmholtz (1859), Voltaire (1868), LaMettrie (1875) e Maupertuis (1892) rivestono un grande interesse storico. In netta contrapposizione alle diffuse concezioni vitalistiche del tempo, du Bois-Reymond rifiuta qualsiasi ricorso a principi immateriali o forze vitali nella spiegazione dei fenomeni biologici, perché ritiene che l’azione di tali forze immateriali sia del tutto incompatibili con il principio di conservazione dell’energia. Suscitarono vivaci dibattiti in tutto il mondo tedesco e all’estero le sue due conferenze: Über die Grenzen des Naturerkennens (Leipzig 1872) e Die sieben Welträthsel (ivi, 1880, tr. it. di entrambi, Milano 1973). I sette enigmi del mondo individuati da du Bois-Reymond sono: l’essenza della materia e della forza; l’origine del movimento; l’origine della vita; l’ordinamento teleologico della natura; l’origine della sensibilità; il pensiero razionale e l’origine del linguaggio; il problema del libero arbitrio. La scienza non potrà mai risolvere questi enigmi. Posto di fronte ad essi, lo scienziato non potrà fare altro che pronunciare l’inappellabile e definitivo verdetto “ignoramus et ignorabimus”: ignoriamo ora e ignoreremo per sempre. Altri scritti: Untersuchungen über die tierische Elektricität, (Berlin 1848-49). C. Rosso - L. Conti BIBL.: E. METZE, E. du Bois-Reymond, sein Wirken und seine Weltanschauung, Bielefeld 19183; W. COLEMAN, Biology in the Nineteenth Century, Cambridge, 1977,
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Du Bos tr. it., Bologna 1984; L. CONTI, L’infalsificabile libro della natura. Alle radici della scienza, Assisi 2004.
DU BOS (DUBOS), JEAN-BAPTISTE (abbé Dubos). Du Bos – Estetologo, storico, diplomatico francese, n. a Beauvais il 21 dic. 1670, m. a Parigi il 23 mar. 1742. Celebri le sue paradossali tesi storiografiche, criticate da Montesquieu in L’Esprit des lois (London 1757; cfr. libri XXX e XXVIII, cap. III). L’opera più importante resta comunque il saggio Réflexions critiques sur la poésie et la peinture (Paris 1719), che si conclude con una Dissertation sur les représentations théâtrales des Anciens. L’estetica di Du Bos, cui allude anche La Henriade di Voltaire (La Haye 1728), si pone alla confluenza tra classicismo francese ed empirismo anglosassone. L’assunto su cui si fonda l’analisi è la constatazione che l’emozione indotta dall’arte distrae l’uomo di per sé perennemente afflitto dalla noia: fine dell’opera è dunque quello di commuovere, suscitando «passioni artificiali», cioè attenuate e incapaci di produrre «le pene e le afflizioni» connesse invece alle emozioni reali. Non senza qualche contraddizione, Du Bos si appoggia su questa osservazione psicologica per avvalorare la sua estetica a discapito di posizioni di stampo razionalista. Esemplare è in questo senso il parallelo che Du Bos sviluppa tra poesia e pittura, ovvero quelle che egli considera le arti per eccellenza: entrambe prescindono da ogni contenuto dottrinale, etico o pedagogico, e si rivolgono invece al «sentimento», laddove questo, onde evitare l’opposto eccesso di un esito sensualistico, è inteso come reazione che coinvolga tanto la sensibilità quanto l’intelletto. Tant’è che in entrambe queste arti riveste grande importanza la scelta del soggetto: al di là del puro piacere degli occhi e dell’udito, quest’ultimo deve infatti riuscire a «interessare». La seconda parte del trattato articola invece la teoria del genio, di cui Du Bos, con Antoine Houdar de La Motte e Bernard Fontenelle, fornisce una delle prime formulazioni: il genio è l’organo della produzione artistica; è libero e innato, e risente semmai dell’ambiente in cui si trova a svilupparsi. La sua opera riesce a commuovere, mentre quella dettata da canoni e regole non sa produrre che opere freddamente corrette. Così il meraviglioso sa piacere perfino quando cade nell’inverosimile, se è vero che l’incanto delle opere di Torquato Tasso 3122
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o di Ludovico Ariosto ne fa dimenticare ogni difetto. Dopo le polemiche tra Nicolas Boileau e Charles Perrault, e tra Antoine de La Motte e Madame Dacier, Du Bos cerca una nuova soluzione della querelle des anciens et des modernes, schierandosi a fianco degli antichi, ma rifiutando un’estetica razionalistica: per far ciò Du Bos riconosce nella storia umana non una, ma molteplici epoche di splendore, ed enfatizza il ruolo del pubblico nella fortuna dell’opera. Egli ribadisce la grandezza degli antichi, legittimandola sull’infallibilità del sentimento. La commozione di generazioni davanti alle opere di Omero o di Virgilio non può esser tolta da nessun sofisma della ragione né dall’osservazione, probabilmente fondata, che un giorno nasceranno geni perfino maggiori di quelli dell’antichità. La teoria del progresso vale per i prodotti della ragione, non già per l’arte, perché il sentimento dell’uomo, cui essa si rivolge, è eterno e immutabile. E. Fubini - B. Zaccarello BIBL.: M. BRAUNSCHVIG, L’abbé Du Bos, rénovateur de la critique au XVIIIe siècle, Toulouse 1904; A. LOMBARD, La querelle des anciens et des modernes: l’abbé Du Bos, Neuchâtel 1908; A.H. KOELER, The abbé Du Bos, his Advocacy of the Theory of Climate: a Precursor of G. Herder, Champaign 1937; E. MIGLIORINI, Note alle Réflexions critiques di J.-B. Du Bos, Firenze 1962; E. FUBINI, Empirismo e classicismo. Saggio sul Du Bos, Torino 1965; E. MIGLIORINI, Studi sul pensiero estetico del Settecento. Crousaz, Du Bos, Firenze 1966; A. LOMBARD, L’abbé Du Bos, un initiateur de la pensée moderne, Genève 1969; T. BESTERMAN (a cura di), Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, vol. CXXVII, Banbury 1974; D. DUMOUCHEL, Le problème de Du Bos et l’affect compatissant: l’esthétique du 18e siècle à l’épreuve du paradoxe tragique, in T. BELLEGUIC - E. VAN DER SCHUEREN (a cura di), De la sympathie sous l’Ancien Régime: discours, savoirs, sociétés, Québec 2003; C. NICOLET, La fabrique d’une nation, Paris 2003.
DU BOSC, JACQUES. – Pensatore francescaDu Bosc no, originario della Normandia, n. verso la fine del secolo XVI, se ne ignora la data di morte. Pochissime le notizie biografiche. Entrato giovanissimo nell’ordine, in seguito pare che l’abbia temporaneamente abbandonato e che abbia scelto di condurre, in quel periodo di allontanamento, una vita disordinata. In una lettera del 1662, tuttavia, il generale dell’ordine si congratula con lui per aver difeso per trent’anni l’autorità pontificia e allude ad alcune lettere che Alessandro VII gli avrebbe inviato.
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Si oppose decisamente a Port-Royal e partecipò a quasi tutte le controversie, come appare dagli scritti apologetici sull’eucaristia e la penitenza (1647 e 1648), sulla passione di Cristo, la grazia (1651) ecc. Però a un certo punto egli si ritirò dalla polemica (1657): mancano documenti che ce ne spieghino i motivi. Un suo scritto interessante è l’Honnête femme (Paris 1632; ed. riveduta e ampl., in 3 parti, 1633-35; le 3 parti insieme: 1639, 1643, 1662, 1665), in cui l’autore intende completare l’insegnamento di Francesco di Sales a proposito dell’educazione femminile. Secondo questo progetto pedagogico, la formazione cristiana deve seguire quella morale, proposta sul fondamento degli autori pagani (soprattutto gli stoici e Plutarco). Naturalmente, Du Bosc mette in guardia contro eventuali errori o deficienze negli insegnamenti di questi autori pagani. L’operetta venne più tardi seguita da Les femmes héroïques comparées avec les héros (Paris 1642), la cui tesi sostiene la possibilità per le donne di atti di eroismo pari a quelli degli uomini. Altro scritto degno di rilievo è Le philosophe indifférent (ivi 1643) in cui Du Bosc espone un nuovo metodo per confutare il libero pensatore (libertino), anticipando di quindici anni le tesi di Pascal nei Pensées. L’operetta, incompiuta, è difficilmente comprensibile a causa della terminologia usata. La dialettica pascaliana è adombrata nella ripartizione dei maggiori sistemi filosofici in due grandi categorie contrapposte, i dogmatici e i pirroniani. In una prima parte, l’autore tenta di concludere direttamente al Vangelo, ma poi si accontenta di condurre il non-credente a uno stato d’indifferenza, che dovrebbe permettere più facilmente la scelta tra le diverse religioni. Pascal avrebbe vivamente respinto quest’ultima possibilità. Una terza e una quarta parte, che avrebbero dovuto realizzare il metodo così presentato, non furono pubblicate. Julien-Eymard d’A. BIBL.: TH. JORAN, Féminisme d’autrefois: l’«Honnête femme» de Jacques du Bosc, in «La Femme Contemporaine», 5 (1909), pp. 233-239; R. PINTARD, Le libertinage érudit, Paris 1943, vol. I, pp. 333-334; C. CHESNEAU, Un précurseur de Pascal? Jacques Du Bosc (1643), in «Dix-septième Siècle», 15 (1952), pp. 426-448; C. CHESNEAU, Sénèque et le stoicïsme dans l’oeuvre du cordelier Du Bosc, in «Dix-septième Siècle», 18 (1955), pp. 353-377; C. FITZGERALD, Autho-
Ducasse rity in Ancien Regime France: The Understanding of Jacques du Bosc, Saskatoon (Canada) 1996.
DUCASSE, CURT JOHN. – Filosofo statunitenDucasse se di origine francese n. ad Angoulême il 7 lug. 1881, m. a Providence (Rhode Island) il 3 sett. 1969. Emigrò nel 1900 negli Stati Uniti e frequentò le università di Washington e di Harvard, dove conseguì il dottorato nel 1912 con Royce. Tornò a Washington nello stesso anno per iniziare la sua attività di docente, che proseguì poi, a partire dal 1926 e fino al 1958, presso la Brown University. Ducasse può essere considerato un pensatore sistematico per l’ampiezza dei suoi interessi: epistemologia, filosofia del corpo e della mente, estetica, etica e religione. Il suo metodo lo inserisce nel solco della tradizione analitica: per evitare inutili errori occorrono rigore tecnico e la precisa contestualizzazione dei termini in questione, in particolare di quelli basilari per la filosofia e che riguardano i predicati di valore come «reale», «buono», «valido» e il loro uso standard (cfr. Philosophy as a Science, New York 1941 e AA.VV., La filosofia contemporanea in Usa, Asti 1958, pp. 253-273). In Nature, Mind and Death (La Salle [Illinois] 1951), e nella raccolta di saggi Truth, Knowledge and Causation (London 1968), sono riassunti i risultati più importanti della sua ricerca. Ducasse, che aveva già criticato l’interpretazione humeana della causalità in Causation and the Types of Necessity (Seattle 1924), sostiene la tesi di un realismo avverbiale per rendere conto della conoscenza del mondo esterno: le sensazioni non sono oggetti, ma appunto, tenendo conto anche dello stato psicologico dell’osservatore e delle condizioni fisiche dell’osservazione, modi in cui percepiamo un oggetto. Si vede non this blue, ma bluely. Egli difende inoltre il «diritto di credere» quando, dopo aver verificato imparzialmente tutti i possibili argomenti, non c’è evidenza a favore di una delle alternative disponibili. Di qui anche il suo «liberalismo etico», che assume il fatto della diversità dei codici morali, ma tenta di evitarne l’esito relativistico puntando su un’educazione capace di allargare progressivamente gli orizzonti. The Philosophy of Art (New York 1929), e Art, the Critics and You (ivi 1944), espongono una chiara tesi espressionista: l’opera d’arte non coincide con il bello, ma con l’oggettivazione dei sentimenti del suo creatore. Per quanto riguarda la religione, Ducasse vede in essa un 3123
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Dufrenne insieme di articoli di fede e di pratiche che hanno una funzione sociale e devono garantire la pace interiore, senza chiudersi sulla questione dell’esistenza di Dio (cfr. A Philosophical Scrutiny of Religion, ivi 1953). Va sottolineata infine l’attenzione dedicata ai fenomeni paranormali e al problema della sopravvivenza dopo la morte (cfr. A Critical Examination of the Belief in Life after Death, ivi 1961 e Paranormal Phenomena, ivi 1969). S. Semplici BIBL.: F.C. DOMMEYER (a cura di), Current Philosophical Issues: Essays in Honour of C.J. Ducasse, Springfield (Illinois) 1966; P.H. HARE - E.H. MADDEN, Causing, Perceiving and Believing: an Examination of the Philosophy of C.J. Ducasse, Dordrecht 1975.
DUFRENNE, MIKEL. – Filosofo ed estetoloDufrenne go francese, n. a Clermont il 9 febbr. 1910, m. a Parigi il 10 giu. 1995. Dopo gli studi all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, fu professore in diversi licei francesi. Caduto prigioniero in guerra nel 1940, trascorse la sua prigionia in Pomerania, nello stesso campo d’internamento di Paul Ricoeur, insieme al quale scoprì l’opera di Karl Jaspers: i due amici pubblicheranno nel 1947 Karl Jaspers et la philosophie de l’existence (Paris 20002). A partire dal 1955 fu professore all’università di Poitiers e dal 1964 a quella di Parigi-Nanterre, dove creò il dipartimento di filosofia e insegnò fino al 1974. Autore e direttore, oltre alla collezione «Esthétique» delle edizioni Klincksieck, della «Revue d’esthétique», con Etienne Souriau prima e con Olivier Revault d’Allonnes a partire dal 1978. L’opera principale di Dufrenne, Phénoménologie de l’expérience esthétique (Paris 19923, 2 voll., tr. it. I vol. di L. Magrini, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Roma 1969), costituisce uno dei più notevoli contributi, insieme agli studi di Roman Ingarden e di Moritz Geiger, alla formulazione di un’estetica fenomenologica. Dufrenne intende la fenomenologia husserliana secondo l’interpretazione data in Francia da Jean-Paul Sartre e da Maurice Merleau-Ponty, respingendo le possibili implicanze «idealistiche» della concezione husserliana del soggetto trascendentale. L’opera di Dufrenne muove dalla delineazione di una fenomenologia dell’oggetto estetico, precisandosi come analisi dell’opera d’arte e come fenomenologia dell’esperienza estetica, concludendosi in una sua critica, kantianamente intesa quale 3124
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giustificazione trascendentale, attraverso un a priori, di tale esperienza. L’oggetto estetico, «irresistibile e magnifica presenza del sensibile», si definisce attraverso l’analisi fenomenologica come un quasi-soggetto: a differenza della realtà naturale, caratterizzata da quella opacità che Sartre chiama l’in sé, l’oggetto estetico è una forma unitaria autonoma, un per sé analogo a quello del soggetto. A questa caratterizzazione dell’oggetto estetico come quasi-soggetto corrisponde, dal lato dello spettatore, un’esperienza estetica in cui si possono distinguere tre momenti: quello della presenza, quello della rappresentazione, quello della riflessione. L’oggetto estetico è anzitutto una presenza che si impone ai nostri sensi, con la sua struttura fisica, ordinata secondo schemi (ritmo e rima). Nella percezione estetica è impegnata anche l’immaginazione, la quale però, proprio in quanto l’oggetto estetico non ha nulla di oscuro e di ambiguo, va rigorosamente disciplinata dall’intelletto: questo costituisce il terzo momento, quello della riflessione. Al di là di questa analisi, tuttavia, ciò che per Dufrenne caratterizza l’esperienza estetica è piuttosto una risposta globale di tutto il soggetto, che egli chiama «sentimento», distinguendolo dalla semplice riflessione. Contro lo schema soggettivistico, secondo Dufrenne, la profondità dell’esperienza estetica nel soggetto corrisponde a una profondità propria dell’oggetto estetico stesso. Occorre scoprire la radice della corrispondenza tra soggetto e oggetto, cioè fondare un’ontologia dell’esperienza estetica solo apparentemente analoga a quella heideggeriana. Per Dufrenne, l’artista finisce così per rivelarsi come uno strumento della natura. Questa apertura dell’ontologia dell’arte nella direzione di una filosofia della natura è ripresa e sviluppata da Dufrenne in Le poétique (Paris 19722, tr. it. di L. Zili e introduzione di D. Formaggio, Il senso del poetico, Urbino 1981), dove si descrive l’intima unità dell’uomo con la natura, cosicché la poesia ha il compito di riportare il linguaggio al suo stato di natura. L’a priori poetico in base a cui si giustifica l’esperienza estetica non è altro che l’accordo esistenziale originario tra l’artista e ciò che l’ispira, la natura. Negli scritti successivi Dufrenne allarga la sua tematica ai rapporti tra arte, politica, ideologia, utopia. Con Art et politique (Paris 1974) fa eco all’appello di Herbert Marcuse per l’avvento di una nuova sensibilità, illustrando una
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delle principali ragioni del vivo interesse nutrito dal pensiero francese per la ricerca estetica: l’arte è, in «questa nostra triste civiltà», uno dei rari luoghi in cui ancora si esercita la libertà, in cui il piacere conserva un senso alla felicità. Nell’ultima sua opera, L’oeil et l’oreille (Paris 19912, tr. it. e prefazione di C. Fontana, L’occhio e l’orecchio, Milano 2004), Dufrenne avanza delle riserve circa l’ontologia della carne di Merleau-Ponty. La critica si rivolge in particolare all’imperialismo dell’occhio e dell’immaginazione visiva, per riabilitare l’orecchio e riflettere sulla pluralità dei sensi – non delle sensazioni –, la cui unità è pensata attraverso una fenomenologia del sentire mutuata in parte da Erwin Straus e compresa come modo di comunicazione tra un sé (Selbst, self) e il mondo. La totalità a cui dà luogo tale stretta relazione del sentire si manifesta nel sentimento: l’immediato può così essere conquistato e l’originario, se non proprio ritrovato, almeno approcciato. G. Vattimo - K. Rossi BIBL.: La notion d’a priori, Paris 1959; Language and Philosophy, Bloomington 1963; Jalons, La Haye 1966; Esthétique et Philosophie, vol. I, Paris 1967; vol. II, Paris 1976; vol. III, Paris 1981, tr. it. parziale di P. Stagi, Estetica e filosofia, Genova 1989; Pour l’homme, Paris 1968; La personnalité de base, Paris 19723; Subversion, perversion, Paris 1977, tr. it. di M.L. Mazzini, Sovversione, perversione, Milano 1978; Esthétique et science de l’art, in AA.VV., Tendances principales de la recherche dans les sciences sociales et humaines, Paris 1978, parte 2, vol. II; L’inventaire des “a priori”, Paris 1981; Trattato di estetica, Milano 1981, 2 voll. (con D. Formaggio). Su Dufrenne: J.-C. PIGUET, De l’esthétique à la phénoménologie, La Hague 1959; G. MORPURGO TAGLIABUE, L’esthétique contemporaine, Milano 1960, pp. 460468; P. RICOEUR, Philosophie, sentiment et poésie. La notion d’a priori selon Mikel Dufrenne, in «Esprit», 29 (1961), 3, pp. 504-512; R. BARILLI, Per un’estetica mondana, Bologna 1965, cap. 7; AA.VV., Vers une esthétique sans entrave. Mélanges Mikel Dufrenne, Paris 1975; A. MANESCO, Arte e politica nell’ultimo Dufrenne, Verona 1976; AA.VV., Hommage à Mikel Dufrenne, in «Revue d’esthétique», 21 (1992), pp. 165 ss.; AA.VV., Ricordo di Mikel Dufrenne, in «Informazione filosofica», 28 (1996), pp. 5-15; AA.VV., Mikel Dufrenne. La vie, l’amour, la terre, in «Revue d’esthétique», 30 (1997); M. SAISON, Le tournant esthétique de la phénoménologie, in «Revue d’esthétique», 36 (1999), pp. 125-140.
Duhamel DUGUIT, LÉON. – Filosofo del diritto, n. il 4 Duguit febbr. 1859 a Libourne, m. il 18 febbr. 1928 a Bordeaux. Professore a Caen e a Bordeaux, autore di numerose opere di diritto pubblico, tra cui L’Etat, le droit objectif et la loi positive (Paris 1901), L’Etat, le gouvernement et les agents (ivi 1903), Manuel de droit constitutionnel (ivi 1907), Le droit social, le droit individuel et la transformation de l’Etat (ivi 1908, tr. it. di B. Paradisi, Il diritto sociale, il diritto individuale e la trasformazione dello Stato, Firenze 1950), Traité de droit constitutionnel (Paris 19233). Strettamente legato all’indirizzo positivistico e alla sociologia di Comte e di Durkheim, Duguit vuole banditi dalla scienza giuridica i concetti che non siano puramente tecnici e scientifici, criticando il carattere metafisico della scienza tradizionale; per scienza egli intende soltanto quella che consti di ragionamenti sperimentali, che concernano i fatti e non le valutazioni di questi. Il concetto che Duguit critica radicalmente è in particolare quello di diritto soggettivo, fondato sul presupposto metafisico dell’individualismo razionalistico per il quale l’individuo è per se stesso centro incondizionato di diritti: alla nozione di diritto soggettivo Duguit vuole sostituita quella di funzione sociale, in quanto questa – e non le volontà individuali in se stesse – è in realtà tutelata dall’ordinamento giuridico. Del pari Duguit respinge, come contraria alla ragione sperimentale, la nozione di sovranità intesa come volontà di una società personificata: sola realtà sperimentabile è per lui la forza di chi governa. Eliminati i presupposti metafisici, la vera realtà giuridica rimane il diritto oggettivo: la regola di diritto, cioè la regola che impone all’individuo, in quanto membro di un ambiente sociale, di realizzare la solidarietà con gli altri; la legge positiva, constatazione, non creazione, di un siffatto diritto oggettivo, è giustificata in quanto corrispondente a tale diritto: tesi questa che è stata criticata da alcuni come giusnaturalistica e riconducente a una posizione metafisica. G. Fassò BIBL.: A. BARBERA - C. FARALLI - M. PANARARI (a cura di), Le trasformazioni dello Stato, Torino 2003.
DUHAMEL, JEAN-BAPTISTE. – Fisico e filosoDuhamel fo, n. a Vire (Normandia) nel 1624, m. a Parigi il 6 ag. 1706. Avviatosi giovanissimo agli studi matematici, divenne oratoriano e parroco a Neuilly-sur3125
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Duhamel
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Marne, e quindi elemosiniere del re e professore di filosofia greca e latina al Collège royal. Messosi in luce per i suoi studi scientifici, nel 1666 fu nominato segretario perpetuo (carica che lasciò nel 1697) dell’Académie des Sciences fondata da Colbert. Svolse missioni diplomatiche all’estero e in Inghilterra frequentò R. Boyle. Tra i suoi scritti, oltre a numerose opere di carattere biblico e teologico e alla traduzione del Galateo di G. della Casa e del Cortegiano di B. Castiglioni: Astronomia physica, Parisiis 1659; De meteoris et fossilibus, ivi 1659; De corporum affectionibus, tum manifestis tum occultis, ivi 1670; De mente humana, ivi 1673; De corpore animato, ivi 1673. Particolare successo ebbero le opere De consensu veteris et novae philosophiae, ubi Platonis, Aristotelis, Epicuri, Cartesii aliorumque placita de principiis rerum excutiuntur (ivi 1663; Rouen 1667 e 1675) e Philosophia vetus et nova, ad usum scholae accomodata (Parisiis 1678, 4 voll.), che fu tradotta in tartaro dai gesuiti per far conoscere all’imperatore della Cina le dottrine dei filosofi d’Europa. Pur manifestando un forte interesse per le questioni sperimentali, queste due opere cercano di mostrare la conciliabilità del nuovo spirito filosofico con le dottrine dei filosofi antichi, favorendo così la diffusione delle nuove dottrine. F. Barone BIBL.: R. KLESCZEWSKI, Die französischen Übersetzung des Cortegiano von Baldassare Castiglione, Heidelberg 1966; G. PIAIA, Jean-Baptiste Du Hamel (16241706), in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 22-31 (con bibliografia); E. RAPETTI, Percorsi anticartesiani nelle lettere a PierreDaniel Huet, Firenze 2003, pp. 143-196.
DUHAMEL, JEAN-MARIE. – Fisico francese, n. Duhamel a Saint-Malo il 5 febbr. 1797, m. a Parigi il 29 apr. 1872. Le sue numerose memorie sull’analisi matematica e il suo Des méthodes dans les sciences de raisonnement (Paris 1866-72, 5 voll.) non hanno lasciato grande traccia nel pensiero matematico. In quest’opera però Duhamel accosta al metodo matematico quello delle scienze dello spirito, ritenendo che non si ponga tra i due tipi di indagine alcuna differenza metodologica. M. Gliozzi
DUHEM, PIERRE MAURICE MARIE. – N. a PariDuhem gi il 10 giu. 1861, m. a Cabrespine (Carcassonne, Aude), il 14 sett. 1916. 3126
Fisico, epistemologo e storico della scienza, allievo dell’Ecole Normale Supérieure di Parigi presentò, nel 1864, una tesi sul concetto di «potenziale termodinamico» entrando in polemica con ambienti ufficiali e smentendo la teoria del «valore di reazione» di M. Berthelot. Per questo motivo, la carriera universitaria di Duhem si svolse fuori da Parigi, prima alla facoltà di scienze di Lille (1887-93), poi a quella di Rennes (1893-94), infine, dal 1894 fino alla morte, nella cattedra di fisica teorica della facoltà di scienze dell’univeristà di Bordeaux. Non abbandonò quest’insegnamento neppure quando gli fu offerta la cattedra di Storia della Scienza al Collège de France. Nel 1890 tuttavia fu eletto membro non residente della Académie des Sciences. Ingegno versatile, ha condotto ricerche in vari campi della scienza, le quali seppero poi tradursi in frutti durevoli sul piano epistemologico e su quello storiografico, piani per lui strettamente interconnessi, che affiancarono la sua attività scientifica con pari impegno di ricerca e con uguale, se non con maggiore, vastità di vedute e originalità polemica. Per quanto concerne il primo punto, Duhem si è occupato di termodinamica, elettromagnetismo, chimica, idrodinamica ed elasticità, spinto però dalla convinzione che la termodinamica fosse l’elemento unificatore tra le varie branche della fisica e della chimica, incluso l’elettromagnetismo. La ricerca di un’applicazione al maggior numero di settori della fisica di una termodinamica generalizzata, modellata sulla termodinamica fenomenologica del fisico americano J. W. Gibbs e vicina all’energetica di W. Ostwald, è il filo conduttore della sua attività scientifica, e ciò a partire dalla sua tesi Le potentiel thermodynamique et ses applications à la mécanique chimique et à la théorie des phénomènes électriques, Paris 1886, attraverso il Traité de mécanique chimique, Paris 1897-99, Thermodinamique et chimie, Paris 1902, Les théories electriques de J. Clark Maxwell, Paris 1902 fino al più tardo Traité d’énergétique, Paris 1911, opera di sintesi in cui sono riuniti i risultati delle ricerche in campo scientifico. Per quanto concerne invece l’idrodinamica e l’elasticità si veda: Hydrodinamique, élasticité, acoustique, Paris 1891, Recherches sur l’hydrodinamique, Paris 1903-04, 19612, Recherches sur l’élasticité, Paris 1906. Ora, se l’energetica come teoria generalizzata dei fenomeni fisici si dimostrò un insuccesso, l’opera di Duhem contribuì almeno
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a diffondere presso i fisici francesi il pensiero di Gibbs e Helmoltz, ebbe anche il merito di dimostrare le capacità interpretative di una teoria generale, quale la termodinamica, per la comprensione di numerosi risultati sperimentali in vari campi della fisica e della chimica. Sul piano epistemologico il suo progetto – si vedano soprattutto i materiali raccolti in La théorie physique: son objet et sa structure (Paris 19142, tr. it. a cura di S. Petruccioli, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, Bologna 1978) – è quello di elaborare un’analisi logica del metodo attraverso cui la scienza fisica progredisce, facendo perciò riferimento alla sua stessa esperienza di fisico teorico. In effetti, l’uso della termodinamica fenomenologica lo conduceva all’abbandono dell’idea che un modello meccanico dovesse farsi carico di spiegare i fenomeni, all’abbandono della convinzione che un metodo scientifico possa introdurci alla conoscenza dei meccanismi reali che sottendono i fenomeni e, per converso, ad attribuire alla conoscenza scientifica una valenza di mera descrizione fenomenica indipendente dalla conoscenza della realtà; quest’ultima ritenuta propria di un’esperienza diversa da quella scientifica, quella metafisica. Per questo Duhem, d’accordo con E. Mach, sentiva l’esigenza di eliminare dalla scienza ogni forma di metafisica e ridurre la stessa a una lingua ben fatta che descrivesse i fenomeni dati e permettesse di prevederne di nuovi. In definitiva, il nucleo del progetto epistemologico di Duhem consiste nella scoperta delle possibilità immense dell’elemento teorico, che invece la tradizione positivista aveva reso subalterno all’elemento sperimentale: le interpretazioni dei fenomeni sono il frutto di una scelta di ipotesi, cioè della scelta di linguaggi, la quale dipende da presupposti esterni alla scienza stessa. Per Duhem, dunque, il problema della conoscenza della realtà, della sua spiegazione, risiede fuori della scienza, appartiene alla metafisica ed è quindi oggetto di fede; attribuire una valenza metafisica alla descrizione fenomenica della scienza genera equivoci pericolosi e posizioni conservatrici. Quest’attribuzione meramente fenomenistica al sapere scientifico si appoggia, in Duhem, su un’analisi molto raffinata delle strutture della teoria scientifica e della dinamica epistemologica tra teoria ed esperienza. Una teoria fisica non è una «spiegazione» di fatti o di risultati sperimentali,
Duhem quanto piuttosto «un sistema di proposizioni matematiche, dedotte da un ristretto numero di principi, che hanno lo scopo di rappresentare nel modo più semplice, più completo e più esatto, un insieme di leggi sperimentali» (ibi, tr. cit., pp. 23-24). Una teoria rappresenta perciò «un’economia di pensiero» e l’economia intellettuale è il «principio guida» della scienza, (ibi, tr. cit., pp. 25-26). Più nel dettaglio, la costruzione della scienza si svolge secondo quattro operazioni successive: a) organizzazione di un sistema di proposizioni matematiche, che rappresentino un determinato insieme di leggi sperimentali; b) collegamento di tali proprietà mediante ipotesi o proposizioni che fungano da «principi per le nostre deduzioni», ipotesi che, tuttavia, non enunciano una relazione vera «tra le proprietà reali dei corpi» (per questo le ipotesi, vero caposaldo della conoscenza scientifica, possono essere formulate in modo del tutto arbitrario, fatta salva la legge della non-contraddizione logica); c) correlazione delle ipotesi mediante le regole dell’analisi matematica; d) traduzione delle conseguenze logiche delle ipotesi in «giudizi vertenti sulle proprietà fisiche dei corpi» e confronto di tali giudizi con le leggi sperimentali. Ne consegue che, se «l’accordo con l’esperienza è, per una teoria fisica, l’unico criterio di verità» (ibi, tr. cit., p. 25), tuttavia una teoria è vera non in quanto ci dà una spiegazione conforme alla realtà, ma in quanto fornisce in maniera soddisfacente una rappresentazione simbolica di un insieme di fatti sperimentali. La verifica sperimentale interviene solo in seguito alla posizione di un’ipotesi teorica, il cui compito non è tanto quello di riassumere o catalogare i risultati dell’esperienza, quanto quello di «venir prima (dévancer)» l’esperienza e arditamente interrogarla. È chiaro allora che, In ordine alla struttura e alla funzione delle teorie Duhem, in polemica con la precedente concezione induttivistica, propria del positivismo, e che affermava che la scienza giace sulla sempre più vasta raccolta di fatti empirici e sul loro collegamento matematico scevro di ipotesi speculative, ha una posizione risolutamente anti-induttivistica, rivelando la natura ipotetico-deduttiva della scienza. L’indagine della dinamica epistemologica teoria-esperienza è la seconda fondamentale componente metodologica del discorso duhemiano; dotata di una notevole originalità, è 3127
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Duhem riassumibile nell’accettazione di una precisa posizione olistica. Si tratta del seguente assunto epistemologico: una teoria fisica è un insieme molteplice, organicamente inscindibile, non divisibile in parti distinte tra loro, da sottoporre a prova l’una indipendentemente dall’altra. Per cui, la «contraddizione sperimentale» non ha il potere di validare o falsificare definitivamente un’ipotesi fisica, dal momento che «il fisico non può mai sottoporre al controllo dell’esperienza un’ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi» e «quando l’esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l’insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata [...] non si può verificare ogni pezzo isolatamente» (ibi, tr. cit., p. 211). Duhem, contrariamente a quanto pensava F. Bacone, non crede alla possibilità degli esperimenti cruciali: «in fisica è impossibile fare l’experimentum crucis [...] la verità di una teoria scientifica non si decide a testa o croce» (ibi, tr. cit., pp. 212, 214). Lo stesso confronto tra due ipotesi isolate, se fosse possibile, permetterebbe di confutare una delle due, ma non di validare in maniera conclusiva l’altra, perché non si può dimostrare che l’ipotesi sopravvissuta sia l’unica capace di dar conto dei fenomeni presi in esame e non risulti criticabile da esperienze successive. Quest’argomentazione è divenuta un luogo privilegiato nel dibattito epistemologico del secondo Novecento, difesa nelle sue conclusioni duhemiane dall’epistemologo americano W.v.O. Quine – ecco la denominazione di «tesi DuhemQuine» – nelle sua celebre critica ai «due dogmi dell’empirismo», respinta invece con forza da Popper, che fa dell’esperimento cruciale uno dei fondamenti del proprio falsificazionismo. Ma, se nessuna teoria ha il diritto di rivendicare una migliore verità rispetto a una teoria precedente, ciò non comporta un esito scettico (inaccettabile per il cattolico Duhem). Una teoria, «non è solamente una rappresentazione economica delle leggi sperimentali: è anche una classificazione di quelle leggi» (ibi, tr. cit., p. 28). Una buona teoria permette dunque di fare previsioni, di estendere l’insieme delle leggi sperimentali e di guidare lo scienziato alla scoperta. In tal modo, la teoria fisica dimostra di essere il «riflesso» di un ordine reale, anche se mai potrà pretendere di illuminare le 3128
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affinità reali tra le cose. La classificazione artificiale della scienza tende gradualmente ad avvicinarsi alla natura in quanto tale, per cui «sentiamo che i raggruppamenti stabiliti dalla teoria corrispondono a reali affinità tra le cose [...] più si perfeziona, più avvertiamo che dietro l’ordine logico nel quale essa dispone le leggi sperimentali è il riflesso di un assetto ontologico» (ibi, tr. cit., p. 31). Duhem giunge a parlare di «classificazione naturale»: «la teoria fisica non è un sistema puramente artificiale, oggi utile e domani non più [...] essa è vieppiù una classificazione naturale, un riflesso sempre più chiaro della realtà con cui il metodo sperimentale non saprebbe confrontarsi» (ibi, tr. cit., p. 303). Se la realtà è raggiungibile solo attraverso il discorso metafisico, tuttavia anche il fisico, pur non essendo «in grado di dimostrare che l’ordine stabilito tra le leggi sperimentali riflette un ordine trascendente l’esperienza», non può ridurre se stesso a convincersi che il sistema è «puramente artificiale», non può negarsi la «fede in un ordine reale» (ibi, tr. cit., p. 32), pur sapendo che si tratta di un «atto di fede» che la scienza in quanto tale non giustifica. L’epistemologia convenzionalista duhemiana giunge così a privilegiare, nell’ordine conoscitivo, la metafisica rispetto alla scienza. L’ordine reale che le facoltà intuitive dell’uomo percepiscono sotto il fluire delle teorie scientifiche è un ordine che la scienza non può investire di alcun criterio esplicativo o critico, e che solo l’approccio metafisico e religioso ci permette di cogliere. Duhem, cattolico convinto, intende separare fisica e metafisica, considerate come esperienze conoscitive che poggiano su basi completamente diverse anche se non antitetiche. Duhem, è certo, si preoccupa di separare la scienza dalla fede, tale separazione, tuttavia, instaura una tensione tra scienza, metafisica e fede. Un ulteriore aspetto rilevante della speculazione di Duhem è da ritrovare nell’intrinseco legame che egli pone tra epistemologia e storia della scienza, quindi nella considerazione dell’importanza della storia della scienza, intesa come riflessione critica sulle grandi costruzioni del passato, sulle ipotesi via via accolte o abbandonate, intesa insomma come ciò che fornisce gli strumenti per comprendere il percorso delle teorie e per guardare senza pregiudizi ai nuovi risultati della ricerca. La storia della scienza, ponendo in luce lo sviluppo continuo delle idee
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scientifiche, suggerendo al «buon senso» un’immagine realistica delle teorie stesse che sembrano evolvere verso una «classificazione naturale», finisce per divenire il luogo rivelatore dell’ordine naturale che il progresso scientifico riflette sempre meglio. Essa, non solo si svolge in maniera continua e senza rivolgimenti teorici, ma rivela l’affermarsi di una semplicità e di una bellezza teorica via via maggiori, e che sono appunto il riflesso della semplicità e bellezza di quell’ordine superiore: e «là dove regna l’ordine c’è la bellezza» (ibi, tr. cit., p. 29). È dunque un disegno provvidenziale che guida la storia della scienza: quando una teoria diventa troppo complicata un impulso estetico porta lo scienziato ad abbandonare quella teoria ormai aggrovigliata e confusa per abbracciarne una nuova che sia più semplice ed elegante. Ne emerge l’idea che sono le nostre scelte soggettive, di natura non-razionale, che decidono il rifiuto di una teoria e quindi anche l’avvicendamento di teorie. In questo quadro di una storiografia sostanzialmente continuista, volta alla rivalutazione della funzione dei «precursori», Duhem produce lavori storiografici – alcuni dei quali di gran mole – che hanno finito per rivoluzionare schemi tradizionali. In particolare, fedele all’idea dell’evoluzione continua del sapere scientifico, alla convinzione che tutti i grandi innovatori hanno dei precursori, egli dimostra in modo convincente che la rivoluzione scientifica moderna ha avuto le sue profonde radici nel lavoro intellettuale del Medioevo. Gli studi di Duhem concorrono in modo evidente alla rivalutazione del pensiero scientifico medioevale, soprattutto del ruolo delle scuole di Oxford e Parigi cui Leonardo da Vinci e lo stesso Galileo Galilei sarebbero stati altamente debitori. Occorre citare, per comprendere in tutte le sue sfaccettature il personaggio, La science allemande (Paris 1915), una specie di biografia intellettuale nella quale, partendo dalla distinzione pascaliana tra esprit de géométrie ed esprit de finesse, Duhem critica la mente eccessivamente assiomatizzante e deduttiva dei tedeschi, contrapposta a quella intuitiva, guidata dal buon senso e dal cuore, dei francesi. Proprio in quest’opera troviamo il ben noto giudizio sulla relatività ristretta di A. Einstein: un «aberrante» prodotto della mente germanica incapace di giudizi equilibrati e irrispettosa della realtà.
Duhem-Quine In definitiva, al di là del valore intrinseco della produzione, dei limiti di alcune posizioni teoriche, storiografiche, apologetiche, le raffinate analisi di Duhem sulla struttura delle teorie scientifiche e sulla procedura sperimentale hanno costituito una prosecuzione senz’altro originale e indipendente del pensiero di E. Mach, di G. Milhaud e H. Poincaré, i quali ultimi con lui condividono la paternità del convenzionalismo epistemologico francese di inizio secolo. Non c’è dubbio poi che da esse l’epistemologia del sec. XX abbia appreso alcuni fattori essenziali della logica della scoperta scientifica e della dinamica epistemologica tra teoria ed esperienza. C. Vinti BIBL.: Le mixte et la combination chimique. Essai sur l’évolution d’une idée, Paris 1902; L’évolution de la mécanique, Paris 1903; Les sources des théories physiques. Les origines de la statique, Paris 1906, 2 voll.; Etudes sur Léonard de Vinci: ceux qu’il a lu, ceux qui l’ont lu, Paris 1906-13 (rist. 1955, 3 voll.); Sozei ta phainomena. Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galilée, Paris 1908, tr. it. a cura di F. Bottin, Salvare i fenomeni: saggio sulla ozione di teoria fisica da Platone a Galileo, Roma 1986; Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernique, Paris 1913-59, 10 voll. (gli ultimi cinque pubblicati postumi dalla figlia Hélène 1955-59). Su Duhem: E. PICARD, La vie et l’oeuvre de Pierre Duhem, Paris 1921; P. HUMBERT, Pierre Duhem, Paris 1932; H.P. DUHEM, Un savant français: Pierre Duhem, Paris 1936; W. DIEDERICH, Konventionaltät in der Physik. Wissenschaftstheoretische Untersuchungen zum Konventionalismus, Berlin 1974; P. REDONDI, Introduzione a AA.VV., La verità degli eretici, Milano 1978 (pp. 14-24, efficace e sintetica presentazione dell’opera di Duhem, cui questa stessa deve molto); R. MAIOCCHI, Chimica e filosofia. Scienza, epistemologia, storia e religione nell’opera di Pierre Duhem, Firenze 1985; P. BROUZENG, Duhem, 1861-1916. Science et providence, Paris 1987; S.L. JAKI, Uneasy Genius. The Life and Work of Pierre Duhem, Dordrecht 1987; R. ARIEW - B. BACKER, Pierre Duhem: Historian and Philosopher of Science, in «Synthèse», 2-3 (1990); A. BRENNER, Duhem: Science, réalité et apparence. La relation entre philosophie et histoire dans l’oeuvre de Pierre Duhem, Paris 1990; R.N.D. MARTIN, Pierre Duhem: Philosophy and History in the Work of a Believing Physicist, La Salle (Illinois) 1991; M. FORTINO, Essere, apparire e interpretare. Saggio sul pensiero di Pierre Duhem (18611916), Milano 2006.
DUHEM-QUINE, TESI DI. – Tesi secondo la Duhem-Quine quale il confronto tra le nostre affermazioni e 3129
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Duhem-Quine l’esperienza non è mai tra la singola affermazione e il singolo evento, ma avviene sempre tra un complesso teorico e un insieme di eventi, da cui discende l’impossibilità di falsificare una singola ipotesi in modo netto e definitivo. Duhem espose in forma sistematica le proprie idee sul rapporto tra proposizioni scientifiche ed esperienza nel celebre testo del 1906, La théorie physique. La linea argomentativa di Duhem parte dall’analisi della nozione di esperimento in fisica per evidenziare che ogni esperienza richiede di essere interpretata in modo da tradurre la mera osservazione in una proposizione del linguaggio scientifico. Questa interpretazione avviene impiegando concetti scientifici (se non altro quelli che sono implicati nel funzionamento degli strumenti usati) i quali hanno un significato che dipende dalle teorie all’interno delle quali tali concetti sono definiti. Per Duhem una teoria è un insieme di simboli astratti (i concetti), introdotti del tutto liberamente e connessi tra di loro da relazioni matematiche poste altrettanto liberamente, che può essere posto in relazione con l’esperienza mediante l’associazione tra alcuni simboli e alcuni strumenti di misura; ogni concetto scientifico, anche il più operativo in apparenza, è in realtà il punto di confluenza di reti teoriche che ne definiscono il significato. Ma se ogni esperimento va interpretato con l’ausilio di concetti e se il significato di questi ultimi è definito da teorie, allora ne consegue che il giudizio sul risultato di una osservazione è il prodotto di un insieme di teorie. Se ogni esperienza, ogni enunciato scientifico ha un senso solo in forza di una o più teorie è chiaro che ogni controllo sperimentale implicherà un atto di fede in tutto un insieme di teorie. Ogni volta che si compie una misura, ogni qual volta si mette alla prova una qualunque ipotesi, si mette in realtà in discussione una teoria o anche un gruppo di teorie. Il confronto tra enunciati scientifici ed esperienza è sempre il confronto tra una o più teorie e l’esperienza. Di qui deriva la conclusione più celebre della riflessione di Duhem: la critica all’esperimento cruciale falsificante. Quando l’esperimento non riesce, quando le previsioni teoriche risultano smentite dai fatti, è l’intero sistema di teorie che sono implicate dai calcoli e dagli strumenti usati ad essere falsificato, mai la singola ipotesi. È impossibile falsificare un’ipotesi isolata. Le cosiddette esperienze cruciali sono tali solo in apparenza; in realtà, a 3130
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rigore, mai portano all’obbligo di eliminare una particolare ipotesi, ma si limitano a mostrare l’imperfezione di tutto un sistema teorico di cui quell’ipotesi fa parte. Noi siamo quindi, dal punto di vista logico, liberi di attribuire le ragioni dell’insuccesso a questo o a quell’aspetto del sistema teorico implicato nell’esperienza e negare che il responso dell’esperimento suoni a definitiva condanna di un’ipotesi particolare. Non sono possibili esperimenti cruciali falsificanti. Che un esperimento non possa falsificare necessariamente un’ipotesi non significa che sia effettivamente sempre possibile salvare quest’ultima, cioè che qualsiasi ipotesi possa essere tenuta per vera di fronte a qualsiasi responso sperimentale: la logica lascia aperta la possibilità di scaricare su altre parti del complesso teorico impiegato la colpa dell’insuccesso, ma non è detto che si riesca poi effettivamente a trovare quel nuovo assetto teorico che consente effettivamente di salvare l’ipotesi in questione. Duhem afferma che nessuna ipotesi si può dimostrare falsa, ma non è affatto detto che qualsiasi ipotesi si possa dimostrare vera. Di fronte alle difficoltà incontrate nel tentativo di salvare un’ipotesi modificandone altre, spetterà ancora una volta allo scienziato decidere se continuare nei suoi sforzi oppure lasciare cadere l’ipotesi in discussione. La logica lascia sempre aperte entrambe le strade. La tesi di Duhem riguarda la singola ipotesi, mentre resta aperta, sebbene su questo punto il suo linguaggio sia oscillante, la possibilità di falsificare una teoria; essa è inoltre limitata alla fisica, non riguarda la logica, la matematica, né altre discipline empiriche come la fisiologia. Nel primo neopositivismo, sotto l’influenza di Carnap (nel cui pensiero dell’opera di Duhem non si trovano tracce), la riflessione filosofica si concentrò sulla singola proposizione, considerata la corretta unità significante: erano le singole proposizioni, non le teorie, ad essere analizzate allo scopo di ridurle a combinazioni più o meno complesse di proposizioni a contatto con l’esperienza (i fatti atomici di Wittgenstein o le proposizioni protocollari di Schlick e Carnap). Obiettivo di questa analisi era la possibilità di stabilire la verificabilità empirica (dunque la significanza) di una proposizione mediante la sostituzione dei termini teorici presenti in essa con un combinazione di termini osservativi, attribuendo all’esperienza la capacità di stabilire la verità (o la fal-
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sità) delle proposizioni dotate di significato. Nel corso di un’accanita polemica sulla natura delle «proposizioni protocollari», che avrebbero dovuto fungere da tramite tra la proposizione (il linguaggio) e l’esperienza (il mondo), emerse la concezione «fisicalista» di Neurath che, in modo del tutto indipendente da Duhem, propose una concezione olistica della scienza radicalmente convenzionalista. Neurath non parte dalla riflessione sulla natura delle teorie scientifiche, né su quella dell’attività sperimentale, come aveva fatto Duhem, ma da un interesse per la filosofia del linguaggio. Per Neurath, una proposizione è un fatto fisico, un insieme di segni ordinato che ha la stessa natura dei fatti di cui la scienza si occupa; il linguaggio non è un simbolo di qualche cosa che non è linguaggio, ma è piuttosto un elemento primario. «Compiere osservazioni» significa semplicemente scrivere degli enunciati, come gli «enunciati protocollari» che descrivono esperienze osservative semplici, e il confronto tra una proposizione e l’esperienza è in realtà un confronto tra proposizioni. In un dato momento storico, ogni nuova proposizione è confrontata con la totalità delle proposizioni già condotte a un accordo le une con le altre e si dirà che la proposizione è corretta (vera) quando essa può venire inserita nel sistema di proposizioni preesistente; la verità non è corrispondenza tra linguaggio e realtà, ma è coerenza delle proposizioni tra di loro. Tutto ciò che non possiamo inserire in questo sistema coerente viene generalmente rigettato come non corretto (falso); è chiaro, tuttavia, che esiste anche la possibilità invece di rifiutare la nuova proposizione che non si accorda con il resto, di cambiare il precedente sistema di proposizioni finché la nuova proposizione possa essere inserita. Sebbene Neurath non faccia riferimento a Duhem, egli arriva comunque a concludere che ciò che si suol chiamare confronto con l’esperienza avviene mettendo in discussione un sistema di proposizioni, non la singola proposizione. Nonostante questo esito, Neurath continuò a considerare la singola proposizione come unità significante. Altri autori dell’area neopositivista si spinsero oltre. Carl Hempel all’inizio degli anni cinquanta partì dal problema di definire i termini teorici presenti nella scienza, criticando la concezione neopositivista ortodossa che cercava di definire tali termini esplicitamente o operativamente usando solo termini osserva-
Duhem-Quine tivi. A suo parere i termini teorici devono essere introdotti nella scienza dalle teorie, il che significa che un termine teorico è in effetti definito implicitamente non da termini osservativi, ma dalla teoria. Tuttavia, poiché dalla teoria sono deducibili proposizioni confrontabili con l’esperienza che non contengono il termine in questione, si deve dire che è la teoria intesa come un tutto unitario ad avere un significato empirico, ed è solo la teoria che può essere confermata o falsificata. Decisamente critico nei confronti del neopositivismo fu il celebre intervento del 1951 di Willard van Orman Quine, Two Dogmas of Empiricism. I due dogmi che Quine intende mettere in discussione, in aperta polemica con Carnap, sono la distinzione netta tra proposizioni analitiche (vere per la loro forma linguistica) e proposizioni sintetiche (vere in base all’esperienza) e il riduzionismo, cioè la credenza che ogni proposizione dotata di significato sia equivalente a qualche costrutto logico con termini che si riferiscono all’esperienza immediata. Quine assume una prospettiva linguistica, senza prestare alcuna attenzione alle problematiche più legate alle teorie scientifiche e alla sperimentazione e il nome di Duhem è citato solo in nota, ciononostante questo saggio sarà poi unanimemente indicato come il testo in cui è esposta la tesi Duhem-Quine. Quine parte dalla ricerca di una chiara definizione di analiticità, soffermandosi in particolare sulla definizione fondata sull’impiego del concetto di «sinonimia»: analitica è una proposizione che può essere trasformata in una verità logica sostituendo sinonimi con sinonimi. Tuttavia, le relazioni di sinonimia si basano su usanze linguistiche, non su definizioni, dunque anche la definizione di analiticità, data partendo dalla nozione di sinonimia, viene a reggersi su usanze, su conoscenze empiriche, non è chiarificabile rigorosamente. Questa e altre argomentazioni conducono a dover ammettere che è impossibile tracciare una linea di demarcazione chiara tra enunciati analitici, la cui verità dipende solo dalla forma linguistica, e sintetici, la cui verità dipende solo dall’esperienza. Ogni enunciato è vero in dipendenza tanto da componenti linguistiche, quanto da componenti fattuali, ma non è possibile disegnare nettamente ciò che le separa. Se non esistono enunciati la cui verità dipende solo dall’esperienza, allora cade anche l’altro dogma, quello del riduzionismo, che si fonda sull’idea che esistano 3131
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Duhem-Quine enunciati che, presi isolatamente, si possano dichiarare veri o falsi senza ambiguità in base a esperienze sensoriali. La scienza nel suo complesso ha una doppia dipendenza dal linguaggio e dall’esperienza, ma questa dualità non è individuabile all’interno degli enunciati della scienza presi uno a uno. La conclusione è dunque analoga a quella di Duhem: le nostre affermazioni sul mondo esterno affrontano il tribunale dell’esperienza non individualmente, ma solo come un tutto organico. L’unità di significanza empirica è l’intera scienza. Allorquando incontriamo un disaccordo tra il complesso degli enunciati scientifici e l’esperienza siamo liberi di ritoccare qualsiasi enunciato per sanare la contraddizione, nessuna esperienza può costringerci a dichiarare falso un singolo enunciato. Le differenze rispetto alla formulazione duhemiana sono tuttavia rilevanti. Innanzi tutto Quine generalizza all’intera scienza un discorso che Duhem mantiene nei limiti delle teorie della fisica: per Quine anche la logica e la matematica, oltreché le varie discipline empiriche, fanno parte del complesso di enunciati che viene messo a confronto con l’esperienza e per salvare un’ipotesi è lecito ritoccare anche logica e matematica. In secondo luogo Quine non solo ritiene che una singola ipotesi non venga condannata dall’esperienza, ma sostiene anche che qualsiasi ipotesi può essere salvata, che qualsiasi enunciato può essere mantenuto vero qualsiasi cosa accada, se si fanno riaggiustamenti drastici in qualche altra parte del sistema. Con la riformulazione datane da Quine, la tesi duhemiana cominciò negli anni cinquanta a circolare anche in ambiente anglosassone, che l’aveva in precedenza quasi ignorata. Fu solo allora che Karl Popper si accorse che la critica agli esperimenti cruciali falsificanti era una obiezione devastante per la sua filosofia. Nella Logik der Forschung del 1934 Popper aveva presentato una filosofia della scienza radicalmente alternativa a quella neopositivista incentrata sull’idea che la scienza sia un insieme di enunciati falsificabili empiricamente, anziché verificabili. In questo testo egli non prese in considerazione l’argomento di Duhem, che negava il suo presupposto di partenza, cioè che il singolo enunciato sia falsificabile, limitandosi a dichiarare (in nota) che la critica duhemiana era rivolta contro gli esperimenti cruciali verificanti, cosa del tutto inesatta. Dopo l’apparizione del saggio di Quine l’argomento non po3132
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teva più essere aggirato e Popper in vari saggi lo affrontò elaborando la nozione di «conoscenza di sfondo». Quando discutiamo di un problema, per esempio il risultato inaspettato di un’esperienza, sostiene Popper, accettiamo sempre (anche solo provvisoriamente) elementi di ogni genere in maniera non problematica, come elementi garantiti: essi costituiscono, provvisoriamente e relativamente alla discussione di quel particolare problema, una conoscenza di sfondo non problematica. Nessun elemento di questa conoscenza è a rigor di logica immune dalla falsificazione, tuttavia la maggior parte della vasta conoscenza di sfondo che usiamo resta fuori discussione per ragioni pratiche: senza ammettere nulla di garantito (provvisoriamente), rimettendo in forse tutto, la discussione razionale, la critica, non sarebbero possibili, occorrerebbe sempre ripartire da dove ha cominciato Adamo. Ammettendo la conoscenza di sfondo, la tesi Duhem-Quine perde molta della sua forza e diventa possibile mettere alla prova alcune particolari ipotesi senza dover necessariamente mettere in discussione l’intera scienza. Una dura critica alla tesi Duhem-Quine fu compiuta negli anni sessanta in una serie di lavori di Adolf Grünbaum. Egli sostenne che la tesi di Duhem-Quine è falsa perché si è in grado di costruire un controesempio: la falsificazione della geometria fisica. La critica non sembra cogliere il bersaglio, almeno per quello che riguarda Duhem, il quale sostenne che non è falsificabile la singola ipotesi, ma non escluse la possibilità di falsificare una teoria, qual è la geometria fisica. Grünbaum insistette anche su un secondo punto: anche ammettendo che un’esperienza non possa falsificare un’ipotesi, non vi è modo di garantire che quest’ipotesi possa essere salvata effettivamente. Ma Duhem non affermò mai che l’impossibilità di falsificare un’ipotesi in modo definitivo sia equivalente alla possibilità di salvare effettivamente quell’ipotesi, questa fu semmai l’opinione di Quine. In difesa di Duhem vari autori (Laurens Laudan, Giancarlo Giannoni, Gary Wedeking) operarono una distinzione tra una versione forte della tesi di Duhem-Quine, che non è sostenuta da Duhem, la quale afferma che chi nega che un’ipotesi sia falsificata deve mostrare in che modo essa può essere salvata, e una versione debole, propria di Duhem, secondo cui chi nega un’ipotesi deve mostrare che non vi è modo
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di salvarla. La critica di Grünbaum vale contro la prima, non contro la seconda. Nel corso degli anni sessanta la tesi di Duhem - Quine, sulla cui importanza per la teoria della conoscenza insistette Mary Hesse, fu inserita in un ampio contesto filosofico da lavori importanti come The Structure of Scientific Revolutions (Chicago 1962) di Thomas S. Kuhn e Against Method (1970) di Paul Feyerabend. Per Kuhn la normale attività degli scienziati avviene sulla base di risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una comunità scientifica riconosce, per un certo periodo di tempo, la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore. Grandi opere come quelle di Aristotele o di Newton hanno per lungo tempo definito i problemi e i metodi da considerarsi legittimi in un determinato campo, hanno avuto la funzione che hanno i paradigmi dei verbi nello studio delle lingue. Il paradigma scientifico dominante in un dato periodo orienta tutta l’attività di ricerca, tanto teorica quanto sperimentale, verso la soluzione di quei problemi che sono rimasti aperti. Lo scienziato che opera dentro un paradigma si comporta come un solutore di rompicapo, poiché agisce dando per presupposto che, entro il suo paradigma, esista la soluzione del problema che affronta. Se non si riesce a risolvere qualche problema, in particolare se alcuni esperimenti sembrano falsificare il paradigma, la reazione spontanea è quella di attribuire la colpa del fallimento non al paradigma, ma alla scarsa abilità dello scienziato; non sarà certo la singola anomalia a far dichiarare falsa la teoria. Il confronto tra il paradigma e l’esperienza è sempre un confronto complessivo, un bilancio tra il paradigma e l’insieme delle esperienze ad esso relative. Può darsi che le anomalie persistano e si moltiplichino, che il paradigma manifesti segni di crisi; questa crisi è la fase preparatoria all’avvento di un nuovo paradigma, la premessa a una rivoluzione scientifica. Il nuovo paradigma è una risposta alla crisi del vecchio, una rivoluzione scientifica è il passaggio da un paradigma dominante a un altro paradigma dominante. Solo l’avvento del nuovo paradigma falsifica quello vecchio. Il passaggio al nuovo paradigma non avviene in base a esperienze cruciali che falsificano il vecchio: i singoli scienziati aderiscono al nuovo paradigma per ragioni di vario genere e di solito per parecchie ragioni nello stesso tempo; alcune di queste ragioni si trovano completamente al
Duhem-Quine di fuori della sfera della scienza e riguardano le convinzioni filosofiche e religiose. In questa ampia concezione della natura della scienza kuhniana la forza decisionale dell’esperimento falsificante si indebolisce fino ad assumere funzioni del tutto sussidiarie. Entro l’«anarchismo metodologico» di Paul Feyerabend il ruolo degli esperimenti falsificanti diventa ancor più evanescente. Per Feyerabend non esiste la possibilità di porre in evidenza un insieme di regole che lo scienziato sarebbe obbligato a rispettare, un metodo scientifico. Le maggiori rivoluzioni sono avvenute solo perché alcuni scienziati decisero di violare norme metodologiche, ivi compresa la condizione di coerenza con le ipotesi già accettate. Non solo: soprattutto per teorie ricche di novità, le aspettative teoriche si possono trovare in profondo contrasto con i dati empirici, ma non per questo sono state abbandonate, poiché sono lecite molteplici strategie, in primo luogo l’applicazione della tesi di Duhem-Quine nella versione forte, che consentono di proseguire lungo la strada intrapresa. L’esperienza sembra non avere più alcun potere falsificante. Con la mediazione di queste filosofie, che indeboliscono il ruolo giocato nello sviluppo scientifico dall’esperimento, la tesi di Duhem-Quine negli ultimi decenni è stata accolta dalla sociologia della scienza, ad esempio nei lavori di Andrew Pickering. Tra i pensatori ispirati dal pensiero di Popper, un impegnato tentativo di salvare la nozione di falsificabilità di fronte a questi attacchi è stato fatto da Imre Lakatos. Per Lakatos l’impresa scientifica si sviluppa mediante unità complesse che sono programmi di ricerca. Un programma è costituito da un nucleo, che è un insieme di ipotesi di particolare importanza accettato come (provvisoriamente) non confutabile, una euristica che indica quali problemi affrontare, i modi leciti e quelli illeciti per farlo e un insieme di ipotesi di importanza minore che formano, con l’euristica, una cintura protettiva che ha lo scopo di preservare il nucleo. Secondo questa prospettiva, ciò che si confronta con l’esperienza è una unità complessa e articolata e le anomalie riscontrate non hanno il potere di falsificare le principali ipotesi teoriche. Per Lakatos i programmi di ricerca navigano sempre in un mare di anomalie, lavorando sulla cintura protettiva allo scopo di preservare il nucleo; non esiste alcun esperimento cruciale in grado di decidere senza ap3133
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Dühring pello la sorte di un programma. La falsificazione di un programma avviene solo a opera di un programma rivale: allorquando un programma di ricerca si sviluppa senza mai anticipare fatti nuovi, inattesi, ed esiste invece un programma rivale che vive producendo, almeno di tanto in tanto, previsioni sorprendenti confermate dall’esperienza, allora è razionale abbandonare il primo per il secondo. D’altra parte, poiché nessuno può garantire che il programma vecchio non cominci a produrre novità, è anche razionale non aderire al nuovo e si tratta dunque di una falsificazione sempre soggetta al dubbio e rivedibile. Un ritorno all’impostazione originale di Duhem è rappresentato da alcuni autori che, a partire dagli anni ottanta, hanno posto al centro della propria attenzione l’analisi delle procedure sperimentali della fisica, particolarmente quelle della fisica delle particelle elementari (I. Hacking, P. Galison, A. Franklin). Costoro hanno cercato di mettere a fuoco alcune strategie mediante le quali i fisici normalmente cercano di accrescere la forza persuasiva di un risultato sperimentale. Alla tesi di Duhem-Quine viene riconosciuto un valore logico ed epistemologico fondamentale, ma si cerca di ricostruire modalità mediante le quali si possa realmente imparare dall’esperienza aumentando la nostra fiducia nei risultati sperimentali ottenuti. Negli anni novanta la tesi di Duhem-Quine è stata estesa all’economia, ed è stato affrontato il problema se sia possibile falsificare le singole ipotesi economiche o le diverse teorie economiche, giungendo a conclusioni spesso negative (A. Boitani, A. Salanti, D.M. Hausman), nonostante non siano mancati tentativi di segno opposto (Th.A. Boylan, Paschal F. O’Gorman). La tesi di DuhemQuine è venuta così a occupare un ruolo sempre più importante nella riflessione epistemologica e filosofica. R. Maiocchi BIBL.: S.G. HARDING (a cura di), Can Theories Be Refuted?, Dordrecht 1976; I. HACKING, Representing and Interventing, Cambridge 1983, tr. it. di E. Prodi, Conoscere e sperimentare, Roma-Bari 1987; R. ARIEW, The Duhem Thesis, in «The British Journal of the Philosophy of Science», 35 (1984), pp. 313-325; D.M. HAUSMAN, The Inexact and Separate Science of Economics, Cambridge 1992; Y. BALASHOV, Duhem, Quine and the Multiplicity of Scientific Tests, in «Philosophy of Science», 61 (1994), pp. 608-628; P. GALISON, Ima-
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ge and Logic, Chicago 1997; A. FRANKLIN, Can That Be Right? Essays on Experiment, Evidence and Science, Dordrecht 1999.
DÜHRING, KARL EUGEN. – Filosofo tedesco, Dühring n. a Berlino il 12 genn. 1833, m. a Nowawes (oggi presso Potsdam) il 21 sett. 1921. Studia diritto a Berlino e inizia la carriera giuridica, ma a causa di una malattia agli occhi che lo rende quasi cieco non può diventare giudice. Nel 1863 si abilita con Trendelenburg in filosofia e più tardi anche in economia politica. Sospeso dall’insegnamento universitario nel 1877 a causa dei suoi atteggiamenti fortemente polemici provocatigli anche dal suo carattere orgoglioso, continua imperterrito la sua attività di filosofo e scienziato come libero scrittore. Si interessa di matematica, fisica, chimica, in particolare di economia; la sua produzione è molto vasta e spazia per i campi più disparati. Uno dei suoi meriti consiste nell’opera di storico della scienza e dell’economia, come documentano le opere: Kritische Geschichte der Nationalökonomie und des Sozialismus, Leipzig 1871; Kritische Geschichte der allgemeinen Prinzipien der Mechanik, Berlin 1873). A partire dal 1899 ha pubblicato la rivista «Personalist und Emanzipator». Più che un dotto, egli vuole essere un riformatore: il suo sogno è quello di trasformare la società in base ai principi della sua filosofia, che definisce Wirklichkeitsphilosophie; si tratta di una forma di positivismo materialistico, per cui «sentire e pensare sono stati di eccitazione della materia» (Der Wert des Lebens, Breslau 1865, p. 79); però il suo materialismo non è meccanicistico, bensì permette una visione dinamico-organica della realtà che si riflette in una concezione ottimistica della vita. Per Dühring la morale deriva dalla volontà; un comportamento morale è possibile solo nel rapporto reciproco tra gli uomini, in cui deve valere il principio di giustizia (Gerechtigkeitsprinzip), che è il punto basilare per le riforme politico-sociali propugnate da Dühring. Nella filosofia politica lo stato è concepito come il risultato di un’originaria situazione di violenza che si perpetua sino ai nostri giorni nell’esercizio del potere politico. Dühring vi contrappone il concetto di «giustizia naturale» e vuole eliminare questo elemento di violenza dalla società mediante la creazione di un «sistema socialitario».
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Il socialismo di Dühring si distingue nettamente dal marxismo per l’importanza che annette all’individuo e per il rifiuto della rivoluzione; anzi egli cerca di conciliare i principi del liberalismo economico (A. Smith) e dell’economia di mercato con le esigenze di giustizia e di eguaglianza del socialismo. Così egli propugna l’unione dei lavoratori e dei deboli in «coalizioni sociali» che si debbono sviluppare economicamente nel libero gioco della concorrenza. Tale sistema socialitario è il primo cosciente tentativo di mediazione e sintesi tra socialismo e liberalismo. La filosofia della religione di Dühring è caratterizzata da una violenta polemica contro il motivo della «servitù dell’uomo», tipico della religione ebraica, ma presente anche nel cristianesimo; bisogna eliminare questo elemento «asiatico» dalla religione, la cui essenza consiste nell’educazione etica (Geistesführung) la cui forma suprema è la Selbstführung. La sua continua polemica con il marxismo, col militarismo, con la politica di Bismark, con la filosofia accademica, il suo fanatico antisemitismo e la sua generica avversione contro ogni religione, gli crearono molti nemici e gli resero la vita difficile. Sono rimasti famosi gli articoli scritti contro di lui in «Vorwärts» da F. Engels, raccolti poi in volume, testimonianza dei timori nutriti dai marxisti di una diffusione delle idee di Dühring tra la classe operaia. Nel 1924 è stato fondato da E. Döll un Dühring-Bund. M. Durissini BIBL.: Kritische Geschichte der Philosophie, Berlin 1869; Logik und Wissenschaftstheorie, Leipzig 1878; Der Ersatz der Religion durch Vollkommeneres, Karlsruhe 1883; Wirklichkeitsphilosophie, Leipzig 1895. Su Dühring: H. VAIHINGER, Hartmann, Dühring und Lange, Iserlohn 1876; F. ENGELS, Herrn Eugen Dühring’s Umwälzung der Wissenschaft, Leipzig 1878, tr. it. di G. de Caria, Anti-Dühring, Roma 1985; E. DÖLL, Eugen Dühring, Leipzig 1893; G. ALBRECHT, Eugen Dührings Wertlehre, Jena 1914; G. ALBRECHT, Eugen Dühring, Jena 1927; H. BINDER, Das sozialitäre System Eugen Dührings, Jena 1933; B. CROCE, «Il signor Dühring», in «Quaderni della critica», 13 (1949), pp. 45-60; G. KRAUSE, Eugen Dühring in the Perspective of Karl Marx and Friedrich Engels, in «Journal of Economic Studies», 29 (2002), pp. 345363.
DUMAS, JEAN-BAPTISTE-ANDRÉ. – Chimico Dumas francese, n. ad Alais (Gard) nel 1800, m. a Cannes nel 1884.
Dumbleton A trentadue anni succedeva a L.J. Gay-Lussac sulla cattedra della Sorbona. È considerato in Francia il fondatore della chimica organica, e fu uno dei più grandi chimici della prima metà del sec. XIX. Contro le teorie elettrochimiche di Berzelius, allora largamente accettate, egli oppose una teoria unitaria della materia, che, attraverso i lavori di altri chimici, condusse (1869) alla scoperta di D.I. Mendeleev. Oltre alle numerosissime memorie, sono tuttora ricordate tre sue opere fondamentali: Traité de chimie appliquée aux arts, Paris 182845, 8 voll.; Leçons sur la philosophie chimique (per due terzi di carattere storico), ivi 1837; Essai de statique chimique des êtres organisés, ivi 1841. M. Gliozzi BIBL.: J. PETREL, La négation de l’atome dans la chimie du XIXème siècle. Le cas de Jean-Baptiste Dumas, Paris 1979; M. CHAIGNEAU, Jean-Baptiste Dumas. Sa vie, son ouvre: 1800-1884, Paris 1984.
DUMBLETON, GIOVANNI. – Fellow al Merton Dumbleton College di Oxford, logico e filosofo della natura attivo tra il 1338 e il 1347/8. Prese forse parte alla fondazione del Queen’s College (1340). Si conoscono un suo commentario teologico, intitolato Summa theologiae maior, in dieci libri (Oxford, Magdalen College, cod. 195, ff. 1-131) e una Summa logicae et philosophiae naturalis (Vat. lat. 6750, ff. 1-202). In logica segue le teorie innovatrici di Ockham; così in etica, accedendo al determinismo etico-teologico. In fisica accetta la teoria averroista a proposito della questione circa la conservazione degli elementi nelle sostanze composte, affermando che, contrariamente alle forme delle sostanze superiori, le forme delle elementari possono subire una diminuzione di intensità (remissio), e pertanto, dall’unione di queste forme remissae, risulta una forma entitativa perfetta unica, la forma mixti. Possono essere soggette a intensione e remissione, superando la difficoltà determinata dal principio secondo cui «forma substantialis non suscipit plus vel minus», in quanto rappresentano qualcosa di intermedio tra sostanza e accidente. A. Pompei BIBL.: A. MAIER, An der Grenze von Scholastik und Naturwissenschaft, Roma 1952; E.D. SYLLA, The Oxford Calculators and Mathematical Physics: John Dumbleton’s Summa logicae et philosophiae naturalis, part II and III, in S. UNGURU (a cura di), Physics, Cosmology and Astronomy, 1300-1700: Tension and Accomodation, Dordrecht 1991, pp. 129-161; E.D. SYLLA, The
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Duméry Oxford Calculators and Mathematics of Motion 13201350. Physics and Measurement by Latitudes, New York - London 1991.
DUMÉRY, HENRY. – Filosofo della religione Duméry francese, n. ad Auzances il 29 febbr. 1920. Dopo la formazione teologica sotto la guida di J. Trouillard, uno dei massimi studiosi francesi del neoplatonismo, nel 1941 conobbe personalmente M. Blondel di cui divenne in seguito assistente fino alla morte di questi (1949). Ha insegnato filosofia nell’università di Caen e, a partire dal 1966, filosofia e storia delle religioni a Paris-Nanterre. L’opera di Duméry si caratterizza per il tentativo di elaborare una compiuta filosofia della religione. Per fare ciò muove dal pensiero di Blondel (cfr. La philosophie de l’action. Essai sur l’intellectualisme blondelien, Paris 1948, tr. it. Bari 1973, Blondel et la religion, ivi 1954 e la seconda parte de La tentation de faire du bien, ivi 1956), dove, particolarmente nell’Action (1893) e nella Lettre sur l’apologétique, egli individua il compito di questa disciplina nel preservare la specificità del fenomeno religioso ottemperando nel contempo alle istanze critiche della filosofia moderna. A questa fondamentale ispirazione blondeliana si combina (cfr. Foi et interrogation, ivi 1954; Regards sur la philosophie contemporaine, ivi 1956) quella plotiniana e quella proveniente da varie correnti della filosofia contemporanea, come la fenomenologia husserliana e l’esistenzialismo sartriano. Sulla base di esse, e in modo un po’ sincretico, Duméry ha elaborato un progetto sistematico di filosofia della religione che ha trovato espressione in un gruppo di opere pubblicate tutte nel 1957: Critique et religion. Problèmes de méthode en philosophie de la religion, ivi; Le problème de Dieu en philosophie de la religion. Examen critique de la catégorie d’Absolu et du schème de transcendance, ivi; Philosophie de la religion. Essai sur la signification du christianisme, ivi, 2 tt.; La Foi n’est pas un cri, Tournai-Paris. Di esse, la prima costituisce il discorso sul metodo in cui vengono esaminati e discussi alcuni dei tradizionali modelli di filosofia della religione; la seconda offre un’originale dimostrazione dell’esistenza di Dio chiamata riduzione apofatica o henologica; la terza, nel primo tomo, sviluppa un’antropologia a sfondo neoplatonico che considera la religione come fenomeno essenzialmente spirituale e che rappresenta il presupposto dell’analisi critica di alcune cate3136
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gorie e di alcuni schemi del cristianesimo, svolta nel secondo tomo. L’ultimo scritto è una ripresa di questa analisi critica che, nelle intenzioni di Duméry, avrebbe dovuto estendersi all’intero corpo dottrinale del cristianesimo con l’obiettivo di chiarirne la genesi e di illustrarne il senso. L’ambizioso progetto di Duméry non ha però trovato prosecuzione: le opere pubblicate nel 1957, messe all’Indice con decreto del Sant’Uffizio nel 1958, trovarono una ricezione, quasi esclusivamente critica, soltanto in ambito teologico. Dapprima impegnato nell’offrire una sintesi della propria filosofia della religione (Phénoménologie et religion. Structures de l’institution chrétienne, Paris 1958) e poi nel replicare su vari fronti ai molti critici (La Foi n’est pas un cri, suivi de Foi et institution, ivi 1959; Raison et Religion dans la philosophie de l’action, ivi 1963), Duméry non ha dato seguito al progetto iniziale, pubblicando dopo il 1966 soltanto alcuni brevi articoli sull’interpretazione contemporanea del neoplatonismo. La filosofia della religione ha il compito per Duméry di «comprendere» le diverse nozioni religiose, cioè di mettere in rilievo il significato razionale di queste ultime senza pregiudicarne la realtà. Ciò è possibile grazie al metodo che egli chiama della «discriminazione», risultante da un’integrazione fra il metodo dell’immanenza blondeliano e l’epoché fenomenologica husserliana, in base al quale vengono distinti diversi livelli della coscienza (intelligibile, razionale, psico-empirico). Se il primo livello è quello in cui lo spirito finito si auto-costituisce in virtù della processione dall’«Uno», l’assoluto trans-categoriale della filosofia plotiniana, gli altri due permettono di oggettivare la «conversione all’Uno» che trova nella religione la sua l’espressione attiva e voluta. Tale oggettivazione si realizza per mezzo di categorie e di schemi con i quali lo spirito finito, in quanto razionale e incarnato, esprime il proprio dinamismo interiore verso l’Uno, il quale tuttavia rimane ad esso assolutamente trascendente. La filosofia della religione costituisce il momento riflessivo di quest’atto vitale e si applica alle categorie e agli schemi religiosi con l’intento di «ridurli» criticamente, cioè di stabilire il loro grado di adeguazione al dinamismo interiore. I capisaldi di questa concezione sono rappresentati dal rifiuto della ontologia partecipazionistica tra Dio e il mondo e dall’assunzione di una rigorosa teologia apofatica che si spinge fino alla negazione del
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carattere personale di Dio. Su questa base Duméry ha sviluppato un’interpretazione del cristianesimo, largamente influenzata dalla filosofia spinoziana e hegeliana, volta ad apprezzarne la superiorità rispetto alle altre religioni in virtù del carattere spirituale e interiore delle sue rappresentazioni. Le critiche da parte teologica a Duméry si sono appuntate soprattutto sul suo rifiuto dell’ontologia e la sua sostituzione con l’henologia plotiniana. A. Aguti BIBL.: L. MALEVEZ, Transcendance de Dieu et création des valeurs. L’absolu et l’homme dans la philosophie de H. Duméry, Paris 1958; H. VAN LUIJK, Philosophie du fait chrétien. L’analyse critique du Christianisme de H. Duméry, Paris 1964; G. DE VETH, L’homme créateur. Essai sur l’antropologie développée par M.H. Duméry dans sa philosophie de la religion, Liège 1966; J.M. VELASCO, Hacia una filosofía de la religión cristiana. La obra de H. Duméry, Madrid 1970; R.F. DE BRABANDER, Religion and Human Autonomy. H. Duméry’s Philosophy of Cristianity, The Hague 1972; A. AGUTI, H. Duméry. Filosofia della religione e critica del cristianesimo (con bibliografia finale), Brescia 2004.
DUMÉZIL, GEORGES. – Linguista e storico Dumézil delle religioni, n. a Parigi il 10 giu. 1898, m. a Parigi l’11 ott. 1986. Insegnò Storia delle Religioni dal 1925 al 1931 presso l’università di Istanbul, fu dal 1919 al 1968 membro del Collège de France e, dal 1978, dell’Académie Française. Muovendo dallo studio della cultura romana, Dumézil teorizza l’esistenza, nelle società indoeuropee, di una «ideologia delle tre funzioni», che struttura sia la realtà, sia l’immaginario e che può essere riscontrata nell’organizzazione sociale, nella letteratura, nelle credenze religiose: la funzione della sovranità (Giove), quella guerriera (Marte), quella riproduttiva (Quirino). La prima funzione, inoltre, vivrebbe del dualismo tra una valenza giuridico-politica, rappresentante dell’ordine costituito e strutturato, e una magico-religiosa, la quale (interagendo con la funzione guerriera) presiederebbe, invece, al momento istitutivo di tale ordine. Fra i testi a cui Dumézil rimanda a sostegno dell’esistenza dell’«ideologia delle tre funzioni», sono pressoché assenti quelli di carattere filosofico, tanto per la cultura indiana, quanto per quella greca; la riflessione filosofica e, soprattutto, la realtà sociale di tipo democratico di cui essa è espressione avrebbero
Dummett infatti alterato, secondo Dumézil, l’ideologia indoeuropea originaria. S. Borutti BIBL.: Jupiter, Mars, Quirinus, Paris 1955; Les dieux des Germains. Essai sur la formation de la religion scandinave, Paris 1965; Le livre des héros, légendes sur les Nartes, Paris 1965; La religion romaine archaïque, Paris 1966; Mythe et épopée, vol. I: L’idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris 1968; Mythe et épopée, vol. II: Types épiques indo-européens: un héros, un sorcier, un roi, Paris 1971; Mythe et épopée, vol. III: Histoire romaine, Paris 1973; Les dieux souverains des Indo-Européens, Paris 1977. Su Dumézil: J.C. RIVIÈRE, Georges Dumézil à la découverte des indo-européens, Paris 1979; AA.VV., Georges Dumézil: cahiers pour un temps, Paris 1981; D. ERIBON, Faut-il brûler Dumézil?, Paris 1982; D. DUBUISSON, Mythologies du XX siècle, Lille 1993.
DUMMETT, MICHAEL . – N. a Londra nel Dummett 1925. Ha studiato al Christ Church College di Oxford, ottenendo una fellowship al All Souls College, e in seguito al New College. Nel 1979 è diventato Wy Reham Professor di logica a Oxford, ed è divenuto cavaliere della regina nel 1999. Sir M. Dummett, noto anche in campo politico-sociale per le sue lotte per le minoranze etniche, si rivela al pubblico filosofico internazionale con il suo primo libro Frege, Philosophy of Language (London 1973). In questo testo presenta una visione complessiva dell’opera di Frege, rivelandone la influenza profonda su tutta la filosofia del linguaggio. Prima Frege era soprattutto il rappresentante del logicismo – una dottrina in filosofia della matematica – e il logico il cui sistema formale era stato denunciato come contraddittorio da B. Russell. Dopo Dummett Frege diviene il fondatore della filosofia analitica moderna, l’autore che influenzò non solo grandi autori come Husserl, Russell, Carnap e Wittgenstein, ma ebbe un effetto duraturo su tutto il dibattito filosofico del XX secolo. La svolta di Frege, che Dummett fa sua, è quella di riportare la logica al centro della filosofia, dopo che ne era stata estromessa da Descartes e Locke, che ponevano al centro della filosofia l’epistemologia. La domanda dei filosofi moderni era: come possiamo conoscere i concetti? La domanda di Frege è: cosa è un concetto, di cui ci domandiamo l’origine? Più che di logica si potrebbe parlare di ontologia o, come fa Dummett, di una teoria sistematica del significato. La «svolta 3137
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Dumoulin linguistica» inaugurata da Frege è stata quella per cui non è più possibile un’analisi della struttura del pensiero (e del concetto) che non passi attraverso un’analisi della struttura e del funzionamento del linguaggio. Dummett basa su questa visione della svolta linguistica una sua originale interpretazione della filosofia analitica, delle sue origini e del suo carattere fondamentale. Alle origini della filosofia analitica si situano Frege e Husserl, anche se è il primo ad aver individuato, con il concetto di «senso di un enunciato», la strada maestra per giungere ad una analisi del pensiero. Comune a entrambi – ma l’origine dell’idea è di Frege – è l’antipsicolgismo: i pensieri (o per Husserl i noemi) sono oggettivi e non dipendono dai processi psichici. Frege giustificava la oggettività dei pensieri relegandoli in un terzo regno quasi platonico; Dummett vede nel secondo Wittgenstein l’autore che riconduce l’idea fregeana dell’oggettività dei pensieri all’ambiente in cui essa può essere meglio giustificata: il linguaggio e le pratiche dell’uso linguistico. La filosofia analitica dunque si definisce per la tesi secondo cui il pensiero può essere studiato solo a partire dalla sua espressione linguistica. Questa tesi è stata contestata da molti in ambito analitico, primo tra tutti G. Evans, che pur non rientra nella cosiddetta «filosofia post-analitica». Sulla base di queste idee, sviluppate e chiarite in un intenso dibattito con i suoi critici e in numerose altre pubblicazioni su Frege, l’autore definisce in altri scritti una sua visione del rapporto tra logica e metafisica, impostando in modo nuovo le categorie del dibattito metafisico tra realisti e antirealisti. Il dibattito tra realisti e antirealisti si configura per diversi campi di indagine, dalla matematica alla fisica, alla psicologia e alla sociologia. Cercando di superare la visione ingenua del realismo («esistono» gli enti di cui si parla: esistono i numeri, esistono le funzioni d’onda, esistono le credenze individuali e i desideri collettivi), Dummett propone una nuova definizione del dibattito: la differenza tra realisti e antirealisti si caratterizza per il tipo di enunciati che vengono accettati nelle varie discipline scientifiche. In matematica un realista accetta come significanti enunciati su totalità infinite attuali che l’antirealista (ad es. l’intuizionista in matematica) non accetta; in psicologia il realista accetterà come significanti enunciati che parlano di credenze e desideri mentre l’antirealista 3138
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(ad es. il comportamentista) accetterà nello statuto della sua disciplina solo enunciati in termini di stimolo e risposta. Il dibattito realismo-antirealismo, così concepito, pone il problema di definire cosa si intende per significato di un enunciato e – in ultima analisi – per verità. Per il realista, come Frege e il Wittgenstein del Tractatus, il significato di un enunciato è dato dalle sue condizioni di verità, a prescindere dalla possibilità di riconoscerle: un enunciato è vero o falso a prescindere dalla nostra possibilità di riconoscerlo come tale. Per un antirealista, come il secondo Wittgenstein, o un intuizionista in matematica, il significato di un enunciato è dato dalle condizioni di asseribilità o dalle condizioni alle quali può essere giustificato (o, in matematica, dimostrato). La verità dunque non è un concetto così facilmente trattabile né è un concetto puramente formale (come vorrebbero i deflazionisti), ma si definisce come asseribilità giustificata o garantita. Idee di questo genere verranno sviluppate da C. Wright con il concetto di verità come super-asseribilità in condizioni ideali. C. Penco BIBL.: Frege. Philosophy of Language, London 1973, tr. it. a cura di C. Penco, Filosofia del linguaggio: saggio su Frege, Casale Monferrato 1983; Truth and Other Enigmas, London 1978, tr. it. a cura di M. Santambrogio, La verità e altri enigmi, Milano 1986; The Interpretation of Frege’s Philosophy, London 1981; The Logical Basis of Metaphysics, Cambridge (Massachusetts) 1991, tr. it. a cura di E. Picardi, La base logica della metafisica, Bologna 1997; Frege and Other Philosophers, Oxford 1991; The Origins of Analytic Philosophy, London 1993, tr. it. a cura di E. Picardi Origini della filosofia analitica, Torino 2001; On Immigration and Refugees, London 2001; Pensieri. Interviste con Michael Pataut, Genova 2004. Su Dummett: B. ROSSLER, Die Theorie des Verstehens in Sprachanalyse und Hermeneutik: Untersuchungen am Beispiel M. Dummetts und F.D.E. Schleiermachers, Berlin 1990; B. MC GUINNESS - G. OLIVIERI (a cura di), The Philosophy of Michael Dummett, Dordrecht 1994; R. PRESILLA, Olismo e significato nel programma di ricerca di Michael Dummett, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2000; K. GREEN, Dummett: Philosophy of Language, Cambridge (Massachusetts) 2001; B. WEISS, Michael Dummett, Princeton 2002.
DUMOULIN, CHARLES. – Giurista francese, Dumoulin n. a Parigi nel 1500, m. ivi il 27 dic. 1566. Si dedicò agli studi giuridici, occupandosi anche di problemi economici e finanziari. Parte-
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cipò alla lotte giurisdizionalistiche e religiose del suo paese, convertendosi prima al calvinismo e in seguito al luteranesimo. Esiliato in Germania, ottenne d’insegnare a Tubinga e poi a Strasburgo, tornando però successivamente a Parigi. Nel suo Tractatus contractuum et usurarum avversa le teorie degli scolastici circa la proibizione del mutuo oneroso e tratta anche argomenti vari di economia sulle rendite, l’interesse e la moneta. Egli afferma che l’usura non è di per sé illecita, ma lo è soltanto quando avviene in modo fraudolento o prossimo a una circonvenzione. In questo senso si deve giudicare anche degli altri contratti. Dumoulin mirava dunque non alla difesa dell’usura, bensì a favorire un ordine giuridico capace di liberare d’ogni malinteso i contratti favorevoli all’espansione commerciale. Intorno alle rendite, che giuristi ed economisti confondevano con il mutuo, egli rileva che la costituzione di rendite non ha nulla a che vedere con l’usura, ossia con il mutuo a interesse. A. Nobile-Ventura BIBL.: Opera omnia, Paris 1681. Su Dumoulin: F. AUBÉPIN, De l’influence de Dumoulin sur la législation française, in «Revue critique de Législation et de Jurisprudence», 3 (1853), pp. 603625, 778-806; 4 (1854), pp. 27-44 e 261-330; 5 (1854), pp. 32-62 e 305-332; A. NOBILE VENTURA, Le dottrine economiche nel periodo umanistico-rinascimentale, in Grande Antologia filosofica, diretta da U.A. Padovani - M.F. Sciacca, Milano 1954-85, vol. X, pp. 952-954; J.-L. THIREAU, Charles du Moulin (1500-1566). Étude sur les sources, la méthode, les idées politiques et économiques d'un juriste de la Renaissance, Genève 1980.
DUNAN, CHARLES. – Filosofo francese, n. a Dunan Nantes nel 1849, m. nel 1931. Le sue principali opere sono: Essai sur les formes a priori de la sensibilité, Paris 1884; Cours de philosophie, ivi 1893; Théorie psychologique de l’espace, ivi 1895; Essais de philosophie générale, ivi 1898 (19023); Les deux idéalismes, ivi 1911. Dopo aver sostenuto nelle sue prime opere una posizione spiritualista affine a quella di Bergson – fondata sul carattere irriducibile della vita intesa come istinto e spontaneità – e aver professato anche una teoria della percezione che, ponendosi su una via parallela a quella di Husserl, influenzerà la fenomenologia francese, ne I due idealismi Dunan sostiene un «idealismo sperimentale», il cui intento è quello di elaborare, al di là dell’empirismo e dell’idealismo di matrice cartesiana e kantia-
Dunin Borkowski na, una metafisica dell’esperienza concreta della natura, che – collegata anche alla storia, alla scienza e alla religione – sappia sviluppare il «pensiero germinale» di Platone e Aristotele, consistente, a suo modo di vedere, nella comprensione dell’unità di natura e idea, sensibile e intellegibile. L. Ghisleri BIBL.: G. DE RUGGIERO, La filosofia contemporanea, Bari 1920, vol. I, pp. 228-230; J. BENRUBI, La philosophie contemporaine en France, Paris 1933, pp. 680-686; A. JACOB (a cura di), Encyclopédie Philosophique Universelle, Paris 1992, vol. III, coll. 2378-2379.
DUNGAL SAINT-DENIS. – Astronomo Dungal diDI Saint-Denis di origini irlandesi, visse durante il regno di Carlo Magno, ma collaborò anche con il figlio, Ludovico il Pio; m. verso l’827. A Dungal, già interpellato da Carlo Magno in merito alla Quaestio de nihilo sollevata da Fridugisio, abate di Tours, Ludovico affidò il compito di rispondere alle tesi iconoclaste di Claudio di Torino, che aveva individuato nell’Italia settentrionale alcune radicate tradizioni di venerazione di immagini e reliquie. L’iconoclastia, che era stata difesa alla fine del secolo VIII dai teologi carolingi nei Libri Carolini contro i pronunciamenti iconoduli del secondo concilio di Nicea (787), veniva infatti malvista alla corte di Ludovico che, a differenza del padre, voleva migliorare i rapporti con Bisanzio. Dungal, ignorando dunque la tradizione iconoclasta dei Libri, individuò nella distinzione agostiniana tra adorazione (dovuta a Dio) e venerazione (estendibile alle immagini sacre) la giustificazione patristica della iconodulia carolingia. A. Bisogno BIBL.: Responsa contra perversas Claudii Taurinensis episcopi sententias, ed. in J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, vol. CV, coll. 465-430 e in Epistolae, ed. a cura di E. Dümmler, «Monumenta Germaniae Historica: Epistolae karolini Aevi», vol. IV-2, Berlin 1895, pp. 570-585; Carmina, ed. a cura di E. Dümmler, «Monumenta Germaniae Historica: Poetae», voll. I-II, Berlin 1881-84, pp. 411 ss., pp. 664-665. Su Dungal di Saint Denis: G. D’ONOFRIO, La teologia carolingia, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. I: I principi, Casale Monferrato 1996, pp. 152-155 (bibliografia, pp. 184-185); P. ZANNA, Responsa contra Claudium: A Controversy on Holy Images, Firenze 2002.
DUNIN BORKOWSKI, STANISLAUS VON. – Dunin Borkowski Studioso di Spinoza, gesuita, n. a Leopoli l’11 3139
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Dunkmann nov. 1864, m. a Pullach (Monaco di Baviera) l’1 magg. 1934. Insegnò pedagogia a Francoforte. Pur avendo pubblicato anche altri scritti notevoli, la fama di Dunin Borkowski è legata ai suoi studi spinozistici condotti con infaticabile tenacia, rigorosità e completezza di ricerche per oltre trent’anni. Ricordiamo: Zur Textgeschichte und Textkritik der ältesten Lebensschreibung B. Despinozas, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 1904, pp. 1-34 (in polemica con Freudenthal); Nachlese zur ältesten Geschichte des Spinozismus, in «Archiv für Geschichte der Philosophie» 1910, pp. 61 ss.; Der junge De Spinoza. Leben und Werdegang im Lichte der Weltphilosophie, Münster 1910 (a pp. 1-78 bibl. ragionata ed esame critico delle fonti; viene affrontata l’intricata e oscura questione della formazione del pensiero spinoziano, con risultati che in materia, almeno su un piano storico-filologico, si possono considerare definitivi); Spinoza nach dreihundert Jahren, BerlinBonn 1932; infine la grande opera in 4 voll.: Spinoza, Münster 1933-36; il primo volume riproduce il Der junge De Spinoza, gli altri tre, riuniti sotto il titolo: Aus den Tagen Spinozas, Geschehenisse, Gestalten, Gedankenwelt, portano i sottotitoli: Das Entscheidungsjahr 1657 (1933); Das neue Leben (1935); Das Lebenswerk (1936). L’atteggiamento generale di Dunin Borkowski rispetto a Spinoza, come osserva Guzzo, quale risulta da tutte le sue opere, anche se mai formalmente espresso, è piuttosto polemico e negativo, specie in relazione alla originalità del pensiero spinoziano; egli sembra infatti voler mostrare come «non solo non ci sia motivo della sua filosofia che non abbia una lunga storia, ma anche che le idee centrali del sistema sono tutt’altro che peregrine». E nel far ciò egli s’avvale della conoscenza precisa e minuziosa dell’ambiente in cui visse Spinoza, degli studi che egli compì, degli amici con i quali fu in relazione, e fin dei libri che componevano la sua biblioteca. Atteggiamento il suo, comunque, discreto, tale da non turbare mai la serenità, obbiettività e rigorosità del suo giudizio. A. Cardin BIBL.: A. GUZZO, nota in appendice all’ed. parziale dell’Etica, Firenze 1924, pp. 215-217; W. HENTRICH, Eines Spinozaforschers Lebensweg und Lebenswerk, in «Scholastik», 1935, pp. 541-547.
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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
DUNKMANN, KARL. – Teologo e sociologo Dunkmann tedesco, n. ad Aurich il 2 apr. 1868, m. a Berlino il 28 nov. 1932. Insegnò dal 1912 al 1916 nell’università di Greifswald e, successivamente, nella Technische Hochschule für Soziologie di Berlino. Dal 1928 al 1932 diresse l’«Archiv für angewandte Soziologie». Come teologo egli vide nell’autocoscienza religiosa la coscienza normativa, che riconduce all’ultima unità tutte le norme eterogenee. Come sociologo elaborò una «dottrina dei gruppi». Red. BIBL.: opere principali: System theologischer Erkenntnislehre, Leipzig 1909; Metaphysik der Geschichte, Leipzig 1914; Religionsphilosophie, Gütersloh 1917; Die Kritik der sozialen Vernunft, Berlin 1924; Soziologie der Arbeit, Halle an der Saale 1933. Su Dunkmann: H. SAUERMANN (a cura di), Probleme deutscher Soziologie. Gedächtnisgabe für Karl Dunkmann, Berlin 1933; Neue Deutsche Biographie, vol. IV, Berlin 1959, pp. 199-200 (con bibliografia).
DUNS Duns Scoto SCOTO, GIOVANNI. – Filosofo e teologo francescano, n. a Duns nella contea di Berwich (Scozia) tra il 23 dic. 1265 e il 17 mar. 1266, m. a Colonia l’8 nov. 1308. SOMMARIO: I. La vita. - II. Le opere. - III. Il contesto culturale e le fonti. - IV. La controversia tra filosofi e teologi. - V. L’oggetto proprio dell’intelletto umano. - VI. Univocità delle nozioni trascendentali. - VII. Metafisica e teologia naturale. - VIII. Struttura ontologica dell’ente corporeo. - IX. Natura e dignità dell’uomo. - X. La conoscenza. - XI. Il primato della volontà libera. - XII. Filosofia della prassi: 1. L’etica. - 2. La società politica. - XIII. La teologia. I. LA VITA. – Il primo dato biografico attendibile è quello dell’ordinazione presbiterale, avvenuta il 17 marzo 1291 nella chiesa di Sant’Andrea a Northampton per le mani del vescovo di Lincoln Oliviero Sutton, per la quale occorreva aver compiuto i 25 anni di età; pertanto si può fissare la sua data di nascita tra la fine del 1265 e i primi mesi del 1266. Da alcune cronache tardive e da un velato cenno autobiografico sembra che Giovanni Duns abbia frequentato da giovanetto le scuole di grammatica nel convento dei frati minori di Haddington e quindi, per l’interessamento dello zio paterno Elia, vicario dei francescani di Scozia, sia entrato nel noviziato a 15 anni; dopo la professione religiosa fu avviato agli studi di filosofia e di teo-
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logia nel convento dei minori a Oxford in preparazione al sacerdozio e poi destinato al conseguimento dei gradi accademici in teologia, con il prescritto tirocinio di 13 anni, sembra dall’autunno 1288 a quello del 1301. L’ipotesi di un suo soggiorno di studio a Parigi dal 1293 al 1297 è oggi abbandonata dagli studiosi. Nell’estate del 1300 Giovanni Duns era certamente a Oxford dove, come baccelliere, aveva ultimato il commento alle Sentenze di Pietro Lombardo; infatti, il 26 luglio appare nella lista dei frati presentata al vescovo per ottenere la facoltà di confessare i fedeli nella chiesa annessa al convento, inoltre lui stesso accenna alla disfatta dei saraceni in Egitto notificata in Inghilterra nel mese di giugno, mentre attendeva alla revisione della seconda questione del prologo dell’Ordinatio, e poco tempo prima veniva ricordato quale «baccalaureus formatus» in una disputatio del suo reggente Filippo di Bridlington. Forse nell’anno accademico 1300-01 commentò qualche libro della Bibbia, trascorrendo poi un anno di aspettativa (1301-02) nel convento di Cambridge (recentemente alcuni studiosi hanno posto in dubbio un suo insegnamento teologico a Cambridge), dal quale fu inviato, quale segno di distinzione, nel più importante studio dell’ordine, a Parigi, ove riprese a commentare una seconda volta il testo di Lombardo in vista del magistero in teologia. I manoscritti superstiti documentano le sue lezioni sui libri delle Sentenze dall’autunno 1302 al 25 giugno 1303, allorché dovette lasciare Parigi per essersi opposto alla richiesta del re Filippo IV (il Bello) di convocare un concilio per deporre il papa Bonifacio VIII; il nome di Giovanni Scoto compare con gli altri 86 frati minori che si rifiutarono di schierarsi nella lotta contro il pontefice, e così fu costretto a ritornare in patria, pare certo a Oxford, dove completò altri suoi scritti, tenendovi un corso sul III libro delle Sentenze e un ciclo di dispute (collationes) con altri baccellieri. Ristabilita la concordia tra il re e il papa Benedetto XI, probabilmente nella primavera del 1304 poté ritornare a Parigi riprendendo i commentari interrotti nell’anno precedente sotto la reggenza di Gonzalvo di Spagna, nel frattempo eletto ministro generale dei francescani (16 maggio 1304), il quale aveva potuto ammirare personalmente le perspicue doti intellettuali e morali del suo baccelliere scozzese riconosciute ovunque da tutti, e pertanto lo candidò al
Duns Scoto prossimo magistero in teologia (lettera del 18 novembre 1304), conseguito all’inizio del 1305. Quale magister regens di teologia nel convento dei minori, Duns Scoto tenne diverse collationes, sostenendo anche varie dispute quodlibetali nel biennio 1305-07; sennonché, all’apogeo della sua carriera, per ragioni che ancora ci sfuggono, nell’autunno del 1307 fu inviato dal superiore generale quale reggente nel nuovo studio dei minori a Colonia (forse per la sua minacciata incolumità in occasione del processo contro i Templari, o il clima parigino ostile alle sue idee sull’immacolata concezione di Maria, o per un valida opposizione teologica alle dottrine di Meister Eckhart e dei beguardi, o più semplicemente per la necessità di un rapido avvicendamento dei maestri per far posto ai giovani baccellieri), dove improvvisamente l’8 novembre 1308 morì. È sepolto ivi nella Minoritenkirche; il 6 luglio 1991 Giovanni Paolo II ne approvò l’antico culto di beato. II. LE OPERE. – Dopo la morte, gli scritti che il maestro francescano stava rivedendo con diverse annotazioni marginali autografe, correzioni, integrazioni, furono portati dal suo segretario a Oxford, costituendo quel nucleo autentico di opere, denominato dai discepoli immediati «liber Scoti», assai presto smarrite (quando non bruciate nelle pubbliche piazze, come nel 1535 per ordine del segretario di Enrico VIII, Tommaso Cromwell, nel tristemente famoso «funus Scoti et scotistarum». I manoscritti che oggi possediamo riflettono lo stato ancora imperfetto di elaborazione in cui le aveva lasciate la prematura scomparsa del Maestro, con le varie aggiunte e cancellature o vistose lacune da riempire in un secondo momento per le opere più impegnative, e riportano inoltre gli interventi, talvolta discutibili, dei suoi seguaci nei diversi centri di studio francescani d’Europa nell’intento di predisporre dei testi scolastici completi del loro maestro (il cosiddetto Opus oxoniense) con trasposizione di quaestiones da un’opera all’altra, manomissioni, scelte arbitrarie di varianti, e perfino l’attribuzione di opere spurie. Ciò spiega la difficoltà e la lentezza con cui negli ultimi decenni sono dovute procedere le commissioni per un’edizione critica del corpus scotianum, stante che l’unica edizione finora disponibile era quella fornita in 12 volumi a Lione nel 1639 dal francescano irlandese Luca Wadding (riedita a Parigi da Ludovico Vivès nel 1891-95), incom3141
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Duns Scoto pleta, sovente non affidabile, con parecchi testi inautentici. Ricerche erudite di non pochi studiosi nel corso del Novecento hanno portato all’individuazione di un elenco di opere scotiane più sicuramente autentiche, suddivise in un primo gruppo di commentari aristotelici all’Organon, al De anima e alla Metafisica tenuti nei corsi di logica, filosofia naturale e metafisica propedeutici alla teologia (Quaestiones in librum Porphyrii Isagoge; Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis; Quaestiones in I et II librum Perihermeneias Aristotelis; Quaestiones in duos libros Perihermeneias. Opus secundum; Quaestiones in libros Elenchorum; Quaestiones super libros Aristotelis De anima; Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis [libri I-IX]; recentemente è stata individuata nella Biblioteca Ambrosiana a Milano la connessa Expositio litteralis della Metafisica [libri II-X; XII] cui l’autore fa cenno sia nelle Quaestiones che nell’Ordinatio, denominata nel manoscritto: Notabilia Scoti super Metaphysicam). A eccezione di parte delle «questioni metafisiche», essi sono il frutto iniziale della sua carriera accademica (tra il 128897) e rivelano già alcune scelte di fondo della futura evoluzione speculativa del maestro; il commentario alla Metafisica, invece, è il risultato di più corsi, stratificati nelle additiones et deletiones dei manoscritti, che per i libri VII-IX si spingono fino alla maturità dottrinale delle opere teologiche maggiori. Tutti gli altri commenti a opere logiche, fisiche, metafisiche di Aristotele devono ritenersi spuri, compresa la Grammatica speculativa su cui ha lavorato Martin Heidegger per la sua abilitazione (1916), il cui autore è Tommaso di Erfurt. Seguono le opere teologiche, alla cui ampiezza e profondità è legata la fama del Doctor subtilis, comprendenti i commentari ai quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo. La critica testuale più recente ne ha indicati tre: il primo è la Lectura (1298-1300) tenuta come baccelliere a Oxford, di cui sopravvivono solo i commenti ai primi due libri, e nei mesi dell’esilio (1303-04) quelli sul III, costituita dai suoi appunti delle lezioni; il secondo è formato dall’Ordinatio (1300-08), vale a dire la continua revisione della sua prima opera oxfordiana che lo tenne impegnato fino agli ultimi giorni della vita; il terzo è composto dalle diverse Reportationes dei corsi parigini (1302-05), che sono la ricostruzione delle sue lezioni da parte degli studenti, alcune delle quali riviste dal maestro 3142
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dovevano venir incorporate nell’Ordinatio (cfr. la Reportatio I A); la cosiddetta Reportatio cantabrigiensis sul I libro è stata identificata da qualche studioso con il commentario di Enrico di Harcley. Quale magister regens, Duns Scoto affrontò diverse Quaestiones quodlibetales nei giorni di avvento e di quaresima previsti per tali esercitazioni accademiche (1305-07); nell’edizione di Wadding se ne trovano 21, eccetto l’ultima licenziate dall’autore, che offrono la puntualizzazione più alta del pensiero scotiano. Tra le sue opere teologiche sono da ricordare, anche se più brevi, le Collationes oxonienses e quelle parisienses, finora scarsamente considerate dagli studiosi, nonché alcuni trattati specifici, come il celebre De primo principio sull’esistenza e l’unicità di un ente infinito, per circa la metà dipendente dal I libro dell’Ordinatio, i Theoremata, sulla cui paternità si è molto discusso e resta tuttora «sub iudice» contenendo dottrine contrarie alle posizioni caratteristiche di Duns Scoto, e l’ancora più improbabile De perfectione statuum. Delle sue opere esegetico-bibliche non è rimasto nulla. III. IL CONTESTO CULTURALE E LE FONTI. – Per comprendere l’opera di Duns Scoto è necessario situarla nel contesto storico in cui si è formata, in quel travagliato momento di inculturazione della fede che fece seguito alla condanna del 7 marzo 1277, che mise in crisi il tentativo albertino-tommasiano di un’assimilazione delle dottrine aristoteliche all’interno del discorso teologico, segnando il ritorno al neoplatonismo agostinista della tradizione patristica contro ogni apertura al razionalismo radicale dei filosofi averroisti delle Arti. Lo scontro tra filosofi e teologi divenne allora incandescente fino al punto di rottura, con riflessi anche socio-professionali delle due corporazioni universitarie. Il dialogo con l’aristotelismo sembrava pertanto bloccato, mentre la ripresa dell’agostinismo veniva impersonata dal teologo più rappresentativo del tempo, Enrico di Gand, uno dei componenti la commissione incaricata delle censure del 1277: per la teologia non sembravano esserci altre vie di rinnovamento. Negli studia inglesi il giovane Duns Scoto, oltre ai padri e ai classici antichi disponibili nella biblioteca dei medievali, aveva acquisito un’ampia conoscenza diretta dei maggiori teologi della sua famiglia francescana (in particolare di Bonaventura, Matteo d’Acquasparta, Pietro di Giovanni Olivi), nonché dei maestri
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oxfordiani e parigini coevi. Avendo frequentato i più rinomati centri della cultura scientifica del suo tempo, dalla Scozia alla Germania, da Oxford a Parigi (qualcuno ipotizza anche Bologna durante l’esilio da Parigi), egli emergeva come un pensatore davvero «europeo», ed è singolare inoltre come entrasse facilmente in dialogo con molti dei contemporanei citandoli per nome (Guglielmo di Ware, Egidio Romano, Goffredo di Fontaines ecc.), sebbene il principale interlocutore del suo pensiero restasse sempre in primo luogo Enrico di Gand. Come risulta chiaramente dalle indicazioni testuali dell’edizione critica vaticana (1950 ss.), quasi in ogni questione il nostro francescano istituisce dapprima un colloquio serrato con le posizioni del Gandavense, assumendone sovente i termini e la struttura dalla Summa e dai Quodlibeta, ma superando dialetticamente la fragilità del suo impianto illuminazionista. È pertanto da relegare tra le favole l’opinione del cardinale Gaetano, che Duns Scoto avesse mirato innanzitutto con una critica rancorosa a distruggere tutta l’opera di Tommaso, perché anche quando deve dissociarsi dalle soluzioni dell’Aquinate egli lo fa con rispetto e un senso di riverenza verso un doctor antiquus che ammira, ma di cui non può approvare la stretta dipendenza dal naturalismo necessitarista di Aristotele, in alcuni punti da lui giudicato incomponibile con le verità della fede cristiana. Il francescano scozzese si presenta così quale cerniera tra la fine del Duecento, che ha visto il dissolversi della sintesi dei grandi dottori della scolastica d’oro sotto l’incalzare delle nuove istanze problematiche dei «chierici» e di altri ceti sociali, e l’inizio del nuovo secolo, il Trecento, che in molti settori della vita e dell’esperienza intellettuale anticipava i tempi della modernità. Egli congiunse strettamente la sapienzialità agostiniano-francescana con il rigore dimostrativo della logica aristotelica, sottoponendo le diverse opinioni a un implacabile sforzo dialettico finché l’intelligenza non fosse quietata nell’incontrovertibile evidenza dei principi primi; pur inserito esplicitamente nell’alveo della tradizione agostiniana, egli comprese la superiorità scientifica della lezione di Aristotele, che non poteva ormai più essere obliata o smentita da nessun teologo: per questo fu immediatamente salutato con il titolo di Doctor subtilis. IV. LA CONTROVERSIA TRA FILOSOFI E TEOLOGI. – Si è già detto che Duns Scoto è figlio del clima in-
Duns Scoto tellettuale creato dalle condanne ecclesiastiche del 1277 contro un aristotelismo che esaltava la capacità di autorealizzazione della natura umana, pervenendo con la pura ragione alla pienezza della verità e della felicità ultima senza alcun bisogno di ricorrere a una rivelazione soprannaturale. Per il filosofo la natura gode di una sua sufficienza e perfezione; tutte le potenze dell’uomo devono avere in se stesse la possibilità di una completa attuazione, altrimenti, come ribadiva Averroè, sarebbero «oziose», cioè inutili; il ricorso a un principio estrinseco e soprannaturale diviene quindi del tutto superfluo. La ragione da sola è in grado di far attingere all’uomo il suo ultimo destino, perché con il compimento del sapere fino alla conoscenza delle sostanze separate gli arreca una beatitudine perfetta. Soltanto i filosofi, dunque, sono i veri sapienti in questo mondo; tutto il bene possibile per noi sta nell’esercizio delle virtù intellettuali; la felicità si può raggiungere in questa vita terrena mediante l’acquisizione delle tre scienze speculative indicate da Aristotele (la fisica, la matematica, la filosofia prima). A questa antropologia dei «nuovi filosofi», chiusa nella finitudine e compiutezza della pura natura, i teologi opponevano l’insufficienza delle forze umane e la necessità del soprannaturale. È in questo scontro frontale che viene a inserirsi l’impegno riflessivo di Duns Scoto, e quanto esso lo toccasse da vicino traspare chiaramente dall’ampiezza inusitata con cui egli affronta il problema più sofferto del suo tempo tra un umanesimo immanentista-laico e una concezione trascendente della vita umana, nel prologo della sua opera teologica maggiore (l’Ordinatio) che presenta l’andatura di un vero trattato di teologia fondamentale più che di una semplice introduzione. Focalizzando fin dall’inizio la questione nodale, cioè se nella condizione attuale (status iste) dell’umanità sia necessario essere illuminati da una qualche dottrina superante la natura, egli annota che vige una «controversia inter philosophos et theologos», perché mentre i primi sostengono la perfezione della natura negando quella soprannaturale, i teologi invece riconoscono il defectus naturae e la necessità della grazia e di un perfezionamento soprannaturale (Ord., prologus, p. Ia, q. unica, n. 5). Posta in questi termini, la questione non riguarda soltanto le due categorie di intellettuali evocate, bensì coinvolge profondamente ogni uomo 3143
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Duns Scoto nel rapporto ragione-rivelazione, natura-soprannatura, sfociando in due sistemi escludentisi sul senso ultimo della vita e dell’intero. Di fronte a questa alternativa metafisica il teologo francescano, ponendosi esplicitamente dal punto di vista della fede (ex creditis, ibi, n. 12), dimostra con una serrata disamina la radicale insufficienza della conoscenza filosofica delle sostanze separate e del fine ultimo o beatitudine dell’uomo. Essendo astratto e universale, il sapere dei filosofi è incapace di fornire la visione intuitiva di Dio com’è in sé e delle sue perfezioni proprie, né determinare quali atti umani siano accetti e degni della sua fruizione in una eterna felicità cui possa partecipare anche il nostro corpo. La filosofia quindi non può rispondere in modo esaustivo all’anelito umano di felicità, ed è per aver assolutizzato la presente condizione storica dell’umanità come l’unica possibile e perfetta che essa non è in grado nemmeno di avvertire la propria deficienza e restare aperta a un libero soccorso divino per sanare questa mancanza. Duns Scoto non intende con ciò negare l’autonomia del filosofo né umiliare la dignità dell’uomo; al contrario, chiedendogli di mantenersi neutrale e disponibile all’accoglimento di una conoscenza ulteriore offerta dalla rivelazione, lo innalza a una perfezione maggiore, svelandogli delle capacità più profonde della sua stessa natura che la ragione è incapace di rilevare. Viene così in luce il metodo della riflessione scotiana in cui teologia e filosofia interagiscono strettamente senza confondersi ma anche senza contrapporsi, nella sforzo sinergico di una comprensione sempre più profonda e luminosa dell’unica verità di Dio, del mondo, dell’uomo. Di questa teoresi vediamo ora gli esiti più originali nel problema della conoscenza, della metafisica, dell’etica. V. L’OGGETTO PROPRIO DELL’INTELLETTO UMANO. – Duns Scoto dedica una notevole attenzione a questo problema perché dalla sua soluzione dipendono importanti conclusioni gnoseologiche e metafisiche. I maestri del suo tempo erano schierati su due posizioni contrastanti, aristotelica e agostinista, rappresentate rispettivamente da Tommaso d’Aquino e da Enrico di Gand. Secondo l’Aquinate, l’oggetto adeguato alla natura dell’intelletto umano è l’essenza di una realtà materiale appresa mediante i sensi (quidditas rei materialis); il teologo francescano però lo contesta dal punto di vista sia della teologia sia della filosofia. Infat3144
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ti, se il nostro intelletto fosse limitato per natura alle essenze materiali, egli osserva, non potrebbe avere alcuna conoscenza dell’essenza immateriale divina in cui consiste la nostra beatitudine, né vale supporre l’aggiunta di una luce soprannaturale che lo abiliterebbe a conoscere le realtà spirituali, in quanto tale nuova qualità, più che abilitarlo al nuovo oggetto, lo trasformerebbe in un’altra natura; l’opinione tommasiana, inoltre, renderebbe impossibile la metafisica come scienza dell’ente in quanto ente (ens qua ens), cioè della totalità del reale, perché un simile oggetto supera le capacità di un intelletto ristretto ai soli enti materiali (Ord., I, distinctio 3, p. I, q. 3, nn. 110 ss.). Enrico di Gand, invece, indicava Dio quale oggetto primo dell’intelletto in quanto, secondo la teoria dell’illuminazione, le essenze delle cose sono conosciute veramente soltanto nell’idea archetipa divina; ma Duns Scoto gli obiettava che se fosse così, l’essenza divina dovrebbe essere comune a ogni oggetto intelligibile o virtualmente contenuta in esso; Dio però non è predicabile, né incluso virtualmente in alcun altro ente, se no anche il nostro intelletto creato, come quello di Dio, dovrebbe essere attivato unicamente dall’essenza divina e non dalle singole cose. Per lo stesso motivo neanche la sostanza con i suoi accidenti può fungere da oggetto adeguato primo dell’intelletto perché in tal caso gli accidenti sarebbero intelligibili solo per mezzo di essa e non direttamente per se stessi: nessun oggetto singolo, quindi, può costituirsi quale primo per il nostro intelletto, nel senso di essere comune a tutti o contenere virtualmente tutto ciò che è intelligibile (ibi, nn. 125-128). Per Duns Scoto, quindi, l’oggetto proprio e adeguato dell’intelletto umano secondo la sua natura propria (ex natura potentiae) è «l’ente in quanto ente», mentre la quidditas rei sensibilis è l’oggetto proprio nella condizione storica in cui esso attualmente si trova a operare, in unione con le potenze sensibili del corpo (pro statu isto, in Ord., I, distinctio 3, p. I, q. 3, nn. 185-188). «Dire che l’oggetto proprio dell’intelletto umano è l’“ens in quantum ens” equivale a dire che anche per esso l’ambito dell’intelligibilità coincide con quello della realtà, e che nessun essere quindi, sia pure l’essere immateriale per eccellenza, l’essere divino, è, in linea di diritto, escluso dall’orizzonte intellettuale dell’uomo. Il fatto che la nostra conoscenza per ora debba prendere l’avvio dalle co-
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se sensibili non pregiudica la capacità dell’intelligenza umana di poter estendersi alla totalità dell’essere, capacità pronta a rivivere quando verranno meno le circostanze connesse con la nostra attuale condizione di viatores» (E. Bettoni, Duns Scoto filosofo, Milano 1966). Da questa determinazione dell’ente in quanto ente quale orizzonte adeguato dell’intelligenza umana derivano alcune dottrine caratteristiche del Dottore sottile, quali l’univocità delle nozioni trascendentali, la metafisica quale scienza trascendentale dell’ente, la peculiare struttura della sua prova dell’esistenza di un ente infinito. VI. UNIVOCITÀ DELLE NOZIONI TRASCENDENTALI. – Strettamente connessa con la tesi dell’oggetto proprio dell’intelletto umano è la dottrina scotista dell’univocità del concetto di ente e delle altre nozioni trascendentali, comuni a Dio e alle creature, alla sostanza e agli accidenti, che ne consegue come un corollario. La posizione dell’univocità dell’ente segnava una rottura abbastanza violenta nell’ambiente speculativo del tempo, dove era comunemente accettata la predicazione analogica dei nostri concetti quale condizione imprescindibile per la salvaguardia della trascendenza divina rispetto al creato. Duns Scoto ne era consapevole e vi pervenne lentamente, non senza qualche esitazione e resistenza interna al suo stesso pensiero, passando dall’affermazione esplicita dell’analogia nelle sue prime opere logiche a una progressiva apertura all’univocità in alcune tormentate revisioni delle questioni sulla Metafisica, fino alla dichiarazione finale dell’Ordinatio che c’è un concetto assolutamente semplice (simpliciter simplex), quello di ente, univocamente comune a Dio e alle creature, perché se non fosse così, non si potrebbe nemmeno parlare di un oggetto proprio dell’intelletto né giustificare il discorso metafisico (da notare che l’edizione critica ha espunto come spuria la riserva presente in alcuni manoscritti e nelle edizioni precedenti secondo cui egli l’avrebbe proposta «non asserendo, quia non consonat opinioni communi»). Il concetto univoco è da lui definito come «quello che è uno in modo tale che la sua unità è sufficiente a dar luogo alla contraddizione qualora lo si affermi e lo si neghi della stessa cosa, e inoltre è sufficiente a fungere da termine medio nel sillogismo, in modo che i due termini estremi uniti con esso dotato di tale unità, possano congiungersi tra loro senza in-
Duns Scoto correre nella fallacia dell’equivoco» (Ord., I. distinctio 3, p. I, qq. 1-2, n. 26). Pur essendo indeterminato e neutrale rispetto a tutte le determinazioni concrete degli enti o delle categorie, il concetto di ente possiede egualmente una sua identità semantica capace di escludere la contraddizione e garantire la validità della conclusione dimostrativa. Anche questo tema, come gli era abituale, viene discusso in un confronto critico con Enrico di Gand, il quale affermava invece che abbiamo due concetti propri di essere, uno come infinito applicabile esclusivamente a Dio, l’altro come finito applicato alle creature, e non è possibile ammetterne un terzo, distinto e comune a quei due se non come concetto analogico per una certa loro somiglianza. Duns Scoto però rileva che se quei concetti non avessero un elemento comune, non si darebbe alcuna possibilità di conoscere Dio naturalmente, dato che nessuna nozione attinta dalle creature finite è in grado di aprirci il passaggio a un concetto interamente appropriato all’essere infinito, e così la metafisica diverrebbe impossibile. Ci dev’essere quindi un ens in communi, anteriore ai diversi modi, ai generi della sostanza e degli accidenti con cui può concretamente comporsi e attuarsi, una nozione certo imperfetta, ma distinta e costituente l’oggetto primo dell’intelligenza e il soggetto della metafisica. La negazione di un concetto trascendentale e precategoriale di ente comune, infatti, pregiudicherebbe non solo la metafisica ma anche la possibilità delle altre scienze, compresa la teologia rivelata: l’univocità concettuale sta così a fondamento della stessa analogia reale, senza di essa si cadrebbe nel nominalismo dei termini e nell’equivocità dei principi conoscitivi, con un esito scettico o fideistico. La confutazione scotiana fa leva sull’incompatibilità simultanea di concetti certi e dubbi (Ord., I. distinctio 3, p. I, qq- 1-2, nn. 27 ss.). Quando un intelletto è certo di un concetto e dubita di altri, evidentemente vuol dire che si tratta di concetti differenti; ora, la storia della filosofia e la nostra stessa esperienza confermano che tutti siamo certi che Dio è un essere e invece dubitiamo se sia un ente finito o infinito (ibi, n. 29); ciò dimostra che il concetto di ente è diverso da quello dei suoi modi ed è univocamente predicabile di ambedue, altrimenti, se fosse identificato con essi, si avrebbe la contraddizione di un pensante che è in3145
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Duns Scoto sieme certo e dubbioso circa lo stesso concetto. Duns Scoto afferma l’unità e la semplicità del concetto di essere, anteriore alla sua composizione con quello di finito e infinito, univocamente predicabile di ambedue e delle diverse categorie. Senza dubbio, anch’egli ammette che la nozione propria di Dio e quella della creatura sono analoghe, ma sottolinea il fatto che se non ci fosse il concetto logico soggiacente di ens commune, quelle due nozioni reali proprie risulterebbero semplicemente equivoche e incapaci di fornire una conoscenza razionale di Dio. Il concetto scotiano di ente derivato dalla metafisica avicenniana è, dunque, trascendentale, quidditativamente predicabile di tutto ciò che non è nulla, e gode di una priorità e di una universalità logica non confondibili con il primato dell’essere trascendente. VII. METAFISICA E TEOLOGIA NATURALE. – Gli studiosi più recenti del pensiero scotiano hanno messo in risalto che la dottrina dell’univocità dell’ente ha portato a una profonda trasformazione della metafisica neoplatonico-aristotelica dei medievali, spostandone l’oggetto dall’atto puro di essere, causa prima degli enti, a quello dell’ente trascendentale, univocamente predicabile di tutto ciò che non è nulla, vale a dire non contraddittorio, oggetto primo del pensiero e soggetto proprio di una scienza generale dell’essere che nell’età moderna sarà denominata ontologia, comprendente in sé quale parte speciale la scienza di Dio, o teologia filosofica; così l’ontologia, avendo il primato nell’ordine della predicazione, avrebbe poi subordinato a sé l’essere divino che ha il primato nella perfezione. A partire da Duns Scoto, quindi, si dovrebbe parlare di una «rifondazione» o anche di un «secondo inizio» della metafisica, non più incentrata primariamente sul problema di Dio, bensì sulla rappresentazione concettuale dell’essere e sulle sue proprietà trascendentali, come poi fu sistematicamente sviluppata da Francisco Suárez e da Christian Wolff, sino alla riformulazione distruttiva di Kant che da riflessione sull’essere oggettivo la restrinse all’analisi critica delle condizioni soggettive del pensiero (cfr. Ludger Honnefelder, Olivier Boulnois). Pur con qualche riserva circa una pretesa riduzione di Dio «come un essere tra gli altri, e non come il principio trascendente ogni ente» (cfr. O. Boulnois, Quand commence l’onto-théologie? Aristote, Thomas d’Aquin et Duns Scot, in «Revue Thomiste», 95, 1995, pp. 85-108), è ammis3146
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sibile che la tesi dell’univocità abbia comportato una modificazione strutturale della metafisica tradizionale; infatti una scienza dell’ente inteso come predicato comune a tutto ciò che è realmente esistente o semplicemente possibile, neutro rispetto alle modalità dei singoli, precede ed è per sé autonoma nei confronti della scienza dell’essere primo nella perfezione; sebbene l’ontologia racchiuda un’intrinseca orientazione verso la teologia quale sua esplicazione ultima, la riflessione sull’ente universale univoco non è legata a una dipendenza causativa dall’essere divino, tanto che Duns Scoto stesso poteva scrivere: «Metaphysica transcendens est tota prior scientia divina» (Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, I, q. 1, n. 47), anticipando in certo senso la figura moderna della metafisica quale scienza trascendentale, passando dalla heideggeriana «ontoteologia» all’ontologia, dall’essere primo nella perfezione all’essere primo del pensiero universalmente comune a tutti gli enti. Se però consideriamo attentamente l’argomentazione scotiana per l’esistenza di Dio nei commentari alle Sentenze e nel De primo principio, dobbiamo concludere che la dissociazione moderna della metafisica generale da quella speciale è solo virtualmente presente nell’opera del teologo francescano: tanto, infatti, quell’argomentazione è ampia, complessa, rigorosamente costruita secondo le più raffinate esigenze del discorso scientifico da far trasparire che la prova «di un ente infinito in atto tra gli enti», che per noi è il concetto più semplice e perfetto che possiamo farci di Dio (Ord., I, distinctio 3, p. I, qq. 1-2, n. 58), rappresenti il vertice della teoresi del Dottore sottile e forse anche il «cuore» della sua fatica di filosofo-teologo, in cui l’ontologia e la teologia naturale risultano strettamente intrecciate come un unico discorso integrale sull’essere e i suoi modi. Sembra quindi improprio designarlo come l’iniziatore di una metafisica essenzialistica astratta e vuota, se si riflette che per lui non esiste un’essenza senza il suo esse, e non si dà una distinzione reale tra essenza ed esistenza come tra potenza e atto, bensì come tra due realtà soltanto formaliter distinctae nell’unità di una medesima natura o quiddità, possibile o realmente esistente. Secondo Duns Scoto, infatti, l’ente non è ristretto a ciò che ha l’atto fisico di esistenza, ma comprende tutto
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ciò che ha l’attitudine a esistere, tutto il possibile cui non ripugna l’essere. Pur seguendo lo schema delle «vie» dimostrative già elaborato da Enrico di Gand, infatti, Duns Scoto lo ripensa e ripropone in modo originale, congiungendo organicamente gli esiti razionali più validi della tradizione agostiniana e di quella aristotelica, con un risultato unico rispetto ai suoi predecessori che non cessa ancora di stupire. I punti salienti del suo itinerario al principio primo degli enti sono costituiti preliminarmente dalla negazione dell’ontologismo e di ogni pretesa conoscenza a priori dell’essere divino perché, sebbene la proposizione «Dio esiste» sia per se nota dall’analisi dei termini, per noi che ne ignoriamo l’essenza ha bisogno di essere dimostrata movendo dall’esperienza degli effetti e dalla loro problematicità (Ord., I, distinctio 2, p. I, qq. 12, nn. 28 e 39). Egli, però, innanzitutto rifiuta la prova averroistica fondata sul motus o divenire degli enti; più che a un «primum movens», ancora incluso nei limiti della fisicità e della durata temporale, occorre con Avicenna pervenire a un «primum ens» mediante una riflessione schiettamente metafisica sulle proprietà disgiuntive dell’essere, per concludere dagli enti finiti contingenti molteplici a un ente infinito necessario unico. La sua dimostrazione si snoda nelle seguenti tappe: 1) tra gli enti ve n’è uno assolutamente primo per causalità efficiente, finale e nella perfezione; 2) il primato in una di queste tre dimensioni comporta anche le altre due e appartiene a un’unica natura; 3) questa natura, essendo incausabile, «infinibile» (ovvero non dipendente da alcun fine), perfettissima, se è possibile, cioè non contraddice alla nozione di essere, esiste necessariamente in atto; 4) un tale ente assolutamente primo e incausabile, necessariamente dotato d’intelligenza e volontà, è infinito nella potenza, nella conoscenza, nell’amore, nella perfezione; 5) essendo infinito è anche necessariamente unico: questi è perciò il vero Dio, da noi conosciuto pure mediante la rivelazione, il principio che solo può rendere ragione del perché ci sia il mondo e non il nulla. C’è da notare che per dimostrare il «primum» nella causalità, con una scelta metodologica calcolata Duns Scoto non muove da un’esperienza fattuale contingente (aliquid movetur), bensì dalla producibilità di qualcosa («aliquod ens est effectibile», in Ord., I, distinctio
Duns Scoto 2, p. I, qq.1-2, n. 43), ponendo così la premessa dell’argomentazione sul piano della possibilità reale con una proposizione universale e necessaria. Non potendo autocrearsi né venire dal nulla (sarebbe un’assurdità impensabile, contraria al principio di non contraddizione), gli enti producibili devono essere prodotti da un altro (un effectivum) come loro causa; ora, scartando il rinvio a una serie di cause accidentalmente o essenzialmente ordinate, implicanti un’inconcludente regressione all’infinito o un’inconsistente circolarità esplicativa, è necessario ammettere una causa produttrice assolutamente prima, nel suo essere e nel suo agire non dipendente da nessun altro agente intrinseco o estrinseco, perciò del tutto incausabile. Poiché una tale perfettissima e autonoma causalità non contiene nulla di confliggente con i primi primcipi del conoscere e dell’essere, appare quindi possibile, ma se è possibile, conclude il Sottile, allora esiste in atto da sé, altrimenti, essendo assolutamente prima, non ci sarebbe alcun’altra causa anteriore ad essa in grado di produrla e pertanto, contro il presupposto, dovrebbe dirsi impossibile («igitur si potest esse, quia non contradicit entitati, potest esse a se, et ita est a se», in De primo principio, n. 55). La mera possibilità ontologica di un tale principio effettivo implica dunque il transito ineludibile alla sua autoposizione in atto nell’esistenza, altrimenti si incorre nell’elenchos di affermare e negare simul idem de eodem. Lo stesso ragionamento viene ripetuto per l’esistenza di un fine ultimo e di una perfezione suprema: dall’esperienza dei fini intermedi e dei diversi gradi di perfezione si deduce la necessità di un «primum» nei fini e nelle perfezioni, dunque un primo fine e un primo perfetto «infinibile» e «incausabile» da altri, pienamente conformi alla natura dell’essere, quindi possibili, e pertanto, se possibili, esistenti in atto. La «prova» scotiana prosegue quindi con l’attribuzione del triplice primato a un’unica natura e con la dimostrazione della sua infinità perfezionale o intensiva di contro alla pseudo-infinità estensionale e di durata del motore aristotelico; si conclude infine con l’affermazione di un’altra proprietà assoluta dell’essere incausato e infinito, cioè la sua unicità, approdando così alla più perfetta intelligenza umana del vero Dio. Nell’economia generale della prova si deve notare che l’acquisizione dell’infinità quale 3147
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Duns Scoto modo intrinseco costitutivo dell’essenza divina rappresenta un momento nevralgico per il superamento dell’imperfetta nozione di onnipotenza e di contingenza pensate da Aristotele, e ciò avviene in forza di una nuova concezione della modalità in cui il possibile o l’effectibile non sono più vincolati alla verifica statistica del loro darsi fattuale nel tempo, bensì implicano che la potenza della prima causa si estenda in modo libero e immediato a tutti gli enti non logicamente incompossibili, cioè incontraddittori (Ord., I, distinctio 2, p. I, qq. 12, nn. 75 ss.; Lect., I, distinctio 39, qq. 1-5, nn. 42 ss.). Che l’infinità in tal modo riscattata nel suo autentico concetto intensivo di pienezza di essere esista in atto e appartenga in modo esclusivo alla natura divina, viene dimostrato dal maestro francescano in base alla sua potenza, intelligenza, eminenza, amabilità infinite (Ord., I, distinctio 2, p. I, qq. 1-2, nn. 111 ss.), mediante un percorso in cui «il costante riferimento alla possibilità comprova l’apporto decisivo della rinnovata teoria scotiana della modalità, in rapporto a quel modo radicale dell’essere che è l’ens infinitum» (A. Ghisalberti, in L. Honnefelder et al., John Duns Scotus: Metaphysics and Ethics, «Atti del convegno internazionale di Bonn, 14-18 marzo 1994», Leiden - New York - Köln 1996). Guardata in profondità, la nervatura logica dell’articolata dimostrazione scotiana è di natura dialettica, poggia direttamente sul principio di non contraddizione: al livello della pienezza di perfezione di un essere incausabile e infinito (l’anselmiano ens perfectissimum), la sua possibilità (di summum cogitabile) si converte necessariamente nell’attualità (incausabile est ex se necesse esse, in De primo pr., n. 56), altrimenti si cadrebbe nell’autoconfutazione di affermarlo possibile e impossibile nello stesso tempo, violando l’incontraddittorietà dell’essere e del pensiero. La movenza finale a priori della «prova», dalla possibilità all’atto, non deve far scordare la sua partenza a posteriori dall’esperienza empirica di enti producibili richiedenti una loro giustificazione, né sottovalutare la cosiddetta «coloratio» o modificazione da lui operata dell’argomento del Proslogion mediante il passaggio intermedio della possibilità, vale a dire dell’incontraddittoria pensabilità dell’ens perfectissimum di Anselmo, come poi richiesto anche da Leibniz; occorre inoltre rilevare che nell’itinerario del francescano non si passa qui dall’ordine puramente 3148
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logico del concetto a quello dell’esistenza, perché nella sua argomentazione egli non ha mai abbandonato il piano della realtà essenziale delle nature. VIII. STRUTTURA ONTOLOGICA DELL’ENTE CORPOREO. – Per una liberissima e gratuita donazione d’amore, dall’eternità Dio ha pensato e voluto far sorgere all’esistenza dal nulla nel tempo l’universo degli enti finiti (Ord., II, distinctio 1, qq. 1-5). Nella comprensione del mondo creato dei corpi e di quello dell’uomo Duns Scoto segue generalmente la dottrina aristotelica, preferendola a quella platonico-agostiniana; sebbene egli si trovi spesso d’accordo con la cosmologia e l’antropologia dell’Aquinate, v’è da notare però che su non poche questioni di notevole importanza la sua posizione teoretica diverge profondamente da quella tomistica, motivata da una più convinta fedeltà ai dati della fede e all’esperienza stessa. Pur aderendo alla teoria dell’ilemorfismo, ad esempio, il maestro francescano nega decisamente che la materia prima sia una pura possibilità; se non avesse in sé qualcosa di positivo, un proprio atto di essere, che senso avrebbe dichiararla principio reale delle cose e termine dell’atto creatore di Dio? (Lect., II, distinctio 12, q. unica, nn. 29 ss.). Questa minimale positività di cui è dotata, tuttavia, non impedisce alla materia di entrare in composizione con la forma, costituendo un’entità nuova qualificata dall’unico atto di essere di ambedue. Una posizione analoga si verifica circa la pluralità delle forme negli esseri viventi e in particolare nell’uomo. Contrariamente a Tommaso, il quale per non spezzare l’unità sostanziale dell’individuo aristotelicamente affermava che è l’anima l’unica forma conferente l’essere anche al composto biologico, Duns Scoto riprende la tesi enrichiana della necessità di una specifica forma corporeitatis, distinta dalla forma che dà la vita, per la quale si richiede un principio diverso e qualitativamente superiore; è precisamente in virtù di quella particolare forma corporea che anche dopo la morte, o separazione dell’anima, un corpo conserva per un certo tempo la sua unità e riconoscibilità individuale, come l’esperienza ci mostra. D’altra parte, la coesistenza di due o più forme in una sostanza composta, secondo il teologo francescano non ne compromette l’unità qualora, come nel composto umano, si dia una subordinazione delle stesse forme in ragione della loro crescente perfezione, sicché l’ultima
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più perfetta divenga il polo unificatore delle determinazioni inferiori. Sarebbe infatti contraddittorio che una forma superiore come l’anima intellettiva, principio della vita vegetativa e sensitiva del corpo, fosse nel contempo principio anche dello stesso corpo privo di vita: la medesima forma sarebbe così simultaneamente principio di un vivente e di un non vivente (Ord., IV, distinctio 11, q. 3, nn. 37 ss.). Egualmente originale e innovativa rispetto alle posizioni di Tommaso e di Enrico è la teoria scotiana del principio d’individuazione, un problema tra i più dibattuti alla fine del Duecento. Duns Scoto elenca cinque opinioni diverse, da lui analiticamente confutate come insoddisfacenti, proponendone una sua, fondata sulla tesi avicenniana della natura communis, vale a dire di una essenza specifica reale, per se stessa non universale né singolare (equinitas est equinitas tantum, in Ord., II, distinctio 3, p. I, q. 1, n. 31), ma che diventa tale quando è pensata dalla mente (un universale logico) o attuata nella realtà (un individuo concreto); infatti, se quella natura con la sua entità minore (diminuta) nei confronti delle altre unità numeriche non restasse neutrale rispetto alle due predette realizzazioni, sarebbe predicabile soltanto di una con l’esclusione dell’altra. La scuola tomista, rappresentata allora da Egidio Romano, spiegava l’individuazione di una specie mediante la materia determinata da una certa estensione o quantità (signata quantitate); al che il francescano replicava che è un’assurdità riporre nella materia, per sé indeterminata e divisibile, il principio della massima determinazione e unità com’è l’individuo. Enrico di Gand invece asseriva non esserci alcun bisogno di un fattore individuante perché una natura è già individuata per se stessa con il proprio atto di esistenza singolo, indivisibile e in tutto distinguibile dagli altri. Duns Scoto però obiettava che l’individuo è qualcosa di positivo ed è necessario cercare la causa di quella duplice negazione che lo distingue dagli altri; essendo però l’atto di esistenza come esterno rispetto alla struttura categoriale della sostanza, si aggiunge ad essa in modo quasi accidentale e non può individuarne l’essenza; egualmente, anche la quantità e gli altri predicamenti sono posteriori e derivano da una sostanza già individuata (Ord., II, distinctio 3, p. I, q. 2, nn. 47 ss., 99 ss.).
Duns Scoto Conclusivamente, secondo il Dottore sottile il principio d’individuazione dev’essere qualcosa di positivo (un aliquid positivum o un’entitas positiva) nella linea della sostanzialità, l’ultimo tocco perfezionale di una forma mediante l’aggiunta di una differentia individualis alla sua natura specifica. Pertanto, come la differenza specifica toglie a una natura la capacità di suddividersi in altre specie, così la differenza individuale impedisce la sua comunicabilità ad altri individui, essendo ambedue le differenze assolutamente semplici e irriducibili ad altre specie o individui; si deve però notare che la differenza individualizzante non arreca alcuna ulteriore realtà quidditativa alla natura e che in un certo senso funziona come quasi «materia» contraente la forma specifica nelle diverse unità numeriche soggettive (ibi, nn. 168-188). Nelle lezioni parigine Duns Scoto stesso aveva denominato tale differenza haecceitas (si potrebbe tradurre con «questità», o con l’aristotelico tovde ti), per designare più precisamente la singolarità di un ente risultato dal principio d’individuazione (Rep. par., II, distinctio 12, q. V, nn. 8, 13, 14). Il significato complessivo di questa teoria è che con essa Duns Scoto «rompeva con la fondamentale concezione greca della specie quale principale espressione dell’essere e dell’intelligibilità, codificata nella tradizione latina da Boezio nell’asserto che “la specie è tutto l’essere di un individuo” [...] estendendo il processo di divisione e di differenziazione nella linea della sostanza oltre la specie e fin dentro la costituzione dell’individuo stesso» (S. D. Dumont, s. v., in E. Craig [a cura di], Routledge Encyclopedia of Philosophy, London - New York 1998, vol. III, pp. 153-170). IX. NATURA E DIGNITÀ DELL’UOMO. – Nella fase ormai avanzata di recezione dell’aristotelismo alla fine del Duecento, non fa meraviglia che anche un teologo francescano come Duns Scoto coltivi fondamentalmente un’antropologia ispirata alle dottrine dello Stagirita più che a quelle platonizzanti dei padri della chiesa, sebbene con una discreta libertà innovativa per una migliore comprensione dei dati dell’esperienza. Si è visto sopra che anche l’uomo è unità di materia e forma, di una materia però già organizzata da una sua «forma corporeitatis», e da una forma di particolare eccellenza ontologica com’è l’anima umana, dotata d’intelligenza e di volontà. La sua essenza specifica, o natura 3149
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Duns Scoto communis, mediante il principio d’individuazione viene portata alla sua massima perfezione e completezza nell’essere (ultima realitas entis) che la rende indivisibile e incomunicabile ad altri, una sussistenza ontologica unica nell’universo degli enti, in quell’estrema circoscrizione e indipendenza nel suo essere (ultima solitudo) che la definisce propriamente come persona («Ad personalitatem requiritur ultima solitudo, sive negatio dependentiae actualis et aptitudinalis ad personam alterius naturae», in Ord. III, distinctio 1, q. 1, n. 17). Ontologicamente tutta raccolta in sé, la persona umana tuttavia, mediante l’intelligenza scopre la sua relazione fondativa (= transcendentalis) con il suo creatore e si apre all’intero dell’essere, mentre con la volontà si protende verso la totalità del bene che brilla in ogni ente, amandolo in sé e per sé, non solo in funzione di se stessa, associando così all’incomunicabilità della sua sussistenza una costitutiva relazionalità operativa. Come gli altri scolastici, Duns Scoto illustra profondamente l’emergenza o spiritualità dell’anima umana che, pur essendone forma, trascende con esperienza innegabile l’attività legata alla vita organica e sensitiva del corpo; si distingue però dai maestri contemporanei circa il rapporto che intercorre tra l’anima e le sue facoltà, che per lui non sono né realmente distinte quali accidenti derivanti dalla sua sostanza (Tommaso d’Aquino) né identificate con essa (Enrico di Gand), ma solo «formalmente» distinte. La distinzione formale ex natura rei è un’originale categoria logica scotiana, introdotta nella spiegazione anche di altri problemi teologici (tra l’essenza divina e i suoi attributi o le relazioni trinitarie, tra la natura umana e la persona del Verbo nell’incarnazione ecc.), che si verifica tra alcune perfezioni concettualmente irriducibili l’una all’altra (ad es., la bontà, la bellezza ecc.), ma che nella realtà del soggetto che le possiede risultano inseparabili; così nel caso nostro, intelletto e volontà sono formalmente distinti dall’anima, sebbene realmente facciano una sola cosa con essa («Anima continet potentias istas unitive, quamquam formaliter sint distinctae», in Ord., II, distinctio 16, q. unica, n. 17). Egualmente, l’intelletto e la volontà sono due principi formalmente distinti tra loro e autonomi nella loro causalità operativa (necessitata da parte dell’intelletto, libera da parte della volontà), anche se ambedue necessari e concorrenti 3150
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all’azione umana, con una certa predominanza della volontà. Un’altra posizione controcorrente del Dottore Sottile afferma non essere razionalmente dimostrabile che l’anima umana sia immortale, mentre i teologi del tempo l’accreditavano sull’autorità di Aristotele e sul fatto che si tratta di una forma immateriale avente l’essere per se stessa, o anche, agostinianamente, sull’istintivo desiderio di una vita e felicità senza fine. Sennonché, con un’acribia testuale inconsueta per quei tempi, egli replica che nelle varie opere del Filosofo si possono trovare affermazioni a favore e anche contrarie, secondo la materia trattata, indice, questo, che non era riuscito a raggiungere una soluzione chiara, restando quindi neutrale sul problema; in quanto forma spirituale, poi, in linea di principio l’anima potrebbe sussistere per sé, ma ciò non è conoscibile dai dati naturali, perché nella condizione presente dell’umanità ha l’essere solo nel risultato del composto, e pertanto è lecito dubitare anche circa la «naturalità» del suo desiderio di eternità (Ord., IV, distinctio 43, q. 2, nn. 16-23). X. LA CONOSCENZA. – Anche nella dottrina della conoscenza Duns Scoto segue la linea aristotelica, scartando come obsolete alcune tesi dell’agostinismo, come la necessità della illuminazione, ma integrandone altre nella sua nuova sintesi che compone l’astrazione dell’universale con l’intuizione del singolare, e contro la passività del senso e dell’intelletto possibile o ricevente riafferma l’attività concausale del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto, sia a livello della percezione che del concetto. Secondo Duns Scoto, nella conoscenza confluisce una doppia causalità: quella dell’oggetto movente, rappresentato dalla sua species intelligibilis, e quella del soggetto quale intelletto ricevente; egli perciò respinge l’opinione di Enrico che riduceva l’oggetto a mera condizione occasionale del conoscere che sorgerebbe interamente dall’attività del soggetto, e rifiuta pure quella tomistica di Goffredo di Fontaines, dove l’intelletto è ridotto alla passività di una materia prima in potenza alle varie forme determinate dagli intelligibili. Nessuna delle due posizioni, infatti, rispetta la fenomenologia del conoscere, in quanto una sacrifica la necessità determinativa dell’oggetto, mentre l’altra misconosce tutta l’attività immanente della mente intorno all’intelligibile; pertanto
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egli conclude: «Si nec anima sola nec obiectum solum sit causa totalis intellectionis actualis, et illa sola videntur requiri ad intellectionem, sequitur quod ista duo sunt una causa integra respectu notitiae genitae» (Ord., I, distinctio 3, p. III, q. 2, n. 494). L’analisi dell’esperienza dunque, egli spiega, richiede la sinergia di oggetto e intelletto nella conoscenza, cooperanti ciascuno con la propria attività come due vere cause parziali essenzialmente ordinate alla produzione dell’atto conoscitivo, analogamente a quanto avviene nella generazione di un figlio, a cui partecipano attivamente e in proprio sia il padre che la madre integrando la rispettiva causalità dell’uno con quella dell’altra, anche se poi è giusto riconoscere un’esplicita superiorità dell’intelletto sull’oggetto, come lo è del padre rispetto alla madre nei confronti della prole (Quodl., XV, n. 10). Un contributo particolarmente significativo della gnoseologia scotista nello sviluppo del pensiero successivo è appunto la sua distinzione tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva. La prima è da lui definita come «la conoscenza di un’essenza che ha l’essere attualmente esistente (o di una cosa presente nella sua esistenza)», mentre l’altra è «la conoscenza di un’essenza astraendo dalla sua attuale esistenza o non esistenza» (Ord., II, distinctio 3, p. II, q. 2, n. 321); egli avverte poi di non identificare quella intuitiva semplicemente con la «non discorsiva», dato che anche qualche conoscenza astrattiva è non discorsiva, senza tuttavia potersi dire intuitiva nel senso proprio di un’intuizione della cosa come realmente è, cioè nella sua esistenza e presenzialità. Si può quindi rilevare che, diversamente dalla tradizione aristotelica, l’intuizione non è per lui limitata alla percezione del particolare sensibile, ma concerne anch’essa l’essenza, e quindi si oppone alla particolarità del senso. Ora, una perfezione posseduta da una facoltà inferiore deve potersi trovare in un grado più alto anche in una facoltà superiore della medesima specie (ibi, n. 320); pertanto, come i nostri sensi hanno la conoscenza intuitiva di un oggetto particolare esistente e presente e l’immaginazione ne astrae poi una rappresentazione che rimane anche nell’assenza dell’oggetto, a più forte ragione un’analoga capacità conoscitiva deve potersi ascrivere all’intelletto, di intuire cioè nella sua particolarità un oggetto esistente e presente, e inoltre di elabo-
Duns Scoto rarne mediante l’astrazione una rappresentazione universale ai fini della sua conoscenza scientifica, che non è possibile ottenere nella contingenza dei particolari. L’ammissione della conoscenza intellettuale intuitiva garantisce così la certezza anche nelle proposizioni e nei fatti contingenti con la stessa forza di quelli necessari. Diversamente da Agostino, egli afferma però che soltanto un intelletto puro come quello angelico possiede una conoscenza intuitiva immediata della propria essenza; la nostra mens invece, sullo sfondo di una memoria sui abituale ma confusa, perviene di fatto a tale autocoscienza solo con una riflessione sui propri atti conoscitivi mediante astrazione, dei quali possiede un’evidenza immediata (Ord., II, distinctio 3, p. II, q. 1, nn. 289-293). Infine, il teologo francescano ammonisce che chi negasse una conoscenza di tipo intuitivo al nostro intelletto, non potrebbe più rendere conto della visione beatifica quale incontro e fruizione presenziale di Dio all’anima, come insegna la rivelazione biblica, che «lo vedremo facie ad faciem, così come egli è». XI. IL PRIMATO DELLA VOLONTÀ LIBERA. – Intelletto e volontà sono le due potenze emergenti dalla memoria sui che meglio esprimono la natura propria del soggetto umano. Mentre per l’intelletto Duns Scoto si era attenuto in generale alle conclusioni aristoteliche, nell’illustrazione della volontà invece si distacca nettamente dal Filosofo, proponendo una dottrina innovativa e originale rispetto anche agli altri maestri, dalla quale deriverà poi l’impianto costruttivo dell’intera sua filosofia della prassi. Per il teologo francescano la volontà è una perfezione pura che si trova in Dio nella sua pienezza e quale amore ne forma l’essenza; Dio perciò ama necessariamente se stesso, ma in questa necessità brilla la suprema libertà della sua volontà che è sempre rationabilissime et ordinatissime volens (Ord., III, distinctio 3, q. unica, n. 6), per cui non può non volere il proprio essere infinito, mentre l’universo degli enti finiti proviene da una sua libera scelta ragionevole e ordinata tra gli infiniti mondi possibili, mai però irrazionale o arbitraria. Dio è essenzialmente amore, e anche l’uomo, creato a sua immagine, è ontologicamente costituito nella sua radice da una chiamata all’amore; secondo Duns Scoto, più che l’intelligenza, il nucleo essenziale della persona consiste nella volontà con cui liberamente orienta se stessa e il proprio agire all’amore fontale (Ord., I, di3151
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Duns Scoto stinctio 2, p. I, qq. 1-2, nn. 75-110; distinctio 10, q. unica; Rep. par., IV, distinctio 49, qq, 1-4; Quodl., XVI). Intelletto e volontà sono due facoltà razionali dell’anima, però mentre il primo agisce in modo naturale, vale a dire determinato dall’oggetto, l’altra invece agisce in modo libero (appetitus cum ratione liber); essendo del tutto indeterminata, essa può agire o non agire, oppure agire in senso contrario: la scelta o il rifiuto, anche di fronte al sommo bene, dipendono esclusivamente da lei, e ciò semplicemente quia voluntas est voluntas, non necessitata da nulla di estrinseco ad essa (Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, IX, q. 15, nn. 20-41; Rep. par., II, distinctio 25, q. unica, n. 20). Il nostro teologo accentua fortemente il contrasto fra ciò che è naturale e ciò che è volontario; per lui, infatti, la libertà non è opposta alla necessità (come si è visto nell’amore di Dio), bensì alla natura, cioè alla causalità deterministica. Ora la volontà può autodeterminarsi a effetti contrari, l’intelletto invece è bloccato in una sola direzione; la causalità della volontà, quindi, gode di una flessibilità razionale molto maggiore di quella dell’appetito sensitivo o della facoltà intellettiva. Prendendo sempre più le distanze da ogni compromesso intellettualista con la scuola tomista alla quale inizialmente era stato vicino, alla fine egli scriveva che nell’atto di scelta la volontà è causa totale della decisione, mentre l’intelletto è richiesto solo quale condizione previa (conditio sine qua non) per la presentazione di un bene appetibile, non quale causa concorrente, nemmeno secondaria o parziale: questo dato psicologico conclusivo esalta quanto mai la responsabilità e l’imputabilità delle scelte personali. Da lungo tempo si discute tra gli studiosi se veramente ci sia stata una evoluzione su questo tema nel pensiero del Sottile; nonostante l’autorevole parere negativo di Carlo Balic e della stessa Commissione scotistica (Prolegomena al vol. XIX dell’ed. critica, pp. 38*-41*), alcuni interpreti ritengono ancora attendibile l’annotazione del suo segretario Guglielmo di Alnwick che effettivamente nelle lezioni parigine egli abbia mutato opinione rispetto a quanto aveva insegnato ad Oxford, escludendo interamente il concorso causale dell’intelletto nelle decisioni ultime della volontà: «Nihil creatum aliud a voluntate est causa totalis actus volendi in voluntate» 3152
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(Rep. par. II, distinctio 25, n. 20). Sebbene nella revisione ultima dell’Ordinatio egli abbia lasciata in sospeso la redazione definitiva della distinzione 25 del II libro sul problema, forse in vista di un ripensamento ulteriore, è evidente da queste righe il suo avvicinamento alla posizione tradizionale dei francescani, che era pure quella di Enrico di Gand. La superiorità della volontà su ciò che agisce in modo naturale si evidenzia anche dal fatto che essa ha il potere di compiere atti opposti non solo nella successione temporale, ma anche nell’istante stesso in cui si decide per una scelta: anche allora mantiene egualmente la libertà di volerne un’altra contraria (Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, IX, q. 15, n. 65). Tale capacità fa parte della sua essenza di causa contingente e libera che non le può venir meno in nessun momento: un tipo di causalità, questo, assai diverso dalla contingenza possibile nell’incrociarsi fortuito dei moti delle cause seconde com’è nell’universo aristotelico. In Duns Scoto, dunque, più che una metafisica della presenza dell’essere all’intelligenza, abbiamo un’ontologia della libertà quale costitutivo formale dell’essere divino e umano, e una metafisica dell’amore nella suprema beatitudine di comunione della vita trinitaria, offerta e partecipabile anche dall’uomo, nel quale atto beatificante, necessità e libertà vengono a fondersi e a celebrarsi insieme, perché a questo livello anche per l’uomo «la più alta forma della libertà diviene la necessità dell’amore di Dio» (O. Boulnois, Être et représentation. Une généalogie de la métaphysique moderne à l’époque de Duns Scot [XIIIe-XIVe siècle], Paris 1999). XII. LA FILOSOFIA DELLA PRASSI. – 1. L’etica. – Contrariamente agli indirizzi oggi correnti, non si deve dimenticare che l’etica scotiana è saldamente ancorata a presupposti ontologici di forte valenza metafisica, innanzitutto alla sua distinzione della «teologia dei necessari» dalla «teologia dei contingenti». Secondo il maestro francescano, infatti, necessario in senso assoluto è soltanto l’essere infinito divino e tutto ciò che ha immediata attinenza con lui; tutto il resto nel mondo degli enti finiti risulta creato liberamente dalla volontà di Dio, e pertanto essenzialmente contingente e relativo. Da questa base metafisica scaturisce un impianto dell’etica diverso da quello necessitaristico della concezione greco-araba e della vi-
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sione fatalistica stoica. Il supremo principio pratico che ne deriva è che solo Dio è l’oggetto o il sommo bene necessario che non può non essere amato: Deus est diligendus è l’imperativo categorico mai mutabile né dispensabile esprimente la legge naturale in senso stretto e il perno dei primi tre precetti del decalogo; gli altri comandamenti della cosiddetta «seconda tavola», concernenti le relazioni con il prossimo, con le istituzioni familiari e sociali, sono invece passibili di mutazione, in quanto la loro determinazione morale dipende dalla libera scelta divina per l’ordinamento naturale oggi vigente, ma nulla vieta che Dio avrebbe potuto pensare e volere un altro ordine della natura in cui sarebbero risultate valide norme di comportamento diverse da quelle attualmente in vigore (Ord., III, distinctio 37, q. unica). In questo secondo caso la legge naturale perde quindi la rigidità e l’immutabilità con cui l’aveva pensata l’Aquinate, e inoltre diviene più semplice la spiegazione di alcuni sconcertanti episodi biblici della sua violazione, in quanto trattandosi di norme vigenti in un mondo contingente, esse hanno potuto non già venire dispensate, bensì revocate o mutate da un altro comando divino. Questa originale interpretazione della legge e del diritto naturale, tuttavia, non equivale a una caduta nel relativismo etico o nel positivismo teologico, come molti insistono ancora a denunciare, bensì riflette una potente esaltazione dell’assoluta trascendenza della libertà e dell’amore di Dio e della contingenza di ogni sua opera ad extra, la quale è così solo perché lui (de potentia ordinata) l’ha voluta in quel modo, senza escludere per questo la possibilità (de potentia absoluta) di altre realizzazioni con nuovi ordinamenti ad esse adeguati; comunque, finché persiste il presente ordinamento la legge naturale conserva intatta la sua forza obbligante (Ord., IV, distinctio 44, q. unica). Sarebbe quindi del tutto erroneo considerare Duns Scoto come il precursore dell’arbitrarismo ockhamiano; esplicitamente egli dichiara che nemmeno la volontà divina può agire contro la verità dell’essere, ponendosi fuori del principio di non contraddizione; egualmente, il fondamento della moralità dell’atto umano è ripetutamente da lui individuato nella conformità con la natura del soggetto agente, con l’essenza dell’oggetto voluto, con le diverse circostanze in cui l’atto viene a compiersi: c’è
Duns Scoto dunque come uno sbarramento ontologico entro il quale la ragione deve «misurare» la bontà morale o l’immoralità delle decisioni personali, ponendosi quale misura e norma a sua volta misurata dall’oggettività del valore, contro il rischio insorgente dal capriccio degli impulsi individualistici (Ord., I, distinctio 17, q. unica, III, q. 34, q. unica, Quodl., 18). Al seguito di Anselmo, il teologo francescano distingue nettamente la nativa inclinazione della volontà umana verso il bene oggettivo (affectio iustitiae) da quella verso il proprio benessere soggettivo (affectio commodi); ovviamente, soltanto nel superamento del desiderio egoistico del proprio piacere la volontà potrà elevarsi all’amore del bene supremo nel quale incontrerà la sua piena felicità; tale rettitudine nella scelta del bene morale è garantita dalla sua conformità con quel dictamen completum rationis rectae, che è appunto la misura della moralità degli atti fornita dal giudizio della prudenza (Ord., II, distinctio 6, q. 2, nn. 49-54; III, distinctio 26, nn. 17-18). La prassi infatti rappresenta per lui l’ideale dell’azione umana, radicata nell’intelligenza prudenziale che la custodisce dalla cecità degli impulsi, e pienamente conforme all’imperativo della ragione retta che la preserva dalla caduta nella malvagità deviante dal bene (Ord., prologus, p. V, qq. 1-2, nn. 228-235). 2. La società politica. – In netto contrasto con le dottrine di «papalisti» estremi come Egidio Romano o Giovanni di Parigi (Jean Quidort), Duns Scoto propone una teoria innovativa e per alcuni aspetti assai moderna della società e dell’autorità politica, in cui il consenso della comunità ha un ruolo decisivo nella legittimazione del potere dei sovrani e delle leggi da loro emanate. Nello stato di innocenza, egli osserva, gli uomini vivevano in pace e perfetta eguaglianza tra loro, partecipando secondo i propri bisogni ai beni ch’erano comuni a tutti e vivendo secondo la legge naturale sotto l’autorità paterna nelle varie famiglie; sennonché, dopo il peccato, a motivo dell’avidità del possesso e del potere da parte di alcuni prepotenti, incuranti del bene comune, subentrò la necessità della divisione dei beni materiali e della protezione dei diritti dei singoli mediante un’autorità più alta di quella familiare e con delle leggi positive giuste. Fu così che diverse popolazioni fino ad allora libere ed estranee, al fine di 3153
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Duns Scoto poter vivere in pace si accordarono ex mutuo consensu omnium per eleggere tra loro un capo (princeps) al quale solo obbedire come sudditi. Da questa specie di contratto sociale nasce dunque la prima società politica, da cui l’autorità riceve il potere di emanare le leggi con saggezza e giustizia per il bene di tutti, secondo le diverse situazioni storiche, purché non contrastanti con la legge divina e quella naturale. Pur dipendenti dalla suprema volontà di Dio, secondo il teologo francescano l’attività politica e quella giuridica godono di una loro legittima autonomia metodologica per rispondere con la normativa razionale più adatta alle esigenze storiche della società. Questa prospettiva si rivela pienamente in linea con il volontarismo francescano che riconosce la validità di un diritto soggettivo, prodotto dalla volontà della persona, e trova un’immediata applicazione nella più aperta valutazione scotiana del giusto prezzo, calcolato non soltanto in base a criteri ufficiali prefissati, ma tenendo conto anche del valore soggettivo delle merci, nonché della legittimità del profitto nello scambio commerciale e finanziario, quale onesto compenso e premio del rischio, della laboriosità, dell’utilità che esso comporta. XIII. LA TEOLOGIA. – Illustrando il pensiero di Duns Scoto non si deve scordare che egli è innanzitutto un teologo, e che la sua riflessione filosofica si sviluppa in strettissima aderenza, quasi in simbiosi, con il suo intento essenziale di una più profonda comprensione razionale e sistematica delle verità rivelate, in modo che la teologia potesse venir onorata con la dignità di scienza. La discussione sulla scientificità del discorso teologico occupa interamente le questioni dell’amplissimo prologo dell’Ordinatio, nel quale l’autore distingue una teologia divina (o in se), che è la conoscenza intuitiva e perfetta che Dio ha della propria essenza (ut haec essentia) e di tutte le realtà attuate o possibili che da essa dipendono (il «sapersi dell’assoluto»); una teologia dei beati, i quali conoscono intuitivamente Dio e le verità delle nature create, però in modo parziale e contingente secondo quanto viene loro concesso dal beneplacito divino; una teologia nostra, cioè di viatores in questa terra, limitata a quelle verità che Dio ha voluto rivelarci di se stesso, da noi accolte con la fede e illuminate con la nostra ragione, movendo dal concetto più perfet3154
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to di lui quale ens infinitum, attinto mediatamente a partire dalla nozione univoca di ente e dalle sue proprietà trascendentali. Ovviamente, il concetto di scienza richiesto da Aristotele negli Analitici gli stava stretto nell’applicazione alla teologia, e il Dottor sottile lo nota esplicitamente, tanto più che per lui la teologia «nostra» è essenzialmente un sapere pratico, che ha per suo fine la carità teologale, vale a dire l’amore di Dio sommo bene e nostra eterna beatitudine (Lect., I, prologo, IV, qq. 1-2, n. 164; Ord., prologo, p. V, qq. 1-2, nn. 314-344). Divergendo dall’opinione di tutti gli altri teologi, Duns Scoto sostenne che nonostante il peccato di Adamo e indipendentemente da tale infelice e occasionale situazione di colpa, il Padre ha predestinato dall’eternità l’incarnazione di Cristo, perché sussistendo nell’unica persona del Verbo con la sua duplice natura divina e umana potesse con il suo puro e obbediente amore di figlio glorificare Dio nel modo più perfetto concepibile in una creatura e divenisse come il punto alpha e omega dell’intera creazione; la redenzione dell’uomo mediante la sofferenza e la morte in croce è stata una modalità contingente aggiunta al disegno primitivo, che si sarebbe realizzato egualmente, sebbene in forma non soggetta alla patibilità (Ord., III, distinctio 7, q. 3; distinctiones 18-19, q. unica; Rep. par., III, distinctio 7, q. 4). Altrettanto ardita e originale è la tesi scotiana della concezione immacolata di Maria, eletta a divenire madre di Cristo-Dio, perché apparentemente confliggente con il dogma dell’universalità del peccato originale per tutti i discendenti di Adamo e della redenzione universale di Cristo; padri della chiesa e teologi nella quasi totalità negavano tale ipotesi e non vedevano vie d’uscita conciliative. La genialità del Sottile fu di aver pensato a una modalità più alta di redenzione dal peccato d’origine, consistente nella possibilità di preservare una persona dalla caduta in previsione dei meriti futuri del figlio stesso di Dio, come avvenne nella vergine di Nazareth (Ord., III., distinctio 3, q. 1, nn. 5-7). Per queste sue dottrine teologiche qualificanti, assieme a molte altre tesi innovative e ardite sulla predestinazione, il merito, la grazia, la causalità dei sacramenti ecc., oltre che come Doctor subtilis, Duns Scoto fu salutato anche quale Doctor Verbi Incarnati e Doctor Marianus.
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La sua eredità fu immediatamente raccolta con entusiasmo dai primi discepoli e spontaneamente diffusa nelle scuole francescane, oscurando il magistero degli altri grandi maestri dell’ordine (Antonio di Padova, Alessandro d’Hales, Bonaventura ecc.); dopo di lui, dichiarava Matteo Ferchic nella prolusione del 1634 al suo corso di teologia in via Scoti all’università di Padova, tra i francescani non ci furono più «doctores, sed solum Scoti discipuli», discepoli che negli studia dell’ordine e nelle università europee illustrarono con fedeltà il suo pensiero teologico con le annesse dottrine epistemologiche, metafisiche, etiche di supporto, in un serrato confronto dialettico con le altre correnti della scolastica e della modernità, riproponendo l’insegnamento più profondo del loro maestro: l’essere è essenzialmente amore e libertà, che uniti con l’intelligenza trovano la loro espressione più alta nelle persone, divine e umane. A. Poppi BIBL.: la prima ed. dell’Opera omnia, dopo le pubblicazioni a stampa di singoli libri a partire dal 1471, è quella realizzata da L. Wadding, Iohannis Duns Scoti Doctoris Subtilis et Mariani opera omnia, Lugduni 1639, 12 voll. (ripr. Hildesheim 1968) e un’editio minor in 5 voll., a cura di G. Lauriola, Alberobello 1998-2001, accompagnata da un Index scotisticus quale vol. VI, ivi 2003 e ripubblicata da L. Vivès, Paris 1891-95, 26 voll. Attualmente è in corso un’ed. a cura della Commissione Scotistica (citata quale ed. Vaticana, dal nome della casa editrice, o anche Balic, dal nome del suo presidente, padre C. Balic, dei Frati Minori), che ha pubblicato i commentari ai primi due libri delle Sentenze, cioè dell’Ordinatio (voll. I-VIII, 1950-98), e quelli della Lectura (oxoniensis) (voll. XVI-XIX, 1960-93); nel 2003 è uscito il vol. XX con le distinctiones 1-17 della Lectura sul libro III delle Sentenze, tenuta a Oxford durante l’esilio da Parigi. Per l’ed. critica delle opere filosofiche di Duns Scoto, recentemente si è costituita una seconda Commissione presso The Franciscan Institute of St. Bonaventure University (New York) e poi la Catholic University of America (Washington D.C.), diretta in successione da G.J. Etzkorn, R. Green, T. Noone, che ha già pubblicato le Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis (voll. III-IV, 1997) e le Quaestiones in librum Porphyrii Isagoge et Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis (vol. I, 1999); sono imminenti gli altri commentari al Peri hermeneias, agli Elenchi sophistici, (vol. II, comprendente anche i Theoremata) e al De anima (vol. V). Sono inoltre disponibili alcune edd. parziali di testi dall’Ordinatio, dalle Lecturae di Oxford, dalle Reportationes pari-
Duns Scoto gine su importanti problemi di gnoseologia, di metafisica, di etica discussi dal Sottile, con introduzione e tr. ingl. di A.B. Wolter, e di altri autori in altre lingue moderne; del De primo principio si trovano parecchie edd. con testo bilingue o in semplice tr. nelle principali lingue europee, condotte generalmente sull’ed. critica di M. Müller (Freiburg im Breisgau 1941) con la revisione di E. Roche (1949) o di W. Kluxen (1974): in it. quella curata da P. Scapin (Padova 1973); delle Quaestiones quodlibetales esiste una versione in sp. e una in ingl.; numerose pure le antologie recenti di passi scelti da varie opere dell’autore (ancora di grande utilità le raccolte sistematiche di Girolamo da Montefortino, Ioannis Duns Scoti summa theologica ex universis operibus eius concinnata, Roma 1900-32 (1728-38), 6 voll.; e di P. Minges, Ioannis Duns Scoti doctrina philosophica et theologica, Quaracchi 1930, 2 voll. Per un indice lessicografico cfr. M. FERNÁNDEZ GARCÍA, Lexicon scholasticum philosophico-theologicum, Quaracchi 1910. Su Duns Scoto: oltre ai comuni repertori bibliografici di teologia e di filosofia, si rinvia al periodico specifico «Bibliographia Franciscana», che offre l’elenco più ampio e puntuale di quanto si pubblica nel mondo anche per Duns Scoto. Una vasta rassegna bibliografica è quella curata da O. SCHÄFER, Bibliographia de vita, operibus et doctrina Iohannis Duns Scoti, Roma 1955, aggiornata da G. ZAMORA e G. DE SOTIELLO in «Naturaleza y Gracia», 15 (1968), pp. 75116. Qui si citerà soltanto qualche opera più significativa partendo dalla metà del Novecento, cioè dalla svolta che gli studi scotistici hanno avuto con l’utilizzo dell’ed. critica. Ricordiamo dapprima gli atti dei convegni organizzati dalla Commissione (i primi due) e poi dalla Società internazionale scotistica (3-6) a partire dal 1950, di notevole importanza per il numero e la qualità degli studiosi partecipanti, nonché per la vastità dei temi affrontati, che scandiscono il progredire della ricerca storico-critica. 1) Scholastica ratione historico-critica instauranda, Romae 1951; 2) De doctrina Iohannis Duns Scoti, «Acta congressus scotistici internationalis Oxonii et Edimburgi 11-17 sept. 1966 celebrati», Roma 1968, 4 voll.; 3) Deus et homo ad mentem Iohannis Duns Scoti, «Acta tertii congressus scotistici internationalis, Vindebonae 28 sept.-2 oct. 1970», Roma 1972; 4) Regnum hominis et regnum Dei, «Acta quarti congressus scotistici internationalis, Patavii 24-29 sept. 1976», ed. a cura di C. Bérubé, Roma 1978, 2 voll.; 5) Homo et mundus, «Acta quinti congressus scotistici internationalis, Salmanticae 21-26 sept. 1981», ed. a cura di C. Bérubé, Roma 1984; (Gli Atti del VI congresso scotistico internazionale, tenuto a Cracovia nel 1986, non sono stati pubblicati); 6) Via Scoti. Methodologica ad mentem Iohannis Duns Scoti, «Acta congressus
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Duns Scoto scotistici internationalis, Romae 9-11 marzo 1993», ed. a cura di L. Sileo, Roma 1995. Tra i molti volumi miscellanei usciti in occasione del VII centenario della nascita di Duns Scoto, merita una menzione particolare quello a cura di B.M. BONANSEA e J.K. RYAN, John Duns Scotus, 1265-1965, Washington 1965. Si segnalano inoltre alcuni volumi di atti dei convegni organizzati dal Centro studi personalistici «Giovanni Duns Scoto», curati da G. Lauriola, Bari 1992 ss.; gli atti del convegno «Etica e persona. Giovanni Duns Scoto e suggestioni nel moderno. Bologna, 18-20 febbario 1993», a cura di S. Casamenti, Bologna 1994; A. GHISALBERTI (a cura di), Giovanni Duns Scoto: filosofia e teologia, Milano 1995; un’altra importante raccolta di studi è quella curata da L. HONNEFELDER et al., John Duns Scotus: Metaphysics and Ethics, «Proceedings of a Conference Held March 14-18, 1994, at the University of Bonn», Leiden - New York - Köln 1996; e da E.P. BOS (a cura di), John Duns Scotus: Renewal of Philosophy, «Acts of the Third Symposium organized by the Dutch Society for Medieval Philosophy Medium Aevum, May 23 and 24 1996», Amsterdam-Atlanta 1998 (i contributi raccolti in questi volumi di atti non verranno citati singolarmente nelle rubriche seguenti). Tra le monografie con una visione complessiva del pensiero filosofico (e in parte teologico) di Duns Scoto, se ne citano alcune in ordine cronologico: E. GILSON, Jean Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, Paris 1952; O. TODISCO, Lo spirito cristiano della filosofia di G. Duns Scoto, Roma 1975; B. BONANSEA, L’uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Milano 1991; A.G. MANNO, Introduzione al pensiero di Giovanni Duns Scoto, Bari 1994; A. VOS JACZN, Johannes Duns Scotus, Leiden 1994; R. CROSS, Duns Scotus, New York - Oxford 1999; L. IAMMARRONE, Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo: le tematiche fondamentali della sua filosofia e teologia, Roma 1999; F. TODESCAN (a cura di), Giovanni Duns Scoto, Padova 2002; TH. WILLIAMS (a cura di), The Cambridge Companion to Duns Scotus, Cambridge 2003. Gli studi che affrontano temi particolari nell’opera di Duns Scoto sono innumerevoli; oltre quelli contenuti nei volumi miscellanei o di atti sopra indicati, ci limitiamo a qualche segnalazione: per la vita e le opere, oltre alle introduzioni ai singoli volumi dell’ed. critica, si rinvia a C.K. BRAMPTON, Duns Scotus at Oxford, 1288-1301, in «Franciscan Studies», 24 (1964), pp. 5-20; C. BALIC, John Duns Scotus: Some Reflections on the Occasion of the Seventh Centenary of his Birth, Roma 1966; A.B. WOLTER, Reflections on the Life et Works of Scotus, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 57 (1993), pp. 1-36; G. PINI, Duns Scotus’s Metaphysics: The Critical Edition of his «Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristote-
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lis», in «Revue de Théologie et Philosophie Médiévales», 65 (1998), pp. 353-368; J.A. SHEPPARD, Vita Scoti, in «Franciscan Studies», 60 (2002), pp. 291-323; M. ROBSON, The Birth-Place of Blessed John Duns Scotus: Thomas Gascoigne, a Hitherto Unnoticed Witness, in «Miscellanea Francescana», 103 (2003), pp. 703-718. Sulla conoscenza: F.A. PREZIOSO, La critica di Duns Scoto all’ontologismo di Enrico di Gand, Padova 1961; C. BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Moyen Âge, Montréal-Paris 1964; I. MANZANO, La «Habilitationsschrift» de Martin Heidegger sobre Escoto, in «Verdad y Vida», 24 (1966), pp. 305325; S.D. DUMONT, The Univocity of Being in the Fourteenth Century, in «Mediaeval Studies», 49-51 (1987-89), pp. 1-75, pp. 186-256, pp. 1-129; O. BOULNOIS, La destruction de l’analogie et l’instauration de la métaphysique, in J. DUNS SCOT, Sur la connaissance de Dieu et l’univocité de l’étant, Paris 1988, pp. 10-81; M. SERAFINI, Duns Scoto interprete critico di Anselmo, in «Collectanea Franciscana», 69 (1999), pp. 375-394; G. PIZZO, Intellectus und memoria nach der Lehre des Johannes Duns Scotus: das menschliche Erkenntnisvermögen als Vollzug von Spontaneität und Rezeptivität, Kevelaer 1998; G.I. MANZANO, Estudios sobre el conoscimiento en Juan Duns Escoto, Murcia 2000. Sull’ontologia e la teologia naturale: T. BARTH, Individualität und Allgemeinheit bei Duns Scotus: eine ontologische Untersuchung, in «Wissenschaft und Weisheit», 16-20 (1953-57), pp. 122-141, 191-213, 112-136, 106-119, 198-220, 117-136, 106-119, 198200; P.T. STELLA, L’ilemorfismo di Giovanni Duns Scoto, Torino 1955; H. BORAK, De radice ontologica contingentiae, in «Laurentianum», 2 (1961), pp. 122-145; T. BARTH, Die Grundstruktur des göttlichen Seins bei Johannes Duns Scotus, in «Franziscanische Studien», 48 (1966), pp. 271-296; P. SCAPIN, La causalità nel pensiero di Scoto, in «Miscellanea Francescana», 66 (1966), pp. 357-400; L. IAMMARRONE, Il problema della creazione nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, in «Miscellanea Francescana», 66 (1966), pp. 401-447; R. PRENTICE, The Basic Quidditative Metaphysics of Duns Scotus as Seen in his «De primo principio», Roma 1970; J.D. SCOTUS, Tractatus de primo principio, tr. ted. di W. Kluxen, Abhandlung über das erste Prinzip, Darmstadt 1974; L. HONNEFELDER, «Ens in quantum ens». Der Begriff des Seienden al solchen als Gegenstand der Metaphysik nach der Lehre des Johannes Duns Scotus, Münster 1979; C. BÉRUBÉ, De l’homme à Dieu selon Duns Scot, Henri de Gand et Olivi, Roma 1983; S. MARRONE, The Notion of Univocity in Duns Scotus’ Early Works, in «Franciscan Studies», 43 (1983), pp. 347-395; S.D. DUMONT, The «quaestio si est» and the Metaphysical Proof for the Existence of God according to Henry of Ghent and Duns Scotus, in «Franziscanische Studien», 66 (1984), pp. 335-367; L. HONNEFELDER, «Scientia transcendens». Die formale Bestimmung der Seiendheit in der Metaphysik des Mit-
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telalters und der Neuzeit (Duns Scotus, Suárez, Kant, Pierce), Hamburg 1990; A.B. WOLTER (a cura di), The Philosophical Theology of John Duns Scotus, Ithaca (New York) 1990; P. KING, Duns Scotus on the Common Nature and the Individual Difference, in «Philosophical Topics», 20 (1992), pp. 51-76; T.B. NOONE, Individuation in Scotus, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 69 (1995), pp. 527-542; O. BOULNOIS, Preuve de Dieu et structure de la métaphysique selon Duns Scot, in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 83 (1999), pp. 35-52; A. GHISALBERTI, Jean Duns Scot et la théologie rationnelle d’Aristote, in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 83 (1999), pp. 5-19; H.-J. WERNER, «Incommunicabilitas» et «libertas». La métaphysique de la personne selon Thomas d’Aquin et Duns Scot, in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 83 (1999), pp. 21-33. Sulla filosofia della prassi si veda: W. HOERES, Der Wille als reine Vollkommenheit nach Duns Scotus, München 1962, tr. it. di A. Bizzotto, La volontà come perfezione pura in Duns Scoto, Padova 1976; P. SCAPIN, Contingenza e libertà divina in Giovanni Duns Scoto, in «Miscellanea Francescana», 64 (1964), pp. 3-27, 277-324; R. PRENTICE, The Contingent Element Governing the Natural Law on the Last Seven Precepts of the Decalogue According to Duns Scotus, in «Antonianum», 42 (1967), pp. 259-292; R. PRENTICE, The Voluntarism of Duns Scotus as Seen in his Comparison of the Intellect and the Will, in «Franciscan Studies», 28 (1968), pp. 63-103; M. DAMIATA, I e II tavola. L’etica di Giovanni Duns Scoto, Firenze 1973; R. ANDOLFATO, Utilità, prezzo, contratto sociale: crisi dell’etica economica in Duns Scoto, in L. RUGGIU (a cura di), Genesi dello spazio economico. Il labirinto della ragione sociale: filosofia, società e autonomia dell’economico, Napoli 1982, pp. 119-146; S.D. DUMONT, The Necessary Connection of Moral Virtue to Prudence According to John Duns Scotus Revisited, in «Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale», 55 (1988), pp. 184-206; O. TODISCO, L’onnipotenza divina in Giovanni Duns Scoto e in Guglielmo d’Ockham. Dalla libertà di Dio al primato del singolare, in «Miscellanea Francescana», 89 (1989), pp. 393-459; G. PIZZO, La giustizia nella dottrina della volontà di Giovanni Duns Scoto, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 81 (1989), pp. 3-26; G. PIZZO, «Malitia» e «odium Dei» nella dottrina della volontà di Giovanni Duns Scoto, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 81 (1989), pp. 393-415; M.E. INGHAM, Ethics and Freedom. An Historical-Critical Investigation of Scotist Ethical Thought, Lanham 1989; J. BOLER, The Moral Psychology of Duns Scotus: Some Preliminary Questions, in «Franciscan Studies», 50 (1990), pp. 31-56; J. BOLER, Transcending the Natural: Duns Scotus on the Two Affections of the Will, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 67 (1993), pp. 109-126; I. MIRALBELL, El dinamicismo vo-
Duodinamismo luntarista de Duns Escoto: una transformación del aristotelismo, Pamplona 1994; A. VOS JACZN et al., Contingency and Freedom John Duns Scotus Lectura I 39, Dordrecht-Boston-London 1994; H. MÖHLE, Ethik als «scientia practica» nach Johannes Duns Scotus. Eine philosophische Grundlegung, Münster 1995; F. BOTTIN, Giovanni Duns Scoto sull’origine della proprietà, in «Rivista di Storia della Filosofia», 52 (1997), pp. 4759; W. KLUXEN, Über Metaphysik und Freiheitsverständnis bei Johannes Duns Scotus, in «Philosophisches Jahrbuch», 105 (1998), pp. 100-109; S.D. DUMONT, Did Duns Scotus Change his Mind on the Will?, in J.A. AERTSEN et al., Nach der Verurteilung von 1277. Philosophie und Theologie an der Universität von Paris im letzten Viertel des 13. Jahrhunderts, Berlin - New York 2001, pp. 719-794; L. PARISOLI, La philosophie normative de Jean Duns Scot: droit et politique du droit, Roma 2001. Per la teologia: W. PANNENBERG, Die Prädestinationslehre des Duns Scotus in Zusammenhang der scholastischen Lehrentwicklung, Göttingen 1954, tr. it. di A. Sberveglieri, La dottrina della predestinazione di Duns Scoto nel contesto dello sviluppo della dottrina scolastica, Milano 1994; W. DETTLOFF, Die Entwicklung der Akzeptations- und Verdienstlehre von Duns Scotus bis Luther: mit besonderer Berücksichtigung der Franziskanertheologen, Münster 1963; L. VEUTHEY, Jean Duns Scotus: pensée théologique, Paris 1967, ed. it. a cura di O. Todisco, Giovanni Duns Scoto tra aristotelismo e agostinismo, Roma 1996; F. WETTER, Die Trinitätslehre des Johannes Duns Scotus, Münster 1967; O. TODISCO, La ragione nella fede secondo Giovanni Duns Scoto: Riflessi nella filosofia contemporanea, Roma 1978; G. IAMMARRONE, Attualità e limiti della cristologia di Giovanni Duns Scoto per l’elaborazione del discorso teologico oggi, in «Miscellanea Francescana», 89 (1989), pp. 277-299; M. BÜRGER, Personalität im Horizont absoluter Prädestination. Untersuchungen zur Christologie des Johannes Duns Scotus und ihrer Rezeption in modernen theologischen Ansätzen, Münster 1994; A. GHISALBERTI, Giovanni Duns Scoto e la scuola scotista, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. III: La teologia nelle scuole, Casale Monferrato 1996, pp. 325-374; R. CROSS, The Physics of Duns Scotus: The Scientific Context of a Theological Vision, Oxford 1998; A. BÄCK, Scotus on the Consistency of the Incarnation and the Trinity, in «Vivarium», 36 (1998), pp. 83-107; O. BOULNOIS, Duns Scot: la rigueur de la charité, Paris 1998, tr. it. di C. Mirabelli, Duns Scoto: il rigore della carità, Milano 1999.
DUODINAMISMO (duodynamism; DuodyDuodinamismo namismus; duodynamisme; duodinamismo). – Concezione che afferma l’esistenza nell’uomo di due principi vitali, di due anime: un principio vegetativo-sensitivo e un altro intellettivo; 3157
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Dupanloup è detta anche dicotomia. Ne furono assertori: Filone di Alessandria, i manichei e gli gnostici, Clemente Alessandrino, Guglielmo di Ockham, F. Bacone, P. Gassendi, A. Günther, F.-P. Maine de Biran e molti altri. Questi due principi vitali, non subordinati uno all’altro, rendono inesplicabile (come il tridinamismo o tricotomia) l’unità personale dell’uomo. Red. BIBL.: A. ALBERTI, Sensazione e realtà: Epicuro e Gassendi, Firenze 1988; H.-G. GADAMER, L’anima alle soglie del pensiero nella filosofia greca, Napoli 1988; R. RADICE, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, Milano 1989; C. PANACCIO, Le discours intérieur: de Platon à Guillaulme d’Ockham, Paris 1999, P. ROSSI, Francesco Bacone: dalla magia alla scienza, Bologna 2004. ➨ ANIMA; PERSONA; TRIDINAMISMO.
DUPANLOUP, FÉLIX-ANTOINE-PHILIBERT. – Dupanloup Pedagogista ed educatore francese, n. a StFélix in Savoia il 3 genn. 1802, m. a Lacombe (Savoia) l’11 ott. 1878. Vescovo di Orléans dal 1849, nel 1854 è stato membro dell’Accademia francese e nel 1875 senatore. Il suo intervento nelle più difficili questioni culturali, religiose e politiche del tempo è stato sempre pronto e coraggioso (se pur non sempre opportuno). A lui si deve la vigorosa difesa contro l’invadenza monopolistica dell’«università» napoleonica: il principio della «libertà d’insegnamento» ha trionfato, per suo merito, con la legge Falloux (1850). Della lunga esperienza educativa e della riflessione sui problemi pedagogici reca frutto l’opera principale, in due parti: De l’éducation en général (Paris 1850-52, 3 voll.) e De la haute éducation intellectuelle (Orléans 1855-57, 3 voll.). In essa rivivono, in uno stile nervoso e chiaro, i grandi principi della tradizione dottrinale cattolica, posti a confronto con le nuove idee, specie di Rousseau, di cui ha criticato efficacemente l’individualismo e il naturalismo, pur accettando l’istanza del rispetto della libertà e della spontaneità dell’educando. Partendo dalla concezione religiosa e cattolica dell’uomo e della vita, Dupanloup deduce un concetto etico-religioso dell’educazione, dove l’ideale educativo è quello di formare il perfetto cristiano, che è anche l’uomo completo: pedagogia soprannaturale e umanistica, che si traduce in una metodologia orientata alla formazione del carattere, attraverso la valorizza3158
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zione teorica e pratica della disciplina e della libertà («l’educazione è un’opera d’autorità e di rispetto»). «Ciò che il maestro fa è poco, ciò che fa fare è tutto» e «non è questione di insegnare molte cose ai fanciulli, ma di renderli capaci di apprendere»: coscienza dunque, in Dupanloup, dell’importanza dell’attiva partecipazione dell’educando all’opera educativa e didattica, ma insieme forte accentuazione dell’essenzialità dell’intervento autoritario ed esemplare dell’educatore. L’opera pedagogica di Dupanloup rimane uno degli sforzi più riusciti di deduzione di una dottrina dell’educazione da una concezione cristiana della vita: la struttura del sistema di Dupanloup rivela una connessione organica tra la sua pedagogia e la concezione cattolica della realtà. Dupanloup si può quindi considerare uno dei classici della pedagogia cattolica. P.G. Grasso BIBL.: F. LAGRANGE, Vie de Mgr. Dupanloup, évêque d’Orléans, Paris 1883-84, 3 voll.; F. DE HOVRE, Le catholicisme; ses pédagogues, sa pédagogie, Bruxelles 1930, pp. 110-154; C. MARCILHACY, Le diocèse d’Orléans sous l’épiscopat de Mgr. Dupanloup, 18491878, Paris 1962.
DU PASQUIER, SÉBASTIEN. – Scotista, miDu Pasquier nore conventuale, n. a Chambéry nel 1630 circa, m. nel 1718. È autore di una fortunata sintesi del pensiero di Scoto: Summa philosophiae scholasticae et Scotisticae (Lyon 1692-93); Summa theologiae Scotisticae (ivi 1695), più volte riedite. Du Pasquier non si limita a ripetere Scoto, ma apporta al pensiero scotistico contributi personali. Non condivide, per esempio, la dottrina della praemotio physica dei tomisti, tuttavia allontanandosi da Scoto ammette l’influsso immediato della causa increata sull’effetto ultimo, rinnovando così la tesi del francescano Pier di Giovanni Olivi e accostandosi al molinismo. Riprende anche altri tratti della psicologia di Olivi, attribuendo all’intelletto, nella generazione dell’atto libero, il solo ruolo di conditio sine qua non, e non quello di concausa efficiente. Va pure segnalata la precisazione sulla tesi scotistica dell’oggetto primo dell’intelletto, che di diritto è l’ente «in sua tota latitudine», ossia l’ente trascendentale, mentre di fatto, dopo il peccato originale, è l’ente finito simpliciter, pur restando vero che l’oggetto sensibile è comunque il primo a muovere l’intelligenza. F. Simoncioli
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BIBL.: D. SPARACIO, Frammenti bio-bibliografici di scrittori e autori minori conventuali, Assisi 1931, pp. 7980; B. JANSEN, Zur Philosophie der Scotisten des 17. Jahrhunderts, in «Franziskanische Studien», 17 (1936), pp. 159-161; F. SIMONCIOLI, Il problema della libertà umana in Pietro di Giovanni Olivi e Pietro de Trabibus, Milano 1956, pp. 21-54, 119-124 e 160-163.
DUPONT-BERTRIS. – Il cognome «Du Pont Dupont-Bertris Bertris», privo di nome, compare in calce alla lettera dedicatoria al duca d’Orléans apposta all’opera anonima Éloges et caractères des philosophes les plus célèbres, depuis la naissance de Jésus-Christ jusqu’à présent (Paris 1726). L’opera, che ha carattere divulgativo ed ospita in appendice anche alcune composizioni poetiche in latino, viene esplicitamente presentata dall’autore come una integrazione dell’Abrégé des vies des anciens philosophes (1726) attribuito a Fénelon, ma nel titolo e nell’impostazione sembra rifarsi ai modelli offerti dai Caractères (1688) di La Bruyère e dagli Éloges des académiciens (1708-19) di Fontenelle. Essa presenta una serie di quindici profili o medaglioni a partire dall’età romana (Seneca, Plutarco, Avicenna, Abelardo, Averroè, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Cardano, Gassendi, Cartesio, Maignan, Pascal, Malebranche, Leibniz). Il pensatore cui è dato maggiore spazio (ben 45 pagine) è Leibniz, ma l’autore dà mostra di propendere per la filosofia di Cartesio, visto come un campione dell’esprit français. G. Piaia BIBL.: A.-A. BARBIER, Dictionnaire des ouvrages anonymes, Paris 1872-79 (ristampa Hildesheim 1969), vol. II, p. 93; G. PIAIA, Dupont-Bertris, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 170-177, F. AZOUVI, Descartes et la France, Paris 2002, pp. 89-91.
DUPRÉEL, EUGÈNE. – Filosofo belga, n. a Dupréel Malines nel 1879 e m. a Bruxelles nel 1967, è stato professore all’università di Bruxelles, ed è stato insignito nel 1950 del premio decennale per la filosofia. L’itinerario filosofico di E. Dupréel – forse il più originale dei filosofi belgi, noto soprattutto come storico della filosofia antica e come maestro di Ch. Perelman – si è svolto nel segno di una feconda collaborazione tra filosofia e sociologia. La sua opera si colloca alla confluenza di un processo di pensiero e d’indagi-
Durand ne che va dalle ricerche di Simmel alla sociologia relazionale di von Wiese, coinvolgendo, a diverso titolo, autori come Tarde e Durkhein, Giddings e Waxweiler. Ponendo al centro della sua speculazione la nozione di «rapporto sociale», inteso come principio sociologico fondamentale e come categoria filosoficamente rilevante, Dupréel intende sgomberare il campo dalle false problematiche insite, da un lato, nell’ontologismo sociologico e, dall’altro, nella metafisica tradizionale, per ricercare una via esplicativa e interpretativa della realtà colta nella sua dimensione interumana. Il relazionismo dupréeliano è, in tal senso, una teoria sociologica basata sull’assunto che la vita sociale è un tessuto di relazioni ma è, insieme, una concezione filosofica fondata sul presupposto che si può comprendere l’uomo solo attraverso la considerazione sistematica di una pluralità di coscienze in relazione. Di qui l’idea di una razionalità svincolata dal criterio dell’evidenza incontestabile: la dupréeliana «ragione ragionevole» è aperta e dinamica, nella misura in cui non è data anteriormente all’esperienza ma si fa e diviene attraverso la comunicazione tra gli uomini. Tale impostazione si rivela particolarmente feconda nello studio dell’etica in quanto consente di superare la tradizionale visione individualistica e di porre le basi di una concezione sociologica del fatto morale assai più articolata, pur se meno rigorosa, di quella durkheimiana. L. Battaglia BIBL.: La Légende socratique et les sources de Platon, Bruxelles 1921; Traité de Morale, Bruxelles 1932, 2 voll.; Esquisse d’une philosophie des valeurs, Paris 1939; Les Sophistes, Neuchâtel 1948; Sociologie générale, Paris 1948; Essais pluralistes, Bruxelles 1949. Su Dupréel: M. BARZIN, L’oeuvre d’E. Dupréel, in «Revue Universitaire de Bruxelles», 1949-50, pp. 379390; G. STABILE, Valore morale e società nel pensiero di E. Dupréel, Salerno 1976; L. BATTAGLIA, Sociologia e morale in E. Dupréel, Milano 1977; L. CEDRONI, Per una filosofia dei valori. Saggio su E. Dupréel, Roma 1992.
DURAND, JOSEPH-PIERRE (detto Durand de Durand Gros). – Scienziato e filosofo francese, n. a Gros (Rodez, Aveyron) nel 1826, m. ad Arsac il 17 nov. 1900. Interrotti gli studi di medicina per seguire il padre, esule in Algeria dopo il colpo di stato napoleonico del 2 dicembre1851, e, dopo viag3159
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Durandello gi in America e in Europa, tornato in patria, si stabilì ad Arsac, presso Rodez. La lontananza in provincia, una certa intemperanza polemica contro i rappresentanti della scienza ufficiale (specie contro i positivisti Broca, Littré, Taine, ma anche contro Claude Bernard, Renan ecc.), il carattere un po’ perentorio delle sue affermazioni, spesso non accompagnate da descrizioni precise dei fatti, hanno impedito il tempestivo riconoscimento di idee formulate da Durand nel campo scientifico, in particolare nella fisiologia del sistema nervoso e nella psicologia sperimentale. Durand qualifica la sua concezione come panteismo spiritualista o panpsichismo. Dall’uno (monade assoluta di tipo leibniziano, forza semplice, spirituale ma impersonale) è formata ogni particella di materia. Perciò l’uno è anche infinito in numero. Tutto è costituito di «uni», in ognuno dei quali risiede l’eterna essenza e causa. Tutto quel che si manifesta è quindi «anima» e tutte le «anime» sono essenzialmente eguali, differendo solo per le loro manifestazioni, dipendenti dal modo della loro agglomerazione. II mondo forma un tutto di cui le parti sono solidali. La materia è un’agglomerazione di cui gli elementi costitutivi sono forze semplici, centri dinamici e indistruttibili. Agglomerazione, più sintetica, è anche quella del corpo vivente. Esso ha parecchi sistemi viventi e formati, come il sistema totale, da tutti i principi essenziali della vita: Durand lo chiama «polizoismo». Tra il corpo invertebrato e quello vertebrato c’è continuità. Anche il corpo umano è agglomerazione di centri dinamici. L’anima è uno di essi e centralizza l’organizzazione intera. Il polizoismo si specifica nell’uomo in polipsichismo: quel che si chiama «io» non è che il principale di una gerarchia d’individualità psichiche «scaglionate dai gangli encefalici fino all’estremità inferiore dell’albero spinale» (Variétés philosophiques, Paris 1900, p. 185). In forza di questi principi Durand vuol conciliare spiritualismo e materialismo, deismo e ateismo, dando una soluzione in cui si ritrovi la verità delle opposte affermazioni. F. Weber BIBL.: Électro-dynamisme vital, Paris 1855; Cours théorique et pratique de Braidisme, Paris 1860 (pubblicate sotto lo pseudonimo di J.P. Philips); Essais de physiologie philosophique, Paris 1866; Les origines animales de l’homme, Paris 1871; Ontologie et psychologie physiologique, Paris 1871 (2ª ed., col titolo Variétés
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philosophiques, Paris 1900); Le merveilleux scientifique, Paris 1894; L’idée et le fait en biologie, Paris 1896; Aperçus de taxinomie générale, Paris 1899; Nouvelles recherches sur l’esthétique et la morale, Paris 1900; Questions de philosophie morale et sociale, a cura di D. Parodi, Paris 1901 (postumo). Su Durand: E. BLANC, Mélanges philosophiques, Paris 1900, pp. 31-46; N. VASCHIDE - M. MIGNARD, Les doctrines philosophiques de Durand de Gros, in «Revue de Philosophie», 1902, pp. 357-378, 495-517; D. PARODI, Du positivisme à l’idéalisme, Paris 1930, pp. 104-143; D. BARRUCAND, Histoire de l’hypnose en France, Paris 1967, pp. 81-88.
DURANDELLO. – Con questo nome si desiDurandello gna l’autore delle Evidentiae contra Durandum (ed. a cura di P.T. Stella, Tübingen-Basel 2003). Opera di un tomista fedele del secolo XIV, costituisce una delle migliori critiche al Commentarium in Libros Sententiarum di Durando di San Porziano e si inserisce nella strategia attuata dai tomisti di seconda generazione per restituire dignità e reputazione all’insegnamento dell’Aquinate dopo la condanna e le controversie del XIII secolo. Le Evidentiae sono in particolare testimonianza della nuova stagione attraversata dall’ordine domenicano nei primi decenni del XIV secolo: in essa si tenta di trasformare Tommaso in autorità teologica. Per questa promozione del tomismo viene intenzionalmente utilizzato come strumento di confronto critico il commento di Durando alle Sentenze di Pietro Lombardo, così da creare una continuità tra il suddetto insegnamento e la tradizione teologico-magistrale del concilio Laterano del 1215. Secondo Koch, l’autore, identificato in un manoscritto come Nicolaus Medensis, potrebbe essere Nicola di San Vittore, allievo di Giovanni di Napoli, supponendo che sia originario della cittadina di Meda. Lo stesso ipotizza Stella, riconoscendone però il valore di mera congettura. G. Feltrin BIBL.: AA.VV., Saint Thomas au XIVe siècle, «Actes du Colloque organisé par l’Institut Saint Thomas d’Aquin les 7 e 8 juin 1996 à l’Institut catholique de Toulouse», in «Revue Thomiste», 97 (1997), pp. 1262; I. IRIBARREN, Durandus and Durandellus: The Dispute behind the Promotion of Thomist Authority, in «Akademievorträge. Schweizerische Akademie der Geistes- und Sozialwissenschaften», 11 (2004), pp. 15-28.
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DURANDO Durando d’Aurillac D’AURILLAC. – Scolastico francese, domenicano, vissuto nel XIV secolo, m. nel 1380. Il suo pensiero rimane fedelmente legato al tomismo, e non presenta originalità di rilievo. Secondo Koch non bisogna confonderlo con Durandello. Red. BIBL.: J. KOCH, Durandus de S. Porciano, Münster 1927; A. BACIC, Ex primordiis scholae thomisticae, Romae 1928, pp. 51-72; P. FOURNIER, Histoire littéraire de la France, Paris 1938, t. XXXVII, pp. 515-517; P. MANDONNET, Saint Dominique: l’idée, l’homme et l’œuvre, Paris 1937, vol. I, p. 199.
DURANDO PORZIANO. – TeoloDurando di DI SanSAN Porziano go domenicano, n. a Saint-Pourçain, nella regione dell’Alvernia, tra il 1270 e il 1275; nel 1303 è nel convento domenicano parigino di Saint Jacques, dove nel 1307-08 commentava le Sentenze e nel 1312 diveniva maestro in teologia. A partire dal 1313, è lettore alla corte papale di Avignone e dal 1317 vescovo, dapprima di Limoux, poi di Puy-en-Velay, quindi di Meaux nel 1326, dove muore nel 1334. L’insegnamento prodotto commentando le Sentenze subisce immediatamente vivaci contestazioni all’interno dell’ordine domenicano: venivano viste con sospetto le numerose discordanze tra la sua dottrina e quella di Tommaso d’Aquino. Lo scontro non si placò nemmeno dopo la revisione del Commento operata da Durando intorno al 1310. Nonostante tali dissensi all’interno dell’ordine di appartenenza, papa Giovanni XXII lo nomina lector Curiae, poi vescovo; nel 1326 lo inserisce nella commissione esaminatrice dell’ortodossia degli scritti di Ockham. Approfittando della sua nuova dignità, Durando pubblicherà la terza edizione del Commento alle Sentenze (1317-27), che conoscerà diverse edizioni a stampa nel Cinquecento; condurrà nuove polemiche, una delle quali, quella sulla visione beatifica, gli attirerà la censura papale. Già però l’immediato successore, Benedetto XII (1334-1342) ne riabiliterà la posizione: fino al XVI secolo, il pensiero di Durando sarà considerato autorevole, per spiegare il quale saranno istituite specifiche cattedre. In polemica con l’assunzione di Tommaso d’Aquino come auctoritas all’interno dell’ordine domenicano, Durando invocava il dovere dell’indipendenza intellettuale; rimproverava all’aristotelismo di marca tomista mancanza di linearità e di capacità esplicativa, che porta-
Durando di San Porziano va a postulare entità superflue, soprattutto in materia psicologica, noetica e metafisica. Egli diffidava dunque della dottrina tomista degli habitus, della distinzione tra essenza ed esistenza, come pure della tesi che la materia sia il principio di individuazione; riteneva che non fosse necessario invocare l’esistenza nell’uomo dell’intelletto agente, né tanto meno delle specie intelligibili, forme intellettive che nell’intelletto possibile farebbero da medium tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Il rifiuto di queste tesi è collegato all’assunzione da parte di Durando di un’originale concezione della relazione: essa non va intesa come legame estrinseco tra sostanze, bensì come fondamentale modo dell’essere. Le applicazioni di tale dottrina sono decisive anche a livello teologico, in particolare nella speculazione sulla Trinità. È nota, infine, la sua opposizione nei confronti della concezione tommasiana della teologia come scienza speculativa e della sua unità: avendo per oggetto la salvezza, la teologia è, e solo in senso lato, scienza pratica. Anche le sue dottrine sul peccato originale e sull’azione causale del sacramento sono state al centro delle dispute teologiche dell’inizio del XIV secolo. A. Petagine BIBL: quanto alle opere di interesse teologico e filosofico, la terza stesura del Commento alle Sentenze ha conosciuto diverse edd. cinquecentesche: cfr. In Sententias thologicas Petri Lombardi commentariorum libri IV, Venetiis 1571; rist. anast. New York 1964; possediamo in ed. critica: Quaestio de natura cognitionis, ed. a cura di J. Koch, Münster 1935; Tractatus de habitibus: qq. I-III, ed. a cura di T. Takada, Kyoto 1963; q. IV, ed. a cura di J. Koch, Münster 1930; Magistri Durandi a Sancto Porciano Ordinis Praedicatorum Quodlibeta Avinionensia tria, ed. a cura di P. Stella, Zürich 1965; Libellus de visione Dei, ed. a cura di G. Cremascoli, in «Studi Medievali», 25 (1984), pp. 394-442. Per una rassegna completa delle sue opere, comprese quelle ancora inedite, cfr. TH. KÄPPELI - E. PANELLA, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, Roma 1975, vol. II, pp. 339-350; Roma 1993, vol. IV, pp. 73-74. Su Durando di San Porziano: il principale studio rimane ancora quello di J. KOCH, Durandus de S. Porciano O. P. Forschungen zum Streit um Thomas von Aquin zu Beginn des 14. Jahrhunderts, Münster i. W. 1927; cfr. anche M.T. BEONIO BROCCHIERI FUMAGALLI, Durando di S. Porziano. Elementi filosofici della terza redazione del Commento alle Sentenze, Firenze 1969; profili di più recente composizione si trovano in F. ALESSIO, L’età di Giovanni XXII: Eckhart, il dibattito
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Durata sul tomismo, i primi scotisti, in T. GREGORY - A. MAIERÙ - F. ALESSIO, La filosofia medievale: i secoli XIII e XIV, Firenze 1975, pp. 284-288; E.H. WÉBER, L’Ordine domenicano dal dibattito sul tomismo a Eckhart, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. III: La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, pp. 403-405; I. IRIBARREN, Durandus of St. Pourcain. A Dominican Theologian in the Shadow of Aquinas, «Oxford Theological Monographs», Oxford 2005 (con bibl. aggiornata).
DURATA (duration; Dauer; durée; duración). – Durata Nel pensiero classico il concetto di durata ha indicato, in un senso genericissimo, il modo o «misura» del perseverare di un ente nella sua esistenza, ed è stato distinto in tre specie diverse: se si tratta di un essere che è subordinato a un divenire successivo e continuo, la durata è stata detta tempo; se di un essere subordinato a una forma di divenire successivo ma non continuo, la durata è stata detta evo; se di un essere non subordinato ad alcuna forma di divenire, ma esistente tutto insieme sempre, la durata è stata detta eternità. In quest’ultimo senso la durata è concepita come il modo o la «misura» del durare piuttosto che come il durare stesso o l’ente in quanto dura. Il pensiero moderno, invece, è passato dal concepire la durata come modo o «misura» del durare al concepirla come il durare stesso, e da un durare come ente che dura alle strutture di coscienza in cui il durare dell’ente si costituisce. SOMMARIO: I. La durata e i suoi problemi. - II. La durata nella storia del pensiero. I. LA DURATA E I SUOI PROBLEMI. – La nozione generica della durata trae la sua prima origine dalla riflessione che la mente compie sul processo della propria esperienza. Ora si richiede in primo luogo che il processo sia continuo, giacché, se fosse discontinuo, la discontinuità significherebbe interruzione e rottura del divenire e quindi non più il durare di un processo, ma il disseminarsi di frammenti staccati nell’astratto continuo spazio-temporale. La continuità del durare significa altresì che il processo è uno, uno nel suo differenziarsi continuo. L’unità nel processo significa appunto continuità e la continuità raccoglie insieme l’identico e il diverso: il rimanere uno di ciò che si muove e si differenzia o (ciò che è la stessa cosa) il differenziarsi di ciò che è e resta essenzialmente uno. Ora qual è la prima radice di questa unità-continuità (identità-diversità)? 3162
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Si è detto che sia la memoria a trattenere il tempo dalla dispersione e a salvarlo dall’annullamento a cui l’irreversibilità del suo processo lo condannerebbe. Nel libro XI delle sue Confessioni Agostino misurò il tempo (meglio in questo caso si direbbe la durata) in relazione alla mente, trovando in questa, nel vivente fluire dell’anima, tre termini esattamente corrispondenti ai tre momenti della durata. Come la durata si svolge nel trapassare incessante del futuro nel passato attraverso il presente, così la mente ha l’aspettazione con cui si rappresenta il futuro, ha l’intuizione con cui si accorge del presente, ha la memoria con cui raccoglie e conserva il passato. Difficile è però definire che cosa sia in se stesso il tempo, nel suo concreto durare. «Se nessuno me lo chiede, lo so – dice Agostino –; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più» (Conf., XI, 14.17). È qui un’anticipazione dello sgomento da cui sarà preso Pascal, e una chiara consapevolezza delle difficoltà inerenti alla nozione del tempo. Infatti, secondo Agostino, se nulla passasse, nulla di ciò che è a venire si realizzerebbe mai nel tempo; e se, per ipotesi strana, tutto rimanesse immutabile, si avrebbe il riassumersi del corso del tempo nel presente e il presente sarebbe non più un momento del tempo, bensì, semplicemente, l’eternità. Ma, per la necessità del divenire che è inerente al tempo, il futuro non è ancora, il passato non è più, il presente sussiste proprio perché continuamente, assorbendosi nel passato, si annulla. Dove, dunque, si raccoglie e conserva il tempo, questo simulacro dell’essere vero, che consiste nel suo stesso continuo trascorrere ed estinguersi? È appunto nella mente e precisamente nella memoria, che si ritrova la possibilità di conservare e di misurare il tempo, ossia non le stesse cose che passano, ma le impressioni che esse imprimono, passando, nella mente. L’oggetto dell’aspettazione passa per l’attenzione per convertirsi nella memoria. Fin qui Agostino. Un punto di vista che assume la necessità di prendere le mosse dall’ente che dura insisterà sul fatto che il tentativo di definire il tempo e la durata in funzione della memoria inverte di fatto l’ordine reale delle nozioni. La memoria si distingue infatti come forma specifica di conoscenza in quanto si pone quale coscienza che nell’identità del suo atto confronta quello che è con quello che non è più e con questi due termini mette in rapporto
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la propria permanente unità. È vero cioè che è la memoria a svelare quella sorta di continuo successivo che è la durata; ma è la durata che costituisce il presupposto ontologico della memoria e la definisce come la differenza dell’oggetto definisce la differenza dell’attività che gli è relativa. La memoria stessa è possibile in quanto l’unità dell’io (la kantiana unità trascendentale dell’autocoscienza), secondo questa dottrina, raccoglie e tien ferme le diverse rappresentazioni, il cui succedersi è continuo, appunto perché uno, pur nel mutare dell’esperienza: è il tessuto nel quale vengono, come trame essenziali, a inserirsi le rappresentazioni. Questo avrebbe presentito Agostino, quando, rivolgendosi alla sua anima, esclamava: «È in te, o anima mia, ch’io misuro il tempo»; ma questo non avrebbe chiaramente esposto, perché non vedeva l’unità funzionale dell’io, logicamente presupposta all’esperienza e pur presente e attiva in essa (di essa, anzi, costituita nel suo continuo attuarsi): poneva l’anima come fondamento metempirico dell’esperienza e ricorreva alla memoria per rinsaldare la vita interiore, che così correva il rischio di disgregarsi e di disperdersi. La prospettiva fenomenologica, che riprende le preoccupazioni agostiniane, ha attirato l’attenzione sul fatto che insistere sugli aspetti soggettivi, sulla coscienza interna del tempo, non significa tuttavia necessariamente dissolvere ciò che dura in strutture soggettive. Per sfuggire a una considerazione psicologica della tematica della durata è sufficiente distinguere, all’interno dell’apparire soggettivo, ciò che dura dal suo durare. Così, se vediamo qualcosa che dura, questo può presentarsi come l’identico che persiste nel variare dei suoi modi di manifestazione. Husserl – andando oltre e sopprimendo la distinzione tra analisi psicologica e analisi ontologica della durata – nota per esempio che ciò che dura si costituisce in quanto tale proprio nel variare dei suoi modi di manifestazione temporale. Se prendiamo un dato di sensazione bruno, possiamo distinguere il dato che dura dal suo durare. Infatti, il dato che dura si mostra secondo modi di manifestazione soggettiva, la manifestazione «mostra una durata di “bruno”, è una manifestazione estesa nella quale c’è un oggetto esteso; e l’intenzione non è diretta sulla durata, ma sul “bruno” che dura e che nella durata è identica, cioè è inteso in unità e medesimez-
Durata za» (E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), Den Haag 1966, ed. it. a cura di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Milano 1985, p. 251). Noi abbiamo cioè medesimezza e tuttavia diversità delle fasi, e questo possiamo notarlo in quanto possiamo portare lo sguardo intenzionale sia su ciò che dura sia sul suo annunciarsi e costituirsi attraverso fasi temporali. Abbiamo molte fasi singole, ciascuna diversa, e tuttavia è presente una coscienza di identità: è lo stesso bruno che, nella molteplicità delle fasi, si manifesta, e «la coscienza continua di unità o di identità non va scambiata con tutt’altra coscienza, quella di un tutto di istanti allineati nel tempo. Vivendo nella coscienza d’identità, abbiamo nel costante continuum, nel costante flusso dell’estensione temporale, sempre uno» (ibi, p. 252). Può infine la durata, nella sua consistenza puramente psicologica, apparire suscettibile d’una misurazione oggettiva? Maine de Biran, ponendo l’io come una forza iperorganica, attiva nell’atto del volere produttivo del movimento, credeva di poter trovare in esso il principio della misurazione della durata, sia interna, sia riferita alle cose esterne. Royer-Collard cercò un fatto-tipo, che servisse come unità di misura per tale misurazione e indicò, come atta a farci intendere e la durata interna e quella esteriorizzata nell’uniformità del movimento, la tensione della volontà, col movimento che ne segue. Si tratta, qui, di tentativi non conciliabili col senso interiore della durata, che non sarebbe a sua volta concettualizzabile o suscettibile di misurazione oggettiva. II. LA DURATA NELLA STORIA DEL PENSIERO. – Per Zenone di Elea, che aveva affermato essere assurdo il movimento, e trovarsi la freccia, in ogni istante, ferma in un luogo determinato, una durata, intesa come somma di istanti, non è che una somma di immobilità (cfr.: Aristotele, Phys., VI, 9, 239 b). Nella speculazione greco-cristiana il concetto di durata è assorbito quasi del tutto dal concetto di tempo. Quanto alla distinzione della durata dal tempo, possono essere fatti tre rilievi, uno in Aristotele, uno in Plotino e uno in Agostino. Un’affermazione aristotelica di grande importanza è quella che riporta, in ultima analisi, il tempo all’anima, essendo a quello essenziale la misura ed essendo l’anima la sola realtà capace di misurare. La consistenza del tempo è, dunque, relati3163
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Durata va all’anima: tolta l’anima, sarebbe annullato il tempo nel suo significato spirituale e ne resterebbe soltanto il sostrato, e cioè il movimento. In Plotino l’anima, che è una ipostasi divina collocata al centro dell’universo, conserva l’unità nella molteplicità e produce quindi col tempo un’immagine dell’uno, l’uno nella continuità (Enn., III 7, 11): ecco affacciarsi l’idea della continuità, che è più propriamente della durata anziché del tempo astrattamente inteso. Agostino (lo abbiamo visto precedentemente) attinge da Aristotele l’intuizione della misura psicologica del tempo, ma la sviluppa con acutezza e con una sensibilità assai vicina alle più moderne esigenze del pensiero filosofico. Bisogna giungere a Cartesio per trovare in modo esplicito la distinzione della durata dal tempo. Quando noi distinguiamo, egli dice, il tempo dalla durata, considerata in generale, e diciamo che è la misura del movimento, questo è solo un modo di pensare, giacché, nel moto come nella quiete, la durata è sempre per noi la stessa. Per misurare la durata di tutte le cose, la confrontiamo con la durata di questi moti massimi e regolari, che producono gli anni e i giorni: e questa durata chiamiamo tempo. Ma il tempo nulla aggiunge alla durata, generalmente intesa, se non un modo di pensare (Principia philosophiae, in AT, vol. VIII, I, 57). La durata è dunque, per Cartesio, l’aspetto concreto del divenire; il tempo l’oggettivazione e la spazializzazione di esso necessarie a misurarlo (cfr. anche Meditationes de prima philosophia, in AT, vol. VII). Rifacendo il cammino percorso da Cartesio, ma chiarendo e sviluppando in modo originale le sue intuizioni, Spinoza definisce lapidariamente la differenza tra tempo e durata. Come vi è l’ente la cui essenza include l’esistenza (che cioè esiste di necessità ed è perciò eterno), così vi è l’ente la cui essenza include un’esistenza soltanto finita e che perciò non è eterno ma diviene (si genera, muta, è, in altri termini, immerso nella durata). Il concetto di durata sorge, dunque, in contrapposizione a quello di eternità: l’eternità è l’attributo «sub quo infinitam Dei existentiam concipimus. Duratio vero est attributum, sub quo rerum creatarum existentiam, prout in sua actualitate perseverant, concipimus». La durata non si distingue dalla totale esistenza di una cosa se non con la ragione. Per misurarla noi la riportiamo alla durata di altre cose, che 3164
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hanno un movimento certo e determinato: «haec comparatio tempus vocatur». Il tempo non è un’affezione delle cose, ma soltanto un puro modo di pensare, un «ens rationis», e precisamente un «modus cogitandi durationi explicandae inserviens». Ora, della durata è da notare che può concepirsi maggiore o minore, quasi composta di parti, e che è attributo dell’esistenza e non dell’essenza (così Spinoza nei Cogitata metaphysica, parte I, cap. 4, in Opera, ed. Gebhardt, vol. I, Heidelberg 1925). Altrove (nella lettera XII a Lodovico Meyer dell’11 genn. 1663, in Opera, ed. cit., vol. IV) Spinoza, dopo aver distinto la sostanza dall’affezione o modo (a seconda che dalla definizione dell’ente si ricavi o meno l’esistenza), fa dell’eternità l’attributo dell’esistenza della sostanza e della durata l’attributo dell’esistenza dei modi, insistendo sul fatto che, mentre l’eternità è una e indivisibile come la sostanza, la durata, come la quantità in generale, può essere determinata a piacere secondo il tempo: il tempo serve a determinare la durata, come la misura la quantità. Dal fatto poi che la durata e la quantità si scompongono in parti, così come le affezioni e i modi si distinguono in classi, nasce il numero, con cui noi le determiniamo. Misura, tempo, numero sono enti non reali bensì del pensiero o piuttosto dell’immaginazione. Bisogna tener ferma, secondo Spinoza, la distinzione tra enti reali ed enti di ragione (e quindi, fra gli altri, della durata dal tempo), perché mentre questi sono divisibili in parti e misurabili, quelli non lo sono. A dividere in parti la durata, confondendola col tempo, si rischia di non poter più intender come, p. es., passi un’ora, dividendo la quale s’incorre in un processo all’infinito: dire che la durata consta di momenti è come dire che il numero risulta da una addizione di zeri. Numero, misura e tempo, come enti dell’immaginazione, non possono essere infiniti e non devono d’altra parte essere confusi con le cose stesse reali: chi fa questa confusione finisce col negare l’infinito attuale. In breve, nella concezione spinoziana, ricondurre la durata al tempo è come trasformare il concreto in astratto, l’effettivamente esistente in una pura finzione razionale. Per Locke il problema della durata si sgancia dal significato cosmologico e realistico ch’esso conservava in Spinoza, per assumerne uno psicologico e relativo all’esperienza del finito: si tratta non tanto di determinare la durata in
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sé, quanto, piuttosto, di dire come sorge in noi l’idea di durata. Ed era ben naturale che questo avvenisse con Locke, perché l’empirismo critico, che da lui prende le mosse, è volto precisamente a disintegrare il dogmatismo razionalistico, per limitare l’indagine filosofica all’origine, al modo e all’estensione della conoscenza umana. L’idea di durata ci viene, dice Locke, dagli elementi della successione, che scorrono e passano continuamente. A sua volta, l’idea di successione nasce in noi quando riflettiamo sul seguito delle idee che si succedono costantemente l’una all’altra nella nostra intelligenza finché siamo svegli. La distanza tra due elementi di questa successione, ossia tra il manifestarsi di due diverse idee della nostra mente, è ciò che chiamiamo appunto durata. Ora, poiché noi ci accorgiamo di esistere in quanto pensiamo o accogliamo successivamente varie idee nella mente, chiamiamo durata (nostra e delle cose coesistenti col nostro pensiero) l’esistenza o la continuazione dell’esistenza nostra e di qualsiasi altra cosa commisurata alla successione delle nostre idee. Modi semplici della durata sono poi le ore, i giorni, gli anni, il tempo, l’eternità, ossia tutte quelle lunghezze di cui abbiamo idee distinte. In particolare, il tempo è la durata in quanto è considerata divisa in determinati periodi e contrassegnata da certe misure o epoche (cfr. Essay Concerning Human Understanding, l. II, cap. 14, §§ 1, 3, 17). La speculazione di Leibniz è quanto mai importante anche per l’argomento che qui c’interessa. Leibniz comincia con l’osservare, nel suo Saggio, che non il movimento, bensì una continuità costante di idee ci dà l’idea di durata. Ecco, dunque, riportata la durata nell’interno dell’uomo, ad attingervi la propria concretezza. Ma in quanto alla continuità in cui essa sembrerebbe, secondo l’espressione citata, consistere, siamo subito disingannati dal filosofo, il quale ci avverte che «una continuità di percezione ci suggerisce l’idea di durata, ma non la costituisce». Le nostre percezioni non hanno mai «una continuità tanto costante e regolare da equivalere a quella del tempo, che è un continuo semplice e uniforme come la retta». «Il mutamento delle percezioni ci dà occasione di pensare al tempo, e questo si misura per mezzo di cambiamenti uniformi». Riportando il movimento difforme a quello uniforme, si può infine stabilire che «il tempo è la
Durata misura del movimento». La durata, dunque, è un’idea che nasce occasionata dalla continuità ma non rappresenta essa medesima la continuità (cfr. Nouveaux essais sur l’entendement humain, II, cap. 14, tr. it. di M. Mugnai, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Roma-Bari 1982). Inoltre, l’origine della stessa idea, derivante dalla successione che si attua nell’interno della mente, fa sì che non avvenga, per Leibniz, il distacco della durata e del tempo dall’eterno, come avviene per quelli che intendono la durata e il tempo sul piano cosmologico e metafisico, bensì che l’idea di eternità si ricavi da un’indefinita aggiunzione di lunghezze di tempo le une alle altre, quanto ci piace (ibi, § 27). Da questo punto di vista Leibniz si ritrova sullo stesso piano dell’empirismo lockiano, per il quale altresì l’idea di eternità era il risultato dell’addizione all’infinito di lunghezza di una certa durata (Locke, Essay..., cit., l. II, cap. 14, § 27). Per Condillac, sensista, l’idea di durata nasce in noi – o meglio, nella statua di cui egli espone la vita psichica nel suo progressivo arricchirsi, dalle sensazioni elementari alla coscienza e di qui alle più complesse forme di esperienza e di ideazione – quando la successione di alcuni avvenimenti esteriori, il loro sottrarsi e ricomparire all’osservazione dei sensi, occasiona nella coscienza una successione d’idee. L’avvenimento che, col suo regolare (o almeno creduto regolare) comparire e ricomparire, occasiona nella statua l’idea di durata è il sorgere e il tramontare del sole. Di qui nasce una successione d’idee che dà confusamente l’idea di durata; ma, una volta riferita alle rivoluzioni solari, tale idea si chiarisce, si obbiettiva, si misura. Tuttavia, l’origine psicologica dell’idea di durata non è mai, per Condillac, annullata, se pure è come messa da parte e obliata. A seconda dello stato d’animo del soggetto, che può essere lieto o triste, interessato allo spettacolo del mondo circostante o annoiato, ozioso o occupato, la durata stessa, o meglio il senso interiore della durata, assume valori diversi (lentezza o rapidità, brevità o lunghezza), anche se oggettivamente contenuta entro i limiti d’uno stesso intervallo astronomico. Così, p. es., nell’ozio il giorno passa lentamente, ma l’anno, fatto di giorni uguali si uniforma e si abbrevia. Per il sensismo, se pur sussiste un’oggettivazione della durata (ciò che per altri indirizzi è detto tempo), il significato concreto della durata stessa si at3165
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Durata tinge nel processo della vita interiore, nella coscienza, diremmo meglio nel senso intimo della durata (cfr.: É.B. Condillac, Traité des sensations [1754], parte III, in Oeuvres philososophiques, Paris 1947, vol. I). Da ciò che abbiamo detto fin qui appare chiaramente che il problema della durata oscilla tra un significato psicologico e uno metafisico, e che allora la durata assume un significato epistemologico quando si obiettiva e si concettualizza nel tempo. Impostato così il problema, la speculazione kantiana, guardando la successione da un punto di vista che non è né psicologico né metafisico (secondo l’accezione classica del termine metafisico), bensì gnoseologico (in quanto Kant nella sua estetica trascendentale stabilisce le condizioni fondamentali per la possibilità della scienza), porta chiarimento intorno al concetto non di durata, ma di tempo (cfr. KrV, Tranzendentale Ästhetik, sez. II, §§ 4 e 5). Con Bergson si ritorna all’intuizione psicologica della durata e quindi alla contrapposizione tra durata e tempo. Rifacendosi ad Agostino e a Pascal, Bergson trova che l’intelligenza, presente nell’uomo per l’esigenza pratica dell’azione, volta a ciò che si ripete e che è definibile con concetti astratti, non è in grado di cogliere la durata o tempo reale, e cioè l’incessante, intrinseco, irripetibile trasformarsi di tutte le cose. L’intelligenza, egli dice, ripugna a ciò che fluisce e tende a solidificare ciò che tocca. Perciò noi non pensiamo il tempo reale, ma lo viviamo, perché la vita non è contenibile dall’intelligenza (cfr. Évolution créatrice, Paris 193240, p. 50). Noi concepiamo la nostra vita interiore come una successione di stati, ciascuno dei quali verrebbe a porsi dopo l’altro, e concepiamo lo stesso io come l’insieme di tali stati. Tuttavia questa visione non corrisponde all’effettiva realtà della vita spirituale, la quale è in se stessa un cangiamento continuo, in cui singoli momenti sono essi medesimi soggetti a un’intrinseca variazione, perché il loro consistere è proprio nel loro incessante trasformarsi e divenire. Il passaggio da uno stato all’altro (da un momento all’altro del divenire) è come il prolungarsi, e trasformarsi, d’un solo stato, così come il restare lo stesso è già un variare. Ecco però che quando la variazione è divenuta notevole, essa s’impone alla nostra attenzione, e questa, obbedendo, tra l’altro, alle necessità pratiche della vita, rompe il continuo nel 3166
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discontinuo e fa della durata reale una giustapposizione d’istanti. Intanto, la vita psicologica si sottrae ai simboli e si svolge, al di sotto dell’astratta spazializzazione e temporalizzazione, come durata o progresso continuo del passato, che corrode l’avvenire e che s’accresce avanzando, e insieme conservandosi indefinitamente. Non è la memoria, come astratta facoltà che stringa insieme rappresentazioni tra di loro separate, a conservare il passato: questo si conserva da sé, automaticamente, e ci accompagna tutto intero in ciascun istante. Così la nostra personalità si accresce e matura senza posa (ibi, pp. 1-8). In Essai sur les données immédiates de la conscience (Paris 193634) Bergson aveva detto che la durata pura è la forma che prende la successione dei nostri stati di coscienza, quando il nostro io «si lascia vivere» e si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e quelli anteriori: i momenti della durata sono non giustapposti, ma insieme fusi e compenetrati come le note d’una melodia (ibi, p. 76). La pura durata è la successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, si compenetrano, senza contorni precisi, senza esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri, senza alcuna parentela col numero: è, in breve, l’eterogeneità pura (ibi, p. 79). Il tempo, viceversa, è il simbolo astratto della durata, rappresentato a sua volta simbolicamente nello spazio, per l’esigenza pratica della misurazione. Col tempo noi pensiamo il più delle volte a un mezzo omogeneo, dove i nostri fatti di coscienza si allineano, si giustappongono come nello spazio e riescono a formare una molteplicità distinta (ibi, p. 69). Rifacendosi a Bergson, Hamelin distingue un tempo omogeneo quantitativo da un tempo eterogeneo qualitativo o pura durata, e trova che l’aspetto di quantità è riferito al tempo per via del suo riferimento alla spazialità e all’estensione (Essais sur les éléments principaux de la représentation, Paris 19252, pp. 63 ss.). Posteriormente a Bergson, Husserl, con l’analisi fenomenologica dell’intuizione del tempo, riporta il tempo a una necessità a priori, in quanto il tempo fenomenologico «costituisce un fondamento cardine di tutte le cosiddette teorie dell’esperienza» (E. Husserl, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie, Den Haag 1984, p. 274). Il tempo trascendentale, o la coscienza interna del tempo è infatti «la forma di ogni possibile oggettività» (ibi, p. 273). Sul senso
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del termine trascendentale non vi può essere qui alcun dubbio: «il tempo non è una forma della coscienza, bensì di ogni possibile oggettività» (ibid.). Il problema della durata e della misura degli intervalli è stato sviluppato, in polemica con l’impostazione che riconduce il problema alle strutture di coscienza, dalla corrente che nel Novecento si è richiamata all’empirismo. Già Poincaré denuncia il valore convenzionale della uguaglianza di due intervalli e della simultaneità di avvenimenti distanti; Enriques torna a ricercare la possibilità d’una misura oggettiva del tempo; la relatività rinunzia a parlare d’un movimento e d’un tempo assoluti. Si tratta, com’è ben chiaro, d’indagini che riguardano strettamente il concetto di tempo e hanno significato esclusivamente nel campo dell’epistemologia. Bertrand Russel, in polemica con Bergson, sostiene che chi riduce la durata al flusso di coscienza confonde l’oggettività del tempo con la nostra percezione soggettiva di esso. In questa direzione si è mosso soprattutto Hans Reichenbach, il quale insiste sul carattere oggettivo del tempo. Il tempo si risolve infatti nella struttura topologica e metrica di carattere dimensionale che organizza la molteplicità degli eventi. In questo modo, la stessa problematica che già in Aristotele aveva spinto verso l’analisi della coscienza del tempo (l’anima come misura del tempo) viene spostata su strutture oggettive. Per esempio, diciamo che gli intervalli di tempo che la terra richiede per compiere una rotazione completa sono uguali. Per misurare la durata impieghiamo dunque il conteggio dei periodi, per esempio quando diciamo che i periodi di un pendolo sono egualmente lunghi (H. Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo, Milano 1977, p. 137). Possiamo dunque usare il movimento stesso come misura di uniformità e considerare come eguali i tempi di transito attraverso distanze uguali. C. Carbonara - V. Costa BIBL.: Oltre gli autori citati nel corso della voce, si possono indicare, quali classici sulla problematica della durata: PLATONE, Timeo; ARISTOTELE, Physica; B. PASCAL, Oeuvres complètes; N. MALEBRANCHE, Entretiens sur la métaphysique et sur la religion, Paris 16963. Studi: Z. ZAWIRSKI, L’évolution de la notion du temps, Kraków 1936; G. BACHELARD, Dialectique de la durée, n. ed., Paris 1950; E. MINKOWSKI, L’éphémère, durer, avoir une durée, l’éternel, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 3-4 (1956), pp. 217-241; D. VILLANUEVA
Dürken MEJIA, La duración supra-oposizional. Ensayo de una metafísica de la duración, Lima 1956; J. KOPPER, Einige Bemerkungen zur Bedeutung von Ewigkeit und Dauer in Spinozas Ethik, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 43 (1989), pp. 432-448; P. TARONI, Bergson, Einstein e il tempo. La filosofia della durata bergsoniana nel dibattito sulla teoria della relatività, Urbino 1998; A. GENOVESI, Bergson e Einstein. Dalla percezione della durata alla concezione del tempo, Milano 2001. ➨ CONTINUO; DISCONTINUO; ETERNITÀ; EVO; MEMORIA; PERCEZIONE; TEMPO.
DURDÍK, JOSEF. – Filosofo herbartiano ceco, Durdík n. a Horice (Boemia) nel 1837, m. a Praga nel 1902. Insegnò a Praga. Scrisse: Leibnitz und Newton. Ein Versuch über die Ursachen der Welt, Halle 1869; Dejinný nástin filosofie novoveké (Storia della filosofia moderna), ivi 1870; Karakter (II carattere), ivi 1873; Vseobecná estetika (Estetica generale), ivi 1875; Poetika, ivi 1881; Dejiny filosofie nejnovejsí (Storia della filosofia contemporanea), ivi 1887; Darwin und Kant, Praha 1906, postumo (scritto 1874-75). Si occupò principalmente del problema della scienza, prima tentando un accostamento fra i sistemi di Leibniz e di Newton, in seguito cercando di dare alle scienze un ordinamento unitario che comprendesse, oltre alle scienze oggettive, come si era limitato a sostenere Comte, anche le soggettive (psicologiche). Red. BIBL.: F. KREJCÍ - J. KAMPER, Sborník Durdíkuv (Miscellanea per Durdík), Praha 1906; R. DYKAST (a cura di), Sborník z konference usporádané ke 100. výrocí úmrtí významného ceského filozofa a estetika Josefa Durdíka (Atti del convegno per il centesimo anniversario del filosofo ed estetico ceco Josef Durdík), Praha 2003.
DÜRKEN, BERNHARD. – Biologo teorico e Dürken sperimentale, n. a Geerte (Meppen) il 20 sett. 1881, m. a Breslavia il 30 nov. 1944. Condusse numerose e importanti ricerche specialmente nel campo della meccanica dello sviluppo, sostenendo una concezione organicistica o olistica che ha come argomento base la critica fatta da H. Driesch al meccanicismo. Tuttavia Dürken non accetta la soluzione di Driesch: l’entelechia a-spaziale è un fattore soprannaturale inaccettabile; la «totalità», egli dice, deve essere intrinseca. I due brani seguenti contengono le idee più tipiche della sua concezione olistica. «Il concetto fondamentale dell’olismo si può esporre in 3167
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Durkheim breve. Le parti dell’organismo non sono primitive rispetto al “tutto”, non sono esse quelle che formano, come risultato, l’insieme, il tutto secondario, ma il rapporto è esattamente invertito: il tutto è primitivo, le parti invece secondarie. Il tutto unitario dell’organismo non è il risultato della somma e della coordinazione delle sue parti, ma è invece proprio la premessa di questo» (Entwicklungsbiologie und Ganzheit, Berlin 1936, tr. it. di L. Raunich, riveduta da P. Pasquini, Biologia dello sviluppo e olismo, Firenze 1943, p. 19). «Non è detto che dal punto di vista chimico il plasma ucciso si diversifichi da quello vivente; ed i chimici fisiologici sono certamente tutti dell’opinione che questo non è neanche il caso. Ma proprio per questo bisogna ammettere che non è la costituzione chimica a determinare la vita, bensì, oltre a questo, è necessario ancora qualcosa di specifico non rilevabile per via chimica; infatti se la differenza tra plasma morto e plasma vivente non è di natura chimica, essa dovrà essere di natura specifica organismica» (ibi, p. 195). Dürken, come tutti gli organicisti, ha sostenuto che la regolarità dei fenomeni vitali non può essere spiegata con il caso ed è stato quindi un oppositore del darwinismo (che è appunto una teoria casualistica dell’evoluzione). G. Blandino BIBL.: G. BLANDINO, Problemi e dottrine di biologia teorica, Torino 1960, pp. 119-121, 125.
DURKHEIM, EMILE. – Sociologo francese n. Durkheim a Epinal il 15 apr. 1858, m. a Parigi il 15 nov. 1917. Il tema fondamentale che percorre l’intera opera di Durkheim a partire dal suo primo grande libro, De la division du travail social (Paris 1893, tr. it. di F. Airoldi Namer, La divisione del lavoro sociale, Milano 19894), può indicarsi nell’interesse per il rapporto fra individuo e collettività, nella ricerca delle condizioni che permettono l’esistenza della società, ovvero il consenso e l’integrazione degli individui attorno a norme morali. Società e individuo sono due entità distinte e autonome, e l’interpretazione della società deve muovere da questa – in quanto ente diverso dalla, e superiore alla, somma delle sue parti – e non dall’individuo: tale dualità si riflette anche sulla concezione dell’individuo, che è visto da Durkheim come homo duplex, la cui vita ruota attorno a due centri, l’individualità (il profano) e la socialità (il sacro). Vi sono diverse motivazioni adduci3168
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bili riguardo alla esteriorità della società nei confronti dell’individuo: in primo luogo, coscienza e comportamento dell’individuo in quanto singolo sono differenti da quelli come membro di un gruppo; secondariamente, le statistiche sociali mostrano uniformità, mentre le storie individuali sono contraddittorie e singolari; in terzo luogo, non si può far discendere il superiore dall’inferiore; e, infine, gli individui sono costretti dalle istituzioni, e sarebbe paradossale ritenere che siano gli individui a costringere se stessi. Nella Divisione del lavoro sociale, Durkheim muove da una doppia critica a individualismo e contrattualismo, affermando che nell’esistenza collettiva vi è qualcosa di irriducibile sia all’individuo sia al contratto. Si tratta della cosiddetta «solidarietà sociale», ovvero la forza della coesione collettiva. La tesi del sociologo francese è che la società moderna non tenda alla disgregazione, nonostante lo scadimento delle credenze tradizionali, in quanto il passaggio dalla società tradizionale a quella moderna non è consistito – a dispetto delle apparenze – in un crollo della solidarietà (senza la quale nessuna società potrebbe reggersi), ma in un mutamento della sua natura, che occorre esaminare. Dal punto di vista metodologico, tale esame avviene per Durkheim in prospettiva positivistica. Egli chiama gli oggetti della sociologia «fatti sociali», per sottolineare che essi sono «modi di agire, di pensare e di sentire esterni all’individuo, e dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono ad esso» (Les règles de la méthode sociologique, Paris 1895, tr. it. di F. Airoldi Namer, Le regole del metodo sociologico, Milano 1963, p. 26). I fatti sociali vanno studiati come cose, vale a dire che per studiare un fenomeno sociale occorre osservarlo oggettivamente dall’esterno, trovando le espressioni in cui si esplicitano quegli stati di coscienza che non possiamo cogliere direttamente. Tornando alla problematica affrontata nella Divisione del lavoro sociale, da quanto detto sopra consegue che uno stato di coscienza come la solidarietà può essere studiato solo trovando un suo indicatore. Durkheim lo individua nel diritto, dato che ogni qual volta sussiste stabilmente una forma di vita sociale, le regole morali sono codificate in leggi. Le norme giuridiche sono di due tipi: quelle che prevedono sanzioni a carattere repressivo, e quelle che
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prevedono sanzioni a carattere restitutivo. Nel diritto repressivo la funzione della pena è quella di riparare l’offesa recata dal reato, che mette in dubbio l’inviolabilità e la sacralità della «coscienza collettiva», ovvero l’insieme di credenze e sentimenti condivisi dall’intera comunità. Il vincolo di solidarietà al quale corrisponde il diritto repressivo è una solidarietà «meccanica», tipica di una società a bassa divisione del lavoro, formata da clan simili gli uni agli altri per funzioni e caratteristiche, in cui la coscienza collettiva è rigorosamente definita e permea totalmente la coscienza individuale: in tal modo ogni offesa portata al singolo è immediatamente un’offesa alla coscienza collettiva, che scatena una reazione emotiva alla trasgressione, che non ha solo la funzione di punire il reo, ma anche quella fondamentale di conservare l’intensità dei sentimenti collettivi. Nel diritto restitutivo, invece, la pena ha carattere di riparazione e non di espiazione: questo perché a essere colpita non è l’intera società, ma l’individuo, e ciò presuppone che la coscienza individuale si sia in parte separata da quella collettiva. Tale fenomeno avviene grazie allo sviluppo della divisione del lavoro, che dà luogo a un nuovo vincolo di solidarietà, ovvero la solidarietà «organica». Come afferma Durkheim, se la solidarietà meccanica «vincola direttamente l’individuo alla società senza intermediari [...] nella seconda [...] l’individuo dipende dalla società perché dipende dalle parti che la compongono» (Divisione del lavoro sociale, cit., p. 144). Con l’avvento della solidarietà organica, la coscienza collettiva è sempre meno definita, e consiste in modi di pensare e di sentire generali che lasciano spazio a un maggior numero di differenze individuali. Non per questo però le società moderne precipitano nel disordine, in quanto «a misura che le altre credenze e le altre pratiche assumono un carattere sempre meno religioso, l’individuo diventa oggetto di una specie di religione» (ibi, p. 183): è il cosiddetto «culto dell’individuo». Le difficoltà della società moderna nascono piuttosto dal suo sviluppo troppo rapido, che ha generato una situazione patologica di mancanza di regolazione morale, o, nei termini di Durkheim, una situazione di anomia. Il problema dell’anomia, congiuntamente alle problematiche metodologiche, è ripreso dal sociologo francese nell’opera Le suicide (Paris 1897, tr. it. di M.-J. Cambieri Tosi, Il suicidio, To-
Durkheim rino 1998). Come sostiene Anthony Giddens, «la preoccupazione principale di Durkheim in Il suicidio è forse quella di portare alla luce la natura di questa lacuna morale nelle società contemporanee, attraverso l’analisi precisa di un fenomeno specifico. A ciò si deve aggiungere un obiettivo metodologico: l’applicazione del metodo sociologico alla spiegazione di quello che, a prima vista, potrebbe sembrare un fenomeno del tutto “individuale”» (Capitalism and Modern Social Theory, Cambridge 1971, tr. it. di C. Cantini e M. Pogatschnig, Capitalismo e teoria sociale, Milano 1975, p. 151). L’analisi dei tassi di suicidio porta Durkheim a scoprire che essi aumentano al decrescere dell’integrazione degli individui nei vari settori della società: ad esempio, il numero dei suicidi è maggiore fra i protestanti che fra i cattolici, e fra questi è maggiore che fra gli ebrei. Questo non accade per motivi legati alla religione, ma piuttosto perché il protestante ha meno punti di riferimento del cattolico, vivendo in una chiesa meno integrata, e il cattolico meno degli ebrei, la cui comunità è notoriamente molto coesa. Allo stesso modo, gli individui non sposati presentano tassi di suicidio più alti dei coniugati e così via: il suicidio varia dunque in ragione inversa al grado di integrazione sociale dell’individuo. Tale tipo di suicidio è il cosiddetto suicidio «egoistico», perché nasce dalla eccessiva affermazione dell’io individuale su quello sociale, ma non è l’unico tipo di suicidio esistente. Nella società moderna, infatti, è diffuso anche il suicidio «anomico», dovuto alla mancanza di regolazione morale che caratterizza le relazioni economiche, e alle fluttuazioni dei cicli economici che, indifferentemente dal loro carattere ascendente o discendente, distruggono i modi tradizionali di vita, ponendo gli individui in una situazione in cui le loro abituali aspettative sono messe in crisi. Tuttavia, essendo l’anomia – come già notato in precedenza – uno stato patologico della società, anche il suicidio a essa dovuto è patologico. Nelle società tradizionali, infine, il suicidio assume un carattere differente, dovuto all’esistenza di una forte coscienza collettiva che prevale su quella individuale. Qui infatti il suicidio è di tipo «altruistico», che può essere obbligatorio se vi è l’obbligo morale di uccidersi (la moglie che in alcune società indiane doveva raggiungere il coniuge defunto sul rogo), o facoltativo quando suicidarsi fa parte della 3169
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Dussel conservazione di un codice d’onore e di prestigio. Nella sua ultima grande opera, Les formes élémentaires de la vie religieuse (Paris 1912, tr. it. di C. Cividali, Le forme elementari della vita religiosa, Milano 19823), Durkheim ritorna sul tema della continuità fra le forme di società tradizionali e quelle moderne, accomunate comunque da un vincolo di solidarietà e dalla presenza di credenze condivise: nelle seconde, però, tali credenze non possono più essere costituite dalla religione tradizionale, che mal si accorda con un mondo sempre più secolarizzato. Il fatto, secondo Durkheim, è che la religione in realtà non è altro che la trasfigurazione della società, e gli interessi religiosi sono soltanto la forma simbolica degli interessi sociali e morali. Egli può giungere a tale conclusione esaminando le forme religiose a partire dalla più elementare, quella totemica. Caratteristica della religione non è tanto la presenza della divinità; ciò che accomuna le diverse religioni è il fatto di dividere il mondo in sacro e profano. L’oggetto sacro (come può essere un totem) è un simbolo della società: esso infatti è sentito come qualcosa di più grande e potente dell’individuo, ma è anche avvertito come parte di sé (del proprio clan, per esempio), rispecchiando quindi il rapporto fra individuo e società, che si pone nei confronti del singolo con i caratteri tipici del sacro, quali trascendenza, superiorità e imperatività. M. de Benedittis BIBL.: A. GIDDENS, Emile Durkheim, Sussex 1979, tr. it. di R. Falcioni, Durkheim, Bologna 1998; G. POGGI, Emile Durkheim, Bologna 2003.
DUSSEL, ENRIQUE. – Filosofo e sociologo arDussel gentino, n. a La Paz (Mendoza, Argentina) nel 1934. Dottore in filosofia a Madrid e in lettere alla Sorbona. È stato professore di etica all’università di Cuyo. Ha fatto l’esperienza di operaio in Israele. Nel 1973 subì un attentato da parte della destra peronista e per le sue idee politiche dovette lasciare l’Argentina per insegnare all’università nazionale autonoma di Città del Messico. L’evoluzione di Dussel può essere scandita nelle seguenti tappe: la «simbolica latinoamericana» (1961-68) che sviluppò durante il decennio di formazione in Europa; il periodo della maturità culminante nella fondazione della filosofia della liberazione sulla base del «metodo analettico»; un confronto tra la filosofia 3170
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della liberazione e il marxismo (1976-88) in concomitanza con l’esilio in Messico; infine l’apertura alla pragmatica trascendentale in dialogo con K.O. Apel e J. Habermas con importanti incontri in Germania e America latina (cfr. K.O. Apel - E. Dussel, Etica della comunicazione e etica della liberazione, a cura di A. Savignano, Napoli 1999). A. Savignano BIBL.: Para una ética de la liberación latinoamericana, México 1969-75, 5 voll.; Para una destrucción de la historia de la ética, Mendoza 1970; América Latina. Dependencia y liberación, Buenos Aires 1974; El dualismo en la antropología de la cristianidad, Buenos Aires 1974; Método para una filosofia de la liberación, Salamanca 1974; Filosofía de la liberación, México 1977, tr. it. a cura di A. Savignano, Filosofia della liberazione, Brescia 1992; La producción teórica de Marx, México 1985; Hacia un Marx desconocido, México 1988; El ultimo Marx y la liberación latinoamericana, México 1990; Etica de la liberación, Madrid 1998. Su Dussel: E. RICARDO NOCETI, La ética de la liberación en Dussel, Buenos Aires 1988; H. SCHELKSCHORN, Ethik der Befreiung. Einführung in die Philosophie Dussels, Freiburg im Breisgau 1992; AA.VV., Für Dussel, Aachen 1995; A. INFRANCA, El otro Occidente, Buenos Aires 2000.
DUTENS, Dutens VINCENT-LOUIS. – Letterato, filosofo, diplomatico, n. a Tours il 15 genn. 1730, m. a Londra il 23 magg. 1812. Fece il suo esordio con una tragedia, rappresentata con successo a Orléans nel 1748, ma si impegnò poi in ricerche antiquarie e filosofiche e soprattutto nel lavoro di edizione delle opere di Leibniz, oltre che di Epitteto. Si trasferì in Inghilterra alla ricerca di un’occupazione e la trovò nell’ambito della diplomazia, affiancando gli ambasciatori inglesi in varie capitali europee. Fu più volte in Italia e a lungo a Torino. La sua fama è legata all’edizione di Leibniz (di cui inoltre pubblicò per la prima volta i Nouveaux essais sur l’entendement humain): Leibnitii Opera omnia, nunc primum collecta, in classes distribuita, praefactionibus et indicis exornata (Genève 1768, 6 voll). Dutens riaprì inoltre la «querelle des anciens et des modernes» con le Recherches sur l’origine des découvertes attribuées aux modernes, où l’on démontre que nos plus célèbres philosophes ont puisé la pluspart de leurs connaissances dans les ouvrages des Anciens: et que plusieurs vérités importantes sur la Religion ont été connues des Sages du Paganisme (Paris 1766, 2 voll). Più volte riedita, quest’opera suscitò fra l’altro le critiche vivaci
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di Condorcet e di Naigeon. Tra gli altri scritti sono da ricordare i seguenti: Institutions Leibnitiennes ou Précis de la Monadologie (Lyon 1768); Le tocsin (Roma 1769 – contro i philosophes, in particolare Voltaire e Rousseau – riedito nel 1777 col titolo: Appel au bon sens); La logique ou l’art de raisonner (Paris 1773). M. Longo BIBL.: P. GROSCLAUDE, Une négotiation prématurée: Louis Dutens et les protestants français, in «Bullétin de la Société d’histoire du Protestantisme», 104 (1958), pp. 73-93; J.W. LORIMER, A neglected aspect of the «Querelle des anciens et des modernes», in «The Modern Language Review», 52 (1956), pp. 179-185; G. PIAIA, Storia della filosofia e «histoire de l'esprit humain» in Francia tra Enciclopedia e Rivoluzione, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo Illuminismo e l'età kantiana, Padova 1988, pp. 216-217.
DU TERTRE, RODOLPHE. – Scrittore, gesuiDu Tertre ta, n. ad Alençon, o a Mortagne (Orno), m. a Parigi nel 1762. Si congettura che possa essere identificato con il «p. Temmen» che è nominato nella lettera (13 novembre 1706) di Leibniz a Des Bosses e con il «Temmigk» della lettera del 14 giugno 1708. Dapprima fu seguace di Malebranche, ma poi fu indotto dai suoi superiori a confutarlo, cosa che fece con una Réfutation d’un nouveau système de métaphysique (Paris 1715). Scrisse anche dei vivaci Entretiens sur la réligion contro gli atei e i deisti (Paris 1743, 3 voll., tr. it. Trattenimenti sovra la religione, Napoli 1749; L’Aquila 1818). S. Contri BIBL.: C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Bruxelles-Paris 1890-1909, vol. VII, coll. 1936-37 (riproduzione Louvain 1960); V. MATHIEU, Lettere di Leibniz al padre Des Bosses, Torino 1961.
DUVERGIER HAURANNE, JEAN. – TeDuvergier de DE Hauranne ologo giansenista, n. a Bayonne nel 1581, m. a Parigi l’11 ott. 1643. Noto come abate di Saint-Cyran (dal nome dell’abbazia di cui fu commendatario nel 1620), studiò alla Sorbona e quindi al collegio dei gesuiti di Lovanio. Amico di Giansenio, si dedicò agli studi patristici; nel 1633 divenne direttore spirituale di Port-Royal. A causa delle sue posizioni giansenistiche fu arrestato nel 1638 per ordine di Richelieu. Incarcerato a Vincennes, venne rilasciato solo il 6 febbraio 1643, dopo la morte dello stesso Richelieu.
Dworkin Fortemente influenzato da Agostino, il pensiero di Duvergier de Hauranne è centrato sul tema della «conversione», intesa come nuova creazione dell’essere umano: la conversione non può essere che opera di Dio; di qui la necessità della tolleranza verso coloro che non credono, in quanto sarebbe impossibile acquisire dei fedeli alla chiesa attraverso mezzi puramente umani. I suoi scritti (fra cui la Théologie familière, una sorta di catechismo giansenista apparso a Parigi nel 1642 e messo all’Indice nel 1654, e le Lettres chrétiennes et spirituelles, Paris 1645) furono raccolti nelle Oeuvres (Lyon 1679). A. Del Noce - F. Grigenti BIBL.: J. ORCIBAL, Jean Duvergier de Hauranne abbé de Saint-Cyran et son temps, Paris 1947-48, 2 voll.; J. ORCIBAL, Saint-Cyran et le jansénisme, Paris 1961; J. ORCIBAL, La spiritualité de Saint-Cyran avec ses écrits de piété inédits, Paris 1962; A. BARNES (a cura di), Lettres inédites de Jean Duvergier de Hauranne, Paris 1962; M. ESCHOLIER, Port-Royal, Paris 1965.
DWORKIN, RONALD MYLES. – N. nel 1931, ha Dworkin compiuto i suoi studi di filosofia e jurisprudence presso l’università di Oxford e gli studi di diritto presso l’Harvard Law School. Dal 1969 al 1998 ha occupato la prestigiosa cattedra di Jurisprudence dell’università di Oxford in sostituzione di H.L.A. Hart. Attualmente è docente presso la New York University. Nei suoi primi scritti egli ha sviluppato una veemente e acuta critica nei confronti del positivismo giuridico e, in particolare, della versione difesa da Hart. Il giuspositivismo nega che vi sia una connessione necessaria tra diritto e morale e afferma che l’individuazione del diritto dipende da determinati fatti sociali. Dworkin rifiuta entrambe queste assunzioni e ritiene che l’idea hartiana, secondo cui la validità delle norme giuridiche si fonda su una «norma di riconoscimento» di natura convenzionale, non permetta di rendere conto dell’esistenza di standard giuridici diversi dalle regole e, in particolare, dell’esistenza dei principi giuridici. Questi ultimi sono validi se, e in quanto, esprimono un’appropriata concezione della giustizia. A questa concezione del diritto Dworkin associa un’articolata teoria dell’interpretazione giuridica, il cui aspetto di maggiore originalità è rappresentato dalla tesi secondo cui ogni caso giudiziale ammette un’unica risposta giusta e/o corretta. Nei casi facili, la decisione corretta è l’esito di un sillo3171
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Dynamis gismo normativo la cui premessa maggiore è una regola, mentre la premessa minore è rappresentata dai fatti del caso in questione. Nei casi difficili, la decisione corretta scaturisce dall’appropriato bilanciamento dei principi confliggenti che insistono sul caso da decidere. L’attenzione che Dworkin tributa ai principi e alla interpretazione giuridica, nonché qualche sporadica citazione di tesi gadameriane rintracciabile nei suoi testi, è indice dell’influenza che l’ermeneutica continentale ha esercitato sul suo pensiero. Nei suoi scritti più maturi, Dworkin si impegna a delineare una teoria del diritto più strutturata, che egli definisce «diritto come integrità». L’idea centrale è quella secondo cui il diritto sarebbe una pratica sociale che ruota intorno ad alcuni principi e valori – primo fra tutti, l’«eguale considerazione e rispetto» – condivisi dai partecipanti. Gli interessi di Dworkin non sono circoscritti alla filosofia e alla teoria del diritto. Meritano di essere menzionati i suoi studi sul valore dell’uguaglianza e, in particolare, la sua difesa, da una prospettiva liberale alla Rawls, dell’eguaglianza di risorse (o di mezzi), piuttosto che dell’eguaglianza di risultati. Dworkin si è inoltre occupato di questioni di etica applicata, quali l’aborto e l’eutanasia. Egli ritiene che l’unico modo per evitare che il dibattito su questi temi sia vuoto e sterile consista nel prendere le mosse da un valore condiviso da tutti, valore che egli individua nella sacralità della vita intesa in senso liberale. Infine, in anni recenti, Dworkin ha anche contribuito al dibattito, specificamente statunitense, circa i criteri che devono orientare l’interpretazione della costituzione. L’obiettivo critico di Dworkin è principalmente l’«originalismo», secondo il quale l’interpretazione costituzionale deve risolversi nell’individuazione dell’intenzione dei padri costituenti. In opposizione a tale concezione, Dworkin ritiene che, quando sorgono delle controversie relative alla corretta interpretazione della costituzione, bisogni necessariamente ricorrere ad argomenti morali e privilegiare l’interpretazione che favorisca l’eguaglianza, «virtù sovrana» che consente di ricondurre a unità la poliedrica produzione dworkiniana. A. Schiavello BIBL.: Taking Rights Seriously, Cambridge (Massachusetts) 19782, tr. it. parziale di F. Oriana, I diritti presi sul serio, Bologna 1982; A Matter of Principle,
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Cambridge (Massachusetts) 1985, tr. it. di E. D’Orazio, Questioni di principio, Milano 1990; Law’s Empire, Cambridge (Massachusetts) 1986, tr. it. di L Caracciolo di San Vito, L’impero del diritto, Milano 1989; A Bill of Rights for Britain, London 1990; Life’s Dominion, London 1993, tr. it. di C. Bagnoli, Il dominio della vita, Milano 1994; Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution, Oxford 1996; Sovereign Virtue, Cambridge (Massachusetts) 2000, tr. it. di G. Bettini, Virtù sovrana, Milano 2002; Justice in Robes, Cambridge (Massachussets) 2006. Su Dworkin: M. COHEN (a cura di), Ronald Dworkin and Contemporary Jurisprudence, London 1983; S. GUEST, Ronald Dworkin, Edinburgh 1992; A. HUNT (a cura di), Reading Dworkin Critically, New York 1992; A. SCHIAVELLO, Diritto come integrità: incubo o nobile sogno? Saggio su Ronald Dworkin, Torino 1998.
DYNAMIS (duvnami"). – Dynamis deriva dal Dynamis verbo dynamai (duvnamai), che significa «potere, essere in grado di, essere capace di». Aristotele ha così riassunto i significati che il termine ha assunto prima di lui (cfr. Metaph., 1019 a 15 ss., tr. it. di G. Reale): 1) «il principio di movimento o di mutamento che si trova in altra cosa, oppure in una cosa stessa in quanto altra»; 2) «il principio per cui una cosa è fatta mutare o è mossa da altro o da se stessa in quanto altra»; 3) «la capacità di condurre a termine una data cosa, bene o nel modo in cui si vorrebbe»; 4) «lo stesso vale anche per la potenza passiva»; 5) «si chiamano potenze tutti gli stati in virtù dei quali le cose sono assolutamente impassibili o immutabili o non facilmente mutabili in peggio». Aristotele aggiunge un significato ulteriore: «diciamo in potenza, per esempio, un Ermete nel legno, la semiretta nell’intera retta, perché li si potrebbe ricavare, e diciamo pensatore colui che non sta speculando, se ha capacità di speculare; diciamo invece in atto (energheia, ejnevrgeia) l’altro modo di essere della cosa (cfr. Metaph., 1048 a 25 ss., tr. cit.)». In ambito psicologico il termine dynamis ha generalmente assunto il significato di «facoltà», sia come capacità dell’anima di provare determinate sensazioni o passioni (cfr. Aristotele, Eth. Nic., 1105 b 20 ss.), sia come «parte» o funzione dell’anima (cfr. Aristotele, De anima 414 a 29 ss.). Quest’ultimo significato permane anche in età ellenistica (cfr. H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsiae 1903-24, vol. II, 823 ss.). Si veda infine il significato che il termine assume in Filone di Alessandria («potenza» è la manifestazione dell’attività di Dio; cfr. Quaestiones et so-
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Dyroff
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lutiones in Exodum II, 68; De Abrahamo 119123) e in Plotino, dove l’uno è inteso come «potenza» e come principio perché dà origine a tutti gli altri esseri (cfr. Enn. V 2, 15-16). E. Vimercati ➨ ENERGHEIA.
DYROFF, ADOLF. – N. a Damm presso AschafDyroff fenburg il 2 febbr. 1866, m. a Monaco il 3 lug. 1943. Allievo di Dilthey, fu professore dapprima a Freiburg im Breisgau e poi, dal 1903, nella facoltà cattolica di Bonn. Dyroff iniziò la sua attività scientifica come cultore di filosofia antica (donde le opere: Die Ethik der alten Stoa, Berlin 1897, e Demokritstudien, München 1899), rivolgendo successivamente il suo interesse alla psicologia e alla filosofia teoretica, proseguendo tuttavia sempre gli studi di storia della filosofia medievale, moderna e soprattutto rinascimentale. Tra i suoi scritti: Über den Existenzialbegriff, 1902; Über das Seelenleben des Kindes, 1904 (19112); Rosmini, 1906; Einführung in die Psychologie, Leipzig 1907 (19326); Religion und Moral, Berlin-Bonn 1925; Betrachtungen über Geschichte, Köln 1925; con W. Hohnen, Die Philosophie Christoph Bernhard Schlüter und Seine Vorläufer, Paderborn 1935; Der Peripatos über das Greisenalter, ivi 1939; Der Gottesgedanke bei den europäischen Philosophen in geschichtlicher Sicht, Fulda 1942; Einleitung in die Philosophie; e Ästhetik des tätigen Geistes, ed. postuma a cura di W. Szylarski, in «Deus et anima. Archiv der Christlichen Philosophie und Dichtung», 1948, 1, 2-3. Dyroff fu anche il cura-
tore tra il 1908 e il 1920 dei 13 voll. della collezione «Renaissance und Philosophie». Per Dyroff la filosofia, ch’egli intende come philosophia perennis, ha l’intento di ricercare i principi fondamentali di ogni esplicazione dell’essere per coordinare in un’unica immagine del mondo, sempre condizionata temporalmente, tutte le conoscenze particolari. Lo sviluppo delle varie parti della filosofia: gnoseologia (improntata al realismo critico), etica, estetica, filosofia della religione, metafisica, filosofia del linguaggio, filosofia politica ecc. offre per Dyroff una problematica aperta, in base a cui si può intraprendere una sistemazione dei valori manifestantisi nei vari domini dell’essere e delle attività umane, senza indulgere alle concezioni soggettivistiche o alla ipostatizzazione dei valori stessi, per la fondazione di una «scienza della cultura», a cui Dyroff volle contribuire con i suoi saggi storici. F. Barone BIBL.: Autoesposizione in Die Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, V, Leipzig 1924; e in W. ZIEGENFUSS - G. JUNG, Philosophen-Lexikon. Handwörterbuch der Philosophie nach Personen, Berlin 1949-50, vol. I, pp. 270-272; AA.VV., Synthesen in der Philosophie der Gegenwart. Festgabe zum 60. Geburtstage A. Dyroff, Bonn 1926; AA.VV., Festgabe A. Dyroff zum 70. Geburtstag von Freunden und Schülern gewidmet, in «Philosophisches Jahrbuch» 1936, pp. 1-288; W. SZYLARSKI, Adolf Dyroff, Bonn 1947; W. SZYLARSKI, s. v. in «Neue deutsche Biographie», IV, Berlin 1959, pp. 212-213; V. RÜFNER, Adolf Dyroff, in «Philosophisches Jahrbuch», 1966-67, pp. 220-228.
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[E] EADMERO (Cantuariensis). – Monaco beneEadmero dettino inglese, storico della chiesa anglosassone, agiografo e teologo, n. intorno al 1060, m. nel 1128 ca., arcivescovo di St. Andrews, dove però non aveva potuto stabilirsi. Discepolo e quindi amico inseparabile di Anselmo, ne pianse la morte in una calda elegia e ne scrisse la vita con serietà di studio ed eleganza di stile (De vita et conversatione Anselmi, in 2 ll., dall’anno 1093 all’anno 1109, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, vol. CLVIII, coll. 49-118; ed. a cura di E.W. Southern, The Life of St. Anselm, Archibishop of Canterbury, by Eadmer, Oxford 19722). Fu autore anche di una Historia novorum in Anglia (in J.P. Migne, op. cit., vol. CLIX, coll. 347-524; ed. a opera di M. Rule, Rerum Britannicarum Medii Aevi scriptores, London 1884). Lasciò diverse opere, per lo più di carattere storico; a lui sono falsamente attribuiti l’opera De Anselmi similitudinibus (ibi, coll. 605-708) e alcuni scritti di teologia. Unica eccezione pare essere un Tractatus de conceptione sanctae Mariae (ibi, coll. 301-318; ed. a cura di H.H.C Thurston e Th. Slater, Friburgi Brisgovie 1904), di particolare rilievo e precedentemente attribuito ad Anselmo. A. Tognolo BIBL.: B. HEURTEBIZE, s. v. in A. VACANT - E. MANGENOT - É AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1909-47, vol. IV, coll. 1977-1978; H. RICHTER, Englische Geschichtsschreiber des XII Jahrhunderts, Berlin 1938; R.W. SOUTHERN, St. Anselm and his Biographer, Cambridge 1966; A. GRANSDEN, Historical Writings in England, vol. I: c. 550 to c. 1307, London 1974.
EATON, RALPH MONROE. – N. a Stockton (CaEaton lifornia), il 14 giu. 1892, m. a Cambridge (Massachusetts) il 13 apr. 1932. Filosofo analitico statunitense, si è formato e ha insegnato alla University of California e a Harvard, ed è stato segnato dall’influenza, tra gli altri, di Royce e Withehead. Il centro del suo lavoro filosofico è costituito dalla teoria della
conoscenza nelle sue espressioni simboliche, trattata nella sua opera principale: Symbolism and Truth: An Introduction to the Theory of Knowledge (Cambridge [Massachusetts] 1925, rist. New York 1964. Quest’opera entra anche nel dibattito tra Russell e Raphael Demos sulla negazione, rispetto al quale Eaton sostiene la possibilità di analizzare il negativo come tale, senza considerazioni su verità, falsità o incompatibilità. Per Eaton la teoria della conoscenza è indipendente dall’indagine metafisica e psicologica, ma intrattiene con esse relazioni necessarie e conduce alla fine alla metafisica. In General Logic (New York 1931), presenta un quadro della logica fino ai suoi sviluppi contemporanei, sostenendo la continuità tra la logica classica aristotelica e la logica matematica. P. Valenza BIBL.: J.D. MORENO, Eaton on the Problem of Negation, in «Transactions of the C.S. Peirce Society», 16 (1980), pp. 59-72.
EBBINGHAUS, HERMANN. – Psicologo tedeEbbinghaus sco, n. a Barmen il 24 genn. 1850, m. a Halle il 26 febbr. 1909. Ricercatore tenace e metodico, deviò dagli iniziali interessi filosofici formandosi come psicologo indipendentemente da ogni scuola. Fu ammiratore di G.Th. Fechner, di cui seguì la rigorosa metodologia sperimentale applicandola, secondo proprie direttive, allo studio dei processi mentali superiori. A partire dal 1880 insegnò filosofia presso l’università di Berlino, dove aprì un piccolo laboratorio di psicologia, e si affermò pubblicando nel 1885 il libro Ueber das Gedächtnis. Untersuchungen zur experimentellen Psychologie (Leipzig 1885, ripr. Amsterdam 1966, tr. it. di C. Conoldi e A.M. Longoni, La memoria, Bologna 1975). Questo lavoro pionieristico nello studio della memoria esponeva le lunghe ricerche quantitative che aveva condotto tra il 1879 e il 1884 su se stesso, esaminando la propria capacità di memorizzare numeri (da 0 a 9), toni musicali, poesie e brani di prosa. Resosi conto, tuttavia, che il materiale memorizzabile di senso 3175
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Ebbinghaus compiuto o con diverse possibilità di combinazione provocava infiniti intrecci di associazioni che differivano da soggetto a soggetto secondo modalità che non potevano essere controllate e calcolate, predispose la semplificazione degli stimoli e l’isolamento delle risposte attraverso l’utilizzazione di materiale uguale per tutti i soggetti, ossia sillabe senza senso (suoni consonantici), pertanto prive di valore semantico. Essendo, in tal modo, analizzabili le condizioni sperimentali, ritenne che le conclusioni tratte potevano essere espresse con la massima esattezza. La procedura sperimentale prevedeva la correlazione tra il numero delle sillabe memorizzate, il numero delle ripetizioni del materiale stimolo e il tempo intercorso dalla fase di apprendimento. I risultati erano rappresentati graficamente attraverso la cosiddetta curva dell’oblio. Nello studio dell’apprendimento, inoltre, Ebbinghaus adottò la tecnica del risparmio, consistente nel misurare quante ripetizioni venivano risparmiate per riapprendere il materiale studiato in precedenza. Nel 1890 rifiutò l’invito, rivoltogli dalla Cornell University, a ricoprire la cattedra di psicologia, poi occupata dall’allievo di W. Wundt, E.B. Titchener. Nello stesso anno fondò, con Arthur König, la «Zeitschrift für Psychologie und Physiologie der Sinnesorgane», a cui collaborarono, fra gli altri, Helmholtz, Exner, Hering e Stumpf, tutti psicologi e fisiologi indipendenti dalla scuola wundtiana. Chiamato, nel 1894, dall’università di Breslau per insegnarvi filosofia, anche qui aprì un laboratorio. Vi rimase fino al 1905, anno in cui si trasferì a Halle per trascorrervi il resto della sua vita. I Grundzüge der Psychologie (Leipzig 1911-133, 2 voll., Berlin 19194) la cui pubblicazione iniziò a Lipsia nel 1897 e proseguì fino al 1902, e che costituiscono tuttora un documento di notevole interesse, incontrarono grande successo fra gli studiosi del tempo per linearità e chiarezza di stile. A Ebbinghaus si devono inoltre ricerche sulle capacità mentali dei ragazzi di età scolare (Über eine neue Methode zur Prüfung der geistigen Fähigkeiten und ihre Anwendung bei Schulkindern, Hamburg-Leipzig 1897) mediante metodi poi divenuti modello per alcuni test mentali. È anche noto per le ricerche sulla percezione cromatica (Theorie des Farbensehens, Hamburg-Leipzig 1893) e per uno scritto polemico contro la psicologia esplicativa di W. Dil3176
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they (Über erklärende und beschreibende Psychologie, in «Zeitschrift für Psychologie», 9, 1896, pp. 161-205). E. Ponzo - M. Sinatra BIBL.: D. SHAKOW, Hermann Ebbinghaus, in «American Journal of Psychology», 42 (1930), pp. 505-518; E.G. BORING, A History of Experimental Psychology, New York 19502, pp. 386-391; L. POSTMAN, Hermann Ebbinghaus, in «American Psychologist», 23 (1965), pp. 149-157; W. TRAXEL, Einleitung, in H. EBBINGHAUS, Urmanuskript «Ueber das Gedächtnis» 1880, Passau 1983, pp. I-VI; W. TRAXEL - H. GUNDLACH (a cura di), Ebbinghaus-Studien 1, Passau 1986.
EBBINGHAUS, JULIUS. – Filosofo neokantiaEbbinghaus no, figlio di Hermann, n. a Berlino il 9 nov. 1895 e m. a Marburgo nel 1981. Ha insegnato a Friburgo in Brisgovia, a Rostock e a Marburgo. Professore emerito. I suoi numerosi scritti sono stati raccolti in Gesammelte Aufsätze. Vorträge und Reden (Hildesheim 1968, poi in Gesammelte Schriften, a cura di H. Oberer e G. Geismann, Bonn 1986-94, 4 voll.). Particolare attenzione ha rivolto all’idea di diritto, visto come diritto dell’umanità e diritto degli stati, come diritto naturale e diritto positivo. Il tema della tolleranza è stato affrontato sia a livello teorico (cfr. Über die Idee der Toleranz. Eine staatrechtliche und religionsphilosophische Untersuchung, in «Archives de Philosophie», 4, 1950, pp. 1-34), sia a livello storico, con una fortunata traduzione delle lettere sulla tolleranza di Locke, Brief über Toleranz, Hamburg 1957. Nell’ambito del pensiero morale di Kant ha prestato particolare attenzione al problema dell’imperativo categorico: Interpretation and Misinterpretation of the Categorical Imperative, in R.P. Wolff (a cura di), Kant: A Collection of Critical Essays, Melbourne 1968; Die Formeln des kategorischen Imperativs und die Ableitung inhaltlich bestimmter Pflichten, in «Filosofia», 32 (1959), pp. 733-752; Die Naturgesetz-Formel des kategorischen Imperativs und die Ableitung inhaltlich bestimmter Pflichten, in «Kant-Studien», 93 (2002), pp. 371-373. Dal 1940 al 1945 è stato l’editore dell’Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie. A Monaco è raccolto lo Julius-Ebbinghaus-Archiv. S. Marcucci BIBL.: altre opere: Relativer und absoluter Idealismus, Leipzig 1910; Kants Lehre vom ewigen Frieden und die Kriegsschuldfrage, Tübingen 1929; Ueber die Fortschritte der Metaphysik, Tübingen 1931; Zu Deutsch-
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lands Schicksalswende, Frankfurt am Main 19472 (1946); Die Strafen für Tötung eines Menschen nach Prinzipien einer Rechtsphilosophie der Freiheit, Bonn 1968; Traditionfeindschaft und Traditionsgebundenheit, Frankfurt am Main 1969; Wozu Rechtsphilosophie? Ein Fall ihrer Anwendung, Berlin - New York 1972. Su Ebbinghaus: K. KOLENDA, Professor Ebbinghaus’ Interpretation of the Categorical Imperative, in «The Philosophical Quarterly», 5 (1955), pp. 74-77; K. KOLENDA, Vervollständigte Bibliographie Julius Ebbinghaus [fino al 1959], in Gesammelte Aufsätze, Darmstadt 1968, pp. 335-339; H. ZUCCHI - R. MALIANDI, Un diálogo con pensadores alemanes acerca de la clasificación de las ciencias, in «Revista de filosofìa» (La Plata), 22 (1970), pp. 21-27; K. HERB, Das Julius-Ebbinghaus-Archiv, in «Kant-Studien», 90 (1989), pp. 345353; G. GEISMANN, Die Formeln des kategorischen Imperativs nach H.J. Paton, N.N., Klaus Reich und Julius Ebbinghaus, in «Kant-Studien», 93 (2002), pp. 374-384.
EBELING, GERHARD. – Teologo, n. a Berlino Ebeling il 6 lug. 1912, m. a Zurigo il 30 sett. 2001. Allievo a Marburgo di R. Bultmann, ha insegnato Storia della chiesa a Tubinga e Teologia sistematica a Zurigo, dove ha diretto l’Institut für Hermeneutik. Con E. Fuchs ha dato origine a un sodalizio intellettuale che va sotto il nome di «Nuova ermeneutica» e si è posto per molti aspetti vicino alle problematiche del «secondo» Heidegger e, soprattutto, di H.-G. Gadamer. Non ha però cessato di cercare ispirazione dall’opera di Lutero, intesa come evento linguistico che interpella e continua a produrre effetti nella storia (cfr. Luther. Einführung in sein Denken, Tübingen 1964, tr. it. di G. Beari, Lutero, un volto nuovo, Brescia 1970). Ebeling è persuaso che le preoccupazioni dei riformatori e quelle degli esponenti dell’ermeneutica filosofica contemporanea convergano nell’importanza attribuita alla parola: l’esistenza infatti è tale «attraverso» e «nella» parola. Il suo itinerario è delineato soprattutto in due linee di ricerca: i saggi raccolti in Wort und Glaube (Tübingen 1960-75, 3 voll., tr. it. parziale del II volume di G. Mion, Parola e fede, Milano 1974) e la Dogmatik des Christlichen Glauben (Tübingen 1979, 3 voll., tr. it. di A. Rizzi, Dogmatica della fede cristiana, Genova 1990). Benché faccia proprie alcune istanze demitizzanti e l’interpretazione esistenziale di Bultmann intesa in senso linguistico, prende però le distanze da lui quando afferma che il kerygma
Eberhard predicato dalla chiesa rimanda come a suo fondamento al Gesù storico; è pertanto un evento della Parola. Poiché si deve parlare in maniera responsabile di Dio, una particolare sollecitazione a farlo viene da una teologia ermeneuticamente vigile, espressione di una teologia fondamentale che sempre presuppone un evento della Parola fissato nel testo delle Scritture, il quale autorizza l’annuncio e di nuovo lo rende possibile come evento della Parola. In tal modo sono ricondotti a unità il compito e il metodo sia della teologia storica (che riflette sul «tramandato») sia della teologia dogmatica (impegnata a discernere ciò che dev’essere tramandato), che si fa a sua volta actus tradendi, evento attualizzante di trasmissione, verificando così la parola di Dio nelle situazioni fondamentali dell’uomo (cfr. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Brescia 1992, pp. 76-78). In una stagione che vede incombere il rischio di un incrinamento del rapporto tra la tradizione linguistica cristiana e «l’intrico dei linguaggi» contemporanei, Ebeling ha elaborato una teoria del linguaggio teologico in Einführung in die theologische Sprachlehre (Tübingen 1971, tr. it. di L. Tosti, Introduzione allo studio del linguaggio teologico, Brescia 1981) in vista del ristabilimento della corretta funzione comunicativa della teologia. P. Grassi BIBL.: J. ROBINSON - L. COBB (a cura di), The New Hermeneutic, New York 1964, tr. it. parziale di G. Torti, La nuova ermeneutica, Brescia 1967; R. MARLÉ, Parler de Dieu aujourd’hui. La théologie herméneutique de G. Ebeling, Paris 1975; W. JEANROND, Theological Hermeneutics. Development and Significance, London 1994, tr. it. di G. Volpe, L’ermeneutica teologica. Sviluppo e significato, Brescia 1994, pp. 258 ss.
EBERHARD, JOHANN AUGUST. – Illuminista Eberhard tedesco, n. a Halberstadt il 31 ag. 1739, m. a Halle il 6 genn. 1809. Rappresentante della «filosofia popolare». Dopo gli studi a Halle, ove fu allievo di Semler, si stabilì a Berlino assumendo la carica di pastore a Charlottenburg. Fu in stretto contatto con Mendelssohn, Nicolai e con lo stesso Federico II; nonostante questi appoggi, non potè continuare la carriera ecclesiastica alla quale aspirava, a causa dell’ostilità dell’ambiente religioso verso la sua Neue Apologie des Sokrates (Berlin 17762, 2 voll. [1772]), in cui criticava come demoraliz3177
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Eberstein zanti e antiumane numerose dottrine della rivelazione cristiana (grazia, dannazione dei pagani ecc.) e offriva un significativo esempio di interpretazione razionalistica della teologia. Nella polemica contro Eberhard intervenne, un po’ a sorpresa, lo stesso Lessing, che difese Leibniz dall’accusa di aver simulato nella Teodicea la credenza nelle pene eterne (cfr. G.E. Lessing, Gesammelte Werke, Berlin 1956, vol. VII, pp. 454-488). Nel 1778 Eberhard accettò la cattedra di filosofia presso l’università di Halle, vacante dopo la morte del wolffiano G.F. Meier. I suoi interessi si allargarono allora all’ambito più propriamente filosofico: scrisse una Allgemeine Geschichte der Philosophie (Halle 1778), si occupò di estetica e di sinonimica tedesca (il suo Versuch einer allgemeinen deutschen Synonymik, Halle 1795-1802, raggiunse la diciassettesima edizione nel 1910). La sua concezione (come risulta dalla Allgemeine Theorie des Denkens und Empfindens, Berlin 1776; da Von dem Begriffe der Philosophie und ihren Theilen, ivi 1778; e dalla Sittenlehre der Vernunft, ivi 1781) è intessuta di motivi leibniziani e wolffiani, che egli tenta di conciliare, ecletticamente, con l’empirismo inglese. Sono da ricordare, per l’estetica, Theorie der schönen Künste und Wissenschaften, Berlin 1783, e Handbuch der Aestetik, Halle 1803-05, 4 voll. Eberhard avversò il criticismo kantiano (definito «un documento assai curioso per la storia delle aberrazioni dello spirito umano»), polemizzando a lungo sulle riviste «Philosophisches Magazin» (Halle 1788-92, 4 voll.) e «Philosophisches Archiv» (ivi 1792-95, 2 voll.), da lui fondate. All’affermazione di Eberhard (nel primo volume del «Philosophisches Magazin») che il meglio del criticismo era già nella filosofia leibniziana, Kant rispose con il saggio Über eine Entdeckung nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine ältere entbehrlich gemacht werden soll (Königsberg 1790), in cui rilevò l’incapacità della filosofia dogmatica di giustificare i giudizi sintetici a priori (laddove Eberhard muoveva proprio dal presupposto della portata ontologica del principio di contraddizione e degli altri principi logici). Eberhard criticò anche Fichte, che difese tuttavia dall’accusa di ateismo in Über den Gott des Herrn Prof. Fichte und den Götzen seiner Gegner (Halle 1799). Negli ultimi anni ritornò sui temi giovanili con l’opera Der Geist des Urchristenthums. Ein Handbuch der Geschichte der philo3178
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sophischen Cultur, Halle 1807-08, 3 voll., scritta contro Le Génie du Christianisme di Chateaubriand e l’ormai imperante Mystizismus della cultura romantica. F. Barone - M. Longo BIBL.: L. GABE, s. v., in AA.VV., Neue deutsche Biographie, Berlin 1959, vol. IV, pp. 240-241; A. PUPI, La formazione della filosofia di K.L. Reinhold, Milano 1966, pp. 150-164, 248-258; H.E. ALLISON, The KantEberhard Controversy, Baltimore-London 1973; M. LONGO, Johann August Eberhard, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo Illuminismo e l’età kantiana, Padova 1988, pp. 791-813.
EBERSTEIN, W ILHELM L UDWIG G OTTLOB Eberstein VON. – N. a Mohrungen presso Sangerhausen il 10 nov. 1762, m. ivi il 4 febbr. 1805. Studioso di storia della filosofia e autore di una critica a Kant dal punto di vista delle posizioni leibniziano-wolffiane. Ricchi di notizie, anche sui sostenitori e gli avversari di Kant sino alla fine del XVIII secolo, sono i due volumi: Versuch einer Geschichte der Logik und Metaphysik bei der Deutschen von Leibniz auf gegenwärtige Zeit (Halle 1744-99, rist. Bruxelles 1970 e Hildesheim 1985). S’interessò inoltre della filosofia medievale e della riforma protestante in altre due opere: Beschaffenheit der Logik und Metaphysik bei den reinen Peripatetikern (Halle 1800) e Die natürliche Theologie der Scholastiker (Leipzig 1803, rist. Bruxelles 1968). A.M. Moschetti
EBNER, FERDINAND. – Filosofo dialogico criEbner stiano, n. a Wiener Neustadt il 31 genn. 1882, m. a Gablitz il 17 ott. 1931. Con Das Wort und die geistigen Realitäten. Pneumatologische Fragmente (Innsbruck 1921, ed. it. a cura di S. Zucal, tr. it. di P. Renner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici, Cinisello Balsamo 1998) cerca di elaborare un’originale filosofia della parola che avrà come punti di riferimento J.G. Hamann, S.A. Kierkegaard e il vangelo di Giovanni. Per Ebner la pienezza della vita spirituale non sta nell’arte, nella filosofia, nelle scienze, nella teologia, realtà del «sogno dello spirito» (Traum vom Geist), ma nella relazione tra le realtà spirituali «io» e «tu», che implica la fuoriuscita dall’«autosolipsismo dell’io» (Icheinsamkeit). Senza l’incontro fra l’io e il tu che ha il suo veicolo oggettivo nella parola e quello soggettivo nell’amore, non esisterebbero né
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l’io nella sua effettualità né il linguaggio relazionale, non più meramente segnaletico come quello animale. La genesi dell’io dipende interamente dal tu. L’io ha innanzitutto una natura «tuale». Lo fonda la sua «tuità» (Duhaftigkeit), memoria vivente dello statuto ontologico originario dell’io divenuto tale allorché Dio parlandogli (la creazione è un divino atto verbale) l’ha reso il proprio tu e in tal modo l’ha insieme costituito come io. Tale costituzione originariamente «tuale» si reduplica e s’invera anche nei rapporti interumani fin dalla nascita: ognuno è anzitutto un tu per un altro e, solo grazie a questa relazione verbale, potrà progressivamente diventare un io. La coscienza dell’io si illumina e diviene autocoscienza – e non semplice coscienza animale – grazie all’evento della parola che gli viene rivolta e che, a sua volta, potrà rivolgere al tu divino e umano. L’uomo raggiunge la propria identità personale grazie al suo essere «uditore della parola» e insieme «attore verbale» che ha la parola come dato costitutivo. Si trova nella duplice possibilità di limitarsi a vocalizzare foneticamente in modo a-dialogico oppure può creare con la «parola giusta» il ponte tra l’io e il tu (nel primo caso – utilizzando il doppio plurale tedesco – avremo «parole-Wörter», nel secondo «parole-Worte»). La ragione umana (Vernunft), diversamente dall’intelletto (Verstand) che accomuna agli animali, è potenza recettiva della parola, «senso della parola e per la parola». La chiave della vita spirituale e dello stesso destino identitario della persona è tutta nel «miracolo della parola», e il metodo di Ebner può essere definito una sorta di fenomenologia «filo-logica» della persona. S. Zucal BIBL.: altre opere: Wort und Liebe, Regensburg 1935, tr. it. a cura di E. Ducci - P. Rossano, Parola e amore, Milano 1998; Das Wort ist der Weg. Aus den Tagebüchern, Wien 1949, tr. it. a cura di E. Ducci - P. Rossano, La parola è la via: dal diario, Roma 1991; Fragmente, Aufsätze, Aphorismen, a cura di F. Seyr, München 1963; Notizen, Tagebücher, Lebenserinnerungen, a cura di F. Seyr, München 1963; Briefe, München 1965; è in corso di stampa la Gesamtausgabe. Su Ebner: W. METHLAGL (a cura di), Gegen den Traum vom Geist. Beiträge zum Symposion Gablitz, Salzburg 1985; S. ZUCAL - A. BERTOLDI (a cura di), La filosofia della parola di Ferdinand Ebner, Brescia 1999; S. ZUCAL, Ferdinand Ebner. La «nostalgia» della parola, Brescia 1999, pp. 311-347 (bibliografia completa);
Ebraismo B. CASPER, Das dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber, Freiburg 2002.
EBRAISMO ( ). – Il termine indica in Ebraismo generale l’intera civiltà ebraica, anche se talora designa in particolare il periodo precedente la cattività babilonese; in questo caso, per il periodo seguente a essa, si suole parlare già di giudaismo. SOMMARIO: I. Cenno storico. - II. Lo sviluppo delle concezioni religiose e morali durante il corso della storia ebraica. - III. L’incontro col mondo greco-romano e cristiano. I. CENNO STORICO. – Oggi sembra prevalere l’opinione che gli ebrei antichi fossero un gruppo dei chabiru, che in diversi documenti del secondo millennio a. C. appaiono, in varie regioni del Vicino Oriente, come apatridi assoldati a prestare servizio militare e di lavoro. Non c’è da meravigliarsi che in alcuni documenti essi vengano caratterizzati come bande di predoni. Del resto, anche nelle storie dei patriarchi degli ebrei riferite nel Genesi si trovano esempi di razzie. Del nome è stata cercata la spiegazione pure in ‘Eber, discendente di Sem, figlio di Noè (Gn 10, 21), e nella radice ‘a-v-r «passare», (nel senso del latino trans), che significherebbe un popolo venuto «di là dal fiume». Comunque si tratta di una popolazione, a giudicare dal linguaggio, di origine semitica. Gli ebrei raccontavano che il loro capostipite Abramo avesse lasciato Ur dei Caldei e fosse salito verso il nord, per poi scendere per ordine di Dio dalla Siria. Tale trasmigrazione avvenne presumibilmente attorno al 1850 a. C. Col nome di Israele, dato a Giacobbe nipote minore di Abramo, venne chiamata poi abitualmente la nazione, costituita dalle tribù (dodici) derivate dai figli di lui. Alcuni secoli dopo, nel 1240 a. C. ca., gli ebrei partirono, sotto la guida di Mosè, dall’Egitto, dove si erano stabiliti diventando un popolo numeroso. Nel deserto attorno al Sinai, Dio strinse solennemente con loro un patto di alleanza: essi lo scelsero per unico loro Dio ed egli si impegnò a difenderli dai nemici e dare loro prosperità. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto, verso la metà del sec. XIII iniziarono la cossiddetta conquista lenta della terra promessa (Palestina), costituendosi poi in monarchia e facendo di Gerusalemme la capitale dello stato (verso il 1000). L’unità nazionale venne infranta verso il 924, dopo la morte di re Salomone figlio di Davide: si ha così il regno del Nord 3179
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Ebraismo (Israele) e quello del Sud (Giuda). Il primo ebbe fine per opera degli assiri nel 722/721; il secondo con la deportazione a Babilonia nel 587/586. Con l’avvento del dominio persiano comincia il ritorno in patria. II. LO SVILUPPO DELLE CONCEZIONI RELIGIOSE E MORALI DURANTE IL CORSO DELLA STORIA EBRAICA. – Il nome divino caratteristico per l’epoca dei patriarchi è Shaddaj, che l’antica versione greca rende con «onnipotente»; si direbbe sintetizzi tutte le forze operanti nella natura. Associato all’altro nome divino ‘EI, esso risulta come espressione di coscienza monoteistica, in opposizione al politeismo dei popoli vicini, che deifica le forze della natura, ma anche in progressivo superamento dell’enoteismo. Sarà questa concezione monoteistica la linea centrale del pensiero ebraico e il suo grande contributo alla storia del pensiero umano. Dio è concepito come creatore benefico, che conferisce vita e prosperità a tutto il creato; ma è in pari tempo un Dio temibile per coloro che si manifestano come suoi avversari. Egli è giusto, concede la sua protezione a tutti coloro che lo servono e lo invocano, è il giudice dalle sentenze giuste ed è perciò che i fedeli a lui si rivolgono per ottenere protezione per sé e punizione per chi è ingiusto riguardo agli altri uomini, disobbedendo in tal modo alla volontà divina. L’attaccamento al Dio unico trova speciale sostegno nell’azione e negli insegnamenti dei condottieri d’Israele delle epoche successive, da Mosè ai giudici. A Mosè Dio si rivela come JHWH, «colui che è» (cfr. Es 3, 14). Sorta poi la monarchia, il prototipo del re giusto è Davide, re fedele a Dio e strenuo difensore d’Israele, che più tardi, in alcune concezioni messianiche, sarà considerato antenato del messia. Dalla metà del sec. IX sino ca. alla fine del IV a. C. agiscono i profeti. Spesso essi insorgono contro i re e le masse che deviano cedendo al fascino dei culti politeisti e orgiastici dei cananei rimasti nella Palestina e delle popolazioni circonvicine. Inoltre essi tendono a difendere i diritti delle classi diseredate e a spiritualizzare il culto. Il culto sacrificale e le cerimonie penitenziali servono spesso ai più abbienti a crearsi una religiosità apparente, dietro alla quale vanno compiendo opere di ingiustizia sociale; d’altra parte le antiche disposizioni, che avevano lo scopo di combattere le ingiustizie sociali (cfr. Es 22-23; Lv 19; Dt 22), si sono dimostrate di 3180
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scarsa efficacia. I profeti, in particolare Amos, insorgono con violenza contro i profittatori che si ammantano di osservanza religiosa. Isaia si leva contro il fasto delle cerimonie cultuali sottolineando che lo sguardo di Dio è rivolto piuttosto verso i poveri, gli umili, i timorati di Dio. JHWH, «re di Israele», diventa il Dio di tutti in una visione progressivamente universale. Più viva si fa la nozione di peccato e di espiazione. Il peccato non è più una violazione di leggi soltanto sacrali, ma assume una connotazione etica. Il culto sacrificale e la confessione, concepita come «espressione», quasi fisica, del male, cominciano a denotare, sia pure in forma rudimentale, il desiderio di purezza; ora però la parola qadosh, che nei testi sacerdotali sta a indicare prevalentemente la purità rituale, comincia, sotto l’influenza del profeta-teologo Isaia, a significare «santità». La lotta sostenuta dai profeti per la giustizia sociale e per far risplendere l’ideale di santità e l’ideale messianico, nel cui orizzonte si attende l’inviato di Dio per fare opera di giustizia fra i popoli e i singoli, apre la via a nuovi fermenti religiosi tra i quali si colloca anche la nascita del cristianesimo. La predicazione e le lotte dei profeti si riflettono in molti dei centocinquanta canti religiosi (inni di lode, carmi penitenziali e messianici, canti di vittoria o elegie ecc.), noti sono sotto il nome di Salterio. Dio è un giudice giusto; giusti quindi devono essere quanti esercitano il potere, e gli uomini nei loro rapporti sociali. Le classi economicamente depresse e oppresse si considerano, nelle loro invocazioni, più vicini a Dio dei loro oppressori (contro i quali invocano la punizione divina: salmi «imprecatori»). L’ateismo è considerato come un atto di stoltezza; la superbia e la prepotenza, opposizione aperta alla volontà di Dio. Non mancano neppure salmi a carattere sapienziale. A differenza del pensiero sapienziale egiziano che è d’impronta pratica (il sapere è un mezzo per raggiungere onori, ricchezze, longevità, stima presso gli altri), la sapienza prettamente israelitica parte dal principio che inizio della sapienza vera è il timor di Dio. L’esilio babilonese fu seguito da un processo di ravvedimento e di penitenza. Si inizia così il periodo degli scribi, ai quali si deve anche l’inizio della redazione dei testi biblici. Le letture bibliche del Pentateuco, e in particolare del Deuteronomio, furono poste al centro del culto (cfr. Ne 8). Le dolorose esperienze
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diedero al popolo la consapevolezza di essere indissolubilmente legato a JHWH. D’ora in poi si rafforzerà la coscienza che le opere di culto hanno valore secondo la disposizione del cuore. Si comprende meglio che il Signore è padre e rifugio, che la vita umana è qualche cosa di caduco e di fragile – in corrispondenza con una meno confusa idea dell’aldilà – e che nulla è atto a conferire dignità all’infuori del timore e dell’amore di Dio. A poco a poco il profetismo cede il posto alle scuole rabbiniche, nelle quali si va elaborando un sistema di precetti la cui osservanza talvolta dà ai fedeli un senso di autosufficienza. Nascono dibattiti e tensioni che danno origine a movimenti diversi come quello degli esseni. I testi sacri dell’ebraismo, che ora comprendono anche gli scritti sapienziali, non mancano di agitare particolari, ma fondamentali, problemi filosofici, per esempio quello del dolore; presentati, di regola, in forma diversa da quella propria della speculazione filosofica grecoellenistica. III. L’INCONTRO COL MONDO GRECO-ROMANO E CRISTIANO. – Negli ultimi tempi prima dell’era cristiana, l’ebraismo viene a contatto con la civiltà ellenistica e latina, sia mediante la «diaspora», o dispersione, tra le «nazioni», di ebrei emigrati, sia attraverso l’ingresso del Vicino Oriente nell’orbita greca dopo le conquiste di Alessandro. Di particolare importanza l’incontro con il mondo ellenistico. Nella Palestina tale incontro diventa uno scontro, a cominciare da Antioco Epifane, che intende grecizzare la Palestina non solo dal lato politico, ma anche da quello religioso, e che trova una strenua opposizione da parte dei maccabei: il regime autonomo che ne deriva durerà, in forma varia, fino allo scontro frontale con la potenza romana, che culminerà con la distruzione di Gerusalemme al tempo di Vespasiano (prima guerra giudaica nel 66-70 d. C.). L’ultimo atto si avrà con l’imperatore Adriano (seconda guerra giudaica nel 132-135 d. C.) in seguito alla quale si accentuerà la diaspora. In essa la compenetrazione delle due civiltà e delle due culture si svolge in un modo pacifico. I greci evoluti considerano gli ebrei come una stirpe di filosofi. La Scrittura viene tradotta in greco sotto i tolomei, il che corrisponde a una necessità riguardante la prassi religiosa, poiché gli ebrei della diaspora egiziana (Alessandria) sono ormai dimentichi della lingua
Ebraismo nazionale. Attraverso la versione greca, detta dei Settanta, il mondo ellenistico comincia a conoscere e ad apprezzare la Bibbia ebraica. Filone ricorre all’interpretazione allegorica della Scrittura (le sue nozioni in fatto di ebraico e di cultura ebraica sono piuttosto modeste), per così «ritrovare» la filosofia greca negli scritti biblici. Presso gli ebrei ellenisti comincia a svilupparsi la consapevolezza della superiorità del pensiero monoteistico biblico su quello politeistico greco. Le singole comunità degli ebrei ellenisti della diaspora saranno poi il punto di partenza per l’attività missionaria del giovane cristianesimo. Lo stesso avviene nei più antichi centri ebraici in Italia, con a capo Roma. Gli ebrei trasportati prigionieri o immigrati in Italia divennero i testimoni del monoteismo biblico, fatto che non passò inosservato agli stessi scrittori romani. Anche il fenomeno delle persecuzioni, comuni a ebrei e cristiani, sebbene fosse ufficialmente giustificato con ragioni politiche, finì per allargare immensamente l’influenza delle idee religiose e morali dei perseguitati. Le sorti dell’ebraismo e del suo influsso sul mondo civile cambiano da quando il cristianesimo esce dalla primitiva condizione di inferiorità sociale per divenire infine la religione ufficiale dello stato romano: gli ebrei, dopo la caduta del Tempio, hanno ricostituito le loro comunità religiose basandole sullo studio della Torah, della nascente letteratura rabbinica e sull’osservanza rigorosa dei precetti, pertanto sia il loro credo che la loro prassi religiosa si differenziano sempre più dal credo e dalla prassi religiosa cristiana. Sorge così, soprattutto in ambito cristiano, una vasta letteratura a carattere polemico, la quale contribuisce a mettere in evidenza sempre maggiore il distacco tra ebraismo e cristianesimo. La lotta religiosa comincia a riflettersi nella vita sociale, in un modo sempre più doloroso per gli ebrei. Essi iniziano a essere trattati come cittadini di «secondo» ordine e vengono privati di una buona parte dei diritti di eguaglianza civile: fatti questi che contribuiscono fortemente al consolidarsi della scissione tra gli ebrei e il mondo che li circonda. Si apre così la via a quella tensione di rapporti che poi continuerà per secoli, sino ai nostri giorni. In tale orizzonte si svilupperà col tempo e con significative influenze arabe la filosofia ebraica. E. Zolli
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Ecateo di Mileto BIBL.: G. FOHRER, Geschichte Israels, Heidelberg 1977, tr. it. di M. Soffritti, Storia d’Israele, Brescia 1980; J.A. SOGGIN, Introduzione all’Antico Testamento, Brescia 19874; R. RENDTORFF, Das Alte Testament. Eine Einführung, Neukirchen-Vluyn 1988, ed. it. a cura di D. Garrone; Introduzione all’Antico Testamento, Torino 1990; G. BOCCACCINI, Il medio giudaismo, Genova 1993; P. SACCHI, Storia del Secondo Tempio, Torino 1994; E. MELLO, Ebraismo, Brescia 2000; J.A. SOGGIN, Israele in epoca biblica, Torino 2000; J.A. SOGGIN, Storia d’Israele, Brescia 20022. ➨ BIBBIA; CRISTIANESIMO; ‘EI; ELOHIM; ELLENISMO; ENOTEISMO; ESSENI; FILOSOFIA EBRAICA; GIUDAICI, MOVIMENTI; GIUDAISMO; JHWH; MESSIA - ATTESA MESSIANICA; TORAH.
ECATEO MILETO (gr. ÔEkatai'o"). – GeEcateo diDI Mileto ografo e storico, vissuto tra i secc. VI e V a. C. Di nobile famiglia, fece numerosi viaggi, visitando tra l’altro l’Egitto, e prese parte attiva alle vicende politiche della sua patria, durante la sommossa della Ionia contro la Persia. Scrisse due opere: Genealogie (o Eroologia, o Storia) e Periegenesi (o Periodo), di cui non ci restano che frammenti (ed. G. Nenci, Hecataei Milesii fragmenta, Firenze 1954, v. Introduzione). In esse Ecateo si rivela dotato di quello stesso spirito razionalistico che caratterizza la contemporanea filosofia milesia. Del resto già l’antica tradizione lo connette con Anassimandro, da cui riprese, per migliorarlo, il disegno di una carta geografica della terra. Notevolissimo è infatti in lui l’intento, esplicitamente dichiarato all’inizio delle Genealogie, di sceverare quanto nella tradizione fosse attendibile (anche se la realizzazione del programma si limitò piuttosto a una correzione del mito, anziché a una sua sostituzione con la vera e propria storia) e lo sforzo di ricondurre a unità una massa di dati, in parte desunti da esperienze dirette, inquadrandoli in schemi generali di ordinamento. D. Pesce BIBL.: F. IACOBY, s. v., in A. PAULY - G. WISSOWA, RealEncyklöpadie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1965, vol. VII, coll. 2667-2750; A. MOMIGLIANO, II razionalismo di Ecateo di Mileto, in «Atene e Roma», 3 (1931); L. PEARSON, Early Ionian Historians, Oxford 1939; N. FERTONANI, Ecateo di Mileto e il suo razionalismo, in «La parola del passato», 7 (1952), pp. 18-19; P. TOZZI, Ecateo di Mileto in Eustazio, in «Athenaeum», 49 (1961), pp. 26-32; S. FUSAI, Ecateo da Mileto, in «Vichiana», 2 (1965), pp. 115-145.
ECATONE RODI. – Stoico vissuto nella Ecatone diDI Rodi seconda metà del sec. II a. C., allievo di Pane3182
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zio di Rodi. Scrisse un’opera Sul dovere che dedicò a Quinto Tuberone (Cicerone, De officiis, III, 63). Si conoscono di lui vari trattati di morale, di cui uno intitolato Sulle virtù, in cui distingueva tra virtù «teoretiche» e «pratiche», secondo l’insegnamento di Panezio; un altro intitolato Sui beni, nel quale sosteneva una posizione antiedonistica. Compose una raccolta di motti attribuiti a filosofi cinici e stoici, intitolata Sentenze (cfr. Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, VI, 32). F. Alesse BIBL.: H. GOMOLL, Der stoische Philosoph Hekaton. Seine Begriffswelt und Nachwirkung unter Beigabe seiner Fragmente, Leipzig 1933; J. ANNAS, Cicero on Stoic Moral Philosophy and Private Property, in M. GRIFFIN J. BARNES, Philosophia Togata, vol. I, Oxford 1989, pp. 151-173.
ECCEITÀ (lat. haecceitas). – È il termine con Ecceità cui Giovanni Duns Scoto intende l’individuazione o il principio della medesima. È noto che, per la metafisica classica, nella realtà si danno solo enti individuali, e che quelli corporei sono composti di materia e di forma. Per qualificare la propria soluzione al problema degli universali in direzione di un realismo moderato, Duns Scoto considera, secondo l’insegnamento della metafisica avicenniana, tale composto una natura communis, indifferente cioè all’universalità e alla singolarità. Pertanto, se per spiegare come tale indifferenza divenga una concreta possibilità di predicabilità universale è costretto a far intervenire un atto intellettivo, per giustificare come la medesima indifferenza si moltiplichi numericamente negli individui è chiamato a identificare un principio che, contraendo la natura communis stessa, la renda una cosa esistente «distinta» da tutte le altre. Rappresentando l’individuo un incremento ontologico rispetto alla specie, in quanto caratterizzato da un’unità e una coesione superiore, Duns Scoto reputa un controsenso la soluzione tomista che vede il principio d’individuazione nella materia signata quantitate: quest’ultima è al contrario principio di divisibilità e dispersione. Nessun accidente, aggiunge, può essere la ragione ultima dell’individualità di una sostanza. Questo allora il ragionamento alternativo di Scoto: la ragione ultima delle differenze tra gli enti deve essere ricondotta a qualcosa che sia originariamente
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diverso; visto che negli individui di una medesima specie ciò che li differenzia non può essere la natura, in quanto essa è al contrario ciò che li accomuna, deve trattarsi di un’entità positiva capace di determinare quella stessa natura. Come l’unità della specie consegue a un’entità in comune, che è la natura specifica, così allora l’unità dell’individuo consegue a un’entità peculiare, la quale è perciò distinta dalla natura specifica e ne costituisce anzi una determinazione. Questa entitas individualis non è poi né la materia, né la forma, né il composto, ma è l’ultima realitas entis, che è materia, forma e composto. È dunque un’entità che si distingue formalmente dalle altre del composto, per quanto tutte, nel composto stesso, costituiscano una cosa sola. La soluzione scotista si appella a «un’ultima realtà dell’ente», una perfezione entitativa che sopraggiunge alla natura communis, attualizzandone la potenzialità in ordine all’esse, non all’essenza. Infatti, pur riconoscendo la preminenza dell’apporto formale nella genesi dell’individuo, tale entità non modifica l’esse quidditativum della cosa (quasi fosse una nuova caratteristica che va semplicemente ad aggiungersi all’essenza), ma ne rappresenta l’ultima, irripetibile e indivisibile realizzazione. G. Feltrin BIBL.: M.F. SCIACCA, La «haecceitas» di Duns Scoto, Napoli 1935; T. BARTH, Individualität und Allgemeinheit bei J. Duns Skotus, in «Wissenschaft und Weisheit», 16 (1953), pp. 122-141, 191-213; P. STELLA, L’ilemorfismo di Giovanni Duns Scoto, Torino 1955; A. GHISALBERTI, Individuo ed esistenza nella filosofia di Giovanni Duns Scoto, in C. BÉRUBÉ (a cura di), Regnum hominis et Regnum Dei, «Acta Quarti Congressus Scotistici Internationalis, Patavii 24-29 septembris 1976», Romae 1978, vol. I, pp. 355-365. ➨ INDIVIDUAZIONE, PRINCIPIO DI.
ECCENTRICITÀ. – In geometria indica la diEccentricità stanza di un punto o di un qualsiasi altro ente geometrico rispetto al centro di una circonferenza o di un asse di simmetria, definendo pertanto ciò che non è simmetrico, mentre nella fisica moderna si parla dell’eccentricità dell’asse dei pianeti o dell’orbita di alcuni tipi di particelle. Il termine fu impiegato in un contesto prettamente filosofico per la prima volta da L. Klages in Vom Wesen des Bewußtseins (1918, ma pubblicato nel 1921) per indicare la funzione svolta dallo «spirito» (la razionalità,
Eccentricità la volontà) nella vita umana, ossia da quella forza che, agendo sulla vita dall’esterno, decentra il principio vitale dell’uomo (la sua anima). Fu tuttavia solo H. Plessner il primo a usarlo in maniera sistematica, facendone uno dei concetti fondamentali della sua antropologia filosofica esposta per la prima volta in Die Stufen des Organischen und der Mensch (1928), dove definì lo specifico modo d’essere di quel vivente che è l’«uomo» con l’espressione «posizionalità eccentrica». Confrontandosi con la fenomenologia di Husserl e di Scheler, con la filosofia della vita di Dilthey e con le riflessioni biologistiche sullo statuto dell’organico di H. Driesch e di F. Buytendijk, ma rivelando talune affinità anche con le analisi sull’esistenza estatica e sulla trascendenza dell’esserci abbozzate da Heidegger in Sein und Zeit (1927), Plessner intese con tale concetto il modo in cui si struttura la vita umana, in quanto l’uomo, in virtù della sua peculiare capacità di riflettere su se stesso, trascende il centro biologico costituito dalla propria dimensione corporea, pervenendo a una posizione eccentrica, ossia esterna, rispetto a se stesso. Tale eccentricità radicalizza la tradizionale nozione di «autocoscienza» quale contrassegno specifico dell’essere umano rispetto agli altri viventi, integrandone il carattere puramente soggettivo con la componente spirituale, ovvero culturale e sociale. Criticando i dualismi di matrice cartesiana – esasperati dall’idealismo tedesco e presenti ancora nella coppia «impulso-spirito» di Scheler – implicati nel concetto di autocoscienza (anima-corpo, spirito-natura, mondo interno-mondo esterno, soggetto-oggetto), Plessner adottò il dualismo «natura-spirito» (mondo naturale-mondo storico) per definire l’«uomo intero» (Dilthey), ossia la realtà umana intesa come l’unità corporeo-psichico-spirituale. Per definire l’«uomo» è necessario un confronto con gli altri viventi, tuttavia l’esistenza umana non si riduce al solo aspetto empirico (naturale) e nemmeno a quello psichico (interiore), ma è costituita anche da un mondo spirituale che integra il mondo naturale a cui si rapportano anche le altre forme di viventi. Nel concetto di «posizionalità eccentrica» confluiscono due categorie ricavate da un’analisi della struttura dell’essere organico rispetto all’essere inorganico: ogni vivente è caratterizzato 1) dalla «posizionalità», ma soltanto l’animale 3183
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Eccentricità e l’uomo anche 2) dall’«eccentricità». Vegetali, animali, uomini – sono diversi gradi, diverse forme intese come diversi modi d’essere, e non gradi di una evoluzione o di una gerarchia. Confrontandosi con la Umwelttheorie del biologo J. von Uexküll (estesa poi da E. Rothacker all’ambito della Kultur), Plessner rilevò che l’organico si differenzia dall’inorganico per via del suo «essere-posto» (Gestelltheit) rispetto al proprio «mondo-ambiente» (Umwelt), ovvero del suo porsi in un rapporto dinamico e oppositivo con l’ambiente circostante (Umgebung). Tale rapporto è la posizionalità («forma logica», modo d’essere) propria di ogni vivente, in virtù della quale quest’ultimo si costituisce come un «centro» (come individualità) attorno a cui si organizza la vita. La posizionalità non coincide con la mera corporeità, ma è piuttosto la condizione logica che rende possibile al vivente di trovarsi collocato spazialmente e temporalmente all’interno di un ambiente circostante. Il rapporto che il vivente ha col proprio corpo – con quel medium fra sé e il mondo che costituisce il loro «limite» (Grenze) – si costituisce, se considerato muovendo dalla realtà umana, come un diverso grado di consapevolezza (riflessione) che determina propriamente i diversi gradi dell’organico. Tre sono le forme di posizionalità: 1) l’«esser corpo» (corpo = mondo); 2) l’«esser nel corpo» (corpo e mondo); 3) l’«esser fuori dal corpo» (corpo, mondo e «Io»). Alla base del costituirsi come un centro (l’individualizzazione) v’è una differenza che il vivente pone tra sé e il proprio ambiente, ovvero un certo grado di presa di distanza dal proprio limite. Tale principium individuationis non è inteso da Plessner in senso empirico (il singolo esemplare di una specie), ma in quello formale in quanto è la struttura che determina ogni vivente come tale. 1) Nella sfera vegetale il vivente condivide il proprio essere con l’ambiente, è cioè una forma di organizzazione «aperta»: non è posta alcuna distanza tra corpo e mondo, non v’è alcuna esperienza della propria posizionalità. 2) Nella sfera animale il vivente è individuum, cioè una forma di organizzazione «chiusa», in quanto la propria posizionalità è organizzata in riferimento a un centro, ponendo una distanza fra sé e il mondo. Soltanto 3) nella sfera umana, però, è posta anche una peculiare distanza anche dalla propria posizionalità: si costituisce 3184
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quella realtà individuale capace di dire «io», l’individuo è «persona», pervenendo a quella sfera in cui il Sé ha preso distanza anche da se stesso, ponendosi fuori dal proprio centro, dalla propria posizionalità. Se anche gli animali possiedono un centro, sicché possono differenziarsi l’uno dall’altro e dal loro ambiente, essi non possono però differenziarsi da se stessi, non possono prendere distanza dal proprio rapporto con le possibilità offerte dal loro ambiente e svilupparne di nuove. L’uomo è «apertura del mondo» (Weltoffenheit – termine impiegato già da Scheler) e non vincolato a un ambiente come l’animale, instaurando dunque un triplice rapporto eccentrico rispetto al proprio mondo, inteso ora come «mondo esterno» (Außenwelt), ora come «mondo interno» (Innenwelt), ora come «mondo collettivo» (Mitwelt). Il mondo dell’uomo include pertanto anche quel mondo della cultura che apre nuove possibilità per la propria esistenza. La posizionalità eccentrica dell’uomo è certo costituita 1) dalla sua capacità di riflettere su se stesso (la sua «immediatezza mediata»), ma non si riduce a una dimensione soggettiva, bensì 2) apre nell’uomo quella dimensione spirituale (sociale, culturale, storica) che da un lato integra la sua dimensione naturale, lo libera dal mero istinto e dalla dipendenza che caratterizza l’animale (la sua «artificialità naturale»), ma dall’altro 3) lo pone di fronte al compito di dare una condotta alla propria vita, di determinare sempre di nuovo la propria «posizione nel cosmo» (il «luogo utopico»). Queste tre «leggi (Gesetze) antropologiche fondamentali» caratterizzano il modo in cui l’uomo vive la propria posizione eccentrica, ovvero lo determinano come un sempre rinnovato tentativo di trovare una posizione equilibrata all’interno dell’antagonismo tra posizionalità (dimensione naturale, pulsionale e istintuale) ed eccentricità (dimensione spirituale, riflessività), intesi come i due poli tra i quali oscilla la sua vita. L’uomo ha una distanza da se stesso che può anche perdere, senza per questo perdere la propria esistenza umana (posizionalità). L’eccentricità della sua forma di vita rende l’uomo un compito, e non qualcosa di definibile una volta per tutte – ed è in tal senso che Plessner ha parlato di «insondabilità» dell’essere umano, infatti è possibile sapere che cos’è l’uomo solo comprendendone di volta in volta i diversi modi
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d’essere in cui si è espresso nel corso della sua storia. C. Badocco BIBL.: F. HAMMER, Die exzentrische Position des Menschen. Methode und Grundlinien der philosophischen Anthropologie Helmuth Plessners, Bonn 1967; H.U. ASEMISSEN, Helmuth Plessner. Die exzentrische Position des Menschen, in J. SPECK (a cura di), Grundprobleme der großen Philosophen. Philosophie der Gegenwart 2, Stuttgart 19812, pp. 146-180; S. PIETROWICZ, Philosophische Anthropologie und Geschichte. Helmuth Plessners Geschichtsverständnis der Moderne und der Begriff der exzentrischen Positionalität, in G. DUX - U. WENZEL (a cura di), Der Prozeß der Geistesgeschichte. Studien zur ontogenetischen und historischen Entwicklung des Geistes, Frankfurt am Main 1994, pp. 4563; J. FISCHER, Exzentrische Positionalität. Plessners Grundkategorie der Philosophischen Anthropologie, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 48 (2000), pp. 265-288; M. PANSERA, Antropologia filosofica, Milano 2001, cap. IV; H.-R. MÜLLER, Exzentrische Positionalität. Bildungstheoretische Überlegungen zu einem Theorem Helmuth Plessners, in «Zeitschrift für Erziehung», 5 (2002), pp. 53-61. ➨ AMBIENTE; CORPO; DUALISMO; INDIVIDUAZIONE, PRINCIPIO DI; IO-AUTOCOSCIENZA; SIMMETRIA; UOMO.
Eccezione L’eccezione, invece, è realmente tale ove si ammetta che la legge della natura non è assolutamente necessaria, né assolutamente contingente, quando cioè la legge stessa, ipoteticamente necessaria, produca effetti vari e, quindi, anche anomali, purché siano varie le condizioni di essi. Né le eccezioni vengono, per questo, a sottrarsi all’ordine: ciò che viene considerato eccezione, rispetto a un ordine particolare, può e deve rientrare in un ordine universale, quando sia considerato in rapporto a un «Provisor universalis» che, come dice Tommaso, «permittit aliquem defectum in aliquo particolari accedere, ne impediatur bonum totius» (Summa theologiae, I, q. 22, a. 2 ad 2). II concetto di eccezione è affine al concetto di caso, perché entrambi indicano un avvenimento che accade al di fuori di una norma o legge. Se ne distingue, tuttavia, nella misura in cui il caso, oltre ad essere l’eccezione a una norma, non è riconducibile all’intenzione e all’intellezione di un agente; al contrario, per es., il miracolo, in quanto prodotto da Dio, sarebbe un’eccezione alle leggi della natura, ma non avverrebbe a caso. A.M. Moschetti
ECCETTUATIVE, Eccettuative
PROPOSIZIONI: V. PROPOSI-
ZIONI ECCETTUATIVE.
ECCEZIONE (da ex-cipio «prendo fuori» Eccezione exception; Ausnahme; exception; excepción). – Indica, in generale, qualcosa che non avviene secondo una legge o una regola, e che quindi non si può spiegare. Dal punto di vista di una filosofia della natura il termine rinvia al problema riguardante l’essenza delle leggi naturali e, più in generale, al problema dell’ordine cosmico: le cosiddette eccezioni sono forse espressioni, esse stesse, di leggi più particolari, legate a un’assoluta necessità, oppure sono soltanto le più appariscenti manifestazioni di una spontaneità essenziale alla natura, inesauribile nelle sue novità e variazioni? La questione sospinge, pertanto, da una parte verso il determinismo, dall’altra verso il contingentismo. Così considerata, l’eccezione, sia che si presenti come l’effetto di una causa assolutamente necessaria, sia che si presenti come un mero fatto contingente non riducibile ad altri, cessa di essere eccezione in senso proprio, per diventare fatto normale: o di una natura in cui ogni cosa non può che essere quel che è, o di una natura in cui ogni cosa può essere altra da quel che è.
Secondo la filosofia dell’esistenza, l’eccezione esprime il valore insostituibile della singolarità, che si determina come tale di contro al generale. Per Kierkegaard: «Il particolare è l’eccezione e deve rimanere cosciente di sé come tale; e perciò ben lungi dal consigliare agli altri di fare la stessa cosa, deve consigliarli di fare il generale, poiché il particolare è vero soltanto quando suppone la primitività del suo rapporto a Dio. Tutto ciò che non possiede questa primitività è eo ipso ingiustificato quando volesse costituire l’eccezione» (Papirer, XI1 A 485, tr. it. di C. Fabro, Diario, vol. II, Brescia 19833). Per Nietzsche l’uomo d’eccezione è l’«uomo eletto», in contrapposizione all’«uomo medio», uomo del gregge, e all’«ultimo uomo», che subisce, senza comprenderlo, l’evento della «morte di Dio»; al di là di facili letture vitalistiche, l’eccezionalità del «superuomo» nietzscheano si misura appunto sulla capacità di corrispondere ai «grandi eventi» della storia, portandoli a compimento. Per Jaspers l’eccezione «è l’infrangersi concreto di ogni singolo modo di un universale. L’eccezione esperimenta la sua natura eccezionale e l’esclusività come un destino il cui senso le rimane ambiguo». La più chiara espressione 3185
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Eccitazione dell’eccezione è la libertà (Existenzphilosophie, Berlin 1938, pp. 38 ss.). Dal punto di vista del concreto manifestarsi del senso storico della verità, «eccezione» e «autorità» costituiscono insieme una complementarietà in cui si rivela, in forma infinitamente comprensiva, l’unità essenziale, intrinseca e insieme estrinseca, del vero: «Ogni comprensione della verità risulta dall’aprirsi spiritualmente all’eccezione, dal portare lo sguardo su di essa, ma in modo tale che colui che comprende non vuol essere eccezione. Egli si rassegna, come eccezione sottomettendosi all’universale, come universale sapendosi insignificante di fronte al sacrificio che l’eccezione compie» (ibid.; cfr. Von der Wahrheit, München 1948 [1830-33], pp. 747 ss.). Come rileva E. Mounier, occorre ben guardarsi dal considerare l’eccezione come pura prodezza della vita individuale: «se la persona si compie seguendo dei valori situati all’infinito, essa è ben chiamata allo straordinario nel mare stesso della vita quotidiana, ma questo straordinario non la separa dagli altri, ogni persona essendo chiamata allo straordinario. Come scriveva Kierkegaard: “L’uomo veramente straordinario è il vero uomo dell’ordine”» (Le personnalisme, Paris 1950, p. 64). G. Masi - S. Palazzo BIBL: S TAKEDA, Die subjektive Wahrheit und die Ausnahme-Existenz. Ein Problem zwischen Philosophie und Theologie, Würzburg-Amsterdam 1982. ➨ AUTORITÀ; CASO; CONTINGENZA; DETERMINISMO; GENERALE; GIUSTIFICAZIONE, TEORIA DELLA; LEGGE; LIBERTÀ; NECESSITÀ; NORMALE; NORMATIVO; ORDINE; SINGOLARE; SPIEGAZIONE.
ECCITAZIONE (dal lat. tardo excitatione(m), Eccitazione deriv. da ex-citare, composto dal prefisso rafforzativo ex e da citare, intensivo di ciere = muovere, spingere – excitation, Erregung, excitation, excitación). – In neurofisiologia, per «eccitazione» s’intende il processo attraverso il quale una stimolazione esogena o endogena produce una modificazione elettrochimica nelle cellule del tessuto nervoso e muscolare, modificazione che è in grado a sua volta di esercitare la funzione di stimolo su (di «eccitare») altre cellule. L’eccitazione delle cellule nervose è alla base della conduzione dell’impulso nervoso: un neurone «eccitato» può trasmettere l’eccitazione (ovvero la modificazione elettrochimica) ad altri neuroni ad esso connessi mediante sinapsi o può impedire che essa si propaghi. Il processo attivo volto a sopprimere o 3186
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ridurre l’eccitazione di altre cellule nervose o di interi circuiti neuronali è detto «inibizione». Il concetto di eccitazione è strettamente connesso anche a quello di «attivazione», che fa riferimento alla funzione di determinati sistemi di cellule nervose, come il sistema reticolare ascendente, che hanno il compito di «attivare» e modulare l’azione di intere aree del cervello. Meccanismi omeostatici di eccitazione e inibizione sono costantemente in funzione nel sistema nervoso centrale; e la comprensione dei complessi processi elettrofisiologici e biochimici posti alla loro base, delle soglie di eccitazione dei recettori neuronali, dei meccanismi di comunicazione tra neuroni e di trasmissione dell’informazione all’interno dell’asse cerebro-spinale è uno degli obiettivi principali cui oggi tendono le neuroscienze. Dal punto di vista storico, l’eccitazione ha un suo immediato precursore nel concetto di «irritabilità», elaborato dalla fisiologia del XVII secolo, in particolare da F. Glisson, e ripreso nel Settecento da A. von Haller (De partibus corporis humani sensilibus et irritabilibus, Göttingen 1753) per indicare la proprietà dei muscoli di rispondere con una contrazione ad una stimolazione. Nel XIX secolo l’irritabilità è posta da F.J.V. Broussais alla base del suo sistema medico-biologico, secondo il quale la vita sarebbe possibile solo in virtù delle potenzialità «irritative» dei tessuti. L’irritabilità, a suo parere, si manifesta per soglie, si attiva dall’esterno o dall’interno dell’organismo, e può presentarsi in eccesso o in difetto; in tali casi si produce lo scompenso patologico. La patologia, e per esteso anche la patologia nervosa e mentale, sarebbero dovute ad alterazioni quantitative della irritabilità, ovvero all’eccesso o alla mancanza di eccitazione dei differenti tessuti al di sopra e al di sotto del grado che costituisce lo stato di normalità («principio di Broussais»). In psicologia, il termine «eccitazione» è in genere adoperato per designare lo stato psicofisiologico che accompagna un vissuto emozionale e che può essere più o meno intenso, più o meno duraturo, fino a oltrepassare certi limiti fisiologici oltre i quali sconfina nella patologia. Il concetto di eccitazione è stato assunto soprattutto nelle modellizzazioni psicodinamiche. Per esse, il funzionamento normale o patologico della mente sarebbe determinato da meccanismi di regolazione omeostatica dell’eccitazione (riducibili, in ultima analisi, a
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meccanismi psicofisiologici), che mantengono l’equilibrio dell’apparato psichico. In tale prospettiva, la mente è stata concettualizzata sulla base di uno schema di forze, rappresentate da stimoli esterni (sociali, relazionali, culturali) e da pulsioni interne, il cui equilibrio sarebbe dovuto al mantenimento di un livello stabile di eccitazione, ovvero di energia psicofisica. I primi e più noti modelli psicodinamici sono stati elaborati da Pierre Janet e Sigmund Freud. Mentre il modello janetiano non fa ricorso a specifiche energie psichiche per spiegare e regolare i processi nervosi e mentali, Freud invece propone la teoria della «libido», considerata come una particolare energia di carattere sessuale che sottende le pulsioni, il cui aumento e diminuzione, ripartizione e spostamento sarebbe alla base del funzionamento dell’apparato psichico e del suo sviluppo. Nella psicologia contemporanea, il concetto psicofisiologico di eccitabilità è al centro di tutte quelle teorie della personalità che collegano il livello di eccitazione nervosa ai tratti osservabili del comportamento. Seguendo questa impostazione, Pavlov, Eysenck, Strelau, Gray e Zuckerman hanno prospettato teorie secondo cui differenti tipologie del sistema nervoso centrale, caratterizzate da tipici pattern fisiologici di eccitazione e\o inibizione, sarebbero in stretta corrispondenza con diverse tipologie di personalità. R. Foschi BIBL.: W. GERSTNER - W.M. KISTLER, Spiking Neuron Models: Single Neurons, Populations, Plasticity, New York 2002; I.B. LEVITAN - L.K. KACZMAREK, The Neuron: Cell and Molecular Biology, New York 2002; G.P. LOMBARDO - R. FOSCHI, La costruzione scientifica della personalità, Torino 2002; J. SMYTHIES, The Dynamic Neuron: A Comprehensive Survey of the Neurochemical Basis of Synaptic Plasticity, Cambridge (Massachusetts) 2002; M. ZUCKERMAN, Psychobiology of Personality, New York, 20052; E.R. KANDEL - J.H. SCHWARTZ - T.M. JESSEL, Principles of Neural Science, New York 20065.
ECCLES, JOHN CAREW, Sir. – Neurofisiologo Eccles e filosofo australiano n. a Melbourne il 27 genn. 1903, m. a Locarno il 2 magg. 1997. Laureato in medicina nel 1925 a Melbourne, professore di fisiologia all’università di Otago (Nuova Zelanda) dal 1944 al 1951, dal 1952 al 1966 ha insegnato all’Australian National University di Canberra; premio Nobel per la fisiologia nel 1963 per lo studio della trasmissione
Eccles dello stimolo nelle cellule nervose, dal 1968 ha insegnato alla State University of New York (Buffalo). Con Karl R. Popper, è uno dei maggiori esponenti della soluzione dualistica e interazionistica del problema corpo-mente. Come Popper, Eccles rifiuta la concezione materialistica e deterministica della persona umana, perché non si può fornire alcuna spiegazione fisicalistica né dell’emergenza della coscienza negli animali né a maggior ragione dell’autocoscienza umana. Assai più decisamente di Popper, però, Eccles distingue sia fra l’io come centro attivo delle proprie esperienze e l’io come risultato di un particolare processo d’apprendimento sia fra l’uomo e le altre forme di vita animale (v. K.R. Popper - J.C. Eccles, The Self and Its Brain, Berlin - New York 1977, parte III, dialoghi II, III e XI). In particolare, il problema della morte e dell’immortalità concerne soltanto l’uomo, perché soltanto l’uomo possiede l’autocoscienza (cfr. Facing Reality, Berlin - New York 1970, p. 62). Il sentimento dell’unicità personale e il mistero del risvegliarsi alla vita, trovando se stessi esistenti come un io incarnato in un certo corpo e in un certo cervello, conducono anzi alla nozione dell’immortalità personale e a quella della creazione soprannaturale d’ogni singola anima (v. ibi, p. 83; The Self and Its Brain, parte III, dialogo XI). A differenza della concezione parallelistica – qui di nuovo d’accordo con Popper – la mente autocosciente agisce sul cervello, legge selettivamente ciò che avviene nei moduli cerebrali, organizzando l’unità dell’esperienza cosciente e consentendo la realizzazione di scopi e intenzioni (v. p. es. ibi, dialogo VII). Altre opere: The Neurophysiological Basis of Mind, Oxford 1953; The Human Mystery, Berlin 1979; The Human Psyche, Berlin 1980; Evolution of the Brain, New York 1990; How the Self Controls Its Brain, Berlin 1994. M. Buzzoni BIBL.: A. VIGLIANI, Karl Popper and John Eccles, in «Filosofia», 34(1983), pp. 87-144; R.J. DOUGLAS - B.P. KEANEY, Popper and Eccles’ Psychophysical Interaction Thesis Examined, in «Grazer philosophische Studien», 23 (1985), pp. 129-153; G. STOTZ, Person und Gehirn: historische und neurophysiologische Aspekte zur Theorie des Ich bei Popper/Eccles, Hildesheim 1988; H.-J. BIERSACK - H. ECCLES (a cura di), In memoriam Sir John Eccles, Landsberg 2000; C.U.M. SMITH, Renatus Renatus: The Cartesian Tradition in British Neuroscience and the Neurophilosophy of J.C. Eccles, in «Brain and Cognition», 46 (2001), pp. 364-372.
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Ecfanto di Siracusa ECFANTO SIRACUSA. – Pitagorico, visEcfanto di DI Siracusa suto forse nel sec. IV a. C., della sua esistenza si è (a torto) dubitato. Le scarne notizie superstiti lo indicano come figura di un certo interesse e originalità soprattutto su temi cosmologici. Integrò il pitagorismo e la dottrina dei numeri con l’atomismo di Democrito, da lui viceversa rimodellato sui principi pitagorici. Sostenne la corporeità delle monadi pitagoriche (i numeri), trovando nell’atomismo una efficace ipotesi cosmologica che adattò affermando l’unicità del cosmo (rispetto agli infiniti mondi degli atomisti) e l’esistenza di un numero finito di atomi, da cui un numero finito di cose sensibili. Attribuì a ciascun atomo, oltre a forma e dimensione, una forza (dynamis) diversa, e sostituì come cause del movimento i concetti di mente e anima, forze divine, a quelli di peso e impatto esterno, costruendo un cosmo governato dalla provvidenza. Affermò inoltre la rotazione della terra intorno al proprio asse, e l’impossibilità di avere conoscenza vera di ciò che esiste, che si può solo definire come a noi appare. Falsamente ascritto a Ecfanto un ellenistico Peri; basileiva". L. Perilli BIBL.: H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-529, nr. 51; M. TIMPANARO CARDINI, Pitagorici, Firenze 19692, vol. II; W.K.C. GUTHRIE, A History of Greek Philosophy, Cambridge 1962, vol. I, pp. 323327.
ECHARD, JACQUES. – Storico ed erudito, doEchard menicano, n. a Rouen il 22 sett. 1644, m. a Parigi il 15 mar. 1724. Opere: Sancti Thomae Summa suo auctori vendicata, sive de V.F. Vencentii Bellovacensis scriptis dissertatio (Paris 1708); Scriptores Ordinis Praedicatorum recensiti, notisque historicis et criticis illustratis (ivi 1719-21, 2 voll., con tre piccoli supplementi: 1721-23). Nella prima di tali opere Echard mira a difendere l’autenticità della Summa dalle interpretazioni di coloro, come Pierre de Alva e Jean de Launoy, che la facevano derivare dallo Speculum Morale di Vincenzo di Beauvais. Nella seconda Echard, partendo dai risultati cui erano giunte le ricerche di J. Quétif, ampliandole e proseguendole con accresciuto rigore, offre un compiuto studio della storia degli autori del suo ordine (ristampa dell’intera opera, New York 1959, 4 voll.). D. Cerato Minozzi BIBL.: H. DENIFLE, Quellen zur Gelehrtengeschichte des Predigerordens im 13. und 14. Jahrhunderts, in «Ar-
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chiv für Literatur und Kirchengeschichte des Mittelalters», Berlin 1886, pp. 165 ss. (ristampa Graz 1955); R. COULON, Scriptores Ordinis Praedicatorum, Roma 1912, vol. III, pp. 369-375; R. CREYTENS, L’oeuvre bibliographique d’Echard, ses sources et leur valeur, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», 14 (1944), pp. 43-71.
ECHECRATE (´Ecekravth"). – Secondo alcuEchecrate ne fonti fu di Fliunte, per altre di Taranto. È nel catalogo dei pitagorici di Giamblico. È a Echecrate che Fedone, nel Fedone platonico, racconta la morte di Socrate e il dialogo di Socrate con Simmia e Cebete, discepoli di Filolao, sull’immortalità dell’anima. Nel Fedone è forse l’unica testimonianza di qualche valore: perché, quando Fedone riferisce l’opinione di Simmia, che l’anima è armonia, Echecrate dichiara di essere sempre stato attratto da questo discorso, e di aver anzi una volta creduto, anche lui, che l’anima fosse una specie d’armonia. Tale opinione era probabilmente di Filolao. Sicché la notizia di Giamblico pare non improbabile. A. Maddalena BIBL.: M. TIMPANARO CARDINI, Pitagorici, Testimonianze e frammenti, Diocle, Echecrate, Polimnasto, Fantone, Arione, vol. II, Firenze 1962, pp. 426-429; A. MADDALENA, I frammenti dei filosofi del sesto e quinto secolo (e i loro immediati seguaci), Diocle, Echerate, Polimnesto, Fantone, Arione, in AA.VV., I Presocratici. Testimonianze e frammenti, tomo I, Bari 1969, 19752, 19813, p. 503; D. DELATTRE, Les Pythagoriciens récents Echécrate, Textes traduits, présentés et annotés, in AA.VV., Les Présocratiques, Paris 1988, pp. 550-551.
ECHEVERRÍA, ESTEBAN. – Poeta, sociologo Echeverría e rivoluzionario argentino, n. a Buenos Aires il 2 sett. 1805, m. a Montevideo il 19 genn. 1851. Ispirandosi a Henri de Saint-Simon pubblicò El dogma socialista (Montevideo 1846); in quest’opera la scienza sociale trovò in Argentina la sua fondazione e il suo indirizzo. Echeverría fu anche un precursore nel postulare l’inserimento delle scienze sociali nel curricolo delle università. S. Contri BIBL.: Obras completas, a cura di J.M. Gutiérrez, Buenos Aires 1870-74, 5 voll.. Su Echeverría: J. INGENIEROS, Sociologia argentina, Buenos Aires 1918, pp. 301-329; A. PALACIOS, Esteban Echeverría, albacea del pensamiento de mago, Buenos Aires 19553; A. PALCOS, Historia de Echeverría, Buenos Aires 1960.
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ECKHART (Eckehart; Meister Eckhart; MagiEckhart ster Eckardus; Ekhardus; Aychardus). – Filosofo e mistico, domenicano, n. ad Hochheim presso Gotha verso il 1260, m. ad Avignone probabilmente il 20 genn. 1328. SOMMARIO: I. Vita, opere, significato. - Il. Unità di Dio, generazione, creazione. - III. La vita dell’anima. I. VITA, OPERE, SIGNIFICATO. – Entra nell’ordine dei domenicani a Erfurt e compiuti i suoi studi in Germania viene inviato a perfezionarsi a Parigi (ove nel 1293-94 è baccelliere sentenziario). Dal 1294 al 1298 è priore del convento di Erfurt e vicario del provinciale Teodorico di Freiberg per la Turingia. Insegna quale magister sacrae theologiae a Parigi dal 1302 al 1303 sulla cattedra riservata ai domenicani non francesi. Nel settembre 1303 viene eletto priore provinciale della nuova provincia domenicana della Germania orientale (Saxonia), e mantiene la carica sino al 1310. La sua successiva elezione a priore dell’altra provincia tedesca (Teutonia) viene cassata dalla direzione dell’Ordine per consentirgli un nuovo periodo di insegnamento a Parigi (1311-13). Negli anni 1314 e 1316 è documentato puntualmente a Strasburgo; nel 1322 compie per incarico del Generale una visita disciplinare al monastero femminile di Unterlinden (Colmar). La critica ritiene comunemente che egli risiedesse a Strasburgo con l’incarico della supervisione dei monasteri femminili sottoposti alla cura pastorale dell’ordine domenicano, ma si tratta di ipotesi senza adeguata base documentaria. Nel 132526 è sicuramente a Colonia (documentazione raccolta e pubblicata per intero in L. Sturlese [a cura di], Acta Echardiana, in Die lateinischen Werke, vol. V, pp. 155-193). Nel 1326 due suoi confratelli lo denunciano all’arcivescovo Enrico di Virneburg, mettendo così in movimento un pericoloso processo per eresia «per promoventem». I materiali di accusa (due liste di tesi estratte dalle sue opere latine e tedesche per un totale di 107; ricostruzione in L. Sturlese, op. cit., nn. 46-47, pp. 198-246) ci sono pervenuti tramandati all’interno di un memoriale di difesa redatto da Eckhart in vista della prima udienza del processo, fissata per il 26 settembre 1326 (ed. L. Sturlese, Responsio, in Die lateinischen Werke, vol. V, pp. 247-354). Eckhart si appella il 13 febbraio 1327 al papa e il processo, nonostante l’opposizione dei giudici delegati di Colonia, viene avocato da Avignone. Da questo punto in poi il processo as-
Eckhart sume il carattere di procedimento di censura dottrinale, e viene gestito presso la corte papale avignonese da una commissione che sollecita perizie esterne (una di esse viene stesa dal futuro papa Benedetto XII; L. Sturlese, Acta, cit., n. 58), seleziona dai materiali di accusa 28 tesi erronee, le sottopone ad Eckhart e contesta punto per punto la sua difesa. Il processo si conclude il 27 marzo 1329, data della pubblicazione della bolla con cui il papa Giovanni XXII condanna tutte le proposizioni incriminate (gli atti relativi alla fase avignonese del processo e la bolla di condanna in L. Sturlese, Acta, cit., nn. 56-67) e sottolinea il fatto che Eckhart, nel corso del processo, ha revocato le proposizioni incriminate «nella misura in cui potessero generare un significato eretico negli ascoltatori, e quanto a quel significato» (secondo W. Trusen, Der Prozeß gegen Meister Eckhart: Vorgeschichte, Verlauf und Folgen, «Rechts- und staatswissenschaftliche Veröffentlichungen der Görres-Gesellschaft», nuova serie, vol. LIV, Paderborn 1988, pp. 120-121, citazione da un documento notarile perduto). Eckhart non vedrà la sua condanna. Muore molto probabilmente il 20 gennaio 1328 (L. Sturlese, Acta, cit., n. 61). La sua memoria verrà difesa da Enrico Suso nel Buch der Wahrheit, da Giovanni Tauler nelle sue prediche e da un gruppo di anonimi seguaci che cureranno la pubblicazione delle sue opere, noncuranti della condanna (L. Sturlese, Die Kölner Eckhartisten, in A. Zimmermann [a cura di], Die Kölner Universität im Mittelalter: geistige Wurzeln und soziale Wirklichkeit, «Miscellanea mediaevalia», vol. XX, Berlin 1989, pp. 192-211; Heinrich Seuse, Das Buch der Wahrheit, a cura di L. Sturlese e R. Blumrich, «Philosophische Bibliothek», vol. CDLVIII, Hamburg 1993, pp. XIX-XXI). L’ordine cronologico delle opere eckhartiane è ricostruibile soltanto a grandi linee nel modo seguente: a) predica latina per la Pasqua e Collatio in Libros Sententiarum, documento della sua attività di baccelliere (1294); b) le Rede («Discorsi», così il titolo originale; nell’ed. Quint: Reden der Unterscheidung) sono immediatamente successive (Erfurt, 1298 ca.); c) le «quaestiones» Utrum in Deo, Utrum intelligere angeli, Utrum laus Dei e una predica per la festa di sant’Agostino risalgono al periodo di insegnamento a Parigi nel 1302-03; d) intorno al 1304 è già in fase di elaborazione l’Opus tripartitum, di cui sono ricostruibili almeno tre stati 3189
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Eckhart redazionali, il primo dei quali tramandato da un codice amploniano (Prologi, In Genesim I, In Exodum, In Ecclesiastici cap. XXIV, In Sapientiam), mentre l’ultimo – probabilmente una sorta di edizione postuma del suo lascito realizzata da parte di un gruppo di fedeli discepoli – è documentato completamente dal codice di Cusa 21 (Prologi, In Genesim I, In Genesim II, In Exodum, In Ecclesiastici cap. XXIV, In Sapientiam, In Iohannem e Sermoni latini), e parzialmente da codici oggi conservati a Treviri e Berlino (elenco dei manoscritti in Die lateinischen Werke, vol. III, pp. IX-XIV). Nel mezzo si situa la redazione, sicuramente genuina, di In Genesim II (ancora nella forma di prima parte di un più ampio Liber parabolarum rerum naturalium, e concluso da un indice delle cose notevoli eliminato nella redazione finale), Prologi e In Genesim I, conservata in un codice oxoniense recentemente ritrovato. Le «quaestiones» Utrum aliquem motum, Utrum in corpore Christi appartengono agli anni 1311-13; alla stessa epoca risale probabilmente anche il Liber benedictus (composto dal Buch der göttlichen Tröstung e dalla predica Von dem edeln Menschen). Sull’ordine cronologico delle numerose prediche tedesche (circa 120 sono attualmente riconosciute autentiche) è difficile fare supposizioni, perché Eckhart le raccolse probabilmente in un quaderno sottoposto ad aggiunte, integrazioni e correzioni per un lungo lasso di tempo, e dal quale furono in diverse occasioni tratte e messe in circolazione singolarmente o a piccoli gruppi (cfr. L. Sturlese, Hat es ein Corpus der deutschen Predigten Meister Eckharts gegeben?, in A. Speer - L. Wegener, Meister Eckhart in Erfurt, «Miscellanea mediaevalia», vol. XXXII, Berlin 2005, pp. 393-408). Recenti progressi della critica hanno contribuito a definire con sempre maggior ricchezza di dettagli l’orizzonte storico-culturale nell’ambito del quale Eckhart maturò e discusse il suo progetto filosofico. Si tratta della Germania fra Due- e Trecento, un ambiente segnato dal monopolio culturale dell’ordine domenicano (che regge e alimenta, a partire dal 1248, lo Studium generale di Colonia, per un intero secolo unica università di rilievo nella Mitteleuropa sino alla fondazione di Praga, avvenuta nel 1348) ed occupato a sviluppare l’eredità filosofica, teologica e scientifica di Alberto il Grande. Ad Alberto, Eckhart si richiama nella sua più antica predica a noi pervenuta (1294, Parigi; Sermo Paschalis, Die lateinischen Werke, 3190
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vol. V, n. 13, p. 145). Con Alberto e Teodorico di Freiberg, Eckhart condivide la problematica dell’«intelletto in quanto intelletto», e cioè il problema – di origine averroistica – della conciliazione dell’individualità della funzione cognitiva con l’universalità dei contenuti dell’intelletto scientifico. La filosofia dell’intelletto presentata a Parigi nel corso del suo insegnamento è elaborata probabilmente in una feconda e critica discussione con Teodorico, con il quale Eckhart aveva documentati rapporti personali (è suo vicario, sono entrambi a Tolosa nel 1304; L. Sturlese, Acta, cit., n. 10, pp. 161-162), e il quale, secondo una recente scoperta, nel suo De visione beatifica (in Opera omnia, vol. I: Schriften zur Intellekttheorie, ed. a cura di B. Mojsisch, Hamburg 1977, pp. 39-41) discute puntualmente la dottrina dell’immagine contenuta nel primo commento al Genesi di Eckhart (ed. a cura di L. Sturlese, Die lateinischen Werke, vol. I-2, n. 115, pp. 154-155). Nel grande progetto di un Opus tripartitum, che prevede un commentario sistematico all’intera Scrittura, Eckhart avvia l’indagine delle conseguenze metafisiche e teologiche del concetto di intelletto così elaborato, e in una intensa attività predicatoria in lingua latina e tedesca (le cui bozze egli conserva con cura) ne sviluppa con rigore il potenziale antropologico. È l’intelletto che, in quanto immagine di Dio, sta in rapporto di correlazionalità univoca con il suo principio, ne fluisce e vi ritorna in un movimento sovratemporale di identità e differenza e costituisce l’occulto fondamento del singolo uomo, che tuttavia vive nell’esteriorità e nell’inconsapevolezza di sé. Tutta la predicazione di Eckhart è rivolta a sollecitare la riscoperta del fondamento divino, eterno e «increato» dell’uomo, che ne costituisce la ragione di vera «nobiltà» e di motivazione etica. Nelle prediche tenute in occasione di diversi Capitoli provinciali (Die lateinischen Werke, vol. II, pp. 229-300; cfr. L. Sturlese, Acta, cit., n. 33, p. 179) Eckhart presenta la sua dottrina all’élite dell’Ordine, esplicitando così le linee di un coerente e filosofico progetto di riforma morale e di fondazione della «dignità dell’uomo» cristiano e della sua vera libertà, del quale egli si fa instancabile portatore dalla cattedra e dal pulpito. L. Sturlese
II. UNITÀ DI DIO, GENERAZIONE, CREAZIONE. – Nella «quaestio» parigina Utrum in deo sit idem esse et intelligere, l’esigenza dell’unità lo conduce a
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porre Dio al di sopra dell’essere; se l’essere è molteplice e determinato – aliquid determinatum – Dio è altius ente; non è ente, ma causa dell’ente, «quia nihil est formaliter in causa et causato, si causa sit vera causa». Dio, per essere causa di ogni essere, dev’essere privo di ogni essere: egli è la puritas essendi, il suo esse è risolto nell’intelligere, e l’intelligere identificato all’operari: «Eius actio est ipsius substantia; ipsi agere vel operari est esse». La prima proposizione dell’Opus tripartitum, «Esse est deus», sembra contraddire senz’altro alla tesi precedente. In realtà, essa è la conferma ontologica della questione parigina. Dio non è questo o quell’ente determinato, ma è la pienezza dell’essere, il pelagus infinitae substantiae. Non possiamo definirlo, poiché ogni definizione è una delimitazione e perciò una negazione. Dio è negatio negationis: è l’infinito che si distingue dal finito ed eccede ogni finito con la sua infinitezza: «Deus indistinctum quoddam est, quod sua indistinctione distinguitur». La trascendenza divina sembra così difesa e garantita: se Dio, in quanto essere, è sostegno ontologico di ogni essere finito (esse commune omnibus), egli, in quanto infinito, trascende ogni essere in maniera assoluta: «Deus est rebus omnibus intimus, utpote esse, et sic ipsum edit omne ens; est et extimus, quia super omnia et sic extra omnia» (In Ecclesiastici cap. XXIV, n. 54, Die lateinischen Werke, vol. II, pp. 282-283). La teologia negativa sembra essere a questo punto l’ultima parola: «Deus ineffabilis et incomprehensibilis est, et in ipso omnia sunt ineffabiliter» (cfr. Sermones, IV 1 n. 28, Die lateinischen Werke, vol. IV, p. 28; Predigten, 9, in Die deutschen Werke, vol. I, pp. 141 ss. ecc.). L’esigenza monistica, che lo accomuna agli eleati (è significativo, a questo proposito, il suo richiamo a Parmenide e a Melisso; cfr. Prologi in Opus tripartitum, proposizione n. 5, Die lateinischen Werke, vol. I, p. 168), lo porta così a distinguere divinitas e deus: la «Divinità» è il fondo oscuro, in cui nessuna distinzione è possibile, è la natura innaturata (ungenatûrte natûre), che «sub ratione esse et essentiae quasi dormiens et latens abscondita in se ipsa, nec generans nec genita est» (cfr. Predigten, 109, in Die deutschen Werke, vol. IV, pp. 761 ss.): essa abita in una luce a cui nessuno giunge, perché è al di là di ogni alterità e relazione; come natura naturata (genatûrte natûre), «Dio» è paternità, fecondità, essentia cum relatione: come tale è Padre, e il ritmo della sua generazio-
Eckhart ne interiore si attua nella trinità delle ipostasi; è creatore, e la sua opera si rinnova attimo per attimo e vive nelle creature e in esse perennemente si riconosce e si ama. Nel dogma della Trinità Eckhart ritrova così l’uno e la vita dell’uno: l’unità divina si articola e vive nella relazione e nell’alterità per essere più intima a se stessa, non per uscire da sé. La generazione e la creazione non violano dunque l’unità assoluta. La generazione si compie nell’eternità, ed è alterità nell’unità; ma poiché «quod est in uno, unum est», l’alterità non spezza l’unità, ma la rende possibile come vita perenne: il Padre trasfonde nel Figlio tutto ciò che egli è, ed è Padre in quanto genera il Figlio; e il Figlio è Figlio in quanto è identico al Padre e immagine del Padre. «Ma l’immagine, come tale, nulla di sé riceve dal soggetto in cui è, ma riceve tutto l’essere suo dall’oggetto di cui è immagine»: perciò in Dio l’esemplare e l’immagine sono una cosa sola (cfr. In Iohannem, nn. 23-27, in Die lateinischen Werke, vol. III, pp. 19-22; nn. 36-37, pp. 30-32; Sermones, L, n. 514, in Die lateinischen Werke, vol. IV, p. 530). Nemmeno la creazione può turbare l’unità divina: poiché fuori dell’essere non c’è nulla, Dio non crea fuori di sé, ma in se stesso; e non esce da sé, ma «in se ipso solo quiescit. Deus omnia operatur in se ipso», poiché «omne quod est a deo, est in deo». Dio non è dunque la totalità degli enti, ma la totalità degli enti è in Dio: panenteismo, non panteismo. Nessuna cesura temporale separa il creato dal Creante: l’atto creatore è eterno e incessante: «Simul enim et semel quo deus fuit, quo filium sibi coaeternum per omnia aequalem deum genuit, etiam mundum creavit» (In Genesim, I, n. 7, in Die lateinischen Werke, vol. I-2, p. 65; cfr. anche In Iohannem, n. 216, in Die lateinischen Werke, vol. III, pp. 181-182; Sermones, XLV, n. 458, in Die lateinischen Werke, vol. IV, p. 380; è questa la III delle proposizioni condannate) e l’atto con cui egli provvede al mondo è un atto di continua creazione: «Dio crea adesso il mondo in quella stessa e precisa maniera in cui l’ha creato il primo giorno» (Predigten, 78, in Die deutschen Werke, vol. III, pp. 351 ss.). In realtà, con questa teoria, che gli inquisitori si sono affrettati a condannare, Eckhart non intendeva affatto consolidare ontologicamente la realtà creata in quanto tale. Eckhart non è il metafisico della creatio, ma della generatio – cioè della realtà intelligibile che ab aeterno emana da Dio e che è l’unica realtà. Ciò che di3191
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Eckhart viene nel tempo e nello spazio, ciò che muta, ciò che è molteplice e sensibile, vale a dire il «creato», non è reale. Così afferma la XXVI delle proposizioni condannate: «Omnes creaturae sunt unum purum nihil. Non dico quod sint quid modicum vel aliquid, sed quod sint purum nihil». All’assoluta realtà dell’uno è contrapposto il non essere della molteplicità come tale: «Multa, ut multa non sunt». Soltanto l’atto dell’intelligere divino fonda l’essere autentico; soltanto il pensiero di Dio è; perciò «cogitatio sine intellectu est omnis cogitatio mala vel de malo aut etiam de praeterito vel futuro sive de ente quocumque includente nihil, id est negationem» (In Sapientiam, n. 10, in Die lateinischen Werke, vol. II, pp. 330-331). Non c’è realtà fuori dell’intelligibile puro, che è essenziale e universale: «Tolle scientiam, remanet unum purum nihil». Perciò, se fuori di Dio è nulla, il mondo creato, aggiunto a Dio, non costituisce accrescimento dell’essere, poiché è assurdo pensare che esso possa aggiungere qualcosa a Dio: «Qui acciperet totum mundum una cum deo, ille non haberet plus quam si ipse solum deum haberet» (Processus Coloniensis I, ed. a cura di L. Sturlese, in Die lateinischen Werke, Stuttgart 1936-, vol.V, n. 106, p. 344). Nessuna autosufficienza appartiene alle cose create; e se di una loro natura è lecito parlare, essa consiste «in continuo fluxu et fieri», come desiderio e tensione dell’essere (In Sapientiam, n. 292, in Die lateinischen Werke, vol. II, p. 627): fuori dell’essere «inquieta sunt omnia»; in Dio, che è quiete (rûowe), ogni cosa s’acquieta e sussiste. La materia è puro non-essere e come tale non dà nulla di sé al composto; ciò che la creatura possiede, lo «riceve» da Dio, e Dio «dona» ciò che «è», tutto ciò ch’egli è: «deus nescit parum dare». Dentro questa «metafisica della generazione», sbiadiscono i fondamenti storici del cristianesimo: il peccato originale e l’esistenza storica di Gesù. Adamo è il paradigma extratemporale della creatura, considerata nel tempo e nello spazio, come individualità effimera e inconsistente; il Cristo storico è il simbolo visibile della nascita divina che si compie in ogni anima buona (cfr. la XII proposizione condannata). I richiami alle vicende della sua vita visibile, alla nascita, alla morte, alla resurrezione, all’ascensione, vogliono segnare i momenti dialettici essenziali della vita dello spirito, sempre identica a se stessa nel suo valore 3192
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eterno. Il pensiero eckhartiano è sì cristocentrico nel suo teocentrismo, ma solo in quanto considera Dio come generante piuttosto che come creante, e il Figlio, «qui semper natus est et semper nascitur», come Verbo eterno e non come Verbo incarnato. La storicità non conserva che il valore di un puro simbolo. III. LA VITA DELL’ANIMA. – A queste condizioni metafisiche, cioè dentro l’ambito della generazione eterna, è possibile la vita spirituale dell’anima. Il suo fine supremo è Dio, fuori del quale è nulla. La generazione eterna del Figlio si compie nell’anima in ogni istante, ogni qualvolta Dio lo generi in essa e l’anima possa accoglierlo. Soltanto nell’anima si apre e si chiude il ciclo della vita divina: in essa Dio si riconosce e si ama. In questo ritorno dell’anima a Dio il «creato» è ciò che deve essere abbandonato e trasceso, affinché ciò che dev’essere sia; la sua funzione è puramente dialettica. Il distacco (Abgeschiedenheit) è perciò la condizione primaria del ritorno, è la virtù per eccellenza. L’anima deve distaccarsi dall’immediato, cioè dal sensibile, dal molteplice, dal contingente. Il suo fare, in cui consiste la sua eticità, è perciò un non-fare, è un toglier via le apparenze sensibili, affinché in essa sia e agisca soltanto Dio. Il fare di Dio, che è nulla se non si attua in noi, nella nostra coscienza di esseri pensanti, esige il nostro non-fare. L’epifania della luce divina coincide con la nostra umiltà: «Humilis homo est ita potens super deum, sicut ipse sui ipsius; et quidquid est in omnibus angelis et omnibus sanctis, hoc est proprium humilis hominis. Quidquid deus operatur, hoc operatur ipse, et quidquid deus est, hoc ipse est, una vita et unum esse» (Processus Coloniensis II, ed. a cura di L. Sturlese, in Die lateinischen Werke, Stuttgart 1936-, vol.V, n. 57, p. 314). Alle parvenze sensibili l’anima è radicata con le sue facoltà inferiori (memoria, fantasia, desiderio ecc.), e le parvenze sono radicate in essa: un nulla che sorregge un nulla. In rapporto con le cose, l’anima assume nomi e funzioni, esteriorizzandosi dimentica se stessa. Soltanto l’atto intellettivo le fa ritrovare l’essere e se stessa; ma l’universale, cui giunge mediante l’astrazione (che è il suo non-fare teoretico), non è opera dell’anima: è ciò che rimane e si svela quando abbiamo tolto via ciò che si nascondeva, è il Verbo che Dio genera in noi quando noi ci offriamo a lui in nudità assoluta. Qui l’uomo si spoglia della sua individualità creaturale, diventa figlio di Dio, uomo univer-
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sale, luogo della verità: quella conoscenza non è più la sua azione, ma l’azione di Dio in lui. Nella ritrovata unità del verbo eterno, in cui il creato ritorna e si risolve, l’opera esteriore, nata da uno stimolo esterno e rifluente nel mondo delle relazioni estrinseche e perciò non libera ma servile, perde significato e valore (cfr. le proposizioni condannate XVI-XIX); le stesse opere comandate dalla chiesa sono tutt’al più occasioni e avviamenti. Non perché Eckhart esalti un quietismo inerte: l’uomo deve agire come agisce Dio, in un completo distacco dalle conseguenze pratiche dell’azione, deve agire «senza un perché», soltanto per amore di Dio: «Omne opus habens quare ipsum ut sic non est divinum nec fit deo» (In Exodum, n. 247, in Die lateinischen Werke, vol. II, p. 201). Ancora una volta, la virtù così intesa è ciò che rimane nel nostro intimo: «virtus habet radicem in fundo divinitatis radicatam et plantatam, ubi habet esse suum vel essentiam suam et solum ibi et nusquam alibi» (Processus Coloniensis I, ed. a cura di L. Sturlese, in Die lateinischen Werke, Stuttgart 1936-, vol.V, n. 56, p. 217). Ma l’anima deve procedere ancora, oltre l’intelligere (che è relazione e alterità), oltre «Dio», verso quell’abissale «divinità», dove non c’è distinzione, ma unità assoluta. Ora, l’unione perfetta non sarebbe possibile se l’anima si esaurisse tutta nelle sue «facoltà» inferiori e superiori; nel suo «fondo» l’anima è senza nome, come la stessa ineffabile divinitas: «Aliquid est in anima ita cognatum deo, quod est unum et non unitum» (Processus Coloniensis I, ed. a cura di L. Sturlese, in Die lateinischen Werke, Stuttgart 1936-, vol.V, n. 71, p. 225): è questo l’abditum animae, la scintilla (vünkelin), il fondo dell’anima (grunt der sele), in cui l’anima si identifica con la divinità e il cerchio divino si chiude; è quell’increatum in anima, che rimane indubbiamente il punto più controverso e incriminato della sua metafisica. G. Faggin BIBL.: l’ed. delle opere complete, sia latine che tedesche, è in corso dal 1936, esce a fascicoli e si sta avviando alla conclusione: Die deutschen und lateinischen Werke. Die lateinischen Werke: vol. I-1: Prologi in Opus tripartitum, Expositio libri Genesis, Liber Parabolarum Genesis, 1964, a cura di K. Weiß; vol. I-2: Prologi in Opus tripartitum, Expositio libri Genesis sec. recensionem cod. L, Liber Parabolarum Genesis, editio altera, a cura di L. Sturlese, 1987-92; vol. II: Expositio libri Exodi, Sermones et Lectiones super Ecclesiastici cap. XXIV, Expositio libri Sapientiae, Expositio Cantici
Eckhart I,6, a cura di H. Fischer - J. Koch - K. Weiß, Stuttgart 1992; vol. III: Expositio sancti Evangelii secundum Iohannem, a cura di K. Christ - B. Decker - J. Koch H. Fischer - L. Sturlese - A. Zimmermann, Stuttgart 1994; vol. IV: Sermones, a cura di B. Decker - J. Koch, Stuttgart 1956; vol. V: Collatio in libros Sententiarum, Quaestiones Parisienses, Sermo die b. Augustini Parisius habitus, Tractatus super Oratione dominica, Sermo Paschalis, Acta Echardiana, 1936-2000, a cura di E. Benz - B. Geyer - J. Koch - E. Seeberg - L. Sturlese (ancora in corso i voll. I-2 e V); Die deutschen Werke: vol. I: Predigten, 1-24, a cura di J. Quint, Stuttgart 1958; vol. II: Predigten, 25-59, a cura di J. Quint, Stuttgart 1971; vol. III: Predigten, 60-86, a cura di J. Quint, Stuttgart 1976; vol. IV-1: Predigten, 87-105, a cura di G. Steer, Stuttgart 2003; vol. IV-2: Predigten, 106 ss., a cura di G. Steer, Stuttgart 2003; vol. V: Traktate: Liber benedictus, Die rede der underscheidunge, Von abegescheidenheit, a cura di J. Quint, Stuttgart 1963; (in corso il vol. IV-2). L’ed. è corredata da una tr. ted. L’indice tematico del Gn II, ritrovato nel 1985, in L. STURLESE, Meister Eckhart, Tabula contentorum in Libro parabolarum Genesis secundum ordinem alphabeti, in AA.VV., Scritti in onore di Eugenio Garin, Pisa 1987, pp. 39-50. Testo critico dei voll. IIII e V delle opere tedesche e un’antologia delle latine, con commentario esplicativo, in N. LARGIER (a cura di), Meister Eckhart: Werke, «Bibliothek deutscher Klassiker», vol. XCI-XCII, Frankfurt a. M. 199293. Un commentario alle prediche a cura di diversi specialisti è in corso: G. STEER - L. STURLESE (a cura di), Lectura Eckhardi: Predigten Meister Eckharts von Fachgelehrten gelesen und gedeutet, Stuttgart 1998 ss. (2 voll. pubblicati). Traduzioni italiane: Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, Milano 1982, (ampia scelta di Die deutschen Werke, voll. I-II e V); a cura di M. Vannini: Opere tedesche, Firenze 1982 (Die deutschen Werke, voll. I e V); I sermoni latini, Roma 1989; Commento alla Genesi, «Ascolta Israele!», vol. VI, Genova 1989; Commento all’Ecclesiastico, Firenze 1990; Commento al Vangelo di Giovanni, Roma 1992; Una mistica della ragione, ed. a cura di G. Penzo, vol. XLVI, Padova 1992 (antologia); Prediche, Milano 1995 (scelta da Die deutschen Werke, voll. II e III). Traduzioni francesi: Les traités, a cura di J. Ancelet-Hustache, Paris 1971; Sermons, ed. a cura di J. AnceletHustache, Paris 1979, 3 voll.; L’oeuvre latine de Maître Eckhart, ed. a cura di F. Brunner - A. de Libera - E.H. Wéber - E. Zum Brunn, vol. I: Le Commentaire de la Genèse, précédé des Prologues, Paris 1984; vol. VI: Le Commentaire de l’Évangile selon saint Jean, Le Prologue (chap. 1, 1-18), Paris 1989; Traités et Sermons, a cura di A. de Libera, Paris 1993. Tr. ingl.: Parisian Quaestions and Prologues, a cura di A. Maurer, Toronto 1974; The Essential Sermons, Commentaries, Treatises and Defense, a cura di E. Colledge - B. McGinn, London - New York 1981; Teacher and Prea-
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Eckhart cher, a cura di B. McGinn, New York - London 1986; Selected Writings, a cura di O. Davies, London 1994. Su Meister Eckhart: bibl. esaustiva sino al 1988 in N. LARGIER, Bibliographie zu Meister Eckhart, Fribourg 1989; un bilancio delle nuove interpretazioni in L. STURLESE, Recenti studi su Eckhart, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 66 (1987), pp. 368-377. Fra le opere più recenti si segnala: H. FISCHER, Meister Eckhart: Einführung in sein philosophisches Denken, Freiburg 1974; K. FLASCH, Die Intention Meister Eckharts, in H. RÖTTGES - B. SCHEER - J. SIMON (a cura di), Sprache und Begriff: Festschrift für Bruno Liebrucks, Meisenheim 1974, pp. 292-318; K. ALBERT, Meister Eckharts These vom Sein: Untersuchungen zur Metaphysik des Opus tripartitum, Saarbrücken-Kastellaun 1976; A. KLEIN, Meister Eckhart: la dottrina mistica della giustificazione, Milano 1978; C. SMITH, The Way of Paradox: Spiritual Life as Taught by Meister Eckhart, London 1978, tr. it. di G. Gastone, La via del paradosso: la vita spirituale secondo Maestro Eckhart, Milano 1992; E. WALDSCHÜTZ, Meister Eckhart: eine philosophische Interpretation der Traktate, Bonn 1978; B. WELTE, Meister Eckhart: Gedanken zu seinen Gedanken, Freiburg-Basel-Wien 1979; A. DE LIBERA, Le problème de l’être chez Maître Eckhart, «Cahiers de la Revue de Théologie et de Philosophie», vol. IV, Genève-Lausanne-Neuchâtel 1980; B. MOJSISCH, Meister Eckhart: Analogie, Univozität und Einheit, Hamburg 1983; AA.VV., Maître Eckhart à Paris: une critique médiévale de l’ontothéologie. Les Questions parisiennes n. 1 et n. 2 d’Eckhart, Paris 1984; A. DE LIBERA, Introduction à la mystique rhénane: d’Albert le Grand à Maître Eckhart, Paris 1984, tr. it. di A. Granata, Introduzione alla mistica renana, Milano 1998; É. ZUM BRUNN - A. DE LIBERA, Maître Eckhart: métaphysique du Verbe et théologie négative, Paris 1984; K. RUH (a cura di), Abendländische Mystik im Mittelalter, «Symposium Kloster Engelberg 1984», Stuttgart 1986; F. TOBIN, Meister Eckhart: Thought and Language, Philadelphia 1986; K. FLASCH, Meister Eckhart: Versuch, ihn aus dem mystischen Strom zu retten, in P. KOSLOWSKI (a cura di), Gnosis und Mystik in der Geschichte der Philosophie, Zürich-München 1988, pp. 94-110; W. TRUSEN, Der Prozeß gegen Meister Eckhart, Paderborn 1988; K. RUH, Meister Eckhart: Theologe-Prediger-Mystiker, München 19892, tr. it. di M. Vannini, Meister Eckhart: teologo, predicatore, mistico, Brescia 1989; L. STURLESE, Die Kölner Eckhartisten, in A. ZIMMERMANN (a cura di), Die Kölner Universität im Mittelalter: geistige Wurzeln und soziale Wirklichkeit, Berlin - New York 1989, pp. 192211; E. WALDSCHÜTZ, Denken und Erfahren des Grundes: zur philosophischen Deutung Meister Eckharts, Wien-Freiburg-Basel 1989; O. DAVIES, Meister Eckhart: Mystical Theologian, London 1991; M. VANNINI, Meister Eckhart e «il fondo dell’anima», Idee, vol. LXXXVII, Roma 1991; U. KERN, La conoscenza come
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conoscenza di Dio: aspetti epistemologici della teoria dell’intelletto di Meister Eckhart, in G. FERRETTI (a cura di), Filosofia e teologia nel futuro dell’Europa, «Colloquio di filosofia e religione, Macerata, 24-27 ottobre 1990», Università degli studi di Macerata, «Pubblicazioni della Facoltà di lettere e filosofia, vol. LVIII, Atti di convegni», vol. XV, Genova 1992, pp. 239-258; H. STIRNIMANN - R. IMBACH (a cura di), Eckardus Theutonicus, homo doctus et sanctus, Fribourg 1992; L. STURLESE, Mistica o filosofia? A proposito della dottrina dell’immagine di Meister Eckhart, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 71 (1992), pp. 4964; W. BEIERWALTES, Primum est dives per se: Meister Eckhart und der «Liber de causis», in E.P. BOS - P.A. MEIJER (a cura di), On Proclus and His Influence in Medieval Philosophy, Leiden - New York - Köln 1992; P. REITER, Der Seele Grund. Meister Eckhart und die Tradition der Seelenlehre, Würzburg 1993; R. MANSTETTEN, Esse est Deus: Meister Eckharts christologische Versöhnung von Philosophie und Religion und ihre Ursprünge in der Tradition des Abendlandes, Freiburg-München 1993; L. STURLESE, Meister Eckhart: ein Porträt, Regensburg 1993; M. VANNINI, Dio, l’essere e il nulla in Meister Eckhart, in «Doctor Seraphicus», 40-41 (1993-94), pp. 35-48; L. STURLESE, Meister Eckhart in der Bibliotheca Amploniana: Neues zur Datierung des Opus tripartitum, in A. SPEER (a cura di), Die Bibliotheca Amploniana: ihre Bedeutung im Spannungsfeld von Aristotelismus, Nominalismus und Humanismus, «Miscellanea mediaevalia», vol. XXIII, Berlin - New York 1995, pp. 434-446; U. KERN, Die Anthropologie des Meister Eckhart, Hamburg 1995; I. KAMPMANN, «Ihr sollt der Sohn selber sein!»: eine fundamentaltheologische Studie zur Soteriologie Meister Eckharts, Frankfurt a. M. 1996; G. PENZO, Invito al pensiero di Eckhart, Milano 1997; W. GORIS, Einheit als Prinzip und Ziel: Versuch über die Einheitsmetaphysik des «Opus tripartitum» Meister Eckharts, Leiden 1997; K. JACOBI (a cura di), Meister Eckhart: Lebensstationen - Redesituationen, Berlin 1997; N. WINKLER, Meister Eckhart zur Einführung, Hamburg 1997; A. SACCON, Nascita e logos: conoscenza e teoria trinitaria in Meister Eckhart, Napoli 1998; C. CAVICCHIOLI, Essere, Parola, Silenzio. Introduzione alla filosofia mistica di Meister Eckhart, Bologna 1998; E. ZUM BRUNN (a cura di), Voici Maître Eckhart: textes et études, Grenoble 1998; B. MCGINN, The Mystical Thought of Meister Eckhart, New York 2001; L. STURLESE, Eckhart, l’inquisizione di Colonia e la memoria difensiva conservata nel codice Soest 33, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 80 (2001), pp. 62-89; A. BECCARISI, Libertà e intelletto: una lettura di Eckhart, Predica 1 (Quint), in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 82 (2003), pp. 383-401; A. BECCARISI, Philosophische Neologismen zwischen Latein und Volkssprache: «istic» und «isticheit» bei Meister Eckhart, in «Recherches de Théologie et Philosophie Médiévales», 70
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(2003), pp. 329-358; D. MIETH, Meister Eckhart: Mystik und Lebenskunst, Düsseldorf 2004; A. SPEER - L. WEGENER (a cura di), Meister Eckhart in Erfurt, Berlin - New York 2005.
ECKHART IL GIOVANE. – Mistico domeniEckhart il Giovane cano tedesco: si sa soltanto che fu discepolo di Meister Eckhart, che appartenne al convento di Erfurt e che morì nel 1337 (cfr. J. Quétif J. Echard, Scriptores Ordinis Praedicatorum, Paris 1719-21, ripr. New York 1959, Torino 1965, vol. I). Ci sono rimasti di lui due sermoni (La perfetta rassegnazione; Quanto s’impara alla scuola del Signore) e una lettera (nelle opere di Tauler, Sermones de tempore et de sanctis totius anni: reliquaque eius opera omnia, con tr. lat. di L. Surius, Coloniae 1613, pp. 11-13, 46-48, 807-808, tr. fr. nel vol. IV delle opere di Tauler, Paris 1914). W. Preger, che nella Geschichte der deutschen Mystik im Mittelalter (Leipzig 1874-93, vol. II, pp. 434-439, ripr. Cambridge 1962) pubblicò quattro suoi frammenti, gli attribuì anche un breve trattato «sull’intelletto agente e possibile» (Von der wirkenden und möglichen Vernunft, in «Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wissenschaften. Philosophischphilologische und historische Klasse», München 1871, pp. 176-189, pp. 176 ss.); ma è attribuzione assai discussa. Il motivo che appare dominante nel pensiero di Eckhart il Giovane, e che proviene dal filone plotiniano-eckhartiano, riguarda la preminenza ontologica dell’universale e la conseguente svalutazione dell’individualità empirica: poiché il creato come tale, cioè come cosa circoscritta nel tempo e nello spazio, è – secondo la XXVI delle proposizioni condannate di Meister Eckhart – un «purum nihil», è moralmente necessario che l’uomo trascenda le condizioni e le dimensioni cronotopiche della sua finitezza creaturale e, liberandosi da quel «nulla», si instauri nella natura umana, individua e indistinta; eliminando da sé tutto ciò che porta in lui distinzione e differenza, egli diventa il Figlio nella sua essenza universale; e per questa sua trasformazione, tutte le sue opere divengono divine. La creatura si eleva così sul piano della «generazione», che è atto eterno. G. Faggin BIBL.: A. LEVASTI, I mistici, Firenze 1925, vol. I, pp. 5153 (testi); H.S. DENIFLE, Das geistliche Leben, Salzburg 19369, pp. 472-474; A. DEMPF, Vom inwendigen Reichtum. Texte unbekannter Mystiker aus dem Kreise
Eclettismo Meister Eckharts, Leipzig 1937, p. 170; G. FAGGIN, Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante, Milano 1946, pp. 284-285; T. SCHALLER, Die Meister Eckhart-Forschung von der Jahrhundertwende bis zur Gegenwart, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 15 (1968), pp. 262-316; T. RENNA, Angels and Sprituality: The Augustian Tradition to Eckhart, in «Augustinian Studies», 16 (1985), pp. 29-37.
ECLETTISMO (dal greco ejklevgw, «sceglieEclettismo re» - eclecticism; Eklektizismus; éclectisme; eclectismo). – Voce introdotta nella terminologia filosofica tra Seicento e Settecento in Germania e diffusa da uno specifico articolo dedicatole da Diderot nell’Encyclopédie (1755), dove l’eclettismo viene assunto come la forma più autentica del filosofare. L’eclettismo è un metodo filosofico che ritiene la ricerca della verità non esauribile in un’unica forma sistematica e si propone quindi di coordinare e armonizzare tra loro gli elementi di verità scelti da sistemi diversi. La problematica dell’eclettismo gravita intorno al criterio di scelta: se la scelta degli elementi da coordinare è fatta ad arbitrio, o è determinata da motivi pragmatici e sociali contingenti, il metodo eclettico si pone fuori della filosofia, che è attività speculativa e critica; d’altra parte, se la scelta è fatta secondo principi determinati, si introduce nuovamente l’istanza unitario-sistematica, sia poi essa sviluppata in un sistema originale o sia invece realizzata in una semplice accettazione di sistemi già formulati in precedenza. Tale inconcludenza teoretica ha indotto spesso a considerare l’eclettismo come espressione del rilassamento filosofico di epoche miranti più a un accordo su credenze comuni che al rigore e all’originalità di ricerca. Il termine è allora usato come sinonimo di sincretismo: il kantiano W.T. Krug nell’Allgemeines Handwörterbuch der philosophischen Wissenschaften (Leipzig 1827, vol. I, p. 628) afferma, per esempio, che «l’eclettismo è nient’altro che sincretismo». Altrettanto negativo è il giudizio pronunciato da Hegel e dagli hegeliani. Vi è tuttavia anche una valutazione positiva dell’eclettismo, quale espressione della mancanza di esclusività e di assolutismo; si coglie così il tema dottrinale più robusto in esso: l’affermazione, implicita o esplicita, che lo spirito umano non è mai del tutto estraneo alla verità, pur giungendo di volta in volta a formulazioni valide solo in una prospettiva. Il miglior signi3195
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Eclettismo ficato dell’eclettismo è quindi rintracciabile sia nella tradizione della «filosofia perenne», sia in quei filosofi che riconoscono nel pensiero il fondamento della possibilità e dell’unità dei singoli veri. Ma si rifugge di solito in tal caso da un’esplicita professione di eclettismo, per evitare l’ambiguità etimologica: il riconoscimento della validità di una prospettiva non è il risultato di una «scelta», bensì di un ripensamento personale e unitario. Nella storia della filosofia si incontra per la prima volta un diffuso atteggiamento eclettico durante il periodo ellenistico-romano. I contrasti tra accademici, peripatetici, stoici ed epicurei creano un ambiente ricco di contatti e scambi reciproci; se lo scetticismo si nutre dell’inasprimento delle posizioni contrastanti, il movimento delle idee offre anche la possibilità di un avvicinamento delle scuole in una mediazione eclettica. A ciò contribuisce in modo notevole lo spirito della romanità, indifferente in genere alla ricerca teoretica e mirante alla valenza pratica della filosofia. La media Stoa, con Panezio e Posidonio, e l’ultima Accademia, con Antioco di Ascalona, mostrano una chiara tendenza a rinunciare ad alcuni dogmi della loro ortodossia in favore di dottrine estranee, per formare una linea compatta contro gli attacchi dello scetticismo. In Roma, M. Terenzio Varrone e Cicerone rivelano nel loro eclettismo il predominio di interessi morali e culturali su quelli speculativi; più tardi Seneca e Marco Aurelio intesseranno la psicologia stoica con temi platonici e aristotelici. La latinità non si cura tuttavia di denominare espressamente questo atteggiamento filosofico. Presso i greci vi è, invece, l’uso specifico dell’aggettivo ejklektikov": oltre al cenno ai medici «eclettici» nella Introductio seu Medicus dello pseudo-Galeno (a cura di C.G. Kühn, vol. XIV, Leipzig 1827, p. 684), si ha la testimonianza di Diogene Laerzio (Proemio a Vite dei filosofi, 21) circa la fondazione di una scuola eclettica (ejklektikh; ai{resi") da parte del filosofo Potamone di Alessandria, contemporaneo di Augusto. Poiché risulta che la dottrina di Potamone fosse essenzialmente stoica, la sua innovazione concerne non tanto la sostanza quanto il nome, essendo usata precedentemente, per «eclettico», la voce sumpeforhmevnw" (Teofrasto, De physicorum opinionibus, fr. 2; cfr. H. Diels, Doxographi graeci, Berolini 1879, p. 81, nota 4, e p. 477). Il pensiero cristiano si vale dell’eclettismo come metodo di apprezzamen3196
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to del pensiero antico; Clemente Alessandrino (Stromata, I, 37, 6) osserva: «Quando dico filosofia non intendo quella degli stoici, o di Platone, o d’Epicuro, o d’Aristotele. Tutto ciò che di buono è stato detto in queste scuole e che ci insegna la giustizia insieme con la pia scienza: questo insieme scelto chiamo filosofia». Un atteggiamento analogo è assunto da Lattanzio nelle Divinae institutiones (VII, 7, a cura di S. Brandt, Wien 1890, pp. 606-607). La fiducia nella perennità dei veri raggiunti dal pensiero anima anche il cosiddetto eclettismo di Leibniz, per cui ritrovare le tracce di verità nel pensiero degli antichi significa «estrarre il diamante dalla miniera» e pervenire alla philosophia perennis. Un diverso eclettismo, ispirato all’empirismo di Locke, è promosso in Germania alla fine del Seicento da Ch. Thomasius, che ne fa la bandiera contro ogni forma di settarismo, sia cartesiano sia soprattutto aristotelico, e a difesa della libertas philosophandi, che divenne il motto della nuova università prussiana di Halle. Era ben chiara (e fu espressamente sottolineata dal collega di Thomasius a Halle, J.F. Buddeus) la distinzione dell’eclettismo non solo dal settarismo e dallo scetticismo, ma anche dal sincretismo: è filosofo eclettico colui che «ex rerum ipsarum contemplatione principia accurate sibi format», in base ai quali poi distingue nelle dottrine di ciascuna setta «quid amplectendum, quid contra repudiandum sit» (J.F. Buddeus, Compendium historiae philosophicae, Halle 1731, p. 537). Tale concetto divenne categoria storiografica in J.J. Brucker, tanto da essere usato per caratterizzare il sorgere della filosofia moderna e per interpretarne lo sviluppo da Cartesio a Leibniz, fornendo a Diderot le linee per il citato articolo dell’Encyclopédie. Un ritorno in grande stile dell’eclettismo si ebbe in Francia nella prima metà dell’Ottocento ad opera di V. Cousin; egli riconobbe che Leibniz fu l’iniziatore di un metodo «insieme teorico e storico, la cui pretesa è di non respingere niente e di tutto comprendere per tutto spiegare», ma osservò che «il grande eclettico finì per cadere lui stesso in un sistema eccessivo, nell’idealismo più spinto » (Histoire générale de la philosophie, Paris 18642). L’eclettismo – che Cousin cercò inizialmente di configurare in dottrina che superava e inverava sensismo e spiritualismo (o idealismo), e che andava oltre lo scetticismo e il misticismo che ne derivano – nello sviluppo del suo pensiero fu tuttavia
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sostituito da una concezione schiettamente spiritualistica, mirante a subordinare i sensi allo spirito e a elevare l’uomo con tutti i mezzi della ragione. L’eclettismo fu conservato come semplice metodo di lettura della storia della filosofia, influendo sull’attività storiografica di Cousin e della sua scuola. F. Barone - M. Longo BIBL.: F. SUSEMIHL, Geschichte der griechischen Literatur in der Alexandrinerzeit, Leipzig 1892; M. POHLENZ, Die Stoa, Göttingen 1948-49, 2 voll. (19643), tr. it. Firenze 1967; W. CAPELLE, Die griechische Philosophie, vol. IV: Von der Alten Stoa bis zum Eklektizismus, Berlin 1954; M. LONGO, La storia della filosofia tra eclettismo e pietismo, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall’età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 329-421; H. HOLZHEY, Philosophie als Eklectic, in «Studia Leibnitiana», 15 (1983), pp. 19-29; W. SCHNEIDERS, Vernünftiger Zweifel und wahre Eklectic zur Entstehung des modernen Kritikbegriffes, in «Studia Leibnitiana», 17 (1985), pp. 143-181; M. ALBRECHT, Eklektik. Eine Begriffsgeschichte mit Hinweisen auf die Philosophie- und Wissenschaftsgeschichte, Stuttgart - Bad Cannstatt 1994; G. PIAIA (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. IV/2: L’età hegeliana. La storiografia filosofica nell’area neolatina, danubiana e russa, Padova 2004, pp. 89-200 (su V. Cousin). ➨ FILOSOFIA PERENNE.
ECO, UMBERTO. – Filosofo del linguaggio, seEco miologo e romanziere, n. ad Alessandria il 5 genn. 1932. Il pensiero di Eco si sviluppa sul confine tra la chiusura della struttura e l’apertura dell’interpretazione, nel tentativo di pensarne la tensione costitutiva e di mappare così le regolarità di ciò che per essenza sembra sfuggirvene. In una prima fase (Opera aperta, Milano 1962) sono la musica d’avanguardia, la letteratura e l’arte contemporanea a costituire il terreno d’indagine in cui definire i rapporti tra la forma dell’opera e l’indeterminazione della sua interpretazione (esecuzione, lettura), nel tentativo di determinare così la struttura stessa dell’apertura nella tensione tra libero intervento interpretativo e caratteristiche strutturali dell’opera che insieme stimolano e regolano l’ordine delle sue interpretazioni. In una seconda fase (Lector in fabula, Milano 1979), questa stessa tensione è ripensata e radicalizzata in chiave semiotica, collocando il lettore nella trama stessa del testo attraverso le sue strutture semiotiche simulacrali, al fine di descriverne le mosse interpretative, ma an-
Eco che di limitarne e controllarne l’operato (I limiti dell’interpretazione, Milano 1990). Questa stessa tensione tra struttura e interpretazione è altresì all’origine della svolta semiotica del pensiero di Eco, che si determina essenzialmente come un originale tentativo di connettere in un «equilibrio felicemente instabile» le prospettive dello strutturalismo semio-linguistico di Saussure e Hjelmslev (La struttura assente, Milano 1968) e la semiotica interpretativa di Peirce. Ecco allora come nel Trattato di semiotica generale (Milano 1975) a una teoria strutturale dei codici viene affiancata una teoria generale dei modi di produzione segnica che li mettono in opera nei testi, li utilizzano nei discorsi e li modificano attraverso le pratiche di interpretazione. In questo modo, l’idea stessa di sistema semantico assume la forma al contempo globalmente instabile e localmente stabilizzata di una rete enciclopedica di rimandi semiotici al contempo effetto e condizione di possibilità delle interpretazioni che li formano (Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino 1984). Nel tentativo di definire un realismo contrattuale fondato sul consenso della comunità e sulla possibile falsificabilità di ciò che non può essere sostenuto alla luce dell’esperienza, la stessa tensione tra struttura e apertura migra in Kant e l’ornitorinco (Milano 1997), in una dialettica filosofica tra la datità strutturata del fatto e l’apertura dell’interpretazione chiamata a renderne conto, ed è affiancata a livello epistemologico, etico e sociale da una teoria della negoziazione (Dire quasi la stessa cosa, Milano 2003) secondo cui ogni progresso si fonda essenzialmente sul processo razionale dell’accordarsi con l’altro. Saggista e storico (La ricerca della lingua perfetta, Roma-Bari 1993), studioso di comunicazione (Apocalittici e integrati, Milano 1964) ed estetica (Il problema estetico in San Tommaso, Milano 1954), dal 1980 Eco ha intrapreso un’attività di romanziere che lo ha reso universalmente celebre. Ben lungi dall’essere il dominio dell’energia creatrice e del vortice dionisiaco su cui l’analisi non ha presa, la stessa pratica letteraria consiste per Eco nel gioco di frontiera tra vincoli strutturali e libertà inventiva, in funzione di una creatività controllata che sebbene non corrisponda alle stesse regole del teorizzare risponde però ad altre regole, che il pensiero può indagare e di cui deve poter essere in grado di rendere conto, venendo così 3197
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Ecologia
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definitivamente consegnato alla lotta contro l’ineffabile (Sulla letteratura, Milano 2002). C. Paolucci
ECOLOGIA Ecologia (dal gr. oi\ko" «casa», lovgo" «discorso» - ecology; Ökologie; écologie; ecologia). – Il termine fu coniato da Ernst Haeckel nel 1866 a indicare: «lo studio dell’economia e del modo di abitare degli organismi animali. Essa include le relazioni degli animali con l’ambiente inorganico e organico, soprattutto i rapporti positivi o negativi, diretti o indiretti con piante e altri animali: in una parola, tutta quell’intricata serie di rapporti ai quali Darwin si è riferito parlando di condizioni della lotta per l’esistenza» (Generelle Morphologie der Organismen, Jena 1866, II, p. 286 e Über Entwicklungsgang und Aufgabe der Zoologie, in «Jenaische Zeitschrift für Naturwissenschaft», Jena 1870, pp. 353354). È però in un contesto lontano da quello dell’evoluzionismo darwiniano, e precisamente nell’ambito degli studi di geobotanica e biogeografia inaugurati da Alexander von Humboldt agli inizi del XIX secolo e proseguiti da August Grisebach, Charles Flahault, Alphonse de Condolle ed Eugen Warming, che va identificata l’autentica origine dell’ecologia come scienza, il cui oggetto non sono i processi di speciazione, bensì le interrelazioni dinamiche tra popolazioni o insiemi di popolazioni (biocenosi) e l’ambiente fisico, chimico, climatico e biologico entro cui vivono. Il complesso integrato di comunità biotica e ambiente verrà definito da Arthur Tansley nel 1935 come «ecosistema»: ed è intorno alla metà del XX secolo che l’ecologia delle successioni vegetali fondata da Conway McMillan, quella delle successioni biotiche della scuola di Chicago, la sociologia vegetale delle scuole di Zurigo-Montpellier e Uppsala e la biocenotica iniziata da Karl Möbius confluiscono in una teoria quantitativa degli ecosistemi, che è la forma in cui l’ecologia si è definitivamente imposta e tuttora viene esercitata come disciplina scientifica. Determinanti in ordine a questo sviluppo, oltre a impulsi di carattere strettamente economico, legati a questioni come lo sfruttamento degli agrosistemi o delle popolazioni selvatiche e la lotta contro i nocivi, sono stati i lavori dei matematici Alfred J. Lotka e Vito Volterra, che hanno introdotto i principi del metodo modellistico di simulazione delle dinamiche di popolazione, metodo che variamente perfezionato è ancora oggi in auge (cfr. A.J. Lotka, 3198
Elements of Physical Biology, Baltimora 1925; V. Volterra, Variazioni e fluttuazioni del numero di individui in specie animali conviventi, in: Mémoires de l’Academia de’ Lincei, 1926, serie VI, vol. II). A partire dalla proposta di questo schema formale tutto incentrato sull’analisi delle relazioni trofiche tra i componenti del bioma entro un dato biotopo, si rafforza un approccio sempre più ostile alle tentazioni organicistiche di ascendenza neovitalista, ancora presenti nella bioecologia di Frederic E. Clements e della scuola di Chicago. Per arrivare all’espressione compiuta più autorevole della scienza ecologica, però, si dovranno attendere le fondamentali intuizioni di Erwin Schrödinger, la cui «biofisica» permise di superare l’impostazione troppo rigidamente matematica di Lotka e Volterra, integrandola con la termodinamica statistica di ispirazione boltzmanniana (cfr. What is Life? The Physical Aspect of the Living Cell, Cambridge 1944, tr. it. di M. Ageno, Che cos’è la vita?, Milano 1995): si apriva così la strada alla teoria energetista degli ecosistemi, preannunciata da Raymond Lindemann nel 1941 e sviluppata compiutamente a partire dagli anni cinquanta dai fratelli Eugene P. e Howard T. Odum, che la integrarono con la cibernetica di Norbert Wiener e la teoria dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy. La sintesi energetista-cibernetica si fonda sull’introduzione di un’unità di misura unica – la caloria – per la commisurazione di ambiente e bioma: solo a partire da ciò l’ecosistema non è più un complesso eterogeneo, seppur interrelato, bensì un fenomeno unitario, atomico, descrivibile secondo leggi dinamiche di circolazione dell’energia-informazione. Si assiste così alla traduzione dei termini legati all’analisi delle relazioni trofiche tra popolazioni, in riferimento alle loro nicchie ecologiche, in concetti di un’economia termodinamica regolata da sistemi di controllo ed equilibrio cibernetici: i flussi di energia e i cicli di materia si svolgono senza soluzione di continuità dall’irraggiamento solare, alla fotosintesi, con la sua produzione di biomassa che prosegue lungo le catene alimentari nella serie ascendente dei livelli trofici, distinti funzionalmente e in ordine al tipo di retroazione (feedback) che esercitano sull’intero processo, conservandone la naturale tendenza all’omeostasi o climax (cfr. E.P. Odum, Basic Ecology, Filadelfia 1983, tr. it. di L. Nobile, Basi di Ecologia, Padova 1988, pp. 11 ss., 74 ss.).
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Il processo di fisicizzazione dell’ecologia, se da un lato la inserisce nella corrente biologica riduzionista, dall’altro le permette la trattazione quantitativa unitaria e rigorosa di molti ambiti fenomenici, ben al di là del regno biologico in senso stretto. Ciò è reso possibile dalla commutabilità delle unità di misura termodinamiche, informatiche ed economiche: la trasmissione delle informazioni può essere descritta in termini di relazioni tra energia ed entropia, mentre i flussi economici vengono facilmente ridotti a fattori energetici o informatici (per l’eco-economia e il concetto di sviluppo sostenibile, cfr. H. Daly, Economics, Ecology, Ethics: Essays toward a Steady-State Economy, San Francisco 1980 e D.W. Pearce - R.K. Turner, Economics of Natural Resources and the Environment, Baltimora 1991, tr. it. di M. Botticini, Economia delle risorse naturali e dell’ambiente, Bologna 1997). Grazie a questa plasticità e capacità universalizzante e nonostante il carattere riduzionista del suo apparato concettuale e metodologico, l’ecologia si propone nella seconda metà del Novecento come modello ermeneutico sempre più generale, divenendo infine il paradigma dell’«olismo» e generando un’importante serie di sintesi teoriche, dalla considerazione unitaria degli ecosistemi naturali e antropizzati nell’Ipotesi Gaia di James Lovelock, che introduce il concetto di «sistema biocibernetico autoregolato» per la biosfera (cfr. Gaia: A new Look at Life on Earth, Oxford 1979, tr. it. di V. Bassan Landucci, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Torino 1996, pp. 7 ss., 24), alla storia materiale in chiave ecologica di Jeremy Rifkin o all’ecologia della mente di Gregory Bateson. Su questa via e in dipendenza dalla consapevolezza sempre più lucida, a partire dalle pubblicazioni del Club of Rome negli anni settanta (cfr. D.H. Meadows et al., The Limits to Growth, New York 1972, tr. it. di F. Macaluso, I limiti dello sviluppo, Milano 1972), di un mutamento radicale nelle relazioni tra società umana e natura, consapevolezza che culmina nella diagnosi della «crisi ecologica» in atto, quale carattere epocale della contemporaneità, l’ecologia perde la sua caratterizzazione puramente scientifica e diviene denominatore comune di una serie di concezioni, che sfumano spesso verso prese di posizione di natura ideologica, come l’ecoanarchismo di Murray Bookchin e l’ecologia profonda di Arne Naess, o schiettamente politica.
Ecologismo Sul piano filosofico, è principalmente l’opera di Hans Jonas a farsi interprete, rinnovando implicitamente fondamentali categorie heideggeriane e ampliando lo spettro delle analisi di Günther Anders, di una riflessione ampia e approfondita sulle implicazioni della crisi ambientale: è con il suo Il principio responsabilità (1979) che di fatto l’etica ecologica acquisisce pieno diritto di cittadinanza nel contesto dell’etica pratica e applicata N. Russo BIBL.: P. ACOT, Histoire de l’écologie, Paris 1988, tr. it. di S. Nesi Sirgiovanni, Storia dell’ecologia, Roma 1989; J. DELÉAGE, Histoire de l’écologie, Paris 1991, tr. it. di T. Capra, Storia dell’ecologia, Napoli 1994; E. TIEZZI, Tempi storici, tempi biologici, Milano 1992; N. RUSSO, Filosofia ed ecologia. Idee sulla scienza e sulla prassi ecologiche, Napoli 2000. ➨ AMBIENTE, ETICA DELLO; ECOLOGISMO.
ECOLOGISMO (ecologism; Ecologism; écologiEcologismo sme; ecologismo). – Molto presto nella riflessione sulle implicazioni dell’ecologia si è venuta delineando l’idea che la nuova disciplina rappresentasse una scienza «sovversiva». Da un lato si è infatti osservato che essa modifica profondamente il tradizionale statuto metodologico delle scienze naturali, in particolare per quanto riguarda le critiche alla separazione tra soggetto e oggetto, il riduzionismo, il determinismo, il carattere predittivo delle leggi scientifiche. Dall’altro, questo mutamento di prospettiva non è senza conseguenze per le scienze sociali, dal momento che, come ha osservato Edgar Morin, «l’ecologia generale è la prima scienza che, proprio nella sua qualità di scienza [...] richiede una presa di coscienza quasi diretta. Ed è la prima volta che una scienza, e non la filosofia, ci pone il problema della relazione fra l’umanità e la natura vivente» (Il pensiero ecologico, Firenze 1988, pp. 127-128). La consapevolezza circa le implicazioni generali dell’ecologia ha condotto alla distinzione tra un approccio ai problemi ecologici che mette radicalmente in discussione i fondamenti epistemici e pratici della relazione tra esseri umani e natura, e una visione che ricerca una gestione più accorta dell’ambiente e delle risorse naturali nel mantenimento delle metodologie e dei valori generalmente accettati. La duplice prospettiva è stata per la prima volta presentata in termini analitici dal filosofo norvegese Arne Næss come distinzione tra deep ecology e shallow ecology, espressioni che 3199
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Econometria possono essere tradotte come ecologismo e ambientalismo (Shallow and the Deep, LongRange Ecology Movement. A Summary, in «Inquiry», 16, 1973, pp. 95-100): la prima consiste nell’assunzione di una prospettiva ecosistemica, nel decentramento della posizione umana nel mondo, nel riconoscimento di valore alle totalità naturali a prescindere da qualunque utilità umana, nell’azione che asseconda l’imperativo di minima interferenza con i processi naturali. La posizione di Næss non è comunque senza precedenti, trovando riscontro – oltre che nella tradizione antica e moderna dell’organicismo, come pure in una parte del romanticismo e del trascendentalismo – nell’etica della terra di Aldo Leopold e nelle leggi ecologiche di Barry Commoner («everything is connected to everything else; everything must go somewhere; nature knows best; there is no such thing as a free lunch», The Closing Circle, New York 1971). Tali posizioni rimangono nell’ecologia profonda come ispirazione spirituale nella protezione incondizionata della natura selvaggia (wilderness). All’interno della riflessione a fondamento ecologico, l’antropologo Gregory Bateson ha compiuto il più creativo e coerente ripensamento del rapporto tra esseri umani e natura a partire dall’epistemologia, intesa come «ecologia della mente». L’espressione si riferisce all’indagine sul significato biologico-ecologico dei processi cognitivi, seguendone le implicazioni dall’ambito dell’evoluzione biologica fino all’impatto delle conseguenze sociali e politiche. Il termine ecologism è stato esplicitamente adottato in filosofia politica da Andrew Dobson, in contrapposizione a environmentalism: il primo assume che una vita sostenibile e piena presuppone cambiamenti radicali nella nostra relazione con il mondo naturale e nella vita sociale e politica; il secondo propone un approccio manageriale ai problemi ambientali, senza mettere in discussione i valori prevalenti e le attuali forme di produzione e consumo. Benché molte visioni ecologiste siano caute nell’inferire direttamente dall’ecologia come scienza direttive morali, volutamente economiche o politiche, le implicazioni epistemiche (una latente fallacia naturalistica), filosoficoantropologiche (l’antiumanismo) e il radicalismo socio-politico (la critica ai dominanti stili di vita consumistici) hanno reso minoritarie le 3200
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posizioni ecologiste nell’ambito delle prevalenti etiche e politiche dell’ambiente. M.C. Tallacchini BIBL.: P. SHEPARD - D. MCKINLEY (a cura di), The Subversive Science, Boston 1969; G. BATESON, Mind and Nature. A Necessary Unity, New York 1979; A. NÆSS, Ecology, Community and Lifestyle, Cambridge 1989; A. DOBSON, Green Political Thought, London 1990; P.C. LIST (a cura di), Radical Environmentalism. Philosophy and Tactics, Belmont (California) 1993. ➨ AMBIENTE; AMBIENTE, ETICA DELLO; TERRA.
ECONOMETRIA (econometrics; Ökonometrie; Econometria économétrie; econometría). – È quella branca dell’economia che si prefigge di dare contenuto empirico alle relazioni economiche, utilizzando metodi matematici e statistici. La Econometric Society venne fondata nel 1933 con lo scopo di unificare l’approccio teoretico-quantitativo all’economia con quello empiricoquantitativo, in maniera analoga a quanto avveniva nelle scienze naturali (cfr. R. Frisch, Editorial, in «Econometrica», 1, 1933, p. 1). Il rapporto tra relazioni teoriche e proprietà statistiche dei dati, o, in altri termini, tra relazioni causali e correlazioni, rimane oggetto della maggior parte delle questioni metodologiche dell’econometria. Si individuano tre paradigmi metodologici. Il primo è quello conosciuto come Cowles Commission, dal nome della commissione scientifica fondata nel 1932 negli Stati Uniti. Il contributo fondamentale è di Trygve Haavelmo (Nobel 1989), il quale individua, in The Probability Approach in Econometrics (in «Econometrica», suppl. 12, 1944), le condizioni algebriche necessarie e sufficienti perché un sistema di equazioni possa essere «identificato». Identificare un sistema di equazioni significa determinare la struttura causale (e probabilistica) che ha generato i dati. Il problema dell’identificazione deriva dal fatto che la struttura è in generale sotto-determinata dalle proprietà statistiche (è il noto problema dell’induzione: correlazione non è causalità). La soluzione data dalla Cowles è quella di utilizzare la teoria economica per specificare a priori la struttura delle relazioni causali. Il ruolo della statistica è quello di misurare la forza delle relazioni e di testare le restrizioni della teoria. Questo approccio viene criticato da Robert Lucas (Nobel 1995) in Econometric Policy Evaluation: A Critique (in «Carnegie-Rochester Confe-
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Economia
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rence Series on Public Policy», 1, 1976, pp. 1946). Lucas sostiene che i parametri strutturali identificati col metodo della Cowles non sono stabili e variano col cambiare della politica economica. Infatti se i modelli econometrici della Cowles venissero usati in modo sistematico per intraprendere nuove azioni di politica economica, gli individui adatterebbero il loro comportamento cercando di trarre il massimo vantaggio dalla nuova politica. Le equazioni utilizzate per prevedere gli effetti della nuova politica non sarebbero più valide, perché trascurerebbero il comportamento intenzionale degli individui. Secondo Lucas, relazioni macroeconomiche stabili devono essere invece derivate dalle scelte e dalle aspettative razionali degli individui. Da questa critica nasce un approccio alla macroeconomia «micro-fondato» sull’ipotesi delle aspettative razionali degli agenti economici. Ciò si traduce in econometria nel derivare dall’ipotesi suddetta restrizioni algebriche per l’identificazione. Tuttavia, oggetto della critica è più la teoria utilizzata sino ad allora nell’identificazione (cioè la teoria macroeconomica keynesiana, egemone fino agli anni settanta), che i presupposti metodologici della Cowles. La critica mossa da Christopher Sims (Macroeconomics and Reality, in «Econometrica», 48, 1980, pp. 1-48) all’econometria della Cowles è invece più radicalmente rivolta al metodo dell’identificazione. Oltre a mettere in dubbio le restrizioni teoriche utilizzate dalla Cowles per l’identificazione, Sims sostiene che le equazioni strutturali sono in principio non identificabili. Infatti l’alto numero di interdipendenze tra le variabili compromette algebricamente l’identificazione. Per Sims occorre lasciar parlare i dati, senza imporre restrizioni teoriche. In effetti i modelli proposti da Sims, i vettori autoregressivi (VAR), si dimostrano ottimi strumenti per riassumere in maniera efficace le proprietà statistiche dei dati, ma non per fare valutazioni di politica economica, poiché le equazioni stimate non sono le equazioni strutturali. Lo scopo dei VAR è quello, meno ambizioso, di identificare gli effetti di shock strutturali, ma anche ciò richiede l’imposizione di restrizioni a priori. L’uso di restrizioni a priori avulse dalla teoria, proposto inizialmente da Sims, è stato considerato arbitrario e il programma di un’econometria indipendente dalla teoria economica è stato recepito come un insuccesso (cfr. Thomas Cooley - Stephen
Le Roy, Atheoretical Macroeconomics: A Critique, in «Journal of Monetary Economics», 16, 1985, pp. 283-308). La tendenza odierna è di utilizzare i VAR per identificare gli effetti di shock strutturali richiedendo, in modo del tutto coerente alla metodologia Cowles, l’intervento di restrizioni derivate dalla teoria o dalla conoscenza dei meccanismi delle istituzioni economiche. A. Moneta BIBL.: D. HENDRY, Dynamic Econometrics, Oxford 1985; C. GRANGER (a cura di), Modelling Economic Series, Oxford 1990; M. MORGAN, The History of Econometric Ideas, Cambridge 1990; D. POIRER (a cura di), The Methodology of Econometrics, Aldershot 1994; K. HOOVER (a cura di), Macroeconometrics: Developments, Tensions, and Prospects, Boston 1995; H. KEUZENKAMP, Probability, Econometrics and Truth. The Methodology of Econometrics, Cambridge 2000. ➨ CAUSALITÀ.
ECONOMIA Economia (economy, economics; Wirtschaft, Wirtschaftslehre; économie; economía). – SOMMARIO:
I. Economia come governo della casa. - II. Il principio di economia. - III. L’economia come scienza della ricchezza. - IV. L’economia come teoria dell’uso di risorse scarse e oltre. I. ECONOMIA COME GOVERNO DELLA CASA. – I due termini greci oi\k o" (oikos) e nov mo" (nomos) compongono il termine oijkonomiva (oikonomia), da cui il latino oeconomia, il cui etimo, dunque, significa «regola o governo della casa». Il termine-concetto ha pertanto un contenuto essenzialmente pragmatico cui inerisce un programma normativo che riguarda lo studio, così come la prassi, di regole di buona amministrazione della realtà della casa-azienda descritta ad esempio negli Oeconomica di scuola aristotelica. Questa origine può certamente contribuire a spiegare il senso comunemente attribuito al sostantivo (così come al verbo corrispondente) nel linguaggio quotidiano, dove esso indica le ricerca di modi per evitare lo spreco e conseguire un determinato risultato col minimo di mezzi e di sforzo. L’economia nasce dunque, etimologicamente ma senza dubbio anche storicamente, come studio della organizzazione e, più esattamente, della efficienza nella organizzazione. Seguendo la definizione qui indicata del campo disciplinare non vi rientrano, almeno in forma diretta, fenomeni che oggi ascriviamo al campo dell’economia con rilievo primario, come lo scambio. In continuità con il senso aristotelico si sviluppò un filone di letteratura sul governo 3201
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Economia della casa, l’economica che sopravvisse in Germania fino al Settecento sotto il nome di Hausvaterliteratur. II. IL PRINCIPIO DI ECONOMIA. – Nella filosofia stoica il termine oijkonomiva passò, con un trasferimento dal microcosmo al macrocosmo, a designare l’ordine del governo divino del cosmo. Dalla filosofia stoica il termine passò al linguaggio del Nuovo Testamento e della patristica per designare il piano divino della salvezza (cfr. 1 Cor 9, 17; Ef 1, 10; Clemente Alessandrino, Stromata I, 52, 3). Il termine greco venne tradotto in latino alternativamente con oeconomia, dispositio o dispensatio. Tuttora nel linguaggio teologico appare la nozione di oeconomia salutis per designare la concezione della storia dell’umanità come realizzazione del piano divino. Nella tradizione logico-metodologica medievale e moderna si formò un principio d’economia, espresso nella esigenza di «economizzare» i concetti formulata da Guglielmo di Ockham con la nota formula detta del rasoio di Ockham: «frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora». Sotto vari nomi questo principio si tramandò nei secoli successivi biforcandosi in una prescrizione metodologica e in un postulato riguardante l’ordine della creazione. Il «principio di parsimonia» di Nicolas Malebranche postula la semplicità dei mezzi usati dal creatore nel realizzare il creato e il principio della minima azione di Pierre-Louis Moreau de Maupertuis postula il «risparmio» nel numero di cause che determinano i fenomeni naturali. Anche quello che Ernst Mach a fine Ottocento chiamò «principio di economia» è una prescrizione metodologica che postula che «la scienza possa essere considerata come un problema di minimo che consiste nell’esprimere i fatti nel modo più perfetto possibile con il minimo dispendio di pensiero» (Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt, ed. a cura di R. Wahsner e H.H. von Borzeszkowski, Berlin 1988, tr. it. a cura di A. D’Elia, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Torino 20013 [1883], cap. 4, § 4, sezione 6). III. L’ECONOMIA COME SCIENZA DELLA RICCHEZZA. – In età moderna compare la locuzione di economia politica, per la prima volta in Antoine de Montchrétien (Traicté de l’économie politique, a cura di F. Billacois, Genève 1999 [1615]). La locuzione non è necessariamente incompatibile con il senso originario del termine economia, 3202
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dato che nasce da un ampliamento della sfera dello oikos sino a ricomprendere la nazione, e anzi riprende un’espressione greca che compare nel libro II degli Economici pseudoaristotelici; si deve tuttavia notare che l’ampio uso, da parte di Montchrétien e poi di altri, dell’analogia iatro-politica induce a pensare non già a un passaggio binario dal governo della casa al governo della nazione bensì a un passaggio ternario dall’ordine della casa all’ordine degli organismi viventi (économie animale) e da questo all’ordine della nazione, assimilata a un organismo vivente che può godere di buona salute o soffrire di malattie. La locuzione finì col prevalere come nome di una nuova disciplina, pur accompagnandosi per un certo tempo ad altre analoghe, quali quelle di scienza camerale, economia civile, economia sociale, catallattica. In italiano la locuzione è tuttora viva e la proposta di adottare il termine «economica», corrispondente al termine «economics», affermatosi in inglese a fine Ottocento e analogo alla denominazione di altre discipline scientifiche, non ha avuto successo L’economia politica considera la questione della definizione della ricchezza delle nazioni e lo studio delle cause della dinamica comparata della ricchezza stessa e dei suoi effetti, come annuncia il titolo dell’opera di Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (a cura di R.H. Campbell, A.S. Skinner, W.B. Todd, Oxford 1976, tr. it. a cura di A. Roncaglia, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Roma 1995 [1776]). Nel compimento di questo passaggio, è possibile anche leggere il richiamo alla polis come la conferma della inclusione nell’oggetto della disciplina dello studio di comportamenti interpersonali di natura consensuale e contrattuale, fra i quali lo scambio e il mercato, che si collocano al di fuori di una specifica struttura organizzativa – studio ascritto all’etica in Aristotele e poi nella scolastica. In Adam Smith permane una certa distanza rispetto al termine «economia politica», di uso non frequentissimo e non di rado riferito ai sistemi fatti oggetto di critica più che alla teoria che l’autore si prefigge di costruire. Non vi è dubbio in ogni caso che l’economia politica, così come prende forma in epoca moderna, deve considerarsi in primo luogo quale frutto di sviluppi da un lato pragmatici e operativi e dall’altro quale sottoprodotto del giu-
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snaturalismo. A fare da catalizzatore fra questi due elementi si aggiunsero i programmi metodologici della nuova scienza, che produssero fra l’altro la nascita dell’econometria o, più esattamente, l’«aritmetica politica» quale venne concepita da William Petty. In economia non divenne però mai prevalente una concezione puramente induttivista delle leggi scientifiche, stante l’impossibilità di sperimentare e di distinguere sperimentalmente l’azione di cause diverse, come venne chiarito da John Stuart Mill (On the Definition of Political Economy [1844], in Collected Works, a cura di J.M. Robson, Toronto 1963-1991, vol. I, pp. 229-239, tr. it. a cura di L. Infantino, Sulla definizione dell’economia politica, in Economia e scienze sociali, Soveria Mannelli 2004). IV. L’ECONOMIA COME TEORIA DELL’USO DI RISORSE SCARSE E OLTRE. – Con il marginalismo prevalse la concezione dell’utilità come funzione della disponibilità dei beni. L’economia neoclassica e il concetto di equilibrio economico da essa sviluppato sono spesso visti come espressione di una concezione tendenzialmente statica che concentra l’attenzione sull’efficienza allocativa di risorse date e non affronta la questione dello sviluppo. Si è affermato così un paradigma basato sull’assunzione dell’esistenza di agenti individuali dotati di preferenze stabili e coerenti il cui comportamento obbedisce allo schema razionale della massimizzazione di preferenze date. Non a caso Vilfredo Pareto teorizzò l’economia come disciplina delle azioni «logiche», mosse cioè da razionalità strumentale, distinta dalla sociologia che si occupa dell’ambito «non-logico» e l’etimologia è ben rispecchiata nella definizione di economia come disciplina che studia l’allocazione di risorse scarse suscettibili di uso alternativo data da Lionel Robbins in Essay on the Nature and Significance of Economic Science (London 19352, con prefazione di W.J. Baumol, London 19843, tr. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, Torino 19532 [1932]) secondo il quale il problema allocativo viene risolto con una procedura di massimizzazione nella quale il rapporto rilevante è quello tra l’agente economico e le risorse a disposizione. In questo modo il problema economico si riconduce a un problema di ottimizzazione e la disciplina economica lo studia sulla base di un impianto di razionalità ottimizzante. Molte delle sfide dell’economia contemporanea riguardano da un lato i possibili percorsi
Economia civile dell’economia dinamica e, dall’altro lato, il superamento dell’orizzonte positivistico dell’economia neoclassica attraverso aperture interdisciplinari in direzione della psicologia (economia sperimentale) e della sociologia (socioeconomia) e la ripresa del rapporto con l’etica (etica economica). P. Porta BIBL.: P. GROENEWEGEN, ‘Political economy’ and ‘economics’, in J. EATWELL - M. MILGATE - P. NEWMAN (a cura di), The New Palgrave, London 1991, vol. III, pp. 904907. ➨ ANALOGIA IATRO-POLITICA; ARITMETICA POLITICA; ECONOMIA NEOCLASSICA; ECONOMIA SPERIMENTALE; ECONOMIA (OECONOMICA); ETICA ECONOMICA (PROBLEMI); MARGINALISMO; SOCIOECONOMIA; SVILUPPO; UTILITÀ.
ECONOMIA CIVILE. – Il concetto di econoEconomia civile mia civile viene proposto e utilizzato soprattutto entro una linea di sviluppo del pensiero economico caratteristica della tradizione italiana. Il primo autore a farne uso è Antonio Genovesi (1713-69) – primo titolare al mondo di una cattedra universitaria di economia, istituita nell’università di Napoli nel 1754 – nelle sue Lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-67, ed. a cura di M.L. Perna, Napoli 2005). Il termine civile era stato usato e verrà usato successivamente in diversi contesti, p. es. nella locuzione società civile, con slittamenti semantici importanti nelle diverse epoche. Al pari della locuzione società civile, anche quella di economia civile è oggi ampiamente ripresa. All’epoca di Genovesi il termine si giustifica soprattutto per l’indicazione di chiara impronta illuministica di un «luogo in cui la felicità può essere raggiunta pienamente, grazie alle buone e giuste leggi, ai commerci e ai corpi civili nei quali gli uomini esercitano la loro socialità» (L. Bruni - S. Zamagni, Economia civile, Bologna 2004, p. 74). Altrettanto presente in Genovesi è tuttavia anche un legame molto preciso con la tradizione dell’umanesimo civile italiano dei secoli precedenti. Se l’espressione riflette dunque gli interessi e la formazione di Genovesi, essa non diviene però dominante. Già nel Settecento si diffonde in Italia l’espressione economia politica, utilizzata, ad esempio, da Pietro Verri nelle Meditazioni sulla economia politica (1771, ed. a cura di R. De Felice, Milano 1998). La nozione di economia civile si caratterizza per la sottolineatura di aspetti di relazionalità, fiducia, reci3203
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Economia evoluzionistica procità, collegati a una buona legislazione e a codici di norme interiorizzati, anziché privilegiare i lati autointeressati dell’agire economico usualmente associati con l’idea di economia politica. A cavallo tra Ottocento e Novecento, si parlerà di economia sociale o Sozialökonomie, soprattutto nella tradizione tedesca, con Max Weber e altri autori, per indicare soprattutto la unitarietà tra le discipline sociali, alle quali l’economia appartiene. Il civile si differenzia dal sociale per essere più collegato alla produzione di norme e alla dimensione giuridica. Nella stessa linea la tradizione italiana ha ripreso ampiamente il concetto in collegamento anche con la sottolineatura della creatività come risorsa economica. Spesso ricordato è al riguardo il contributo di Gian Domenico Romagnosi, il quale insiste sulla nozione di incivilimento. Carlo Cattaneo riprende e sviluppa lo stesso concetto soprattutto nella direzione della creatività e, in definitiva, nel senso di quel che oggi chiamiamo il capitale umano e il capitale sociale. Su un diverso versante, una componente non trascurabile dell’economia sociale, prodotta dalla ispirazione cattolica, ha sviluppato una linea d’indagine molto vicina a quella dell’economia civile specie per l’importanza attribuita ai gruppi intermedi nella vita economica, sociale e politica. Un esempio è fornito da Giuseppe Toniolo e dal suo Trattato di economia sociale (1901, ed. a cura di F. Vito, in Opera omnia, serie II, 1-5, Roma 1949-52). Oggi il concetto di economia civile viene studiato soprattutto in rapporto coi più recenti sviluppi della economia del benessere, che hanno condotto a riportare al centro dell’attenzione il concetto di felicità e più esattamente di felicità pubblica. Su questo terreno si è sviluppata di recente una linea neoutilitarista, rappresentata per esempio dallo psicologo Daniel Kahneman, dalla quale si distingue un’impostazione eudemonistica, sviluppata da Amartya Sen e ricollegabile al neoaristotelismo di Martha Nussbaum. Le proposte di ripresa della nozione di economia civile sono vicine alla seconda linea di ricerca. P.L. Porta BIBL.: E. GARIN, L’umanesimo italiano, Roma-Bari 1994; P.L. PORTA - R. SCAZZIERI, Concorrenza e società civile, in A. QUADRIO CURZIO (a cura di), Alle origini del pensiero economico in Italia. Economia e Istituzioni: il paradigma lombardo tra i secoli XVIII e XIX, Bologna
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1996, pp. 15-58; L. BRUNI, Civil Happiness. Economics and Human Flourishing in Historical Perspective, London 2006. ➨ HOMO OECONOMICUS; RECIPROCITÀ; SOCIOECONOMIA.
ECONOMIA EVOLUZIONISTICA (evoluEconomia evoluzionistica tionary economics; Evolutionsökonomik; économie évolutive; economía evolutiva). – Per economia evoluzionistica si intende l’applicazione analogica della teoria dell’evoluzione biologica all’analisi di fenomeni economici. In svariati contesti l’utilizzo di concetti evoluzionistici si è rivelato particolarmente fecondo di sviluppi, in particolare per quanto riguarda lo studio del progresso tecnologico, del comportamento organizzativo, delle dinamiche industriali, del mutamento istituzionale, delle norme sociali e dei comportamenti strategici. Il rapporto tra pensiero economico e pensiero evoluzionistico ha una lunga tradizione, che ha visto autori, anche molto diversi tra loro, quali Adam Smith, Karl Marx, Thorstein Veblen, Alfred Marshall, Joseph Schumpeter, Friedrich von Hayek, Armen Alchain, Oliver Williamson, Richard Nelson e Sidney Winter, importare in ambito economico metafore naturalistiche, ma anche idee economiche penetrare il pensiero naturalistico, si pensi per esempio all’influenza esercitata da Thomas Malthus sullo sviluppo delle idee di Charles Darwin, o più recentemente all’utilizzo della teoria dei giochi per lo studio di fenomeni biologici. La metafora evoluzionistica si fonda su tre pilastri: il «principio di variazione», secondo il quale occorre che all’interno di una popolazione di agenti, siano essi individui o organizzazioni, sia presente una elevata variabilità. Questa implica la diversità, sia essa conseguenza di un mutamento casuale o intenzionale. Il «principio di ereditarietà» prevede un meccanismo attraverso il quale tali variazioni vengono trasmesse da una generazione all’altra e, infine, il «principio di selezione» che richiede l’esistenza di un criterio attraverso il quale solo le variazioni vantaggiose, in senso generale, vengono selezionate e trasmesse da una generazione all’altra. L’analogia evoluzionistica viene utilizzata in economia sia come «euristica», per suggerire un approccio con il quale affrontare un dato fenomeno, ma anche come «giustificazione», per rafforzare, cioè, conclusioni di modelli
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economici attraverso il trasferimento di dominio di consolidate verità biologiche. Lo schema di spiegazione evoluzionistico opera considerando soggetti semplificati che pongono in essere strategie comportamentali o routine le quali, benché non completamente determinate geneticamente né perfettamente ereditate, vengono generalmente considerate alla stregua di geni o di tratti fenotipici. Proseguendo nell’analogia biologica si assume anche la possibilità della comparsa di soggetti mutanti, vale a dire di strategie nuove rispetto a quelle iniziali, ottenute per sperimentazione, ricombinazione o imitazione. I soggetti interagiscono tra loro in modi strutturati (giochi) attraverso incontri casuali o assortativi, producendo degli esiti diversificati a seconda delle combinazioni di strategie scelte. Se queste determinano un vantaggio relativo per il soggetto che ne è portatore, allora aumenta la probabilità che esse vengano trasmesse e di conseguenza la loro diffusione nella popolazione. Di generazione in generazione quindi, ogni strategia si può diffondere o estinguere. Quando, infine, una sola strategia sarà presente nell’intera popolazione questa avrà raggiunto la «fissazione». L’applicazione nella quale, probabilmente, più stretto è il legame tra ragionamento biologico e ragionamento economico è la teoria dei giochi evolutivi che implementa un concetto di razionalità limitata, considerando giocatori che deliberano e apprendono attraverso un processo di tentativi ed errori. Alcuni problemi metodologici relativi in particolare al rapporto tra evoluzione naturale ed evoluzione culturale tendono a limitare il dominio di applicabilità dell’economia evoluzionistica. V. Pelligra BIBL.: JOHN MAYNARD-SMITH, Evolution and the Theory of Games, Cambridge 1982; R.R. NELSON - S.G. WINTER, An Evolutionary Theory of Economic Change, Cambridge (Massachusetts) 1982; G.M. HODGSON, Economics and Evolution, Cambridge 1993; J. WEIBULL, Evolutionary Game Theory, Cambridge (Massachusetts) 1995; P.H. YOUNG, Individual Strategy and Social Structure, Princeton (New Jersey) 1998; G.M. HODGSON, Evolution and Institutions, Cheltenham 1999; ROBERT SUGDEN, The Evolutionary Turn in Game Theory, in «Journal of Economic Methodology», 8 (2001), pp. 113-130; R.R. NELSON - S.G. WINTER, Evolutionary Theorizing in Economics, in «Journal of Economic Perspective», 16 (2002), pp. 23-46; T.B. BERGSTROM, Evolution of Social Behavior: Individual and
Economia neoclassica Group Selection, in «Journal of Economic Perspective», 16 (2002), pp. 67-88.
ECONOMIA NEOCLASSICA (neoclassical Economia neoclassica economics; neuklassische Wirtschaftslehre; économie néoclassique; economía neoclásica). – Con economia neoclassica si suole intendere oggi quel corpus teorico che nasce intorno al 1870 in seguito alla cosiddetta «rivoluzione marginalista» e in contrapposizione all’economia politica classica, per opera soprattutto dell’inglese W. Stanley Jevons (1835-82), dell’austriaco Carl Menger (1840-1921) e del francese Léon Walras. È importante distinguere il marginalismo come metodo dall’economia neoclassica come dottrina. Nonostante siano nati e si siano sviluppati insieme, non necessariamente l’uno implica l’altra: è possibile (ed esiste) una teoria economica neoclassica non marginalistica, così come il marginalismo come metodo può essere applicato a teorie economiche non neoclassiche. I caratteri fondamentali dell’impostazione teorica neoclassica, che dagli anni settanta dell’Ottocento è divenuta e rimasta dominante nel pensiero economico anche contemporaneo, sono tre: 1) l’idea che l’oggetto dell’economia sia la scarsità, ovvero lo studio di tutte le cose che sono, al tempo stesso, utili e disponibili in quantità limitata e perciò hanno un prezzo; 2) la concezione secondo cui la costruzione della teoria debba necessariamente partire dall’analisi del comportamento individuale dei soggetti, siano essi i consumatori o le imprese, e quindi procedere per successive aggregazioni; 3) la convinzione che l’economia sia una scienza se e in quanto a essa venga applicato il metodo matematico, ritenuto il modello privilegiato di un sapere rigoroso. Di qui discende che l’economia, piuttosto che lo studio di una sfera particolare dell’attività umana, sia lo studio di quell’aspetto generale dell’attività umana consistente nel dovere operare necessariamente delle scelte. Nella celebre definizione di un grande economista neoclassico del Novecento, l’economia è appunto «la scienza che studia il comportamento umano come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi» (L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, London 19843 [1932], p. 16, tr. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, Torino 19532, p. 20). In altri termini, il problema economico viene concepito come il 3205
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Economia politica cristiana problema di rendere massimo un certo risultato condizionatamente a una data disponibilità di mezzi, oppure, in modo equivalente, di rendere minimo il dispendio di mezzi per conseguire un determinato risultato. L’economia neoclassica presuppone che i soggetti siano individualmente in grado di operare un ordinamento «razionale» delle loro preferenze e degli scopi molteplici. Così impostato, al problema economico è quindi assolutamente naturale applicare il calcolo matematico, in quanto esso costituisce lo strumento più adatto e potente per risolvere problemi di questa natura. Nello stesso tempo, l’economia neoclassica individua leggi economiche il cui valore è considerato assoluto come i principi della matematica, ossia leggi non ritenute storicamente o socialmente determinate. L’economia neoclassica si è sviluppata lungo due grandi direzioni: quella dell’equilibrio economico generale walrasiano e quella dell’equilibrio economico parziale marshalliano. Nella prima, prevale la concezione secondo la quale tra le differenti parti e variabili di cui si compone il sistema economico vi sono relazioni di reciproca causalità, che debbono essere tutte e contemporaneamente considerate (di qui anche la necessità e l’opportunità del metodo matematico, data la complessità delle molteplici relazioni di interdipendenza tra tutti i differenti mercati da cui è composta l’economia). Nella direzione dell’equilibrio parziale, si ritiene invece che nell’esame di un determinato problema economico si debbano isolare alcune variabili, considerando le altre esogene e invarianti, e procedere quindi a un’analisi «pezzo per pezzo». F. Ranchetti BIBL.: C. MENGER, Grundsätze der Volkswirtschaftslehre, Wien 1871 (ora vol. I dei Gesammelte Werke, a cura di F.A. Hayek, Tubingen 1968-702, 4 voll.), tr. it. a cura di R. Cubeddu, Principi di economia politica, Soveria Mannelli 2001; C. NAPOLEONI - F. RANCHETTI, Il pensiero economico del Novecento, Torino 19902; G.J. STIGLER, Production and Distribution Theories, New Brunswick (New Jersey) 1994; G. LUNGHINI - F. RANCHETTI, Valore, in AA.VV., Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani, Roma 1998, vol. VIII, pp. 739-750; W.S. JEVONS, The Theory of Political Economy, London 18792 (rist. Basingstoke 2001), tr. it. a cura di L. Amoroso, Teoria della economia politica e altri scritti, Torino 19662. ➨ MARGINALISMO; UTILITÀ.
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ECONOMIA POLITICA CRISTIANA (ChrisEconomia politica cristiana tian political economy). – Termine con cui si designa una corrente di pensiero economico presente nel mondo di lingua inglese fra Settecento e Ottocento che prese il nome dal titolo dell’opera di un discepolo di Sismondi: A. de Villeneuve-Bargemont, Economie politique chrétienne (Paris 1834, 3 voll.). L’opera verteva sulle cause e i rimedi del pauperismo in Francia e in Europa. Villeneuve conosceva gli scritti di Smith, Say e Malthus, ma la sua opera era «cattolica di fede, e cattolica nel suo modo di concepire la scienza» (A. de Villeneuve-Bargemont, Christian Political Economy, in «Dublin Review», 2, 1837, [pp. 166-197], p. 175). Ignorato dagli economisti dell’Ottocento in Francia e Gran Bretagna, influenzò il pensiero di Wilhelm Emmanuel von Ketteler, e per suo tramite Leone XIII e la «dottrina sociale cattolica» della Rerum Novarum (Roma 1891). Il termine è stato riscoperto da Salim Rashid nel 1977 per caratterizzare l’opera degli economisti britannici del Settecento e Ottocento che erano ecclesiastici. È stato ridefinito da Anthony M.C. Waterman nel 1991 per indicare una tradizione intellettuale coerente che inizia intorno al 1798 e si spinge fino al 1840 alla quale diedero importanti contributi Thomas R. Malthus, William Paley, John B. Sumner, Edward Copleston, Richard Whately e Thomas Chalmers e che si proponeva di combinare l’economia politica classica con la teologia cristiana nella teoria sociale normativa. Esclude perciò l’opera di autori che furono ecclesiastici come George Berkeley, Josiah Tucker, Richard Jones e William Whewell, che o precedettero la scuola «classica» o ne restarono fuori. Il pensiero economico del Settecento, che traeva origine nella concezione teologicamente ispirata dell’ordine di mercato di Pierre Le Pesant Sieur de Boisguilbert e culminava con l’opera di A. Smith An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (London 1776, tr. it. a cura di A. Roncaglia, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Roma 1995), era ritenuto compatibile con la fede cristiana in generale e con l’idea di divina provvidenza in particolare. Questo presupposto fu brutalmente scosso da An Essay on the Principle of Population (London 1798, tr. it. a cura di G. Maggioni, Saggio sul principio di popolazione, Torino 1977) di Malthus. Infatti un effetto non intenzionale della polemica di Malthus
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contro William Godwin fu quello di integrare nell’analisi economica quella che divenne poi nota come la legge dei «rendimenti decrescenti». L’«economia politica» divenne la scienza della scarsità, costituendo un nuovo e preoccupante esempio di «problema del male» teologico, il problema di come una divinità onnipotente e benevolente abbia creato un mondo in cui tutti devono vivere nella «miseria» o nel «vizio». Questa «tetra scienza» venne deprecata come blasfema e «ostile alla religione». Malthus nel primo Essay tentò di elaborare una teodicea, ma questa era palesemente insoddisfacente e fu subito emendata da Paley che sfuggì al problema inserendo il principio della popolazione nel suo schema teleologico. La soluzione di Paley fu ampliata da Sumner con grande e duraturo successo e rifinita e integrata da Copleston e dal suo illustre discepolo Whately; fu infine volgarizzata dal teologo scozzese Chalmers. La soluzione nella sua versione finale può essere riassunta nel modo seguente: la povertà e la disuguaglianza sociale sono conseguenze inevitabili della pressione della popolazione su un mondo dotato di risorse limitate. Per via del peccato originale e della redenzione portata dal Cristo, la vita umana sulla terra costituisce uno stato di «disciplina e prova» per l’eternità. Anche se la povertà e la disuguaglianza implicano una certa quantità di autentica sofferenza – che si spiegano con la caduta originale – esse sono soprattutto un deliberato «ritrovato» di un Dio benevolo che deve servire a esercitarci in vista della vita futura. La proprietà privata e il matrimonio sono economicamente necessari, adatti alla natura umana, e conformi alla Scrittura. La proprietà privata combinata con la scarsità prodotta dalla competizione conduce all’economia di mercato. L’efficacia di questa nell’organizzare l’attività umana in vista della massimizzazione della ricchezza è prova della divina sapienza e misericordia nell’usare la debolezza umana per fini socialmente benefici. L’impossibilità di promuovere il progresso sociale attraverso la legislazione è prova sia del «disegno divino» (creazione dell’economia autoregolantesi) sia del bisogno morale e religioso dei cristiani di praticare la carità e la compassione. La vera felicità in questa vita è in larga misura indipendente dalla ricchezza e dalla collocazione sociale. Ma in ogni caso la ricchezza è correlata con il merito morale, a sua
Economia sperimentale volta prodotto dalla fede cristiana. Una educazione cristiana generalizzata è quindi della massima importanza pratica e costituisce una caratteristica essenziale della tradizionale unione fra chiesa e stato. Queste tesi costituirono l’ortodossia politica in Gran Bretagna per quasi un secolo e furono rilanciate negli anni ottanta del Novecento da Margaret Thatcher. A.M.C. Waterman BIBL.: A. DE VILLENEUVE-BARGEMONT, Economie politique chrétienne, ou recherches sur la nature et les causes du paupérisme, en France et en l’Europe, et sur les moyens de la soulager et de le prévenir, Paris 1834, 3 voll.; S. RASHID, Richard Whately and Christian Political Economy at Oxford and Dublin, in «Journal of the History of Ideas», 38 (1977), pp. 147-175; A.M.C. WATERMAN, Revolution, Economics and Religion: Christian Political Economy, 1798-1833, Cambridge 1991.
ECONOMIA SPERIMENTALE (experimenEconomia sperimentale tal economics; experimentelle Wirtschaftsforschung; economie expérimentale; economía experimental). – Disciplina delle scienze sociali dedita allo studio dei fenomeni economici in laboratorio. L’economia sperimentale contemporanea si sviluppa a partire dalla metà del Novecento sotto l’impulso della neonata teoria dei giochi e dopo un periodo di generale scetticismo si impone come uno dei programmi di ricerca più innovativi in economia, come riconosciuto dal premio Nobel del 2002. Gli esperimenti economici (a differenza delle simulazioni con agenti artificiali) studiano il comportamento di esseri umani alle prese con decisioni di tipo economico, in circostanze disegnate dallo sperimentatore per scopi scientifici. L’economia sperimentale è ispirata da una filosofia di tipo empirista, e mira a fornire basi fattuali più solide alla teoria economica, tradizionalmente fondata su modelli idealizzati del comportamento razionale. Essa ha generato una serie impressionante di «anomalie empiriche», ovvero fenomeni che contraddicono le previsioni della teoria economica ortodossa (o neoclassica) (R. Thaler, The Winner’s Curse, Princeton 1993). Ma allo stesso tempo ha anche confermato alcune importanti congetture neoclassiche, e soprattutto ha permesso l’applicazione della teoria a casi concreti – per esempio attraverso la creazione di mercati «intelligenti» (A. Roth, The Economist as Engineer, in «Econometrica», 70, 2002, pp. 1341-1378). 3207
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Economicismo La caratteristica distintiva dell’economia sperimentale è l’uso dell’esperimento controllato, ovvero la variazione sistematica di un fattore causale mantenendo tutte le altre condizioni sperimentali invariate. In questo modo, l’influenza di un singolo fattore «in isolamento» può essere accuratamente osservata, riducendo il rischio di attribuire rilevanza causale a correlazioni statistiche accidentali (problema della validità interna degli esperimenti). L’economia sperimentale promette dunque di aggirare i problemi tradizionalmente associati all’analisi econometrica (statistica) «sul campo», dove i fattori causali sono solitamente molto numerosi e variano in modo disordinato confondendo le inferenze causali. Questo vantaggio dell’esperimento controllato viene tuttavia acquisito a prezzo di un grado maggiore di «artificialità» e dunque di una scarsa realisticità delle microeconomie costruite in laboratorio (problema della validità esterna degli esperimenti). Validità interna ed esterna sono generalmente inversamente correlate. Per aggirare questo problema, gli economisti tendono a seguire un metodo di graduale approssimazione, cominciando a studiare sistemi molto semplici in situazioni altamente controllate, che vengono progressivamente rese più complesse aggiungendo elementi di realisticità rispetto al mondo reale (C. Plott, Laboratory Experimental Testbeds: Application to the PCS Auction, in «Journal of Economics and Management Strategy», 5, 1997, pp. 605-638). Si tratta di un procedimento di «induzione eliminativa», dove le possibili dissimilarità fra sistema di laboratorio ed economia reale vengono sistematicamente controllate fino a quando non vi è ragione di ritenere che esistano differenze rilevanti. Il successo di questo metodo è in gran parte fondato sull’ipotesi che le migliori teorie a disposizione dello scienziato forniscano una lista di fattori causali approssimativamente completa (nel caso nuove teorie portino a identificare nuove possibili discrepanze fra laboratorio e mondo reale, queste potranno essere controllate a loro volta per via sperimentale). F. Guala BIBL.: A. ROTH - J. KAGEL (a cura di), The Handbook of Experimental Economics, Princeton 1995; M. MOTTERLINI - F. GUALA (a cura di), L’economia cognitiva e spe-
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rimentale, Milano 2004; F. GUALA, The Methodology of Experimental Economics, New York 2005. ➨ RAZIONALITÀ STRATEGICA.
ECONOMICISMO (economism; ÖkonomisEconomicismo mus; économicisme; económicismo). – In generale, teoria che assegna un ruolo determinante nella storia umana ai fattori economici. Un antenato del termine economicismo fu coniato da Antonio Labriola che chiamò il marxismo «economismo storico» con connotazione positiva. Il termine equivalente, più diffuso nel lessico marxista-leninista in russo e poi in altre lingue, «materialismo economico» venne usato da parte di chi si opponeva alle sue versioni deterministiche che affermavano una causalità unidirezionale fra «base economica» e «sovrastruttura», intendevano le formazioni sociali come riducibili immediatamente ai modi di produzione, e per lo più predicavano l’inevitabilità del crollo del capitalismo. Queste versioni avrebbero rappresentato «una concezione materialista volgare» che avrebbe affermato che il soggetto della storia non sono gli uomini stessi che la fanno sulla base delle condizioni materiali date, ma invece le stesse «forze» o gli stessi «fattori» economici dei quali l’azione umana sarebbe ridotta a «epifenomeno» (cfr. G. Batusev, Ecoknomiceskij materializm, in F.B. Kostantinov [a cura di], Filosofskaia Entsiklopedija, 5 voll., Moskva 1962, vol. V, pp. 545-546; cfr. I.V. Starikov, Istoriceskij Materializm, in F.B. Kostantinov [a cura di], op. cit., vol. II, pp. 353-368). Il leninismo è stato il tipico avversario dell’economicismo in quanto affermava la possibilità della rivoluzione proletaria anche in un paese dove lo sviluppo delle forze produttive non avesse ancora raggiunto il suo apice grazie alla costruzione di una coscienza di classe nel proletariato per opera di una avanguardia esterna. Nel marxismo italiano fu tipicamente avversario dell’economicismo Antonio Gramsci che accentuò il ruolo della cultura e degli intellettuali come organizzatori delle masse (cfr. Quaderni del carcere, 4 voll., ed. a cura di V. Gerratana, Torino 1975, vol. II, pp. 1386-1394). Tuttavia né il leninismo né il gramscismo affrontarono il problema teorico connesso alle nozioni di formazione economico-sociale e di modo di produzione, ovvero se vi sia modo di ricostruire una causalità pluridirezionale fra fattori tecnologici ed economici e fattori culturali, politici, religiosi in una società storicamente data, e non solo una
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causalità unidirezionale dalla «base economica» alla «sovrastruttura», e si limitarono invece alla vaga affermazione che tale causalità unidirezionale non è deterministica per poi postulare una autonomia della politica o della cultura rispetto all’economia, e infine svolgere analisi dei fattori politici o dei fattori culturali senza più tentare alcuna teoria sociale complessiva. Dai teorici sociali non marxisti o post-marxisti, soprattutto a partire dall’opera di Karl Polanyi, l’accusa di economicismo è stata rivolta allo stesso Marx per avere tendenzialmente privilegiato la spiegazione dei fenomeni sociali a partire dai fenomeni del mercato prescindendo da fattori di organizzazione sociale che precedono e accompagnano il mercato stesso; per via di questa sopravvalutazione del ruolo del mercato, Marx avrebbe sottovalutato l’importanza di dimensioni da lui stesso esplorate come l’«accumulazione originaria» nella quale i rapporti di forza politici e sociali agivano prima della dinamica del mercato e la dialettica delle classi sociali nelle loro manifestazioni storicamente determinate che dipendono da fattori ideologici e associativi che il modello astratto di Marx dichiarava dipendenti dai rapporti di mercato. S. Cremaschi BIBL.: R. JESSOP, Mode of Production, in J. EATWELL - M. MILGATE - P. NEWMAN (a cura di), The New Palgrave, London 1991, vol. II, pp. 489-491; E. MINGIONE, Sociologia della vita economica, Roma 1997. ➨ FORMAZIONE ECONOMICO-SOCIALE.
ECONOMIE PRIMITIVE. – La categoria Economie primitive concettuale di «primitivo», termine inteso originariamente come «selvaggio» o «barbaro», contrapposto a «civilizzato», si sviluppa, a partire dalla seconda metà del XV secolo, man mano gli europei entravano in contatto col mondo non occidentale e cominciavano a descriverlo nei loro resoconti. L’insieme di tali annotazioni poteva già essere trattato come «storia morale» (da mores, costumi) nel corso del Cinquecento, per divenire poi, nell’Ottocento, «etnografia» e, quindi, «antropologia». Entrato stabilmente nel linguaggio professionale, il termine economie primitive si è fatto ingombrante alla fine del Novecento in quanto impreciso, infondato ed eurocentrico, senza che si sia individuato un sostituto. Nell’uso che se ne continua a fare, per «primitive» s’intendono le società studiate sul campo dagli
Economie primitive antropologi, in modo «olistico» (ossia «sostanzialistico»), a fini comparativi e definite, di volta in volta, come non occidentali, senza scrittura, senza moneta unica di mercato, senza stato, non capitalistiche, semplici, naturali, a economia di sussistenza, del faccia a faccia, tribali, di piccole dimensioni, fondate sulla parentela, tecnologicamente a livello del neolitico. L’interesse che riveste lo studio delle loro descrizioni sta nell’affinare un metodo di lettura applicabile universalmente a tutti i sistemi economici e sociali e nel fornire i materiali per individuare le invarianti delle società umane, indipendenti dai luoghi e dai tempi. Per quanto riguarda in particolare i sistemi economici primitivi, vale a dire le attività attraverso le quali, in quelle società, si usano le risorse a disposizione per produrre, distribuire e consumare beni e servizi, è stato messo in evidenza come tali attività siano incorporate (embedded) nel sociale, nel senso che chi le svolge non le considera come «economiche» bensì come parte integrante delle relazioni che s’intrattengono con gli esseri umani e con la natura, terrena e ultraterrena. Le tecnologie impiegate sono molto semplici e con una divisione del lavoro fondata sul sesso, sull’età e qualche volta anche sul rango. Le unità produttive sono prevalentemente costituite dalle famiglie nucleari legate in complessi sistemi di parentela e che svolgono funzioni riproduttive, affettive, educative, politiche, religiose, militari, territoriali. Le economie primitive sono descritte come fortemente stabili e consuetudinarie in quanto vi si impedisce l’accumulazione di ricchezza, personale e comunitaria. Il sovrappiù, infatti, è normativamente investito e dissipato allo scopo di rinsaldare legami interpersonali, parentali e intertribali nel corso di feste, riti, cerimonie (come il potlach) e dell’esercizio dell’ospitalità. Peraltro, l’accumulo di beni oltre un certo limite espone a diffidenza, sospetti e pericolose ostilità. I modi di produzione primitivi sono classificati, tipicamente, in tre grandi famiglie: caccia e raccolta, pastorizia, agricoltura. Mancando una moneta unica di mercato e la possibilità di tenere registrazioni, la distribuzione e lo scambio avvengono sempre sulla base di rapporti personali secondo regole di reciprocità. Tra consanguinei e affini si adotta una reciprocità generalizzata (dono); al di fuori delle alleanze parentali, ove vi sia dimestichezza e fiducia tra le persone, si possono stabilire circuiti di reciprocità bilan3209
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Ecpirosi ciata (alla pari); tra nemici vige invece una reciprocità negativa (inganno, rapina, guerra). Gli scambi si distinguono anche sulla base delle categorie degli oggetti che passano di mano – cibi e strumenti per la sussistenza, beni cerimoniali, beni non necessari – ognuna delle quali alimenta un proprio circuito, senza possibilità che vi sia commistione tra l’uno e l’altro. Per questo le economie primitive sono definite come multicentriche per distinguerle da quelle che fanno perno su di una moneta unica che ha potere su qualunque bene e servizio. Mentre le società primitive sono definite invece come monocentriche, essendo imperniate intorno al sistema della parentela, a differenza di quelle occidentali che sono caratterizzate da pluralismo istituzionale, sociale e culturale. M. Bianchini BIBL.: E.S. MILLER - C.A. WEITZ, Introduction to Anthropology (1931), Englewood Cliffs (New Jersey) 1979; K. POLANYI, Primitive, Archaic and Modern Economies, Garden City (New York) 1968, tr. it. di N. Negro, Economie primitive, arcaiche e moderne, Torino 1980; M. SAHLINS, Stone Age Economics, London 1972, tr. it. di L. Trevisan, L’economia dell’età della pietra, Milano 1980; M. GODELIER, Primitivo, in Enciclopedia Einaudi, 16 voll., Torino 1977-84, vol. X, pp. 1130-1145.
ECPIROSI (gr. ejkpuvrosi", «conflagrazione»). Ecpirosi – Secondo gli stoici, il mondo, dopo aver percorso il suo ciclo, si dissolverà alla fine nell’ecpirosi, cioè nella conflagrazione generale. La conflagrazione non è una distruzione dell’universo, ma una sua nuova rigenerazione, perché in essa il mondo si dilata nel vuoto illimitato che lo circonda e tutte le cose si trasformano in fuoco, o in luce come sostiene Crisippo. Il mondo giunge alla sua perfezione, perché ritorna al fuoco da cui si era originato alla fine del grande anno, quando tutti i pianeti occupano la medesima posizione che occupavano al principio. «Nel corso dei periodi fatali il mondo intero va in fiamma, e quindi comincia una nuova costituzione cosmica» (in Eusebio, Praeparatio evangelica, XV, 816 d; cfr, anche: Taziano, Adversus Graecos, 5; Plutarco, De stoicorum repugnantiis, 41; De communibus notitiis adversus Stoicos, 36). La teoria dell’ ecpirosi, già presente nel pensiero iranico e babilonese (cfr. Seneca, Naturales quaestiones, III, 29) e formulata esplicitamente da Eraclito (cfr. Ippolito, Refutatio, IX, 10; v. G.S. Kirk, Ecpyrosis in Heraclitus. 3210
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Some Comments, in «Phronesis», 1959, pp. 7379) si connette così con la concezione presocratica del tempo ciclico e con quella, conseguente, della palingenesi di tutta la realtà. Anche nel pensiero cristiano la dottrina della fine del mondo è connessa al fuoco come elemento distruttore (2 Pt 3,12; 1 Cor 3,15); ma non è possibile dimostrare che essa abbia il suo genuino antecedente nell’ecpirosi stoica, e nemmeno in una dottrina consimile che si presume esistesse anche presso gli ebrei (cfr. Oracula Sybillina, II, 253-255; IV, 172). L’ecpirosi, nel concetto cristiano, non ha un mero carattere naturalistico, come nello stoicismo, ma una funzione etico-escatologica: il fuoco è insieme prova e purificazione. Con questo significato la ritroviamo negli apologisti cristiani (Taziano, Adversus Graecos, 6; Giustino, Apologia, I, 20; II, 7) e nella patristica (Origene, Commento alla Genesi, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Graecae, 161 voll. in 167 tomi, Paris 1857-66, vol. XII, col. 105). G. Faggin - A.M. Ioppolo ➨ FUOCO; PALINGENESI; STOICISMO.
ECUMENISMO. – SOMMARIO: I. Chiesa unita Ecumenismo e divisa. - II. Il movimento ecumenico. - III. Significato e prospettive. I. CHIESA UNITA E DIVISA. – Fin dall’inizio la storia cristiana è stata una storia di unità e divisione insieme. Forti tensioni e divergenze sul piano teologico ed ecclesiologico esistevano già nel cristianesimo apostolico (identificato approssimativamente con quello del I secolo), tanto che studiosi autorevoli come Ernst Käsemann si sono chiesti se il canone neotestamentario fosse realmente in grado di fondare l’unità della chiesa. Nel II secolo sorsero nel cristianesimo correnti critiche e aree di dissenso che, in generale, furono sommariamente classificate come «eretiche», non sempre a ragione. Il Credo detto «ecumenico», fissato dai concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381) e perciò conosciuto come «niceno-costantinopolitano», proclama la fede cristiana nella unicità e unità della chiesa («Crediamo [...] nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica»), ma già allora il corpo ecclesiale era stato e continuava a essere attraversato da seri conflitti dottrinali: si pensi, per limitarci a due soli esempi, allo scontro nel IV secolo tra Donato, intransigente in tema di prassi penitenziale, e il più conciliante Ceciliano, sostenuto da Roma, e al con-
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seguente «scisma donatista» in Africa del Nord; oppure al più vasto, duro confronto tra arianesimo e ortodossia trinitaria che si protrasse per molto tempo. Questi conflitti sfociarono in vere e proprie divisioni durature nei secoli, oppure in scismi che con ogni probabilità sarebbero anch’essi stati permanenti, se non fosse intervenuto il potere politico a «risolverli» reprimendoli con la forza della legge, e qualche volta persino con quella delle armi. L’appoggio dell’imperatore Teodosio svolse un ruolo non secondario nella vittoria dell’ortodossia trinitaria. Nel V secolo, in relazione alle dispute sulla natura divina e umana di Cristo e al loro rapporto nell’unica persona di Gesù di Nazareth, sorse uno scisma tra le cinque chiese ortodosse orientali (o «antiche orientali», o anche «precalcedonensi», o anche «nestoriane», o «monofisite») e le altre chiese cristiane, tuttora non superato anche se il dialogo per porvi fine è a buon punto. Nell’XI secolo ha avuto luogo la divisione tra la chiesa d’Oriente e la chiesa d’Occidente, che tuttora permane, malgrado i tentativi di riconciliazione dei concili di Lione (1274) e di Ferrara-Firenze (1438-39). Nel XVI secolo è stata la cristianità occidentale a dividersi in protestantesimo (a sua volta articolato in alcune confessioni e numerose denominazioni) e cattolicesimo romano, mentre in Inghilterra nasceva la chiesa anglicana, vicina al protestantesimo sul piano teologico, pur conservando l’assetto istituzionale e le forme liturgiche e devozionali vicine al cattolicesimo. Infine, nel XIX secolo, all’indomani della proclamazione del dogma del primato e dell’infallibilità del pontefice romano al concilio Vaticano I (1870), una parte dell’episcopato cattolico, contraria a quel dogma, s’è separata da Roma dando vita alla chiesa vecchio-cattolica. Tutte queste divisioni sussistono ancora, anche se nessuna riguarda il nucleo centrale della fede cristiana costituito dalla fede nel Dio trinitario e nella vera divinità e vera umanità di Gesù Cristo. Questa fede condivisa da tutte le chiese, non basta a tenerle unite. Tutte le chiese credono che la chiesa è una e sono effettivamente unite nella confessione centrale della fede cristiana, riguardo a Dio e a Cristo. Sono però divise per ragioni dottrinali (su varie questioni relative alla chiesa) e per una serie di fattori non teologici di varia natura, che condizionano non poco la vita delle chiese e i loro rapporti. È per superare la contraddizione di una chiesa al
Ecumenismo tempo stesso unita e divisa che è sorto il movimento ecumenico. II. IL MOVIMENTO ECUMENICO. – L’esigenza di manifestare nel «vissuto» delle chiese quell’unità che esse credono e confessano nelle loro dichiarazioni di fede è stata avvertita in ogni tempo, ma in maniera più viva a partire dal secondo millennio della storia cristiana. Un ecumenismo di largo respiro tra rappresentanti di fedi diverse animava, già del XII secolo il Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, scritto da Abelardo intorno al 1140. Uno spirito analogo ispirò nel 1453 il De pace fidei di Niccolò Cusano: in base alla sua comprensione di Dio come complexio e coincidentia oppositorum, Cusano considera le differenze e divergenze che si manifestano nell’umanità in tutti i campi, compreso quello religioso, come provvisorie, non definitive e non fondamentali. Tutte le religioni non sono altro che quaedam loquutiones verbi Dei sive rationis aeternae: in tutte c’è qualcosa di vero, ma nessuna da sola esprime l’intera verità divina, anche se il cristianesimo le si avvicina di più. La pace tra le religioni, e tanto più tra le confessioni cristiane, scaturisce dall’unità di fondo dell’esperienza religiosa, anche se espressa in modi molti diversi: una religio in rituum varietate. Cusano lavorò assiduamente (ma invano) per ricondurre gli hussiti all’unità della chiesa latina e per la riconciliazione tra Oriente e Occidente cristiano. Dopo la Riforma del XVI secolo possiamo ricordare il luterano Georg Calixt (1586-1656), che propose di distinguere tra gli articuli fundamentales, cioè gli articoli di fede necessari alla salvezza che i cristiani di tutte le chiese devono condividere, e le peculiarità dottrinali, liturgiche e devozionali delle singole confessioni, che non riguardano i fondamenti della fede cristiana e possono essere diverse senza compromettere l’unità della fede. Calixt ravvisava nel consensus quinquesaecularis (i dogmi dei primi cinque secoli della storia cristiana) la base teologica necessaria e sufficiente, se condivisa, per fondare l’unità cristiana. La sua proposta fu fieramente avversata dai luterani ortodossi, che lo accusarono di sincretismo e criptocattolicesimo. Altra personalità luterana da menzionare è Gottfried W. Leibniz (16461716) che, ispirandosi all’opera e al pensiero dell’arminiano Ugo Grozio, coltivò per tutta la vita il sogno di una grande chiesa universale unificata. Dal 1691 fu in corrispondenza con Jacques Bénigne Bossuet, vescovo di Meaux, e 3211
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Ecumenismo propose una piattaforma teologica per la futura chiesa unita che si collegava con l’antica tradizione cristiana, mettendo tra parentesi le definizioni tridentine, considerate troppo confessionali per essere ricuperabili ai fini di un progetto ecumenico. Bossuet rifiutò di discutere una simile ipotesi e la trattativa fu interrotta. Anche in campo cattolico vi furono uomini animati da propositi ecumenici, come, tra gli altri, il generale dell’ordine francescano Cristoforo Spinola, che redasse un testo intitolato Regole di guida alla riunione di tutte le Chiese cristiane, destinato a un’assemblea che avrebbe dovuto preparare la riunificazione delle chiese. Molti altri nomi potrebbero essere fatti, ma è soprattutto nell’Ottocento che fiorirono iniziative ecumeniche collettive che prepararono il terreno al sorgere del movimento ecumenico propriamente detto. Qui va menzionata l’Alleanza Evangelica, primo cospicuo esempio di ecumenismo intraprotestante, creata a Londra nel 1846. Due anni prima, sempre a Londra, era nata l’Associazione Cristiana dei Giovani ( YMCA), seguita nel 1895 dal ramo femminile (YWCA). I due movimenti si diffusero rapidamente a livello mondiale, con un progetto missionario tra i giovani secolarizzati di allora, attuato non più in nome di una chiesa particolare, ma della comune appartenenza cristiana. Un altro importante organismo, che fornì non pochi leaders al movimento ecumenico del Novecento, fu la Federazione mondiale degli Studenti cristiani (WSCF), creata a Vadstena (Svezia) nel 1895. Infine sorsero vari organismi confessionali mondiali nei quali per la prima volta nella loro storia si incontrarono e cominciarono a conoscersi da vicino chiese che, pur appartenendo alla stessa confessione o denominazione, erano tra loro abbastanza diverse per i diversi contesti storici e culturali in cui si erano impiantate e sviluppate. Questi organismi furono le prime palestre in cui le chiese fecero l’esperienza ecumenica fondamentale dell’unità nella diversità. Così, tutte le chiese anglicane cominciarono, a partire dal 1867, a incontrarsi con scadenza regolare nelle «Conferenze di Lambeth», quelle riformate in una «Alleanza» creata nel 1875, quelle metodiste in un «Consiglio» nato nel 1881, quelle battiste in una «Alleanza» del 1905, quelle luterane in una «Federazione» del 1929, e così via. 3212
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La nascita del movimento ecumenico organizzato si fa comunemente risalire alla conferenza missionaria mondiale di Edimburgo del 1910, dove si prese coscienza del fatto che la missione cristiana nel mondo sarebbe stata molto più efficace e credibile se fosse stata unitaria. L’ecumenismo come decisione corale fu dunque presa non in seno alle «chiese stabilite», comodamente insediate nella divisione, ma in seno alle società missionarie che registravano ogni giorno, nel loro lavoro, il danno che la divisione delle chiese recava al progresso del cristianesimo nel mondo. Conseguentemente, la finalità primaria e originaria dell’ecumenismo era (e resta) di favorire la missione che lo ha generato. Il movimento si sviluppò nei primi decenni della sua storia lungo due linee distinte, che corrispondono a due diverse visioni dell’unità della chiesa e del modo per raggiungerla: la prima linea, promossa dalla corrente «Fede e Costituzione» (Faith & Order), è quella dell’unità nella fede ottenuta attraverso il dialogo teologico; la seconda linea, promossa dalla corrente «Vita e Azione» (Life & Work), puntava sull’unità cristiana raggiunta attraverso il lavoro comune, secondo il motto «la dottrina divide, l’azione unisce»: è questa corrente che organizzò la prima grande assemblea ecumenica mondiale, a Stoccolma nel 1925. Queste due tendenze, pur vivendo esistenze parallele, erano (e sono) in realtà complementari. Non stupisce quindi che insieme abbiano dato vita al principale organismo ecumenico oggi esistente: Il Consiglio Mondiale delle Chiese, creato ad Amsterdam nel 1948, del quale fanno parte la grande maggioranza delle chiese protestanti e ortodosse (oggi oltre 300; quando fu fondato erano 147; tra le grandi chiese cristiane manca solo la chiesa cattolica romana). La base teologica del Consiglio, che bisogna sottoscrivere per farne parte, è la seguente: «Il Consiglio ecumenico delle chiese è un’associazione fraterna (fellowship) di chiese che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture, e perciò cercano di adempiere insieme la loro comune vocazione alla gloria dell’unico Dio Padre, Figlio e Spirito Santo». Dal 1948 a oggi il Consiglio ha tenuto nove assemblee mondiali: l’ultima s’è svolta a Porto Alegre, Brasile, nella primavera del 2006. Con il concilio Vaticano II (1962-65) anche la chiesa cattolica romana, che fino allora aveva espresso un giudizio negativo sul movimento
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ecumenico vietando ai cattolici di parteciparvi (enciclica Mortalium animos di Pio XI, del 1928), ha sensibilmente modificato la sua posizione decidendo di partecipare attivamente al movimento, senza peraltro entrare a far parte del Consiglio Mondiale delle chiese. Il documento conciliare Unitatis redintegratio (1964) è il «manifesto» del nuovo ecumenismo cattolico e contiene affermazioni che dischiudono nuovi orizzonti nei rapporti tra la chiesa cattolica e le altre chiese, come quella secondo la quale le chiese ortodosse e protestanti «non sono affatto prive di significato e di peso nel mistero della salvezza» (n. 3). Al tempo stesso viene ribadita la centralità della chiesa di Roma, titolare, secondo il Vaticano II, della «pienezza» dei mezzi di grazia e della verità cristiana. Comunque, con la «conversione ecumenica» del cattolicesimo romano, una pagina nuova s’è aperta nella sua storia. Un punto fermo in questa direzione resta un memorabile documento del Gruppo Misto (Ginevra-Roma) dedicato al tema Verso una professione di fede comune (1980). Esso insiste su un particolare a priori di metodo, che possiamo considerare essenziale per il cammino intrapreso: «Le chiese al cui interno il contenuto della fede si esprime in una formulazione più ampia non devono ritenere a priori che le altre chiese, meno esplicite nelle loro tradizioni dottrinali, tradiscano volontariamente o in base a qualche calcolo perverso l’integralità dell'eredità cristiana. Devono invece fare affidamento sull'implicito e sul vissuto che esso permette. A loro volta, evidentemente, le chiese più sobrie a livello di enunciati dottrinali e di vita sacramentale, devono guardarsi dal pensare a priori che le altre chiese, più ricche di formule di fede e di riti, inquinino la purezza della fede con aggiunte superflue o parassitarie. Non devono negare ma lasciare aperta la questione» (n. 924). Il testo citato ha grande importanza: prima di tutto perché elaborato da un gruppo di elevata ufficiosità, nel quale sì esprime anche la voce teologica cattolica; e poi perché non si riferisce a punti secondari di diversità tra le chiese bensì proprio al settore delicato della dottrina della fede e della liturgia. III. SIGNIFICATO E PROSPETTIVE. – Le grandi religioni del mondo sono tutte, come quella cristiana, divise al loro interno, anche profondamente, ma in nessuna di esse esiste qualcosa di analogo a quello che è il movimento ecumenico nel cristianesimo, che quindi è per ora un
Ecumenismo unicum nel panorama religioso dell’umanità. Qual è il suo significato? Se ne possono sommariamente indicare tre. [a] Il primo, e forse il principale, è che l’ecumenismo è un movimento di pace tra le chiese. Con l’inizio del movimento ecumenico s’è virtualmente chiusa la lunga stagione della polemica, cioè della guerra, nelle varie forme che essa ha assunto: guerra vera e propria (crociate interne contro gli «eretici», oltre a quelle esterne contro gli «infedeli»; scontri armati tra truppe confessionalmente caratterizzate), oppure guerra legale (leggi discriminatorie e repressive per soffocare il dissenso e le minoranze religiose), o ancora guerra verbale (discorsi con i quali il cristiano «diverso» veniva screditato, denigrato, diffamato, così da suscitare nell’opinione pubblica sentimenti negativi, di ripulsa e avversione nei suoi confronti). Ecumenismo vuol dire in primis fine della guerra e inizio della pace, fine dello scontro e inizio dell’incontro, fine del monologo e inizio del dialogo. Questo comporta una bonifica degli animi, un cambiamento di mentalità e una vera conversione dei cuori. L’altro (cristiano) non è più il nemico da combattere e possibilmente eliminare, ma il portatore di un’altra esperienza di fede all’interno del cristianesimo, il testimone di un altro modo di intendere e vivere l’unica verità cristiana che trascende tutte le chiese e che nessuna chiesa particolare possiede in esclusiva. Ecumenismo vuol dire pluralità riconciliata di tradizioni, confessioni, istituzioni, liturgie e teologie, accettate e riconosciute come altrettante forme legittime nelle quali vive e si esprime l’unica chiesa di Cristo, che è una e plurale e la cui unità è un’unità di diversi. Ecumenismo vuol dire coesistenza pacifica nel senso alto del termine, nel senso cioè che le chiese non si accontentano più di esistenze isolate e parallele, anche se non più conflittuali, ma decidono di vivere e operare insieme, condividendo la loro vocazione e intrecciando le loro esistenze. E questo non riducendo artificiosamente lo spazio del consenso a un minimo denominatore comune, ma al contrario riconoscendo, attraverso dialoghi pazienti e prolungati che le grandi contrapposizioni dottrinale tradizionali, ad esempio tra cattolicesimo e protestantesimo, su temi centrali come Scrittura e tradizione, fede e opere, Parola e sacramento, grazia divina e iniziativa umana, e così via, non devono necessariamente essere viste e vissute nei ter3213
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Ecumenismo mini di una serie di aut-aut esclusivi e inconciliabili, ma possono essere spiegate in termini diversi di correlazione e complementarietà, pur salvaguardando il primato della Scrittura sulla tradizione, della grazia divina sull’iniziativa umana, e così via. Il teologo luterano Oscar Cullmann parlava di una «carisma cattolico», di un «carisma protestante», di un «carisma ortodosso» che potrebbero e dovrebbero essere individuati e riconosciuti come necessari alla pienezza dell’unità cristiana. Tutto questo, comunque, presuppone l’esistenza tra le chiese di rapporti di pace, stima, fiducia e apprezzamento reciproco. Le religioni, ed anche le chiese, sono state sovente all’origine di conflitti di varia natura, oppure hanno contribuito ad aggravarli. L’ecumenismo è l’antidoto a questa storia lunga e infausta, e rappresenta, per il cristianesimo, l’inizio di un’epoca nuova. [b] Un secondo significato di rilievo del movimento ecumenico è il collegamento, istituito si può dire fin dall’inizio, tra la ricerca dell’unità della chiesa e quella dell’unità dell’umanità. I due ambiti, benché nettamente distinti, non possono essere separati, sia perché sovente le divisioni presenti nell’umanità si manifestano anche nelle chiese, sia perché l’unità della chiesa non è fine a se stessa, ma intende porsi al servizio dell’unità della famiglia umana. L’orizzonte del movimento ecumenico non è soltanto ecclesiale. Uno dei programmi ecumenici recenti di maggiore rilievo è quello intitolato «Pace – Giustizia – Salvaguardia del creato»: si tratta di obiettivi che riguardano la sopravvivenza e la convivenza pacifica dell’umanità. La chiesa è, secondo il suo statuto, una comunità di uomini e donne nella quale cadono le barriere che dividono l’umanità: nella chiesa «non c’è né giudeo né greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina» (Gal 3,28). Oltre alle differenze culturali, sociali e sessuali, anche quelle economiche tendono a essere livellate: la comunità cristiana si sforza di praticare l’antico principio biblico secondo cui «chi aveva raccolto molto non ne ebbe di troppo, e chi aveva raccolto poco, non ne ebbe mancanza» – s’intende rispetto ai propri bisogni – cercando così di attuare, per quanto possibile, il «principio di uguaglianza» (2 Cor 8,13-15). Le differenze presenti nell’umanità non vengono annullate, ma vengono ridimensionate, così da non dividere più le persone tra loro e non impedire la loro comunione e, con essa, l’unità cristiana. 3214
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Anche se questa esperienza di unità è di carattere religioso e spirituale e non può essere immediatamente tradotta in termini politici, sociali ed economici, pure è altamente significativa e promettente: l’unità del genere umano, cioè la convivenza pacifica e feconda di culture, religioni, tradizioni, classi, popoli e nazioni diverse, è possibile. La chiesa è uno spaccato di umanità riconciliata, che proprio per questo «osa parlare di se stessa come di un segno della futura unità del genere umano» (Assemblea ecumenica mondiale di Uppsala, 1968). Ma per poter essere davvero questo «segno», le chiese devono superare le loro divisioni. Il movimento ecumenico ha dunque un duplice obbiettivo: promuovere l’unità cristiana in vista di un progetto più grande e più inclusivo ancora, cioè l’unità del genere umano. [c] Questo discorso introduce, perché in nuce già lo contiene, quello che collega ecumenismo e «coscienza planetaria» (come la chiamava Ernesto Balducci): in questo nesso c’è il terzo significato rilevante del movimento ecumenico. Fin dall’inizio della sua storia la chiesa si è concepita e presentata come «cattolica», cioè universale, sia perché l’Evangelo che l’ha generata e che essa annuncia è destinato a «ogni creatura» (Mc 16,15), sia perché nella chiesa l’antica divisione tra ebrei e pagani è stata superata, dato che Cristo «dei due popoli ne ha fatto uno solo» (Ef 2,14). Nel corso dei secoli, a motivo delle divisioni che si sono susseguite, la coscienza dell’universalità si è molto affievolita, pur senza essere mai dimenticata. Oggi il movimento ecumenico la sta ricuperando e ricollocando al centro dell’esperienza cristiana, ma in una nuova accezione: la vera e piena universalità cristiana, quella che corrisponde all’universalità di Dio e dovrebbe rifletterla, è quella che saprà spogliarsi delle sue determinazioni confessionali e religiose, per inverarsi in una universalità più inclusiva, quella di una comunità umana finalmente affratellata. Nella Gerusalemme celeste descritta dall’Apocalisse «non ci sarà più Tempio» (21,22). Questo vuol dire che tutte le identità religiose e laiche, compresa quella cristiana, che via via si sono succedute nei secoli e intorno alle quali l’umanità s’è organizzata dando luogo anche a innumerevoli conflitti, sono provvisorie e penultime. Non si tratta, ora, di rinnegarle, ma occorre trascenderle per ritrovarle in una identità umana nuova e condivisa a livello planetario. Si tratta di ripartire da una
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domanda radicale che coinvolge non solo la riflessione teologica, ma prima ancora quella antropologica e filosofica: «Che cosa è universalmente umano?». E questo corrisponde perfettamente anche a quello che è il cuore vivo della fede cristiana: «La Parola è stata fatta carne» (Gv 1,14), cioè umanità, nel senso più ampio ed inclusivo, cioè planetario, del termine. Ma quali sono, oggi, le prospettive del movimento ecumenico? I segnali sono contrastanti. Da un lato il movimento ecumenico ha conosciuto un indubbio, vasto successo, diffondendosi in quasi tutte le chiese e coinvolgendo innumerevoli cristiani a tutti i livelli: semplici credenti, pastori, teologi. D’altro lato i rapporti istituzionali tra le chiese non registrano progressi significativi. Si dialoga da decenni a tutto campo, raggiungendo in qualche caso accordi che non è retorico definire «storici», come il «consenso differenziato» del 1999 tra cattolici e luterani sulla dottrina della giustificazione per grazia mediante la fede, oggetto per secoli di aspre controversie, o come la Charta Oecumenica sottoscritta nel 2000 a Strasburgo da tutte le maggiori chiese cristiane d’Europa – in assoluto il primo documento del genere nella storia cristiana. Ma malgrado questi e altri importanti traguardi raggiunti, la piena comunione tra i cristiani resta lontana. In anni recenti si è anzi notato un irrigidimento identitario da parte di chiese e confessioni che pure dichiarano irrevocabile la loro adesione al movimento ecumenico. Le chiese non sono più come prima e non sono più divise come prima, e in questo senso l’ecumenismo ha vinto la sua battaglia; ma non sono ancora unite né si vede, al momento attuale, come possano diventarlo, e in questo senso il movimento ecumenico vive una fase di stallo. I cristiani delle diverse chiese continuano a non poter celebrare insieme la Cena del Signore, supremo segno e vincolo della loro unità. Eppure una serie di fattori interni (molti cristiani «di base» sentono di più ciò che li unisce ai cristiani di altre chiese, che ciò che da essi li divide) ed esterni (la secolarizzazione, i nuovi paganesimi, l’espansione missionaria di altre religioni mondiali) rendono l’ecumenismo non solo una via obbligata per il cristianesimo presente e futuro, ma anche, e più ancora, un debito che le chiese non hanno ancora saldato nei confronti dell’umanità che, divisa com’è,
Eddington ha il diritto di ricevere da loro un segnale chiaro che, fra gli umani, l’unità è possibile. P. Ricca BIBL.: A History of the Ecumenical Movement, I: 15171948, a cura di R. ROUSE - S.CH. NEILL, 1954, tr. it. di A. Prandi in tre volumi: Storia del movimento ecumenico 1 e 2, Bologna 1973; 3, Bologna, 1982); II: 19481968, a cura di H.C. FEY, 1970, tr. it. di A. Prandi, Bologna 1982; III: 1968-2000, a cura di J. BRIGGS - M.A. ODUYOYE - G. TETSIS, World Council of Churches, Geneva 2004; W.A. VISSER’T HOOFT, Memoirs, London 1973, Genève 19872; H. FRIES - K. RAHNER, Unione delle Chiese possibilità reale, («Quaestiones disputatae»), n. 100, Brescia 1986; Enchiridion Oecumenicum, I-VI, a cura di S.J. VOICU - G. CERETI - J.F. PUGLISI - S. ROSSO - E. TURCO, Bologna 1986-2005; J. VERCRUYSSE, Introduzione alla teologia ecumenica («Introduzione alle discipline teologiche», n. 11), Casale Monferrato 1992; Dizionario del movimento ecumenico, tr. it. a cura di G. CERETI - A. FILIPPI - L. SARTORI, Bologna 1994 (ediz. orig. Genève 1991); The Ecumenical Movement. An Anthology of Key Texts and Voices, a cura di M. KINNAMON - B.E. COPE, Genève-Michigan 1997; Il consenso cattolico-luterano sulla dottrina della giustificazione, a cura di F. FERRARIO - P. RICCA, Torino 1999; P. NEUNER, Teologia ecumenica («Biblioteca di teologia contemporanea», n. 110), Brescia 2000. Charta Oecumenica, a cura di S. NUMICO - V. IONITA, Torino 2003.
EDDINGTON, ARTHUR STANLEY. – AstronoEddington mo, fisico ed epistemologo inglese, n. a Kendal il 28 dic. 1882, m. a Cambridge il 22 nov. 1944. Studiò fisica a Manchester e matematica a Cambridge. Assistente capo (1906) dell’osservatorio di Greenwich, divenne (1913) Plumian Professor di astronomia e filosofia sperimentale a Cambridge. Eddington si occupò di astronomia stellare (importanti i suoi risultati nell’analisi della costituzione e della temperatura dell’interno delle stelle fisse, cfr. Stellar Movement and the Structure of the Universe (London 1914); The Internal Constitution of the Stars (Cambridge 1926); Stars and Atoms (Oxford 1927, tr. it. Milano 1933); The Rotation of the Galaxy (Oxford 1930); di cosmologia generale (The Expanding Universe, Cambridge 1933, tr. it. Bologna 1934); di teoria della relatività (Report on the Relativity Theory of Gravitation, London 1918; Space, Time and Gravitation. An Outline of the General Relativity Theory, Cambridge 1920, tr. it. con appendice di T. Regge, Torino 1971; The Theory of Relativity and Its Influence on Scientific Thought, London 1922; 3215
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Edelman The Mathematical Theory of Relativity, Cambridge 1923) e di meccanica quantistica (Relativity Theory of Protons and Electrons, Cambridge 1936; The Combination of Relatvity Theory and Quantum Theory, Dublin 1943; Fundamental Theory, Cambridge 1946): in occasione dell’eclissi di sole del 1919, partecipò all’esperimento decisivo per la valutazione della deviazione della luce in un campo gravitazionale. Sulla base di questi studi Eddington formulò una dottrina gnoseologica e filosofica di carattere idealistico, descritta in The Nature of Physical World, Cambridge 1928 (tr. it. Bari 1935); Science and the Unseen World, London 1929 (tr. it. Verona 1948) e The Philosophy of Physical Science, Cambridge 1939 (tr. it. Bari 1941). La fisica moderna è per lui scienza della struttura e non della sostanza (che invece è solo un’incognita postulata al di là delle impalcature simboliche con cui la mente determina le invarianze del mondo fisico). Eddington sostiene allora un «soggettivismo selettivo», per cui «la mente ha inquadrato i fenomeni della natura in un sistema di leggi di un modello in gran parte scelto da lei stessa; e nello scoprire questo sistema di leggi si può considerare che la mente abbia ricuperato dalla natura ciò che nella natura aveva messo» (La natura del mondo fisico, p. 276). Il concetto di attività selettrice, contrapposto a quello di astrazione, conduce a parlare di «creazione», anziché di «scoperta» scientifica, e il tessuto del mondo è dunque di natura mentale, benché solo isole limitate di essa posseggano la coscienza. F. Barone BIBL.: L.P. PACKS, Sir A. Eddington: Man of Science and Mystic, London - New York 1949; N.B. SLATER, The Development and Meaning of Eddington’s «Fundamental Theory», Including a Compilation from Eddington’s Unpublished Manuscripts, Cambridge New York 1957; J. MERLEAU-PONTY, Philosophie et théorie physique chez Eddington, Paris 1965; C.W. KILMISTER, Sir A. Eddington, Oxford 1966; S. CHANDRASEKHAR, Eddington: The Most Distinguished Astrophysicist of His Time, Cambridge 1983; V. DE SABBATA T.M. KARADE (a cura di), Proceedings of the Sir A. Eddington Centenary Symposium, Singapore 1984; C.W. KILMISTER, Eddington’s Search for a Fundamental Theory, Cambridge 1994; D.S. EVANS, The Eddington Enigma: a Personal Memoir, Princeton 1998.
EDELMAN, GERALD MAURICE. – Biologo staEdelman tunitense n. a New York nel 1929. Professore al Rockefeller Institute di New York dal 1966 al 3216
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1998, direttore del dipartimento di Neurobiologia allo Scripps Research Institute a La Jolla, ha lavorato sulla memoria immunitaria e sulle proteine che nel corso dello sviluppo danno forma al sistema nervoso attraverso una serie di meccanismi epigenetici. Queste sue ricerche, legate sia ai processi di sviluppo nervosi, sia ai meccanismi attraverso cui gli agenti infettivi selezionano e innescano gli anticorpi che sono al centro delle reazioni immunitarie, hanno suggerito a Edelman – premio Nobel nel 1972 insieme a Rodney Porter – il concetto di «darwinismo neuronale». Questa teoria, che si oppone a ogni ipotesi di rigido determinismo del sistema nervoso, si ispira alle teorie di Darwin. Secondo la teoria darwiniana, una particolare popolazione di animali o vegetali può essere selezionata dall’ambiente (il clima, la disponibilità di cibo, gli agenti infettivi) perché gli individui che la compongono sono più o meno resistenti rispetto a quelli che formano altre popolazioni; avviene così che alcuni individui, o popolazioni, sopravvivano e altri soccombano. Anche i neuroni, indica Edelman, possono essere considerati come individui che appartengono a popolazioni diverse le une dalle altre per le loro peculiari caratteristiche: un particolare stimolo che fa ingresso nel nostro cervello (visivo, acustico ecc.) può quindi selezionare un gruppo di neuroni più adatti a riconoscerlo, a resistergli o ad accettarlo. In base alla teoria del darwinismo neuronale, i messaggi che sin dalla nascita agiscono sul nostro sistema nervoso verrebbero decodificati da gruppi di neuroni più «adatti», che da quel momento si assocerebbero tra di loro in una rete nervosa in grado di trattenere la memoria di quello stimolo-evento e di riconoscerlo in futuro. Un evento si trasformerebbe quindi in memoria in quanto agirebbe su una particolare popolazione di neuroni che verrebbero selezionati da quell’esperienza, cioè dall’ambiente, nell’ambito della quasi infinita popolazione di neuroni disponibili; ma poiché ogni memoria è sfaccettata e ha aspetti diversi, ogni suo singolo aspetto verrebbe codificato a più livelli da diversi gruppi o popolazioni di neuroni, in grado di interagire tra di loro per ricostruire, in seguito, l’esperienza nel suo insieme. Lo stesso meccanismo consentirebbe anche di codificare in una stessa popolazione di neuroni aspetti simili di realtà diverse; tramite questo processo di generalizzazione, me-
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morie diverse condividerebbero degli elementi comuni che talora potrebbero sovrapporsi generando incertezze, confusione, oblio. L’originalità della teoria di Edelman sta nell’indicare come l’ambiente, cioè le esperienze, siano in grado di contribuire alla «costruzione» del cervello e come ogni cervello sia diverso da un altro: siamo geneticamente diversi ed esperienze diverse, o anche la stessa esperienza, sono in grado di costruire dei circuiti nervosi diversi da individuo a individuo. Se si guarda in quest’ottica alle diverse funzioni del cervello e alle diverse attività mentali, si può giungere a una concezione meno meccanicistica della mente, cioè una concezione in cui i fattori genetici e quelli legati all’esperienza si fondono tra di loro e in cui la mente non risponde a un «istruzionismo» ma a criteri fortemente plastici. In sostanza, le teorie di Edelman tentano di elaborare un modello del mentale nell’ambito di un sistema concettuale unitario che spieghi il funzionamento del cervello e colmi la lacuna tra scienze naturali e scienze umane, rigettando sia il dualismo interazionista di Popper ed Eccles o quello di Penfield, sia il funzionalismo cognitivista centrato sul software anziché sulle caratteristiche strutturali del cervello, sia le teorie dell’identità sostenute da alcuni neuroscienziati, come Jean Pierre Changeux e Paul Churchland, e da filosofi come Rorty. A. Oliverio BIBL.: Neural Darwinism: The Theory of Neuronal Group Selection, New York 1987, tr. it. di S. Ferrares, Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, Torino 1995. Su Edelman: v. Darwinismo neurale, in A. FASOLO (a cura di), Dizionario di biologia, Torino 2003.
EDELMANN, JOHANN CHRISTIAN. – Teologo, Edelmann n. a Weissenfels il 9 lug. 1698, m. a Berlino il 15 febbr. 1767. Nell’autobiografia (pubblicata da W. Klose a Berlino nel 1849, e riedita in copia anastatica da F. Frommann, presso Stuttgart - Bad Cannstatt, nel 1976) Edelmann ci ha descritto le tappe della sua inquieta evoluzione spirituale che si fissò, dopo aver esperimentato il pietismo, in un definitivo atteggiamento razionalistico. Interpretò il Verbo giovanneo come ragione, sì che le rivelazioni della religione positiva venivano ad essere spiegate nel senso del-
Edgeworth la religione razionale. Si avvicinò poi all’acosmismo spinoziano. A. Milanese BIBL.: Göttlichkeit der Vernunft, Frankfurt 1741; Moses mit aufgedeckten Angesicht, von zwei ungleichen Brüdern Lichtlieb und Blinding beschaut, Frankfurt am Main 1747 (Berleburg 1740); Der neu eröffnete Edelmann, oder Auswahl aus Edelmanns Schriften, Bern 1847. Su Edelmann: K. MONCKEBERG, H.S. Reimarus und J.C. Edelmann, Hamburg 1867; K. GUDEN, J.C. Edelmann, Hannover 1870; E.W. ZEEDEN, s. v., in W. KASPER et al. (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, vol. III, Freiburg im Breisgau 1959, col. 656; W. GROSSMANN, J.C. Edelmann: from Orthodoxy to Enlightenment, The Hague 1976; A. SCHAPER, Ein langer Abschied vom Christentum: J.C. Edelmann (16981767), The Hague 1976 (con bibliografia alle pp. 267-281); W. GORZNY et al. (a cura di), Deutscher Biographischer Index, München 19982, vol. II, p. 753.
EDGEWORTH, FRANCIS YSIDRO. – EconomiEdgeworth sta e statistico n. l’8 febbr. 1845 a Edgeworthstown, Irlanda, m. il 13 febbr. 1926 a Oxford. Dal 1888 professore di economia al King’s College di Londra e dal 1891 a Oxford. Pubblicò tre libri e circa settecento fra articoli, recensioni e voci di enciclopedia. In New and Old Methods of Ethics, or “Physical Ethics” and “Methods of Ethics” (Oxford 1877) confrontò le dottrine utilitariste di Alfred Barrat e Henry Sidgwick, applicando per la prima volta gli strumenti del calcolo differenziale al problema del benessere individuale, e individuò nella «esperienza ereditaria» di Herbert Spencer la fondazione epistemologica comune per le scienze sociali. In The Hedonical Calculus (in «Mind», 3, 1879, pp. 394-402) discusse il problema del benessere sociale e della sua massimizzazione. In Mathematical Psychics (New York 1962 [1881]) matematizzò l’idea di contratto, introducendo alcuni strumenti centrali per la moderna microeconomia, come le curve di indifferenza (combinazioni di panieri di beni che danno al consumatore la stessa utilità) e la «scatola di Edgeworth» che serve per individuare le soluzioni di equilibrio nello scambio tra due contraenti. Edgeworth mostra che individui guidati dal solo desiderio di massimizzare la propria utilità danno luogo a un processo di scambio che raggiunge una posizione di equilibrio quando nessuno ha interesse a rivedere gli accordi presi, un’intuizione 3217
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Edgeworth che è alla base degli sviluppi contemporanei dell’analisi di equilibrio economico generale. La produzione successiva è equamente divisa fra economia e statistica. Dalle pagine dello «Economic Journal», la più importante rivista di economia dell’epoca, di cui fu direttore dal 1890 fino al 1926, intervenne su una enorme varietà di temi di economia matematica e teoria economica, come l’analisi del monopolio, la teoria della moneta, la tassazione ottimale, il commercio internazionale, l’economia di guerra. Il suo contributo alla statistica consiste nella costruzione di alcuni nuovi strumenti analitici, e, più in generale, nell’applicazione della teoria della probabilità alla inferenza statistica nelle scienze sociali. Edgeworth ha anticipato le odierne teorie pluraliste della probabilità con una sintesi fra l’interpretazione frequentista di John Venn, che definisce la probabilità come frequenza statistica di un evento in una lunga serie di eventi simili, e quella epistemica che considera la probabilità una misura della credenza razionale. A. Baccini BIBL.: J. CREEDY, Edgeworth and the Development of Neoclassical Economics, London 1986; F.Y. EDGEWORTH, Papers Relating to Political Economy, 3 voll., Bristol 1993 (1925); C.R. MCCANN (a cura di), F.Y. Edgeworth: Writings in Probability, Statistics and Economics, Cheltenam 1996; S. STIGLER, Statistics on the Table, Cambridge (Massachusetts) 1999; P. NEWMAN (a cura di), F.Y. Edgeworth’s Mathematical Psychics and further Papers on Political Economy, Oxford 2003; A. BACCINI, Bibliography of Edgeworth’s Writings, in P. NEWMAN (a cura di), F.Y. Edgeworth’s Mathematical Psychics and further Papers on Political Economy, Oxford 2003; A. BACCINI, Edgeworth on the Foundations of Ethics and Probability, n. mon. «Quaderni del Dipartimento di Economia Politica», 427 (2004).
EDGEWORTH, MARIA. – Scrittrice di narratiEdgeworth va per l’infanzia e di pedagogia, n. a Black Bourton (Oxfordshire) l’1 genn. 1767, m. a Edgeworthtown (Irlanda), il 22 magg. 1849. Più nota come narratrice (le opere sono raccolte in Tales and Miscellaneous Pieces, London 1825, 14 voll.; Tales and Novels, ivi 1823-33, 18 voll.), va ricordata anche per le sue Letters for Literary Ladies (ivi 1793) e più ancora per i due volumi di Practical Education (ivi 1798), che, sebbene non originali nel pensiero, servirono a diffondere i principi pedagogici di Rousseau. O. Visentini BIBL.: A.J.C. HARE, The Life and Letters of Maria Edgeworth, London 1894; C. HILL, Maria Edgeworth and
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her Circle, London 1909; H.J. BUTLER - H.E. BUTLER (a cura di), The Black Book of Edgeworthstown and other Edgeworth Memories (1585-1817), London 1928; I.C. CLARKE, Maria Edgeworth: her Family and Friends, London 1949; G. CALÒ, Pedagogia del risorgimento, Firenze 1965; E. KOWALESKI-WALLACE, Their Fathers' Daughters: Hannah More, Maria Edgeworth, and Patriarchal Complicity, New York - Oxford 1991; B. HOLLINGWORTH, Maria Edgeworth Irish Writing: Language, History, Politics, London 1997.
EDONISMO (dal greco hJdonhv «piacere» - heEdonismo donism; Hedonismus; hédonisme; edonismo). – Con il termine «edonismo», inteso nel suo significato più generico, si è soliti indicare qualsiasi dottrina che ponga il piacere a norma e fine ultimo dell’attività umana, identificando così il piacere con il bene morale stesso. Una prima teorizzazione dell’edonismo, nel pensiero occidentale, si è avuta a opera di Aristippo di Cirene (435-360), il fondatore della scuola cirenaica, che ha reso concreto il concetto socratico di bene, polarizzandolo verso il godimento sensibile e l’appagamento del desiderio. Il sapiente, secondo Aristippo, è colui che ha scelto il piacere come suprema norma dell’agire e che, proprio per questo, ha anche imparato l’arte del godere, ovvero l’arte che consente di conseguire il massimo piacere attraverso il dominio del piacere stesso. Il saggio, afferma infatti Aristippo, deve possedere il piacere e non esserne posseduto: «Posseggo ma non sono posseduto, perché il dominare i piaceri e non lasciarsene trascinare è ottima cosa, non l’astenersene» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 75, cfr. tr. it. di M. Gigante, Bari 1962). In questo senso l’edonismo filosofico di Aristippo viene a distinguersi dall’edonismo volgare o bruto, che coincide con la più completa incontinenza. All’interno della scuola cirenaica la dottrina edonistica ha avuto vari sviluppi e tra questi vanno senz’altro menzionati quelli elaborati da Egesia e da Anniceride, se non altro per il loro carattere di opposti. Egesia era un edonista che però considerava impossibile il raggiungimento del piacere, perché il corpo è afflitto da un’infinità di mali, perché l’anima si turba e soffre insieme al corpo e perché la fortuna ostacola le nostre aspirazioni. Per queste ragioni Egesia elaborò una visione del mondo tanto fosca e cupa da guadagnarsi l’appellativo di «persuasor di morte». La vita, diceva infatti Egesia, è un bene soltanto per gli sciocchi, mentre il sapiente sa che la
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felicità non esiste e che il morire è preferibile al vivere (Diogene Laerzio, op. cit., II, 75). Al contrario di Egesia, Anniceride diede uno sviluppo positivo all’edonismo, temperandolo con altri valori quali l’amicizia, la benevolenza, l’altruismo, la riverenza dei genitori. Anniceride si spinse persino ad affermare che per la benevolenza si possono, e a volte si debbono, anche sopportare dei dolori (Diogene Laerzio, op. cit., II, 97). L’edonismo venne sottoposto a una serrata critica da Socrate, Platone e Aristotele, i tre grandi classici della grecità. Platone negò l’identificazione cirenaica di bene e piacere sensibile (Gor., 51, 496-97) e contrappose ai piaceri che turbano l’anima «i piaceri dell’apprendere accompagnati da sanità e saggezza» (Phil., 37-39). Eudaimonistica, ma antiedonistica è l’etica di Aristotele, che pose come fine dell’agire umano la felicità. Tutti gli uomini cercano il piacere e fuggono il dolore, ma il piacere vero non è quello sensibile, bensì una conseguenza dell’atto virtuoso, esso «perfeziona l’atto [...] come un compimento sopraggiunto» (Et. Nic., X, 5, 1175; cfr. Aristotele, Le plaisir [Eth. Nic., VII, 11-14; X, 1-5], a cura di A.J. Festugière, Paris 1936; nuova ed. 1960 [con intr.]). Nonostante tali autorevoli critiche i principi edonistici di Aristippo ricomparvero, in età ellenistica, nel pensiero di Epicuro, che spinse a tal punto l’equazione tra piacere e bene da rendere lo stesso termine «epicureismo» un sinonimo di «edonismo». «Il piacere», scrive infatti Epicuro, «è principio e fine del viver felice» (Epistola a Meneceo, 129). A volte, però, facendo ingiustizia al pensiero di Epicuro, si è usato nella letteratura l’aggettivo «epicureo» persino come analogo di crapulone, dando consistenza all’idea, del tutto sbagliata, secondo cui l’edonismo di Epicuro si configurerebbe come una sorta di edonismo volgare e crudo, proprio di chi è dedito, senza alcun ritegno e senza alcuna capacità di autodominio, a tutti i piaceri del corpo. In realtà, invece, l’edonismo di Epicuro è tutt’altra cosa dalla crapuloneria. Anzi, esso finisce addirittura per trasfigurarsi in una sorta di ascetismo, che predica con forza l’astinenza da tutta una serie di piaceri e in particolare da quelli di grado più basso. Secondo Epicuro, infatti, occorre distinguere tra il piacere momentaneo, che egli chiama anche piacere cinetico, perché con il suo movimento turba e sconvolge l’animo, e il
Edonismo piacere catastematico, che è la pura assenza di dolore nel corpo (aponia) e di turbamento nell’animo (atarassia) (cfr. H. Usener, Epicurea, Lipsiae 1897, fr. 2) e che, come tale, produce uno stato permanente di serenità interiore e di piacere stabile dell’animo. Quando dunque diciamo «che il piacere è fine», precisa infatti Epicuro, «non vogliamo dire il piacere degli intemperanti... ma il non soffrire nel corpo, né esser turbati nell’anima» (Epicuro, op. cit., 131). Il piacere nasce dalla soddisfazione di un bisogno e, secondo Epicuro, non tutti i bisogni vanno soddisfatti, o almeno non tutti allo stesso modo. Il saggio è colui che sa classificare e distinguere i bisogni e i piaceri corrispondenti. Esistono in primo luogo i bisogni naturali e necessari, come la fame, la sete, il bisogno di ripararsi dal freddo, che vanno sempre soddisfatti, perché la loro soddisfazione toglie al corpo un dolore, realizzando l’aponia. Ci sono poi i bisogni naturali, ma non necessari, come, ad esempio, mangiare cibi raffinati, vestire abiti eleganti, i quali, secondo Epicuro, vanno soddisfatti con molta moderazione e cautela, perché essi, oltre una certa misura, conducono verso un piacere di tipo cinetico, che reca con sé turbamento dell’animo. Infine ci sono i bisogni non naturali e non necessari, come quelli relativi alla ricchezza, alla fama, al potere, che non vanno mai soddisfatti, perché impediscono il conseguimento dell’atarassia. Di qui il precetto epicureo del «vivere nascosti». Come si vede dunque, le regole della morale epicurea, se applicate alla lettera, conducono, attraverso il calcolo dei piaceri e l’astinenza da tutti quei piaceri che possono recare con sé dolori e turbamenti più grandi, a una vera e propria forma di ascetismo. Infine, l’idea di un calcolo meticoloso dei piaceri anticipa forme moderne di edonismo, quali l’utilitarismo benthamiano, con la sua nota aritmetica morale. L’avvento del cristianesimo, che esalta l’amore come superamento dell’egoismo e rivela i lati positivi del dolore, i quali lo rendono perfino amabile, non in sé, ma come mezzo insostituibile di purificazione e di perfezione individuale e di redenzione per i fratelli, in conformità a Cristo, conduce a una critica dell’edonismo. Per il cristiano diventa fondamentale vivere una vita buona, giusta, ricca di significato e non necessariamente una vita comoda o piacevole. La gioia, nel senso cristiano, può convivere con il dolore, perché la gioia proviene dalla percezione di una sovrabbondanza di 3219
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Edonismo senso, che è in grado di rendere significativo anche il dolore. Ciò che rende infelice l’uomo, nella prospettiva cristiana, non è il dolore, ma la mancanza di senso che si può sperimentare anche nel piacere. Un’illustrazione efficacissima di questa prospettiva ci viene fornita da san Francesco d’Assisi che, raccontano i biografi, dovendo spiegare al compagno frate Leone che cosa fosse la perfetta letizia, disse, esemplificando, che l’essere scambiati per dei ladri dai compagni del convento e l’essere picchiati e cacciati fuori, alla pioggia e al freddo, sarebbe perfetta letizia, se accettato per amore di Dio («se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Leone, scrivi che questa è perfetta letizia», cfr. Z. Lazzeri [a cura di], I fioretti di santo Francesco, Firenze 1925, p. 43). Ma poi tutta la pietà popolare cristiana è caratterizzata da quest’idea fondamentale, secondo cui le sofferenze umane rappresentano una forma di partecipazione al sacrificio redentivo del Cristo. Con l’umanesimo, in cui, in opposizione all’ascetismo medioevale, si rivendicano la natura umana e le sue terrene passioni, rinasce con nuovo spirito l’epicureismo, che ha i suoi principali esponenti in C. Raimondi, secondo cui l’uomo non può dirsi felice «sine corporis et rerum externarum commodis» (Lettera ad Ambrogio Tignosi, a cura di G. Santini, in A. Crivellucci - E. Pais [a cura di], Studi storici, Torino 1899, p. 563) e particolarmente in Valla, che nel De voluptate ac de vero bono mostra che il piacere è il vero bene, che l’azione umana, anche quella che sembra più pura e disinteressata, è determinata dal piacere. Secondo il Valla noi non amiamo la virtù per se stessa, ma per il piacere che ci procura; Catone non si è tolto la vita per amore della virtù, ma perché non tollerava il giogo di Cesare (L. Valla, op. cit., II, 6). La voluptas, di cui parla Valla, non è libertinaggio, brama mai sazia di godere, abbandono agli istinti, ma quel piacere che non è in contrasto con l’onesto. È, come dice Saitta, la voluptas idealizzata, che è frutto della prudenza del saggio, che antepone il maggior vantaggio al minore (ibi, II, 40). Un cenno, a tal proposito, merita anche Gassendi (De vita, moribus et doctrina Epicuri, 1674). Nell’epoca moderna l’edonismo, nella sua forma mediata (piacere connesso con valori superiori al piacere sensibile immediato), è il 3220
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motivo etico dominante di tutte le filosofie sensistiche, materialistiche e positivistiche, che pongono nell’utile e nel senso il fondamento della vita morale; a questo titolo entrano, in qualche modo, nell’orbita dell’edonismo: Montaigne, Hobbes, Gassendi, Helvétius, Holbach, La Mettrie, Condillac, Diderot, Feuerbach e, con un taglio utilitaristico, Bentham, Stuart Mill, James e Spencer. La prospettiva di Jeremy Bentham riveste sicuramente un interesse particolare tra le varie proposte moderne che rientrano, in vari modi, nell’orbita dell’edonismo, anche perché Bentham è stato esplicitamente accostato a Epicuro da John Stuart Mill. Bentham propone una forma di edonismo che può essere definito, al tempo stesso, motivazionale e normativo. Motivazionale perché sostiene che solo il piacere può motivare l’azione, normativo perché identifica il piacere con il valore e con il bene e lo assume come norma di condotta. Le prime righe di Introduzione ai principi della morale e della legislazione lo confermano in modo esemplare. «La Natura», scrive infatti Bentham, «ha posto l’umanità sotto il dominio di due sovrani assoluti, il dolore e il piacere. Soltanto tramite essi risulta possibile indicare che cosa si deve fare, così come è in relazione a essi che stabiliamo che cosa faremo» (J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, London 1789, a cura di E. Lecaldano, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Torino 1998). Tali premesse, tuttavia, non danno origine a una forma banale di edonismo, basato esclusivamente sul perseguimento del piacere immediato. Bentham, infatti, è mosso dalla preoccupazione sociale di assicurare la felicità al maggior numero di persone e, a questo fine, ritiene necessario che, a volte, la ricerca individuale del piacere immediato vada notevolmente limitata. Bentham, inoltre, introduce la teoria del calcolo quantitativo dei piaceri, che costituisce il suo contributo più originale all’utilitarismo. Tale calcolo verrebbe realizzato tramite la redazione di una tabella di tipo aritmetico, che terrebbe conto di elementi che caratterizzano i vari aspetti del piacere quali la durata, l’intensità, la certezza, la prossimità, la capacità di produrre altri piaceri, l’assenza di conseguenze dolorose, consentendo così di fornire una base scientifica alla morale. L’edonismo di Bentham è stato criticato da John Stuart Mill, a causa del suo carattere
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«quantitativo», a cui Stuart Mill contrappone un edonismo di tipo «qualitativo». Stuart Mill è infatti preoccupato di rispondere all’obiezione che viene fatta a Bentham di aver elaborato, com’è stato ironicamente osservato, una «filosofia per maiali», che concepisce la felicità dell’uomo in analogia con la sensazione che prova un maiale sazio. Per questo Stuart Mill sviluppa un approccio all’edonismo basato sulla qualità, piuttosto che sulla quantità del piacere, distinguendo tra piaceri di basso grado e piaceri di carattere elevato, più nobili e spiritualmente più elevati (cfr. J.S. Mill, Utilitarianism, London 1863). La critica più radicale rivolta in età moderna nei confronti dell’edonismo è venuta dal filosofo tedesco Immanuel Kant. Nella prospettiva morale kantiana, infatti, il dovere va compiuto per esso stesso, per rispetto della legge insita nel dovere, e non per i piaceri che ne possono derivare. La legge morale, se vuole costituire un comando veramente universale, uguale per tutti, deve infatti fondarsi sulla ragione, che è l’unica facoltà dell’uomo che sia veramente pura, «a priori», e non deve essere subordinata al conseguimento di un fine particolare, rilevabile attraverso l’esperienza, qual è il piacere, pena la perdita del suo carattere di universalità (cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi; Critica della ragion pratica). Sulle orme di Kant Giovanni Gentile distingue «un edonismo naturalistico... in cui il piacere è un fatto naturale», che dev’essere negato per realizzare la libertà spirituale e un edonismo in cui il piacere è il «positivo dell’atto spirituale» ed è risolto nella concezione etica dello spirito (cfr. G. Gentile, Generi e struttura della società, Firenze 1959, cap. VII, § II). Un’altra interessante critica dell’edonismo (ma anche dell’eudaimonismo e dell’utilitarismo), la si può trovare nell’etica dell’altruismo di G. Calogero (cfr. G. Calogero, Etica, giuridica, politica, Torino 1947). Una ripresa, in anni recentissimi, di una prospettiva edonistica si è avuta nel campo della bioetica, da parte di autori neoutilitaristici come, ad esempio, Peter Singer (cfr. P. Singer, Practical Ethics, Cambridge 1979, tr. it. di G. Ferranti, Etica pratica, Napoli 1989), che tendono ad attribuire valore alla vita in relazione al saldo tra piaceri e dolori che prevedibilmente questa vita sarà in grado di conseguire. Se il saldo è negativo la vita non meriterebbe di essere vissuta, se è positivo sì. Vengono risolte in questo modo questioni quali quelle del-
Edonismo l’aborto o dell’eutanasia, anche nei casi in cui i soggetti non risultano aver espresso alcuna volontà, perché la previsione di una prevalenza del dolore sul piacere fa presupporre l’assenso del soggetto alla sua soppressione. A questa prospettiva si oppongono autori antiedonistici come, ad esempio, Ronald Dworkin (cfr. R. Dworkin, Life’s Dominion, London - New York 1993, a cura di S. Maffettone, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano 1994), che definisce il piacere un interesse d’esperienza, a cui egli contrappone interessi critici ben più importanti, quali ad esempio «vivere una vita buona», «vivere una vita giusta» ecc. Secondo Dworkin, dunque, una vita ricca di senso, anche se poco comoda o povera di piaceri, è preferibile a una vita piacevole ma priva di un significato ideale. Anche Dworkin ammette un diritto all’aborto e all’eutanasia, ma per ragioni diverse da quelle di Singer. Alla prospettiva edonistica si oppone anche Hans Jonas (cfr. H. Jonas, Technik, Medizin und Ethik, Frankfurt am Main 1985, a cura di P. Becchi, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Torino 1997), che contrappone ad essa una critica di carattere ontologico: secondo Jonas l’essere è sempre preferibile al non essere, perché l’essere è teleologicamente orientato, ha degli scopi e un significato che il non essere non ha, e questi scopi fanno sì che «valga la pena» essere, anche quando il saldo tra piacere e dolore è negativo. E. Centineo - F. Turoldo BIBL.: A. WENDT, De philosophia cyrenaica, Gottingae 1841; D. DE STEIN, De philosophia cyrenaica, Gottingae 1855; J.B. WATSON, Hedonistic Theories, New York 1895; H. GOMPERZ, Kritik des Hedonismus, Jena 1898; H. MAIER, Sokrates, sein Werk und seine geschichtliche Stellung, Tübingen 1913, tr. it. di G. Sanna, Socrate. La sua opera e il suo posto nella storia, Firenze 194344, 2 voll.; J.-M. GUYAU, La morale d’Epicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines, Paris 1927; E. BIGNONE, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Firenze 1936, 2 voll.; A. TILGHER, Filosofia delle morali, Roma 1937, pp. 96-104; A. ROSMINI, Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale, Milano 1941; H. HAWTON, Philosophy for Pleasure, London 1949; W.H. SHELDON, The Absolute Truth of Hedonism, in «Journal of Philosophy», 47 (1950), pp. 285-304; R. MASSOLO, Il problema della felicità in Epicuro, Palermo 1951; R. AMERIO, L’epicureismo, Torino 1953; J. LIEBERG, Aristippo e la Scuola cirenaica, in «Rivista critica di Storia della Filosofia», 13 (1958), pp. 2-11; J.J.C. SMART - B. WILLIAMS, Utilita-
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Educazione rianism: For and Against, Cambridge 1966; W. SUMNER, Welfare, Happiness and Ethics, Oxford 1996; F. FELDMAN, Hedonism, in L.C. BECKER - C.B. BECKER (a cura di), Encyclopedia of Ethics, London - New York 2001; E. MILLGRAM, Pleasure in Practical Reasoning, in E. MILLGRAM (a cura di), Varieties of Practical Reasoning, Cambridge 2001, pp. 331-353. ➨ DOLORE; EUDAIMONIA; EUDEMONISMO; FELICITÀ; PIACERE; UTILITARISMO; VIRTÙ.
EDUCAZIONE (dal lat. educo ed educo - eduEducazione cation; Erziehung; éducation; educatión). – L’educazione costituisce uno dei due oggetti centrali – l’altro è rappresentato dalla formazione – propri della riflessione all’interno della pedagogia. Quanto è considerato a proposito dell’«educativo» si presenta come il frutto della relazione tra due (o più) soggetti, che – pur entro la distinzione dei ruoli di educando ed educatore – si educano. La dimensione dell’educazione appare, dunque, anzitutto riferita all’eteroeducazione dell’uomo. Egli si trova all’interno di un processo complesso che lo vede posto di fronte all’altro, contribuendo a dar vita alla molteplicità relazionale dell’umano. Pertanto, l’educazione non è una mera trasmissione di conoscenze, culture o condotte. Tantomeno riguarda l’ammaestramento, l’allevamento e la coltivazione, l’indottrinamento, l’etichetta o la plasmazione, l’addestramento, l’esercizio o l’apprendistato. Né può venir confusa con l’istruzione e l’erudizione, l’apprendimento e l’insegnamento. SOMMARIO: I. Il concetto di educazione. - II. Storia dell’educazione. I. IL CONCETTO DI EDUCAZIONE. – Sotto il profilo strettamente filologico, la radice della parola educazione va ricercata nei due verbi latini educo ed educo. Con educo, il cui infinito è educare, si richiamano i significati differenti del «far crescere», mentre con educo, il cui infinito è educere, emerge il valore proprio del «trarre fuori», ma anche del «condurre con sé». Si può, pertanto, sostenere che l’educazione contempli due particolari e differenziati modi d’essere del rapporto interpersonale, promossi dall’educatore nei confronti dell’educando. Anzitutto, egli provvede a che ogni condizione adeguata sia posta affinché la crescita interiore ed esteriore del soggetto avvenga nel migliore contesto, oggettivo e soggettivo, possibile. Di poi, si adopera attraverso un’opportuna pratica educativa per inverare ciò che già sussiste nell’educando. Così il soggetto sente 3222
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promossa, secondo una determinata linea di sviluppo, la propria crescita globale ed è contemporaneamente aiutato a trarre da se stesso ciò che in nuce è già presente. L’azione educativa diventa, così, la risultante di atti, fatti, eventi in cui il soggetto educando si rende destinatario dei percorsi e dei progetti posti in essere dal soggetto educatore, ma avverte anche, almeno in una certa misura, le proprie potenzialità. L’educazione costituisce, quindi, un cammino delicato, un percorso non privo di ostacoli, una tensione indirizzata verso mete non necessariamente prestabilite, ma soprattutto è un processo intenzionale governato da un fine generale: la promozione dell’umanità che è nell’uomo. Inoltre, il fine dell’educazione è dato anche dall’assumere la coscienza critica di se stessi e la conoscenza problematica del mondo. Va allora stabilito che non vi sia educazione se non nella libertà di sé e degli altri. La libertà del soggetto prescinde dalle età della vita e contrassegna: a) la possibilità e la capacità di scegliere; b) la partecipazione ai valori morali, civili, politici; c) la vita personale e sociale; d) l’equilibrio armonico della persona; e) la struttura della personalità culturale unitamente alla costruzione del senso del vero e del giusto, del bene e del bello; f) la libera adesione alle fedi religiose. La storia personale del soggetto è attraversata dalla sua educazione: questa deve poter essere vissuta in armonia con l’interiorità del soggetto, in modo da renderlo responsabile di se stesso e capace di un congruo agire sociale. Ciò favorisce la continua proiezione verso la lietezza e la gioiosità, il benessere e l’appagamento. Un consimile stato eudemonico è la premessa del dare forma alla propria coscienza etica e antropologica, secondo un fondamentale principio pedagogico che pone l’uomo nell’equilibrio armonizzato tra il suo mondo personale e il mondo a lui esterno. Ciò significa che ogni corretta educazione tende all’emancipazione del soggetto e alla sua compiuta liberazione da moralismi e ideologie, pregiudizi e prevenzioni; da qualsiasi forma di fondamentalismo o integralismo, razzismo o fanatismo; da ogni pratica di intolleranza, discriminazione, intransigenza. Inoltre, l’educazione continua a rappresentare – proprio oggi, ancora più di ieri – anche una liberazione dall’inciviltà che si manifesta nella rozzezza, nella villania, nella volgarità e perfino nello sgarbo o nella scortesia. La gentilezza
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dell’animo e dei modi rappresenta il principale antidoto alla maleducazione che si concreta dove prevale l’assenza di decoro, correttezza, contegno, compitezza e creanza: in una sola parola, nell’uomo privo di urbanità. Si dirà, allora, che l’educazione non ha come scopo il conseguimento di prestazioni, ma la promozione di condotte critiche, consapevoli, creative, indipendenti, autonome, responsabili. Il soggetto educato è colui che in ogni occasione possiede la responsabilità libera, piena e matura di se stesso. L’esperienza della vita si profila come un’esperienza educativa se è affiancata dalla riflessione sull’agire proprio e degli altri, dalla scoperta organica del mondo, dall’incontro comunicativo con il prossimo. L’educazione implica, quindi, la «culturalizzazione» delle esperienze, la conoscenza critica della realtà in ogni sua manifestazione, il rapporto ricco di significati umani e valoriali dell’intersoggettività. Essa si propone come un’opera in cui più soggetti sono impegnati con compiti diversi, direttamente, consapevolmente e volontariamente finalizzati a fare della vita un’esperienza di crescita formativa. Così come ogni esperienza si contrassegna della sua irriducibile complessità culturale, anche l’esperienza educativa dichiara le proprie anfibolie: le incertezze, le ambiguità, le ambivalenze interpretative sono il tratto distintivo della natura anfibolica dell’educazione. Per sviluppare meglio la conoscenza dell’educazione si può assumere l’evento educativo nella sua realtà di segno, in modo da affrontarne l’interpretazione considerandolo come un testo. Ogni azione educativa manifesta una natura segnico-testuale e chiama la pedagogia generale a studiarla muovendo da un principio di ordine interpretativo. L’educazione evoca anzitutto l’uomo inteso come soggetto storico e morale, naturale e spirituale, politico e sociale. Alla struttura costitutiva dell’uomo «educato» non pertengono le forme dell’individualismo, del soggettivismo, dell’antiumanesimo nichilista. Questo uomo, che nel tempo e nello spazio viene educandosi entro il difficoltoso cammino posto tra inculturazione e acculturazione, tradizione e utopia, ontogenesi e filogenesi, componenti geneticamente innate e ambientalmente acquisite, è un soggetto storico, nel senso che si rende figlio della propria storia personale e di quella sociale. Ma egli è anche un soggetto
Educazione composto della propria natura, che è irripetibile e singolare, dunque capace di renderlo diverso da ogni altro uomo. Tale statuto storicoantropologico costituisce la premessa intrinseca per la sua fondazione morale e per le sue scelte valoriali. Se è vero, come ha osservato Hans-Georg Gadamer, che «educazione è educarsi» (H.-G. Gadamer, Erziehung ist sich erziehen, Heidelberg 2000, p. 11), l’educazione di se stessi parte dall’essenza spirituale che l’uomo possiede e nella quale si radicano il suo senso dell’umano e dell’umanità, il suo sentimento della vita e della morte, il significato attribuito al mistero che dimora in lui al di qua e al di là della sua storia personale e sociale. L’educazione contribuisce, così, a fondare ontologicamente l’uomo. La costituzione dell’educare è, nella sua stessa forma, attiva. Ciò richiede libero consenso unito a impegno intenzionale e cooperazione educante: la comunità d’intenti fra chi educa e chi è educato si istituisce sull’idea di unità della persona umana. Si tratta di un’unità nella differenza; essa è statuita dalla specificità di quell’unicum che l’uomo è nei suoi caratteri distintivi, i quali sono poi parte della sostanza ontologica dell’ente-uomo capace di vivere dialogicamente e dialetticamente in relazione con gli altri uomini. Al centro dell’educazione si pone pertanto un uomo stenico, abile nell’attingere alle proprie energie intellettuali e morali, fisiche e psichiche. Il suo crescere educandosi dipende, dunque, da lui stesso, ma anche dalla realtà economica, sociale, politica nella quale nasce e da cui trae i motivi di uno sviluppo umano, culturale ed esperienziale che la famiglia e la società con le tradizioni delle comunità di appartenenza possono favorirgli o inibirgli. Tale organicità, nella quale il soggetto si trova immerso, non è immune da problemi di orientamento o disorientamento nelle scelte, di costruzione o decostruzione della personalità, di autonomia o conformismo nelle decisioni. Qui il ruolo dell’educatore può coincidere con quello di una autorità altezzosamente superiore facile preda del più nefando autoritarismo o può proporsi nei termini di una equilibrata autorevolezza. Se la libertà e l’emancipazione del soggetto attraverso il suo educarsi non percorrono l’itinerario dell’alienazione o della reificazione, una concezione «unitaria» dell’uomo lo vede organicamente connesso con figure educative capaci di garantirgli idonee opportunità di crescita all’interno 3223
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Educazione dei gruppi sociali, equità delle occasioni formative, sviluppo educativo permanente durante l’intero arco della vita. È così che la famiglia, la scuola, la società, l’extrascolastico, i differenti ambienti educativi, l’associazionismo, le chiese, le agenzie che governano le comunicazioni di massa sono stati posti in discussione nei loro ruoli tradizionali. Il Novecento è parso essere un secolo in cui mai così severa e forte è stata rivolta una critica pedagogica a tutte le istituzioni educative. Ne è emerso un quadro assai articolato la cui cornice è data dalle forme di nichilismo che impediscono all’uomo d’essere se stesso nell’autenticità della sua struttura ontologica e antropologica, etica e sociale. La critica alla modernità e alla sua ineludibile e ineliminabile costituzione interna – istituita su stili educativi frutto di stili di pensiero e stili di vita supportati dalla scienza, dalla tecnica e dalla tecnologia, a loro volta governate dal denaro e dal potere, quindi dalle logiche del mercato e del capitale finanziario – ha posto in luce i tratti marcati di un’educazione venata da forme disumanizzanti di nichilismo. E ciò non già semplicemente perché nella società contemporanea si assista a una crisi valoriale, ma in quanto sul teatro del Novecento è stata messa in scena la distruzione dell’uomo, dell’umano e dell’umanità. Due guerre mondiali, la shoah, il nazionalsocialismo e i fascismi europei, i GULAG staliniani e sovietici, l’indiscriminato uso bellico dell’energia atomica e poi il temibile collasso dell’ecosistema terrestre, le centinaia di guerre locali, la povertà, le malattie, la fame e la sete in aree vastissime del pianeta e, in ultimo, le tragedie dovute al terrorismo (su cui spicca il massacro dei bambini nella scuola di Beslan, in Ossezia) sono alcuni degli esiti più disastrosi della «cultura del nulla» preferita alla «cultura dell’uomo». Ciò è stato la causa di effetti devastanti tra cui l’emarginazione di interi popoli, di gruppi sociali, di etnie, culture e tradizioni; le migrazioni forzate di moltitudini di uomini disperati dai paesi poveri verso l’Occidente industrializzato; il ripresentarsi ciclico di diffuse forme di razzismo, antisemitismo, nazionalismo xenofobo; il prevalere delle logiche della sopraffazione dell’uomo sull’altro uomo, le sempre più diffuse condotte delinquenziali, il terrorismo come prassi politica. I dati relativi all’infanzia costituiscono una delle più preoccupanti denunce: 250 milioni di 3224
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bambini nel mondo vivono in condizioni di sfruttamento; 8 milioni e mezzo di bambini sono ridotti in schiavitù; un milione e duecentomila bambini ogni anno divengono vittime del traffico di esseri umani; inoltre, 400 mila donne di età inferiore ai 18 anni, provenienti dall’est-europeo, sono costrette alla prostituzione nelle città europee all’inizio del XXI secolo; mortalità infantile, malnutrizione, malattie endemiche e analfabetismo coinvolgono aree geografiche enormi del terzo e quarto mondo in cui il rapporto tra sottosviluppo e infanzia è disumano. Nell’intero Occidente si assiste al prevalere di una «cultura della morte» in cui la violenza e la droga divengono pratiche diffuse sempre più comuni. Agli ingenti bisogni di educazione espressi dai singoli, i sistemi sociali rispondono con politiche ritenute ampiamente inadeguate dagli stessi organismi internazionali di controllo i quali lamentano il forte deficit pedagogico che coinvolge il modello di vita occidentale. Il ricorso sistematico a scienze quali la psicologia o la sociologia per affrontare le problematiche educative contemporanee non ha risolto neppure questioni di dettaglio. A ciò si affianca un impoverimento qualitativo della riflessione pedagogica, causa ed effetto della sua sostanziale emarginazione nel mondo scientifico. Si trae dunque l’impressione che, ad esempio, la richiesta di alfabetizzazione nei saperi mediatici non sia destinata all’autentica promozione educativa dell’uomo, bensì a una sua migliore manipolazione al fine di renderlo un consumatore passivo e acritico. L’enfasi sull’istruzione, la comunicazione, l’apprendimento a scapito di una educazione armonica dell’uomo potrebbe risultare soltanto utile all’integrazione in una «modellistica» sociale che controllerebbe comportamenti e condotte, mistificando e tradendo le biografie personali degli uomini per renderli soltanto cittadini obbedienti, individui eterodiretti, soggetti passivi, produttori acritici, funzionari o impiegati dalla mentalità dogmatica e convenzionale, opportunista e superficiale. D’altra parte, «l’educazione è una forza sociale e non soltanto l’esito del rispecchiamento di forze sociali» (M. Gennari - A. Kaiser, Prolegomeni alla pedagogia generale, Milano 2001, p. 83). Ciò conduce a ritenere possibile un impegno pedagogico nell’educazione dell’uomo, orientato da alcune consapevolezze: a) conformismo, dipendenza e sottomissione sono ipo-
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crisie dannose per l’educazione; b) anticonformismo, eccentricità e ribellione sono illusioni pericolose per l’emancipazione; c) l’educabilità rimane una delle potenzialità fondamentali dell’umano; d) non esiste un rapporto educativo «ideale» o universale; e) ogni uomo ha possibilità infinite e indefinite di educarsi; f) l’egemonia di un qualsiasi modello educativo va rifiutata in nome della libertà; g) qualsivoglia ideologia educativa va respinta in nome dell’umanità; h) l’educazione che diviene routine e abitudine porta il soggetto a estraniarsi da sé e a distrarsi dall’altro. In ultimo: «L’adulto che pretende di educare il bambino senza, a sua volta, essere da lui educato non sa educare né pare degno di questo nome: educatore» (ibi, p. 62). Come si è fin qui osservato, l’educazione consta di un proprio processo, si riferisce a un rapporto, tiene in conto i risultati conseguiti, si congloba entro un micro o macro sistema finalizzato allo sviluppo, alla crescita, alla socializzazione, all’inculturazione. Polisegnico e polisenso, il termine educazione richiama ormai una politica degli interventi educativi che è vasta e articolata, in quanto comprende i genitori, gli insegnanti, gli educatori così come i gruppi di pari, il cosiddetto tempo libero, le realtà educative sparse sul territorio, le differenti forme di associazionismo, i movimenti, i media tra cui prevalgono la stampa, la televisione, i computer, le reti informatiche. A ciò si aggiunga ogni altra realtà «al plurale» che svolga un ruolo qualificante verso la prima e la seconda infanzia, la fanciullezza, la preadolescenza, l’adolescenza e la giovinezza. Ma l’educazione concerne anche l’adultità e la senescenza. In qualsiasi tempo della vita, l’uomo manifesta un bisogno di educazione. Questa domanda richiede un impegno sociale sempre più diffuso, delle interazioni sempre più profonde, delle risorse sempre più adeguate affinché per ogni uomo, per ogni popolo, per ogni continente si diano le possibilità concrete di vivere una vita educante, priva di egemonie imposte, ideologie prestabilite, modelli acritici di pensiero. Il nesso tra educazione e visione del mondo attraversa il soggetto interessando in modo vitale la struttura della sua intima essenza di uomo su cui agiscono l’educazione pubblica e l’educazione privata, l’enunciazione giuridicopolitico-sociale dei diritti e dei doveri, la disgiunzione fra autorità e libertà, l’intreccio tra domande e risposte educative ai bisogni sog-
Educazione gettivi, il risolversi del dualismo fra rifiuto e accoglimento, il dimensionarsi equilibrato di autoeducazione ed eteroeducazione, la corretta sinergia tra formazione ed educazione, infine il responsabile e reciproco connettersi dei mezzi e dei fini. Ci si trova, così, proiettati di fronte all’urgenza di precisazione teleologica del processo educativo, di chiarificazione axiologica circa i suoi significati valoriali, di puntualizzazione deontologica a proposito dell’esercizio di tutte quelle professioni che fanno dell’educare un’«arte» anche non estranea da un presupposto «vocazionale». Fini, mezzi e modi debbono essere messi sempre a servizio del costituirsi di persone e personalità umanamente libere: a) nella loro intrinseca unitarietà di soggetti completi; b) nella loro strutturale globalità di soggetti dinamicamente sviluppati in ogni potenzialità; c) nella loro interiore armonicità di soggetti soddisfatti di se stessi; d) nella loro costitutiva autonomia mentale e coscienziale di soggetti ragionevoli. Questi quattro caratteri possono rappresentare il fondamento di quella vitalità con la quale il soggetto si educa alla vita affettiva, alla vita sociale, alla vita intellettuale, alla vita etica ed estetica. Presiede a tutte le problematiche dell’educazione la pedagogia, il cui sistema di saperi scientifici ne coordina le teorie e le prassi, quindi le differenti forme educative. Tra esse vanno segnalate le seguenti: a) L’educazione critica: la principale caratteristica di un uomo dalla mente libera è data dal consapevole uso della criticità nell’analisi compiuta su se stesso e sui mondi con cui interagisce. L’educazione della mente può preservare dallo scadimento nelle «prassi delle mentalità» quando l’autonomia di giudizio è intesa come il fulcro di ogni attività intellettuale. b) L’educazione spirituale: non si ha una corretta educazione alla «materialità» della vita senza una profonda educazione alla sua «spiritualità». Con essa il soggetto entra dentro se stesso, nell’intimo del suo animo e del suo spirito, per compiere un grande viaggio formativo che lo condurrà, forse, sulla soglia del proprio mistero di uomo posto fra immanenza e trascendenza. c) L’educazione morale: la virtù dell’onestà dei pensieri, dei sentimenti e delle azioni è il cardine intorno al quale ruota la personalità etica dell’uomo, il cui senso dell’umano e dell’uma3225
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Educazione nità è dato dalla sua soggettiva statura morale i cui principi costitutivi non possono che essere tratti dalla coscienza interiore, pur nelle sue mediazioni con gli ambienti di vita. d) L’educazione estetica: l’incontro con la bellezza è indispensabile per l’armoniosa crescita culturale del soggetto, che deve poter entrare in un rapporto profondo, autentico e vitale con l’arte, la letteratura, la poesia, ma anche con la musica, il teatro, il cinema, nonché i beni estetici disseminati nella città e nel paesaggio. e) L’educazione sociale: la relazione degli uomini tra loro è uno dei più potenti vettori di educazione. Essa richiede rispetto dell’altro, attenzione a leggi e regole, impegno diretto nella gestione di contesti specifici del vivere comunitario, senso profondo della partecipazione, rifiuto dell’esercizio autoritario del potere in ogni sua forma e aspetto. La dimensione socio-relazionale del vivere comune abbisogna di senso civico e socievolezza, cooperazione e comunicazione educativa. f) L’educazione affettiva: poiché l’amicizia e l’amore sono elementi fondativi della vita umana, le componenti emotivo-affettive che ad essi presiedono non possono essere mai trascurate. Ciò implica il rispetto della libertà personale unitamente al rispetto della libertà dell’altro, poste entrambe nella connessione comunicante delle emozioni, dei sentimenti, degli affetti che costituiscono l’autentica cifra umana dell’uomo. g) L’educazione civico-politica: il civismo inteso come esercizio delle virtù proprie del «buon cittadino» è un fine generale che permea di sé il senso della solidarietà umana, del rispetto delle leggi, dell’attenzione verso l’emarginazione sociale, della legalità assunta quale norma di vita. La città costituisce il teatro su cui agisce l’impegno politico vissuto nella partecipazione gestionale della cosa pubblica, indirizzata all’accoglienza di «cittadinanze» suffragate dalla convivenza democratica e pacifica. h) L’educazione alla religiosità: alle grandi domande sull’uomo, la sua origine, le sue escatologie, e poi il mondo, il sacro, il mistero e il divino possono voler cercare delle risposte una coscienza e un’intelligenza educate al sentimento della religiosità, che non va confuso con le conoscenze circa la storia delle religioni né con le catechesi. i) L’educazione ecologico-ambientale: la conoscenza della natura, unita al rispetto per l’ambiente e alla salvaguardia degli ecosistemi, in3226
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duce a condotte di vita consapevoli dell’importanza di non favorire l’inquinamento nelle sue più diverse forme, anche d’ordine visivo, tattile, acustico, olfattivo e gustativo. Il disprezzo ecologico per la vita vegetale e animale è uno dei modi attraverso cui si dileggia la vita umana. l) L’educazione corporea: la costruzione di un corretto rapporto tra l’io e il corpo che il soggetto avverte di possedere diventa occasione decisiva per accogliere e accettare se stessi in modo armonico, sicché tra psiche e corporeità può essere edificata una positiva e sinergica sintonia che favorisca tanto l’equilibrio interiore quanto le relazioni con il mondo circostante. m) L’educazione scientifico-tecnologica: immerso in una galassia di linguaggi dominati dalla scienza, dalla tecnica e dalle tecnologie, il soggetto deve poter provvedere a un’alfabetizzazione che consenta la conoscenza, l’uso e il controllo dell’informazione automatizzata nelle comunicazioni, conseguiti a un elevato livello di consapevolezza critica, la quale va unita all’acquisizione di un abito di ricerca suffragato anche dall’indagine empirico-sperimentale. n) L’educazione sessuale: la sfera psico-sessuale del soggetto è una delle principali componenti della sua persona e della sua personalità, che nell’amore, nell’affetto e nell’emozione dell’eros, non disaccorpato dal bios, dal logos e dal pathos, influenza l’equilibrio responsabile delle condotte amorose e la vita di coppia. A queste fondamentali e prioritarie forme educative se ne possono affiancare altre, le quali svolgono anch’esse un ruolo significativo nella crescita armoniosa dell’uomo in ogni età della vita, indipendentemente dal credo religioso, dalla comunità di appartenenza, dalla cultura di riferimento, dalla lingua, dagli ideali politici, dalle condizioni socio-economiche. Tra esse spiccano: a) l’educazione al lavoro; b) l’educazione al gioco; c) l’educazione interculturale; d) l’educazione creativo-espressivo-inventiva; e) l’educazione alimentare, alla salute e all’igiene; f) l’educazione fisica e allo sport; g) l’educazione alla pace; h) l’educazione all’immaginario; i) l’educazione ai beni culturali e ambientali; l) l’educazione stradale ecc. Ciascuna di queste forme dell’educare ammette una propria estrinsecazione didattica che richiama le strategie dell’istruire attraverso processi interconnessi di insegnamento e apprendimento. L’educazione deve poter permeare di
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sé ogni intervento scolastico ed extrascolastico, orientando e finalizzando i mezzi, i metodi, le strategie, i progetti e i curricoli. Tutto ciò, nella distinzione tra educare e istruire, tra pedagogia e didattica. In ogni società e in qualsiasi epoca storica, l’educazione si è trovata immersa in un complesso sistema di relazioni economiche, culturali e politiche da cui è stata contrassegnata. Nella modernità, e quindi dal Seicento al Novecento, essa ha subito delle profonde mutazioni debitrici di fronte a ideali e tradizioni, conoscenze e valori, eventi e condizionamenti. L’urgenza del controllo sociale sull’educazione ha imposto meccanismi di coercizione e sorveglianza, strumenti di repressione, percorsi prestabiliti di apprendistato, tattiche di punizione, strategie di condizionamento, alfabetizzazioni forzate, pratiche correttive il cui scopo generale non è stato quello di liberare l’uomo, ma di assoggettarlo alle necessità collettive di classi, gruppi, ceti dominanti. Le logiche del potere si sono sovente impadronite dell’educazione, imponendo ordine e disciplina secondo scale valoriali indiscusse e indiscutibili. Alla scuola è stato assegnato il compito di produrre selezione sociale e non piuttosto quello di educare l’uomo all’idea di vita e di morte, alla bellezza e alla bontà, all’amore e all’amicizia, al sacro e al mistero. Ne hanno risentito il corpo e la mente dell’uomo, il suo modo di pensare e vivere nella libertà, ma anche la sua concettualizzazione del mondo e del viaggio, dell’essere e dell’avere, dell’originarietà e della trasformazione. Tutto questo ha provocato nel suo insieme maggiore equilibrio sociale, ma ha anche accentuato i disquilibri interiori, le crisi soggettive, generazionali, collettive, inducendo all’incompatibilità con lo status generale della società, alla repulsione verso le istituzioni familiari e scolastiche quali luoghi di rispecchiamento dei modi di produzione economica e dei congegni di riproduzione sociale. Da ciò, il soggetto ha ricavato una latente ma endemica condizione di scompenso, vissuta nell’opposizione irrisolta fra adattamento e disadattamento. Mai nettamente distinti fra loro, questi ultimi piuttosto si mescolano contribuendo ad alimentare una crasi sociale, in cui gli stili educativi presentano contemporaneamente tanto le forme omologate del «massivo», quanto quelle differenziate dell’«individualismo» elitario e anomico. In entrambi i casi, l’uomo soffre un processo di
Educazione riduzione del suo statuto umano e rischia di diventare un «individuo» indistinto: senza nome e cognome, senza un volto e uno sguardo, senza storia e senza vita. Un progetto educativo che si fondi sul rifiuto di ogni nichilismo farà leva sulle culture dell’umano dove scienza e religione, storia e utopia, arte e letteratura hanno pari dignità e importanza. Ma il «progetto» in educazione riguarda tutti gli ambienti educativi in cui l’uomo è presente, vive e stabilisce relazioni proficue con l’altro da sé. Per tale motivo occorre realizzare un’integrazione progettuale fra realtà differenti: ad esempio tra scuola e famiglia, extrascolastico e scolastico, mass media e società. Ciò per evitare dannose schizofrenie a proposito dell’enunciazione di finalità, metodologie, mezzi educativi, ma anche per rimarcare come l’uomo vada rispettato nella sua irrinunciabile unicità di essere umano, appartenente all’umanità intera, bisognoso della propria umanizzante armonia interiore ed esteriore. Affinché una sintonia di intenti trovi riscontro nell’impegno delle pratiche, l’educazione è da considerare come una fondamentale premessa in ciascuno dei contesti di seguito richiamati: a) Educazione e scuola: là dove la scuola si configura come un ambiente il cui «clima» positivo trasmette il senso autentico e operante di un laboratorio di idee, culture, conoscenze, sono allora poste le condizioni basilari affinché l’insegnamento e l’apprendimento si interconnettano dando vita a un costume educativo (e, soltanto dopo, didattico e istruzionale) ove prevalgono il ragionare, l’esplorare, l’interrogarsi, l’esprimersi, il comunicare, l’accogliere, il ricercare. Una tensione all’interpretazione del mondo impegna ogni soggetto presente nella comunità educativa, finalizzando il disegno complessivo dell’istituzione scolastica non all’interrogare, al valutare e al selezionare, bensì a un educare inteso come occasione costante di libera crescita dell’uomo vissuta nel piacere della conoscenza e dell’istruzione. b) Educazione e società: ripensare la città non come luogo di mercato o centro di dominio significa studiare delle rinnovate forme organizzative nel corpo delle società operanti per la liberazione dell’uomo, ricostruendo le interazioni fra i diversi «sottosistemi» sociali (economico, politico, giuridico ecc.) in funzione educante. La città che favorisce occasioni di incontro fra uomini, culture e religioni pone 3227
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Educazione un’ipoteca positiva su tutti i processi di socializzazione, aprendo canali diffusi a favore del dialogo, della condivisione, della solidarietà. Ciò pone il soggetto all’interno di una rete educativa di relazioni sociali e comunitarie, ma pure di conoscenze i cui saperi – tanto codificati quanto non codificati – impiantano l’autentica struttura democratica della società civile. c) Educazione e famiglia: la famiglia costituisce il principale punto di riferimento del soggetto in qualunque età della vita. In essa egli costruisce il proprio sentimento del vivere. I sistemi relazionali istituiti nel vincolo dei legami familiari sono frutto di mediazioni, anche difficoltose, alle quali ogni membro apporta il proprio contributo umano. Se vissute nel rispetto reciproco e nell’accoglimento delle differenze dei ruoli, le dinamiche familiari conferiscono sostanza qualitativa agli affetti e alle emozioni strutturando positivamente le relazioni parentali, che diventano un’occasione costante di crescita armoniosa a cui per sempre il soggetto e la sua educazione saranno debitori. d) Educazione ed extrascuola: la continuità e la reciprocità fra mondi scolastici ed extrascolastici sono la premessa per non recare confusione nel percorso educativo del soggetto. L’exrascolastico favorisce l’interiorizzazione di saperi, conoscenze, culture ed esperienze umane che vanno al di là dei compiti sociali ed educativi della scuola. Per questo, la frequentazione di ambienti quali musei, teatri, ludoteche, biblioteche, archivi, luoghi dell’associazionismo laico e religioso, centri sportivi, circoli culturali arricchiti da una opportuna «atmosfera» educativa, e non banalizzati nella routine di mode e riti effimeri o nelle prassi di educatori incompetenti, restituisce al soggetto uno spazio e un tempo della vita che saranno preziosi per la sua crescita libera, il suo sviluppo globale, la sua capacità di assumere il punto di vista dell’altro. La risorsa presente in tale policentrismo delle occasioni educative non può essere abbandonata al caso, ma va attentamente controllata dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, dalle istituzioni statali e/o locali. e) Educazione e ambiente: una legislazione permissiva e incerta ha lasciato che l’ambiente venisse considerato come un luogo di non autorizzata devastazione. Le prassi diffuse di inquinamento dell’aria, dei mari, dei laghi e dei fiumi, dei boschi, dei campi e dei monti, non3228
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ché delle città hanno esposto l’uomo ai rischi dovuti alla distruzione sistematica degli ecosistemi. Quando l’organizzazione politica della società mette in atto misure severe di controllo e salvaguardia, il soggetto può vivere liberamente il proprio rapporto umano con l’ambiente traendo da esso autentici motivi di educazione. Questi si esplicano anzitutto nella fruizione del paesaggio, dei beni culturali e dei beni ambientali ivi presenti, attraverso l’uso critico e consapevole (e non piuttosto sconsiderato o alienante) del patrimonio naturale e artificiale in esso presente. f) Educazione e mass media: una pressoché illimitata rete di comunicazioni mediatiche sommerge il soggetto. In essa egli può trovare sia occasioni culturali ed educative sia percorsi contrassegnati da banalità inutili quanto sofisticate. Districarsi nelle maglie di tale rete, piuttosto che rifiutarla acriticamente, costituisce uno dei più complessi itinerari pedagogici. Tuttavia, i giornali, la radio, la televisione, i networks informatici, la fotografia, il cinema si istituiscono sempre più su alfabetizzazioni che non possono essere ignorate, ma alle quali occorre venire avvicinati in modo graduale e con il supporto di educatori, insegnanti, genitori responsabilmente attenti a che i soggetti soprattutto in età evolutiva possano trarre soltanto dei vantaggi, in termini di criticità e creatività ma anche di conoscenza e consapevolezza, dall’uso di tecnologie, strumenti di comunicazione, apparati di conservazione, progettazione, fruizione e trattamento informatizzato delle conoscenze. I differenti ambienti educativi presi in considerazione riassumono un patrimonio di teorie, pratiche ed esperienze che è parte integrante della cultura nelle società occidentali. Se in esse l’educazione non è intesa come un insieme di attività rivolte a condizionare il soggetto nella sua libera formazione di uomo, in ciascun ambiente in cui sarà posta in atto l’opera educativa verranno bandite tutte le azioni indirizzate a determinare il soggetto attraverso l’indottrinare, il modellare, il plasmare e ogni altra forma di dipendenza, subordinazione o influenza limitativa. Educare significa infatti porre un uomo nelle condizioni concrete per vivere la propria esperienza umana nel segno della libertà interiore ed esteriore, attraverso il progressivo potenziamento delle sue strutture cognitive, linguistiche e morali, attivando l’autocontrollo degli istinti e del carattere senza
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dover soffrire di deprivazioni psichiche, imparando ad accettare la propria e l’altrui «diversità» e cogliendo nella «differenza» tra gli uomini la bellezza della «plasticità» della vita. Occorre avere consapevolezza che l’educazione non sa correggere il destino biologico del soggetto, il quale può essere tuttavia aiutato nella sua crescita formativa. Inoltre, è necessario non ignorare che l’educazione è impossibilitata, da sola, a cambiare il destino socio-politico di qualsiasi società, sebbene il suo peso sia tale da influenzarne attivamente e positivamente le pratiche culturali, politiche, sociali e civili. Alla forte crisi del modello economico-politico-sociale moderno non si risponde con una accentuazione del razionalismo educativo, ma tentando di reimpostare costantemente ogni singola relazione educativa fortificandola in senso umano e valoriale, non trascurando la memoria del passato, articolando il progetto del futuro affinché il soggetto cresca nell’equilibrio tra cultura della ragione e cultura del sentimento, scienza e immaginario, laicità e religiosità, agire critico e intenzione responsabile. Così l’educazione diventa vita e la vita coincide, almeno in parte, con l’educazione. M. Gennari
II. STORIA DELL’EDUCAZIONE. – L’educazione prende storicamente avvio nel momento in cui l’uomo entra in una relazione con l’altro tale da generare formazione in entrambi. Risulta impossibile stabilire da quando questo si è verificato tra uomini venuti in contatto tra loro. Tuttavia, alcune condizioni sussistenti nella società arcaica permettono d’individuare la presenza dell’educazione nella trasmissione orale delle consuetudini e nell’apprendistato di abilità, tipici dei nuclei familiari o di gruppi sociali ristretti, nonché poi nella definizione di miti, riti e tabù vivificanti le tradizioni collettive. Un originale e primigenio apporto alla storia dell’educazione nel mondo occidentale è fornito dalle culture mesopotamiche e da quella egizia. Stanziati nella terra fra il Tigri e l’Eufrate, tra il 3000 e il 500 a. C., sumeri, assiri e babilonesi danno origine a una cultura mitopoietica, comprensiva di visioni cosmogoniche e panteistiche affidate alla tradizione orale. L’uso convenzionale, quasi esclusivamente commerciale, di segni cuneiformi e di immagini è rimesso agli scribi. Proprio lo scriba insieme al sacerdote, strettamente legati ai ceti dominanti, rappresentano i letterati di professio-
ne presenti in Egitto, in particolare tra il 1800 e il 525 a. C. Essi affrontano uno specifico percorso istruzionale ed educativo. Gli dei sono incommensurabilmente lontani dall’umanità, che subisce gli oscuri eventi della natura. Le arti della calligrafia e dell’ortografia dei geroglifici richiedono un’educazione fondata sull’esercizio e l’obbedienza, ma pur sempre rivolta alle esigenze della quotidianità. Con la nascita dell’alfabeto, quale insieme di ventiquattro segni che simbolizzano suoni, lo sviluppo degli strumenti di alfabetizzazione produce la prima sistematizzazione del pensiero, operata dai greci. Dall’VIII secolo a. C. la civiltà greca pone le fondamenta della cultura occidentale. L’attenzione all’educazione muta, producendosi anche una teoria che la concerne (con Platone, Isocrate, Aristotele). Pure il rapporto con le divinità cambia, poiché gli dei rappresentano le forze della natura, possiedono attributi umani, interagiscono con la vita della comunità sociale. L’economia, basata sull’agricoltura o sul commercio marittimo, differenzia, dal V secolo, lo sviluppo della cultura e dei comportamenti sociali nelle cittàstato greche: l’educazione nell’agreste Sparta è diversa da quella presente nell’Atene sempre più aperta ai traffici e agli scambi sul mare. Così, l’ideale del guerriero che difende la propria terra richiede un addestramento fisico che occupa parte dei processi educativi, tesi a rafforzare la virtù (ajrethv), propria dell’uomo libero che sa essere anzitutto politico. Vincere in combattimento e sopportare le fatiche costituiscono mete prioritarie per un’educazione che pone al centro i valori del coraggio, della fortezza, dell’obbedienza, della temperanza, della prudenza. Le medesime assiologie sono presenti anche là ove il commercio richiede pure capacità specifiche, quali contare e scrivere. Mentre la prima forma di educazione rimane tradizionalmente affidata alla famiglia, prima alla madre o alla nutrice, poi al padre, ai fratelli maggiori, a chi può insegnare al giovane il mestiere futuro, in Grecia si differenzia nettamente l’educazione successiva alla prima infanzia. Essa riguarda esclusivamente le famiglie dei ceti dominanti, nel cui ambito si muove, spesso straniero e servo, il pedagogo. Questi si occupa del bambino e della sua educazione, accompagnandolo a scuola e aiutandolo a ripetere le lezioni. Sorta tra il VI e il V secolo a. C., la scuola (dal greco scolhv, tempo libero da3229
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Educazione gli impegni del lavoro) accoglie solo uomini liberi e offre un’educazione ginnica, musaica e letteraria, atta a formare buoni cittadini. Insegnare a difendere la patria è uno degli obiettivi prioritari dell’educazione greca. L’educazione ginnica si lega alla musaica in quella «danza guerriera» o pirrica che addita ai più giovani l’arte della guerra. Gli esercizi atletici in armi preparano anche alle gare panelleniche che, dall’VIII secolo a. C., si svolgono a Olimpia e successivamente in altre città greche. I giochi olimpici, nel prevedere, anzitutto, la corsa, il combattimento in armi, la lotta, la guida dei carri, il lancio del disco, il tiro con l’arco, il salto, costituiscono un’occasione formativa non solo allo spirito agonistico, ma anche a quello religioso, essendo essi dedicati a una divinità e al suo culto. Il vincitore viene ritenuto un eroe, alla stregua di chi si distingue in battaglia. E in onore degli dei e degli eroi si partecipa ai cori tramandati dai padri, attraverso cui l’educazione musaica coinvolge tutti, dal punto di vista sia del canto sia della produzione musicale (in particolare, con la lira, la cetra, il flauto). Tramandare quanto la cultura ha elaborato nel tempo è compito dell’educazione, che rafforza la sua facoltà penetrativa mediante la ripetitività, anche a livello di lettura e scrittura. Le lettere dell’alfabeto hanno bisogno di un maestro specifico, il grammatista (da gravmma, carattere inciso), al quale si affianca il retore, che insegna l’arte di parlare in pubblico. Gli scritti di Omero, seguiti da quelli di Esiodo e di storici, lirici, filosofi, rappresentano un basilare punto di riferimento, soprattutto per l’educazione morale, culturale, religiosa e anche politica e storica del giovane. Dall’educazione letteraria, musaica, ginnica le donne non sono totalmente escluse; tuttavia, è loro riconosciuto il prioritario ruolo domestico di cura della casa e di educazione sia dei bambini più piccoli sia delle fanciulle. Pertanto, i luoghi dell’educazione in Grecia sono la famiglia, la scuola, il ginnasio e poi i giardini privati, in cui i filosofi radunano i propri allievi (esemplari sono peripato e stoà), e la biblioteca. La cultura dei greci influenza profondamente quella latina, a partire dalla metà del III secolo a. C. Fondata Roma nel 753 a. C., il popolo rude e bellicoso dei latini assorbe tradizioni e costumi dalle popolazioni con cui viene a contatto. In particolare, sono gli schiavi greci a contribuire in maniera determinante alla costituzione della cultura romana che pur conserva, 3230
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nelle fasi fiorenti del suo sviluppo, una propria originalità. Già nella considerazione della donna-madre è rintracciabile una maggiore attenzione rispetto ai greci proprio dal punto di vista pedagogico, poiché la cura e l’allevamento del bambino sono ritenuti primari momenti educativi, degni di massima attenzione e rispetto. L’auctoritas del pater familias e la sua severa disciplina sono tuttavia incontrovertibili. Al gioco è riservato uno spazio, così come i bambini sono chiamati a un’educativa partecipazione alle cerimonie religiose e civili. Il mos maiorum – insieme di usanze e abitudini che si tramandano – costituisce infatti un punto di riferimento basilare per il rispetto sia della legge, in cui sono statuiti diritti e doveri del cittadino, sia della patria potestas. A fare rispettare l’una e l’altra vengono chiamati anche la nutrice e il pedagogo che, soprattutto dal II secolo a. C., sono pedagogicamente presenti accanto ai più giovani. Questi poi, solitamente in spazi all’aperto, incontrano il maestro che si guadagna da vivere insegnando a leggere, scrivere, parlare e additando, seppur anche mediante punizioni corporali, quali siano i buoni costumi, i valori civili, politici, militari e quindi il rispetto dei genitori e degli dei (pietas), la dignità (gravitas), la lealtà (fides), la fermezza (firmitas) e il coraggio (virtus). Copiare testi, recitare a memoria, imparare le regole grammaticali, leggere gli autori stimolano, attraverso la commistione di nozioni di letteratura, musica, scienze naturali, matematica e geometria, logica, l’educazione dei giovani e la loro formazione, anzitutto politica. Tuttavia, non è sufficiente per i romani tale preparazione, poiché non può mancare l’attenzione all’educazione del corpo atto a combattere. La scuola delle armi o tirocinium esercita alla guerra, attraverso l’equitazione e il nuoto, la lotta, la corsa, il salto, il lancio del disco e del giavellotto, il pugilato. Gli stadi e le palestre, come pure le terme, diventano luoghi di incontro, confronto, gioco ed esercizio. Non tutti possono però frequentarli, poiché plebei e schiavi devono affrontare percorsi educativi assai differenti: a loro spetta l’apprendistato per osservazione e imitazione, tipico di quei ceti sociali che lavorano per altri e vengono educati, fin dall’infanzia, alla pratica di strumenti atti a produrre merce. Il declino di Roma e la nascita del cristianesimo segnano una svolta anche nell’ambito dell’educazione, svolta che diverrà decisiva
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particolarmente nel basso Medioevo. Nei primi secoli dopo Cristo è soprattutto il sincretismo della cultura greco-romana e di quella ebraico-cristiana a elaborare il fertile incontro e la successiva compresenza della filosofia greca con la fede cristiana. Le difficoltà di affermazione in cui versano le concezioni dell’anima, del corpo e dell’essere spirituale tipiche del cristianesimo, quindi i conflitti religiosi, contemporaneamente alla carenza di poteri politici e/o militari capaci di unificare i popoli, restituiscono un sistema di processi educativi frammentato, gestito da singoli, spesso in privato, ove la speculazione o lo spirito d’indagine propri dello studio sono sostituiti da pratiche di istruzione funzionali alle attività lavorative. Gli sforzi di dare forma sistematica alle dottrine cristiane da parte dei padri della chiesa non riguardano direttamente l’organizzazione dell’educazione, anche se il loro apporto in ambito pedagogico contribuirà a cambiare assiologicamente e teleologicamente i processi educativi. Nel VI secolo, in Occidente, sono i monasteri – sorti già dal IV secolo – gli unici centri di cultura nei quali confluisce il sapere, per essere conservato e tramandato attraverso l’interpretazione della parola di Cristo. Un ideale ascetico di educazione che s’impernia sul timor di Dio accompagna l’espressione più rilevante della formazione dell’uomo: la morale. La condotta cristiana si basa sulla ricerca della fede, ma riconosce al singolo il libero arbitrio. Per questo il giovane deve essere educato, anche nell’azione, ai valori insegnati da Gesù Cristo e abbandonare la tradizione ellenistico-romana quale espressione dell’idolatria pagana. L’unico maestro è il Cristo, raffigurato, mentre insegna alle folle, dall’iconografia, che si diffonde quale strumento educativo privilegiato per raggiungere ogni persona, in particolare gli analfabeti. Le scuole che Roma aveva voluto per tutti chiudono, lasciando il posto a quelle per pochi, di catechesi, nei monasteri; i testi mitologici o degli autori antichi vanno dimenticati; le manifestazioni dell’anfiteatro, nello stadio, nel circo scompaiono, insieme al valore attribuito a ginnastica e musica. Rimane il canto e si diffonde la muta praedicatio delle immagini, mentre le lettere dell’alfabeto sono appannaggio di pochi grammatici e filologi che si servono ancora, seppur interpretandoli cristianamente, degli autori latini, greci, ebrei, arabi. Le popolazioni barbariche che attraver-
Educazione sano l’antico impero romano portano con sé l’educazione ai giochi di guerra, all’equitazione, alla caccia. Soltanto l’impero carolingio registrerà una seppur breve rinascita culturale con una ormai desueta attenzione all’istruzione per tutti, seppur gestita dal clero. Al posto dei testi dei classici, si ricopiano e si illustrano con preziose miniature quelli degli evangelisti e dei padri della chiesa: inesorabilmente le forme letterarie, artistiche ed educative elaborate nel corso di tanti secoli cadono nell’oblio. Dopo il Mille e il superamento delle crisi demografiche e anche produttive, allo sviluppo economico si accompagna quello culturale. Ritorna così la forma d’istruzione pluriennale legata all’apprendistato nelle botteghe artigianali. Tra esse aprono progressivamente pure quelle dei maestri di scuola che, attraverso contratti notarili, stabiliscono contenuti, modalità, tempi, compensi economici relativi all’insegnamento e all’apprendimento. Conquistano nuovamente spazio le artes liberales del trivium e del quadrivium: con le prime tre o artes sermocinales (grammatica, retorica e dialettica) l’uomo elabora una struttura linguistico-letteraria, con le altre quattro o artes reales (aritmetica, geometria, astronomia e musica) si persegue la formazione scientifica. Le sette scienze liberali troveranno però il loro ambito espressivo privilegiato e completo soltanto nell’universitas studiorum. Ivi, dal XIII secolo, esse costituiscono un percorso obbligato e propedeutico agli studi specifici del diritto, della medicina e della teologia. I frequentanti sono soprattutto chierici e i docenti ecclesiastici, ma presto l’università si aprirà a tutti, donne comprese. Gli studi si rinnovano, anche quelli teologici, in particolare con la nascita di ordini religiosi (ad esempio, Domenicani e Francescani) che comprendono la necessità di una preparazione culturale al fine della predicazione della parola cristiana. Tali impulsi, uniti a quelli delle «corporazioni di arti e mestieri», producono un notevole sviluppo letterario e artistico a cui contribuiscono le scuole comunali e quelle monastiche, nonché le università, nutrendo processi educativi anche attenti all’elaborazione di cultura. La nascita delle letterature in volgare declama la perfusione dell’educazione letteraria e la lotta contro l’analfabetismo. La caduta dell’uso di chiedere ai vescovi la licentia docendi suggella il processo di laicizzazione del sapere, dell’istruzione, della cultura. 3231
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Educazione Tale passaggio è confermato ancor più dalla riscoperta del mondo antico i cui prodromi sono rintracciabili già nello studio del diritto, presente alla fondazione dell’università. Le humanae litterae acquistano valore, pur affiancandosi agli studi religiosi: la cultura medioevale cristiana si intreccia con quella classica, mentre il potere politico e quello religioso si saldano. Tra il Trecento e il Cinquecento proliferano le scuole che da private o ecclesiastiche diventano anche comunali e si rivolgono a laici attenti al commercio, alle attività artigianali e mercantili propri della città. Non sono più sufficienti le nozioni grammaticali legate al leggere e allo scrivere e neppure i contenuti teologici delle sacre scritture; nuove conoscenze – connesse, in particolare, con l’aritmetica e la geometria, la geografia, l’astronomia – acquisiscono spazio diversificando nel tempo, e sempre più nettamente, la cultura umanistica dalla cultura mercantile, il latino dal volgare, la lettura dei classici dall’esperienza pragmatica. Il nobile unisce l’amore per le armi e la caccia al gusto per le lettere: gli esercizi fisici per la cura del corpo non tolgono spazio alla musica, alla lettura, alla composizione di scritti atti a vivificare l’anima. Pur contrastata, la presenza femminile nella città quattro-cinquecentesca non è più limitata alle mura domestiche, ma si amplia, raggiungendo la monacazione o la cortigianeria quali posizioni di emancipazione anzitutto culturale. Intanto, l’invenzione dei caratteri a stampa permette una diffusione della cultura finora ignota, mentre la scoperta e la conquista di nuove terre contribuiscono allo sviluppo economico e politico che si lega al fervore culturale dell’umanesimo e del rinascimento. L’incremento delle università e la nascita delle accademie – già nel XV secolo, a opera di associazioni di «literati» e «dilettanti», a cui seguiranno le note accademie della Crusca (1583) e dei Lincei (1603) – incentivano non solo nuovi insegnamenti, studi e scoperte scientifiche, ma anche l’ampliarsi dell’enciclopedia dei saperi, lo spostamento in più sedi di docenti e studenti, una maggiore organizzazione istituzionale, il controllo politico esercitato sempre più spesso dal potere locale, nonché la diffusione di un pensiero pedagogico che, riflettendo sui processi educativi, elabora specifiche teorie rivolte ai diversi ceti sociali. Anche i poveri, e in particolare gli orfani e i bambini emarginati, i derelitti, i sofferenti richiamano l’attenzione 3232
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pedagogica di chi detiene il potere dell’istruzione. I nuovi ordini religiosi dei Somaschi e dei Gesuiti – sorti entrambi nella prima metà del Cinquecento – redigono programmi educativi che sottolineano l’importanza dell’apprendimento e della cultura, ma non per tutti. All’assistenza e alla beneficenza destinate agli strati poveri della popolazione non corrisponde l’intento di renderle culturalmente autonome. Soltanto le utopie di Moro, all’inizio del Cinquecento, o di Campanella, un secolo dopo, disegnano una comunità, ordinata politicamente e socialmente secondo il principio di uguaglianza, in cui all’educazione è riservato un ruolo preminente. Saranno soprattutto i Gesuiti a segnare la storia dell’educazione per almeno due secoli: la loro Ratio atque institutio studiorum, del 1586 – redatta a seguito dei decreti del Concilio di Trento (1545-64) – stilizza un’impostazione pedagogica che prevede contenuti di ordine umanistico (relativi a grammatica, umanesimo, retorica), scientifico (con logica, matematica e fisica, metafisica, etica e psicologia) e teologico (filosofia scolastica e teologia), accompagnati da precisi criteri didattici, metodologici e organizzativi (p. es. la suddivisione in classi secondo l’età e il profitto, la compilazione di registri, gli esami mensili e a fine anno). La disciplina, attraverso l’autorità che sviluppa conformismo, diventa il perno attorno al quale ruota l’educazione morale. I destinatari privilegiati sono i ceti dominanti della società – attraverso i quali si raggiunge il controllo politico della comunità. Anche nel Seicento, la discriminazione sociale si perpetua, rispecchiata dalle istituzioni preposte all’educazione: queste riservano una preparazione propedeutica all’attività professionale dell’età adulta, a seconda del ceto di appartenenza. Il diritto all’educazione continua ad essere determinato dalla nascita. Gli strati popolari nelle campagne ricevono l’educazione che si tramanda di padre in figlio, nelle città hanno la possibilità del lungo e faticoso tirocinio nelle botteghe artigianali. Nei paesi della Riforma protestante, però, l’istruzione popolare si sviluppa in maniera capillare: tutti devono poter liberamente interpretare le Scritture, quindi a ognuno è riconosciuto il diritto di apprendimento e acquisizione dei mezzi idonei per la loro comprensione. La chiesa cattolica riserva invece a pochi tale interpretazione: l’istruzione scolastica superiore è per
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coloro che sono destinati al sacerdozio, mentre ai ceti subalterni e alle masse analfabete spetta l’indottrinamento catechistico, perseguito mediante prediche morali e dogmi teologali. I nuovi ordini religiosi, dai Barnabiti agli Scolopi, organizzano così scholae laicales, distinte dalle scholae piae, mentre tra Seicento e Settecento nascono congregazioni di «suore maestre». Tuttavia, sono sempre i vescovi a esercitare il controllo culturale e la supervisione di università e istituzioni scolastiche, inserendovi p. es. come obbligatorio l’insegnamento della teologia o esautorando dal governo accademico le rappresentanze di studenti e docenti. Inoltre, i testi librari e ogni progresso scientifico sono inquisiti e vagliati secondo precisi criteri di concordanza con la Bibbia. La chiesa cattolica sviluppa la propria influenza anche attraverso una rete privata di istituzioni scolastiche a pagamento, di università e collegi, fino a quando si diffonde gradualmente, ormai nel Settecento e in tutta Europa, la convinzione che l’educazione sia compito dello stato. Nonostante sia massiccia la presenza di ecclesiastici tra gli insegnanti, e ancora per molto tempo lo sarà, la scuola tenta di laicizzarsi. Le riforme si susseguono. È sostenuto il carattere universale dell’istruzione pubblica, ma sono pure sottolineate le differenze tra chi si serve delle braccia e chi dei talenti, immediatamente riscontrabili nell’organizzazione di differenti scuole per gli uni e per gli altri. Vengono redatti nuovi libri di testo per ogni ordine di scuola, con la proposta di innovative metodologie didattiche. Mentre avanza l’abolizione definitiva delle corporazioni d’arte e mestieri, nelle scuole pubbliche entrano le prime forme d’istruzione tecnico-professionale, accanto agli insegnamenti della lingua e della letteratura, della storia profana o della geografia. Anche alle fanciulle povere, alla stregua delle nobili, è riservato uno spazio scolastico con l’elementare apprendimento delle capacità di leggere, scrivere e far di conto. Sarà però soltanto la rivoluzione francese a sancire paradigmi decisivi nella storia dell’educazione dell’Occidente. Mai prima della Rivoluzione Francese di fine Settecento erano emersi principi politici capaci di riconoscere agli uomini uguaglianza e libertà, anche sotto il profilo educativo. Lo stato è chiamato ora a garantire l’istruzione pubblica, gratuita, indipendente da ogni credo religioso, obbligatoria, laica. Tale presupposto
Educazione rende l’educazione e l’istruzione tramiti privilegiati dell’uguaglianza tra i cittadini, poiché si riconosce che l’uomo di qualsiasi ceto sociale ha bisogno di esse; le amministrazioni locali, in parte indipendenti dal governo centrale, sono chiamate a occuparsene. L’educazione cerca di comprendere elementi di tutte le conoscenze umane, proponendosi come letteraria e intellettuale, fisica e morale, nonché tecnica. Inoltre, ogni cittadino ha diritto a organizzare privatamente istituzioni educative, concorrendo così al progresso delle lettere, delle arti, delle scienze. L’educazione sembra profilarsi quale perno fondamentale per una democratica palingenesi sociale. Però, davanti al fondato rischio di perdere la sua plurisecolare egemonia, la chiesa eleva proteste e preoccupazioni per l’inevitabile corruzione delle anime infantili, avocando ancora a sé il potere di sorvegliare e controllare insegnanti e libri. Si giunge così al concordato del 1801, firmato da Napoleone, in cui la religione cattolica è riconosciuta religione di stato. Rivoluzionari e conservatori continuano a scontrarsi, mentre speranze e delusioni si alternano a disorientamento e incertezza. Cioò nonostante, alcuni paradigmi acquisiscono un’attenzione che riaffiorerà nel tempo: l’educazione è un «Politikum» – come asserisce Maria Teresa d’Austria – spettante allo stato, che s’impegna per l’istruzione primaria di tutti; la formazione degli insegnanti delle scuole superiori va sollecitata, pur rimanendo subordinata all’autorità statale; l’insegnamento è libero e pubblico; i giovani vanno educati all’amore per la patria, all’obbedienza alle leggi, al rispetto dei princìpi della religione, senza bisogno di ricorrere alle punizioni corporali. Nel fervore rivoluzionario che investe la vita pubblica, tra un diffuso interesse per la politica raggiunto tramite la stampa popolare, feste nazionali, nuove istituzioni scientifiche, vengono stilati innovativi progetti educativi, scolastici e didattici. Questi non riescono però ad essere attuati, se non in minima parte: caduto Bonaparte, l’epoca della restaurazione inizia subito la sua azione disgregatrice nei confronti delle proposte appena elaborate: l’intento conservativo sopravviene quello rivoluzionario. Vengono reintegrati tanto i deliberati del Concilio di Trento quanto l’ordine dei Gesuiti. L’educazione, stretta fra il sillabario e il catechismo, torna alle dinamiche dell’indottrinamento e del moralismo pedagogico, anche se 3233
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Educazione forme di istruzione popolare, pur finalizzate al mantenimento dell’ordine sociale, politico, religioso, si diffondono sempre più capillarmente, raggiungendo talvolta le campagne. Tornano le scuole regionali a pagamento, controllate dai vescovi, mentre le parrocchie gestiscono quelle gratuite, rette dalla carità dei privati, per i ceti sociali più deboli. Gli insegnanti sono ecclesiastici; le punizioni corporali paiono un mezzo didattico efficace; licei e scuole per insegnanti sono dimenticati; la censura sui libri è severa. Ancora il ceto sociale determina il percorso educativo e formativo delle prime età, dagli orfanotrofi per gli «esposti» o diseredati alle case di correzione per i «giovani traviati» o disadattati, dallo sfruttamento nei campi a quello nelle botteghe artigianali o delle prime officine industriali. Tuttavia, anche chi riesce a frequentare la scuola non smette di soffrire, tra rigidi regolamenti e severe pratiche punitive. Alla donna sono riservate le «faccenduzze di casa»: un ruolo che rimane distinto dal maschile, escluso quasi totalmente dai percorsi educativi istituzionali e a cui si contrappongono gli sforzi delle «suore di carità», p. es., dedite all’educazione delle fanciulle. Diversi ordini religiosi mostrano sensibilità verso l’educazione, affiancati da filantropi che, per singola iniziativa privata, si dedicano ora ai figli dei contadini ora all’infanzia abbandonata. Si tratta, però, di forme assistenziali, piuttosto che di formazione culturale capace di stimolare cambiamenti sociali. Durante l’Ottocento lo sviluppo degli opifici, delle industrie manifatturiere, delle fabbriche meccaniche produce, in breve tempo, esigenze che coinvolgono anche le istituzioni educative. Gli «asili infantili» nascono in Inghilterra a inizio secolo per custodire i figli degli operai mentre lavorano. Si diffondono quindi in Europa, ora osteggiati ora incentivati, ammantandosi solo raramente di un significato pedagogico, comunque non scevro da condizionamenti sociali. Intanto, si sviluppano pure le «scuole d’arti e mestiere», tese a fornire un’istruzione professionale agli artigiani «conveniente al loro stato». L’ordine sociale è garantito da entrambe le istituzioni. E pure le nascenti società di mutuo soccorso, sorte per iniziativa degli operai, volendo promuovere istruzione, moralità e benessere, sono chiamate a cooperare al bene pubblico. La nuova metodologia didattica del «mutuo insegnamento» – con gli scolari più grandi che insegnano ai più 3234
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piccoli, sotto la supervisione del maestro – tende a controllare e regolamentare, tradotta in un’organizzazione meccanica e una disciplina di tipo militare. Dalla seconda metà dell’Ottocento l’ordinamento politico dei diversi stati differenzia non poco i relativi assetti educativi. La proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 e il raggiungimento della sua definitiva unità nel 1870 segnano una svolta decisiva, poiché lo stato, avocando l’istruzione a sé, mette in atto un processo di diffusione e unificazione della scuola. Questa si sviluppa, pur lentamente, in ogni ordine e grado, sia ampliando progressivamente la fascia della popolazione scolastica sia aprendo nuove sedi anche accademiche. Associazioni e sindacati dei lavoratori, alla stregua degli istituti di assistenza e beneficenza cattolici, promuovono l’educazione scolastica primaria raggiungendo i ceti più svantaggiati e offrendo loro scuole serali e domenicali. Soltanto gli asili infantili rimangono sotto la completa giurisdizione della chiesa, poiché questa comincia a perdere con gradualità, ma inesorabilmente, il controllo plurisecolare sulle istituzioni educative sia a causa della soppressione di enti ecclesiastici e corporazioni religiose sia in nome di una concezione laica dell’insegnamento. Il cattolicesimo è comunque riconosciuto religione di stato e le lezioni ad esso inerenti rimangono obbligatorie in tutte le scuole, salva la facoltà di richiesta d’esonero. L’educazione fino ai sei anni d’età non viene presa in considerazione dalle leggi statali («Casati» del 1859 e «Coppino» del 1877, tra le decisive): è tacitamente demandata alle famiglie, nonché alla chiesa, che però rifiuta e ostacola la diffusione dei «giardini d’infanzia» fröbeliani, sorretti dal porre al centro dell’educazione dei bambini l’attività di gioco. Per chi ha compiuto sei anni d’età, prima sono i comuni chiamati ad aprire scuole idonee con classi differenti per maschi e femmine (1859), poi sono i medesimi bambini convocati all’obbligo di frequenza della scuola elementare del comune (1877), salvaguardato da provveditori e ispettori del ministro degli interni. Soltanto all’inizio del Novecento (1904) l’obbligo sale dai nove anni ai dodici. Quanto ai contenuti educativi essi paiono distanti dalle esperienze di vita dei bambini, spesso già costretti a lavorare: la grammatica e gli esercizi di calligrafia, accompagnati da metodi repressivi, non in-
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centivano la frequenza scolastica in ambienti sovraffollati e malsani. L’educazione fisica conquista uno spazio ormai perso da tempo, mentre vengono introdotte le «prime nozioni di doveri dell’uomo e del cittadino». Tutti sembrano avere diritto all’educazione, ma immediatamente dopo la frequenza della scuola elementare ancora una volta il ceto sociale incide sui percorsi educativi e lavorativi. Scuole e istituti statali, solo talvolta triennali, sorgono per preparare al lavoro produttivo: l’istruzione tecnica si profila come subalterna a quella superiore, priva di una matrice culturale e volta all’apprendistato, pur nei diversi ambiti professionali, dall’industriale all’artistico, dall’artigianale all’agricolo. I ceti dominanti afferiscono invece al quinquennale ginnasio, seguito dai tre anni di liceo, dove l’educazione classica – letteraria e filosofica anzitutto, arricchite da discipline scientifiche – prepara all’università. Alle tradizionali facoltà di Giurisprudenza, Medicina, Lettere e Scienze non si affianca più quella teologica, soppressa (1873) per carenza di studenti. All’inizio del Novecento, mentre si rende vivace la ricerca di un possibile equilibrio politico tra borghesia, chiesa e sindacati dei lavoratori, nascono le associazioni per insegnanti, si rafforzano le lotte contro l’analfabetismo e si diffonde l’istruzione elementare – regolamentata dai nuovi programmi del 1905 –, si organizza il coinvolgimento del volontariato nelle sedi educative, s’introducono nella scuola nuove visioni pedagogiche. L’educando riceve maggiore rispetto e attenzione, anche se il processo d’inculturazione rimane affidato a metodi autoritari e volti al conformismo. I bambini anormali o minorati sono studiati da una pedagogia che vuole recuperarli, ponendo soprattutto attenzione alle loro specifiche esigenze, così come l’età infantile viene investita da un interesse che ne evidenzia e differenzia le peculiarità. Anche alla donna – che continua a costituire la minoranza rispetto alla popolazione alfabetizzata – sono riconosciute caratteristiche peculiari, che però portano soltanto a riservarle professioni socialmente secondarie, quali la maestra d’asilo, l’insegnante nella scuola elementare femminile, la sarta, la cuoca, la stiratrice, l’infermiera, fino alla segretaria, la dattilografa, la telefonista. Tuttavia, i processi educativi del bambino e della donna, ormai istituzionalmente legittimati, cominciano a segnalare le prime forme di emancipazio-
Educazione ne da secoli che avevano socialmente estromesso e sfruttato queste fasce di popolazione più deboli. Iniziative di assistenza e beneficenza si dispiegano in loro favore, raggiungendo zone depresse, orfani, poveri; organizzazioni infantili e giovanili – ispirandosi agli scouts inglesi – sviluppano pratiche educative extrascolastiche, volte alla vita nella natura, alla fratellanza, alla padronanza di sé. Con lo scoppio della prima guerra mondiale i processi in corso subiscono però un drastico rallentamento. Gli anni postbellici registrano la diffusione di innovativi principi pedagogici in molti paesi: dall’interrelazione fra cultura generale e preparazione professionale all’insegnamento religioso non confessionale, dall’attenzione all’esperienza dell’alunno al lavoro didattico individuale o di gruppo. In Italia è il fascismo a dettare, attraverso proprie leggi – su tutte la riforma Gentile del 1923 –, e imporre – tramite il regime dittatoriale – idee, programmi, metodi educativi. Secondo dichiarati intenti politici, che prevedono anche una riduzione degli atenei, la popolazione scolastica diminuisce rapidamente; alla discriminazione legata al sesso – p. es. alle donne non è permesso insegnare nei licei – si affianca quella di classe: l’educazione connessa con l’istruzione e la cultura non è prevista per tutti, mentre la selezione premia anzitutto i ceti benestanti. L’insegnamento della religione cattolica torna – dopo il Concordato del 1929 – obbligatoria in tutte le scuole: non è più a scelta, essendo riconosciuta come «la sola religione dello stato italiano». La scuola è chiamata a ispirarsi alle «idealità del fascismo»; per questo essa dev’essere bonificata: il controllo dell’editoria scolastica e della letteratura per l’infanzia si accompagna al perseguimento della tradizionale cultura umanistico-letteraria, insieme all’esaltazione dell’amore per la patria, alla preparazione ginnica a matrice militarista, all’istituzione di organizzazioni giovanili atte a formare la «coscienza fascista». Il percorso delle scuole tecnico-professionali, frequentate dopo le elementari e alle quali è precluso l’accesso all’università, non è ritenuto né culturale né educativo, tanto da non dipendere dal ministero dell’istruzione; questo fino a quando (nel 1929) il nuovo ministero dell’educazione nazionale ne unifica i diversi tipi – «classi integrative», scuola «complementare», istituti industriali, agrari, di scienze economiche e 3235
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Educazione commerciali, professionali femminili – in un’unica scuola di avviamento al lavoro. La «Carta della scuola», trasformata in legge nel 1940, giunge a una «scuola media unica» che fa proseguire gli studi fino ai 14 anni soltanto per chi ha scelto alcune scuole (p. es. liceo classico o istituto magistrale), senza però illudere la «gioventù di spostare la propria condizione sociale» e con l’esclusione degli ebrei dal diritto all’educazione istituzionale. Ma ormai la seconda guerra mondiale ha avuto inizio, con non pochi episodi di resistenza al nazifascismo da parte di studenti e scuole. La massiccia ricostruzione post-bellica riguarda anche gli edifici preposti all’educazione, ma l’impostazione pedagogica dei percorsi educativi non viene rinnovata in maniera altrettanto decisa. Mentre il mondo si divide tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica, in Italia riemerge il tradizionale conflitto tra cattolici e laici sulla libertà d’insegnamento, la scuola privata, l’istruzione obbligatoria. Riconosciuto costituzionalmente, nel 1948, il dovere dello stato di organizzare scuole atte a formare culturalmente e politicamente soggetti responsabili e autonomi, e sottolineato il diritto all’educazione da parte di tutti i cittadini, sono riconfermate le scuole di ogni ordine e grado già presenti, così come si perpetuano discipline, programmi, metodi, solo in parte defascistizzati. Intanto, riprendono le loro attività educative e animative le organizzazioni degli «esploratori» laici e cattolici, mentre si sviluppano le «repubbliche dei ragazzi» – rette dall’autogoverno dei giovani partecipanti, intenti a interpretare la vita sociale e proporne cambiamenti non secondari – e altre iniziative di «pedagogia attiva» a differente matrice politica. L’alfabetizzazione raggiunge, seppur con gradualità, le zone maggiormente depresse del sud, mentre diventa legge, nel 1955, la revisione dei programmi della scuola elementare. Una maggiore attenzione al bambino e un carattere meno nozionistico degli studi primari non eliminano però l’autoritarismo dell’insegnante né l’ispirazione confessionale. Un passaggio epocale avviene nel 1962, con la legge che statuisce la scuola media unica: i differenti indirizzi post elementari vengono unificati in un unico corso, uguale per tutti, di tre anni, in cui rimane soltanto un latino facoltativo, ancora discriminante per la scelta degli studi successivi. La seguente legislazione del 1977 eliminerà il latino, dando maggior spazio 3236
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alle discipline scientifiche e inserendo l’«educazione artistica», l’«educazione musicale», l’«educazione tecnica» accanto all’«educazione fisica» al fine del conseguimento di una formazione maggiormente armonica e completa. Intanto, ancora negli anni sessanta si dibatte intorno alla scuola materna, che viene istituzionalmente statalizzata e regolamentata con la legge del 1968, mentre a quella privata è riconosciuto comunque un finanziamento. Il bambino è seguito fin dai primi mesi di vita. L’attività ludica diventa il perno intorno a cui fare ruotare il percorso educativo e formativo dell’infanzia. Convegni, dibattiti, commissioni di studio e disegni di legge si susseguono circa tutti gli ordini di scuola, mentre esplode, improvvisa e imprevista, una diffusa contestazione studentesca. È il 1968: si lotta per una democrazia scolastica e si protesta contro i percorsi educativi gestiti dallo stato che riproducono le differenze di classe proponendo, da una parte, una cultura umanistica desueta e, dall’altra, una cultura industrialistica strumentale al potere economico e politico. I risultati non sono però immediati. Più efficace sembra la successiva contestazione operaia del 1969 che ottiene agevolazioni, legate alle «150 ore», affinché tutti i lavoratori dipendenti possano frequentare, fuori del luogo di lavoro, corsi atti a migliorare la loro preparazione culturale o/e professionale. È la prima volta che si riconosce questo diritto al lavoratore, precedentemente obbligato a seguire l’istruzione tecnica impartita dall’imprenditore durante il lavoro nell’azienda e utile a qualificarlo solo professionalmente, ora libero di frequentare il percorso educativo a lui più congeniale. Ancora la fine degli anni sessanta registra la riforma dell’esame di stato nelle scuole superiori, nonché soprattutto la liberalizzazione dell’accesso all’università, per il cui tramite chiunque abbia conseguito il diploma di scuola superiore può iscriversi a qualsiasi corso di laurea, selezionando quindi liberamente l’indirizzo dei propri studi a prescindere dalle scelte compiute alla fine della scuola dell’obbligo. Dagli anni settanta si susseguono l’originale elaborazione di teorie pedagogiche, alcuni decreti che istituiscono programmi didattici atti a mutare nella scuola prassi educative consolidate, l’individuazione di ambienti e contesti educativi prima trascurati. Così, si istituzionalizza il «tempo pieno» e si scelgono le schede
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di valutazione con giudizi articolati al posto dei voti, ma soprattutto si tenta di «realizzare la partecipazione nella gestione sociale della scuola» (come invitano a fare i Decreti Delegati del 1974) da parte di tutti, docenti e allievi, familiari e personale direttivo, nonché comunità locali: i processi educativi non coinvolgono più soltanto gli insegnanti. E mentre la scuola diventa l’istituzione educativa a cui le famiglie demandano sempre più frequentemente l’educazione dei giovani, si sottolinea la rilevanza di un «processo unitario di sviluppo della formazione»: l’idea della «continuità educativa» coinvolge i primi tre ordini di scuola – materna, elementare, media –, chiamati a porre in atto «forme di raccordo pedagogico». Gli anni ottanta si aprono con il riassetto della docenza universitaria, ma ciò ha soltanto un risvolto amministrativo. Gli atenei crescono gradualmente, garantendo la frequenza anche agli stranieri e anzi incentivando sempre di più negli anni gli scambi con altri paesi. Gli stranieri s’inseriscono nei diversi contesti educativi, alla stregua dei portatori di handicap, dei disabili, dei socialmente disadattati o culturalmente svantaggiati, ai quali la Costituzione ha attribuito il «diritto all’ educazione», gli anni settanta il diritto all’inserimento «nelle classi normali di scuola pubblica» prevedendo «insegnanti specializzati», gli anni novanta la totale integrazione con la partecipazione progettuale e decisionale dell’«insegnante di sostegno» nei consigli di classe e di interclasse. Inoltre, tra le categorie ormai non più escluse dai processi educativi si annoverano quelle dei soggetti in situazione di atipicità sociale, quali i ricoverati in ospedale, i reclusi nelle carceri, i minori nelle comunità, i bambini immigrati e quelli nomadi. All’orientamento cognitivistico impresso alla scuola elementare a metà degli anni ottanta, insieme all’introduzione delle due discipline della seconda lingua e degli «studi sociali», segue, all’inizio degli anni novanta, la definitiva eliminazione del maestro unico, sostituito dall’insegnamento modulare, per ambiti disciplinari. Anche la scuola materna viene parzialmente riformata, mentre si diffondono nell’università i piani di studio obbligatori. L’educazione sembra sempre più attraversata da normative, sistemi di valutazione continui, sperimentazioni che cercano nuove possibilità di organizzazione dei curricoli. La preparazione culturale e pedagogica delle figure profes-
Educazione sionali che si occupano di educazione transita in diversi corsi di laurea accademici, fintanto che esse si moltiplicano anche nella loro denominazione. L’extrascolastico si sviluppa in maniera massiccia, così come ambienti educativi diventano i luoghi dell’arte, della storia, della scienza e si sviluppano percorsi di educazione ambientale, alla salute, alla pace, prima ignorati. Tuttavia, nel tempo in cui l’istituzione accademica conquista la propria autonomia e muta i curricoli di studio, riducendoli a tre anni e prevedendo una specializzazione di due, nonché gli scambi interculturali con altri paesi sono più facili e frequenti e il diploma di laurea diventa quasi un passaggio obbligato per accedere più velocemente al mondo del lavoro, si nota un analfabetismo di ritorno e una diminuzione dell’abitudine alla lettura che non riescono a contrastare la potente forza, in gran parte diseducativa, dei mass-media, televisivi e telematici in particolare. La logica industriale, tipicamente moderna, travolge i mondi dell’educazione. Ogni ambiente educativo sembra predisporsi a tramutarsi in un’azienda, retta da manager interessati soltanto al profitto economico. La scuola si nutre di crediti scolastici, l’università di crediti formativi: il processo educativo è ridotto al computo preciso di tabelle numeriche. L’autonomia locale, attribuita legislativamente, non pare in grado di contrastare le spinte del potere politico e di quello economico, affatto incuranti non soltanto di che cosa sia l’educazione, ma soprattutto di che cosa produca un’educazione basata su criteri istruttivi, apprenditivi, specializzanti, e non umanamente formativi. A. Kaiser BIBL.: I. IL CONCETTO DI EDUCAZIONE. – L. BORGHI, L'educazione e i suoi problemi, Firenze 1953; L. MILANI, Lettera a una professoressa, Firenze 1967; A. CAPITINI, Educazione aperta, Firenze 1967-68, 2 voll.; J. BRUNER, The Relevance of Education, New York 1971; A. BROCCOLI, Ideologia e educazione, Firenze 1974; R. MASSA, La scienza pedagogica, Firenze 1975; S. DE GIACINTO, Educazione come sistema, Brescia 1977; W. BREZINKA, Metatheorie der Erziehung, München 1978; B. ROSSI, Teoria e azione educativa, Siena 1983; M. GENNARI, Interpretare l'educazione, Brescia 1992; G. MINICHIELLO, Il mondo interpretato. Educazione e teoria della conoscenza, Brescia 1995; F. RAVAGLIOLI (a cura di), Educazione occidentale, Roma 1995, 2 voll.; F. CAMBI, Mente e affetti nell'educazione contemporanea, Roma 1996; R. LAPORTA, L’assoluto pedagogico. Saggio sulla libertà in educazione, Firenze 1996; G. ACONE, Antropologia
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Educazione dell'educazione, Brescia 1997; A. KAISER, Gnoseologia dell'educazione, Brescia 1998. II. STORIA DELL’EDUCAZIONE. – W. BOYD, The History of Western Education, London 1947, tr. it. di L. Picone, Storia dell’educazione occidentale, Roma 1959; R. ALT, Bilderatlas zur Schul- und Erziehungsgeschichte, Berlin 1960, 2 voll.; J. BOWEN, A History of Western Education, London 1972, tr. it. di G.A. De Toni, Storia dell’educazione occidentale, Milano 1979, 3 voll.; AA.VV., Nuove questioni di storia della pedagogia, Brescia 1977, 3 voll.; G. MIALARET - J. VIAL (a cura di), Histoire mondiale de l’éducation, Paris 1981, tr. it. a cura di G. Giugni e A. Pieretti, Storia mondiale dell’educazione, Roma 1986, 4 voll.; M.A. MANACORDA, Storia dell’educazione dall’antichità ad oggi, Torino 1983; M.A. MANACORDA, Storia illustrata dell’educazione. Dall’antico Egitto ai giorni nostri, Firenze 1992; E. BECCHI, I bambini nella storia, Roma-Bari 1994; F. CAMBI, Storia della pedagogia, Roma-Bari 1995; E. BECCHI - D. JULIA (a cura di), Storia dell’infanzia, Roma-Bari 1996, 2 voll. ➨ ATENE; BARNABITI; CITTÀ EDUCANTE; CRISTIANESIMO; CRITICA PEDAGOGICA; DIDATTICA; ETÀ DELLA VITA; EVENTO EDUCATIVO; FORMAZIONE; GESUITI; GINNASIO; PEDAGOGIA; SCOLOPI; SPARTA; TEORIE PEDAGOGICHE.
EDUCAZIONE, ERMENEUTICA DELLA (hermeEducazione neutics of education; Hermeneutik der Erziehung; herméneutique de l’éducation; ermenéutica de la educación). – Scienza dell’educazione, che nasce dal reciproco innesto della pedagogia nell’ermeneutica e dell’ermeneutica nella pedagogia. Quest’area disciplinare si è sviluppata soprattutto negli anni novanta del Novecento, quando la pedagogia ha rinvenuto nelle scienze dell’interpretazione (prime tra tutte, la semiotica e l’ermeneutica) proficui interlocutori al fine di elaborare ricerche originali circa i testi educativi. Quanto conchiude ogni evento, fatto, atto, che sia connotabile come «educativo» o «formativo», è divenuto possibile oggetto di studio da parte dell’ermeneutica dell’educazione. Questa utilizza la teoria e la pratica dell’interpretazione per conseguire processi di costruzione, disvelamento, chiarificazione, nonché problematizzazione dei significati pedagogici relativi ai testi e agli eventi educativi di cui persegue la conoscenza. Lontana dall’osservazione empirica, dall’analisi sperimentale e dalla spiegazione scientifica, l’ermeneutica dell’educazione non si propone di formulare leggi generali che denotino la ricorrenza o la costanza fenomenica delle esperienze educative, bensì è interessata alla 3238
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singolarità di ogni evento, vissuto, pensato e assunto come insieme di atti verbali, paraverbali e non verbali a matrice educativa. La specificità di ciascun testo è data tanto dalla sua configurazione originaria e storica quanto dalle «dimensioni simboliche, esistenziali e spirituali che si affrancano dai sensi più letterali e profani» (M. Gennari, Interpretare l’educazione. Pedagogia, semiotica, ermeneutica, Brescia 1992, p. 189) e ne fanno emergere la peculiarità irripetibile. La cultura educativa e la tradizione educativa si inseriscono nel contesto interpretativo, poiché per l’ermeneutica dell’educazione la storia si delinea quale elemento fondamentale, se non decisivo, rispetto al costituirsi e allo svilupparsi dei rapporti educativi e dei processi formativi. L’apertura al contenuto complessivo del testo educativo comporta la capacità di porsi in ascolto davanti ad esso, ai soggetti e alle implicazioni storico-ontologiche di cui sono latori. Il presupposto dell’interpretazione ermeneutica in pedagogia è quindi la comprensione poiché, se l’«interpretazione non consiste nell’assunzione del compreso, ma nella elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione» (M. Heidegger, Sein und Zeit, Halle 1927, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Milano 1953, p. 189), la costruzione dei significati pedagogici racchiusi nel testo educativo rinnoverà costantemente il processo conoscitivo proiettato sul testo medesimo. Si costituisce così un continuo gioco di rinvii che problematizzano l’interpretazione e vivificano quella circolarità ermeneutica capace di connettere il soggetto con l’oggetto, il testo con la storia, la parte con il tutto, l’autore con il lettore, la lingua con il linguaggio. Conoscere un evento educativo vuol dire tentare di svelarne la verità, costruendolo o decostruendolo. L’interpretazione ermeneuticopedagogica costruisce i significati di un testo, ma può anche ricondurre un testo alle sue strutture originarie ed elementari, sia per eliminare strati di senso ovvi e calcificati sia per rinvenire significati inediti. Costruzione e decostruzione dei significati, con la loro ricerca della verità, non possono mai essere considerate concluse, date l’incertezza e l’ambivalenza, se non l’ambiguità, appartenenti ai rapporti educativi e ai processi formativi. Per questo, prudenza e ponderatezza, criticità e invenzione rappresentano qualità proprie dell’interprete che opera in ambito pedagogico. Consapevole
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Educazione
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dell’impossibilità di una neutralità o di una obiettività interpretativa, egli è chiamato a non trascurare l’inevitabile presenza della sua soggettività in ogni azione interpretativa. Spontaneamente si verificano fraintendimenti rispetto ai significati del testo, costituendo essi le condizioni iniziali dei processi ermeneuticopedagogici. Nei loro confronti l’interprete è chiamato a porre in atto ulteriori sforzi che gli permettano di conseguire significati chiarificatori. Inoltre, personali abitudini mentali, così come pregiudizi o precognizioni imposte dal senso comune, possono condizionare in maniera decisiva l’interpretazione, a meno che l’interprete non li riconosca e non ne assuma adeguata consapevolezza. Una tale «coscienza ermeneuticamente educata» (H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode: Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen 1960, tr. it. a cura di G. Vattimo, Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica, Milano 1994, p. 316) non esclude che ogni soggetto interpreti il medesimo evento educativo operando mediante differenti modalità e conseguendo esiti diversi. I significati pedagogici possono però convergere o sovrapporsi, pur lasciando intatta la possibilità che ciascun interprete possiede: conoscere la propria storia e l’uomo che egli è, per il tramite della partecipazione tanto prassico-educativa quanto teorico-pedagogica al testo di cui tenta di costruire i significati mediante l’approccio dell’ermeneutica dell’educazione. A. Kaiser BIBL.: L. AGNELLO, Ermeneutica e pedagogia, in «Pedagogia e vita», 2 (1982-83), pp. 133-138; F. CAMBI, Il congegno del discorso pedagogico. Metateoria ermeneutica e modernità, Bologna 1986; P. MALAVASI, Tra ermeneutica e pedagogia, Firenze 1992; G. SCHUP-HIRSCH, Hermeneutische Pädagogik, Frankfurt am Main 1994; F. CAMBI - E. FRAUENFELDER (a cura di), La formazione. Studi di pedagogia critica, Milano 1994; U. BOELHAUVE, Hermeneutische Pädagogik: Die wissenschaftstheoretische Grundlegung der pädagogischen Theorie Otto Friedrich Bollnows im Kontext seiner Philosophie, Aachen 1995; M. MUZI - A. PIROMALLO GAMBARDELLA (a cura di), Prospettive ermeneutiche in pedagogia, Milano 1995; C. XODO CEGOLON, La pedagogia come ermeneutica dell’evento educativo, in G. VICO (a cura di), Teorie pedagogiche e dimensioni professionali, Brescia 1997, pp. 103-149; G. MASSARO, L’educazione all’interpretare e al comprendere nella prospettiva ermeneutica, in G. MASSARO (a cura di), Orientamenti pedagogici del XX secolo, Bari 1998, pp. 181-207; A. MARIANI, La decostruzione e il discorso pedagogico. Saggio su
Derrida, Pisa 2000; J. HOPFNER, Schleiermacher in der Pädagogik, Würzburg 2001. ➨ DECOSTRUZIONE; EDUCAZIONE; ERMENEUTICA; EVENTO EDUCATIVO; FORMAZIONE; EDUCAZIONE, SCIENZE DELLA; EDUCAZIONE, SEMIOTICA DELLA.
EDUCAZIONE, Educazione
FILOSOFIA DELLA (Philosophy of Education; Philosophie der Erziehung; philosophie de l’éducation; filosofía de la educación). – A lungo, in Occidente, la filosofia è stata la più rigorosa forma di conoscenza universalmente legittimata. È nel cuore della modernità che la filosofia dà origine alla sua filiazione teoricosperimentale, che andrà sotto il nome di teorizzazione scientifica. Dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo in poi, teorizzazione filosofica e scienze della natura (scienze fisiche, scienze esatte, scienze sperimentali) tendono a diversificare e a divaricare i loro interessi e il loro ambito di riferimento. È difficile dire in breve cos’è la filosofia. A volere richiamare rapidissimamente la posizione del celebre filosofo Benedetto Croce, quando non si consideri il termine in senso strettamente tecnico, ogni uomo a suo modo è filosofo, in quanto, diceva il filosofo napoletano, titolare di un personale pensiero e di una sua visione delle cose. Ma qui interessa il senso tecnico del termine filosofia così come è stato pensato ed elaborato dalla lunga tradizione occidentale. E in questo secondo significato la filosofia si può definire come l’atteggiamento di meraviglia aperta alla conoscenza dell’essere, così come si deduce dalla Metafisica di Aristotele. Essa è conoscenza e, insieme, indicazione di salvezza, tentativo di conoscere e di evocare l’essere in senso universale, al di là della superficie e dell’apparenza. In quanto tale essa è naturaliter metafisica, ontoteologica, religiosa, nel senso ulteriore per il quale in uno sguardo totale ritiene possibile comprendere il tutto. Dal secolo XVII in poi, dal suo grande tronco diparte il ramo della conoscenza scientifica, fisica, sperimentale, tecnologica e tecnica. In Occidente la razionalità scientifica, cui siamo abituati e di cui oggi vediamo il trionfo, è figlia della razionalità filosofica. Essa è razionalità filosofica separata dalla sua forma finalistica, etica, e, con l’avanzare della modernità, specializzata in conoscenza, nel weberiano atteggiamento afinalistico e disincantato. Hanno così inizio due processi nella grande storia del pensiero occidentale: quello di divaricazione del pensiero filosofico inteso come
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Educazione razionalità inerente anche all’essere, al valore e al senso; e quello del dipartirsi dal grande albero della filosofia occidentale del ramo della conoscenza rivolta programmaticamente a una sorta di comprensione del mondo e dell’uomo secondo criteri che non implicano coefficienti finalistici, valoriali e di senso. E, allora, in conseguenza di questo secondo processo, la filosofia diviene una rete di filosofie di, come, per stare dentro la metafora finora adottata, si dipartissero dal grande tronco una serie di rami, da quello appena ricordato della razionalità tecno-scientifica a quelli che configurano l’esplosione delle cosiddette scienze umane. Quest’ultimo sviluppo configura una sorta di ulteriore dislocazione dei discorsi ragionati (e ricorrentemente integrati da controlli empirici e/o sperimentali) sull’uomo, a cui si applicano le metodologie di osservazione, di produzione di ipotesi e congetture, di riscontri e tentativi di ottenere risultati verificati, precedentemente applicati alla natura fisica e biologica. Si tratta di una seconda rivoluzione scientifica (teorica, epistemologica) dopo quella del sec. XVII, collocabile all’incirca tra la seconda metà del XIX secolo e tutto il XX, che estende all’uomo e alla sua dimensione quanto Galilei, Newton, Cartesio, Bacone avevano pensato di estendere alla costruzione della fisica e della scienza moderne. Ne consegue che la filosofia finisce per oscillare tra il suo riservarsi alcuni campi e linguaggi tecnicamente specifici e il suo articolarsi (fino, talora, a frantumarsi) in una serie di filosofie di, tra le quali la filosofia dell’educazione (accanto alla filosofia della scienza, a quella della politica, della storia, dell’arte, della religione, della psicologia e via di seguito). Si comprende che le filosofie di sono, esse stesse, pur sempre tentativi di allungare «sguardi conoscitivi» che hanno comunque a che fare con l’essere, il valore, il senso e il fine; e, anche quando cercano di cogliere rigorosamente parti specifiche della realtà, la riguardano e ne riflettono la profondità dalla specifica angolazione della totalità. Nel caso della filosofia dell’educazione, la cosa è ancora più evidente. Essendo l’educazione un referente totale, nel suo essere impregnata di valori, di fini, e nel suo non poter prescindere da una direzione di senso, la filosofia che la riguarda non può limitarsi alla dimensione della conoscenza, ma deve necessariamente avere a che fare con l’idea che oscilla dal prendersi cura dell’umano alla vera e propria realtà/uto3240
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pia della salvezza. In tale accezione significativa la filosofia dell’educazione, come filosofia di, è la rispecificazione dell’intera filosofia (della sua idea dell’essere e della totalità), sia per la forma che per il contenuto, sul metro, sulla misura e sul profilo alto dell’educazione umana. D’altra parte, anche in senso tecnico, la filosofia è concepita, dalla Grecia classica in poi, fino ai giorni nostri, con molti registri linguistici, concettuali e metaforici, con sfumature di significato, più o meno secondo l’idea generale che si è tentato fin qui di tratteggiare. L’uomo e l’educazione, o se si vuole la connessione forte uomo-educazione, sono altrettanto difficili da ricondurre a univocità di significato, proprio come il più impegnativo tentativo di comprenderli con il pensiero, messo in atto dalla filosofia. Per la filosofia, presa in senso lato, c’è da ricordare la celebre definizione di Piaget (che pure filosofo professionale non può essere considerato). Piaget, nel suo Sagesse et illusions de la philosophie (Paris 1968, tr. it. di A. Munari, Saggezza e illusioni della filosofia, Torino 1970), scrive testualmente: «La filosofia è una presa di posizione ragionata sul tutto». Hegel da parte sua scrive la celebre definizione secondo la quale «la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero». Kant, nel pieno della modernità, cerca una definizione e una attribuzione decisiva di compiti alla filosofia in quanto tale. Egli restituisce alla filosofia una funzione teorico-critica, pur contestandone la possibilità che essa possa conoscere gli oggetti classici dell’ontometafisica (anima, mondo, Dio) e che possa essere capace di conoscenza dell’essenza delle cose (noumeno), lasciando alla scienza il compito di conoscere la superficie fenomenica delle cose (fenomeni). La filosofia in quanto tale riscrive i tracciati di conoscenza del tutto attraverso il suo dislocare il pensiero come totalità sull’idealismo (Hegel) coincidente con l’ordine delle cose dialetticamente concepito, fino a identificare essere, pensiero dialettico e storia, e fino a radicare in quest’ultima tutte le ragioni dell’antropocentrismo moderno, quale continuazione dell’antropocentrismo teocentrico. L’avvento della scienza-tecnologia del nostro tempo (con una sorta di tentativo di delineare un inedito e, per ora, velleitario umanesimo tecnocentrico) completa la traiettoria. Con il duplice risultato di dissolvere la potenza conoscitiva della filosofia metafisica in quanto tale e di
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spostarne la valenza su terreni ermeneutici, etici, estetici, pedagogici, educativi. La filosofia dell’educazione, quindi, nasce e si sviluppa storicamente e teoreticamente entro questo quadro concettuale, conoscitivo, umanistico. È difficile staccare l’antropocentrismo (che è una continuazione della mentalità metafisico-teologico-religiosa, applicata alla centralità secolarizzata dell’uomo) dalla filosofia dell’educazione in ogni sua forma (compresa quella nichilistica, come vedremo). L’intera storia della filosofia dell’educazione occidentale si sviluppa attraverso la continua dislocazione di concetti generali e sistematici, elaborati dai grandi pensatori dell’Occidente, sul terreno dell’educazione umana, considerata quest’ultima sotto il profilo metafisico, etico, ermeneutico, politico, estetico e via di seguito. In molti casi (da Socrate, Platone e Aristotele, attraverso Agostino e Tommaso, da Comenio, Locke, Rousseau, Herbart fino a Maritain e Rorty, e ai giorni nostri) si tratta di una rispecificazione concettuale, teoretica e applicativa di un intero sistema di pensiero sull’uomo considerato come soggetto del processo educativo e quale soggetto cui dar forma secondo la sua natura, il suo essere, le sue dinamiche endogene (biologiche, psicologiche, antropologiche, sociali, culturali) in relazione con lo sviluppo della grande storia umana e del processo globale di umanizzazione dell’uomo. Occorre tentare una definizione del soggettooggetto della filosofia dell’educazione che è l’educazione medesima vista quale connessione e concernenza con la persona. Brezinka scrive che l’educazione è azione volta a migliorare la compagine delle disposizioni psichiche dei soggetti umani prevalentemente in fase di crescita, in un processo che conduce dalla costituzione originaria del soggetto-persona alla formazione della personalità. Dewey scrive che educare è dar significato alle cose. Si tratta, anche nel caso del pensatore meno legato agli schemi concettuali del pensare metafisico, di istituire una differenza di dignità ontologica tra l’esperienza in generale e l’esperienza educativa. Esistono definizioni dell’educazione di dominanza psicologica (Piaget, Bruner, Gardner), di dominanza sociologica (Durkheim), di dominanza antropologica. Tutte queste definizioni sono anche, contestualmente e imprescindibilmente, di dominanza filosofica. Quest’ultima è quella che considera nella cultura occidentale soprattutto l’intersezione/de-
Educazione marcazione essere, valore, senso, quale costitutiva anche delle linee e delle reti concettuali espresse dalle cosiddette scienze umane. Lungo tale confine, nel corso della filosofia occidentale da Platone a Gentile, a Dewey, a Maritain e a Rorty, o addirittura al nichilismo («fiume carsico» che attraversa, da Gorgia a Nietzsche, tutta la coscienza più o meno sommersa della filosofia), si articola il discorso sull’educazione quale sinonimo del senso di verità e di bene intorno al processo di umanizzazione degli uomini in quanto persone e in quanto genere. La filosofia garantisce legittimazione e fornisce cornici di senso a termini come sviluppo, istruzione, formazione. Hessen arriva a scrivere che la pedagogia «è filosofia applicata all’educazione umana». Gentile ritiene radicalmente filosofica la razionalità pedagogica e ne fa una chiave generale di interpretazione dello sviluppo dello spirito come atto, inteso quale totalità evolutiva del pensiero che tutto crea e nulla presuppone e quale perenne autoproduzione di sé dotata di senso. Dewey ritiene che l’educazione sia una delle grandi metafore di lettura-progettazione della totalità dell’esperienza concepita quale esperienza educativa, in cui la specificità filosofica consiste nella chiarificazione-coscientizzazione del processo cosmico della realtà (processo dei processi). La filosofia dell’educazione è definita da Brezinka come segue: «Per filosofia dell’educazione o pedagogia filosofica si intende talvolta nient’altro che un sistema di asserzioni scientifico-empiriche sull’educazione, che solo in modo non essenziale viene arricchito con enunciati normativi [...]. Una combinazione di scienza empirica dell’educazione e di filosofia normativa o analitico-critica della conoscenza [...], sistemi di asserzione che trattano dell’influsso esercitato dalle teorie filosofiche sulle teorie generali dell’educazione». In sintesi, sempre a parere di Brezinka, «per filosofia dell’educazione, o espressioni analoghe, il più delle volte si intende una filosofia normativa dell’educazione». Ovviamente tali definizioni moderne e contemporanee, in parte generalmente condivisibili, giungono al punto di arrivo di un lungo cammino in cui la filosofia, dopo essere stata lungamente egemone (almeno in Occidente), convive con la forma della razionalità scientifica, la cui dominanza, per quel che concerne gli enunciati di conoscenza, è largamente privilegiata da Brezinka. Resta il 3241
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Educazione fatto che, se si prescinde da qualsiasi direzione di senso, questioni concernenti referenti quali educazione, istruzione, sviluppo significativo, umanizzazione, socializzazione, formazione, e simili, finiscono per essere prive di qualsiasi significato. Si comprende come qui è possibile istituire la distinzione tra filosofia dell’educazione, ideologia, scienza, pedagogia. E si comprende ancor meglio come ogni concettualizzazione della filosofia dell’educazione debba in qualche modo tener conto delle intersezioni, delle linee di demarcazione e degli ambiti di significato che delimitano ciascuno di questi sistemi concettuali. Essi in molte trattazioni sono come campi confinanti: non si può ingrandire l’uno senza rimpicciolire l’altro. Ne discende che la filosofia dell’educazione ha sempre il terreno conteso dalla dialettica prossimità/distanza tra la sua identificazione tout-court con la pedagogia generale (com’è nella versione tradizionale) e la sua separazione/specificazione in una disciplina specialistica che, secondo alcuni, si staccherebbe in maniera netta e decisa dalla pedagogia generale. Al di là di tali dispute, la filosofia dell’educazione si riconosce comunque nell’atteggiamento mentale e nello stile di pensiero con cui affronta i problemi che appartengono anche al campo di riferimento complessivo della pedagogia generale e di altre scienze umane. A voler considerare la lunga tradizione dell’Occidente, ci vengono incontro i ritratti di grandi pedagogisti che, per molti versi, e a guardarli come in un cannocchiale rovesciato dal punto di osservazione del nostro tempo, ci appaiono anche pedagogisti, ma sono soprattutto grandi pensatori ritenuti filosofi dalla comune, condivisa percezione. Basti riferirsi emblematicamente a Rousseau, Comenio, Locke, Herbart, Rosmini, Gentile, Dewey, Maritain. Ci sono poi filosofi professionali che si sono interessati di educazione in forma, appunto, filosofica: si può esemplificare citando pensatori come Kant, Rorty, Vattimo, Morin, Luhmann tanto per procedere con esempi tratti dalla storia ufficiale della filosofia (o della sociologia filosofica). Razionalità filosofica e razionalità scientifica costituiscono le modalità fondamentali di affrontamento di problemi educativi e umanistici del mondo moderno. La razionalità filosofica, come si è detto, impregna tanto il compito conoscitivo quanto quello di cura e salvezza, inserito nella forma stessa dell’umanizzazione dell’uomo quale orizzonte di senso di ogni in3242
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dividualizzazione/personalizzazione dei processi educativi. Mentre metafisica, etica, ermeneutica costituiscono le forme teoriche attraverso le quali la filosofia dell’educazione intercetta la pratica dell’educare, la determinazione attraverso la quale si costituisce in razionalità scientifica appartiene ad approcci empiriologici e sperimentali che sono più specificamente perseguibili nell’orizzonte delle cosiddette scienze umane. A voler usare l’ulteriore metafora fornita da Gadamer attraverso il termine orizzonte si può ben dire, in ordine alla concettualità espressa dalla filosofia dell’educazione, che essa non può, pena la perdita dell’oggetto-educazione, limitarsi all’orizzonte culturale, ma deve necessariamente accedere a un orizzonte di senso. L’utilizzazione della metafora fornita da Gadamer costituisce per la filosofia dell’educazione del nostro tempo una carta in più per determinare le forme intellettuali, etiche, ermeneutiche dell’analisi teorica dei processi educativi. È difficile eludere una certa trascendentalità dell’educazione nella sua relazione alla persona, quella che con Giuseppe Catalfamo possiamo ritenere una sorta di kantiana preferibilità trascendentale. Su di essa si costituisce l’educazione come concetto-valore, la cui intrinseca metaempiricità è posta in una costante tensione tra essere e dover essere. Trascendentalità e orizzonte di senso costituiscono due punti forti della filosofia dell’educazione, che privilegia una forma di razionalità la cui intersezione con la pratica empirica e sperimentale non è necessariamente da escludere. Lungo questa linea il confine/demarcazione è costituito dalla dialettica senso/non senso, valore/disvalore, essere/non essere, apparire/essere. L’educazione viene sempre connotata in direzione dell’essere, del valore, del senso e della loro modalità di orizzonte e di dimensione trascendentale (per semplificare in un filo rosso che va da Kant a Gadamer). Se si sceglie deliberatamente questa linea, essa aiuta a comprendere il raggio d’azione teorico-pratica della filosofia dell’educazione oggi. Ciò non significa che non si possano qui accennare altre angolazioni di lettura. Ad esempio, ancora e per altri aspetti, la filosofia dell’educazione si caratterizza per una sorta di duplice approccio. Dalla parte del suo essere filosofia anche in senso tecnico, per la forma universalizzante e totalizzante del pensiero dotato di senso (visto come pensiero critico-rifles-
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sivo o addirittura costruttivo-creatore); dalla parte dell’oggetto-soggetto del suo pensare, ossia dalla parte della connessione soggetto/persona/umanizzazione dell’uomo, in un costante richiamo a un orizzonte di senso in grado di dar significato e figura al pensiero puramente astratto e a una sorta di pensiero senza contenuto. Dire «orizzonte di senso» dell’educazione significa mettere in forma teorica rigorosa l’approccio pedagogico, e comunque dar significato in uno specifico senso all’esperienza umana e a un processo di trasformazione che viene connotato come processo di incremento di senso dell’umanità e, come tale, educativo. Paradigmi generali teorico-filosofici dell’educazione sono la natura, la persona, la società, la politica, la comunicazione, la libertà, la ragione, la storia, la tradizione, l’innovazione, il progresso, la vita interiore, la testa ben fatta, la perfettibilità/perfezione, la formazione (Bildung), l’apprendere ad apprendere. I primi termini generalissimi quali natura, persona, società, ragione, tanto per isolarne emblematicamente alcuni, sono stati storicamente in Occidente quelli che hanno connotato più marcatamente la filosofia in generale e, ricorrentemente, la filosofia dell’educazione. Più recentemente, alcuni altri sono diventati paradigmi di riferimento di una interpretazione in termini teorici e riflessivi della lettura filosofica della pedagogia e dei discorsi ad essa riconducibili sull’educazione, o nell’intersezione con dominanze di tipo sociologico, o di tipo psicologico e antropologico. Più ricorrentemente si tratta di termini come socializzazione, sviluppo, formazione, apprendere ad apprendere. Ad esempio Luhmann (1988) fissa le formule d’intersezione tra sistema teorico e sistema educativo nei paradigmi della perfezione/perfettibilità, della formazione (Bildung) e dell’apprendere ad apprendere. Morin si serve del concetto di testa ben fatta. La tradizione filosofico-religiosa occidentale (per tanti versi anche metafisica) si è soffermata spesso sul concetto di vita interiore e interiorizzazione. La concezione teorica a matrice sociologica si struttura spesso sull’idea generale di integrazione nel sistema di funzionamento sociale e nei sistemi di riferimento simbolico. Ciascuno di questi paradigmi può essere tale da costituire e costruire l’oggetto di una filosofia dell’educazione, o, almeno, un’angolazione rispecificante di un discorso filosofico più generale. Questa seconda via consente di rispe-
Educazione cificare il significato generale di educazione, pur nel riferimento di senso comunque avente a che fare con l’idea di umanizzazione dell’uomo, in una più concreta modalità di approccio in grado di ipotizzare e verificare dinamiche cui la cornice teorica conferisce rigore e legittimità. Nella storia della filosofia occidentale le metafore di riferimento (o, se si preferisce, paradigmi) sono state prevalentemente lo spirito, la sociocultura, la natura. Tanto per semplificare, tutta la linea neoidealistica tedesca si è fortemente attestata sul Geist; Rousseau si è attestato sulla natura; la linea marxista e neomarxista sul nesso società/rivoluzione/educazione. In tempi recentissimi si registra finalmente una convergenza (dopo tante avventure intellettuali) sulla persona. La filosofia dell’educazione contemporanea trova nella relazione persona-educazione (che ha il suo copyright nella grande tradizione dell’umanesimo cristiano) la forma fondamentale di narrazione pedagogica che, dall’Occidente, si tenta di veicolare, in una tendenziale estensione universalizzante, all’intero pianeta. Se ne deduce che una delle grandi idee della filosofia dell’educazione, appunto, è la persona. L’altra faccia della medaglia della narrazione occidentale in forma filosofica, che ormai si mostra del tutto dispiegata nell’orizzonte storico e culturale nella cosiddetta postmodernità, è quella della tecnica (Heidegger). È la via della filosofia dell’educazione che, come vedremo, nel mondo contemporaneo costituisce il supporto del primato della cognizione/tecnologia/tecnica/istruzione. Si tratta di un tema che andrà chiarito fino in fondo nelle note che seguono. Qui dobbiamo dire che il processo educativo, tematizzato dalla filosofia dell’educazione, è comunque quello che centra sulla persona e sul suo sviluppo significativo, multilaterale e globale, la triplice azione di natura (potenzialità dell’individuo o anche area potenziale di sviluppo), cultura/società e spirito (forme simboliche). Lungo tale direzione, la filosofia dell’educazione è in sommo grado pedagogia dell’uomo nel senso dell’organizzazione, dell’unificazione e dell’incessante valorizzazione di tutte le risorse naturali, culturali, spirituali dell’umanità in generale e di ciascuna persona in particolare. I suoi temi fondamentali costituiscono il terreno della forma teorica di ogni pedagogia. Pertanto autorità/libertà, educazione/istruzione, autoritarismo/permissivismo finiscono per co3243
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Educazione stituire la pianta delle relazioni interne di qualsiasi discorso pedagogico che operi ricognizioni e progetti sul processo educativo. Nella presente fase storica emergono almeno due questioni fondamentali di filosofia dell’educazione. La prima concerne il raccordo sempre più difficile tra cultura occidentale e processi di globalizzazione e dinamiche interculturali. La dimensione planetaria della comunicazione e i connessi processi di multiculturalismo da un lato operano una tendenziale riduzione della concettualità filosofica dell’Occidente alla modalità di vita, di civiltà, di cultura e di coscienza della parte più avanzata del mondo, dall’altro sono costretti a misurarsi con un orizzonte a misura di mondo, che riconduce spesso la cultura dell’Occidente a una oscillazione tra l’essere dominante perché universale e l’essere universale perché dominante. La filosofia dell’educazione contemporanea, o almeno una certa sua linea, appronta per tale questione fondamentale una risposta in termini di intercultura. Si tratta di una questione aperta la cui rete di complessità e problematicità non è di facile affrontamento. Nella cultura contemporanea, quindi, anche la filosofia dell’educazione è attraversata dalla dinamica dialettica globale/locale, da quella difficoltà antropoetica intrinseca alla questione del multiculturalismo (Habermas, Taylor) rispetto alla quale la proposta del glocalismo etico (Tomlinson) e l’interculturalismo sono strutturalmente concepibili come pedagogici. Connesso con tale modalità è il discorso della filosofia dell’educazione che individua la complessità come metadiscorso e come contesto rispetto al testo educativo (persona/cultura educativa). Vi è una tendenza di filosofia dell’educazione che nel pensiero contemporaneo riconduce educare, formare e istruire, e le connesse antinomie della ragione pedagogica alla complessità del mondo della tarda modernità. Scrive efficacemente F. Cambi che «la complessità si è delineata come il volano del presente, e quindi come la sua struttura e, forse, il suo stesso senso». E ciò accade perché, come sempre afferma Cambi, «il mondo postmoderno è un mondo complesso; costituito di relazioni intrecciate, da un pluralismo di livelli, diremmo, ontologici (istituzionali, mentali, intenzionali) che interagiscono fra di loro denotando una realtà che non si può leggere più in modo semplice, univoco, omogeneo. È un mondo, appunto, reticolare, in cui ogni evento 3244
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può e deve essere sottoposto a letture plurali, intrecciate e dismorfiche a un tempo». La complessità come sostitutiva del tutto, del valore, del senso. È un modo di vedere che può essere parzialmente accolto come complesso di criteri di ricognizione conoscitiva della condizione della cultura umana in un tempo difficile. Esso, però, non può essere considerato esaustivo, in termini di filosofia dell’educazione. Esprime bene la temperie (Stimmung) di un tempo e si ferma lì, o ne indica la possibilità di affrontamento giustamente plurale e pluriverso. Ma è difficile dire che indichi una via costruttiva e un orizzonte di senso al di là di una teorizzazione che finisce per essere autoreferenzialmente riflessiva rispetto alla stessa complessità; una sorta di raddoppiamento della complessità in forma teorica. L’altra via che percorre la filosofia dell’educazione è nella relazione tra razionalizzazione delle trasformazioni empiricamente ed evolutivamente verificabili (biologicamente, psicologicamente, sociologicamente) e le questioni etiche e comunque connesse alla dimensione etico/metafisica e ontoetica dell’uomo in una fase storica in cui è possibile una costruibilità/decostruibilità assoluta della base biologica stessa del nostro essere uomini (biotecnologia, genetica, ingegneria genetica e simili). Ad essa si riferisce il confronto della filosofia dell’educazione contemporanea con la bioetica. In termini di assetti legati alla comunicazione e alla dimensione linguistica l’approccio della filosofia dell’educazione ritrova il confronto tra la posizione etico-metafisica classica e le posizioni che tendono a un indebolimento e a una flessibilità dell’essenzialismo normativo (R. Rorty). Sulla scorta della concettualizzazione di Gadamer per la quale «l’esperienza umana è essenzialmente esperienza linguistica», Rorty ha ritenuto di poter dislocare una certa interpretazione della filosofia in generale nell’ambito della filosofia dell’educazione cui ha dedicato alcuni scritti. La lettura di Rorty diviene interessante per la radicalizzazione che mostra una linea di continuità rispetto alla impostazione che estremizza le posizioni di Gadamer sulla riconduzione al linguaggio della consistenza dell’essere, lungo la lettura ermeneutica che Gadamer stesso compie del pensiero di Heidegger. Si può dire che se il linguaggio, come dice Heidegger, «è la dimora dell’essere», appare del tutto evidente che es-
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so non si identifica con l’essere stesso. La radicalizzazione di questa posizione è quindi proprio la riduzione dell’essere a linguaggio. L’esperienza linguistica dell’uomo diventa a questo punto matrice dell’etica e dell’educazione, e tale posizione alla fin fine diviene anche la chiave di lettura dei percorsi etici e dei processi educativi. Rorty porta alle estreme conseguenze, nei suoi scritti, tale posizione specie allorché si riferisce al rapporto tra esperienza linguistica ed esperienza etica e tra queste due modalità dell’esperienza umana e l’esperienza educativa. Se solo il linguaggio è il parametro di confronto e di supporto, non soltanto della correttezza linguistico-comunicativa di un discorso, ma della stessa correttezza etica di una qualsiasi azione umana, e se entrambe diventano paradigma di riferimento dell’esperienza educativa, sarà difficile trovare criteri di demarcazione, a un tempo etici ed educativi, tra vero e falso, tra bene e male e tra bello e brutto. Ancora, in parole più aperte a una più agevole comprensione di aspetti pedagogici del discorso della visione di tipo post-empirico e linguistico della filosofia dell’educazione, è come dire che qui alla totalità, e al senso, non solo si sostituisce la complessità, ma addirittura la lingua (forma organizzata storicamente, socialmente e culturalmente del linguaggio). Con la conseguenza in termini di filosofia dell’educazione (e il connesso rischio) di ridurre l’educazione a comunicazione. Quest’ultima ne è un aspetto ma non si identifica con l’educazione medesima. Così come la persona è anche lingua ed esperienza linguistica, ma non si identifica nel suo processo di realizzazione con il suo essere produttrice di procedure linguistiche e referente comunicativo di una molteplicità di linguaggi. Ovviamente, essa non è soltanto riconducibile a tale dimensione. In sintesi, le modalità di legittimazione teorica dei processi educativi, riconducibili alla filosofia dell’educazione, oscillano dall’orizzonte di senso della persona a quello della complessità, fino a quello della centralità della esperienza linguistica come matrice di ogni esperienza umana. In ulteriore sintesi, è possibile dire che nella cultura pedagogica contemporanea, intesa in senso lato e «reticolare», restano in campo tre approssimativi identikit delle forme in cui si presentano le principali linee di filosofia dell’educazione. La prima è comunque da ricondurre alla linea classica umanista-per-
Educazione sonalista, di lunga e consolidata ispirazione metafisica e attraversata/legittimata dall’orizzonte di senso di matrice e tradizione/memoria cristiana (in Occidente attraverso la mediazione con l’eredità della cultura classica e della linea profetica giudaico-cristiana). Anche qui possiamo tracciare una linea che va da Aristotele a Maritain (ma solo per fornire un’idea di massima al lettore). La persona diviene la forma attraverso cui si realizza il processo di umanizzazione e l’educazione è l’attuazione progressiva di tutte le potenzialità della persona per la realizzazione della personalità. Essere, coscienza, interiorità, libertà, responsabilità, retta intenzione costituiscono le connotazioni di riferimento dell’educazione della persona. La rilevante carica umanistica di questa prospettiva, che per gli aspetti generali tende ad essere anche universalizzante e trasversalmente estensibile a tutte le modalità dell’umanesimo moderno, costituisce comunque l’orizzonte fondamentale della filosofia dell’educazione anche del nostro tempo. Ad essa è assimilabile qualsiasi linea di filosofia dell’educazione che veda la persona come fine e che ritenga la persona una costellazione di valori, oltre che la compagine delle disposizioni biopsichiche che configurano l’individualità. L’educazione è l’itinerario da un orizzonte socioculturale (o, se si vuole, dalla cosiddetta «tirannide della culla») all’orizzonte di senso di una personalità compiuta e multilaterale in grado di restituire al massimo grado il potenziamento di tutte le disposizioni della costituzione originaria individuale. In questo senso la filosofia dell’educazione fornisce una tenuta teorica e una cornice di senso all’attraversamento dalla vita alla sua piena consapevolezza nel darsi della persona vista come intelligenza, intenzione, coscienza, interiorità, libertà, responsabilità. Una parziale variante interna di tale linea di filosofia dell’educazione è rappresentata dall’interpretazione illumista-neoillumista dell’umanesimo, che parte dalla pienezza della modernità e dall’insieme dei processi di secolarizzazione, e vede nella centralità della ragione la fonte di legittimazione dell’umanizzazione dell’emancipazione dell’uomo attraverso la perfettibilità educativa. Il soggettopersona è visto qui come prevalentemente razionale e la proposta di filosofia dell’educazione ha il suo punto forte nell’affidare alla ragione umana i destini di emancipazione dell’umanità e alla persona la sua realizzazione 3245
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Educazione come testa ben fatta. L’altra faccia della medaglia di questa visione delle cose è nel radicalizzarsi della proposta illuminista in proposta razionalista-tecnocratica, per la quale la razionalità nel suo complesso si riduce a razionalità strumentale, tecnologica e tecnica. La specificità della proposta di tale filosofia dell’educazione, in senso pedagogico, sta nel primato dell’istruzione e, tutt’al più, nel primato dell’istruzione educativa. Ad essa, sul piano etico, corrisponde una costante ristrutturazione dell’etica nella proceduralità giuridica (RawlsVeca). La metafora-concetto di istruzione educativa, la quale ha una sua forte rilevanza nei sistemi scolastici contemporanei, suppone che l’istruzione scientificamente corretta, di per sé, possa produrre l’educazione come processo interessante la persona umana nella sua globalità. Essa può facilmente degenerare nell’istruzionismo, nello scientismo e nel tecnicismo. In essa la stessa configurazione regolativa delle condotte etiche o, almeno, dei comportamenti socialmente rilevanti, viene vista in dissolvenza dall’etica al diritto (Kelsen). La terza linea della filosofia dell’educazione contemporanea può essere tratteggiata nell’identikit del nichilismo nella sua forma di neonichilismo, la quale esprime una sorta di Stimmung di quella che da più parti viene indicata come tramonto della modernità (Vattimo). Essa non è istituzionalmente definibile in senso strettamente pedagogico, poiché non vi è una concezione dichiaratamente nichilista nell’ambito delle teorie istituzionali dell’educazione. Sta di fatto che sia sotto forma di scientismo (nessun senso delle cose oltre la scienza e la tecnica), sia sotto forma di nichilismo in senso forte o in senso debole (non vi sono valori né vi è senso nel fatto puro e semplice della vita e dell’esserci, da Nietzsche a Heidegger) o, anche, sotto l’aspetto di un inedito nichilismo soft, fatto di tollerante estetismo e di costruzione di una sorta di convivenza, dovuta proprio all’assenza di valori forti, l’educazione possibile diventa quella libertaria, vitalistica, estetizzante di una sorta di nichilismo positivo, per il quale non vi è alcun limite alla libertà dell’individuo, fatta eccezione per la prescrizione del neminem laedere. È così che il pendolo della filosofia dell’educazione del nostro tempo finisce per oscillare da una proposta di riappropriazione umanisticopersonalista della cultura della modernità avanzata (o estenuata), espressa dalla riproposizione arricchita della classica memoria cen3246
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trata sulla relazione persona-umanesimo-educazione, all’affermazione per la quale l’unica proposta praticabile nel nostro tempo sia quella di tradurre l’idea universale di educazione in una pluralità irriducibile di stili di vita. Come dire, un pendolo che oscilla dal personalismo al nichilismo, attraverso itinerari tecnologici e attraverso l’illusione che ci si possa fermare alla pura razionalità strumentale e tecnica. G. Acone BIBL.: G. GENTILE, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Bari 1913-14, 2 voll.; J. DEWEY, The Sources of a Science of Education, New York 1929, tr. it. di M. Tioli Gabrieli, Fonti per una scienza dell’educazione, Firenze 1958; A. AGAZZI, Saggio sulla natura del fatto educativo in ordine alla teoria della persona, Brescia 1950; D.J. O’CONNOR, An Introduction to the Philosophy of Education, London 1957; J. MARITAIN, Pour une philosophie de l’éducation, Paris 1959, tr. it. di A. Agazzi - P. Viott - G. Galeazzi, Per una filosofia dell’educazione, Brescia 2001; H.G. GADAMER, Wahreit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen 1960, tr. it. a cura di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 1983; G.M. BERTIN, Educazione alla ragione, Roma 1962; G.F. KNELLER, Logic and Language of Education, New York 1966, tr. it. di N. Ponzanelli, Logica e linguaggio della pedagogia, Brescia 1975; I. SCHEFFLER, Philosophy of Education, Boston 1966; J.F. SALTIS, An Introduction to the Analysis of Educational Concepts, London 1968; S. PETERS, The Logic of Education, London 1970; G. BACHELARD, Epistemologie, Paris 1971; R. LAPORTA, La via filosofica alla pedagogia, in «Bollettino della società filosofica italiana», 90-91 (1975), pp. 17-52; G.M. BERTIN (a cura di), La filosofia dell’educazione oggi, n. mon. «Scuola e città», 1-2 (1976); D. ANTISERI, Epistemologia e ricerca pedagogica, Roma 1976; W. BREZINKA, Metatheorie der Erziehung, Stuttgart 1978, tr. it. di L. Pusci, Metateoria dell’educazione, Roma 1980; N. LUHMANN K.L. SCHORR, Reflexionsprobleme im Erziehungssystem, Stuttgart 1979, tr. it. di E. Koetti Cerretti - P. Cipolletta, Il sistema educativo, Roma 1988; M. MANNO, Filosofia, filosofie dell’educazione, pedagogia, in «Nuove ipotesi», 3 (1980); R. RORTY, Hermeneutics, General Studies and Teaching; Education, Socialization, Individuation, Fairfax (Virginia) 1982, tr. it. a cura di F. Santoianni, Scritti sull’educazione, Firenze 1996; A. BANFI, Pedagogia e filosofia dell’educazione, Reggio Emilia 1986; G. ACONE, La filosofia dell’educazione oggi, in «Il quadrante scolastico», 41 (1989), pp. 12-27; E. AGAZZI (a cura di), Filosofia e filosofia di, Brescia 1992; P. BERTOLINI, L’esistere pedagogico, Firenze 1992; A. GRANESE, Il labirinto e la porta stretta, Firenze 1992; F. CAMBI, La filosofia dell’educazione: struttura, funzioni, modelli, in «Nuove ipotesi», 1
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(1993); P. RICOEUR, Sé come un altro, Milano 1994; M. LAENG (a cura di), Enciclopedia pedagogica, Brescia 1989-2003, 7 voll.; E. DUCCI, Postille di filosofie dell’educazione, in «Il quadrante scolastico», 64 (1995), pp. 94-103; R. LAPORTA, L’assoluto pedagogico, Firenze 1995; G. MINICHIELLO, Il mondo interpretato, Brescia 1995; G. ACONE, Antropologia dell’educazione, Brescia 1997; A. KAISER, Gnoseologia dell’educazione, Brescia 1998; P. MALAVASI, L’impegno ontologico della pedagogia, Brescia 1998; G. MARI, Razionalità metafisica e pensare pedagogico, Brescia 1998; CH. TAYLOR J. HABERMAS, Multiculturalismo, ed. it. di L. Ceppa G. Rigamonti, Milano 1998; J. TOMLINSON, Globalization and culture, Chicago 1999, tr. it. di G. Bettini, Sentirsi a casa nel mondo, Milano 2001; G. BERTAGNA, Avvio alla riflessione pedagogica, Brescia 2000; F. CAMBI, Manuale di filosofia dell’educazione, Roma-Bari 2000; M. GENNARI, Filosofia della formazione dell’uomo, Milano 2001; G. SOLA (a cura di), Epistemologia pedagogica, Milano 2002; A. GRANESE, Istituzioni di pedagogia, Padova 2003. ➨ BILDUNG; COMPLESSITÀ; EDUCAZIONE; FORMAZIONE; FILOSOFIA; PEDAGOGIA.
EDUCAZIONE, PSICOLOGIA DELLA. – Si fa riEducazione salire la nascita della psicologia dell’educazione a circa cento anni fa, quando la locuzione fu coniata da Edward L. Thorndike, Educational Psychology, vol. II: The Psychology of Learning (New York 1913), ma sin dagli inizi si è sviluppato un vivace dibattito su che cosa realmente fosse questa disciplina: alcuni sostenevano, infatti, che si trattasse di una conoscenza derivata dall’applicazione degli esiti della ricerca psicologica nel campo scolastico; altri ritenevano, invece, che la psicologia dell’educazione dovesse usare i metodi della ricerca psicologica per studiare direttamente le caratteristiche della classe e della vita della scuola. In altre parole, per alcuni si potevano affrontare i problemi psicologici che emergono a scuola applicando direttamente gli esiti della ricerca psicologica, anche se questa fosse stata condotta in laboratorio; per altri, invece, tali problemi si potevano studiare solo nel contesto in cui sorgono e non altrove. Così, ad esempio, il modo in cui i ratti imparano, indagato mediante opportuni accorgimenti in laboratorio, secondo la prima prospettiva poteva costituire un riferimento anche per l’apprendimento in classe. Ancora oggi non vi è accordo sulla definizione della psicologia dell’educazione come disciplina, poiché vi sono prospettive teoriche che continuano a considerarla un campo di appli-
Educazione cazione di principi e di esiti di ricerche condotte dalla psicologia tout court, mentre altre prospettive la ritengono un campo di studio autonomo dove, al contrario, hanno origine prospettive teoriche e strategie di ricerca che sono estensibili anche in altri settori. C’è accordo, invece, su quali siano le tematiche di specifica pertinenza della psicologia dell’educazione: esse sono lo sviluppo umano, l’acquisizione del linguaggio, le differenze individuali, la motivazione, la misura e la valutazione dell’efficacia degli interventi educativi. Tornando alle origini, Thorndike propose anche l’ambito di studio e la concezione della psicologia dell’educazione, influenzando così per molto tempo la storia di questa disciplina. Per quanto riguarda la seconda, propose una concezione della psicologia dell’educazione assolutamente dipendente e ancillare rispetto alla psicologia generale, da cui mutuava strategie e tecniche di ricerca, oltre che recepirne gli esiti sperimentali come ambiti di applicazione. La psicologia dell’educazione, in altre parole, doveva trasferire i risultati della ricerca psicologica ai problemi educativi e didattici, anche se tali risultati, ad esempio, costituivano esiti di esperimenti condotti con piccoli animali in laboratorio (ad es. ratti). Il tema focalizzato da quegli esperimenti era l’apprendimento, che rappresentava per Thorndike il principale oggetto di studio della disciplina; la scoperta di principi e leggi (ad esempio il principio dell’effetto, dell’esercizio, della contiguità) che regolano l’apprendimento è stata infatti considerata il suo specifico ambito di ricerca. Concezione «applicativa» della psicologia dell’educazione e apprendimento come tema proprio della disciplina hanno rappresentato, dunque, una specie di marchio di origine della psicologia dell’educazione che ha molto influenzato la sua storia successiva. Agli occhi degli studiosi contemporanei appaiono evidenti i limiti di questa impostazione, che vanno dalla pretesa continuità fra l’apprendimento animale e quello umano, al misconoscimento della specificità dei complessi fenomeni educativi nel contesto scolastico. Tuttavia, malgrado i limiti di tale prospettiva, sono stati condotti studi molto rilevanti, in particolare nell’ambito dell’addestramento militare, con l’analisi delle sequenze di attività che compongono una prestazione esperta (task analysis: analisi del compito) e con la messa a punto di sequenze didattiche per 3247
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Educazione l’istruzione programmata e la tecnologia dell’insegnamento. Da quella prospettiva, inoltre, ha preso l’avvio l’insieme di ricerche che si riconducono alle learning theories (teorie dell’apprendimento), le quali hanno rappresentato il filone dominante, anche se non esclusivo, della psicologia dell’educazione negli Stati Uniti, che peraltro sono stati il paese di origine e di diffusione della disciplina sino alla fine degli anni cinquanta. La conferenza di Woods Hole del 1959 rappresenta uno spartiacque nella storia della psicologia dell’educazione, perché segna l’atto di nascita di un processo di cambiamenti e di riforme dei curricoli scolastici che testimonia, in modo manifesto e pubblicamente esibito, la critica ai fondamenti dell’impostazione riconducibile alle learning theories. Lo smacco «spaziale» a opera dell’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), che aveva dimostrato in tal modo una superiorità esplicita nella cultura scientifica, rese evidente la necessità di riformare i curricoli scolastici, individuati come i principali responsabili di quella sconfitta. Infatti, benché fossero già presenti e diffusi, in scritti di psicologi di diversa matrice, elementi incompatibili con l’iniziale concezione della disciplina e dell’apprendimento, soltanto sull’onda di quello che venne avvertito come un vero fallimento educativo si rivolse attenzione a quegli studi che focalizzavano diversamente il tema dell’apprendimento e dello sviluppo cognitivo. È stato questo il momento in cui, per esempio, gli studi di Jean Piaget sullo sviluppo dell’intelligenza hanno attratto e catalizzato in modo manifesto l’interesse degli psicologi dell’educazione, che hanno così reputato degne di approfondimento questioni sino ad allora considerate marginali rispetto alla loro disciplina. Gli studi sui processi cognitivi e sulle fasi del loro sviluppo, allora, sono divenuti punti di avvio per sperimentazioni educative e didattiche, che hanno riguardato in larghissima prevalenza l’acquisizione di contenuti scientifici (cfr. ad es. R. Karplus - H.D. Thier, A New Look at Elementary School Science, Chicago 1967, tr. it. di L. Salvatori - A. Suvero, Rinnovamento dell’educazione scientifica elementare, Bologna 1971, per una estensione in ambito italiano). Ma più in generale hanno fatto l’ingresso nel territorio della psicologia dell’educazione temi come la memorizzazione di contenuti disciplinari, le modalità di elaborazione, l’organiz3248
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zazione di materiali da apprendere, le modalità di acquisizione per ritenere contenuti significativi (D.H. Ausubel, Educational Psychology: a Cognitive View, New York 1968) e per preparare «alla scoperta» (J. Bruner, The Process of Education, New York 1960), sino ai temi più recenti relativi agli stili cognitivi, al cambiamento concettuale, alle differenze di genere ecc. L’apertura verso altre prospettive ha segnato anche il riconoscimento di studi e ricerche che, negli anni della «guerra fredda», avevano trovato ostacoli alla loro diffusione. Ci riferiamo più specificamente a quelli di Lev S. Vygotskij, che rappresenta uno degli studiosi più originali e interessanti per la psicologia dell’educazione. L’impostazione di Vygotskij muove dal riconoscimento dell’origine sociale delle funzioni cognitive superiori, quelle più tipicamente umane, e giunge a individuare una legge fondamentale che afferma: ogni funzione nello sviluppo culturale del bambino si presenta due volte, prima a livello sociale e in seguito sul piano individuale; prima tra le persone (interpsicologica) poi dentro il bambino (intrapsicologica). Lo spostamento di fuoco dallo sviluppo come fenomeno individuale allo sviluppo come fenomeno interattivo ha determinato un insieme di approfondimenti che hanno avuto per la psicologia dell’educazione una notevolissima rilevanza. In primo luogo è stato messo al centro il rapporto fra apprendimento e sviluppo, nel senso che – come dice Vygotskij – è efficace l’apprendimento che precede lo sviluppo; se, infatti, bisogna «aspettare» di avere certe caratteristiche cognitive per poter acquisire certe nozioni/abilità, allora la funzione dell’apprendimento è molto depotenziata perché l’apprendimento «arranca» dietro lo sviluppo. Ma se l’apprendimento è considerato nelle sue funzioni propulsive dello sviluppo, nel senso che mediante l’acquisizione di conoscenze/abilità si sviluppano funzioni cognitive progressivamente più complesse, allora è fondamentale il modo in cui avviene l’apprendimento stesso. Compito di chi detiene responsabilità educative, quindi, è quello di indurre acquisizioni progressivamente più ricche e articolate, che si collochino cioè nell’«area di sviluppo prossimo» del soggetto, che è quella zona in cui può efficacemente svolgersi la funzione propulsiva suddetta. L’utilità di un’acquisizione si determina, in altre parole, se non si fonda su abilità già completamente acquisite, ma richiede in-
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vece lo sviluppo e/o il consolidamento di abilità cognitive emergenti che producano perciò uno spostamento in avanti del confine dell’area di sviluppo prossimo. La rilevanza di questa prospettiva è lampante e facilmente riconducibile alle aspirazioni radicali e rivoluzionarie della psicologia sovietica, che aspirava a concorrere alla costruzione dell’«uomo nuovo», per il quale risultava fondamentale il ruolo modificante ed efficace dell’intervento educativo. L’interesse di Vygotskij per gli aspetti della società e della cultura, sollecitato dal contatto dello psicologo sovietico con la molteplicità di individui appartenenti a nazionalità, costumi e culture diversi presenti nello stato sovietico, ha orientato i suoi studi verso la specificità cognitiva dei soggetti e alla sua presa in carico, che mal si conciliava con la prospettiva unificante e uniformante cui mirava quello stato agli albori della sua costruzione; per questi motivi i suoi scritti furono a lungo censurati e non diffusi in occidente. Dal punto di vista della psicologia dell’educazione, la focalizzazione del ruolo della cultura nello sviluppo e nell’acquisizione dei processi cognitivi superiori si è tradotta nel riconoscimento della funzione di mediazione che gli «strumenti» simbolici e materiali, oltre che gli adulti e i pari, rivestono nella promozione dello sviluppo individuale. Per tale ragione coloro che, richiamandosi alla prospettiva storicoculturale – questo è il nome con cui si denota la prospettiva vygotskijana –, hanno studiato aspetti diversi dell’interazione a scuola, relativi alla funzione degli insegnanti, dei pari, degli strumenti, della comunicazione discorsiva e così via, hanno messo a fuoco elementi specifici, diversamente riconducibili al tema unitario che potremmo etichettare come «mediazione sociale ed educazione». Sulla scia della prospettiva vygotskijana, inoltre, sono stati condotti studi sperimentali diversi in paesi e contesti differenti, mettendo a punto di volta in volta costrutti che esaminano questioni specifiche. Così negli USA sono state studiate, ad esempio, le modalità di apprendimento e di funzionamento di classi come «communities of learners» (A. Brown - J.C. Campione, Guided Discovery in a Community of Learners, in K. McGilly [a cura di], Classroom Lessons: Integrating Cognitive Theory and Classroom Practice, Cambridge [Massachusetts] 1994, pp. 229-270) e il ruolo dell’adulto competente
Educazione nell’indurre modalità di risoluzione agendo da scaffolding (D. Wood - J. Bruner - S. Ross, The Role of Tutoring in Problem Solving, in «British Journal of Psychology», 66, 1976, pp.181-191), vale a dire come una struttura di supporto per l’elaborazione cognitiva, struttura che viene progressivamente smantellata col progredire di chi impara. In Italia è stato molto studiato il funzionamento delle discussioni come ragionamento collettivo, in cui l’interazione cognitiva sostiene l’elaborazione progressiva con adulti competenti che rivestono ruoli metodologico-cognitivi (C. Pontecorvo, Discutere per ragionare: la costruzione della conoscenza come argomentazione, in «Rassegna di Psicologia», 2, 1985, 1/2, pp. 23-45; M. Pascucci-Formisano, Imparare da soli, imparare insieme. Rappresentazioni e comportamenti degli insegnanti, in C. Pontecorvo - A.M. Ajello - C. Zucchermaglio, Discutendo si impara, Roma 1991, pp.149-162; M. Santi, Ragionare con il discorso, Firenze 1995; M. Orsolini, Information Exchange in Classroom Conversation: Negotiation and Extension of the Focus, in «European Journal of Psychology of Education», 3, 1988, pp. 341-355). In Svizzera si sono condotte ricerche sulla costruzione dell’intersoggettività necessaria per la comunicazione adulto-bambino come negoziazione di significati e come condizione di base per interventi educativi efficaci (M. Grossen, La construction de l’intersubjectivité entre adulte et enfant en situation de test, Cousset [Fribourg] 1988; A.N. Perret-Clermont, La construction de l’intelligence dans l’interaction sociale, Berne 1979). Un filone autonomo è rappresentato dagli studi neo-vygotskijani che hanno focalizzato il ruolo dell’acquisizione di conoscenza e dell’elaborazione cognitiva in contesti organizzativi e quotidiani, a partire da culture in cui non fosse presente la scuola, per poi estendersi in altri ambiti (J. Lave, Cognition in Practice: Mind, Mathematics, and Culture in Everyday Life, New York 1988; J. Lave - E. Wenger, Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge [Massachusetts] 1991). Tali studi interessano la psicologia dell’educazione, perché hanno analizzato le modalità di funzionamento dell’individuo nella vita quotidiana in cui, prendendo parte a situazioni sensate, impara e risponde adeguatamente ai «problemi» che deve normalmente fronteggiare. È stato così messo a punto il costrutto di «apprendistato cognitivo» per indicare la condizione per3249
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Educazione manente di acquisizione di conoscenze/abilità in cui tutti gli esseri umani si trovano nel loro ambiente di vita. In altre parole, l’agire in situazioni che hanno senso produce implicitamente, anche senza averne l’intenzione, «apprendimento». Questa nuova accezione di apprendimento, che curiosamente segna il ritorno in posizione centrale di un tema che è stato, come si è detto, all’origine della psicologia dell’educazione, presenta numerose implicazioni sul piano educativo. In questa sede ne elenchiamo sinteticamente alcune. 1) Poiché l’individuo, se è immerso in situazioni sensate a cui prende parte, impara automaticamente, i problemi di apprendimento che si rilevano a scuola possono essere inquadrati anche come mancato riconoscimento di senso di azioni a cui si è richiesti di partecipare. 2) Se si impara quando si è attivi e partecipi a situazioni sensate, il problema della motivazione ad apprendere può leggersi anche come problema tipicamente scolastico e in un certo senso indotto dalla scuola. 3) Se l’apprendimento è una sorta di apprendistato, allora il ruolo docente è principalmente un ruolo di accompagnamento e sostegno a un’attività in cui il soggetto è coinvolto in prima persona. 4) La scuola come attività di trasmissione di nozioni e abilità può facilmente essere riconosciuta per la funzione sociologica di mantenimento di una memoria che un gruppo sociale intende trasmettere alla generazione successiva; più problematica appare la sua funzione psicopedagogica se relega i soggetti in una posizione passiva e tendenzialmente alienata, visto che a loro è richiesto di imparare per lo più contenuti e abilità il cui senso e valore vengono difficilmente riconosciuti. A.M. Ajello BIBL.: L.S. VYGOTSKYJ, Pensiero e linguaggio: ricerche psicologiche, ed. it. a cura di L. Mecacci, Bari 1990; C. PONTECORVO - A.M. AJELLO - C. ZUCCHERMAGLIO, Discutendo si impara, Roma 1991.
EDUCAZIONE, Educazione
SCIENZE DELLA (sciences of education; Erziehungswissenschaften; sciences de la éducation; ciencias de la educación). – Nel corso dell’ultimo Novecento ha preso avvio un processo inarrestabile di generazione di nuove discipline nate e cresciute attorno all’educazione e alla formazione dell’uomo, assunte anzitutto nella loro natura problematica. Ad esse
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è stato dato il nome di scienze dell’educazione. Ciascuna delle aree di ricerca sviluppatasi viene alla luce dall’incontro della pedagogia generale – pensata come la scienza dell’educazione e della formazione – e di altre scienze umane capaci di condurre i saperi pedagogici a un potenziamento delle loro indagini critiche. La dimensione «interdisciplinare» costituisce il carattere dominante delle scienze dell’educazione, sorte dalla necessità di far progredire l’analisi sulle dimensioni che l’educativo via via sussume anche sotto la spinta di bisogni sociali emergenti e di un inedito profilo del soggetto disegnato dalla modernità. Posta all’interno di questo complesso intreccio di relazioni interdisciplinari, la pedagogia ha il compito di non smarrire i significati originari dei propri saperi, disponendosi a un ruolo «orientante» nei confronti di ogni scienza dell’educazione al cui strutturarsi essa contribuisce in modo decisivo. Il rischio della frantumazione dei saperi pedagogici e della correlativa dissoluzione della pedagogia nelle varie e differenti scienze dell’educazione richiede una sempre più puntuale riflessione epistemologica, affinché l’identità della pedagogia generale non ne esca turbata o intaccata con grave danno per la sua specifica identità di scienza e di scienza umana. Alle scienze dell’educazione vanno, anzitutto, ascritte la filosofia dell’educazione (promossa dall’incontro fra pedagogia e filosofia), la psicologia dell’educazione (emersa dall’incontro fra pedagogia e psicologia), la sociologia dell’educazione (risultato dell’incontro fra pedagogia e sociologia). A tale comparto disciplinare sono inoltre attribuiti ulteriori saperi frutto di innesti più recenti: tra essi si distinguono l’antropologia dell’educazione, la semiotica dell’educazione, l’ermeneutica dell’educazione, la politica dell’educazione, la teologia dell’educazione, la gnoseologia dell’educazione, la metafisica dell’educazione, l’ontologia dell’educazione, l’economia dell’educazione, la tecnologia dell’educazione. Lo sviluppo di questi e altri settori di ricerca è assicurato tanto dal loro ruolo sociale sempre più marcato, quanto dai problemi educativi che i sistemi sociali fanno emergere, ma anche dalla consapevolezza epistemologica che ciascuna area di ricerca matura al proprio interno. Nel prendere sempre meglio coscienza di come la pedagogia rappresenti un sistema organico e articolato di saperi, ciascuna scienza
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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
dell’educazione vede posta al proprio interno la questione del suo rapporto con le due scienze che la costituiscono. Volendo assumere come esempio la filosofia dell’educazione, si potrà riconoscere che essa non è più soltanto «pedagogia» o «filosofia», ma appunto dall’incontro fra queste due scienze è venuto promuovendosi un sistema di saperi che entrambe le contiene eppure le supera, in una unità organica che possiede la dignità di scienza. E ciò varrà per ogni contesto disciplinare sopra richiamato e ascritto alla famiglia delle scienze dell’educazione. Ciascuno di quei settori fa progredire la ricerca spingendola oltre i limiti dei saperi da cui deriva, producendo problematizzazioni, costruendo nuove logiche di ricerca, facendo scaturire inediti linguaggi e dando ordine a contenuti che le prassi stesse dell’educativo hanno prima posto in luce e poi in essere. Tale procedere non può arrestarsi e, soprattutto, non va limitato, anche se occorre che venga dovutamente posto sotto un vaglio e un controllo critico-epistemologico. Per farlo v’è la necessità che la pedagogia generale non abdichi a (o non sia spodestata da) quel suo impegno «orientante», il quale fa sì che il discorso a proposito dell'educativo e del formativo resti sempre, comunque e ovunque, ancorato alla riflessione pedagogica. Una pedagogia generale organicamente organizzata all’interno di ogni relazione interdisciplinare che essa sceglie di sviluppare non può temere la propria dispersione o il proprio frazionarsi, in quanto il suo sapere è messo al servizio – di concerto con gli altri saperi scientifici – della ricerca, i cui temi sono determinati dalla vita, dal mondo, dalla storia, da tutti gli «eventi» (o dalle «lunghe durate») che possono e debbono essere ricondotti all’educazione e alla formazione umana. Non, dunque, una pedagogia timorosa e chiusa in se stessa, ma, al contrario, una pedagogia libera, né settaria né faziosa, equanime, priva di preconcetti o pregiudizi, scrupolosamente attenta ai propri equilibri epistemologici interni, ma anche spregiudicata nell’andare a scovare «tutto ciò» che stabilisce un indice di afferenza con l’educativo e il formativo. Ciascuna scienza dell’educazione contribuisce alla ri-costruzione corretta del discorso pedagogico anzitutto se la pedagogia sa avviare relazioni interdisciplinari che non la vedano soggiacere a saperi imperialistici, cadere nel gregarismo, sprofondare nell’eclettismo, sottomettersi a egemonie,
Educazione essere vittima di sudditanze e, in primo luogo, manifestarsi incapace di originalità. Questo è il principale compito di cui la pedagogia generale si fa carico quando entra in relazione con un’altra scienza umana. Le scienze dell’educazione dimostrano oggi una vitalità pari ai risultati conseguiti nella ricerca. In questa, il loro impegno è ormai decisivo, costante, irrinunciabile, con vantaggi per ogni settore del sapere: tanto quindi per la pedagogia generale, quanto per ogni altra scienza che abbia scelto di convenzionarsi con essa al fine di incrementare le potenzialità del proprio statuto euristico e scientifico. Il futuro delle scienze dell’educazione si deciderà in senso positivo soltanto se esse rammenteranno di essere scienze dell’uomo che appunto nell’uomo trovano il loro prioritario fine. M. Gennari BIBL.: A. KLAUSSE, Initiation aux sciences de l'éducation, Lìege 1967; G. AVANZINI, Introduction aux sciences de l'éducation, Toulouse 1976; W. BREZINKA, Metatheorie der Erziehung, München 1978; A. VISALBERGHI et al., Pedagogia e scienze dell'educazione, Milano 1978; C. NANNI, Educazione e scienze dell'educazione, Roma 1984; G. MIALARET, Introduction aux Sciences de l'Education, Genève 1985; R. MASSA (a cura di), Istituzioni di pedagogia e scienze dell'educazione, Roma-Bari 1990; M. GENNARI - A. KAISER, Prolegomeni alla Pedagogia Generale, Milano 2000; G. SOLA (a cura di), Epistemologia pedagogica, Milano 2002. ➨ EDUCAZIONE; FORMAZIONE; PEDAGOGIA GENERALE.
EDUCAZIONE, SEMIOTICA DELLA (semiotics of Educazione education; Semiotik der Erziehung; sémiologie de l’éducation; semiótica de la educatión). – È la scienza dell’educazione derivante dal rapporto interdisciplinare tra la pedagogia e la semiotica, i cui fondamenti epistemologici sono stati affrontati primariamente nel volume di Mario Gennari, Pedagogia e semiotica (Brescia 1984, 19982). Deputata a interpretare i segni, i sistemi di segni e le culture rinvenibili in ogni genere di transazione educativa – familiare, scolastica, extrascolastica –, la semiotica dell’educazione s’avvale dell’integrazione fra gli apparati concettuali ed euristici propri d’entrambi i saperi dei quali è tributaria. Qualsiasi evento inerente all’educare viene considerato in veste di segno, ovvero come un aliquid che stat pro aliquo, rinviante dalla propria immediata occorrenza ai possibili e molteplici interpretanti culturali costituenti il suo senso. Signa appaiono le condotte verbali, paraverbali e 3251
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Educazione non verbali dei soggetti implicati nell’interazione educativa, ma non meno le modalità d’organizzazione degli spazi e delle attività o la scansione dei tempi che la contraddistinguono. Segno è ciò che può essere interpretato, per cui selezionare un atto educativo quale signum implica l’avvio di processi inferenziali tesi a esplicitare le molteplici valenze pedagogiche, etiche, affettive, sociali, ideologiche, retoriche ecc. di cui è intessuto e sulle quali edifica i propri significati. La semiotica dell’educazione ha per oggetto la complessa «semiosi educativa» generata dalle relazioni intrecciate fra educatori e educandi. Costoro comunicano scambiandosi peculiari produzioni segniche emesse sulla base di specifici codici, ossia ricorrendo ai repertori di regole convenzionalmente adottati in una determinata cultura per produrre discorsi a contenuto educativo, il cui impiego avviene con differenti gradi d’intenzionalità. Nella semiosi educativa si identificano come testi quei complessi semiosici dove è rintracciabile un qualche legame strutturale, così come viene definita «educhema» l’unità segnico-educativa minimale attraverso cui risulta attuabile un processo interpretativo. L’ambito storico-culturale fungente da orizzonte per ogni possibile attribuzione di significato è detto «enciclopedia» (cfr. M. Gennari, Interpretare l’educazione. Pedagogia semiotica ermeneutica, Brescia 1992, 20032). Scopo e prodotto dell’esegesi condotta dalla semiotica dell’educazione è la significazione, cioè l’istituzione di significati. Allorché l’interpretazione s’inoltra al di là di quelli culturalmente già sedimentati si ha un arricchimento della conoscenza. In siffatta direzione, particolarmente fecondo è il concetto di «abduzione» elaborato da Charles Sanders Peirce per indicare la forma d’inferenza necessaria quando si manifesta un genuine doubt. L’abduzione – innescata dal sospetto verso i luoghi comuni e le false evidenze – impone al ricercare percorsi congetturali differenti dalle strade consuete, così da fornire inedite prospettive di senso. Similmente a ogni altro, anche l’itinerario attivato dalla semiotica dell’educazione conduce a una «semiosi illimitata», giacché ciascuna interpretazione risulta a sua volta suscettibile di ulteriori interpretazioni. Di conseguenza non si dà un significato finale, un sapere apofantico, in quanto qualsiasi asserita conclusione è possibile rimetterla in gioco a un successivo esame. 3252
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Pertanto, la semiotica dell’educazione, costituendosi quale logica della cultura educativa, da un lato, acclara le peculiari caratteristiche assunte dai codici in essa attivi, dall’altro, è sempre protesa a oltrepassarli, denudandone i contenuti abitudinari, gli schematismi aprioristici, le assunzioni ideologiche. Il suo procedere, raffigurabile pure quale azione di coscientizzazione circa il significato delle abituali condotte educative, si distende in aperture capaci di rinnovare i sistemi segnici per il cui tramite vengono generati i segni e i testi che danno forma e sostanza all’educare. Le problematiche concernenti la struttura epistemologica della semiotica dell’educazione sono affrontate nel loro complesso nei lavori di M. Gennari, mentre i diversi altri saggi riconducibili al suo ambito soffermano l’attenzione su alcuni aspetti in particolare. Negli Stati Uniti, muovendo dalle ricerche peirceiane, alcuni studiosi hanno incentrato l’indagine sul ruolo del pensiero abduttivo nei processi d’apprendimento, evidenziando i vantaggi educativi di quell’informed skepticism che conduce a guardare ai problemi in modo inusuale, rendendo il familiare inconsueto e l’inconsueto familiare (cfr. D.J. Cunningham [a cura di], Education and Pedagogy, n. mon. «The American Journal of Semiotics», 5, 1987). Altri, come Jay L. Lemke, si sono avvalsi degli strumenti elaborati dalla social semiotics per indagare le pratiche significanti impiegate nella classe scolastica, al fine di far emergere le semiotic formations che la guidano, cioè i modelli normativi con cui solitamente vengono generati tanto le sequenze insegnative quanto i temi e i concetti disciplinari. Fra le prime ricerche riconducibili alla semiotica dell’educazione si annoverano quelle intorno alle problematiche dell’educazione visiva e musicale, di cui s’acclara la specificità codessicale allo scopo di promuovere in ogni soggetto sia una semiosi critica sia valide capacità d’espressione personale. Analoga finalità è perseguita dagli studiosi impegnati a lumeggiare le problematiche didattiche concernenti la generazione e la ricezione di testi – in lingua madre o straniera –, i quali fanno leva sulle conoscenze enciclopediche degli studenti e favoriscono percorsi di cooperazione interpretativa. E.W. Tizzi BIBL.: M. GENNARI, Lo sguardo iconico, Brescia 1984; J.L. LEMKE, Semiotics and Education, Toronto 1984; D.J. CUNNINGHAM, Semiotics and Education: An Istance
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of the «New» Paradigm, in «The American Journal of Semiotics», 2 (1987), pp. 195-200; D.J. CUNNINGHAM, Outline of an Education Semiotic, in «The American Journal of Semiotics», 2 (1987), pp. 201-216; J. PETÖFJ, Testologia semiotica e didattica, in P. DESIDERI (a cura di), La centralità del testo nella pratica didattica, Firenze 1991; B. BASSI - M. GENNARI (a cura di), Semiotica e educazione, n. mon. «Versus. Quaderni di studi semiotici», 68-69 (1994); R. TITONE, Recenti tendenze europee nella «semiotica dell’educazione», in «Pedagogia e vita», 4 (1997), pp. 136-142. ➨ PEDAGOGIA.
EDUCAZIONE, Educazione
TEOLOGIA DELLA (theology of education; Theologie der Erziehung; théologie de l’éducation; teología de la educación). – La riflessione teologica sulla struttura, sulla forma simbolica, sulla rilevanza antropologica della fede prospetta l’universalità dell’esperienza credente come elemento ineludibile per l’elaborazione del sapere e per la formazione umana. In un contesto culturale pluralista, alla teologia è naturalmente assegnato il compito di esibire le ragioni della fede. Di là da preconcetti ideologici, marcare la possibilità della ratio critica, e non indulgere invece nella necessità della vis apologetica, coinvolge insieme credenti e non credenti nella prospettiva di una comune responsabilità ermeneutica. In Occidente, la riflessione lato sensu teologica sull’educazione è antica quanto il cristianesimo. Trattazioni su diverse questioni educative, a vario titolo ispirate da una prospettiva teologica, sono comuni nei padri della chiesa, nei sistemi teologici medievali, negli scritti di numerosi teologi moderni e contemporanei. Al tempo stesso, l’elaborazione teologica tradizionale manca di una riflessione sistematica sulle pratiche e sulle istituzioni dell’educazione. Soltanto verso la metà del Novecento, la disciplina denominata teologia dell’educazione ha assunto un profilo epistemico autonomo, dichiarando che il suo oggetto formale è un ambito dell’attività umana, l’educazione, considerata nell’orizzonte e nella forma critica del discorso teologico. Per le sue finalità euristiche, la teologia dell’educazione instaura un riferimento polisemico sia con l’interpretazione dei fenomeni educativi sia con le scienze dell’educazione. Nel 1991 Giuseppe Groppo teorizza in modo articolato la teologia dell’educazione come luogo del dialogo interdisciplinare tra teologia e scienze dell’educazione, avvalorando la neces-
Educazione sità di superare modelli gerarchici tra le aree disciplinari, ispirati alla chiusura reciproca o alla rigida delimitazione delle competenze. L’itinerario compiuto dal pensiero teologico come accostamento ermeneutico all’educazione prende le mosse nei paesi di lingua tedesca, nell’ambito della teologia pastorale, e si articola in riferimento alla crescente sensibilità pedagogica della catechetica che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, approda a una Religionspädagogik (pedagogia della religione). Mentre il movimento di riforma della catechetica si sviluppa prima in contesto evangelico e in seguito anche nella cultura cattolica, il discorso epistemologico sulla natura della pedagogia della religione ottiene maggiore attenzione in ambito cattolico. L’interpretazione della catechetica come pedagogia della religione pone a tale nuovo «ritaglio disciplinare» una serie di questioni relative alla definizione dello statuto epistemologico e ai rapporti tra teologia e pedagogia. In questo orizzonte problematico, sorge l’esigenza di un’analisi teologica dell’attività educativa che si preannuncia nei primi decenni del Novecento e acquisisce una compiuta definizione nell’ambito del rinnovamento teologico sollecitato dal Concilio vaticano II. Negli anni settanta del secolo scorso, Hans Schilling conduce una ricognizione puntuale sui modelli tradizionali di rapporto tra teologia e pedagogia in ambito cattolico, criticandone sia le forme di subalternità sia quelle ingenuamente analogiche. Del modello di rapporto gerarchico è inaccettabile il fatto che la teologia abbia una preminenza sulla pedagogia in quanto scienza della fede rivelata e norma che disciplina l’educazione cristiana; del modello analogico è ritenuta inappropriata la relazione di similitudine proporzionale tra la pedagogia Dei e la pedagogia hominis. La disamina critica compiuta da Schilling conduce all’avvaloramento dell’autonomia della teologia e delle scienze dell’educazione, pone l’enfasi sulla necessità della relazione e della collaborazione reciproca. Il sapere pedagogico, iuxta propria principia, negli ultimi decenni si è ampiamente articolato, precisando il proprio statuto epistemologico. Ciò può permettere di vagliare in modo rinnovato la consistenza teoretica di argomenti ritenuti a lungo e in modo pregiudiziale non propriamente scientifici. La connessione tra «discorso pedagogico e dimensione religiosa» 3253
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Educazione estetica designa una relazione costitutiva e una sfida per le possibilità della formazione umana. Una teologia dell’educazione, aliena da forme di irenismo eclettico, può sollecitare la comprensione delle culture religiose, la riscoperta di una peculiare connotazione spirituale degli eventi educativi e la tematizzazione di una dialettica formativa aperta alla reciprocità amante del tu divino. La teorizzazione di una teologia dell’educazione si delinea oggi nella prospettiva dell’educazione alla e nella libertà, nel rispetto delle differenze che concorrono allo sviluppo integrale e armonico della persona umana. La costituzione critico-ermeneutica della teologia dell’educazione prospetta l’impraticabilità di una sua rappresentazione semplicistica. Né la teologia né la pedagogia possono dialogare in modo adeguato con una teologia dell’educazione che si identifichi come una sorta di sintetico compendio o di corollario di altre discipline. L’esercizio critico della teologia si misura con l’opera aperta dell‘educazione, muovendo dalla ragione credente ovvero da un pensiero che si pone alla sequela della rivelazione. Riflettere sulle risorse dell’humanum implica a pieno titolo il peculiare orizzonte costituto da un pensiero credente. L’anelito alla verità e il desiderio di senso dischiusi dal mistero dell’universo personale richiedono di pensare lo statuto ontologico della vita e del mondo creato, di considerare le dinamiche socioeducative e culturali, di provare stupore di fronte alla ricchezza dell’immaginazione e dell’espressività umana. La teologia dell’educazione in quanto forma dell’elaborazione scientifica contemporanea è chiamata a proporre la ricerca della verità nella prospettiva della problematizzazione della parola e della vita ecclesiale, a prefigurare l’apertura al «mistero di Dio», senz’alcuna utilizzazione funzionale o subalternazione. La fede, possibilità educativa irrinunciabile, è l’espressione esistenziale che l’uomo non appartiene ultimamente a se stesso. La ricerca nel campo della teologia dell’educazione rappresenta un emblema della centralità della persona umana nel vivo dell’esperienza storico-culturale di fronte al mistero dell’alterità. La teologia dell’educazione è riflessione sull’esperienza liberante di Dio come mistero del mondo, che rende, da parte sua, misterio3254
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so l’uomo il quale percorre vie che deve aprirsi in forza della sua libertà. P. Malavasi BIBL.: H. KÖHLER, Theologie der Erziehung, München 1965; H. SCHILLING, Theologie der Erziehung, München 1969; C. BISSOLI, Bibbia e educazione. Contributo storico-critico ad una teologia dell’educazione, Roma 1981; AA.VV., Teologia e scienze dell’educazione. Atti del XXVIII Convegno di Scholé, Brescia 1990; L.J. FRANCIS - A. THATCHER (a cura di), Christian Perspectives for Education. A Reader in Theology of Education, Leominster 1990; G. GROPPO, Teologia dell’educazione. Origine, identità, compiti, Roma 1991; P. MALAVASI, Discorso pedagogico e dimensione religiosa, Milano 2002. ➨ EDUCAZIONE; EDUCAZIONE, ERMENEUTICA DELLA; PEDAGOGIA; EDUCAZIONE, SCIENZE DELLA; TEOLOGIA.
EDUCAZIONE ESTETICA (aesthetic educaEducazione estetica tion; ästhetische Erziehung; Education esthétique; educación estética). – Benché si tenda con l’espressione «educazione estetica» a designare la sfera dell’educazione al gusto, detta nozione rinvia a un ambito problematico ben più ampio che coincide con il ruolo che l’elemento estetico svolge nella formazione complessiva dell’individuo. Con Platone si assiste a una condanna dell’arte e conseguentemente dell’educazione estetica perché considerata del tutto incapace di svolgere un’azione educativa. Un pieno riconoscimento del valore dell’educazione estetica lo si ha solo con l’estetica post-kantiana e in particolare con Friedrich Schiller e nel romanticismo. Nel suo testo Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen (Stuttgart 2000 [1975], tr. it. a cura di A. Negri, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, Roma 2001), Schiller concepisce l’educazione estetica come un percorso in grado di far superare all’uomo la condizione di scissione in cui si trova immerso (pura ragione da una parte, mera sensibilità dall’altra): essere educati esteticamente equivale ad avere accesso a una dimensione dell’umano la cui cifra è il comportamento disinteressato e libero. Nel secolo scorso John Dewey con il suo lavoro di pedagogista riserverà all’educazione estetica un ruolo fondamentale tanto da considerarla il tratto caratteristico di ogni nostra esperienza (Art as Experience, New York 1980, tr. it. di A. Granese, Arte come esperienza e altri scritti, Firenze 1995). Grande importanza al motivo dell’educazione esteti-
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Edwards
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ca è attribuito dallo psicologo dell’arte Rudolf Arnheim che la considera l’unico percorso capace di restituire vigore all’esperienza sensibile in opposizione all’impianto educativo tradizionale. A. Sartini BIBL.: J.F. HERBART, Über die ästhetische Darstellung der Welt als das Hauptgeschäft der Erziehung, in Kleine Schriften zur Pädagogik, a cura di T. Dietrich, Bad Heilbrunn 1962, tr. it. di I. Vopicelli, La rappresentazione estetica del mondo considerata come compito fondamentale dell’educazione, Roma 1996; G.M. BERTIN (a cura di), L’educazione estetica, Firenze 1978; M. GENNARI, Lo sguardo iconico: per un’educazione all’immagine, Brescia 1986; M. GENNARI, L’educazione estetica, Milano 1994; F. CARMAGNOLA, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, Milano 2005. ➨ EDUCAZIONE; ESTETICA; GUSTO.
EDUZIONE (lat. eductio, «tirar fuori» - educEduzione tion; Eductio; éduction; educción). – Termine che caratterizza, nella cosmologia aristotelico-scolastica, il modo proprio con cui vengono prodotte, nelle mutazioni o generazioni corporee, le forme materiali, sostanziali e accidentali. L’espressione completa è eductio formae e (oppure de) potentia materiae, e significa che le forme materiali, non essendo sostanze complete o sussistenti, cioè aventi un proprio essere nello stato di separazione, non possono avere un’origine assoluta o separata: «cum fieri sit via ad esse, hoc modo alicui competit fieri, sicut ei competit esse» (Tommaso, Sum. theol., I, q. 90, art. 2). Ciò che viene prodotto, in senso pieno, è il composto di materia e forma (materiale); la forma materiale viene «comprodotta», o «concreata», in quanto la causa efficiente attualizza la potenzialità della materia; la nuova forma viene «edotta», tirata fuori, attuata, dalla potenza della materia. Aristotele, per caratterizzare l’eduzione delle forme, adoperò (ad es., Metaph., VI, 8, 1033 a 24; VII, 3, 1043 b 15; 5, 1049 b 21-23; cfr. il commento di Tommaso, e Sum. theol., I, q. 65, art. 4) la formula: «formae generantur sine generazione et corrumpuntur sine corruptione» nel senso che, non le forme propriamente sono generate o corrotte, bensì sono propriamente generati e corrotti gli esseri (o «sinoli»), di cui le forme sono le determinazioni sostanziali o accidentali. Nell’essere generato le forme non vengono propriamente generate, ma, appunto, semplicemente edotte dallo stato di potenza allo stato di atto.
Un’erronea concezione dell’eduzione (denunciata già da Tommaso in Quaestio disputata De virtutibus in commune, art. 11, e Sum. theol., I, q. 45, art. 8, e da lui attribuita ad Anassagora: In VII Metaph., lectio VII, ed. Cathala, n. 1430) consiste nel ritenere le forme come «latitantes» nella materia o nella sostanza (a seconda che siano forme sostanziali o accidentali), per cui l’eduzione non sarebbe più un passaggio dall’esistere in potenza all’esistere in atto, ma una semplice «estrazione» di una realtà già in atto, ma nascosta; non si avrebbe più una vera e propria generazione di un essere prima non esistente. Si ricadrebbe pertanto nell’impossibilità di sciogliere il problema di Parmenide, e si dovrebbe rinunciare alla spiegazione della possibilità e della realtà delle mutazioni intrinseche, sia accidentali che sostanziali. In questo modo poi, secondo il sistema della preformazione, in opposizione a quello dell’epigenesi, preesisterebbero nei semi degli animali e delle piante i nuovi esseri generati. G.M. Pozzo BIBL.: P. HOENEN, Cosmologia, Roma 19565, pp. 300318, 598-603. ➨ EPIGENESI; FORMA.
EDWARDS, Edwards JOHN. – Teologo e pastore calvinista, n. a Hertford il 26 febbr. 1637, m. a Cambridge il 16 apr. 1716. Conseguiti i gradi accademici fu predicatore al St. John’s College di Cambridge, dedicandosi alla composizione di scritti teologici e polemici. Il suo calvinismo intransigente non gli permise la carriera accademica. Dopo la pubblicazione della Reasonableness of Christianity ingaggiò un’aspra polemica con Locke, accusandolo di favorire il socinianesimo e di aprire la strada all’ateismo. Criticò la riduzione del credo rivelato al solo dogma della messianicità di Gesù e l’omissione intenzionale dei passi evangelici riguardanti la Trinità, l’incarnazione del Verbo e la morte redentrice di Cristo, obiezioni che Edwards mosse a Locke in diversi scritti: Some Thoughts Concerning the Several Causes and Occasions of Atheism (London 1695); Socinianism Unmask’d (ivi 1696); The Socinian Creed (ivi 1697). Ai deisti oppose la concezione della conoscenza come partecipazione dell’uomo alla divina verità e della rivelazione come «an Other Channel of Truth» (Free Discours Concerning Truth and Error, ivi 1701, p. 64). Scrisse anche in polemica con Whiston e Clarke. Il Dictionary of National Biography gli attribuisce l’anonima Free but 3255
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Edwards Modest Censure on the Late Controversial Writings and Debates [...] of Mr. Edwards and Mr. Locke (ivi 1698). E. Rapetti BIBL.: M. SINA, L’avvento della ragione, Milano 1976, pp. 395-407; V. NUOVO (a cura di), John Locke and Christianity: Contemporary Responses to the Reasonableness of Christianity, Bristol 1997; J.C. HIGGINS-BIDDLE, Introduction, in J. LOCKE, The Reasonableness of Christianity as Delivered in the Scriptures, Oxford 1999, pp. XV-CXV; R. RUSSO, Locke contro Edwards: un conflitto ermeneutico, in A. BABOLIN (a cura di), Metafisica e filosofia della religione, Città di Castello 2004, pp. 231-271.
EDWARDS, JONATHAN. – Teologo protestanEdwards te, pastore e missionario, n. a East Windsor il 5 ott. 1703, m. a Princeton il 22 mar. 1758. Studiò all’università di Yale che ne sta ripubblicando oggi l’opera omnia; dal 1757 fu primo presidente dell’università di Princeton. I suoi scritti furono raccolti in varie edizioni, tra cui: The Works of President Edwards (ed. a cura di S.E. Dwight, New York 1889) e J. Edwards Representative Selection (ed. a cura di C.H. Faust T.H. Johnson, Cincinnati 1935; ripr. 1962). Edwards può essere considerato il fondatore della teologia del New England. Sentì più di ogni altro il problema, assai dibattuto tra i teologi del tempo, della conciliazione delle esigenze del sentimento individuale con quelle di una religiosità più tradizionalmente ecclesiale. Visse inoltre acutamente il dramma dell’incertezza della giustificazione e della predestinazione alla salvezza. Da questi stimoli Edwards fu indotto a tentare una fusione di tesi teologiche pietiste e puritane. Egli si servì come strumento di dottrine filosofiche di varia provenienza: il sensismo lockiano, il sentimentalismo di Hutcheson, l’immaterialismo di Berkeley, il platonismo di Cambridge. Ne risultò una visione del mondo in cui predomina l’affermazione estrema delle assolute maestà e priorità divine, sia nell’ordine dell’essere che in quello dell’azione. Dio è la causa unica di ogni accadimento, sia naturale che spirituale; avvenimenti ed esseri singoli sono non cause seconde, ma puri strumenti dell’elezione divina. Metafisicamente occorre quindi affermare che «a rigore solo Dio è» e «al suo confronto tutto il resto deve essere considerato nulla». Tanto rigorismo è però temperato dall’energica affermazione che Dio è amore, è presente nella bellezza e nella vita universale, con cui 3256
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Edwards sembra talora perfino identificarlo, e percepibile alla coscienza individuale attraverso un particolare «senso del divino» che è fonte di sicurezza e di gioia. Edwards si preoccupò anche di conciliare l’affermazione dell’assoluta libertà e potenza dell’iniziativa divina con la possibilità della previsione scientifica, accettando in larga misura la validità della fisica newtoniana e del suo «sottofondo metafisico» (cfr. Treatise on the Nature of True Virtue, Boston 1889). N. Bosco BIBL.: A.C. MCGIFFERT, Jonathan Edwards, New York 1932; H.W. SCHNEIDER, The Puritan Mind, New York 1932; C.H. FAUST - T.H. JOHNSON, Jonathan Edwards, New York 1936; T.H. JOHNSON, The Printed Writings of Jonathan Edwards, Princeton 1940; O.E. WINSLOW, Jonathan Edwards, New York 1940 (biografia); A.L. JONES, Early American Philosophers, New York 1958; A.A. MAURER, s. v., in P. EDWARDS (a cura di), The Encyclopedia of Philosophy, New York - London 1967, vol. II, pp. 460-462; D.J. ELWOOD, Philosophical Theology of Jonathan Edwards, New York 1960; T. MANFERDINI, Esperienza religiosa e riflessione filosofica: Jonathan Edwards, in Studi sul pensiero americano, Bologna 1960, pp. 65-102; H.W. SCHNEIDER, Storia della filosofia americana, Bologna 1963, cap. 2 (bibliografia: pp. 637-639); C. SARACENO, Un pensatore puritano del diciottesimo secolo: Jonathan Edwards, in «Rivista di Filosofia Neo-scolastica», 3 (1966), pp. 347-356; G.M. MARSDEN, Jonathan Edwards: a Life, New Haven London 2003.
EDWARDS, PAUL. – N. a Vienna il 2 sett. Edwards 1923. Filosofo analitico austriaco di nascita e statunitense di adozione, si è formato presso l’università di Melbourne e alla Columbia University e ha insegnato, oltre che in queste università, a Berkeley e New York. Sostenitore nella sua prima opera importante, The Logic of Moral Discorse (Glencoe [Illinois] 1955) di un’etica basata su un oggettivismo naturalistico e sull’emotivismo, ha dato vita a rilevanti strumenti di divulgazione, soprattutto The Encyclopedia of Philosophy (New York 1967, 8 voll.). Radicale il suo ateismo, che afferma la insostenibilità delle pretese metafisiche delle religioni. Di qui le sue polemiche con Buber (Buber and Buberism, Laurence 1970) e Tillich. Più recentemente ha affrontato il tema dell’immortalità e della reincarnazione, attraverso la storia della filosofia, attraverso il dibattito sul rapporto mente-corpo, ma anche attraverso letteratura e testimonianze non scientifiche: P. Edwards (a cura di), Immortality, New York
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Effetto
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1992, e Reincarnation: a Critical Examination, Buffalo 1996. Sempre in chiave polemica contro contenuti metafisici, analizzati in termini di proposizioni dotate di senso sul piano linguistico, da ricordare anche Heidegger on Death: a Critical Evaluation (La Salle [Illinois] 1979). P. Valenza
EFETTICI (gr. ejfektikoiv, «coloro che sospenEfettici dono il proprio giudizio»; dal verbo ejpevcw ephectics; Ephektiker; éphectiques; efécticos). – Filosofi «efettici» erano chiamati nell’antichità i seguaci delle dottrine scettiche di Pirrone, e questa era una delle quattro denominazioni, tratte dai princìpi della scuola, mediante le quali essi venivano variamente designati. Le enumera Diogene Laerzio, nella Vita di Pirrone (Vite dei filosofi, IX, 69-70), affermando che mentre gli scettici erano detti pirroniani dal nome del loro maestro, venivano anche chiamati aporetici (aj p orhtikoiv) , scettici (skept i k o i v ) , ef e t t i c i (e j f e k t i k o i v ) e z e t e t i c i (zhthtikoiv). E spiega: «zetetici» perché la loro dottrina li conduce a inseguire incessantemente la verità; «scettici», in quanto la ricerca non approda a una conclusione; «efettici», a indicare la condizione in cui si trova chi sospende il giudizio poiché l’indagine non è giunta ad alcun risultato; «aporetici», infine, perché aperti al dubbio di fronte a ogni affermazione. G.F. Pagallo
EFFECTUS ASSIMILATUR CAUSAE Effectus causae AGENTI. – L’effetto, in quanto risultato dell’azione della causa, che non può esplicare se non quanto di fatto essa possiede («nemo dat quod non habet»), ritiene in sé qualche cosa di essa. È, tuttavia, da tener presente che la locuzione estende il proprio significato da una similitudine perfetta fino a una conformità soltanto analogica (cfr. Sum. theol., I, q. 4, art. 3: q. 45, art. 7; q. 105, art. 1 ad 1). Red. ➨ CAUSA; EFFECTUS PROPORTIONATUR SUAE CAUSAE EFFICIENTI; EFFETTO.
EFFECTUS PROPORTIONATUR SUAE Effectus causae CAUSAE EFFICIENTI. – Espressione scolastica, in cui si afferma che l’effetto è proporzionato alla sua causa: un effetto particolare deriva da una causa particolare; un effetto generale da una causa generale; l’effetto universalis-
simo e fondamentale, che è l’essere, da una causa universalissima e prima; a effetti ordinati corrispondono cause ordinate ecc. L’espressione viene compresa pienamente se posta in relazione con l’altra espressione scolastica: «nemo dat quod non habet». Su questo principio si fonda il quarto metodo di Stuart Mill per la ricerca sperimentale: in esso le «variazioni concomitanti» di due fenomeni sono prese come sintomo di una connessione causale (System of Logic, III, cap. 8). È da notare, però, che qualora l’effetto risulti proporzionato a una causa di natura diversa e superiore (come accade nelle creature rispetto a Dio), esso non va oltre un rapporto di somiglianza puramente analogica (cfr. Tommaso, In I Sent., distinctio I, q. 2, a. 2 solutio). Red. BIBL.: N. SIGNORIELLO, Lexikon peripateticum philosophico-theologicum, Roma 19315, pp. 127-128; G.P. KLUBERTANZ, Introduction to the Philosophy of Being, New York 1955; T.M. FLANIGAN, Secondary Casuality in the «Summa contra Gentiles», in «Modern Schoolman», 36 (1958), pp. 31-39; G.P. KLUBERTANZ, St. Thomas Aquinas on Analogy: A Textual Analysis and Systematic Syntesis, Chicago 1960; A.C. LLOYD, The Principle that the Cause is Greater than its Effect, in «Phronesis», 21 (1976), pp. 146-156.
EFFETTO (effect; Wirkung; effet; efecto). – È il Effetto termine correlativo di causa e significa il prodotto o risultato di un processo causale. Il significato proprio di effetto subisce una gamma di variazioni in funzione della diversa concezione fondamentale della causalità, nei diversi sistemi, e in funzione dei diversi tipi di cause a cui viene riferito: p. es., altro è l’effetto formale di una forma, altro l’effetto della medesima forma considerata come causa efficiente. Gli scolastici hanno espresso con alcune formule rimaste famose le principali affermazioni sul rapporto causa-effetto, p. es.: «effectus assimilatur causae agenti»; «effectus proportionatur suae causae efficienti»; «causa est prior suo effectu» ecc. La nozione di effetto ha rilievo anche nella problematica morale, in relazione alle conseguenze effettuali delle azioni umane e alla loro imputabilità. G.M. Pozzo ➨ ATTO UMANO; CAUSA; CAUSALITÀ, TEORIE DELLA; CAUSALITÀ; CONSEGUENZA; EFFICIENZA / EFFETTIVITÀ; ETEROGENESI DEI FINI, TEORIA DELLA.
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Effettuale
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EFFETTUALE (effectual; tatsächlich; effectif; Effettuale efectual). – Sinonimo di effettivo, è termine proprio di Machiavelli, il quale nella descrizione degli eventi storici sceglie il criterio della «verità effettuale», in contrapposizione alla «immaginazione di essa»: gli eventi umani non sono cioè interpretati e giustificati in base a valori e principi morali o ideali, ma unicamente in base a ciò che di fatto accade (cfr. Il Principe, cap. 55). Red.
EFFICACE (efficacious; wirksam; efficace; eficaz). Efficace – Etimologicamente indica l’idea di potere, capacità e realtà di operare e produrre, in rapporto all’effetto. Secondo la tradizione scolastica, efficace si dice della causa in atto, che produce cioè di fatto un’azione e un eventuale effetto, che può dipendere dall’azione. La validità metafisica del concetto di efficace si fonda sui principi di finalità e di ragion sufficiente: «virtutes operativae quae in rebus inveniuntur, frustra essent rebus attributae, si per eas nihil operarentur. Quinimmo omnes res creatae viderentur quodammodo esse frustra, si propria operatione destituerentur: cum omnes res sit propter suam operationem» (Sum. theol. I, q. 105, art. 5; cfr. C. Gent. l. III, q. 69). Secondo la dottrina filosofica dell’occasionalismo ogni tipo di causalità efficace risale esclusivamente a Dio. Nel mondo operano semplici cause seconde che sono occasione dell’azione propriamente divina: solo Dio consente l’interazione fra sostanze eterogenee (anima e corpo). A. Pompei - F. Mazzini BIBL.: F. SELVAGGI, Causalità e indeterminismo, la problematica moderna alla luce della filosofia aristotelicotomista, Roma 1964; M. PAOLINELLI, Fisico-teologia e principio di ragion-sufficiente. Boyle, Maupertuis, Wolff, Kant, Milano 1971; A. PYLE, Malebranche, London 2003; D. MOREAU, Malebranche: une philosophie de l’expérience, Paris 2004; M. PRIAROLO, Visioni divine: la teoria della conoscenza di Malebranche fra Agostino e Descartes, Pisa 2004. ➨ AZIONE; CAUSA; CAUSA, TEORIE DELLA; DETERMINISMO FISICO; EFFETTO; FINALISMO; OCCASIONALISMO; RAGION SUFFICIENTE.
EFFICIENZA (efficiency; Wirksamkeit; efficienEfficienza ce; eficiencia). – Significa assenza di sprechi. Si verificano sprechi, se, da una determinata situazione, è possibile raggiungerne un’altra senza penalizzare alcuno o, qualora qualcuno 3258
sia penalizzato, i vantaggi del mutamento superino i danni, permettendone il risarcimento. L’efficienza può limitarsi alla dimensione produttiva. Nella letteratura economica e di etica pubblica è però usuale riferirsi all’efficienza intesa come raggiungimento del massimo benessere sociale. Si ha massimo benessere sociale quando non solo si realizza l’efficienza nella produzione, ma si produce anche ciò che gli individui desiderano. Il massimo benessere sociale può diversamente configurarsi. Il massimo può essere inteso nei termini unanimistici della prospettiva paretiana, secondo cui è efficiente qualsiasi situazione allontanandosi dalla quale qualcuno sarebbe effettivamente svantaggiato. Oppure, può essere inteso nella prospettiva della compensazione potenziale, come situazione in cui si realizzano i massimi benefici, a prescindere dal risarcimento effettivo dei danni. Diverse possono, pure, essere le accezioni di benessere. In linea di principio, per la moderna teoria economica, il benessere coincide con il soddisfacimento delle preferenze individuali, qualunque esse siano e qualsiasi sia l’ambito verso il quale si indirizzano, da quello dell’allocazione dei beni a quello della scelta delle regole collettive e della redistribuzione. Ciò nonostante, è assunto comune a molte analisi economiche fare coincidere le preferenze con gli interessi personali alla disponibilità di reddito e di ricchezza. Inoltre, l’ambito prediletto dell’efficienza resta quello allocativo e la redistribuzione, qualora considerata, si limita agli interventi a vantaggio di tutti, come nella prospettiva della redistribuzione paretoottimale. Il che significa escludere tutte le attività redistributive, dove i guadagni per gli uni comportino perdite per gli altri. In quest’ultimo caso, il criterio dell’efficienza non è in grado di esprimere alcuna valutazione, diventando necessari criteri alternativi di giustizia distributiva. Una volta fissati tali criteri, efficienza e giustizia distributiva potrebbero essere compatibili. Il requisito è che siano disponibili imposte e trasferimenti non distorsivi, ossia, non interferenti con le scelte individuali. Diversamente, si ingenererebbe il noto trade off tra tali valori. Le imposte correlate al reddito, ad esempio, distorcono le scelte individuali, inducendo a sostituire il lavoro con il riposo. Il risultato sarebbe la creazione di inefficienze, poiché ai costi relativi alla minore offerta di lavoro non si
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accompagnerebbe alcun beneficio in termini di gettito. Minore offerta di lavoro significa, infatti, perdite di benessere per i contribuenti, costretti a modificare le proprie scelte a seguito della coazione pubblica, perdite macro-economiche, a causa della ridotta produzione e perdite di gettito, a causa della ridotta base imponibile. Il trade off tra efficienza e giustizia distributiva è centrale nella teoria economica. Le analisi empiriche tendono però a circoscriverne l’entità, sottolineando il ruolo del disegno istituzionale. Inoltre, le perdite di benessere per i contribuenti potrebbero essere messe in discussione da un punto di vista etico: tali perdite esistono solo se si presuppone che le finalità dell’intervento pubblico non siano consensuali. Appunto, se si è costretti a modificare le scelte a seguito della coercizione pubblica. Diversamente, la modifica delle scelte deriverebbe dal tentativo opportunistico di rimuovere, scaricandoli su altri, i costi associati al raggiungimento delle finalità desiderate. Infine, un ultimo limite del criterio di efficienza è stato messo in luce dal dilemma di Amartya Sen del paretiano liberale, secondo cui potrebbe ingenerarsi anche un trade off tra la libertà di scelta di perseguire benessere e la difesa intrinseca della libertà. Quest’ultima, infatti, potrebbe non essere inclusa fra le preferenze individuali. E. Granaglia BIBL.: F. BATOR, The Simple Analytics of Welfare Maximization, in «American Economic Review», 47 (1957), pp. 22-59; F. CAFFÈ (a cura di), Saggi sulla moderna economia del benessere, Torino 1965; A. SEN, The Impossibility of a Paretian Liberal, in «Journal of Political Economy», 78 (1970), pp. 152-157; J. HICKS, Wealth and Welfare, Oxford 1981; D. HAUSMANN - M. MCPHERSON, Economic Analysis and Moral Philosophy, Cambridge 1993. ➨ PARETIANO LIBERALE.
EFFICIENTE, CAUSA: V. CAUSA EFFICIENTE. Efficiente EFFICIENZA / EFFETTIVITÀ (gr. aujtopoiEfficienza / effettività hv si" / poiouvmenon; lat. effectus - efficiency / effectiveness; Wirkungsgrad / Wirksamkeit; efficience / effectivité; eficiencia / efectividad). – Mentre l’efficienza è l’abilità di produrre l’effetto desiderato con il minimo di sforzo, spesa o spreco ed è dunque una proporzione tra lo sforzo impiegato e il risultato prodotto, l’effettività è più in
Efficienza / effettività generale il potere di produrre effetti, la qualità di essere. Se una causa è qualcosa dalla quale dipende il verificarsi di qualcos’altro, la relazione di dipendenza non è né solo logica, con simmetria tra cause e variabili, né solo temporale, non è insomma post hoc, ma è propter hoc e allora la causa è effettiva. L’effettività è dunque il termine di paragone per valutare se un effetto è stato raggiunto. Diverso il discorso dell’efficienza, che riguarda la valutazione dello sforzo impiegato. Nella medicina antica, si parla di effettività per indicare il successo relativo di medicine e terapie. Nel Fedone, Socrate sa che non deve far altro che «bere il veleno e camminare fino a che le gambe gli si facciano pesanti, poi coricarsi e aspettare che il veleno abbia effetto da sé (aujto poihvsei)» (117 a - b). Per i presocratici, l’ai[tion o l’ajrch' sono cause materiali, sono la kivnhsi" inerente alle cose stesse. Empedocle considera ad esempio amore e odio come effetti delle forze motrici nell’uomo (DK, B 17, 21-24) e Anassagora indica ogni moto come effetto del nou'" (DK, B 12, 10-14). Aristotele formula il principio di ragion sufficiente nelle prime righe degli Analitici primi, «tutti gli insegnamenti che implicano l’uso della ragione derivano da un sapere preesistente» (An. pr., 71 a 1-2). Nella Fisica, Aristotele spiega che ciò che agisce è causa rispetto a ciò che è prodotto: to; poiou'n tou' poiouvmenon (Phys., 194 b 32). Poivew significa però sia produrre sia agire, dove agire viene espresso anche da pravssw e Aristotele nell’Etica nicomachea distingue tra la poihvsi" in quanto effetto della tevcnh, che è un’attività il cui fine è altro da sé, come il tavolo lo è del lavoro del falegname, e la pravxi" in quanto effetto della frovnhsi", che è un’attività il cui fine è se stessa, come fare attenzione (Et. Nic., 1140 a 10; 1140 b 5). Anche ejrgavzomai (e i suoi derivati e[rgon, ejnevrgeia) designa la produzione di effetti. Nella Repubblica, Platone lo usa per indicare gli «effetti buoni e cattivi della guerra» (Resp., 373 e). Per l’efficienza, invece, i greci usano duvnami", potere, potenza. Nella Metafisica, Aristotele distingue ciò che è in potenza (dunatovn) da ciò che è in atto (ejnevrgeia), ad esempio chi ha gli occhi chiusi, ma ha il potere della vista e chi sta effettivamente vedendo (Metaph., 1048 a 37 - 1048 b 6). Al contrario della causalità, l’effettività non è ancora parte del lessico filosofico della latinità, anche se Cicerone usa efficio per realizzare, 3259
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Effluvium mostrare, provare; efficitur poi vale quanto «ne segue», ita efficitur, ut omne corpus mortale sit (cfr. De natura deorum, 3, 12, 30). Compare invece in Tommaso d’Aquino, che distingue la grazia che opera nell’anima «formaliter, secundum quod quaelibet forma facit esse in subjecto», così come la bianchezza ha come effetto l’esser bianco, dalla grazia che opera «effective, secundum quod habitus effective causat opus» in quanto opera un movimento dell’anima che effettivamente consegue un risultato (In II Sent., distinctio 26, q. 1, art. 5, resp. 5). Niccolò Machiavelli indica nella «verità effettuale» l’oggetto del lavoro dello storico e la distingue dalla «imaginazione di essa» (Il principe, cap. 15). Nella sua elaborazione della teoria aristotelica degli abiti Jacopo Zabarella lo usa per definire l’arte, «habitus cum recta ratione effectivus», rispetto alla prudenza, «habitus recta cum ratione activus» (De natura logicae, I, 2). Nella filosofia tedesca, effetto viene indicato da Wirkung, efficienza con Wirkungsgrad, effettività con Wirksamkeit. Causa ed effetto entrano a far parte della tavola kantiana delle categorie nella Critica della ragione pura (cfr. KrV A 80 / B 106). Il concetto di effettività viene tematizzato da Wilhelm von Humboldt nel saggio di filosofia politica redatto nel 1792 e dedicato ai limiti dell’azione dello stato, dove Wirksamkeit, appunto vale sia come effettività sia come azione, secondo i due significati del greco poivew (cfr. Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des Staats zu bestimmen, Breslau 1851). La categoria kantiana della realtà in quanto Wirklichkeit (cfr. KrV, A 218 / B 265-266), viene ripensata in termini aristotelici da Hegel, per il quale la Wirklichkeit non è la semplice realtà seguente alla posizione da parte di un altro (che sarebbe la Realität, con un termine di derivazione latina), ma è piuttosto ejnevrgeia, la totalità della realtà considerata come qualcosa che contiene in sé il potere di divenire effettivo (cfr. Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, riveduta da C. Cesa, vol. II, Roma-Bari 20048, p. 595), distinzione ripresa da Giovanni Gentile per delineare il progresso dello spirito verso se stesso: il «fatto» rappresenta un che di esterno, astratto e vuoto e non può avere alcuna funzione fondativa, mentre l’«atto» è un che di interno, concreto, significativo ed è ciò su cui riposa l’intera costruzione dello spirito come unità di teoria e prassi (cfr. Teoria generale dello spirito come atto puro [1916], in Opere di 3260
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Giovanni Gentile, vol. 3, Firenze 19987, pp. 83 ss.). Nel § 15 di Sein und Zeit, Martin Heidegger interpreta i prodotti della poihvsi" come «semplice presenza (Vorhandenheit)» e quelli della pravxi" come «utilizzabilità (Zuhandenheit)». A sua volta Hannah Arendt, chiama produzione il risultato del lavoro e prassi il lavoro stesso, che è azione, «la sola attività che mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità» (Vita activa, Stuttgart 1960, tr. it. Vita activa, a cura di S. Finzi, Milano 1964, p. 7). R. Pozzo BIBL.: R. BERNASCONI, The Fate of the Distinction Between Praxis and Poiesis, in «Heidegger-Studies», 2 (1983), pp. 111-139; D. EMMETT, Introduction, in The Effectiveness of Causes, Albany (New York) 1985, pp. 1-5; R. POZZO, On the History of the Concept of Effectiveness, in G. AUSENDA (a cura di), On Effectiveness, Woodbridge (New York) 2003, pp. 13-26. ➨ AITIA; ATTUALITÀ; CAUSA; EFFETTO; EFFICIENTE, CAUSA; FARE; KINESIS; PHYSIS; POIESIS; PRAXIS; REALTÀ; SFORZO.
EFFLUVIUM (gr. rJeu'ma). – Termine che si riEffluvium scontra in Empedocle e con cui viene spiegata, in modo particolare, la sensazione. Effluvium è l’irradiamento continuo e costante degli elementi costitutivi di un composto, determinato da quella legge di affinità e di adattamento reciproco per cui il simile tende al simile; l’effluvium penetra nei pori dei composti, e attraverso questi avviene il contatto degli elementi e quindi, nella sensazione, la conoscenza (cfr. Plutarco, Quaestiones naturales, 19, 3; Aristotele, Gen. et corr., I, 8, 324 b 26; Teofrasto, De sensu, 12, in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 31 A 86). A. Tognolo
EGEMONIA (hJgemoniva «autorità di condurEgemonia re», «condotta», «guida» – hegemony; Hegemonie; hégémonie; hegemonía). – Oltre il significato metafisico, il termine ha assunto un significato tecnico prima nella sua accezione politicomilitare greca e oggi nella terminologia marxista. L’egemonia corrisponde al latino imperium in opposizione al dominatus o dominatio (ajrchv), è cioè nell’ambito della polis la potestà in opposizione alla tirannide; nei rapporti fra diverse città è la forma di prevalenza di una polis in se-
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no a una lega militare, nella quale essa, rispettando l’autonomia interna delle città associate (il novmo" è un istituto riguardante essenzialmente la singola comunità politica), ha però la direzione esclusiva della guerra e degli affari della lega con altri stati: tale è la situazione di Atene all’inizio della Lega delio-attica (cfr. A. Ferrabino, L’impero ateniese, Torino 1927). Nella storia romana una situazione analoga è quella di Roma rispetto alle «colonie latine» del secolo IV-III. Il termine ha oggi un significato politico non tecnico ed equivale in genere a predominio politico-economico, di fatto esercitato da uno stato su altri che di diritto sono indipendenti; si ricollega a imperialismo. Il concetto di egemonia nella problematica marxista è stato teorizzato soprattutto da Lenin e da Gramsci allo scopo di accentuare l’importanza dell’elemento cosciente e volontario nella dialettica storica e, conseguentemente, di mostrare, contro l’interpretazione deterministica del materialismo storico, l’importanza dell’attività del partito per la realizzazione della società socialista. II termine egemonia, infatti, indica la direzione della classe operaia, impersonata dal partito politico, esercitata sulle altre classi dei contadini e degli intellettuali. Questa direzione dovrebbe essere basata soprattutto sul consenso e non sulla forza, sulla collaborazione e non sulla costrizione. Il proletariato, infatti, solo rendendosi egemone di tutte le forze sociali potenzialmente rivoluzionarie, potrà instaurare la società senza classi: questa sorgerà così soprattutto per l’azione politica del partito e non tanto per le contraddizioni interne dell’economia. Proprio partendo da questo concetto, sia Lenin sia Gramsci hanno sottolineato l’importanza dell’ideologia e degli intellettuali per il movimento socialista: solo questi infatti possono elaborare quella concezione del mondo e quella coscienza storico-sociale, che permettono una più facile direzione politica delle masse, sottraendole alle remore della tradizione e all’influsso del passato. N. Mattecuci BIBL.: H. TRIEPEL, Die Hegemonie, Stuttgart 1938; H. NEUBERT, Zur Machtfrage in der marxistischen Theorie. Der Beitrag Antonio Gramscis, Berlin 1994; E. LACLAU C. MOUFFE, Hegemony and socialist Strategy. Towards a radical democratic Politics, London - New York 20012. ➨ EGEMONICO; IMPERO.
Egemonico EGEMONICO (gr. hJgemonikov" - hegemonic; Egemonico Hegemonikon; hégémonique; hegemónico). – È nella filosofia greca il «principio direttivo», postulato fin dai presocratici sotto due aspetti: a) principio direttivo del mondo, o identificato con la divinità o visto come direttamente proveniente da questa; b) principio direttivo delle attività umane, e come tale identificato con la ragione e localizzato in un centro fisico e psichico del corpo. La prima postulazione di un hJgemonikov" sembra essere stata quella del pitagorismo: Filolao lo pone nel fuoco centrale: to; hJgemoniko;n ejn tw'/ mesaitavtw/ puriv (H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 44 A 17), mentre hJgemwvn è anche il dieci (B 11) e, secondo un’incerta testimonianza, anche il sette (B 20). La «guida» come principio psichico è pienamente formulata in Platone, in cui però sui derivati di hJgouvmai prevalgano altri termini fra cui a[rcw. La gerarchia da lui posta nei tre principi psichici è appunto gerarchia direttiva: l’anima razionale esercita la hJgemoniva, la virtù del governare, e ad essa si sottopone sia l’anima volitiva con l’ajndreiva, cioè con l’accettare i dati razionali, sia l’anima concupiscente, essenzialmente con la swfrosuvnh, cioè con la piena sottomissione alla ragione (Resp., IV, 430 b ss., 442 c). La giustizia, il complesso delle virtù, regola tutti questi rapporti (ibi, 433 a ss.). Analogamente nello stato il comando spetta ai sofoiv, che da questa loro mansione prendono il nome di a[rconte" (op. cit., III, 412 b). Solo nello stoicismo postzenoniano (in Zenone il termine non ha ancora un preciso senso tecnico) hJgemonikov" ha un pieno valore filosofico. Nel mondo esso è il principio direttivo, identificato con uno dei due elementi dell’anima del mondo, o con il fuoco (per Cleante il sole: H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, Leipzig 1903, p. 112) o con l’aria (come per Crisippo e Posidonio: ibi, II, p. 194; cfr. Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, VII, 139), in qualche tardo stoico anche con la terra, come in Archedemo di Tarso (: H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, Leipzig 1903, III, p. 264). Analogamente nell’anima esso è l’io, il principio unificatore, una delle otto parti dell’anima, guida delle altre (i cinque sensi, la voce e il principio di generazione) che operano nei loro organi particolari (ibi, II, pp. 226 ss.). Da questo procede inoltre il complesso dell’esperien3261
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Egesia di Cirene za e della prolessi e, al di sopra di queste, il lovgo", la piena ragione che approfondisce i dati sensibili (ibi, II, pp. 21 ss.). Infine anche le virtù e le passioni sono determinate dai suoi giudizi (ibi, III, pp. 75 e 110 ss.). Quanto alla sua sede, i più la pongono nel petto (ibi, III, p. 217). Nell’ulteriore svolgimento dello stoicismo l’hJgemonikov" fu sempre visto in funzione di guida dell’anima, e come tale partecipò a tutte le lievi oscillazioni che si ebbero tra i filosofi sulle funzioni e particolarità di questa. G. Garuti BIBL.: teorie pitagoriche: per l’hJgemonikov" nel fuoco, cfr. V. CAPPARELLI, La sapienza di Pitagora, II, Padova 1945, pp. 724 ss.; A. MADDALENA, I Pitagorici, Bari 1954, pp. 180-181, che sostiene l’attribuzione di detta dottrina a Filolao; per il dieci e il sette: A. MADDALENA, I Pitagorici, Bari 1954, rispettivamente pp. 175 ss. e 198 ss.; per Platone L. STEFANINI, Platone, Padova 1932-35 2 voll. (19492): esposizione schematica in vol. I, pp. 296-297; v. ancora II, p. 37 ecc.; v. inoltre: K. HILDEBRANDT, Platone, Torino 1947, pp. 276-277. Stoicismo: Zenone: F. ADORNO, Sul significato del termine hJgemonikov" in Zenone, in «La parola del passato», 1959, pp. 26-41; M. POHLENZ, Die Stoa, I, Göttingen 19643, pp. 83, 95 ss., tr. it. a cura di O. De Gregorio, Milano 2005; sulla terra come egemonico in N. FESTA, I frammenti degli Stoici antichi, II, Bari 1935, pp. 118-119. Nell’uomo: esposizione chiara in G. MANCINI, L’etica stoica da Zenone a Crisippo, Padova 1940, pp. 131 ss.; per l’impostazione iniziale e la storia particolareggiata del concetto M. POHLENZ, Die Stoa, I, Göttingen 19643, I, pp. 54 ss., 88 ss., 143 ss. e passim.
EGESIA CIRENE (ÔHghsiva"). – Filosofo Egesia diDICirene tradizionalmente considerato appartenente alla scuola cirenaica, vissuto tra il sec. IV e il sec. III a. C. Per le sue idee pessimistiche, che avrebbero spinto molti dei suoi ascoltatori al suicidio, fu soprannominato «persuasore di morte» (Peisiqavnato") e, secondo la tradizione, sarebbe stato dal re Tolomeo I Soter diffidato a proseguire il suo insegnamento. Gli viene attribuito un libro intitolato «Colui che si lascia morire di fame» (´Apokarterw'n), nel quale il protagonista, sul punto di morire volontariamente, salvato dagli amici, spiega ad essi i motivi della sua risoluzione, facendo un lungo elenco dei mali che affliggono l’umana esistenza. Secondo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, II, 85) fu iniziatore di una delle tre correnti in cui la scuola cirenaica si divise nel sec. III, quasi certamente anche sotto la spinta di una 3262
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polemica forte con gli epicurei, ma senza che per questo lo si debba considerare come l’iniziatore di una sua scuola autonoma, i cui seguaci vengono costantemente chiamati egesiaci. Il punto di partenza del suo pensiero è costituito dalle premesse cirenaiche sia in gnoseologia che in etica. Sennonché, quanto alla prima, egli negava che i sensi potessero mai dare una conoscenza esatta e, quanto alla seconda, dall’assunto che il bene e il male fossero rispettivamente da riporre nel piacere e nel dolore, egli ricavava la sua conclusione tipicamente pessimistica, unita tuttavia a una sorta di egualitarismo sociale, non lontano da posizioni ciniche. Piacere e dolore infatti non corrispondono a situazioni determinate e oggettive né seguono come effetti prevedibili dalle medesime cause, ma hanno una natura relativa e instabile, dipendendo soprattutto il piacere dalla rarità e dalla novità e il dolore dai loro contrari (dove è abbozzata una teoria del dolore come noia). Né essi hanno relazione alcuna con condizioni stabili dell’esistenza, come possono essere la ricchezza, la nobiltà, la libertà e l’onore da una parte e la povertà, la condizione umile, la schiavitù e l’ignominia dall’altra. A ciò si aggiunge il potere della fortuna che così spesso delude le umane speranze. Ricondotto, a questo modo, il piacere corporeo a qualcosa di incerto e di fortuito, incapace di essere sottomesso a una regola che possa valere per l’arte del vivere, nemmeno si può trovare conforto, come voleva Anniceri, nel godimento dell’animo, sia perché in esso sempre si riflettono i dolori del corpo, sia perché i legami affettivi si risolvono in realtà in semplici rapporti di interesse. Essendo dunque impossibile conseguire la felicità, il «fine» non può che essere negativo, non tanto ricerca del bene, quanto fuga dal male. Perciò la vita non è di per sé un bene, come stoltamente ritiene l’uomo comune, ma qualcosa di indifferente che il saggio, a seconda delle circostanze, accetta o rifiuta. Le stesse posizioni pessimistiche che sfociavano ad esempio nella considerazione dell’amicizia, della riconoscenza, della benevolenza quali valori meramente relativi, inducevano Egesia ad assumere un atteggiamento di indulgenza di fronte all’errore, ritenuto sempre involontario e perciò da rimuovere non con l’odio ma con l’insegnamento. D. Pesce - E. Spinelli
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Egidi
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BIBL.: fonti: G. GIANNANTONI (a cura di), Socratis et Socraticorum Reliquiae, Napoli 1990, IV, F 1-7; G. GIANNANTONI, I Cirenaici, Firenze 1958; E. MANNEBACH, Aristippi et Cyrenaicorum fragmenta, Leiden-Köln 1961. Su Egesia di Cirene: J.C. MURRAY, An Ancient pessimist, in «Philosophical Review», 2 (1893), pp. 24-34; Socratis et Socraticorum Reliquiae, cit., vol. IV, p. 189, n. 1; E. SPINELLI, P. Köln 205: il Socrate di Egesia?, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», 91 (1992), pp. 10-14; K. DÖRING, Sokrates, die Sokratiker und die von ihnen begründeten Traditionen, in H. FLASHAR (a cura di), Grundriss der Geschichte der Philosophie: Die Philosophie der Antike, vol. 2/1: SophistikSokrates-Sokratik-Mathematik-Medizin, Basel 1998, pp. 257-258; R. GOULET, s. v., in Dictionnaire des philosophes antiques, a cura di R. Goulet, vol. III, Paris 2000, pp. 528-529.
EGESINO PERGAMO (ÔHghsivno"). – FiEgesino diDI Pergamo losofo della media Accademia, visse tra il sec. III e il sec. II a. C. Di lui non abbiamo notizie sicuramente attendibili: forse fu scolarca dopo Arcesilao, Lacide, Telecle ed Evandro e immediatamente prima di Carneade (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IV, 60), che probabilmente lo ebbe a maestro. È quasi sicuramente da identificarsi con l’Egesilao ricordato da Clemente Alessandrino (Stromata, I, 14, 63). G.M. Pozzo BIBL.: H. VON ARNIM, s. v., in A. PAULY - G. WISSOWA, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, vol. VII, Stuttgart 1893-1965, coI. 2610; DAEBRITZ, Hegesilaos, in A. PAULY - G. WISSOWA, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, vol. VII, Stuttgart 1893-1965, col. 2609; H.J. METTE, Weitere Akademiker heute (Fortsetzung von Lustr. 26-794). Von Lakydes bis zu Kleitomachos, «Lustrum», 27 (1985), p. 52.
EGGERSDORFER, FRANZ XAVER. – PedagoEggersdorfer gista, sacerdote, n. a Pörndorf (Baviera) il 22 febbr. 1879, m. a Passau il 2 magg. 1958. Fu uno degli editori dello Handbuch der Erziehungswissenschaft (München 1928-38, 11 voll.) e professore di Pedagogia a Passau. Lo Jugendbildung (che fa parte dello Handbuch) è classico per il pensiero pedagogico cattolico. Per Eggersdorfer la pedagogia è scienza normativa sul piano di una paedagogia perennis, metodologicamente adeguantesi alle esigenze del tempo e della storia. Oltre agli studi pedagogici, nei quali è riconoscibile l’influsso di O. Willmann, Eggersdorfer si interessò attivamente di politica scolastica. F. Schlederer
BIBL.: Das Ziel der Erziehung, Münster 1925; Vom inneren Aufbau aller Bildung, in «Bayerisches Bildungswesen», 1 (1927), pp. 139 ss.; Jugendbildung, «Handbuch der Erziehungswissenschaft, I. Teil: Allgemeine Erziehungslehre», vol. III, München 19566 (1928); Die «Pädagogische Hochschule» als Stätte der künftigen Lehrerbildung, Donauwörth 1950; Jugenderziehung, München 1962. Su Eggersdorfer: R. LOCHNEE, Deutsche Erziehungswissenschaft, Meisenheim-Glan 1963, p. 54; L. BOPP, s. v., in AA.VV., Dizionario enciclopedico di pedagogia, Torino 1969, vol. II, pp. 86-87; R. WEINSCHENK, F.X. Eggersdorfer (1879 - 1958) und sein System der allgemeinen Erziehungslehre: biographisch-systematische Untersuchung über Leben, Wirken und die grundlegenden Fragen seiner wissenschaftlichen Pädagogik, Paderborn 1972; A. PAULUS, Festschrift zur Einweihung der Baumassnahmen an der Franz-Xaver Eggersdorfer-Schule und an den Wirtschaftsgebäuden, Vilshofen 2002.
EGIDI, MARIA ROSARIA. – N. ad Ascoli Piceno Egidi il 15 nov. 1932. Laureata in filosofia nel 1956 all’università di Roma e libera docente in Filosofia della Scienza nel 1964, è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università Roma Tre. I suoi studi si sono inizialmente orientati verso la logica filosofica di G. Frege, del quale la sua Ontologia e conoscenza matematica (Firenze 1963) rappresenta la prima monografia critica pubblicata in Italia. Nel pensatore di Jena ha ravvisato la convergenza di due filoni della speculazione classica tedesca, risalenti a Leibniz e Kant, e la rielaborazione nella sua «ideografia» dell’ideale della mathesis universalis. La ricerca di Egidi si è poi concentrata sui problemi del linguaggio scientifico, nel tentativo, da un lato, di legare l’approccio epistemologico del neoempirismo con quello semantico e, dall’altro, di delineare una concezione antiriduzionistica della scienza sulla scorta di figure quali W. Sellars, S. Toulmin, P. Feyerabend e T. Kuhn. La reazione nei confronti della concezione oggettivistica del sapere scientifico doveva modellare gli studi successivi di Egidi incentrati, dapprima, sul dibattito che tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso mirava a una valutazione globale del relativismo epistemologico e, in seguito, sul pensiero del «secondo» Wittgenstein, criticamente esaminato in particolare sulla base degli scritti intorno alla filosofia della psicologia. Vari studi ha dedicato a A. Marty, G. Bergmann, G.E. von 3263
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Egidio di Medonta Wright, D. Davidson e a temi della filosofia analitica del linguaggio e dell’azione. M. Dell’Utri BIBL.: altre opere: Studi di logica e filosofia della scienza, Roma 1971; Il linguaggio delle teorie scientifiche, Napoli 1979; M.R. EGIDI (a cura di), Wittgenstein. Momenti di una critica del sapere, Napoli 1983; M.R. EGIDI (a cura di), La svolta relativistica nell’epistemologia contemporanea, Milano 1988; A. Marty. Eine Sprachphilosophie in der Nachfolge Brentanos, Amsterdam 1992; M.R. EGIDI (a cura di), Wittgenstein. Mind and Language, Dordrecht 1995; M.R. EGIDI (a cura di), In Search of a New Humanism, Dordrecht 1999.
EGIDIO Egidio di Medonta(anche Guido) DI MEDONTA. – Maestro di teologia, agostiniano del XIV secolo, oriundo parigino, m. dopo il 1364. Insegnò nello Studio generale di Parigi. Pochissimo sappiamo di lui; nel 1352 ottiene di leggere le Sentenze durante il periodo estivo, come baccelliere; nel 1354 è chiamato dall’università di Parigi a revocare alcune proposizioni erronee da lui insegnate nella scuola agostiniana. Ci resta una sua lettera a Nicola d’Autrecourt (ed. a cura di J.C. Lappe, Nicolaus von Autrecourt: Sein Leben, seine Philosophie, seine Schriften, Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, vol. VI, 2, Münster i.W. 1908, pp. 1-31 [pp.14-24; risposta, pp. 24-30]) dove ne combatte le teorie principali intorno alla causalità e al problema della conoscenza. C. Testore BIBL.: H. DENIFLE - E. CHATELAIN, Chartularium Universitatis Parisiensis, Paris 1894, vol. III, nn. 1207, 1218 e nota p. 122 (ripr. Bruxelles 1964); P. FÉRET, La Faculté de théologie de Paris et ses docteurs les plus célèbres; Moyen-âge, Bruxelles 1896, vol. III, pp. 182-184.
EGIDIO Egidio da Viterbo(ANTONINI) DA VITERBO. – Oratore, filosofo, teologo e storico, n. a Viterbo nel 1469, m. a Roma nel 1532. Sembra errato l’appellativo Canisius, da una trascrizione di Caninius, in riferimento al paese natale della madre. Dell’ordine degli Agostiniani, studia a Padova, ove pubblica, oltre a tre inediti di Egidio Romano, le due Quaestiones de materia celi et de intellectu possibili contra Averroim insieme con i Commentaria in VIII libros Physicorum Aristotelis (1493). Allievo di Nifo, incontra G. Pico, del quale apprezza la polemica antiastrologica e con il quale discute del significato della cabala. Conosce Ficino e nel 1497 consegue il magistero in teologia a Roma, discutendo tesi pla3264
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toniche. A Napoli, affiliato all’Accademia Pontaniana, è stimato da Sannazzaro e dallo stesso Pontano, che lo fa protagonista del suo Aegidius; in seguito si stabilisce presso la Congregazione degli Osservanti di Lecceto, vicino a Siena, per dedicarsi alla vita ascetica. Del 1506 è l’orazione De Ecclesiae incremento, in cui interpreta in senso provvidenzialista le recenti conquiste dei portoghesi. Nominato predicatore apostolico da Giulio II, nel 1507 diviene priore dell’ordine. In uno scritto di questo periodo mette in rapporto la dignità dell’uomo con l’incarnazione di Dio; degli stessi anni sono le Sententiae ad mentem Platonis, sull’opera di Lombardo, che sviluppano l’idea della continuità tra platonismo e cristianesimo. Pronuncia l’orazione inaugurale al concilio Lateranense V; tra il 1513 e il 1518, scrive la Historia viginti saeculorum, forse sotto l’influenza gioachimita, una «teologia della storia» che esalta i valori di unione e di concordia; del 1517 sono il Libellus de litteris hebraicis e la Schechina, in cui, entro un quadro cristiano, tratta delle lettere e dei numeri e dei nomi divini. Eletto cardinale nel 1521, nell’ultimo periodo si dedica sistematicamente allo studio delle dottrine ebraiche e cabalistiche. M. Laffranchi BIBL.: In I Sententiarum ad mentem Platonis, ed. parziale a cura di E. MASSA, I fondamenti metafisici della «dignitas hominis» e testi inediti di Egidio da Viterbo, Torino 1954; Scechina e Libellus de litteris hebraicis, ed. a cura di F. Secret, Roma 1959, 2 voll.; De Ecclesiae incremento, ed. a cura di J.W. O’Malley, in «Traditio», 25 (1969), pp. 265-338; La dignità dell’uomo, l’amore di Dio e il destino di Roma, ed. a cura di J. W. O’Malley, in «Viator», 3 (1972), pp. 389-416; Orazione inaugurale al V Concilio Lateranense, ed. a cura di C. O’Reilly, in «Augustiniana», 27 (1977), pp. 166204; Lettere familiari, ed. a cura di A.M. Voci Roth, Roma 1990, 2 voll. Su Egidio da Viterbo: E. MASSA, Egidio da Viterbo, Machiavelli, Lutero e il pessimismo cristiano, in «Archivio di Filosofia», 18 (1949), pp. 75-123; M. REEVES, Joachimist Espectations in the Order of Augustinian Hermits, in «Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale», 25 (1958), pp. 111-141; F. SECRET, Le symbolisme de la Kabbale chrétienne dans la «Scechina» de Egidio de Viterbo, in «Archivio di Filosofia», 27 (1958), pp. 131-154; G. ERNST - S. FOÀ, Egidio da Viterbo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma 1960 ss., vol. XLII, pp. 341-353; J.W. O’MALLEY, Giles of Viterbo on Church and Reform, Leiden 1968; F.X. MARTIN, The Writings of Giles of Viterbo, in «Augusti-
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niana», 19 (1979), pp. 141-193; F.X. MARTIN, Egidio da Viterbo, 1469-1532: Bibliography, 1510-1982, in «Biblioteca e Società», 4 (1982), pp. 45-52; AAVV., Egidio da Viterbo O. S. A. e il suo tempo, «Atti del V Convegno dell’Istituto storico agostiniano, RomaViterbo, 20-23 ottobre 1982», Studia Augustiniana historica, vol. IX, Roma 1983; D. GIONTA, Scholastik und Platonismus im Prolog zum Sentenzenkommentar des Aegidius von Viterbo, in «Augustiniana», 39 (1989), pp. 132-153; J. MONFASANI, Hermes Trismegistus, Rome and the Myth of Europa: an Unknown Text of Giles of Viterbo, in «Viator», 22 (1991), pp. 311-342; F. TATEO, Egidio da Viterbo fra Sant’Agostino e Giovanni Pontano, Roma 2000.
EGIDIO LESSINES (de Lessinia). – TomiEgidio diDILessines sta, domenicano, n. a Lessines (Hainaut) verso il 1230, m. nel 1304. Studente a Colonia (probabilmente) e a San Giacomo di Parigi, dove lo troviamo insegnante di teologia con il grado di baccelliere. Egidio di Lessines è uno dei primi domenicani che cerca di penetrare e sviluppare le virtualità del tomismo e di difenderlo dagli attacchi degli oppositori: difesa che si manifesta nella questione dell’unità della forma rivendicata da Egidio contro il pluralismo di Roberto Kilwardby. Il suo trattato De unitate formae (1278) occupa uno dei primi posti nella letteratura di tale controversia (ed. a cura di M. De Wulf, Les philosophes belges, vol. I, Louvain 1901). Discepolo e amico di Alberto Mag