Bevande analcoliche: Piacere, libertà, responsabilità [1 ed.]
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Zitiervorschau

Bevande analcoliche Piacere, libertà, responsabilità

A. Claudio Bosio • Enrico Molinari Andrea Poli • Marco Trabucchi

Bevande analcoliche Piacere, libertà, responsabilità

A. CLAUDIO BOSIO

ENRICO MOLINARI

Docente di Psicologia dei Consumi e del Marketing Facoltà di Psicologia Università Cattolica di Milano

Docente di Psicologia Clinica Facoltà di Psicologia Università Cattolica di Milano

ANDREA POLI

MARCO TRABUCCHI

Direttore Scientifico Nutrition Foundation of Italy Milano

Direttore Scientifico Gruppo di Ricerca Geriatrica Brescia Docente di Neuropsicofarmacologia Università di Roma Tor Vergata

I contenuti riflettono il punto di vista e le esperienze degli autori, che ne assumono la piena responsabilità. La realizzazione e diffusione del volume sono state rese possibili da un contributo educazionale di Assobibe.

ISBN 978-88-470-0789-5 e-ISBN 978-88-470-0790-1 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla ristampa, all’utilizzo di illustrazioni e tabelle, alla citazione orale, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione su microfilm o in database, o alla riproduzione in qualsiasi altra forma (stampata o elettronica) rimangono riservati anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di quest’opera, anche se parziale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla legge sul diritto d’autore, ed è soggetta all’autorizzazione dell’editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Springer-Verlag fa parte di Springer Science+Business Media springer.com © Springer-Verlag Italia 2008 L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc. anche se non specificatamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi e regolamenti. Responsabilità legale per i prodotti: l’editore non può garantire l’esattezza delle indicazioni sui dosaggi e l’impiego dei prodotti menzionati nella presente opera. Il lettore dovrà di volta in volta verificarne l’esattezza consultando la bibliografia di pertinenza. Layout copertina: Simona Colombo, Milano Impaginazione: Compostudio, Cernusco s/N Stampa: Arti Grafiche Nidasio, Assago Springer-Verlag Italia, Via Decembrio 28, I-20137 Milano Stampato in Italia

Prefazione Le bevande analcoliche costituiscono una parte significativa del mercato complessivo delle bevande. Le scelte delle persone si orientano oggi verso un’alimentazione più sicura e salutare: è quindi importante comprendere il complesso ed articolato fenomeno dell’alimentazione superando i facili riduzionismi e le comode semplificazioni, al fine di arrivare a fornire corrette informazioni ai consumatori. Il volume presenta i più aggiornati ambiti della ricerca fisiologica, nutrizionale, psicologica e delle scienze della comunicazione su questo argomento, allo scopo di stimolare una riflessione sull’ineluttabile bisogno umano della ricerca del piacere, collegandolo però alla libertà di scelta e alla responsabilità nella tutela della salute, sia a livello individuale che a livello di scelte comunitarie Il primo capitolo introduce l’argomento prendendo in considerazione un tema molto attuale, e cioè il diritto-dovere alla salute. L’irruzione della scienza nella quotidianità influenza la percezione del concetto di ben-essere nell’individuo, e concorre ad orientare la scelta del proprio stile di vita. Tuttavia, l’evoluzione della biologia e della medicina deve essere accompagnata dall’evoluzione della cultura, affinché diventi raggiungibile la “libertà responsabile” del cittadino, soggetto in grado di coniugare l’informazione scientifica con la propria autonomia intellettuale. Il capitolo seguente, che tratta invece gli aspetti nutrizionali veri e propri, sottolinea come le evidenze disponibili nella letteratura scientifica non consentano di definire con precisione il ruolo delle bevande analcoliche nell’aumento ponderale, e soprattutto non permettano di differenziarne il contributo rispetto ad altri fattori quali le abitudini alimentari e lo stile di vita tipico delle società moderne, caratterizzato da un dispendio energetico molto ridotto e da un apporto calorico complessivamente elevato. La tendenza a sviluppare sovrappeso ed obesità, tra l’altro, poggia probabilmente su un solido substrato genetico che ne favorisce la comparsa in presenza di una ricca disponibilità di cibo. Nel terzo capitolo, da un punto di vista della psicologia, il consumo delle bevande analcoliche viene collocato all’interno del più vasto tema dell’alimentazione. Per gli umani il mangiare e il bere rappresentano necessità fisiologiche, ma anche la possibilità di esprimere sentimenti, emozioni, stati d’animo e offrono l’opportunità di esprimere l’appartenenza a un gruppo, ad una cultura. Quindi il bere si può caricare di significati molteplici in relazione alle diverse modalità con le quali ciascuno “è nel mondo”. Le ricerche cliniche indicano che i consumatori desiderano essere messi nella condizione di bere senza rinunciare alla dimensione del piacere, che è una componente fondamentale per la vita ed essenziale per il benessere. Nel bere, come nel mangiare, il piacere va vissuto però con equilibrio, per

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Prefazione

non sfociare nell’abuso o nell’altrettanto dannoso senso di privazione. Per le bevande analcoliche andrebbe quindi promossa l’idea di un corretto ed adeguato consumo legato al piacere, alla socialità ed alla convivialità nel rispetto del corpo e della salute. Il libro si chiude con un’analisi socioculturale del consumo dei soft drink: un comportamento di consumo non banale e di non semplice decifrazione, un atto di consumo familiare che coinvolge molti piani diversi: i “saperi del corpo”, i “saperi dell’anima”, i “saperi sociali”. Le scelte in tema di alimentazione e salute sembrano mosse da correnti socioculturali piuttosto simili, pur nella loro specificità di contenuto, e uno sviluppo virtuoso di questi consumi dipende dalla capacità di un gruppo sociale di progettare e ri-progettare modelli culturali in grado di orientare e costruire senso su tali pratiche. Ci auguriamo vivamente che questo volume possa essere, oltre che una lettura piacevole, anche uno strumento di lavoro utile per tutti coloro che si confrontano con le problematiche legate al tema generale dei legami tra nutrizione e salute, dai medici di famiglia ai nutrizionisti, dagli psicologi ai pediatri agli studiosi di scienze sociali. Speriamo inoltre che i contenuti di questo libro possano essere interessanti anche per gli stessi i consumatori, che troveranno in queste pagine corrette informazioni nutrizionali e suggerimenti per un approccio responsabile e consapevole al consumo dei soft drink. A.Claudio Bosio Andrea Poli Enrico Molinari Marco Trabucchi

Indice Cap. 1 - Libertà della persona e diritto-dovere alla salute . . . . . . . . . . . . . 1 Marco Trabucchi Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 Salute e malattia nella vita umana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 L’irrompere della scienza nella quotidianità . . . . . . . . . . . . . . . 10 Postmodernità e scienze della vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 Le incertezze negli stili di vita: dalla medicina basata sull’evidenza al mondo reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 • La libertà responsabile del cittadino: un obiettivo raggiungibile?. . 23 • Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25

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Cap. 2 - Nutrizione e salute nel mondo moderno: focus sulle bevande dolci (soft drink). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 Andrea Poli, Amleto D’Amicis, Eugenio Del Toma, Claudio Maffeis, Carlo M. Rotella, Umberto Valentini • • • • • • • • • • • •

Alimenti, bevande e salute in un mondo che cambia . . . . . . . . . Perché diventiamo così facilmente sovrappeso o obesi? . . . . . . Il ruolo dell’esercizio fisico nel mantenimento del peso corporeo Importanza dell’apporto di liquidi con la dieta. . . . . . . . . . . . . Come procede la scienza: precisazioni metodologiche. . . . . . . . Bevande dolci, sovrappeso e obesità: le evidenze disponibili . . . Una nuova visione degli effetti fisiologici degli zuccheri: l’indice glicemico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I dolcificanti artificiali: possibile significato nutrizionale e sicurezza d’uso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gli altri dolcificanti acalorici o ipocalorici . . . . . . . . . . . . . . . Effetti sulla salute di altri componenti dei soft drink . . . . . . . . . Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. 27 . 29 . 33 . 36 . 38 . 41 . 49 . 52 . 55 . 57 . 59 . 61

Cap. 3 - Psicologia e consumo delle bevande analcoliche: normalità e patologia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 Enrico Molinari, Edward Callus • Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • Le scelte alimentari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • Scelta dei soft drink: caratteristiche delle bevande e fattori psicologici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • Consumo e abuso di bevande analcoliche . . . . . . . . . . . . . . . . • Consumo di bevande analcoliche ed emotional eating . . . . . . . . • Mangiare e bere disfunzionali: modelli psicologici interpretativi . • Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. 65 . 67 . 68 . 71 . 73 . 74 . 77 . 78

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Indice

Cap. 4 - Analisi socioculturale del consumo di soft drink: fra polarizzazione e integrazione dei modelli di riferimento. . . . . 83 A. Claudio Bosio • Introduzione: un approccio socioculturale all’analisi di un comportamento quotidiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • Il consumo di soft drink in Italia: dimensioni, profili e contesti di consumo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • Il consumo di soft drink e i contesti di riferimento . . . . . . . . . . . • Consumo di soft drink e peso corporeo in Italia: quali indizi? . . . . • In conclusione: spunti da una letturra socioculturale del consumo di soft drink . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Elenco degli Autori A. CLAUDIO BOSIO Docente di Psicologia del Consumo e del Marketing, Facoltà di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano EDWARD CALLUS Dottorato di Ricerca in Psicologia Clinica, Bergamo; IRCCS-Policlinico San Donato, Milano AMLETO D’AMICIS Primo Ricercatore, INRAN Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, Roma EUGENIO DEL TOMA Presidente Onorario, Associazione di Dietologia e Nutrizione Clinica (ADI); Docente di Scienze dell’Alimentazione, Campus Medico, Roma CLAUDIO MAFFEIS Professore Associato, Dipartimento Materno Infantile e di Biologia-Genetica, Sezione di Pediatria, Università di Verona

ENRICO MOLINARI Docente di Psicologia Clinica, Facoltà di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano ANDREA POLI Direttore, Nutrition Foundation of Italy, Milano CARLO M. ROTELLA Presidente, Società Italiana dell’Obesità (SIO); Docente di Endocrinologia, Università di Firenze MARCO TRABUCCHI Direttore Scientifico, Guppo di Ricerca Geriatrica, Brescia; Docente di Neuropsicofarmacologia, Università di Roma Tor Vergata UMBERTO VALENTINI Past President, Associazione Medici Diabetologici (AMD); Direttore U.O. Diabetologia, Spedali Civili, Brescia

Capitolo 1 Libertà della persona e diritto-dovere alla salute Marco Trabucchi

Introduzione Il progresso scientifico di questi ultimi anni ha profondamente modificato la vita umana. Non siamo osservatori neutrali di questi cambiamenti, perché ogni giorno fruiamo dei vantaggi derivanti dalla scienza nei campi della salute, della cultura, dell’habitat, dei trasporti, della comunicazione, dell’informazione… Però non possiamo rinunciare a dare, per noi e per chi ci sta accanto, un’interpretazione di questi eventi, senza nascondere che il bilancio tra gli ovvi vantaggi e gli aspetti di criticità talvolta non è del tutto positivo. La ricerca dell’equilibrio è sempre difficile; forse è un’impresa elitaria, perché la comunicazione mediatica – la maggiore responsabile oggi della formazione delle opinioni e anche delle coscienze – in generale tende a privilegiare gli eventi estremi. Si mettono in luce separatamente i vantaggi o gli svantaggi di qualsiasi condizione innovativa, senza costruire un bilancio che invece, nel mondo reale, rappresenta la condizione concreta nella quale si esprimono i diversi passaggi della vita umana. In questo punto d’intersezione tra i vantaggi e gli svantaggi del progresso – ancor più evidenti in un mondo globalizzato, apparentemente incapace di mediare i contenuti del progresso stesso con le diverse condizioni ambientali e umane, sia nella vastità del mondo sia all’interno di microrealtà spesso molto differenziate – si gioca gran parte del futuro di una convivenza serena. Esiste infatti il rischio di un’omogeneizzazione che distrugge le individualità (e quindi riduce le capacità di difesa del singolo di fronte alle difficoltà della vita) e quello altrettanto pesante di un rifiuto che non permetterebbe la diffusione delle ricadute positive del progresso, spesso strumento utile per supportare le condizioni di fragilità individuali o collettive. Come discusso anche altrove in questo capitolo, la libertà della persona del nostro tempo si gioca in questa dialettica. Non sarà un gioco facile, perché gli attori in campo sono numerosi e non tutti intenzionati a rispettare l’anelito umano, anche se inconscio, alla libertà; tra poteri economici, paternalismo culturale, arretratezze psicologiche, la strada che l’individuo deve percorrere è scoscesa. Compito non facile di chi sente il privilegio della responsabilità per una crescita individuale e sociale armonica è trovare le modalità per aiutare le

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Capitolo 1 • Libertà della persona e diritto-dovere alla salute

persone, attraverso gli strumenti di una cultura libera, a percorrere in modo sereno questa strada, con buone speranze di successo. Perché oggi spesso la serenità ci viene tolta dall’imposizione di regole per il vivere sano che hanno sostituito quelle del ben vivere, stravolgendo alla base le condizioni per un’esistenza libera (Rozzini e Trabucchi 2006). Nelle pagine che seguono sarà presa in considerazione, sia dal punto di vista culturale e antropologico, sia in una prospettiva concreta, l’evoluzione del concetto di salute nel tempo, fino all’attuale interpretazione complessa, per cui il ben-essere è frutto di dinamiche altamente interagenti, all’interno delle quali nell’era postmoderna l’uomo deve essere in grado di navigare, affrontando di volta in volta ostacoli diversi. L’irrompere della scienza nella vita delle persone ha reso questa “navigazione” un compito di tutti i giorni, senza che il cittadino normale abbia la possibilità di fruire di adeguati supporti sul piano culturale e pratico. Si apre così un conflitto tra le grandi affermazioni della scienza – che nella clinica si raggruppano attorno al concetto di medicina basata sull’evidenza – e la concretezza del mondo reale, nel quale giocano molti attori, spesso guidati da motivazioni confuse o irrazionali. Quale sia il futuro di questo conflitto è ancora per molti aspetti non chiaro; è però irrinunciabile una continua opera di mediazione da parte di chi ha la possibilità di capire il significato strategico di una cultura della salute basata su prove indiscutibili di efficacia, ma che allo stesso tempo è in grado di cogliere la ricchezza e la molteplicità dei comportamenti umani e degli ambienti vitali, i quali mai potranno essere racchiusi in schemi rigidi, validi in ogni circostanza, in presenza di qualsiasi storia individuale e collettiva. La società moderna nelle sue varie componenti non risponde alle regole dei meccanismi semplici: si altera una funzione e la sostituisco con una macchina, vaccino una popolazione e sradico una malattia, ipotizzo e metto in atto un servizio e ne constato l’efficacia. Tutto è più complicato nella realtà rispetto alle ipotesi, anche quando accuratamente predisposte, in ogni ambito e in particolare in quello della salute (sia sul versante delle cause che ne provocano la perdita, sia su quello delle risposte individuali od organizzate). Il mondo della salute non deve essere immaginato come una macchina che si scompone in vari pezzi, analizzati e modificati attraverso deduzioni razionali; nella realtà i componenti dell’equazione non sono costanti, indipendenti, predicibili. Tutte le realtà biologiche, psicologiche, cliniche, sociali, organizzative che concorrono alla creazione di uno stato di salute o di malattia sono fluide e dinamiche, per cui anche piccoli cambiamenti in un settore potenzialmente inducono effetti più ampi in un altro, con un meccanismo moltiplicativo. La soluzione dei problemi non può quindi avvenire attraverso un’interpretazione stretta del rapporto causa-effetto, come si è tradizionalmente abituati in medicina, dimenticando la complessità e talvolta l’oscurità dei fattori che regolano salute e malattia. Oggi, alla luce delle conquiste della postmodernità, nessuno può onestamente teorizzare e praticare la semplificazione quando si tratta di analizzare le condizioni di salute della persona e le speranze di identificare risposte

Salute e malattia nella vita umana

adeguate per le condizioni di malattia (Trabucchi 2005). Si deve considerare con grande attenzione che la medicina nella società contemporanea svolge un ruolo comparabile a quello avuto dalla fisica nel secolo scorso, quando, attraverso le sue scoperte, si è profondamente modificato il modo di vivere. Ma questo ruolo importante, che colloca le scienze biomediche al centro di dinamiche che toccano gli aspetti più profondi della natura stessa, impone alla medicina di guardare alla singola persona con il rispetto più totale della sua individualità, rifiutando atteggiamenti collettivistici per valorizzare invece un rapporto “democratico”, quello appunto che enfatizza le differenze come valore per il singolo e per la società. Quindi qualsiasi affermazione derivata dalle conoscenze generali (la medicina delle evidenze scientifiche) deve essere applicata al singolo individuo; il rispetto della sua libertà consiste nel mediare il dato biologicoclinico, frutto di analisi di laboratorio o di indagini clinico-epidemiologiche, con la vita dell’individuo (e quindi la sua storia, nelle varie possibili espressioni, e il presente) e con le dinamiche sociali. La medicina in quanto scienza del nostro tempo ha strutturalmente la capacità di includere le valenze più umane; non si tratta di aggiunte artificiali, che vengono suggerite per addolcire il nocciolo tecnico della medicina stessa (si pensi all’impegno a favore della cosiddetta umanizzazione), ma del suo nucleo costitutivo, perché solo così l’atto medico nelle diverse valenze raggiunge un buon livello di efficacia. È un processo logico non facilmente accettabile, perché la retorica corrente favorisce una visione dolcificata dell’atto di cura, negandone di fatto la strutturalità con l’atto stesso; ma è l’unico modo serio per pensare a una medicina per l’uomo del tempo postmoderno. Questa logica ovviamente si applica a tutte le condizioni nelle quali il sapere medico-biologico interagisce con la vita delle persone, anche in ambito preventivo, quando potrebbe sembrare più semplice, a un’osservazione superficiale dei fenomeni, ipotizzare un rapporto diretto tra un singolo atto e il risultato che si vuole ottenere, dimenticando che l’adesione a un certo comportamento è sottomessa a molte diverse interferenze e che anche il risultato stesso in termini strettamente clinici è dipendente dall’interazione di vari fattori. Di seguito sono ripercorse in modo dialettico alcune delle problematiche che sottostanno alla libertà del cittadino rispetto alle imposizioni delle scienze della salute, ma che tengono anche in considerazione il dirittodovere della persona a una condizione di benessere. Una mediazione non facile, che diventerà nei prossimi anni uno dei temi centrali del dibattito civile.

Salute e malattia nella vita umana Che cos’è la salute? Dall’enorme impegno umano, organizzativo ed economico che la difesa della salute esercita emerge sempre più chiara l’esigenza di un quadro di riferimento capace d’integrare e dare senso alle diverse

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Capitolo 1 • Libertà della persona e diritto-dovere alla salute

parti e funzioni che partecipano all’impresa. È davvero sorprendente verificare la debolezza in termini culturali (strutturali) di un sistema che in molti paesi consuma (o produce?) il 10% del prodotto interno lordo. Assistiamo a una sorta d’inseguimento tra la tecnica e la prassi da una parte e la cultura che dovrebbe caratterizzare gli obiettivi della medicina dall’altra. È un inseguimento senza fine, che tra incomprensioni (e talvolta anche accuse) reciproche continua a impedire una definizione dei risultati di salute, alla quale dovrebbe seguire l’impegno tecnico, il quale a sua volta precede la pratica clinica. Ma non è forse anche questa una manifestazione della “liquidità” della società postmoderna, alla quale è inutile opporsi, oppure è doveroso tentare una ricostruzione della sequenza logica degli eventi in un campo così importante come la difesa della salute? La crescita non sempre ordinata che negli ultimi decenni ha caratterizzato i sistemi sanitari in tutto il mondo ha finito la propria spinta propulsiva che tutto giustificava; si notano i segni di una rottura del “patto” tra la società e l’insieme di prestazioni che va sotto il nome di “medicina”. I segni della crisi sono sempre più evidenti. Dietro queste difficoltà compare l’ambiguità del concetto di salute in una società complessa, che ha perso i tradizionali parametri per misurare il livello di benessere. Sembra quasi impossibile trovare una definizione teorica e operativa sulla quale fondare una prassi condivisa dai sistemi e dai singoli operatori. D’altra parte, il dibattito recente attorno al tema elusivo della felicità umana – tra interpretazioni oggettive e soggettive (vedi come fonte significativa il Journal of Happiness Studies) – conferma la difficoltà del nostro tempo di trovare modalità adeguate per “misurare la vita”, al fine di progettare interventi capaci di cambiarne il corso. Quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la salute come una condizione di benessere fisico, psicologico e sociale, ha compiuto una scelta precisa, in linea con il momento postbellico. Dopo le sofferenze imposte dalla guerra, si guardava alla nuova vita con occhio ottimistico e molto esigente (la salute era vissuta come qualche cosa di più significativo che la semplice, e sostanzialmente negativa, assenza di malattia). Si sperava (e ci s’illudeva) che il futuro sarebbe stato caratterizzato da un periodo idilliaco. Gli anni seguenti hanno modificato le aspettative e anche la prospettiva culturale: oggi nessuno più definisce la salute come benessere in tutti i campi. Purtroppo però la fine di una visione teorica, ma apparentemente chiara, non ha portato a una prospettiva altrettanto precisa su che cosa significhi lo star bene: attorno a questo tema si sono scontrate ideologie, competenze, punti di vista, in uno scenario caratterizzato da un imponente e spesso caotico sviluppo delle tecnologie. Inoltre, le problematiche di tipo economico hanno imposto ulteriori intralci a una definizione relativamente indipendente da fattori contingenti. Oggi nessun cittadino è in grado di definire la salute: forse sa come viverla, ma non sa certamente definirla. Così come il tempo: ciascuno lo vive, ma è incapace di darne una descrizione. La misura della salute di una popolazione è forse affidabile solo a parametri come la mortalità infantile?

Salute e malattia nella vita umana

Il fatto che questa sia diminuita testimonia che la gente sta meglio? Ma, alla fine, che cosa indica l’epidemiologia sulla salute dell’individuo, soggettivamente e oggettivamente? L’assenza di una chiara condivisione su che cosa oggi sia la salute ha creato molta incertezza anche sul piano concreto, lasciando spazio alla diffusione di una serie di pratiche “alternative”, cioè il tentativo di assicurarsi la salute in maniera autonoma, indipendentemente da una cultura e da una società che non sembrano in grado di offrire indirizzi precisi. Sarebbe davvero negativo se gli operatori non sapessero cogliere il significato di questi atteggiamenti, colpevolizzandoli per i loro aspetti di superficialità e talvolta di rischio. Sono invece il segno di una crisi che deve essere superata attraverso studi e ricerche, nonché con attività educative in grado di indirizzare il cittadino verso obiettivi realistici, pur nei momenti di difficoltà a causa delle condizioni di salute o perché è chiamato a compiere scelte che riguardano il suo futuro. Il quadro complessivo è dominato, come è ben noto, dall’incremento della spettanza di vita alla nascita e in età avanzata e dal contemporaneo aumento delle malattie croniche. Per la prima volta nella storia umana si è quindi aperta una forbice tra l’allungamento della vita e il controllo delle malattie. Callahan (1990) ha commentato in maniera ambigua questo fenomeno: “Se ai nostri giorni le persone vivono più a lungo, ma hanno maggiori possibilità di essere gravate alla fine della vita da malattie croniche e disabilità, possiamo dire che questo rappresenta un progresso?”. Anche secondo la definizione classica dell’OMS questa sarebbe una sconfitta: ma siamo sicuri che non sia invece opportuno adottare una nuova definizione di salute, più vicina alla realtà epidemiologica, alle effettive possibilità d’intervento e alla soggettività che cambia nelle varie età della vita e in presenza di diverse condizioni psicosociali? La medicina è chiamata a combattere contro le malattie o contro la morte? Una volta questo interrogativo non si poneva: oggi, invece, è al centro dei pensieri e dell’agire della tecnostruttura sanitaria nel suo complesso. “Perché si muore?” diviene una domanda non retorica, riguardo sia ai meccanismi clinico-biologici, sia alle scelte collettive. Sono al centro dell’interesse le situazioni nelle quali sembra che improvvisamente tutti gli equilibri interni di una persona si rompano e inizi una strada in discesa verso la morte. Al di fuori dei pur pesanti aspetti clinici e assistenziali (è molto difficile per la medicina accettare l’incapacità a monitorare l’affastellarsi di eventi che presi singolarmente sembrerebbero controllabili, ma che nel loro presentarsi assieme sfuggono a ogni possibilità di intervento), si pone il problema concettuale di comprendere le dinamiche che caratterizzano un “ambiente interno” non più in grado di conservare il proprio equilibrio. Che cosa si è rotto nei delicati sistemi omeostatici che difendono la vita (e quindi la salute)? Sarà mai possibile arrivare a dare risposte sufficientemente precise a questo interrogativo? Saremo in grado in futuro di costruire una macchina intelligente che simuli il corpo umano e quindi preveda il momento in cui l’accumularsi di eventi induce una condizione irreversibile di rottura?

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Capitolo 1 • Libertà della persona e diritto-dovere alla salute

Il concetto di “fragilità” tenta di caratterizzare una situazione nella quale la persona è esposta agli insulti ambientali senza adeguata capacità di difesa. Forse la ricerca di fattori discriminanti tra equilibrio e non equilibrio pecca di semplicismo, però non ci si può sottrarre a questo compito come base per delineare il vasto edificio biologico che caratterizza la salute. È concettualmente difficile affidare ad alcuni parametri (anche se ciò fosse utile clinicamente) la responsabilità d’indicare uno stato di salute, cioè un enorme complesso di eventi tra loro interagenti. Però non può non far meditare il fatto che vi siano alcuni marcatori in grado più di altri di caratterizzare la fragilità biologica (e vitale?). La salute non è pura “assenza di una malattia” o “il silenzio degli organi”, come si è in modo riduttivo sostenuto, sull’onda di un’affermazione del “potere della medicina” che esercita il controllo su ogni persona come malato potenziale o in atto (magari in modo nascosto). Lo sforzo deve essere quello di arrivare a una definizione autonoma di salute, proprio per ridare a ogni uomo il controllo sulla propria vita al di fuori di un complesso di saperi e di tecnologie che necessariamente tendono a limitarne la libertà. Ma è un impegno che sarà presto coronato da successo? E chi ne sarà l’attore principale, il filosofo o il medico? Oppure il tecnocrate? Se invece “una persona normale per quanto riguarda la salute è solo una persona non sufficientemente studiata”, ogni libertà è anelito vuoto, rispetto sia a una “natura matrigna”, sia alla tecnostruttura sanitaria. Istintivamente questa affermazione è inaccettabile; resta però ancora molto lavoro al biologo, al clinico e all’antropologo per dimostrare un concetto di normalità-salute che rispetti l’individualità e la sua collocazione autonoma. L’OMS negli anni più recenti ha in qualche modo riparato al proprio errore di fondo cercando di definire non più la salute, ma la qualità della vita come “la percezione da parte degli individui della loro posizione nella vita e nel contesto della cultura e del sistema di valori in cui vivono, in relazione ai loro scopi, aspettative, standard e occupazioni”. È un riconoscimento della soggettività che rappresenta un notevole passo avanti rispetto a una definizione teorica e assoluta; pone però ancora problemi interpretativi e di oggettivizzazione, molto rilevanti nell’ottica di una definizione di salute. La domanda sul significato soggettivo e oggettivo della malattia ha interessato negli anni recenti diverse scuole di pensiero che si sono scontrate alla ricerca di una risposta, almeno temporanea, attorno a questo tema: al di là di considerazioni culturali, quello che preoccupa è la possibilità che l’assenza di un accordo possa avere conseguenze negative sulla medicina come sistema di care in senso sia preventivo sia di cura. Nel momento in cui le compatibilità economiche in tutti i paesi moderni vanno ponendo limiti alla sua autorganizzazione autonoma, vi è il rischio che l’assenza di paradigmi chiari lasci lo spazio a posizioni estreme, da quelle che impongono il primato delle tecnologie a quelle che affermano la crisi della cura e teorizzano il ruolo incontrollato di pratiche alternative. Una risposta all’interrogativo è quindi di grande rilevanza.

Salute e malattia nella vita umana

Per taluni la malattia è una costruzione sociale, indotta da condizioni esterne che determinano sia la comparsa della malattia stessa sia una certa “lettura” dei comportamenti dell’ammalato. L’esempio che frequentemente viene portato è quello della tubercolosi; la malattia si è diffusa in passato soprattutto tra le classi sociali più disagiate e la presenza dell’infezione avrebbe avuto un’importanza limitata rispetto ai fatti sociali. Allo stesso tempo il malato è posto in una posizione marginale, stigmatizzato, caricato di un “peso sociale” che va ben al di là delle sue reali condizioni cliniche e dei rischi di contagio. È interessante osservare su questa linea che la recente ripresa della diffusione della tubercolosi è il frutto di una disattenzione sociale, collegata in particolare alla marginalità dei migranti, nonché la conseguenza di decisioni prese a livello planetario sulla limitazione della ricerca di nuovi antibiotici. Per altri, invece, la malattia è strettamente legata a una causa, anche se spesso così complessa e caratterizzata da vari componenti che è difficile descriverla e quindi combatterla. Il modello di casualità rigida è stato abbondantemente superato dagli studi più recenti di biologia, per cui i fenomeni vitali sono caratterizzati da eventi che vanno oltre, nella loro dinamica, alla somma delle diverse componenti, pur nell’enorme possibilità di combinazioni. L’emergere della biologia molecolare aveva fatto ipotizzare la possibilità di spiegare tutti i fenomeni vitali in termini del “molto piccolo”, ma relativamente semplice. Anche grandi e celebrate imprese come il progetto Genoma Umano risentono di questa prospettiva; non si vuole certo criticare il significato di un impegno per alcuni versi eccezionale, ma solo la sua utilità e opportunità in questa fase dello sviluppo delle conoscenze biologiche. Il fatto che non più del 2% delle malattie sia collegato a un meccanismo monogenico, mentre per la gran parte esse sono attribuibili a meccanismi poligenici o a fattori di modulazione, avrebbe dovuto indurre a dedicare investimenti e risorse anche allo studio dei fenomeni complessi, più vicini alla realtà patogenetica. Nella storia naturale degli individui emergono fattori (ed eventi) imprevedibili, verso i quali bisogna indirizzare l’interesse per comprenderne il più possibile le regole, nel campo sia della fisiologia sia della patologia. A questo proposito è stato delineato il concetto di soglia, per identificare un livello oltre il quale gli equilibri di un determinato sistema vengono rotti e tutte le componenti entrano in una condizione diversa, dove le regole precedenti non sono più valide. Si tratta pur sempre di un’interpretazione limitata, perché nulla viene spiegato delle condizioni che garantivano l’equilibrio prima della soglia e del nuovo stato dopo il superamento della soglia (esiste in questo ambito il rischio di interpretazioni vitalistiche, che nulla aggiungono, se non in termini quasi “magici”, alla comprensione degli eventi). Questa visione è in linea con la definizione di malattia data da Virchow nel 1869: “La malattia comincia nel momento in cui la capacità regolatoria del corpo è insufficiente a eliminare i disturbi. Non è la vita in condizioni anormali né il disturbo in quanto tale che produce malattia: questa inizia piuttosto con l’insufficienza degli apparati regolatori”.

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Il superamento delle prospettive tradizionali è necessario per ragioni operative, ma è anche motivato dalle nuove conoscenze epidemiologiche e cliniche. Molti tentano di costruire un modello olistico, il più possibile rispettoso delle dinamiche “umane”. L’olismo ha prodotto danni seri quando è stato interpretato in maniera superficiale; il tentativo di spiegare la malattia come interazione tra fattori diversi resta, però, il procedimento più realistico e la strada sulla quale prima o poi convergeranno le varie culture e i diversi filoni di ricerca. Il rischio è che la visione integrata faccia trascurare i diversi livelli e l’esigenza di conoscerli in maniera analitica ed esatta. Già Hans Selye, il fondatore della teoria dello stress, aveva indicato una strada: “Il segreto della salute e della felicità risiede nella capacità di adattarsi con successo, anche il minimo possibile, alle condizioni eternamente mutevoli del mondo: il prezzo che si paga per gli insuccessi di questo grande processo di adattamento sono la malattia e l’infelicità”. Da questa intuizione (anche se, forse, ridimensionando il concetto di felicità) si deve partire per arrivare a un possibile modello operativo. La malattia (e la salute) è legata all’emergere di complessità biologiche, psicologiche, sociali: lo sforzo dei prossimi anni dovrà essere quello di descriverne per un numero sempre più elevato l’itinerario che porta dallo stato premorboso alla comparsa del danno e al suo eventuale superamento. È augurabile che dall’insieme delle descrizioni analitiche possa essere possibile estrapolare più realisticamente modelli generali, nei quali inserire progressivamente un numero sempre più ampio di situazioni, sia già note sia eventualmente emergenti. L’epidemia di AIDS rappresenta il caso emblematico di una situazione precedentemente sconosciuta dal punto di vista biologico che si interseca con realtà psicologiche e sociali in forte movimento; quando, per esempio, sarà possibile dire perché alcuni individui portatori del virus si ammalano e altri no, si saranno poste basi realistiche per una comprensione del significato di salute e malattia. Il 5% dei portatori del virus che non hanno segni della malattia è sano in termini clinici, mentre in termini epidemiologici è a rischio; sarà l’evoluzione della storia naturale a dare una risposta all’interrogativo, dietro al quale si nascondono interpretazioni diverse del fenomeno malattia. Superate le visioni strettamente deterministiche, il problema sta nel trovare una definizione scientifica al concetto di milieu intérieur di Claude Bernard, cioè alla capacità dell’organizzazione biologica di reagire ogni volta singolarmente in maniera diversa a uno stimolo esterno in base alla propria struttura (che è frutto di fattori innati e acquisiti). Esempio ben noto a questo proposito è quello dell’esposizione a sostanze cancerogene: queste non portano deterministicamente alla comparsa d’una neoplasia (cioè in maniera preconoscibile in ogni singolo individuo); è solo possibile raggiungere una stima probabilistica della comparsa di un tumore in una certa popolazione. Anche all’interno di un ragionamento che va alla ricerca di cause immediate, e che quindi trascura fattori di tipo psicosociale (e ciò non è corretto), per moltissime malattie non è possibile trovare una logica in termini eziologici e patogenetici. Inoltre si deve richiamare l’attenzione su quanto sia

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difficile, anche in termini teorici, definire la salute come assenza di malattia, cioè assenza di una serie di eventi dei quali non si conoscono né la rilevanza, né la sequenza logica, né le reciproche concatenazioni. La definizione di malattia, d’altra parte, non può fondarsi solo sull’assenza di salute, con un ragionamento speculare rispetto a quello che porta a descrivere la salute stessa. Esiste infatti anche una dimensione sociale e spirituale dell’ammalato che deve essere compresa sul piano psicologico e considerata sul piano diagnostico-terapeutico, perché incide fortemente sia sulla sofferenza sia sulla prognosi. In quest’ottica si ridefinisce anche il ruolo del medico, che secondo Jaspers “non è né un tecnico, né un salvatore, bensì un’esistenza di fronte a un’altra esistenza, un essere umano caduco accanto a un altro, impegnato a portare nell’altro e in se stesso la dignità e la libertà per l’essere e a riconoscerli come criterio”. L’impostazione di Jaspers non implica però una scelta sulla natura della malattia al di là di un evento globale nella vita di una persona: è quindi necessario proseguire oltre nell’elaborazione, non negando la realtà esistenziale, ma descrivendone gli specifici processi nel singolo individuo. Le dimensioni dell’attenzione della medicina non possono certo essere ridotte prevalentemente ad aspetti superficiali o esclusivamente tecnici, dimenticandone le valenze profonde che la caratterizzano come scienza del rapporto di cura, fondato sull’ascolto, la comprensione, la compassione (Bauman 2004). Infine, è doveroso compiere una sintesi, ponendo la medicina realmente in una posizione di vicinanza al bisogno, allo stesso tempo permettendole di mantenere forti legami con le sue basi scientifiche. Questo modello è irrinunciabile ed è applicabile anche al momento preventivo, quando l’adozione di alcuni comportamenti o pratiche (a livello individuale e collettivo) deve tener conto delle indicazioni dell’epidemiologia e di come concretamente questi indirizzi sono in grado di sviluppare le proprie potenzialità in realtà diverse. Se si dimentica questo passaggio, non solo ogni scelta preventiva è destinata all’insuccesso, ma si creano situazioni di tensione, in grado di esercitare effetti negativi sul benessere complessivo della persona. L’approccio più attuale è quello concettualizzato dalla medicina evoluzionistica, la quale indica in un corpo sano o ammalato – che va incontro a continue modificazioni sotto la pressione dell’ambiente e della sua propria vita – l’obiettivo di ogni intervento. In questo modo il concetto di salute è immerso nella realtà e chi vuole modificare le traiettorie vitali, allo scopo di prevenire, curare o riabilitare, deve essere in grado di mediare tra le conoscenze teoriche, fondate sulle prove di efficacia, e la realtà umana, che peraltro è anche biologica e clinica e non solo psicosociale, in continuo adattamento rispetto alla vita. La medicina evoluzionistica è per definizione antidogmatica e aperta alla comprensione della variabilità umana. Il punto cruciale, come già ripetutamente affermato, è costruire ponti tra ciò che muta e le necessarie schematizzazioni della scienza sperimentale, per arrivare a definire una scienza biologica nel tempo della postmodernità, in grado di adattare al singolo i propri principi generali, senza lasciare questa operazione all’empirismo o alle costruzioni fantasiose. Un fondamento a

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questa nuova scienza può essere offerto dalla “medicina delle relazioni” (Barbasi 2007), che sostiene a tutti i livelli l’esistenza di rapporti dinamici sui quali si fonda la vita umana. Dal livello sociale a quello psicologico a quello biologico si può identificare un disegno comune, governato da principi organizzativi semplici e quantificabili. In quest’ottica, si dà sempre maggiore attenzione all’interconnessione dei fenomeni che sovrintendono alla salute; spesso viene fatto l’esempio dell’obesità, la quale è regolata da rilevanti componenti genetiche, dalle scelte dell’individuo e dalla qualità dell’ambiente nel quale questi si trova a vivere (secondo alcuni autori gli amici hanno un effetto sul rischio di obesità superiore a quello che hanno i geni!). Restano ancora molti studi da fare per trasformare queste scoperte in atti concreti adattabili al singolo per interventi clinici; però è stato un enorme progresso aver definito l’interazione dei fenomeni vitali e la loro evoluzione nel tempo, grazie a reciproche influenze, perché così la clinica del domani potrà davvero avvicinarsi con rispetto e “dolcezza” al bisogno di chi soffre. In questo modo, fra l’altro, si superano gli antichi conflitti tra corpo e mente, perché l’evoluzione e lo sviluppo dinamico di relazioni a tutti i livelli producono di fatto un percorso e delineano un futuro che non sono esclusivamente cellulari, ma riguardano l’interezza dell’essere nel mondo della persona.

L’irrompere della scienza nella quotidianità In questi anni la scienza e i suoi prodotti sono entrati pesantemente nella vita dell’uomo, in alcune occasioni in modo diretto, in altre in modo indiretto. In particolare nell’ambito della salute la scienza ha raggiunto risultati strabilianti agli occhi di molti, ma certamente significativi anche per chi abbia uno sguardo critico. Qualcuno, però, sull’onda di ambigui entusiasmi, ha ridotto la scienza medica a una serie di norme quasi feticistiche, per cui non si può fare un passo nella vita senza consultare questo o quel messaggio, questo o quell’esperto (e ora anche questo o quel sito internet). Di conseguenza è aumentata l’ambivalenza della massa dei cittadini verso i risultati concreti della scienza in ambito medico; da una parte si continua a valorizzarne le potenzialità miracolistiche, e quindi l’indispensabilità in qualsiasi situazione di disagio (si pensi a come il cittadino richiede un farmaco per problemi che potrebbero spesso risolversi da soli), dall’altra si amplia sempre di più la critica verso medici che sbagliano, farmaci che avvelenano, ospedali che non guariscono, una medicina troppo legata a interessi commerciali, ecc. Sarebbe interessante comprendere le cause di questa ambivalenza, cioè se si tratta di una naturale conseguenza delle criticità oggettive della scienza o di un tentativo seppure inconscio degli uomini della nostra epoca di liberarsi di indicazioni, e talvolta di imposizioni, ritenute irrispettose della libertà individuale. Si devono a questo proposito fare alcune considerazioni di ordine generale, partendo, per esempio, dal dato che la più grande conquista degli ulti-

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mi decenni, cioè l’aumento della spettanza di vita alla nascita e in età avanzata, è attribuibile soltanto in parte ai progressi della medicina. Giocano un ruolo importante, infatti, le condizioni di vita nel loro complesso, anche se non sono ancora definibili in modo analitico le diverse porzioni di responsabilità. Il modello dell’invecchiamento rappresenta il “mondo reale” nel modo più fedele, cioè una vita umana nella quale vari fattori entrano in gioco nella determinazione di eventi di enorme portata sia per il singolo sia per l’insieme stesso dell’umanità. Certo, la prevenzione in età perinatale, la cura delle malattie infettive, la chirurgia selettiva, la capacità di diagnosi precoce sono importanti; ma altrettanto lo sono stati la riduzione del fumo, l’alimentazione più completa, la salubrità delle case e dei luoghi di lavoro, la riduzione della violenza nei rapporti sociali. Si delinea un quadro complessivo di forti intersezioni tra gli aspetti medici e quelli psicosociali nel migliorare la spettanza di vita delle persone: l’evento umano che può essere definito il più importante, cioè la durata stessa della vita, è il prodotto di diversi fenomeni, dei quali non sempre conosciamo del tutto i meccanismi. Ciò non deve indurre l’uomo contemporaneo a un fatalismo rinunciatario, quasi fossero irrilevanti le scelte individuali rispetto agli obiettivi di salute, ma deve convincere dell’importanza di atti che non sono solo strettamente clinici (un certo esame diagnostico, un certo farmaco, ecc.), ma appartengono più ampiamente alla sfera delle scelte individuali (attività fisica, capacità d’interessi, ecc.). In questa prospettiva l’irrompere della scienza nella vita quotidiana non rappresenta un elemento di rigidità rispetto a regole e a comportamenti, ma, se letto in maniera completa, permette di aumentare la libertà dell’uomo, inducendolo a compiere atti che nella vita di tutti i giorni lo aiutano a essere autonomo (e flessibile) costruttore del proprio futuro, senza limitazioni né affidamenti a pratiche irrazionali o costrittive. La ricerca di un equilibrio non è però facile, ed è forse illusorio lasciare al singolo l’identificazione di un punto di sintesi e di mediazione; anche i vari programmi di educazione sanitaria, a livello scolastico o per gruppi sociali o di età, sono spesso solo parodistiche ripetizioni di fenomeni lontani dalla realtà e condizioni incomprensibili. Infatti, non si può dimenticare che spesso la scienza mostra di sé la faccia meno rassicurante e quindi meno “amica” della persona, sia essa in buona salute o ammalata. A questo proposito si fanno spesso alcuni esempi, di seguito velocemente riassunti, riguardanti il cambiamento avvenuto nel corso di pochi anni di parametri biologici e clinici che indicano una condizione di malattia; si sono infatti allargati i confini che definiscono una condizione patologica, a svantaggio degli spazi della normalità, creando indubbi momenti di difficoltà a livello sia individuale sia di organizzazione dei servizi sanitari. Si pensi, per esempio, alla creazione di nuovi domini patologici per indicare la perdita di memoria e il rallentamento delle funzioni cognitive che può avvenire in età avanzata. Il classificare questa condizione come mild cognitive impairment è un reale contributo alla clinica, perché permette interventi preventivi, oppure è solo l’interpretazione patologica di un fatto naturale, che rischia peraltro d’imporre uno stigma sulla vita di alcune persone, limitandone l’au-

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tonomia? Un disturbo di memoria che non interferisce con le attività quotidiane avrà effetti diversi a seconda della storia dell’individuo, della sua cultura, dell’ambito di vita: in queste situazioni deve prevalere l’analisi segmentaria di una funzione o l’osservazione unitaria della persona anziana nel suo insieme? Un esempio diverso, molto spesso citato, riguarda i livelli di colesterolemia che inducono un trattamento farmacologico; grazie a progressivi abbassamenti, oggi i cittadini americani che dovrebbero essere curati con farmaci che ne riducono i livelli sono passati dai 12 milioni del 1993 ai 43 milioni. Il dato non può essere letto solo sotto una lente interpretativa che tende a stigmatizzare il ruolo delle aziende che producono farmaci e che grazie al loro peso economico riescono a indurre il mondo scientifico ad adottare linee guida sempre più restrittive. A noi interessa mettere in luce l’incertezza che domina nel campo – motivo di perplessità che si tramuta prima in scetticismo e poi in aggressività e in rifiuto da parte del cittadino – e l’enorme estensione del potere della scienza che arriva a esercitare la sua influenza su un quinto dei cittadini di una grande nazione, pena il rischio (minacciato) di gravissime malattie che portano a morte o a invalidità permanente. Siamo sicuri che tutto quello che è razionale in termini matematici (la somma della razionalità, anche quando si chiama epidemiologia) sia razionale (o, più semplicemente, opportuno) anche in termini umani? Un altro esempio è il cambiamento, avvenuto in questi anni, dei livelli di glicemia oltre i quali si pone la diagnosi di diabete (da 140 nel 1979 a 126 nel 1997). In tutto il mondo milioni di persone entrano nel sistema delle cure in conseguenza di questa decisione: è necessario? È giusto sul piano umano, considerando i costi, le conseguenze sulla qualità della vita, i risvolti assicurativi e lavorativi? Le stesse considerazioni si possono fare a proposito dell’abbassamento della soglia che indica la presenza d’ipertensione arteriosa. La normalità è stata posta a 120 e 80 mm di mercurio; valori anche di poco superiori caratterizzano la condizione di preipertensione, che richiede interventi di ordine dietetico e di stile di vita. Peraltro, una volta suscitata l’attenzione (e l’ansia) del cittadino non esistono strutture in grado di accompagnarlo per compiere scelte serene e ponderate. Che cosa significa il termine “preipertensione” per migliaia di uomini e di donne? Quali indicazioni pratiche ne traggono se non un generico senso d’insicurezza? L’insieme di questi dati implicitamente indica che per prevenire le malattie non si deve restare sotto una soglia minima di rischio, ma che si dovrebbe tendere al raggiungimento di livelli non definiti. A prescindere da considerazioni di tipo clinico sul valore concreto di questi dati, è legittimo non indicare una soglia per i singoli parametri, in modo da rassicurare i cittadini normali, che non si sentono rispettati nella propria autonomia nei confronti di una scienza che domanda sempre di più? Il cittadino vuole fermare la ruota di un progresso che ha il totale dominio su di lui. Abbiamo diritto a una moratoria, a permettere alle nostre scelte di non essere penalizzate come comportamenti scorretti, che sarebbero, secondo alcuni, irrispettosi di noi stessi e dei costi che indurremmo sull’organizzazione sociale.

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Ma, forse, prima ancora sarebbe opportuno porsi un interrogativo sulla possibilità di ottenere un rischio zero in qualsiasi attività umana. Sarebbe infatti un mondo di macchine, nel quale il solo rischio è la rottura della macchina stessa; ma ancor più grave è il rifiuto che la vita potrebbe fare della macchina… Il rischio zero non è fondato su una lettura moderna della struttura biologica complessa che caratterizza la natura umana; chi afferma questa possibilità è probabilmente un ingenuo, ma potrebbe anche essere in malafede. Le indicazioni sopra riportate sulle variazioni dei parametri che indicano una condizione di malattia (o di rischio) sono state ampiamente supportate da dichiarazioni di società scientifiche che in specifici ambiti hanno messo in gioco il proprio prestigio per dare peso alle varie affermazioni; talvolta si creano addirittura dinamiche pseudoscientifiche che arrivano a indurre comportamenti restrittivi dei cittadini, anche in assenza di precise indicazioni di organizzazioni scientifiche. Si pensi all’area dell’allungamento della vita, alla possibilità prossima (cioè che coinvolge gli attuali 6070enni) di prolungarne la durata ben oltre la soglia dei cento anni, grazie a particolari regimi dietetici, a comportamenti salutari e all’utilizzazione di cellule staminali. Anche se un osservatore critico potrebbe commentare con un sorriso queste affermazioni assolutamente prive di qualsiasi speranza, non si può non considerarne le ricadute negative su molte persone, indotte a credere in una scienza che promette molto, ma che in breve tempo viene smentita dalla realtà. Incertezze su come prevenire le malattie, promesse evidentemente irrealizzabili sulla durata della vita, sensazioni di scarso controllo sulla propria esistenza: tutto questo concorre al fenomeno, sempre più evidente oggi, di una scarsa percezione soggettiva del proprio stato di salute da parte dei cittadini dei paesi sviluppati. Ancora una volta una contraddizione: grande crescita della tecnostruttura medica, grandi affermazioni di successo, bassa percezione di efficacia… Di fronte a questa realtà complessa, segnata da un’evidente crisi di fiducia del cittadino, come ricercare uno spazio di autonomia della singola persona e quindi come raggiungere una condizione di maggior libertà? Purtroppo i mezzi di comunicazione non aiutano, perché quasi sempre dimenticano la realtà umana che sottosta al messaggio tecnico da trasmettere, e questa dimenticanza permette qualsiasi banalità o imprecisione o inutilità del messaggio: enfasi sulla ricerca preclinica prima che si abbiano concrete possibilità di trasferire le conoscenze alla pratica; “epidemiologia negativa”, cioè insistenza sugli eventi spiacevoli che potrebbero derivare in una certa circostanza, dimenticando la polifattorialità dei fenomeni; diffusione di modelli alternativi spesso al confine con la stregoneria; malasanità, anche quando sarebbe più opportuna un’analisi seria delle cause (spesso non modificabili) di un determinato evento. Spesso ne esce un quadro della medicina fatto di bianchi e neri, di buoni e cattivi, di ricchezza e povertà: manca sempre in queste “narrazioni” la persona che si ammala con il suo corpo e la sua mente, le persone che le vivono accanto, la solitudine, la casa o l’ospedale, in un susseguirsi mai lineare di vittorie e sconfitte, di

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gioie e dolori, del miracolo della vita e dell’ineluttabilità della morte. Che cosa percepisce il cittadino normale in questa situazione d’incertezza? Quanto è difficile per lui oggi costruirsi una personalissima visione del proprio mondo, per difendere la salute negli anni e affrontare le crisi indotte dalle malattie con serenità ed equilibrio? Alla fine, come l’individuo può trovare la propria strada tra messaggi apparentemente contraddittori e certamente oscuri? Dove può sperare di collocare la propria realtà corporea, fatta di carne e spirito, quando la scienza viene letta e diffusa senza proiettarla verso l’individuo e quindi senza permetterle di divenire un elemento con una forte significatività personale? Con questo termine peraltro non s’intendono solo aspetti psicologici, legati alla prospettiva individuale di fronte alla vita, ma anche realtà strettamente biologiche, quelle che mediano all’interno dell’uomo l’efficacia d’interventi diversi. La storia biologica di ogni uomo o donna porta infatti a un’ulteriore forte differenziazione, dopo quella ereditata geneticamente, per cui l’individuo si colloca in un modello probabilistico, nel quale l’incertezza appartiene alla realtà umana più vera, un’incertezza che rifiuta la semplificazione come metodo interpretativo, a livello sia delle scelte individuali da compiere sia dei fenomeni sociali. Ma incertezza e libertà spesso sono alleate, purché la persona non sprechi le possibilità di scelta che le sono affidate; se così è, l’irrompere della scienza nella realtà quotidiana non diviene fonte di angoscia o di limitazione della crescita personale, ma elemento primario per gestire il proprio individuale futuro nella libertà. Ovviamente questa condizione comporta una riduzione dello spazio della tecnica e dei tecnici, in particolare di quei particolari tecnici della salute che sono i medici. Alcuni, al contrario, tenderanno infatti a estendere il loro potere (anche solo psicologico e non necessariamente economico), allargando l’area delle malattie attraverso l’uso delle modificazioni anatomiche e biologiche (soprattutto a livello molecolare), anche in assenza di una condizione di sofferenza soggettiva, nella quale il cittadino chiede al medico il suo intervento. Qualche tempo fa era di moda il termine medicalizzazione, molto grezzo e talvolta pericoloso, per indicare l’invasione indebita della medicina nella vita dei cittadini (Metzl e Herzig 2007); potrebbe essere molto più opportuno chiedere invece alla medicina e al medico di rientrare nella funzione indicata dal vecchio detto (medicus non accedat nisi vocatur), cioè di responsabile della cura quando la condizione oggettiva e soggettiva di malattia rappresenta un pericolo per il cittadino e questi richiede aiuto. L’irrompere della scienza nella vita di tutti i giorni comporta anche valenze di ordine giuridico, cioè il riconoscimento che le problematiche sopraesposte a livello umano e clinico possono avere conseguenze rilevanti sulla libertà della persona, in particolare per quanto riguarda l’addebitamento alla persona che si ammala come conseguenza di un esercizio di libertà dei costi medici che a questo comportamento possono fare seguito. Il problema è ampiamente dibattuto e ha trovato in alcune legislazioni interpretazioni pericolose (Saccomani 2006). Vi è al fondo un collegamento tra le premesse teoriche e le conseguenze pratiche; se al cittadino sono adde-

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bitate le spese conseguenti a comportamenti ritenuti non salutari dalle leggi si rompe il rispetto verso la sua libertà, uno dei fondamenti dei sistemi democratici di convivenza. Si accetterebbe infatti una limitazione delle scelte individuali a fronte d’indicazioni spesso incerte dal punto di vista generale e di valore quantitativamente ignoto, che però potrebbero essere adottate da governanti per imporre il proprio stile di vita ai “sudditi”, ottenendo peraltro consensi, perché è facile costruire una superficiale consecutio: comportamento insalubre-malattia-aumento dei costi sanitari-danno sociale diffuso. Vari governi hanno recentemente messo in cantiere gruppi di lavoro su questi temi, per definire limiti degli interventi sanitari per obesi, fumatori, praticanti di sport pericolosi, ecc. (Peters 2007). Sono in gioco fattori diversi quali il supposto risparmio, il falso moralismo, un certo giustizialismo che si annida in molti cittadini, e così via. Si possono con facilità trovare anche esperti che si dichiarano capaci di calcolare in modo apparentemente preciso a quanto ammontano i possibili danni per la salute. Sono i sottoprodotti culturali di una visione per la quale un singolo evento induce uno specifico cambiamento, con una relazione diretta, per cui se uno mangia meno e segue alcune precise regole dietetiche si ammala di meno (e spesso si aggiungono percentuali a questi conti), indipendentemente da età, storia clinica, condizioni psicologiche e lavorative, ecc. Per questi difensori della perfezione biologica l’ideale sarebbe un mondo orwelliano, governato da una “polizia medica” in grado di controllare ogni libera espressione del cittadino. Ma questo nanny state (stato-bambinaia) vuole davvero il benessere dei cittadini o mira solo a sostituire la ricerca della libertà umana con le regole imposte dai medici e dai programmatori dei servizi sanitari (la maggior parte dei quali non ha peraltro velleità così impositive)? La lettura del brano di John Locke tratto dall’Epistola sulla tolleranza (1689) suggerisce che il dibattito tra libertà e imposizioni in nome di regole “benefiche” non è solo di oggi: “Nessuno può essere costretto ad arricchirsi e a star sano. Anzi, Dio stesso non salverà mai gli uomini contro la loro volontà. Supponiamo tuttavia che un principe voglia costringere i suoi sudditi ad accumulare ricchezze o a mantenere la salute e il vigore del corpo. Si dovrà per questo stabilire per legge che essi non consultino se non i medici di Roma e si dovrà costringerli a vivere tutti secondo le prescrizioni di questi?”. Per approdare a tempi più recenti, qualcuno ricorderà le nuotate di Mao Tse Tung e la ginnastica mattutina imposta qualche anno fa ai cittadini cinesi; oggi il tutto sarebbe assolutamente sconsigliato, visto l’alto tasso d’inquinamento negli agglomerati urbani di quella nazione! Quando s’impongono regole senza considerarne la collocazione all’interno della vita di ogni persona e delle comunità si rischiano errori come questo, peraltro attesi quando i sistemi di governo sono così grossolani. È infatti più facile imporre la teatralità temporanea della ginnastica nei parchi che il controllo rigoroso delle emissioni nocive a economie che crescono vertiginosamente e confusamente, ma con poca libertà. Nello stesso paese sono venute recentemente alla luce le conseguenze disastrose di scelte imposte alle famiglie sul nu-

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mero dei figli (uno solo e aborti selettivi sulle femmine); ciò produrrà entro breve una società vecchia, non più in grado di mantenere il livello di benessere che si era ricercato in modo effimero attraverso imposizioni alla libertà personale. Quanto sopra affermato non significa ovviamente il rifiuto di agire per ridurre i fattori di rischio riconosciuti di malattia; si discute solo sulla rigidità degli interventi, sul mancato rispetto di dinamiche sociali complesse e sull’adozione di provvedimenti più o meno apertamente punitivi. Anche l’apparente legame, quando esso esiste, con le dimostrazioni scientifiche diviene più labile se queste sono utilizzate per fini costrittivi; anzi, si è visto che facilmente vengono sostituite da comportamenti quasi magici, completamente irrispettosi della dignità della persona, ma più facili da far accettare a chi è meno dotato di difese psicologiche e culturali (e rappresenta la grandissima parte della popolazione del nostro pianeta) (Valsecchi 2006). In questo campo sarebbe utile fare attenzione all’aforisma coniato da Karl Popper, parafrasando il rasoio di Occam: “Lo Stato è un male necessario: i suoi poteri non devono essere moltiplicati oltre necessità”. In altre parole, lo Stato non deve dare la sua copertura morale e di potere ad ambiti dove le burocrazie interferiscono con la vita, partendo da affermazioni della scienza e della medicina non sempre fondate e concretamente applicabili. In questa logica è necessario arrivare a una piena informazione del cittadino, in modo che si possa creare una coscienza diffusa fondata su dati realistici e seri. Per esempio, nell’ampio dibattito di qualche anno fa sull’uso delle cinture di sicurezza in automobile, di rado è stato citato il fatto che, per salvare una vita in un incidente stradale, circa 400 automobilisti dovranno indossarle per tutta la loro esistenza. Se si considera che una popolazione matura acquisisce l’uso delle cinture di sicurezza come un comportamento normale, che non impone particolari sacrifici, il rapporto 1/400 è positivo; se, invece, il tutto è vissuto come una vessazione, lo stesso rapporto diviene la dimostrazione di un’imposizione di scarso valore concreto. È però necessario ricordare che gli interventi per modificare gli stili di vita sono mediamente più efficaci presso le classi sociali più elevate. Quindi è facile la tentazione di ricorrere a politiche impositive nei riguardi di gruppi sociali svantaggiati, meno sensibili a politiche educative, ma che più di altri si gioverebbero di un intervento. Il rispetto dell’autonomia della persona non può però ledere la libertà, anche quando le circostanze parrebbero creare le condizioni per ottenere risultati positivi. Il paternalismo dello Stato, quali ne siano le espressioni concrete, non deve mai trovare spazio nella vita sociale. Ovviamente questi concetti si applicano anche al rischio che vengano attuati discriminazioni e razionamenti a sfavore dei cittadini che non hanno ottemperato a comportamenti salutari indicati dal sistema sanitario. Pur trascurando il fatto che più spesso queste persone appartengono a gruppi sociali di per sé sfortunati, il servizio sanitario nazionale non può dare un giudizio morale su una condizione patologica in atto sulla base dei fattori che l’hanno determinata. Sarebbe una grave limitazione della fun-

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zione stessa di un sistema per la difesa della salute, che deve operare qui e ora in ambito preventivo, curativo e riabilitativo senza pregiudizi, mirando solo a massimizzare l’efficacia di ogni intervento in senso assoluto e rispetto ai suoi costi.

Postmodernità e scienze della vita Una persona vive nella società contemporanea all’interno di dinamiche complesse che non sono neutrali rispetto alla sua condizione; comprenderne i significati (biologico, psicologico, clinico, sociale) può offrire spunti che si riflettono sulla condizione in ambito generale, con forte rilievo sulla salute stessa. Oggi gli studi più avanzati interpretano la realtà in una logica sistemica, uscendo dai tradizionali schemi della medicina incentrati sulla patologia d’organo che viene affrontata e vinta con interventi mirati. Per esempio, non è l’organo encefalo che si deve curare, estraendolo da un corpo che vive nel mondo e portandolo in un laboratorio, ma è la persona che si deve accompagnare – utilizzando il massimo delle tecniche della clinica intesa in senso ampio – verso una possibilità di vita migliore, tenendo conto di limiti e occasioni. Habermas identifica il moderno con la tradizione illuministica della civiltà occidentale e con la sua battaglia a favore dell’emancipazione umana, nel cui ambito si colloca anche la medicina. Baglio e Materia (2006) descrivono con precisione queste correnti di pensiero: “Metafora del potere della scienza, il pendolo di Foucault ha rappresentato efficacemente la conquista utopica del punto fermo dal quale far discendere, nel solco dell’eredità cartesiana, il carattere di necessità, invarianza e atemporalità delle leggi e delle teorie”. Il passaggio alla postmodernità comporta invece il riconoscimento della complessità come combinazione di determinismo e caso, la tolleranza per l’eterogeneità e l’incertezza, l’attenzione per il micro- e il macroambiente dove si sviluppa un’esistenza. La logica illuministica deve attraversare la contaminazione con il mondo reale! È intuitivo trasferire queste nozioni, che si fanno strada nel nostro modo di leggere la realtà, all’interpretazione contemporanea delle dinamiche che determinano la salute, nelle quali è difficile costruire rapporti di causalità. Infatti l’irrompere di eventi inattesi e generati da condizioni esterne all’“ambiente biologico” della vita può provocare cambiamenti radicali della storia naturale, con conseguenze non sempre controllabili attraverso i tradizionali strumenti della scienza (medica o no). Tra i molti esempi che si possono fare al proposito, si pensi ai disturbi comportamentali, la cui comparsa è spesso indotta dal concorso di una precondizione biologica sulla quale s’inseriscono eventi clinici, legati alle dinamiche psicologiche e sociali, ecc. Inoltre, anche l’interpretazione dei risultati di un trattamento terapeutico dipende fortemente dalle attese, dalla cultura, dalle scelte etiche di una popolazione, di una famiglia, di un individuo. Il rapporto di un pa-

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ziente con il suo medico (o con qualsiasi operatore che si faccia carico di un segmento di cura e, più in generale, con i servizi sanitari) è quindi sempre immerso in quello con l’ambiente di vita; ogni estrapolazione renderà meno efficaci gli interventi, anche perché non verranno riconosciuti come soggettivamente incisivi rispetto al benessere della persona. Nel tempo della postmodernità è infine centrale il problema delle identità, che sembrano cambiare, assumere tonalità e contenuti diversi, essere indossate o rifiutate come un vestito. Ciò comporta anche nei rapporti tra le persone dinamiche d’instabilità, spesso quasi un rifiuto di vincoli che sembrano condizionare la libertà individuale. La crisi della famiglia, esplosa negli ultimi decenni, è il riflesso a livello dell’organizzazione sociale di un cambiamento culturale profondo. Come si colloca in questa prospettiva la vita della persona fragile, che solo dai vincoli con l’altro trova la propria realizzazione, quasi il riconoscimento umano? La crisi del capitale sociale, descritta da Robert Putnam (2001), che provoca evidenti disastri nell’organizzazione della vita collettiva, ma anche in quella dei singoli individui, è l’epifenomeno più evidente delle difficoltà che la postmodernità impone a tutti e, quindi, in particolare alle persone più deboli, ma la risposta o la proposta alternativa non è ancora chiara, anche perché mancano gli strumenti interpretativi per conciliare un’idea di progresso umano con questa realtà. Non abbiamo forse consentito con chi ha fondato l’origine della società sul costruirsi dei rapporti di compassione e di aiuto? La persona debole, che ha perso molto in termini biologici e sociali, come potrà sopravvivere in una comunità che contrattualizza ogni rapporto, perché ha perso il fondamento etico che permette il riconoscimento del valore assoluto della persona, indipendentemente dal valore di scambio? Il superamento contemporaneo dell’antropologia cristiana (in interiore homine habitat veritas), per riconoscere solo i vincoli del mondo esterno, non ha forse posto le basi per l’irriconoscibilità umana di chi, per esempio, ha perso la mente? Troverà spazio l’etica della responsabilità, da una parte rifiutata da alcuni parametri della postmodernità, ma che invece in un’altra prospettiva è l’unica risposta valida al riconoscimento dell’interdipendenza tra uomini e dell’uomo con il suo ambiente? Quest’ambivalenza continua a essere presente in una lettura accurata della vita della persona; la sua condizione è apparentemente la più consona alla postmodernità, perché ogni uomo del nostro tempo ha cancellato le aspettative di lunga durata e le domande di senso. Però è una postmodernità infelice, perché in passato l’altro offriva al vicino una traccia da seguire: si costruiva, anche se in modo precario, un percorso comune. In questo scenario complessivo i comportamenti individuali devono essere quindi impostati alla pura razionalità, come sarebbe stato necessario nella modernità, o si deve guardare alla realtà con occhio disincantato, costruendo continui adattamenti, con libertà e nella serena certezza di avvicinarsi a un reale che, seppure non inquadrabile in schemi precisi, è pur sempre lo specchio della costruzione umana? Molto incerto è il processo decisionale da adottare, perché è ben noto che il ragionamento illuministico non sempre permette una lettura efficace

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della realtà. Quale importanza è data a input diversi tra di loro che devono essere tenuti in considerazione nella costruzione di un progetto in ambito preventivo e di cura? Si possono facilmente compiere errori per eccesso d’interventismo o di astensionismo, condizioni che si collocano al di fuori di una scienza che non è mai un insieme rigido di verità indiscutibili, ma un’area della vita sociale aperta a intelligenze, sensibilità, libertà. In generale ciò è vero per ogni forma di progresso, ma tanto più vale per le scienze della vita e quindi della medicina che da esse discende. L’ipotesi di costruire schemi rigidi appartiene all’era moderna; oggi la possibilità concreta di giovare all’individuo si costruisce anche analizzando, comprendendo ed eventualmente modificando i comportamenti di chi nell’ambito della difesa della salute esercita funzioni educative. Quale messaggio trasferire a chi si avvicina alle scienze umane in una prospettiva clinica? Dove collocare il rapporto tra le certezze (seppur relative) della scienza e le multiformi realtà della vita? In quest’ambito è necessaria una profonda revisione delle metodologie e dei contenuti della formazione, perché solo operatori che vivono le dinamiche della postmodernità possono adeguatamente affrontare i bisogni dell’uomo di oggi. Queste considerazioni nel loro complesso portano a concludere che nella medicina in senso lato giocano ruoli diversi fattori difficilmente inquadrabili in schemi rigidi. È un ulteriore motivo per cui si può concludere che la cura oggi trova le sue radici nelle logiche della postmodernità; solo tenendone conto si possono affrontare le tematiche connesse con la difesa della salute che in questi ultimi anni sono state di estrema importanza in vari ambienti della vita associata. Chi avrebbe pensato solo qualche anno fa che si sarebbe messo in discussione l’obbligo delle vaccinazioni? Oggi il cambiamento degli scenari epidemiologici, la realtà di sistemi sanitari maturi e la partecipazione attiva dei cittadini hanno permesso di rivalutare l’importanza di uno strumento che in passato è stato utilissimo. Rendersene conto e pensare ai provvedimenti conseguenti significa comprendere che ogni tempo ha le sue regole e che oggi non è possibile ragionare secondo quelle di venti o trent’anni fa (e qui si aprono scenari di responsabilità individuale e collettiva di grande impegno!). Un utile esempio concreto del rapporto tra postmodernità e sistemi per la difesa della salute è rappresentato dall’ospedale: anche questo “pezzo” della realtà sociale contemporanea non ha ancora raggiunto un equilibrio nei processi di autotrasformazione per essere sempre più adeguato ai cambiamenti che sono avvenuti nella sensibilità, nella coscienza e nei bisogni concreti della gente. Seguirne l’evoluzione è quindi un esercizio utile per comprendere le tendenze dell’oggi, anche quando il campo di osservazione è la condizione del singolo rispetto alla sua personale capacità di adeguare i comportamenti di salute ai cambiamenti dell’ambiente. Infatti l’ospedale moderno riflette le crisi e la continua evoluzione della società che lo circonda. Si pensi alla città del nostro tempo, al centro di rapide trasformazioni, talvolta così veloci da essere difficili da leggere nel momento stesso in cui avvengono. È luogo di vita di ricchi e di poverissimi, di superoccupati

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e di persone prive di lavoro, di soddisfatti e di disperati, dove sono scomparse le tradizionali suddivisioni per aree, funzioni, prodotti, sostituite da movimenti continui non sempre collegabili a realtà di lavoro. Come farebbe l’ospedale –che si fa carico dei bisogni di coloro che vivono in questa città incerta – a essere una barca stabile in un mare in tempesta? Oltre a questa condizione “esterna”, l’ospedale vive anche la crisi delle proprie incertezze “interne” (chi curare, come curare, quanto a lungo, con che costi, con quali tecnologie, ecc.). In queste situazioni l’ospedale dovrebbe essere stabile per rappresentare un approdo sicuro per chi è insicuro, ma allo stesso tempo deve essere mobile per non infrangersi contro gli scogli. Un’impresa difficile, lontana da qualsiasi semplificazione (come purtroppo talvolta si sente ripetere). Il punto critico è non riversare sui cittadini le difficoltà dei cambiamenti, accettando che l’evoluzione sia la regola per mantenere il sistema al massimo delle sue potenzialità. Qualcuno potrebbe scandalizzarsi di fronte alla proposta di un modello in continuo movimento anche per una funzione, quella ospedaliera, dove sembrerebbero prevalere gli aspetti di stabilità (quelli più hard); una lettura dinamica è invece il riconoscimento che la difesa della salute, pur in diversi ambiti e condizioni, è sempre un atto che richiede di mettere assieme conoscenze teoriche, condizioni intrinseche (lo stato di salute di una persona o le condizioni di una struttura sanitaria), condizioni ambientali. Il tutto senza poter tracciare linee guida rigide, ma solo indicando percorsi flessibili, che mirano all’obiettivo di dare (o conservare) un po’ di salute al singolo e alla collettività. Ma, alla fine, non è forse necessario disporre di un radar che aiuti a mantenere la rotta? Deve però essere un accompagnatore che permetta oscillazioni, che non corregga la rotta in ogni momento, utile per arrivare alla meta, mentre i percorsi possono essere i più diversi, seguendo le inclinazioni e le scelte dei componenti dello scenario. Ciò vale per sistemi altamente integrati come l’ospedale, ma anche per il singolo individuo, anch’esso attore su traiettorie multiple, che alla fine devono trovare un livello di condivisione. In questa stessa logica s’inserisce il dibattito sull’adozione di linee guida diagnostico-terapeutiche in medicina; non sono camicie di forza né ricette di cucina (come qualcuno le ha definite), ma strumenti utili nei processi decisionali, quando l’intelletto umano esercita la propria libertà basandosi su criteri scientifici, ma anche ambientali, di cultura generale, fondati sulla storia dell’individuo che è l’obiettivo dello specifico intervento di cura. Oggi, in un momento di grandi discussioni sul rapporto medico-paziente, in particolare per quanto riguarda le decisioni di fine vita, è utile ricordare che la formazione di decisioni su argomenti delicatissimi richiede la partecipazione di attori e condizioni diverse, ognuno responsabile delle proprie scelte. La cultura di oggi enfatizza in particolare la libertà, anche a rischio di deresponsabilizzare il medico che alla fine deve decidere le modalità di cura. L’equilibrio è ancora una volta difficile da raggiungere, ma solo attraverso continue mediazioni si possono ottenere risultati che garantiscano il cittadino e le sue speranze di essere accompagnato nelle varie fa-

Le incertezze negli stili di vita: dalla medicina basata sull’evidenza al mondo reale

si della vita, spesso con alto livello d’incertezza e, quando ne avesse la necessità, di essere curato in modo adeguato rispetto ai bisogni.

Le incertezze negli stili di vita: dalla medicina basata sull’evidenza al mondo reale In Malattia come metafora, Susan Sontag scrive: “La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza onerosa”. Questa affermazione romantica testimonia fedelmente la realtà della malattia, che nonostante i tentativi di chiarimento conserva sempre un lato non comprensibile, oscuro. Negli ultimi decenni il movimento della Evidence Based Medicine ha scelto come missione quella di ridurre questa oscurità, attraverso la ricerca di prove di efficacia degli interventi di cura. Si tratta di un progresso notevole, perché ha definitivamente impedito una pratica della medicina basata sul “secondo me”; però, allo stesso tempo, rischia d’ingessare l’atto di cura in una sequenza rigida di formule precostituite che dimenticano la realtà di cui è fatta la clinica, soprattutto quando la malattia è di carattere cronico e quindi destinata ad accompagnare la vita per lungo tempo. Quante incertezze sono diffuse tra la gente di fronte al dolore non rilevato né curato, alla comparsa di molte patologie assieme (sconfessando quanto identificato dalla medicina dei secoli scorsi su un rapporto lineare tra una causa, e una sola, e un effetto), ai timori per il silenzio o l’assenza del medico, alla mancanza d’ipotesi realmente direttive (che significato ha la dimostrazione che un certo farmaco aumenta la sopravvivenza del 12,5% a 5 anni?)… La malattia è molto diversa dalle schematizzazioni della medicina basata sulle evidenze, molto più terribile degli schemi asettici, molto più vicina nei suoi contenuti di sofferenza e di paura all’intimità di ogni persona. Però il riconoscere questa realtà non può negare il progresso che è derivato dal superare prassi imprecise, dal ripetersi di atti senza dimostrazione, dall’imposizione di procedure il cui unico valore è quello economico. La medicina, con il supporto delle scienze biologiche, talvolta si pone l’obiettivo d’individuare i modi per costruire la felicità umana. Così essere magri, in forma, non essere portatori di fattori di rischio diverrebbe un modo semplice e semplificato per garantirsi la felicità. L’obiettivo che nel secolo scorso si otteneva attraverso le scienze sociali (la felicità dell’individuo all’interno di una massa in movimento, che per le ideologie totalitarie era la garanzia della felicità stessa) oggi si ritiene possa essere raggiunto attraverso le scienze mediche. Come anche nell’altro caso, si ammanta il tutto di un’impostazione etica, per cui se l’individuo non raggiunge un certo obiettivo indicato dalla scienza vive in una condizione di “immoralità” (non è sempre chiaro chi sia il giudice che decreta questa condizione, ma il confondere gli scenari è uno dei comportamenti tipici delle dittature politiche o psicologico-culturali). La riduzione della felicità a singoli atti “tecnici” è invece la negazione della felicità stessa, che alla fine l’uomo moderno sente sempre più lontana. Che si tratti di lenire la sofferenza o di costrui-

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re una condizione di benessere, la scienza, dopo aver apportato il suo contributo tecnico, si arresta di fronte alla complessità della natura umana. Solo così il suo ruolo non si trasforma in un’imposizione stonata. Dove si trova il segreto della felicità? Certamente non siamo noi oggi in grado di rispondere alla domanda che ha interessato l’uomo di tutti i tempi, le persone semplici così come i filosofi e gli scienziati. La medicina contribuisce alla felicità umana? Certamente quando lenisce il dolore, controlla le malattie, riconquista le funzioni perdute è fonte di benessere; però questi atti devono avvenire sempre entro limiti che la stessa medicina riconosce, cioè il rispetto dei legami di ogni uomo con i suoi simili, delle singole attività personali e professionali, delle speranze per un futuro migliore al quale si contribuisce liberamente, che riguardino una fede religiosa o un credo terreno sulla possibilità di incidere sulla qualità della convivenza umana. La domanda ricorrente che alla fine ci si pone è come l’uomo indifeso del nostro tempo possa trovare la propria strada tra mille incertezze, tra le sirene di una scienza che si ritiene salvifica e la realtà del dolore, del sangue, del corpo sofferente che non si riesce spesso a curare. Come si può amare una medicina che pone davanti a queste incertezze, senza gli strumenti interpretativi per orientarsi? Da qui nascono tante delle ambiguità più o meno inconscie verso il sistema sanitario. Non si può affidare la vita in modo acritico a una medicina che promette molto e non tutto mantiene, ma che soprattutto raggiunge i suoi fragili risultati dimenticando il dolore, le perdite, la caducità delle vicende umane, sia quelle legate al corpo sia quelle legate alla mente. Una medicina che non convince sulle sue conquiste e che spesso rischia d’impedire alla persona di esprimere le proprie speranze e il proprio amore per la vita nelle maniere pur grezze e difficili che si collocano prima della scienza. Una medicina che semplifica la vita e così la rende arida, schematica, limitata e non più la casa delle libertà umane. Nel tempo della crisi delle ideologie, quando i punti di riferimento che hanno caratterizzato il secolo scorso sono in difficoltà, perché l’uomo d’oggi dovrebbe passivamente accettare la pseudoideologia di una scienza che impone i propri modelli, il cui riferimento rischia di essere più quello degli interessi e delle mode che non quello di veri e indiscutibili dati scientifici? Dove porterà nei prossimi anni il faticoso tentativo di libertà del singolo rispetto all’insieme di potere espresso da una tecnoscienza che si mette al servizio d’interessi enormi? Ma questo modello non può essere solo denunciato, permettendogli di continuare a rappresentare la realtà più diffusa rispetto ai bisogni di cura della gente. Deve essere cambiato, in tempi brevi per evitare ulteriori incertezze e confusioni nella vita delle persone, in particolare nella grande massa di coloro che non hanno la possibilità di crearsi modelli autonomi, necessariamente elitari. Verso un’ipotesi di cambiamento ci si deve quindi necessariamente indirizzare; queste righe rappresentano il piccolo contributo per un’ulteriore elaborazione teorica, premessa indispensabile per rinnovati comportamenti concreti di tutti i giorni.

La libertà responsabile del cittadino: un obiettivo raggiungibile?

La libertà responsabile del cittadino: un obiettivo raggiungibile? L’insieme delle affermazioni riportate in queste pagine costituisce la premessa logica per ritenere la libertà responsabile del cittadino strumento irrinunciabile per adottare scelte autonome nella vita di tutti i giorni, quando si tratta di decidere per questo o altro comportamento (in ambito alimentare, lavorativo, legato all’uso del tempo libero, di sostanze voluttuarie, ecc.). La vita non deve essere un continuo inseguimento di regole difficili da rispettare, trasformate in feticci perché solo così hanno la possibilità concreta di essere seguite. In particolare, in ambito alimentare è importante evitare d’imporre regole aprioristiche, che non si adeguano alle specifiche condizioni dell’individuo, in grado di scegliere che cosa e come mangiare quando sia ben informato e libero da pressioni psicologiche (evidentemente più efficaci sui molto giovani e sulle persone culturalmente e socialmente più sprovvedute). In quest’ottica non si devono adottare politiche proibizionistiche o provvedimenti generalizzati, ma formare nel cittadino una sensibilità (anche molto elementare) perché alcuni comportamenti alimentari vengano modificati, senza ansia, senza pressioni, senza limitazioni aprioristiche, ma mirando a far comprendere qual è l’alimentazione più sana e più piacevole. Non è certamente impresa facile in una società che non ha una sola cultura, ma è un insieme di posizioni correlate all’età, alla religione, alle abitudini, alla collocazione sociale. Essere efficaci in questo crogiuolo è difficile, ma la formazione alla libertà e alle scelte responsabili è l’unico mezzo per ottenere risultati di benessere, certamente migliori di quelli raggiungibili con la coercizione, sempre destinati al fallimento in una società refrattaria alle regole e in grado di trovare mille modi per vanificarle. Il potere della scienza, se inteso in senso rigido e direttivo, ottiene risultati contraddittori, sia sul piano dell’applicabilità delle indicazioni fornite sia su quello della concreta efficacia. La complessità della vita richiede infatti che non si dimentichino i concetti di piacere e di dolore, di gioia e di sofferenza, di autonomia e di dipendenza, perché solo attraversando queste e molte altre antinomie si arriva a comprendere e quindi, se necessario, a indirizzare il comportamento della persona in modo non effimero. La scienza non può trascurare la trama delle relazioni personali, sociali, affettive, il modo con il quale una comunità ha costruito nel tempo il proprio modo di essere, lo stile di vita, anche comportamenti che secondo un’interpretazione rigida dovrebbero essere modificati. Si creerebbe una condizione di espropriazione della libertà che potrebbe portare in breve la scienza a imporsi sugli individui, ma che alla lunga porterebbe solo a un mondo di non libertà, di limiti, di sostanziale infelicità individuale e collettiva. La persona matura deve essere capace di costruire un modello di esistenza rispettoso delle premesse biologiche della vita, ma allo stesso tempo di trascenderlo, perché il mondo reale nella sua ricchezza (e nelle sue ambiguità) richiede molto di più da ciascun uomo o donna di quanto non si potrebbe costruire solo come individui biologici. Qui sta la base della liber-

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tà e della possibilità di crescita umana. Di questo si deve tener conto al momento di costruire qualsiasi progetto in difesa della salute della persona. Non è impresa facile, ma è l’unico modo per garantire, nel tempo della tecnica che genera timori e dipendenze, la vera libertà: impresa difficile ma irrinunciabile, coraggiosa ma realizzabile, colta ma attuabile anche da chi dispone soltanto del proprio personale sentire la libertà come bene umanissimo. Un’impresa che non ha assolutamente i connotati dell’antiscienza, di un ritorno indietro, del ricorso a pratiche alternative, ma anzi si propone di rendere la scienza sempre più utile e in linea con i propri scopi, perché una scienza irrispettosa delle libertà vince forse una battaglia, ma certamente perde la guerra, cioè forse illude l’uomo d’oggi di essere vincitore sulle difficoltà della vita, ma non lo difende nei momenti veri della crisi. La vita dell’uomo, di ogni uomo, è e resta un mistero. L’avvicinarsi ai contemporanei richiede quindi attenzione, equilibrio, disponibilità autocritica da parte di chiunque abbia responsabilità di modificare comportamenti o di mettere in atto meccanismi di cura. Tutto è in movimento e non siamo autorizzati a limitare o forzare la complessa realtà nella quale siamo immersi, pena il fallimento di qualsiasi impresa in ambito sanitario o, più in generale, riguardante le libertà umane. Occorre rispettare l’ampiezza del mondo e quindi anche l’ampiezza della ragione dell’uomo, articolata in capacità e funzioni diverse, la cui ricerca di senso non è affidata a singoli pezzi di realtà, neppure se ammantata di conoscenze tecniche e scientifiche. La ricerca di senso è impresa troppo nobile per essere limitata da attori o condizioni che dall’esterno vorrebbero imporre visioni parziali del presente e del futuro, è e resta il momento che continua ad accompagnare la vita e che ne determina l’accettabilità, non può essere inquinata da una massa di messaggi che si abbattono in ogni momento, cercando di catturare l’interesse e di polarizzare le energie. Anche se ciascuno può sembrare dotato di una propria logica intrinseca, nel momento della sintesi essi mostrano il vuoto. È questo il momento del conflitto fra la postmodernità e l’anima umana? Solo nella prospettiva di libertà e di senso è possibile parlare alla donna e all’uomo che si rivolgono oggi ai sistemi organizzati per avere risposte ai propri bisogni: l’atto di prevenzione e di cura, sia esso operato da un medico o organizzato da una società, non potrà più portare la maschera e si dovrà mostrare nella sua valenza di non assoluta aprioristica certezza e di continua adattabilità, valorizzando quindi la prospettiva umana, quella di un rapporto desiderato e attuato, che non subisce interferenze (o le accetta come eventi normali) e quindi non è sconfitto da nessun evento. Perché ciò avvenga, però, è necessaria una preparazione all’autonomia intellettuale e psicologica, che non è largamente diffusa, ma che è la precondizione indispensabile per un’elevata capacità di adattamento. Ma, appunto, la capacità di adattamento non è forse prerogativa dei sistemi umani forti, quelli che hanno subito e controllato le violenze della tecnica per produrre veramente il benessere della persona? Alla fine, quindi, s’intravvede la necessità di un sistema sociale in grado di garantire ai cittadini il massimo di protezio-

Bibliografia

ne di fronte agli eventi avversi della vita, garanzia che può essere raggiunta solo attraverso un sistema di vita nella società contemporanea che non è descrivibile all’interno di un modello semplice, ma di un sistema complesso che riconosce la cultura, la creatività, l’intuizione, l’esperienza e la tensione al nuovo del cittadino e la condizione di sofferenza come compagna spesso ineluttabile. Non siamo in grado di prevedere l’evoluzione del sistema, anzi abbiamo l’impressione che il risultato di molte scelte sarà solo in parte conseguente alle scelte stesse. Non di meno dobbiamo fare in modo che l’evoluzione della tecnologia (la biologia e la medicina) sia accompagnata dall’evoluzione della cultura, in modo che non si creino squilibri e l’uomo possa sempre sperare di trarne vantaggio per il suo benessere fisico e psichico. A tal fine non bisogna rinunciare, come più volte affermato in questo capitolo, a intervenire sull’architettura stessa del pensiero che sta alla base dei modelli di salute, in modo da trasformarlo secondo linee che ne migliorano l’efficacia, offrendogli allo stesso tempo l’opportunità di presentare un volto della medicina più “dolce” a chi oggi abita il nostro pianeta. Se in questo modo l’alleanza tra la persona e la medicina si rinfranca (e in alcuni casi si ricostruisce), ad avvantaggiarsene saranno il benessere diffuso e la serenità della persona, che non si sentirà più costretta a compiere percorsi difficili per mantenersi in salute. Al di là di alcuni estremismi e di posizioni dettate da interessi di parte, questa prospettiva non è lontana. Possiamo, nonostante tutto, guardare con serenità al nostro futuro di uomini e donne della postmodernità.

Bibliografia Baglio G, Materia E (2006) Scienza, salute e complessità: per un’etica dell’incertezza. Tendenze Nuove 1:84-87 Barbasi AL (2007) From obesity to the diseasome. NEJM 357:404-407 Bauman Z (2004) Tutti schiavi del fitness: la compassione dov’è? Edizioni Vita e Pensiero 3:40-44 Callahan D (1990) Rationing medical progress. The way to affordable medical care. New Engl J Med 322:1810-1813 Metzl JM, Herzig RM (2007) Medicalisation in the 21st century: introduction. Lancet 369:697-698 Peters MJ (2007) Should smokers be refused surgery? Br Med J 334:20-21 Putnam R (2001) Bowling alone. The collapse and revival of American Community. Simon and Schuster, New York Rozzini R, Trabucchi M (2006) La promozione della salute. Edizioni Vita e Pensiero, Milano Saccomani R (2006) L’inaccettabilità e l’impraticabilità di un razionamento discriminatorio dei servizi sanitari. L’Arco di Giano 47:115-128 Trabucchi M (2005) I vecchi, la città e la medicina. Il Mulino, Bologna Valsecchi M (2006) I rischi dei “buoni” stili di vita. L’Arco di Giano 47:95-114

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Capitolo 2 Nutrizione e salute nel mondo moderno: focus sulle bevande dolci (soft drink) Andrea Poli, Amleto D’Amicis, Eugenio Del Toma, Claudio Maffeis, Carlo M. Rotella, Umberto Valentini

Alimenti, bevande e salute in un mondo che cambia Il concetto di “nutrizione sana” pervade in maniera ormai capillare il mondo moderno e i flussi d’informazione che lo caratterizzano; è sufficiente inserire questa coppia di termini in un motore di ricerca come Google, per esempio, per ottenere più di 20 milioni di risultati. Tale concetto non è tuttavia di definizione banale, e soprattutto si è modificato in modo strutturale negli ultimi decenni. È sufficiente tornare alla prima metà del Novecento per trovare tracce evidenti (per esempio, a livello normativo) di una concezione della salubrità della nutrizione che si basava essenzialmente su due capisaldi ben definiti: da un lato l’assenza nei cibi di contaminanti e di agenti batterici patogeni, e dall’altro un adeguato contenuto di nutrienti. Fino alla fase immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale, infatti, il problema principale per larghi strati della società italiana era semplicemente soddisfare la quotidiana esigenza di consumo di alimenti in grado di fornire, senza rischi di natura tossinfettiva, le calorie e i macronutrienti necessari. In poco più di cinquant’anni questo scenario si è modificato in modo molto netto: e oggi lo stesso concetto ha assunto valenze molto più complesse. L’espressione “nutrizione sana” oggi descrive uno schema alimentare che permetta di mantenere il più a lungo possibile lo stato di salute, di benessere e di efficienza psicofisica caratteristico dell’età giovanile e intermedia. La nutrizione è sana, in altre parole, se aiuta a “stare bene” nel tempo e a prevenire in particolare la comparsa delle malattie degenerative tipiche dell’età avanzata (essenzialmente l’arteriosclerosi, i tumori, le demenze senili), le principali responsabili della perdita di quantità e qualità della vita per le donne e gli uomini del nostro tempo. Il cambiamento del significato percepito di “nutrizione sana” ha radici complesse. Sul piano sociale, essenziale è stato l’aumento della disponibilità di risorse economiche nella popolazione generale negli ultimi decenni, mentre il costo degli alimenti base è diminuito in termini relativi (e talora anche assoluti): in una combinazione di fattori che ha sottratto praticamente la totalità degli italiani del nostro tempo dalla condizione di “emergenza

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Capitolo 2 • Nutrizione e salute nel mondo moderno

alimentare”, permettendo loro di acquistare, senza reali vincoli di natura finanziaria, quantità di alimenti e bevande anche largamente eccedenti lo stretto fabbisogno dell’organismo. Si tratta di una situazione, è bene ricordarlo, che non ha probabilmente precedenti nella storia dell’uomo. Conseguenze dirette di questo fenomeno sono la maggiore attenzione e la maggiore selettività nella scelta degli alimenti e l’aumento della loro rilevanza edonistica: una volta raggiunto l’obiettivo di garantire la sopravvivenza dell’organismo, soddisfacendo il fabbisogno calorico quotidiano, la scelta s’indirizza, in altre parole, verso gli alimenti dal gusto più gradevole (che diventano sempre più anche strumenti di ricerca del piacere), e s’inizia a tenere conto degli effetti a lungo termine che essi possono svolgere su salute e benessere. Le disomogeneità, talora drammatiche, nella disponibilità di alimenti a livello mondiale fanno in realtà sì che tuttora coesistano, in differenti paesi del mondo moderno, atteggiamenti, problemi e vissuti ancora molto diversi relativamente a questo tema: è sufficiente ricordare la richiesta del governo della Corea del Nord, in grave carestia, durante le fasi più acute dell’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE) vissuta nell’Europa occidentale, quando i bovini venivano soppressi e bruciati a migliaia (“Mandateli da noi; alla BSE penseremo successivamente”) per realizzare come il rapporto alimenti-salute sia di fatto un problema che si pone in modo chiaro solo quando l’apporto di cibo è sufficiente a soddisfare i bisogni nutrizionali essenziali. Per il mondo medico e scientifico, l’elemento determinante della variazione nella percezione del rapporto alimenti-salute è stato invece probabilmente l’allungamento della durata della vita, che ha raggiunto nel nostro Paese (come speranza di vita alla nascita) circa 83 anni tra le donne e 78 tra gli uomini e che continua ad accrescersi. Una vita media di questa durata (che, ancora una volta, non ha precedenti nella storia dell’uomo) si associa infatti alla comparsa, con una frequenza correlata all’aumentare dell’età, di una serie di malattie degenerative, già prima ricordate (arteriosclerosi, tumori, demenze): gli effetti a lungo termine della nutrizione e dei suoi componenti sui fattori di rischio di queste patologie acquisiscono quindi un ruolo salutistico, e più specificamente preventivo, del tutto essenziale. Mentre l’effetto di un alimento o di un nutriente sulla colesterolemia era infatti sostanzialmente irrilevante quando la vita media era inferiore ai 50 anni (e non raggiungeva quindi l’età tipica di comparsa dell’infarto e delle patologie di natura aterosclerotica associate all’ipercolesterolemia, che colpiscono in genere gli uomini dopo i 60 anni e le donne dopo i 70), esso assume invece oggi una notevole e crescente importanza. Ma la relazione tra nutrizione, benessere e malattia, alla luce della comparsa sullo scenario biologico delle malattie degenerative e della scoperta della possibilità di influenzarne la comparsa e il decorso mediante l’alimentazione, acquisisce anche una complessità prima ignota, e la valutazione salutistica d’intere categorie di alimenti, da parte sia del pubblico sia degli “addetti ai lavori”, si modifica in modo netto (e spesso irreversibile):

Perché diventiamo così facilmente sovrappeso od obesi?

non basta più, infatti, considerare gli alimenti (o le loro combinazioni) in termini di contenuto di proteine, carboidrati, lipidi e micronutrienti, ma diventa essenziale conoscere e prestare attenzione agli effetti di tali sostanze, e dei componenti minori “non nutritivi” della dieta, sulla fisiopatologia dell’organismo e sullo sviluppo delle patologie prima ricordate. Alla luce di queste informazioni, come si ricordava, il semaforo ha “cambiato colore”, negli ultimi decenni, per molti alimenti, o gruppi di alimenti. Gli alimenti ricchi di calorie, ambiti e ricercati per decine di migliaia di anni dagli individui della nostra specie per motivi di natura biologica (si tratta di “concentrati di energia”, preziosi in periodi d’insufficiente apporto calorico) assumono in questo contesto, per esempio, una connotazione sfavorevole e potenzialmente negativa. Lo stesso eccesso calorico (una volta garanzia di una maggiore probabilità di superare indenni un periodo di carestia o un inverno più rigido del solito) diviene fonte di problemi importanti. Il sovrappeso, l’ipercolesterolemia, la malattia diabetica, l’obesità diventano le condizioni principali da anticipare e da prevenire per mantenere lo stato di salute, e la nutrizione sana si pone necessariamente come strumento (e forse addirittura come strumento elettivo) per il raggiungimento di questi obiettivi. Nel descrivere il concetto di nutrizione sana assume quindi un’importanza crescente la nozione di “equilibrio”, nelle sue varie declinazioni: equilibrio tra le calorie introdotte e le calorie “spese”, tra i vari macro- e micronutrienti, tra il controllo e la soddisfazione delle pulsioni edonistiche che guidano in larga parte la nostra scelta di alimenti e bevande. Il solido fondamento scientifico di questo approccio è evidente. Una dieta salubre e sana, per non generare sovrappeso, malattia diabetica e obesità, implica infatti necessariamente un equilibrio tra le calorie introdotte con gli alimenti e il dispendio energetico complessivo dell’organismo, cui l’attività fisica (ne parleremo in dettaglio più avanti) contribuisce in media per il 15-25% circa (fino al 30% nei soggetti più attivi). Un apporto calorico eccessivo rispetto al dispendio energetico (o, per converso, un dispendio energetico inferiore all’apporto calorico) condurrà infatti, con ragionevole certezza, a un aumento ponderale. Un maggiore equilibrio tra i vari nutrienti (per esempio tra le varie categorie dei grassi alimentari) è inoltre necessario per controllare la colesterolemia e gli altri fattori di rischio di aterosclerosi o la probabilità di sviluppare malattie neoplastiche in sedi specifiche dell’organismo. Ma la ricerca dell’equilibrio è “connaturata” alla fisiologia della nostra specie? Qualche riflessione in merito può portare a risultati sorprendenti.

Perché diventiamo così facilmente sovrappeso o obesi? È legittimo chiedersi perché gli individui della nostra specie diventino oggi così facilmente sovrappeso od obesi, senza che i meccanismi di controllo biologico che guidano il nostro metabolismo e molti dei nostri compor-

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tamenti riescano a prevenire con efficacia questa situazione. Per rispondere in modo appropriato a questa domanda dobbiamo probabilmente fare riferimento al meccanismo dell’evoluzione, che ha modellato in milioni di anni il nostro patrimonio genetico, e in particolare alla tendenza dell’evoluzione stessa a privilegiare la conservazione della specie rispetto a quella dei singoli individui che la compongono. La domanda di base, in quest’ottica, diventa: all’evoluzione “interessa” prevenire il sovrappeso e l’obesità? Sorprendentemente, la risposta a questa domanda è probabilmente negativa. La prima considerazione a supporto di questo assioma è che probabilmente la durata ottimale della vita umana, nell’ottica della difesa della specie, è relativamente breve, e forse molto più breve della durata della nostra vita attuale. Una volta superata la soglia d’età alla quale si può immaginare che si sia completato il processo di accrescimento e di “autonomizzazione” della generazione successiva, l’individuo della generazione precedente non ha infatti più importanti motivi biologici per sopravvivere. La seconda considerazione, direttamente connessa alla prima, è che quindi è ragionevole immaginare che l’evoluzione abbia selezionato, nel tempo, meccanismi fisiologici che aumentano la probabilità del nostro organismo di raggiungere questa soglia di età (che potremmo grosso modo identificare attorno ai 40-50 anni), trascurando il fatto (sostanzialmente irrilevante nello scenario evoluzionistico) che gli stessi meccanismi possano comportare, nelle successive fasi dell’esistenza, danni anche importanti. Forzando un po’ i termini della questione, potremmo immaginare che la prima metà dell’esistenza attuale sia “tutelata” dai meccanismi selezionati dall’evoluzione, mentre la seconda metà non solo non godrebbe in alcun modo di questa tutela, ma potrebbe essere addirittura danneggiata dai meccanismi posti in essere per “difendere” la prima. Vediamo un paio di esempi. L’accumulo di calorie (se ne parlava prima) sotto forma di grassi di deposito poteva evidentemente svolgere un ruolo protettivo durante i periodi di carestia che hanno caratterizzato larga parte della storia della nostra specie, aumentando le probabilità di un individuo sovrappeso di raggiungere l’età “soglia” dei 40-50 anni. Oggi, l’assetto genico che promuove i fenomeni dell’accumulo di calorie “di scorta” (il cosiddetto “genotipo risparmioso”, o thrifty genotype degli autori anglosassoni, Neel 1999), continua imperturbabile a funzionare: ma i suoi effetti, che non svolgono più alcun reale ruolo protettivo (nessuno muore più “di fame” nelle società opulente), sono probabilmente responsabili della tendenza di molti individui della nostra specie, in un contesto di disponibilità alimentare praticamente illimitata come è quella moderna, a sviluppare sovrappeso e obesità, e successivamente il diabete e le patologie di natura cardiovascolare. Quello che è concettualmente rilevante è che il vantaggio ottenibile nella prima metà della vita sopravanza completamente, nell’ottica della specie, e quindi dell’evoluzione, il prezzo che la scelta di adottare tale genotipo comporta (e cioè l’aumento, nella seconda metà della vita stessa, del ri-

Perché diventiamo così facilmente sovrappeso od obesi?

schio di diabete, aterosclerosi, malattie vascolari). Queste patologie colpiscono infatti tardi (tardissimo, nella scala della durata di vita rilevante per la continuazione della specie), e non hanno quindi alcuna reale importanza in tal senso. Anche la tendenza dei genitori (specie delle madri) a iperalimentare i figli ha probabilmente motivazioni di natura biologica, ed è ragionevole immaginare sia stata selezionata dai meccanismi dell’evoluzione. Comportamenti materni orientati a somministrare al piccolo la massima quantità possibile di calorie, in tempi preistorici, potevano probabilmente massimizzare la probabilità del piccolo stesso di sopravvivere alle inevitabili traversie (e alle restrizioni caloriche) della vita di quei tempi; ma nella società moderna, nella quale l’accesso dei piccoli al cibo, come per gli adulti, è di fatto illimitato, questi meccanismi ancestrali, tuttora attivi, stanno producendo una generazione di bambini e di adolescenti sovrappeso, quando non francamente obesi. E non deve sorprendere, se la radicazione biologica di questi meccanismi è basata su meccanismi di selezione evoluzionistica, che la pur diffusa conoscenza (e coscienza) di questi problemi non abbia l’impatto che si vorrebbe sui comportamenti delle persone: e che tantissime mamme e nonne continuino a trovare in pieno benessere bambini in realtà più o meno patologicamente paffuti, i cui rischi di diventare adulti obesi sono elevati. Ma anche la tendenza a non fare attività fisica quando non sia strettamente necessario, così evidente in larga parte delle persone delle società moderne (nelle quali il movimento e il lavoro sono ormai largamente automatizzati, e quindi l’attività fisica stessa può spesso essere evitata o fortemente limitata) può avere origine biologica con un obiettivo di “risparmio energetico”; è infatti del tutto ragionevole pensare che il genotipo selezionato dall’evoluzione per la nostra specie comprenda anche una certa dose di “pigrizia”. Se questo scenario è realistico, è quindi necessario, per aumentare ulteriormente la probabilità di sopravvivenza della nostra specie, che alcuni di questi meccanismi ancestrali debbano diventare oggetto d’interventi di controllo da parte nostra, che vadano, in qualche modo, “contro” i meccanismi e le scelte che l’evoluzione ha fatto, nei milioni di anni della nostra storia, per la nostra specie. “Seguire il proprio istinto” può non rivelarsi, a livello individuale, la scelta più saggia per vivere a lungo e meglio. Il futuro vedrà probabilmente sempre più spesso una collisione potenzialmente pericolosa tra “comportamenti istintuali” (in larga parte guidati dai meccanismi scolpiti dall’evoluzione nelle profondità del nostro cervello) e “comportamenti razionali”, suggeriti dalle nostre strutture corticali superiori e basati sulle informazioni rese disponibili dalla conoscenza scientifica e dai suoi continui progressi. Non si può tuttavia non osservare come l’evoluzione abbia posto barriere molto solide a difesa dei meccanismi che ha selezionato come cruciali per la difesa della specie. Tra questi meccanismi di difesa spicca, per la sua forza, quello del “piacere”. Il piacere sessuale è posto a insormontabile di-

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fesa dei comportamenti della nostra vita che portano alla continuazione della specie, il piacere del consumo di cibi e bevande alla tutela dell’apporto calorico e dell’idratazione, il piacere di vedere un bimbo mangiare a difesa della probabilità di sopravvivenza delle generazioni future. Le difficoltà che si pongono quando meccanismi biologici (specie se finalizzati alla ricerca del piacere) e scelte culturali basate sulla conoscenza si fronteggiano, fornendo indicazioni divergenti, sono ben note a tutti. La categoria “fumare mi fa piacere” prevale per esempio sulla categoria “so che fumare mi fa male” nella larga maggioranza dei fumatori; si deve quindi tenere ben presente che, anche in un contesto di “scelta informata”, molte persone potranno decidere di privilegiare la ricerca del piacere a quella della salute; la loro scelta, per quanto possa apparire non condivisibile a un’analisi logica, e per quanto possa rappresentare un problema potenzialmente grave dal punto di vista sanitario e sociale, dovrà di fatto essere accettata. Una considerazione di natura pratica e operativa che s’impone a questo punto (anche se può indurre un certo senso di “scoramento” in chi deve affrontare questi problemi) è che se aspetti della nostra biologia, con forte radicazione evoluzionistica, sono tra i principali responsabili dell’epidemia di obesità che si osserva nelle società moderne, il controllo di questi processi nella popolazione sarà estremamente complesso. Sono quindi comprensibili le difficoltà che si presentano a chi istituzionalmente si deve occupare della salute del pubblico, e quindi anche del tema del sovrappeso e dell’obesità, che si trovano sotto un’attenzione e un fuoco mediatico crescenti. Deve quindi stupire che costoro possano spesso trovare più agevole, e più facilmente percorribile, una sorta di “scorciatoia culturale”, che identifichi alcuni elementi dello stile alimentare e dello stile di vita come responsabili della situazione di crescente sovrappeso e di obesità creatasi, promuovendone di fatto una sorta di demonizzazione istituzionalizzata? Probabilmente no: e questo può probabilmente spiegare l’enfasi con cui, negli ultimi anni, si è insistito sul ruolo dei soft drink e del cosiddetto “cibo spazzatura” nel determinare l’aumento del rischio di sovrappeso della popolazione. Si tratta, visto dall’esterno, di un semplice meccanismo di ricerca del consenso: identificare in altre parole un colpevole che, anche se non realmente (o del tutto) responsabile della situazione, sia percepito come tale dal pubblico, su cui concentrare i propri interventi e la propria condanna. È dubbio che questo approccio possa produrre un qualunque risultato pratico, ma certamente produrrà consenso, almeno nel breve periodo, a chi lo sostiene. In realtà, come cercheremo di vedere nella parte successiva di questo articolo, la responsabilità dello sviluppo del sovrappeso è distribuita in modo omogeneo tra tutte le categorie di cibi che consumiamo quotidianamente in eccesso rispetto al nostro fabbisogno calorico, in continua e netta diminuzione per la riduzione dell’attività fisica. Ma se il sovrappeso non deriva solamente da un aumentato apporto ca-

Il ruolo dell’esercizio fisico nel mantenimento del peso corporeo

lorico, e ricordiamo che anche la riduzione del dispendio energetico contribuisce in modo importante a svilupparlo, ecco apparire una prima via d’uscita dal difficile dilemma prima implicitamente posto (o diventare grassi o fronteggiare una difficile rinuncia alla libertà di consumo di cibo tipica dell’opulenta società moderna). Aumentare il livello dell’attività fisica (facendo violenza quindi sulla “pigrizia biologica” per tutelare almeno in parte la “voracità biologica”) può essere quindi una strada percorribile: l’attività fisica è d’altra parte essenziale per il benessere dell’organismo umano. Solo muovendoci con regolarità e sistematicamente possiamo infatti far sì che il nostro corpo e i nostri muscoli rimangano in salute e in efficienza.

Il ruolo dell’esercizio fisico nel mantenimento del peso corporeo L’aumento di peso dell’organismo, come si ricordava, si verifica semplicemente quando il bilancio energetico è positivo, e cioè quando la quantità di energia introdotta con i cibi supera quella consumata. La patogenesi dell’obesità può essere quindi attribuita a un eccessivo introito calorico, o a un ridotto dispendio energetico, oppure all’effetto combinato di entrambi questi meccanismi. Generalmente, si tende a concentrare l’attenzione su uno solo degli aspetti del problema, e cioè l’eccessivo introito di calorie, e non si considera invece il contributo del ridotto dispendio energetico allo squilibrio calorico, e quindi allo sviluppo del sovrappeso e dell’obesità. In realtà, la moderna epidemia di sovrappeso si è manifestata in un periodo storico in cui l’apporto calorico medio è calato, seppure moderatamente, nei paesi colpiti dall’epidemia stessa. La situazione è più complessa di quanto non possa apparire. Molti pazienti obesi, in effetti, non sembrano consumare quantità di cibo maggiori del normale; allo stesso modo, è noto che molte persone sono magre nonostante assumano quantità notevoli di cibo. Ciò potrebbe suggerire un ruolo preponderante della riduzione del dispendio energetico nella patogenesi dell’obesità; in alternativa è possibile che l’accuratezza dei metodi per la valutazione del consumo di cibo possa essere insufficiente a rilevare differenze relativamente piccole nell’apporto calorico giornaliero che, mantenute nel tempo, potrebbero portare all’accumulo ponderale. Anche la misurazione del dispendio energetico totale nei pazienti obesi, d’altra parte, non mostra differenze rilevanti rispetto a soggetti di controllo normopeso; anche in questo caso è possibile che il mancato rilievo di differenze possa essere dovuto all’insufficiente sensibilità dei metodi di misurazione del dispendio energetico stesso: tuttavia si può anche osservare che il dispendio energetico a riposo, nei pazienti obesi, risulta ridotto, rispetto ai controlli, qualora venga espresso per kg di peso corporeo. Il metabolismo basale (il consumo energetico per le esigenze essenziali dell’organismo) dipende infatti sia dalla massa sia dalla composizione

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del corpo: cresce all’aumentare della massa corporea (un organismo “voluminoso” consuma naturalmente intrinsecamente più di un organismo leggero), ma a parità di massa complessiva il dispendio energetico basale è maggiore nei soggetti con una maggior massa magra, perché la massa magra stessa è metabolicamente più attiva (e quindi “consuma di più”) della massa grassa. I pazienti obesi, che hanno una maggior massa complessiva, hanno quindi tendenzialmente un dispendio energetico superiore ai soggetti magri; possedendo una maggior percentuale di massa grassa (o “adiposa”), essi hanno però un metabolismo basale per kg di peso corporeo inferiore rispetto alle persone normopeso. Alla luce di queste considerazioni si può osservare come i due tipici approcci al trattamento dell’obesità, e cioè la restrizione calorica e l’aumento dell’esercizio fisico, affrontino il problema del riequilibrio del bilancio energetico in modo differente: il primo promuovendo una riduzione delle calorie introdotte, il secondo favorendo un aumento delle calorie “bruciate”. La restrizione dell’apporto calorico, tuttavia, comporta una più o meno automatica riduzione del dispendio energetico (l’organismo tende infatti a “proteggersi” dalla ridotta disponibilità di energia diminuendo rapidamente la propria “spesa” energetica): il che tende automaticamente a limitare la perdita di peso; l’aumento dell’esercizio fisico provoca invece un incremento del consumo di energia che, se non stimola un eccessivo apporto di calorie con l’alimentazione, favorisce il mantenimento del controllo ponderale a lungo termine. Nella sindrome da oscillazione di peso (Weight Cycling Sindrome, WCyS) si osserva come il soggetto sovrappeso che si sottoponga a una dieta restrittiva senza incrementare l’attività fisica perda, nella fase iniziale della dieta stessa, sia massa muscolare sia massa grassa; quando interviene la cosiddetta “disinibizione alimentare”, e il soggetto inizia nuovamente ad alimentarsi in eccesso e quindi a riprendere peso, aumenta invece solo (o soprattutto) la massa grassa. Se questo ciclo si ripete più volte si osserva, alla fine, che la composizione corporea del paziente obeso è nettamente peggiorata: con un incremento significativo della massa grassa e una diminuzione altrettanto significativa della massa magra. Questa variazione va considerata, inutile dirlo, come molto sfavorevole sul piano funzionale: la massa magra è infatti l’unico tessuto dell’organismo capace di effettuare scambi metabolici significativi, e la sua riduzione si riflette quindi sia sul metabolismo basale (che tende a calare), sia su quello indotto dall’attività fisica (che tende a ridursi proporzionalmente ancora di più). In generale, quindi, soltanto approcci terapeutici integrati, che prevedano allo stesso tempo una riduzione dell’introito calorico e un aumento del dispendio di energia, sono efficaci per ottenere una perdita di peso (Task Force Obesità Italia 1999); le attuali conoscenze fisiopatologiche suggeriscono, però, che soltanto l’esercizio fisico aerobico e regolare garantisca la possibilità di mantenere a lungo termine i risultati raggiunti. È anche importante sottolineare che differenti livelli di attività fisica comportano un uso differente dei substrati energetici dell’organismo. Du-

Il ruolo dell’esercizio fisico nel mantenimento del peso corporeo

rante un’attività fisica di lieve intensità, pari al 25-40% della VO2max (la massima capacità dell’organismo di bruciare ossigeno), si utilizzano infatti come principale combustibile gli acidi grassi liberi plasmatici che derivano essenzialmente dai grassi di deposito, mentre a livelli di attività fisica più elevati (oltre il 70% della VO2max) si utilizzano prevalentemente i depositi di glicogeno. A livelli intermedi di attività l’organismo utilizza in aggiunta alle fonti di glicogeno anche gli acidi grassi liberi, e attinge inoltre direttamente ai trigliceridi intramuscolari. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è quindi più vantaggioso, ai fini del controllo dei depositi adiposi, adottare livelli di attività fisica di intensità lieve o al massimo moderata, che utilizzano maggiori proporzioni di grasso come substrato energetico. Questi sono anche i livelli d’intensità più facilmente realizzabili da soggetti che partono da bassi livelli di fitness e che necessitano quindi di un ricondizionamento fisico. Livelli d’intensità maggiori, più allenanti, volti a un incremento della massa magra, possono essere adottati in seguito, una volta raggiunti livelli migliori di fitness. Ma è possibile valutare, in modo semplice seppur affidabile, l’intensità dello sforzo da eseguire per controllare il peso o per ricondurre un peso eccessivo alla norma? Gli istruttori e i preparatori atletici ricorrono generalmente alla classica formula per il calcolo della frequenza cardiaca massima teorica per ciascun individuo (220 – età espressa in anni) e poi stimano la frequenza cardiaca limite, in genere valutata calcolando il 70% della frequenza massima teorica, che garantisce che l’attività fisica avrà le caratteristiche desiderate (sarà, in altre parole, aerobica). Per una persona di 54 anni il calcolo per esempio sarà il seguente: 220 – 54 = 166; 70% di 166 = 116: questa sarà la frequenza massima da non superare per svolgere uno sforzo aerobico. Questo metodo è molto semplice, ma, per esempio, non tiene conto delle condizioni di allenamento del soggetto o del fatto che il valore di soglia aerobica per i soggetti sovrappeso e obesi è molto più basso del normale (anche fino al 40%) ed estremamente variabile da individuo a individuo: pertanto quel valore del 70% dovrebbe essere ridotto nei soggetti sovrappeso od obesi, ma non è facile calcolare l’ampiezza della riduzione da apportare. Ne consegue che l’uso di calcoli teorici può indurre a valutazioni (per eccesso o per difetto) approssimative, il che induce a sconsigliarne l’utilizzo in maniera indiscriminata. Una soluzione alternativa praticabile e al tempo stesso sufficientemente accurata consiste nell’eseguire uno sforzo fisico semplice, come per esempio camminare o andare in bicicletta, e al tempo stesso parlare. La velocità del passo o della pedalata deve poi essere aumentata fino a che il lieve affanno che si produrrà non impedirà di fatto di continuare a parlare: questa è approssimativamente la soglia aerobica di quel singolo soggetto in quelle condizioni di sforzo. Basterà rallentare di poco l’intensità dello sforzo per consentire di proseguire anche per molto tempo nelle condizioni di aerobiosi che si ricercano. Un intervento per il controllo o la perdita di peso, in conclusione, non può basarsi sulla sola restrizione calorica, ma deve essere sempre accompa-

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gnato da un congruo programma d’incremento dell’attività fisica. L’esercizio fisico deve essere di tipo aerobico, deve avere una durata sufficientemente lunga (almeno 30’ continuativi, e fino a 60’ in due sessioni se si desidera specificamente perdere peso), e dovrebbe essere svolto tutti i giorni, o almeno 4-5 giorni la settimana.

Importanza dell’apporto di liquidi con la dieta Un aspetto spesso trascurato della relazione tra stile di vita e salute è che un adeguato livello d’idratazione dell’organismo è importante quanto un’alimentazione appropriata per mantenere uno stato ottimale di benessere psicofisico. La dieta deve infatti includere 1,5-2 litri di fluidi ogni giorno; circa il 70-80% di queste esigenze è in genere soddisfatta dalle bevande, mentre il 20-30% residuo deriva dagli alimenti e dal loro contenuto di acqua. L’importanza dell’apporto di liquidi è facilmente comprensibile: i liquidi, e l’acqua in particolare, rappresentano il 55-65% della composizione del corpo dell’adulto, e addirittura il 75% di quello del neonato, e l’organismo, per il suo benessere e per svolgere attività fisiche e intellettuali, necessita del ripristino dei liquidi che perde giornalmente: pari, in media, appunto a 1,5-2 litri al giorno. Particolari condizioni rendono ancora più importante l’assunzione di quantità adeguate di liquidi: è esperienza comune che il dispendio dei liquidi stessi aumenti alle alte temperature, o durante sforzi fisici, anche non particolarmente intensi. L’esigenza di introdurre 1,5-2 litri di liquidi al giorno (o anche più nelle situazioni particolari prima descritte), quantità che di per sé può sembrare elevata, dipende dal fatto che questa è la quantità “scambiata” giornalmente da due funzioni per le quali i liquidi sono fondamentali: la termoregolazione (e cioè la regolazione della temperatura del corpo) e l’eliminazione delle scorie metaboliche, attraverso le urine. La termoregolazione ha nella traspirazione, ossia nella perdita di liquidi sotto forma di sudore, un meccanismo essenziale per mantenere costante, a circa 37 gradi, la temperatura corporea interna e, nei casi estremi, per raffreddare la superficie cutanea. L’eliminazione delle scorie metaboliche attraverso le urine è il secondo meccanismo che “consuma liquidi”: i prodotti “di scarto” del metabolismo, raccolti dal sangue, sono infatti portati al rene e da questo filtrati ed eliminati con le urine stesse. Ma le funzioni dei liquidi sono più complesse: essi facilitano anche l’utilizzo delle sostanze nutritive e hanno un ruolo importante nella respirazione, favorendo lo scambio di ossigeno e di anidride carbonica a livello polmonare. Anche quando mangiamo, ovviamente, introduciamo liquidi. Gli alimenti, soprattutto la frutta e la verdura, sono ricchi di liquidi (la ragione per cui molti cibi, cuocendo, diminuiscono di volume si deve proprio all’evaporazione della componente liquida). Tuttavia, bere è il modo più consueto

Importanza dell’apporto di liquidi con la dieta

per assumere liquidi. L’attenzione al consumo di alimenti solidi o liquidi può essere considerata, sul piano funzionale e degli effetti sul benessere e la salute, di analoga dignità. Ma quando e quanto bere? Generalmente, siamo portati a pensare che sia necessario bere quando si ha sete. Il che, in pratica, significa: se non ho sete, non ho bisogno di introdurre liquidi nel mio organismo. Non è esattamente così: la sensazione di sete è un campanello d’allarme che scatta quando la carenza di liquidi è già significativa. Il livello delle nostre prestazioni inizia infatti a ridursi già prima che il meccanismo della sete si manifesti in forma chiara. Una perdita di liquidi pari anche solo al 2% del peso corporeo (poco più di un litro nell’adulto, molto meno in un bambino, specie se piccolo) provoca affaticamento, difficoltà di concentrazione, disturbi dell’attenzione e della capacità di memoria. Mentre è possibile sopravvivere in assenza di cibo anche per un mese, non è infatti possibile resistere per più di 72 ore senza introdurre liquidi. Se il nostro organismo continua a non ricevere i liquidi di cui necessita, oltre alla sete e alla bocca secca possono comparire senso di stordimento, mal di testa e crampi muscolari. In particolari condizioni la disidratazione può manifestarsi rapidamente, soprattutto nei bambini molto piccoli, negli anziani, nelle persone che operano in ambienti di lavoro particolarmente caldi o in climi caldi, o nelle persone che stanno compiendo un’attività fisica particolarmente intensa. In molte di queste situazioni, inoltre, l’abbondante sudorazione non causa solo la perdita di liquidi, ma anche di sali minerali, tra cui il sodio e il potassio, importanti per molte delle attività cellulari. In questo caso, non solo è necessario bere e reidratarsi, ma è anche opportuno reintegrare la quota di sali minerali perduti, attraverso alimenti o bevande che li contengono o, in alternativa, impiegando integratori salini ben formulati. Oggi, nei paesi sviluppati, la grande disponibilità di alimenti e bevande ha dato un senso nuovo al loro consumo: mangiare e bere hanno infatti ormai assunto, come si ricordava, una chiara dimensione edonistica, e la ricchezza degli alimenti e delle bevande disponibili permette ormai a ciascuno di noi di seguire i propri gusti, spesso molto differenziati, in questa scelta. Questa separazione del “necessario” dal “piacevole”, nel corso della nostra storia, ha avuto luogo non appena le condizioni sociali ed economiche lo hanno reso possibile. La cottura, e quindi lo sviluppo della “cucina” come ricerca del “buono”, ha trasformato l’apporto delle calorie e dei nutrienti essenziali alla sopravvivenza in un’attività complessa e strutturata, diventata ormai una vera e propria arte. Appannaggio per molti secoli essenzialmente dei ricchi e dei potenti, il piacere della buona tavola è oggi diventato una sorta di “diritto di tutti”, che ha trovato in alcune aree del Mediterraneo come l’Italia una ricchezza e una varietà di declinazioni che consente a tutti noi (e a chi visita il nostro Paese) di sperimentare sensazioni sempre nuove.

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Ma anche la cultura del bere è diventata, nel tempo, sempre più articolata e raffinata. Il consumo di acqua, infatti, è parzialmente gratificante per moltissime persone, che con difficoltà, e solo se veramente assetate (il che significa, come si ricordava, già in fase iniziale di disidratazione), riescono a consumarne quantità rilevanti. Storicamente, le prime bevande alternative all’acqua sono state, nel mondo mediterraneo e centroeuropeo, le bevande fermentate, a tenore più o meno marcatamente alcolico. Queste bevande, tuttavia, possono fungere solo limitatamente da fonte di liquidi, per gli ovvi problemi connessi all’eccessivo apporto di alcol. In culture come quella orientale il tè, nelle sue numerose varianti, è diventato una delle fonti essenziali di liquidi; nel mondo anglosassone, il caffè (come infuso diluito) ha assunto un ruolo simile. Nella nostra cultura, nessuna bevanda non alcolica ha raggiunto una simile posizione: ed è la varietà delle bevande disponibili che rende di fatto più agevole, per ciascuno di noi, introdurre la quantità adeguata di liquidi ogni giorno. È infatti importante sottolineare che anche se bere acqua frequentemente è una scelta eccellente per favorire un’ottimale idratazione dell’organismo, tutte le bevande, dal latte al tè, alle bevande aromatizzate e dolci o dolcificate, hanno capacità idratanti. Dati sperimentali sufficientemente chiari mostrano a questo proposito che si tende mediamente a bere di più, e a essere quindi meglio idratati, se il sapore del liquido che si beve è gradito (Clapp e coll. 1999; Szlyk e coll. 1989; Hubbard e coll. 1984). Sia i bambini, sia gli adulti, soprattutto se anziani (il cui senso della sete è in genere più o meno marcatamente ridotto), tendono infatti spesso a bere in maniera (e in quantità) insufficiente se hanno a disposizione solamente acqua. La presenza sul nostro mercato di una vastissima quantità di bevande, di tutti i gusti e di composizione molto varia, rappresenta quindi certamente un elemento positivo per favorire, a livello di popolazione, il consumo di adeguate quantità di liquidi.

Come procede la scienza: precisazioni metodologiche In genere il pubblico (e larga parte dei medici) ritiene che le bevande che contengono zucchero abbiano effetti sfavorevoli sulla salute, e che il loro consumo conduca più o meno inevitabilmente al sovrappeso o all’obesità. In realtà, le bevande contenenti zucchero (che comprendono una gamma molto varia di prodotti, tra cui gli sport drink, i soft drink e altre bevande) possono trovare spazio in una dieta ben bilanciata. Ma è vero che le bevande che contengono zucchero sono responsabili (o corresponsabili) dell’aumento di peso che si osserva attualmente nelle società industrializzate? A questa domanda, apparentemente semplice, si stenta a dare risposte semplici e solide sul piano scientifico. La considerazione più ovvia è che un consumo eccessivo di zucchero, così come di molti altri cibi e bevande in generale, è naturalmente perico-

Come procede la scienza: precisazioni metodologiche

loso per la salute, e conduce all’obesità e a molte malattie croniche: ma un consumo appropriato di zucchero e di bevande dolcificate, di per sé, non comporta problemi di rilievo. È tuttavia probabilmente opportuno, prima di valutare le evidenze a supporto di tale affermazione, addentrarsi un po’ più in dettaglio nei meccanismi mediante i quali la ricerca scientifica accumula informazioni sulla relazione tra alimenti e bevande e vari aspetti della salute di singoli individui o di popolazioni: questi dati derivano essenzialmente da studi di carattere epidemiologico, per valutare correttamente i quali è importante fare alcune considerazioni di carattere metodologico. La maggior parte degli studi che esaminano la correlazione tra il consumo di specifici alimenti e bevande ed effetti biologici complessi, come l’aumento di peso nel tempo, è di natura epidemiologica. Più precisamente, essi appartengono alla cosiddetta “epidemiologia osservazionale”, secondo la quale il ricercatore, in genere, registra l’eventuale presenza di una correlazione tra una certa variabile (per esempio il consumo di uno specifico alimento) e un certo effetto (o end-point della letteratura anglosassone). In uno studio che valuti la correlazione tra il consumo di soft drink e l’aumento del peso, quindi, il ricercatore valuterà il consumo di queste bevande in un numero sufficientemente elevato di soggetti, stimando al tempo stesso il loro peso; egli valuterà poi se i soggetti con elevati consumi di bevande dolci abbiano un peso medio (o una frequenza di sovrappeso o obesità) superiore a quello dei soggetti con bassi consumi delle stesse bevande. Se il rilievo del consumo di bevande e di presenza o assenza di sovrappeso viene effettuato contemporaneamente (in una sorta di “istantanea” della popolazione considerata), lo studio si definisce “trasversale”; se il consumo di bevande dolci viene invece accertato nella fase iniziale dello studio, e solo successivamente, durante o al termine dello studio stesso, si procede alla valutazione del peso, lo studio si definisce di tipo “longitudinale”, o “prospettico”. Il meccanismo sembra logico: ma presenta alcuni rischi, evidenti specie per gli studi trasversali (i più semplici da realizzare, e quindi i più rappresentati nella letteratura scientifica). È infatti possibile che la presenza del parametro d’interesse (in questo caso il sovrappeso) abbia modificato il comportamento delle persone oggetto dello studio: ne conseguiranno effetti potenzialmente confondenti nella lettura delle associazioni, e in particolare nel definire la direzione delle relazioni “causa-effetto”. Consideriamo per esempio di studiare in una popolazione di soggetti l’associazione tra il livello di colesterolo nel sangue e il consumo di farmaci ipocolesterolemizzanti. I soggetti con il colesterolo più basso, naturalmente, non assumeranno farmaci di questo tipo, che saranno invece impiegati da alcuni dei soggetti con valori elevati o molto elevati di colesterolemia. Tra questi ultimi, nonostante l’assunzione di farmaci specifici, il valore della colesterolemia sarà in genere più elevato che nella popolazione sana (raramente si assiste a una completa normalizzazione dei valori di que-

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sto parametro). Ne conseguirà che i valori più elevati della colesterolemia si osserveranno tra i consumatori di farmaci ipocolesterolemizzanti: e in assenza di una conoscenza dei loro effetti e dei valori di partenza (cosa non sempre possibile in uno studio trasversale) il ricercatore potrebbe farsi l’idea (evidentemente errata) che questi farmaci alzino, invece di abbassare, il tasso di colesterolo nel sangue. È l’errore definito della “causalità inversa”, che porta a scambiare la causa (in questo caso l’aumento del colesterolo, che induce l’uso di farmaci specifici) con l’effetto (l’azione farmacologica degli ipocolesterolemizzanti). Molto spesso, inoltre, aspetti comportamentali diversi tendono ad associarsi, e può non essere agevole isolarne il contributo specifico. Chi consuma sistematicamente pasti a elevato tenore calorico spesso consuma in modo eccessivo anche le bevande dolci, e tende invece a consumare in modo ridotto o del tutto insufficiente la frutta, la verdura, gli alimenti integrali; spesso, inoltre, pratica una scarsa attività fisica. Valutare l’effetto finale di questi comportamenti (l’aumento del peso corporeo) è in genere facile, ma molto più complesso può essere stabilire quali dei comportamenti complessivamente adottati dal soggetto siano i responsabili (o i principali responsabili) degli effetti osservati, e in che misura lo siano. Anche gli studi longitudinali (che misurano la presenza della condizione di cui s’intende misurare l’effetto in una fase precedente a quella durante la quale viene stimato il parametro di interesse), che sono meno esposti all’errore della “causalità inversa”, sono tuttavia esposti al rischio del cosiddetto “effetto spia”. Se un gruppo di soggetti consuma quotidianamente due pasti largamente ipercalorici, accompagnati da uno o più soft drink, l’analisi statistica osserverà un’associazione tra il consumo dei drink stessi e un aumento ponderale: mentre l’aumento del peso corporeo osservato è in realtà dovuto all’eccesso complessivo delle calorie introdotte con i pasti. Il consumo di bevande dolci è in questo caso elevato semplicemente perché associato ai pasti ipercalorici (al cui eccesso calorico peraltro esse ovviamente contribuiscono): esse diventano quindi degli indicatori (o “spie”) dell’eccesso calorico stesso, con un ruolo causale difficile da definire, sul piano quantitativo, in modo preciso. Naturalmente esistono tecniche statistiche specifiche (la cosiddetta “analisi multivariata”) che consentono di isolare, e definire quantitativamente, l’effetto di un singolo parametro anche in un contesto sperimentale complesso: ma spesso non è possibile tenere conto in modo appropriato di tutti i potenziali fattori confondenti (anche perché uno o più di loro potrebbe semplicemente non essere conosciuto dai ricercatori). Tutti i dati dell’epidemiologia osservazionale, quindi, vanno sempre raccolti, esaminati e interpretati da esperti, e “maneggiati” con la dovuta cautela. Diverso è il contesto degli studi cosiddetti “d’intervento”, nei quali il ricercatore svolge invece un ruolo attivo: ipotizzando ed esaminando sperimentalmente l’effetto di uno specifico intervento, di natura farmacologica, nutrizionale o di correzione dello stile di vita. In questo modello di studio, il ricercatore “arruola” un certo numero di soggetti, con le caratteristiche

Bevande dolci, sovrappeso e obesità: le evidenze disponibili

desiderate, e li distribuisce, in modo casuale (è la cruciale fase della “randomizzazione”) all’intervento che vuole esaminare o a un intervento di controllo (spesso in realtà privo per definizione di effetti specifici: il cosiddetto “placebo”). Successivamente, dopo un periodo di tempo predefinito, il ricercatore riesamina i soggetti arruolati nei due gruppi, per valutare che cosa sia successo tra chi è stato esposto all’intervento “attivo” e chi, invece, è stato esposto al placebo. Nel modello ottimale di questi studi (il cosiddetto “doppio cieco”), il soggetto arruolato non è in grado di distinguere in quale gruppo egli sia stato inserito (perché il trattamento d’intervento attivo e il placebo sono indistinguibili: si pensi a uno studio farmacologico nel quale si tratta di compresse di analogo aspetto e colore, una contenente il principio attivo e l’altra i soli eccipienti). E nemmeno il ricercatore, fino al termine della raccolta dati, è al corrente se le misurazioni che egli sta effettuando siano riferite a un soggetto che ha assunto il trattamento attivo o il placebo: per non essere (volontariamente o involontariamente) condizionato, nel rilevare il dato, dalle sue attese, orientandone così più o meno consapevolmente la direzione. Questi studi rappresentano lo standard di riferimento per valutare l’efficacia d’interventi di natura farmacologica; applicarli al mondo nutrizionale è tuttavia, per vari motivi, più complesso. Il formato del “placebo”, innanzitutto, poco si presta alla somministrazione di alimenti. Inoltre, la somministrazione di un alimento (a differenza di quella di un farmaco) induce quasi costantemente modificazioni nel resto del pattern alimentare, che rendono complessa l’attribuzione univoca dei risultati osservati all’intervento effettuato. Gli studi contro placebo, inoltre, sono talora molto prolungati e complessi (si pensi a quelli che hanno documentato l’effetto del controllo della pressione arteriosa o della colesterolemia nel ridurre il rischio d’infarto o di ictus cerebrale, condotti su migliaia di soggetti e durati in media almeno 4-5 anni): i loro costi sono di fatto fuori dalla portata delle aziende alimentari. L’epidemiologia osservazionale, quindi, che pure rappresenta la fonte principale di conoscenze della relazione tra nutrizione e salute, presenta alcune possibili fonti di errore nella fase di raccolta del dato sperimentale che possono condizionare i risultati e falsarne l’interpretazione. I suoi risultati devono pertanto essere studiati e interpretati da esperti. Maggiore attenzione dovrà essere prestata ai risultati degli studi d’intervento, la cui presenza nell’ambito nutrizionale è tuttavia attualmente piuttosto limitata.

Bevande dolci, sovrappeso e obesità: le evidenze disponibili Nonostante si sospetti da tempo che i soft drink contribuiscano, almeno in parte, alla recente epidemia di obesità, solo da breve tempo alcuni studi epidemiologici hanno iniziato a investigare in modo attento la correlazione tra il loro consumo e l’aumento di peso nel lungo termine.

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Meccanismi biochimici plausibili, e per certi versi persino ovvii, possono fornire un supporto teorico all’esistenza di un collegamento causale tra il consumo in eccesso di bevande dolci (e specificamente zuccherate) e il rischio di obesità. Evidenze definitive in grado di separare con precisione il ruolo di queste bevande da quello degli alimenti solidi che possono contribuire allo stesso processo (anche alla luce delle precisazioni del capitolo precedente) non sono tuttavia ancora disponibili. Una recente rassegna sistematica della letteratura su questa relazione ha identificato ed esaminato 30 lavori (Malik e coll. 2006). Di questi studi, 15 erano trasversali, 10 prospettici e 5 erano studi sperimentali d’intervento. Gli studi trasversali, per la maggior parte derivati dalle indagini nutrizionali nazionali condotte negli Stati Uniti (NAHNES), suggeriscono che un alto apporto di bevande dolci tenda ad associarsi con una dieta a elevato contenuto energetico, e conseguentemente a un possibile maggiore rischio di obesità. È opportuno ricordare che attualmente le bevande zuccherate (soft drink) contribuiscono per l’8-9% all’apporto calorico totale sia tra i bambini sia tra gli adulti negli Stati Uniti (Nielsen e Popkin 2004). La trasferibilità dei dati raccolti negli USA a Paesi a minore consumo di queste bevande non è certa. Nonostante un drammatico aumento dei tassi di obesità negli adolescenti, in ogni caso, un’analisi dei dati NAHNES III ha mostrato che l’apporto calorico totale dei bambini e dei ragazzi tra i 2 e i 19 anni si è modificato in maniera molto limitata negli ultimi anni, tranne che per un aumento significativo nelle adolescenti (Troiano e coll. 2000). Gli studi trasversali, anche se possono offrire spunto per riflessioni e speculazioni, non sono tuttavia in grado di dimostrare, come si ricordava, un nesso di causalità. L’apporto energetico misurato in un singolo “punto temporale”, oltretutto, non è in grado di fornire indicazioni sulla direzione dell’associazione, e nemmeno sulle sue possibili relazioni con la dinamica del peso corporeo. Per esempio, numerosi studi epidemiologici hanno mostrato una correlazione inversa tra l’apporto di saccarosio, in qualunque forma, e il peso corporeo dei bambini (Gibson 1993; Naismith e coll. 1995; Maillard e coll. 2000). Questo non significa naturalmente che consumare più zucchero determini una riduzione del peso corporeo; esso riflette invece semplicemente il fatto che il consumo di zucchero tende a declinare con l’età, e che gli apporti di zucchero più elevati sono usualmente osservati in età più giovane, quindi in soggetti di peso più basso. Anche senza tener conto dell’effetto dell’età, i risultati degli studi di osservazione possono poi essere confusi dai pattern di attività fisica e dalle conseguenti esigenze energetiche. Inoltre (ed è un problema assai grave, e non risolvibile, di fatto, sul piano metodologico), il report di consumi reali di alimenti o bevande, in risposta a questionari, interviste, diari (le tecniche abitualmente utilizzate per ricostruire l’apporto di alimenti e bevande) è notoriamente impreciso, e spesso deformato (quando per esempio la persona o il paziente senta di doversi “difendere” dall’accusa, velata o manifesta,

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di essere sovrappeso perché mangia troppo o male). In uno studio su un gruppo di 16.882 soggetti di età compresa tra i 9 e i 14 anni, per esempio, i partecipanti sovrappeso riportavano di consumare sensibilmente meno calorie di quanto non facessero i loro coetanei di peso normale (Rockett e coll. 2001). I confronti tra gruppi più omogenei suggeriscono poi che anche altri fattori dietetici, oltre ai soft drink, siano coinvolti in questo processo. Uno studio su 91 soggetti obesi e 90 non obesi (bambini e adolescenti di età compresa tra i 14 e i 16 anni) ha per esempio mostrato che il gruppo degli obesi consumava significativamente più bevande zuccherate, esclusi i succhi di frutta al 100%, di quanto non facessero i non obesi. Tuttavia, il gruppo degli obesi consumava anche significativamente più carne, prodotti a base di cereali, patatine fritte e zuccheri totali, determinati attraverso il metodo dell’intervista dietetica (Gillis e Bar-Or 2003). In un altro studio su 928 uomini e 889 donne di età superiore a 18 anni, di una comunità rurale, il sovrappeso si associava con una frequenza significativamente maggiore di consumo di bevande dolci, ma anche con la tendenza a ordinare porzioni particolarmente voluminose di cibo e a un’insufficiente attività fisica (Liebman e coll. 2003). Il livello di attività fisica si associa anche con lo status socio-economico, che correla a sua volta con la qualità della dieta e con un migliore accesso ai servizi di salute pubblica (Drewnoski e Specter 2004). Nel complesso, i dati disponibili indicano chiaramente quanto sia difficile stabilire rapporti di causalità tra l’obesità e il consumo di uno o più singoli alimenti, trascurando le numerosissime variabili economiche e sociali che possono condizionare le scelte alimentari. Anche gli studi prospettici sull’argomento forniscono supporto, nel loro insieme, all’ipotesi che il consumo di bevande dolcificate e il rischio di sviluppare obesità siano correlati (Pereira 2006). Tre su dieci studi prospettici analizzati nella review di Malik prima ricordata, che prevedevano misure ripetute sia del consumo di bevande dolci sia del peso, concludono che un maggior consumo di bevande dolci contenenti saccarosio si associa a un aumento ponderale significativamente superiore e a un maggior rischio di obesità nel tempo, sia tra bambini sia tra adulti. In uno studio prospettico della durata di 19 mesi condotto su 548 scolari, l’autore concludeva per esempio che il consumo di bevande dolci all’inizio dello studio si associava con l’aumento dell’indice di massa corporea durante il periodo di osservazione (0,18 unità di BMI per ogni dose di consumo giornaliera, Ludwig e coll. 2001) Berkey e coll. hanno esaminato le modificazioni longitudinali nel consumo di bevande zuccherate e l’indice di massa corporea in un ampio campione di soggetti di età compresa tra i 9 e i 14 anni in due periodi successivi della durata di un anno. Le diete erano state valutate utilizzando questionari di frequenza di consumo dei vari alimenti, e l’indice di massa corporea era stato valutato utilizzando dati (autoriportati) di altezza e peso. All’inizio

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dello studio il 23,2% dei ragazzi e il 17,5% delle ragazze era classificato come sovrappeso. Analizzati mediante un’analisi statistica appropriata, i dati suggerivano che ogni dose giornaliera addizionale di consumo di bevande contenenti zucchero (soft drink, tè freddo e succhi di frutta) si associava a un modesto aumento dell’indice di massa corporea a un anno (da 0,03 a 0,04 unità di BMI, Berkey e coll. 2004). Sulla base di questi dati si dovrebbe tuttavia concludere che l’aumento di consumo di 144 calorie al giorno da bevande zuccherate (pari al contenuto calorico medio di una di queste bevande) e quindi di 52.560 calorie su base annua (144 per 365) si associava con un aumento del peso di soli 100 grammi circa al termine dell’anno stesso. L’efficienza del meccanismo di conversione delle calorie in grasso di deposito sarebbe quindi estremamente bassa (pari all’1,5% circa se si considera che 100 grammi di tessuto adiposo equivalgono convenzionalmente a 750 calorie circa), e tale da suscitare più di un dubbio sulla reale causalità dell’associazione identificata. L’aggiustamento per l’apporto energetico totale dei due gruppi durante lo studio riduceva inoltre ulteriormente la forza statistica dell’associazione stessa, che diventava non significativa. Mentre i dati, analizzati correttamente, sembravano quindi suggerire che le bevande contenenti zucchero, per i livelli di consumo considerati, non avessero alcun effetto discernibile sull’aumento del peso corporeo in bambini in età della crescita, gli autori dell’articolo traevano conclusioni opposte. Uno studio recente ha esaminato l’effetto potenziale dei soft drink e dei fast food sull’aumento di peso in un gruppo di 7.194 adulti spagnoli, di ambo i sessi e di età media pari a 41 anni, seguiti per un periodo di 28,5 mesi. L’analisi dei dati ha mostrato che il consumo di soft drink correlava positivamente con l’aumento di peso riportato dai soggetti, ma solo tra quei partecipanti che avevano guadagnato da tre a cinque chili di peso nei cinque anni precedenti lo studio; il consumo di soft drink non correlava invece con l’aumento di peso nelle persone il cui peso nel periodo pre-studio era rimasto stabile (Bes-Rastrollo e coll. 2006). Questi dati suggeriscono che anche la “traiettoria” del peso corporeo possa rappresentare un elemento importante, e non sempre misurato, in questo contesto. Altri autori, nel 2004, hanno inoltre osservato che il più elevato consumo di bevande dolci si osserva tra i ragazzi fisicamente meno attivi, che hanno anche una probabilità doppia di essere fumatori rispetto ai bassi consumatori di queste bevande (21% versus 10,9%, Schultze e coll. 2004). Nonostante il consumo eccessivo di soft drink possa quindi certamente peggiorare il problema del sovrappeso in una popolazione già vulnerabile, altri aspetti della dieta o dello stile di vita possono essere quindi egualmente importanti. Lo scenario degli studi d’intervento, ancora una volta, mostra come le informazioni disponibili siano lontano dall’essere conclusive. In un recente studio d’intervento della durata di un anno, per esempio, i risultati hanno mostrato che riducendo il consumo di soft drink in un gruppo di scolari s’induceva una significativa, ma piccola (-0,2%), riduzione della

Bevande dolci, sovrappeso e obesità: le evidenze disponibili

prevalenza (in pratica della frequenza) di sovrappeso di obesità (James e coll. 2004). Tuttavia il calo del consumo di bevande caloriche osservato durante lo studio non era significativo, e solo valutando insieme il consumo di bevande caloriche e di bevande dietetiche a basso contenuto calorico (cosa, se ci si pensa, non particolarmente logica) la variazione di consumo indotta dall’intervento sperimentale effettuato raggiungeva la significatività statistica (p = 0,02). Non si è inoltre osservata alcuna differenza significativa nell’indice di massa corporea tra i soggetti del gruppo d’intervento e di controllo. In uno studio controllato e randomizzato di 25 settimane condotto su adolescenti, una riduzione dell’apporto di bevande zuccherate ha avuto invece un effetto favorevole sul peso corporeo. L’effetto era strettamente associato all’indice di massa corporea all’inizio dello studio (Ebbeling e coll. 2006): ma anche questo studio (analizzato in dettaglio più oltre in questo capitolo) presenta problemi metodologici non trascurabili. Un altro tema di discussione è se i carboidrati (e specificamente gli zuccheri semplici), a parità di apporto calorico, abbiano un effetto “più sfavorevole” sul peso di altre fonti di energia (come grassi o proteine). Sono stati pubblicati, a questo proposito, i risultati di alcuni studi d’intervento che hanno valutato l’effetto di diversi tipi di carboidrati o di diversi mix lipidi/carboidrati in protocolli di restrizione energetica sul calo ponderale. In uno studio mirato a rispondere a questo dubbio, 95 soggetti moderatamente obesi sono stati casualmente assegnati a una dieta con un deficit energetico di 600 kcal al giorno e con una composizione a basso tenore di grassi e di saccarosio, o a una dieta a basso tenore di grassi ed elevato di saccarosio per otto settimane con identico deficit energetico. Al termine dello studio il calo ponderale è stato comparabile nei due gruppi (West e de Looy 2001). Anche in un altro studio di simile impianto sperimentale, durato sei settimane, nel quale i soggetti arruolati erano randomizzati a uno schema dietetico che prevedeva una restrizione calorica e un alto tenore di saccarosio, o invece un analogo deficit energetico ma con un basso apporto di saccarosio, non si è osservata alcuna differenza nel calo ponderale tra i due gruppi (Surwit e coll. 1997). Una recente analisi, condotta utilizzando dati di varia provenienza, ha valutato la correlazione tra il consumo di bevande acquistate dai distributori presenti a scuola e il rischio di sovrappeso tra gli adolescenti. I risultati della valutazione hanno mostrato che la rimozione da scuola dei distributori contenenti soft drink non aveva alcun effetto sull’indice di massa corporea (Forshee e coll. 2005). Sul piano concettuale, un argomento che ha fornito un certo supporto all’ipotesi della relazione tra bevande dolci e obesità è quello delle cosiddette “calorie liquide”. Esso suggerisce che le calorie presenti nelle bevande dolci non siano identificate in maniera appropriata dall’organismo, e quindi non inducano “sazietà” e limitazione del successivo apporto calorico, per vari motivi: tra i quali è probabilmente preminente l’incapacità di queste bevande d’indurre un significativo riempimento dello stomaco (Di-

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Meglio e Mattes 2000). In realtà la sazietà a breve termine e la regolazione del peso corporeo a lungo termine sono meccanismi probabilmente ben distinti; in ogni caso, il consumo regolare e quotidiano di bevande dolcificate non conduce automaticamente a un aumento del peso (come si dovrebbe invece osservare se il concetto delle “calorie liquide” fosse sempre operativo); l’evidenza clinica ha mostrato invece che il consumo regolare di sostituti liquidi del pasto a composizione bilanciata, ma contenenti anche zuccheri, da parte di pazienti sovrappeso può condurre a un significativo calo ponderale. Sostituti liquidi del pasto rappresentano la modalità di trattamento del sovrappeso preferita in alcuni studi d’intervento: per esempio, in un ampio e recente studio multicentrico randomizzato condotto su 5.145 partecipanti che si sottoponevano volontariamente a un intervento per perdere peso (Wadden e coll. 2006), i sostituti liquidi del pasto erano stati scelti per formulare la dieta da 1200-1500 calorie perché il loro uso semplificava la scelta degli alimenti, migliorava il controllo glicemico e conduceva a un controllo del peso significativamente migliore se raffrontato a diete isocaloriche costruite secondo modelli convenzionali. Come si può vedere, l’interpretazione di molti degli studi pubblicati è complicata da problemi metodologici, che rendono assai difficile isolare e valutare separatamente l’effetto fuorviante di altri fattori dietetici (diversi dalle bevande dolci) e da aspetti dello stile di vita non misurati o non considerati. Il report del 2003 dell’OMS, della FAO e di altre associazioni sulla dieta e la prevenzione delle malattie croniche (WHO 2003) definisce la relazione tra il consumo di bevande dolci e l’aumento dell’obesità come “probabile” mentre, a titolo di esempio, l’evidenza relativa all’apporto di alimenti ad alto tenore energetico e poveri in micronutrienti come promotori dell’obesità stessa era invece classificata come “convincente”. Sulla base dei risultati della più recente letteratura su consumo di bevande dolci e rischio di obesità siamo probabilmente ancora piuttosto lontani dal vedere il “probabile” modificarsi in “convincente”. Solo ulteriori studi controllati di buona qualità, randomizzati e ben condotti, che si aggiungano a quelli già realizzati, potranno produrre dati necessari per valutare in modo più appropriato la questione. Il complesso di questi risultati pone in realtà anche un problema più generale: sono sempre univoche la lettura e l’interpretazione dei risultati dei lavori scientifici pubblicati sulle riviste internazionali di prestigio? È necessario rispondere negativamente a questa domanda: precisando che gli studi che esaminano temi apparentemente “scontati”, e i cui risultati confermano quindi un’opinione già sostanzialmente condivisa, sono quelli a proposito dei quali è più facile “abbassare l’attenzione”, non rilevando l’eventuale presenza di problemi di carattere metodologico o d’interpretazione dei dati ottenuti. Un esempio molto recente di questa possibilità viene da un lavoro, pubblicato sul Journal of the American Dietetic Association, che evidenziereb-

Bevande dolci, sovrappeso e obesità: le evidenze disponibili

be un’associazione positiva tra il consumo “fuori pasto” di bevande dolci e il sovrappeso in bambini di età compresa tra 2,5 e 4,5 anni (Dubois e coll. 2007). Curiosamente, il lavoro passa invece sotto sostanziale silenzio (relegando questa informazione non banale in tre righe di testo, non accompagnate da alcun dato numerico o da una tabella, e non riprese nella discussione) il fatto che tra consumo totale di bevande dolci e sovrappeso non si osservi, tra i soggetti studiati, alcuna correlazione significativa. Oltretutto, è facile argomentare che se il consumo totale di soft drink non correla con il rischio di sovrappeso, e il consumo fuori pasto correla positivamente con tale rischio, il consumo durante i pasti, in linea teorica, potrà correlare negativamente con lo stesso rischio. In altre parole (anche se i dati non sono mostrati e presumibilmente non si raggiungerà la significatività statistica), consumi crescenti di bevande dolci durante i pasti si associerebbero a una probabilità decrescente di sviluppare sovrappeso: ma gli autori hanno “scelto” di valorizzare l’associazione positiva tra consumo fuori pasto e sovrappeso, senza dare alcuna enfasi al dato, di significato opposto, che emerge con altrettanta evidenza dai loro risultati sperimentali o, più semplicemente, all’assenza di correlazione tra il consumo totale di queste bevande e il sovrappeso (che sembrerebbe, intuitivamente, il risultato più rilevante). Un altro esempio di questi possibili problemi è rappresentato dall’articolo già citato, pubblicato da Ebbeling e coll., che ha esaminato l’effetto della riduzione del consumo di bevande zuccherate in un gruppo di adolescenti seguiti per un periodo di circa sei mesi. Il protocollo dello studio prevedeva che un centinaio di adolescenti fosse randomizzato a un gruppo di controllo, che ha continuato il proprio livello di consumo di bevande dolci, oppure a un secondo gruppo (d’intervento), nel quale, con interventi educazionali di varia natura, si è cercato di minimizzare tale consumo. Il consumo di bevande dolci è in effetti diminuito dell’80% circa nel gruppo d’intervento, mentre non si è modificato in alcun modo nel gruppo di controllo; le variazioni dell’indice di massa corporea sono state piuttosto piccole in entrambi i gruppi (un aumento di 0,07 unità nel gruppo d’intervento e di 0,21 nel gruppo di controllo). La differenza tra i due gruppi, pari a 0,14 unità di BMI (e quindi allo 0,6% circa del BMI stesso), non era statisticamente significativa: quindi, sul piano formale, non era possibile concludere se la piccola differenza rilevata tra i due gruppi fosse reale o dovuta semplicemente all’effetto del caso. Tuttavia, gli autori hanno rilevato come tra i soggetti nel terzile superiore dell’indice di massa corporea al momento dell’arruolamento (in altre parole, tra i soggetti con maggiore livello di sovrappeso all’inizio dello studio) l’andamento dell’indice di massa corporea fosse stato diverso: si era infatti ridotto di 0,63 unità nel gruppo d’intervento, mentre era aumentato di 0,12 unità nel gruppo di controllo; la differenza, di 0,75 unità, raggiunge in questo caso la significatività statistica. Gli autori concludono che un semplice intervento di carattere educazio-

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nale, che riesca a indurre un’eliminazione pressoché completa del consumo delle bevande dolcificate, è in grado di influenzare favorevolmente la massa corporea, soprattutto in soggetti con sovrappeso significativo. In realtà, queste conclusioni (apparentemente condivisibili, in quella che sembrerebbe la loro sostanziale ovvietà) non sono adeguatamente sostenute dai dati raccolti. Senza entrare nel ben noto problema dei sottogruppi creati dopo la conclusione dello studio (le cosiddette analisi post-hoc, di cui quella presentata è un esempio classico), non si può non rilevare che se si esaminano infatti con attenzione i risultati dello studio (riassunti nei grafici presentati nella Figura 1), si osserva che sono probabilmente solo tre soggetti, su circa 50 (identificati da un circoletto, A) a spiegare larga parte del risultato dello studio. Ma anche accettando l’interpretazione degli autori, e includendo quindi nell’analisi tutti i soggetti studiati, emerge con discreta chiarezza che per un indice di massa corporea basale al disotto di 27 (linea tratteggiata verticale, quadro B) l’intervento è inefficace (in realtà, si potrebbe concludere addirittura che nel gruppo d’intervento si osserva un piccolo aumento di peso rispetto a ciò che si osserva nel gruppo di controllo). I soggetti a sinistra della linea tratteggiata nei quali si osserva un aumento del BMI a seguito dell’intervento (in grigio) sono infatti decisamente più numerosi dei soggetti nei quali il BMI, invece, si riduce (in azzurro). Può essere interessante sottolineare che circa due terzi dei soggetti studiati ricadono all’interno di questo gruppo con BMI basale inferiore a 27. Poiché l’apporto calorico complessivo nel gruppo d’intervento, al di fuori cioè del consumo di bevande dolci, non è tra l’altro stato misurato, non è possibile escludere che parte del calo di peso osservato possa essere dovuta alla riduzione del consumo di altri cibi, “innescata” dalle raccomandazioni relative al consumo di bevande dolci. Essendo del tutto plausibile che tale meccanismo abbia funzionato soprattutto tra i partecipanti con

Variazioni del BMI, Kg/m2

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Figura 1 Variazioni del BMI durante lo studio di Ebbeling in relazione al valore iniziale del BMI stesso. Da Ebbeling e coll. 2006, modificata

Una nuova visione degli effetti fisiologici degli zuccheri: l’indice glicemico

più marcato sovrappeso, esso potrebbe concorrere a spiegare anche il differente risultato osservato nei soggetti con maggiore o minore massa corporea all’inizio dello studio. In conclusione, sulla base dei risultati dello studio di Ebbeling si possono fare le seguenti considerazioni: • poiché i risultati complessivi dello studio stesso, nell’intero campione studiato, non sono significativi, sarebbe stato necessario concludere che l’ipotesi sperimentale (il calo del consumo di bevande dolci induce un calo ponderale) non era stata provata; • l’osservazione relativa al calo ponderale osservato tra i soggetti sovrappeso, guidata principalmente da tre soli partecipanti che rispondono in maniera molto marcata alla modificazione dietetica, non è per correttezza generalizzabile all’intera popolazione considerata; • nella grande maggioranza dei soggetti arruolati (circa i due terzi), la modificazione del consumo di bevande dolci non sembra influenzare in alcun modo il peso corporeo al termine del periodo di osservazione dello studio (o lo influenza addirittura nel senso opposto a quello desiderato); • non è comunque certo che i risultati osservati dipendano dal solo calo del consumo di bevande dolci (l’apporto di altre fonti caloriche non è stato valutato con la dovuta attenzione). È importante sottolineare nuovamente che esempi così evidenti, che possono essere considerati una sorta di “patologia” della letteratura scientifica, sono rari, e in genere soggetti alla critica attenta e rigorosa dei revisori (durante il processo di accettazione e pubblicazione dell’articolo) e dei colleghi (una volta che il lavoro è stato pubblicato). Ma rimane valido il concetto, esposto all’inizio, per il quale sui temi “scontati” l’attenzione di tutto il sistema di controllo si attenua (e talvolta scende al disotto dei limiti accettabili): con risultati, come si vede, talora fuorvianti o ingannevoli.

Una nuova visione degli effetti fisiologici degli zuccheri: l’indice glicemico Da alcuni anni è andata affermandosi una nuova visione degli effetti fisiologici conseguenti al consumo degli zuccheri e delle molecole complesse che ne sono formate, e cioè gli amidi, basata su un parametro funzionale, l’indice glicemico (IG), più che su considerazioni di carattere biochimico o strutturale (per esempio sulla differenza tra carboidrati semplici e complessi, Jenkins e coll. 1981). È infatti ormai noto che non tutti i carboidrati sono digeriti con la stessa efficienza e rapidità dall’organismo: alcuni (l’amido delle patate e quello del pane, per esempio) vengono rapidamente degradati dagli enzimi della digestione, e “spezzettati” nei componenti individuali, costituiti da molecole dello zucchero più comune, il glucosio. Il consumo di questi amidi, di conseguenza, comporta un rapido aumento della concentrazione del glucosio nel sangue (la glicemia): una situazione a

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cui il nostro organismo reagisce con la liberazione dell’ormone insulina, che facilita la penetrazione del glucosio all’interno delle cellule e la sua utilizzazione come fonte energetica, e al tempo stesso blocca l’utilizzazione, con gli stessi obiettivi, dei grassi di deposito dell’organismo. Una simile sequenza di reazioni ha un evidente significato di risparmio: in presenza di una quantità significativa di energia ottenibile prontamente dagli zuccheri (e specie dal glucosio, che per il nostro organismo è lo zucchero per antonomasia), l’organismo tende a mantenere intatte le “calorie di riserva” accumulate come grasso di deposito, limitandone l’impiego. Ciò poteva avere un significato, come si ricordava, nelle fasi della storia della nostra specie nelle quali carestie di durata più o meno prolungata intervallavano regolarmente i periodi durante i quali la disponibilità di cibo era migliore, ma ovviamente ha ben poco senso nella società moderna, nella quale, invece, la larghissima maggioranza della popolazione ha a disposizione una quantità pressoché illimitata di cibo. Di conseguenza, il consumo di questi amidi a rapida digeribilità (o, detto meglio, ad “alto IG”), comporta il mantenimento, e spesso l’aumento, dei depositi di tessuto grasso; oltretutto, la marcata risposta insulinica conseguente all’aumento della glicemia indotto dal consumo di questi cibi può portare per converso, dopo circa 2 ore dal pasto, a una riduzione eccessiva del tasso di zucchero nel sangue (ipoglicemia): ed è noto che l’ipoglicemia rappresenta uno dei più importanti meccanismi di attivazione dei comportamenti di ricerca e di consumo di cibo. Il consumo eccessivo di carboidrati ad alto indice glicemico, rapidamente digeriti dall’organismo, può quindi finire per diventare una possibile causa di un consumo inappropriatamente elevato di cibo e calorie: e quindi dello sviluppo di sovrappeso o di obesità. Se invece la scelta alimentare cade su carboidrati meno rapidamente digeribili (come gli amidi della semola di grano duro, specie se cotta al dente, o gli amidi dei legumi), o su cibi ricchi di zuccheri semplici, ma a ridotto tenore di glucosio (come la frutta), la salita del tasso di zucchero nel sangue è minore e più lenta, e tutte le risposte biochimiche prima descritte vengono attivate in maniera meno efficiente: ne derivano un uso più equilibrato di zuccheri e grassi per fini energetici e una maggiore stabilità del tasso di zucchero nel sangue, cui consegue in generale un maggiore e più prolungato senso di sazietà. Studi nell’animale da esperimento confermano questa relazione: se ratti o topi vengono alimentati, a volontà, con una dieta costituita da amidi a basso o alto “indice glicemico”, l’effetto finale, in termini di deposizione di tessuto adiposo e quindi di massa grassa dell’organismo, è molto sfavorevole per gli animali alimentati con una dieta costituita da amidi ad alto indice glicemico, il cui deposito adiposo è circa il doppio rispetto a quello del gruppo di controllo alimentato con amidi a basso indice glicemico (Pawlak e coll. 2004). Un elenco degli alimenti a basso o elevato indice glicemico è presentato nella Tabella 1. Nell’uomo i dati relativi all’effetto sul peso corporeo sono meno chiari

Una nuova visione degli effetti fisiologici degli zuccheri: l’indice glicemico Tabella 1.

Indice glicemico (IG) di alcuni alimenti, relativo al glucosio

Alimenti

IG

Pomodori Ciliegie Fagioli Mele Pasta (spaghetti) Succo di mela Miele Succo d’arancia Pasta (maccheroni) Riso bollito Soft drink (non diet) Pizza Saccarosio Polenta Pane bianco Corn-flakes Patate bollite Glucosio

9 24 30-45 38 38 40-44 45-87 46-54 49 49-69 50-65 55-75 60-67 68-77 70-75 72-87 80-100 100

(anche se qualche studio, condotto secondo un modello sperimentale molto simile a quello prima descritto ha ottenuto risultati analoghi, specie nei soggetti con iperinsulinemia basale, Ebbeling e coll. 2007). Tuttavia, risultati interessanti sono stati ottenuti relativamente ad alcuni parametri di rischio cardiovascolare (la trigliceridemia, la colesterolemia HDL, un importante indicatore d’infiammazione come la proteina C reattiva, PCR): tutti questi indicatori tendono infatti ad avere valori migliori (più bassi per la trigliceridemia e la PCR, più elevati per la colesterolemia HDL) a seguito del consumo di carboidrati a basso indice glicemico negli studi di natura osservazionale, suggerendo così che il loro consumo si associ a una riduzione del rischio cardiovascolare (Frost e coll. 1999; Slyper e coll. 2005; Liù e coll. 2001, 2002). Un dato confermato da studi che hanno misurato direttamente la correlazione tra l’indice glicemico medio della dieta e il rischio d’infarto, fatale o non fatale, documentando una rilevante riduzione del rischio (-50% nello studio delle infermiere statunitensi, o Nurses’ Health Study) associato all’appartenenza al primo quintile dell’IG della dieta, il migliore, rispetto al quinto, il peggiore (Liù e coll. 2000). È interessante sottolineare a questo proposito che il saccarosio, costituito com’è noto da una molecola di glucosio e una di fruttosio, ha un IG pari a circa 65 (sono pubblicati dati tra 60 e 67), inferiore rispetto a quello del glucosio puro (100), o di molti amidi ad alta digeribilità (pane, patate) (GI database 2007). Il saccarosio, o “zucchero comune”, è utile ricordarlo, è il dolcificante più largamente utilizzato nel mondo e fornisce, come tutti gli zuccheri, quattro calorie per grammo. Deriva dalla lavorazione della canna o della

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barbabietola da zucchero ed è classificato come GRAS (Generally Recognized As Safe) dall’ente statunitense per gli alimenti e per i farmaci (FDA) e da altre associazioni e organismi internazionali. Complessivamente si ritiene che il saccarosio possa essere utilizzato in modo sicuro dei consumatori fintanto che il suo consumo rientra nell’ambito di una dieta equilibrata (le più recenti linee guida suggeriscono che il contributo degli zuccheri aggiunti non debba eccedere il 10% dell’apporto calorico totale giornaliero, ed essere quindi pari a non più di 55 grammi/die per un soggetto adulto sano con un fabbisogno energetico di 2200 Kcal circa). Entro queste dosi di consumo, il più limitato impatto sulla risposta glicemica e insulinemica del saccarosio, alla luce delle informazioni sul ruolo dell’IG, non deve essere trascurato.

I dolcificanti artificiali: possibile significato nutrizionale e sicurezza d’uso Al di là delle considerazioni sul ruolo dell’indice glicemico, descritte nel precedente capitolo, l’offerta di cibi a basso o ridotto contenuto energetico rappresenta una strategia probabilmente efficace per aiutare chi ne abbia bisogno a ridurre l’apporto calorico, e favorire così l’equilibrio energetico e quindi il mantenimento del peso o il calo ponderale. L’uso dei dolcificanti intensivi come sostituti del saccarosio rappresenta quindi una strategia potenzialmente efficace per aiutare le persone a ridurre la densità energetica della propria dieta, senza alcuna apprezzabile perdita di gusto. In modo pragmatico, si può osservare che anche la ricerca del sapore “dolce” è probabilmente in larga parte geneticamente rafforzata, specie nei bambini, ed è ragionevole immaginare che abbia a che fare con la tendenza dell’evoluzione a favorire la ricerca e il consumo selettivo di calorie, che per larga parte della storia della nostra specie, come abbiamo più volte ricordato, ha rappresentato un elemento critico di sopravvivenza. La disponibilità di alimenti e bevande dolci di fatto acaloriche potrà quindi permettere di ridurre il proprio consumo calorico senza dover rinunciare al piacere di consumare alimenti e bevande dolci, dal sapore gradito. Molti studi pubblicati in letteratura hanno analizzato il ruolo dei dolcificanti intensivi acalorici su vari aspetti della salute dell’uomo. Un rapporto pubblicato nel 2006 sul bollettino nutrizionale della British Nutrition Foundation (De la Hunty e coll. 2006) ha rivisto criticamente le evidenze sperimentali disponibili relative all’effetto dell’aspartame sul calo ponderale, sul controllo del peso e sull’apporto energetico negli adulti, e ha esaminato in particolare se si osservi, dopo il consumo di questo dolcificante, una “compensazione energetica” (se nel pasto o nei pasti successivi, in altre parole, si assumano le calorie cui si è “rinunciato” sostituendo lo zucchero con l’aspartame), e se l’uso di cibi e bevande dolcificate con aspartame possa quindi effettivamente contribuire alla perdita di peso.

I dolcificanti artificiali: possibile significato nutrizionale e sicurezza d’uso

Nell’analisi di De la Hunty sono stati identificati e analizzati tutti gli studi pubblicati che avevano esaminato l’effetto della sostituzione dello zucchero con aspartame, da solo o in combinazione con altri dolcificanti intensivi, sull’apporto energetico e/o sul peso corporeo. Gli studi che non fossero stati controllati e randomizzati, eseguiti in adulti sani e che non avessero misurato l’apporto energetico per almeno 24 ore, sono stati esclusi dall’analisi. Si è infatti ritenuta necessaria la disponibilità d’informazioni sull’energia introdotta almeno nelle ventiquattr’ore per assicurare che si potesse valutare appropriatamente ogni effetto compensativo dei pasti successivi sull’apporto energetico. Nell’analisi sono stati inseriti 16 studi. Di questi, 15 avevano come obiettivo principale la valutazione dell’apporto energetico. Gli studi che utilizzavano bevande dolcificate come veicolo per l’aspartame utilizzavano da 500 a 2000 ml di liquido, equivalenti a 2-6 lattine o bottiglie di soft drink al giorno. Si è osservata una riduzione significativa dell’apporto energetico nei gruppi che utilizzavano l’aspartame in confronto con tutti gli altri gruppi di controllo, tranne quando i soggetti che consumavano aspartame erano confrontati a controlli che consumavano bevande prive di saccarosio, come l’acqua. Il confronto più rilevante viene dagli studi a disegno parallelo che hanno confrontato l’effetto dell’aspartame con il saccarosio. In questi studi si è osservata una riduzione media di circa il 10% dell’apporto energetico tra i soggetti che consumavano aspartame rispetto al gruppo di controllo. Per un apporto energetico medio di 2200 calorie al giorno (media di adulti di ambo i sessi dai 19 ai 50 anni), questa differenza rappresenta un deficit energetico di oltre 200 calorie al giorno, o di 1500 calorie circa in una settimana, che si può stimare, utilizzando un valore energetico per il tessuto adiposo di 7500 calorie per kg, possa tradursi in un calo ponderale di circa 0,2 kg la settimana. Ma quali sono le evidenze relative alla sicurezza dell’aspartame (un tema su cui i media tornano spesso)? E qual è in particolare la posizione, sul tema, delle agenzie internazionali che si occupano della sicurezza degli alimenti? L’aspartame, innanzitutto, è costituito da due aminoacidi (una molecola di acido aspartico e una di fenilalanina) sotto forma di estere metilico, ed è caratterizzato da un potere dolcificante da 120 a 200 volte superiore a quello dello zucchero comune. Nell’organismo l’aspartame viene scisso in una molecola di metanolo (reperibile in moltissimi prodotti naturali, come le mele, le arance e soprattutto il pomodoro) e nei due aminoacidi costitutivi (Ranney e coll. 1976), che si trovano nella quasi totalità delle proteine naturali di origine sia vegetale sia animale che consumiamo quotidianamente. Gli aminoacidi, metabolizzati dall’organismo, forniscono circa 4 Kcal per grammo: a causa del suo elevato potere dolcificante, tuttavia, l’aspartame è utilizzato a dosi molto basse, e il suo contributo calorico è quindi di fatto irrilevante. L’aspartame è chimicamente stabile solo fino a 200 °C, ed è pertanto inadatto alla preparazione di prodotti alimentari da sottoporre a temperature elevate (per esempio cottura in forno). In soluzione, specie se

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esposto a riscaldamento, si degrada perdendo la capacità dolcificante. Non è cariogeno. La dose giornaliera accettabile (DGA) dell’aspartame è stata innalzata alcuni anni fa dalla FDA a 50 mg/kg di peso corporeo, mentre in Italia e in Europa è fissata a 40 mg/kg di peso corporeo. Bisogna sottolineare che la DGA è calcolata in base a criteri estremamente restrittivi, essendo in genere 100 volte inferiore al dosaggio massimo che non induce alcun effetto significativo nell’animale da esperimento (e, quando i dati siano disponibili, nell’uomo). È quindi pari a 1/100 della massima dose certamente non tossica. Fin dal 1985 l’aspartame è stato classificato negli USA come “sicuro e non associato a effetti negativi di rilievo sulla salute nel soggetto sano”. È controindicato nei soli soggetti con fenilchetonuria: in questa rara malattia congenita (che colpisce 1 neonato su 15-20.000), infatti, l’organismo non è in grado di metabolizzare in modo appropriato la fenilalanina. Un lavoro del 2005 condotto da alcuni ricercatori italiani dell’Istituto Ramazzini di Bologna, riproposto con alcune varianti nel 2007 (somministrando l’aspartame fin dalla vita “in utero”), ha riproposto il tema della possibile carcinogenicità dell’aspartame. Secondo i risultati dello studio, a dosi elevate esso aumenterebbe il rischio di leucemie/linfomi nei ratti femmina. I dati dello studio, in realtà, non permettono di trarre conclusioni definitive (Soffritti e coll. 2005, 2007). Innanzitutto la frequenza di queste patologie osservata negli animali trattati ricade nell’ambito di quelle osservate nelle serie storiche degli animali di controllo: il caso, insomma, potrebbe aver giocato un ruolo assai più importante dell’aspartame. Si deve poi dire che le dosi somministrate agli animali (per tutta la vita, fino al decesso spontaneo), soprattutto nel primo studio (del 2005), hanno solo una minima correlazione, o addirittura non l’hanno affatto, con il mondo reale, in quanto decisamente improponibili per l’uomo (tenendo conto che in una lattina di bevanda dolcificata con aspartame si trovano circa 100 mg della sostanza, le dosi somministrate ai ratti corrisponderebbero a consumi fino a 75 lattine al giorno per l’uomo). Un set di studi, condotto dal National Toxicology Program e reso noto all’inizio del 2006 (NTP 2006), ha invece confermato che l’assunzione di aspartame non aumenta l’incidenza di tumori nei topi. L’indagine ha coinvolto gruppi di topi portatori di tre diverse modificazioni genetiche volte ad aumentarne la propensione a sviluppare tumori. Agli animali sono state somministrate, nel corso di 9 mesi, dosi di aspartame, comprese tra le 3125 e le 50.000 ppm, altamente superiori a quelle mediamente consumate dall’uomo. I risultati dello studio hanno evidenziato la stessa incidenza di crescite tissutali anomale (neoplasmi e papillomi) sia nei gruppi che consumavano aspartame sia nel gruppo di controllo. Secondo i ricercatori, quindi, non vi sono prove evidenti di un effetto cancerogeno che possa creare preoccupazioni circa la sicurezza di utilizzo dell’aspartame. Un recentissimo studio del National Cancer Institute fornisce un’ulteriore prova della sicurezza dell’aspartame (Lim e coll. 2006). I ricercatori

I dolcificanti artificiali: possibile significato nutrizionale e sicurezza d’uso

hanno valutato se vi fosse un’associazione tra il consumo del dolcificante e lo sviluppo di leucemie, linfomi e tumori al cervello in circa 340 mila uomini e 230 mila donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni. La quantità giornaliera di aspartame assunta è stata registrata sulla base del consumo di bevande zuccherate e l’eventuale aggiunta del dolcificante al tè o al caffè. Nel corso dei 5 anni di follow-up, tra i partecipanti, sono stati diagnosticati 1972 tra linfomi e leucemie e 364 tumori al cervello: tuttavia non è stata evidenziata alcuna associazione tra l’incidenza delle neoplasie e l’assunzione di aspartame, nemmeno tra i maggiori consumatori (> 600 mg/giorno). Il 5 maggio 2006 l’EFSA, l’Autorità Europea per la Sicurezza degli Alimenti, dopo aver valutato i risultati dello studio della Fondazione Ramazzini nel contesto del ricchissimo complesso delle evidenze sperimentali disponibili relative a questo composto, ha dichiarato che l’uso dell’aspartame non comporta rischi per la sicurezza dei consumatori. Secondo il comitato scientifico dell’EFSA, infatti, tali risultati non forniscono evidenze tali da indurre a riconsiderare l’impiego dell’aspartame nei prodotti alimentari, o a modificare la dose giornaliera accettabile di 40 mg/kg di peso corporeo (EFSA 2006). La FDA, con un comunicato di inusuale durezza, ha ribadito all’inizio del 2007 una posizione analoga a quella dell’EFSA, sottolineando molti problemi metodologici dello studio Ramazzini e riconfermando la propria posizione sulla sicurezza dell’aspartame (FDA 2007-a). Va osservato che un ampio studio caso-controllo, condotto da un autorevole istituto di ricerca italiano, ha nel frattempo ulteriormente smentito l’associazione tra il consumo di aspartame e il rischio di neoplasie di qualunque sede nell’uomo, analizzando le informazioni tratte da un database molto ampio (9000 casi di neoplasia e 7000 controlli). Lo stesso studio ha anche escluso un’associazione tra l’uso di altri dolcificanti e il rischio neoplastico (Gallus e coll. 2007).

Gli altri dolcificanti acalorici o ipocalorici Molti altri dolcificanti per uso alimentare sono stati introdotti sul mercato, in tempi diversi. Ciclicamente, la loro sicurezza viene messa in dubbio: in realtà, gli organismi internazionali che vigilano sulla sicurezza degli alimenti hanno più volte dimostrato una rapida reattività ai dati della ricerca e provato (con le “sospensioni” dell’impiego del ciclamato e della saccarina, annullate in parte o del tutto dopo l’acquisizione di ulteriori informazioni in merito) come il loro atteggiamento a questo proposito sia, del tutto correttamente, basato su un condivisibile principio di precauzione. Curiosamente, il dolcificante più popolare sui siti web che combattono i dolcificanti autorizzati, disponibili sul mercato ufficiale, è la stevia, che gli organismi internazionali considerano invece tossica per la presenza di un glucoside, lo stevioside, che direttamente o attraverso i suoi metaboliti (steviolo) sarebbe effettivamente cancerogeno.

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Le principali caratteristiche dei dolcificanti a- o ipocalorici sono riassunte, per comodità del lettore, nella Tabella 2.

Tabella 2.

Principali caratteristiche di alcuni dolcificanti acalorici e ipocalorici

Saccarina • Possiede un potere dolcificante da 300 a 500 volte superiore rispetto allo zucchero comune. Non è metabolizzata nell’organismo ed è quindi acalorica; non provoca carie ed è stabile ad alta temperatura. È tuttora il dolcificante più utilizzato su base mondiale, anche se il suo uso è in declino. Attualmente esiste consenso nel mondo medico-scientifico sulla non tossicità (e in particolare sulla non carcinogenicità) di questa sostanza nell’ambito delle dosi di consumo usuali. Nel nostro paese la DGA della saccarina è fissata a 2,5 mg/kg di peso corporeo (pari a circa 180 mg/die in un adulto di peso medio). Altri enti (per esempio il comitato congiunto FAO/WHO sugli additivi alimentari) hanno optato per DGA più elevate (5 mg/kg).

Acesulfame • È un dolcificante sintetico circa 200 volte più potente del saccarosio. Non è metabolizzato dall’organismo ed è pertanto acalorico. È stabile ad alta temperatura ed è quindi adatto alla dolcificazione di prodotti da sottoporre alla cottura in forno. La DGA dell’acesulfame è fissata attualmente, nel nostro Paese, a 9 mg/kg di peso. Negli USA, dove il prodotto è approvato per molti impieghi alimentari e le sue indicazioni d’uso sono in corso di allargamento, la DGA stessa è fissata a valori più elevati (15 mg/kg).

Polioli • Appartengono a questa categoria il sorbitolo, il maltitolo, l’isomaltitolo, lo xilitolo, il mannitolo, l’isomaltulosio, ottenuti per idrogenazione di carboidrati semplici o complessi e caratterizzati da un potere dolcificante inferiore a quello del saccarosio. Essi pertanto vanno impiegati in dosi consistenti per produrre un significativo effetto dolcificante. Apportano in media circa 2 Kcal per grammo. Non provocano in genere carie e hanno un possibile impiego specifico nei prodotti per diabetici; ad alte dosi possono svolgere effetti lassativi (specie il mannitolo, per il quale l’effetto si sviluppa a dosi dell’ordine di 20 g/die). Sono considerati “sicuri” (GRAS negli USA), e la maggior parte degli organismi regolatori internazionali non ha ritenuto opportuno fissare delle DGA per questi composti.

Ciclamato • È un dolcificante non calorico scoperto nel 1937, con un potere dolcificante 30 volte superiore al saccarosio. È stato bandito nel 1969 perché l’associazione saccarina/ciclamato sembrava possedere un effetto cancerogeno sui topi. Nel 1982 la Cancer Assessment Committee dell’FDA dopo un riesame delle evidenze scientifiche dichiarava il ciclamato non cancerogeno. La sua sicurezza è stata riconfermata nel 1985 dalla National Academy of Sciences; la JECFA (Joint FAO/WHO Expert Committee of Food Additions) e l’SCF (Scientific Committee on Food of the European Commission) hanno approvato l’uso del ciclamato in oltre 50 nazioni. La DGA è stata fissata dalla JECFA a 11 mg/kg di peso al giorno. La petizione per riapprovare il ciclamato negli USA è invece ancora in revisione da parte dell’FDA.

Sucralosio • È un disaccaride modificato dall’inserimento di tre atomi di cloro, con un potere dolcificante 600 volte superiore al saccarosio. Non ha potere calorico, viene scarsamente assorbito ed è eliminato invariato. È stabile ad alta temperatura e può essere quindi utilizzato anche per prodotti da cuocere in forno. Nel 1999 è stato approvato dalla FDA e considerato sicuro per la salute. La DGA è fissata a 5 mg/kg di peso corporeo.

Effetti sulla salute di altri componenti dei soft drink

Effetti sulla salute di altri componenti dei soft drink Altri ingredienti dei soft drink, soprattutto la caffeina, l’anidride carbonica, il benzene, suscitano di tanto in tanto preoccupazioni nei consumatori in relazione ai loro possibili effetti sulla salute. Le informazioni disponibili in merito, allo stato attuale (anche alla luce delle concentrazioni di queste sostanze realmente reperibili nei soft drink disponibili sul mercato), sembrano in realtà del tutto rassicuranti. La caffeina è una sostanza naturale usata dall’uomo da molti secoli per aumentare la concentrazione mentale e facilitare lo stato di veglia, ed è ingrediente di molte delle più popolari bevande dolci. I dati più recenti confermano la sicurezza d’impiego della caffeina, almeno fino a 200-300 mg/die (una tipica bevanda caffeinizzata a base di cola contiene circa 30-40 mg di caffeina per dose: pari, più o meno, alla metà di quella contenuta in un caffè espresso “all’italiana”). La caffeina, chimicamente, appartiene a un gruppo di sostanze, le metilxantine, che comprende anche la teina, presente soprattutto nel tè, e la teobromina, presente soprattutto nei semi di cacao. Il suo effetto principale riguarda il sistema nervoso centrale e viene in genere descritto come una “maggiore velocità e lucidità di pensiero”. Coloro che hanno consumato caffeina da poco tempo ottengono punteggi più alti nei test di abilità motoria e di memoria e mostrano migliori capacità visive e uditive e tempi di reazione sensibilmente ridotti rispetto alla situazione di assenza di caffeina. La caffeina influenza invece sfavorevolmente, probabilmente attraverso gli stessi meccanismi, molti parametri relativi alla quantità e alla qualità del sonno nell’uomo; a dosi elevate (tipicamente oltre i 200-300 mg/die) può indurre anche un aumento dell’ansia. L’assunzione di caffeina si associa infatti a un ritardo dell’inizio del sonno, dell’attivazione delle fasi di sonno profondo e della fase REM, o fase dei sogni, e al numero dei risvegli. La “quantità totale” di sonno nella notte, come pure la sua “qualità”, è ridotta in maniera significativa dal consumo serale di caffè. Questi effetti sembrano più marcati nella donna che nell’uomo; una maggiore sensibilità alla caffeina si osserva in genere anche tra le persone anziane, nelle quali tale effetto si somma alla fisiologica riduzione del sonno in età avanzata. L’ampia variabilità individuale della risposta alla caffeina e la possibile tolleranza individuale spiegano il frequente riscontro di soggetti che assumono caffè prima di coricarsi senza percepire turbe dell’addormentamento. Per non eccedere la propria soglia di sensibilità (con il rischio, essenzialmente, d’insonnia), la caffeina delle bevande deve essere conteggiata assieme a quella presente nel caffè o nel tè. Per le persone molto sensibili alla caffeina, molte bevande che la contengono nella loro formulazione standard esistono ormai anche in versione decaffeinizzata. Sono invece stati esclusi, dalle ricerche più recenti, molti altri effetti metabolici, fisiologici o patologici precedentemente attribuiti alla caffeina. Il World Cancer Research Fund e l’American Institute for Cancer Research hanno concluso nel 1998 che “la larga maggioranza delle evidenze di-

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sponibili suggerisce che il consumo di caffè non correli in alcun modo con il rischio di sviluppare neoplasie”. Analogamente, non si osserva alcun effetto significativo sul rischio di malattie cardiovascolari, e in particolare coronariche, almeno fino a dosi giornaliere molto elevate (fino a consumi di 9 tazze al giorno), una volta che si sia tenuto adeguatamente conto dei fattori fuorvianti, specie il fumo di sigaretta (Higdon e Frei 2006). L’effetto del caffè sulla colesterolemia, a questo proposito, è stato controverso fino a pochi anni addietro; recentemente, sono stati isolati e caratterizzati i composti (caveolo e cafestolo, due terpeni del tutto diversi sul piano chimico dalla caffeina) responsabili dell’effetto ipercolesterolemizzante del caffè “bollito” alla scandinava, l’unico in grado di svolgere un effetto significativo in tal senso (Cornelis e El-Sohemy 2007); il caffè filtrato, nel quale queste sostanze vengono trattenute dal filtro, o l’espresso “all’italiana”, nel quale esse non vengono estratte in modo significativo dalla polvere di caffè, per l’insufficiente tempo di contatto con l’acqua bollente, non svolgono invece alcun effetto significativo sul tasso del colesterolo plasmatico. L’effetto della caffeina sui valori pressori, spesso sottolineato nei manuali, sembra essere nel complesso modesto, molto variabile e clinicamente trascurabile: esso si manifesta in genere solo per le prime somministrazioni, nei soggetti caffeine-naïve, ma tende a esaurirsi spontaneamente già dopo alcuni giorni di consumo regolare; l’evidenza disponibile ha anche permesso di escludere, da tempo, che il manifestarsi di aritmie cardiache correli in modo significativo con il consumo di caffeina (Myers 1991). Diffuse, soprattutto tra le donne in età fertile, sono le preoccupazioni relative a possibili effetti della caffeina, e delle bevande che la contengono, sulla fisiologia dell’apparato riproduttivo e sulla gestazione. La visione attualmente prevalente nel mondo scientifico, al contrario, è che, a differenza del fumo e dell’uso eccessivo di alcol, il consumo di caffeina non modifichi in modo significativo la fertilità; in gravidanza, in particolare, essa non sembra influenzare significativamente la salute fetale o il rischio di un evento abortivo. Nel complesso la caffeina appare caratterizzata da un favorevole profilo di sicurezza; essa può essere consumata, a dosi ragionevoli, dall’intera popolazione. I suoi effetti sul sonno ne suggeriscono la limitazione del consumo nelle ore serali e, in soggetti particolarmente sensibili, a partire dal secondo pomeriggio. L’anidride carbonica (CO2) forma le bollicine tipiche delle bevande frizzanti: si tratta di un gas inodore e incolore, in grado di conferire alle bevande in cui viene disciolto le caratteristiche di gusto e le sensazioni “fisiche” che tutti conosciamo. Vale solo la pena di ricordare che l’anidride carbonica non è altro che il gas contenuto nell’aria che espiriamo, che deriva dalle reazioni metaboliche che hanno luogo nell’organismo e che le piante, mediante la fotosintesi, trasformano nei loro componenti costitutivi, rilasciando ossigeno nell’aria.

Conclusioni

L’anidride carbonica, ora utilizzata dai produttori di bevande in una forma molto purificata, non ha alcun effetto significativo sull’organismo, essendo una sostanza di fatto del tutto inerte: liberandosi dalle bevande che lo contengono può dare talora una sensazione di distensione gastrica. Il consumo di bevande gassate è in realtà controindicato soltanto in presenza di malattie specifiche dello stomaco e dell’esofago (come il cosiddetto reflusso gastroesofageo). Per quanto concerne invece il benzene, esigue quantità di questa sostanza (peraltro presenti anche in molti alimenti naturali, come le banane e l’uovo sodo) possono trovarsi in alcuni soft drink nei quali sia stato impiegato come antimicrobico uno specifico additivo, il benzoato (in genere come sale sodico). Il benzoato, in ambiente acido (e specificamente in presenza di vitamina C), tende infatti nel tempo a trasformarsi, in minima parte, in benzene. Il processo è amplificato dal calore e dell’esposizione alla luce solare. È tuttavia opportuno sottolineare che le quantità di benzene identificate in alcuni prodotti in commercio, essenzialmente negli USA, sono comunque nella grande maggioranza al disotto dei limiti fissati, per legge, per l’acqua potabile (negli USA, 5 ppb, parti per bilione): in un documento dell’aprile 2006, aggiornato nel 2007, l’FDA conclude che “i livelli di benzene identificati nei soft drink non pongono, allo stato attuale, problemi di sicurezza”. L’EFSA non ha, attualmente, ritenuto di dover prendere posizione sull’argomento.

Conclusioni Come sintetizzare, in conclusione, i dati fin qui presentati e discussi, formulando anche qualche indicazione operativa relativa agli stessi temi? Una prima considerazione è che la creazione da parte dell’uomo, a partire dalla metà del secolo appena concluso, di un ambiente di vita sostanzialmente diverso (potremmo definirlo “artificiale”) rispetto a quello in cui l’Homo sapiens si è sviluppato, pone per la prima volta in collisione alcuni degli schemi di comportamento selezionati dell’evoluzione per la nostra specie con l’ormai irrinunciabile esigenza di vivere sempre più a lungo e in buone condizioni fisiche e psichiche. Le patologie che oggi dobbiamo fronteggiare per raggiungere questo obiettivo sono infatti in larga parte nuove per la specie umana, e non solo non siamo ben attrezzati dal punto di vista biologico per prevenirle o per combatterle in maniera efficace, ma siamo addirittura programmati, almeno entro certi limiti (il caso del sovrappeso è illuminante a questo proposito), per incorrere in queste situazioni nelle particolari condizioni di vita del mondo moderno. Di più, i sistemi di rinforzo posti in essere dell’evoluzione stessa a controllo degli snodi biologici essenziali della nostra vita (soprattutto alimentazione e riproduzione), e la loro fortissima capacità di condizionare i no-

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Capitolo 2 • Nutrizione e salute nel mondo moderno

stri comportamenti attraverso il “piacere” che essi possono permettere di ottenere, creano ormai sempre più spesso complesse situazioni di conflitto tra le nostre scelte istintuali e quelle basate invece sulle informazioni ottenute dalla conoscenza e dal progresso scientifico. Un conflitto che è particolarmente evidente a proposito dell’alimentazione: perché la ricerca del piacere che nasce dal consumo di cibo e bevande, se non temperata da un approccio equilibrato (se la libertà di consumare, in altre parole, non diviene scelta responsabile) innescherà comportamenti in grado di aumentare la probabilità di incorrere in eventi patologici la cui capacità di ridurre la quantità e la qualità della vita è accertata. Nella ricerca di questo difficile equilibrio tra il piacere che nasce dal consumo di cibo e bevande, e la ricerca di una vita lunga e sana, molte persone della nostra società si trovano a dover fronteggiare uno dei conflitti per loro meno facili da gestire; se poi uno scenario normativo che imponga comportamenti specifici in questo ambito (in una sorta di “neo-proibizionismo”) sia innanzitutto accettabile sul piano etico, e secondariamente utile nell’indurre comportamenti “virtuosi” da parte del grande pubblico, è un tema sul quale si potrebbe probabilmente dibattere a lungo. Come non ha senso, probabilmente, privilegiare in modo eccessivo gli aspetti edonistici della tavola, in un’esasperata ricerca del piacere difficilmente comprensibile e condivisibile nell’articolata gamma di possibilità di appagamento offerte dalla società moderna, altrettanto è probabilmente poco utile adottare o imporre scelte che penalizzino invece eccessivamente la quotidiana ricerca dei piccoli ma significativi piaceri che la tavola stessa può dare, per inseguire un benessere un po’ “asettico”, svuotato di molte componenti forse individualmente minori, ma complessivamente importanti. Che atteggiamento adottare, quindi, relativamente al consumo di bevande dolci da parte nostra o dei nostri figli? La posizione più saggia è probabilmente considerare che queste bevande hanno alcuni “plus” (una significativa capacità di fornire liquidi all’organismo, e quindi di idratarlo; il piacere del loro consumo, per chi ne apprezza il gusto) che convivono con alcuni “minus” essenzialmente legati al frequente eccesso d’uso. Esse contengono in genere zucchero: come abbiamo cercato di dimostrare in questo articolo, non è però lo zucchero di per sé, quanto piuttosto il suo eccessivo consumo a essere uno dei meccanismi che concorrono al sovrappeso e all’obesità. Un’adeguata attività fisica, tra l’altro, può permettere di inserire queste bevande nella propria alimentazione, se lo si desidera, facilitando, al tempo stesso, il mantenimento di un corretto equilibrio tra le entrate e le uscite energetiche. Nelle versioni contenenti dolcificanti non calorici (le informazioni sulla cui sicurezza allo stato attuale appaiono convincenti), queste bevande permettono il piacere di consumare qualche cosa di dolce senza introdurre calorie: e non sembra esistere alcun motivo sensato (se si esclude l’irrazionale paura di tutto ciò che è “chimica”) per bandirle dalla dieta. I componenti e gli ingredienti minori (a partire dalla caffeina) delle stesse bevande

Bibliografia

non sono, allo stesso modo, fonte di ragionevoli preoccupazioni per i loro possibili effetti sulla salute. La scelta quindi non sembra essere tra il consumare o il non consumare queste bevande, ma piuttosto quella di adottare nei loro confronti, sempre se le si desidera, un atteggiamento di scelta responsabile, di consapevole equilibrio: che prenda atto del piacere che esse possono dare, ma che temperi e controlli i livelli di consumo per evitare che ne possano derivare rischi a lungo termine.

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Capitolo 3 Psicologia e consumo delle bevande analcoliche: normalità e patologia Enrico Molinari, Edward Callus

Introduzione Per riflettere sugli aspetti psicologici legati al consumo delle bevande analcoliche è necessario collocare questo fenomeno nel più vasto tema dell’alimentazione. Per gli esseri umani mangiare e bere rappresentano necessità fisiologiche, ma anche la possibilità di esprimere sentimenti, emozioni, stati d’animo. L’atto di mangiare o bere deve quindi essere considerato, oltre che per il suo aspetto nutrizionale, anche per quello relazionale, cognitivo e affettivo. Si può dire che mangiare e bere siano diventati nella lunga storia della filogenesi una modalità per esprimere l’appartenenza a un gruppo e a una cultura, una modalità di “essere nel mondo”. Questi atti sono veri e propri “compagni” dell’esistenza: si mangia e si beve per far festa, nella convivialità con i familiari e gli amici, ma anche quando si è soli, tristi, depressi, arrabbiati o annoiati. L’altra dimensione importante associata all’alimentazione è quella del piacere. Quello di bere è un bisogno fondamentale dell’organismo, che viaggia di pari passo assieme al bisogno di mangiare. Fame e sete sono bisogni fisiologici, alla base della “piramide motivazionale” elaborata da Maslow (1954). Nelle teorie sulla motivazione, così come nella gran parte dei modelli psicologici, fame e sete vengono considerate appaiate, entrambe inserite sotto la categoria “alimentazione”. Tuttavia, la ricerca psicologica che si è occupata della psicologia dell’alimentazione ha dato grande risalto all’assunzione di cibi solidi, mentre le istanze del bere, da sole, hanno ricevuto una minor attenzione. Le tematiche della psicologia del bere trovano abbondante spazio nel campo della ricerca sull’alcolismo, al punto che la dicitura “psicologia del bere” non necessita quasi più dell’aggettivo “alcolico” per specificare che ci si trova in questa tematica. Per quanto attiene il bere analcolico, il quadro è relativamente limitato, dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo. Gli studi non sono numerosi, e non sempre sono collegati, rendendo così difficile una revisione della letteratura. Si possono trovare alcune ricerche sugli effetti che i soft drink possono avere sulla salute, inclusa quella mentale.

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Capitolo 3 • Psicologia e consumo delle bevande analcoliche; normalità e patologia

I modelli psicologici elaborati per indagare la sete e le preferenze del bere sono pochi, mentre il panorama è decisamente più ampio se si affronta l’argomento da un punto di vista biologico: in questo ambito numerose ricerche compiute su animali indagano le modificazioni fisiologiche legate al bere. Diversi sono i tipi di comportamento legati al bere: essi possono essere divisi in due categorie principali, comportamenti omeostatici e non omeostatici (Logue 1991): i comportamenti omeostatici tendono a ripristinare il bilancio idrico dell’organismo in seguito alla perdita di liquidi o disidratazione, il loro scopo è quello di mantenere la concentrazione di liquidi intraed extracellulare costante; ai comportamenti non omeostatici corrispondono tutti gli altri tipi di assunzione. Molto spesso uomini e animali bevono senza essere in deficit di liquidi; questa tipologia di comportamenti è molto vasta e subisce l’influenza di fattori genetici, ambientali e sociali. Buona parte dei liquidi viene assunta durante i pasti (Kraly 1984); se si chiede a qualcuno il motivo fisiologico per cui sta bevendo acqua a pranzo, ci si potrebbe sentir rispondere che l’acqua aiuta a digerire o che è necessaria perché il pasto è salato, ma si tratta di risposte incomplete. Un tale comportamento è definibile come “bere anticipatorio”, perché si previene il bisogno di bere: si tratta di un comportamento geneticamente appreso, per cui l’organismo impara a bere quando l’acqua è facilmente disponibile. In questo capitolo si vuole riflettere sugli aspetti più propriamente antropologici, in particolare del bere e del bere soft drink, per cercare di comprendere il ruolo che l’attuale grande disponibilità di alimenti può avere nell’incremento dell’obesità e del sovrappeso. Tale fenomeno sta divenendo nei paesi sviluppati una vera e propria emergenza sanitaria per l’aumentato rischio di morbilità e mortalità. Inoltre la preoccupazione per l’eccesso ponderale sta diventando per molti una costante preoccupazione e in alcuni casi una vera e propria ossessione. A una questione così complessa, che ha i suoi presupposti in fattori predisponenti (caratteristiche genetiche, metaboliche, psicologiche), precipitanti (malattie, aspetti socioculturali, insoddisfazione per il corpo) e perpetuanti (errati stili di vita, mancanza di adeguata attività motoria, eventi stressanti), a volte si cerca di rispondere con semplificazioni o “formule magiche” quali le diete o il proibizionismo, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. In questo capitolo sarà presentata una rassegna dei vari fattori che interagiscono nella scelta degli alimenti, per poi descrivere le possibili variabili che conducono al consumo delle bevande analcoliche. In particolare sarà specificato come alcune caratteristiche quali il gusto e il colore hanno un’influenza sulla percezione dei soggetti che intendono consumare le bevande. Saranno riportate la teoria del “comportamento pianificato” e il “modello transteoretico” che sono stati utilizzati come cornice concettuale in diverse ricerche sulle variabili implicate nel consumo dei soft drink. Successivamente verranno presi in considerazione alcuni studi che evidenziano come il consumo eccessivo di bevande analcoliche gassate e zuccherate

Le scelte alimentari

può essere associato a rischi fisici, con possibili ricadute a livello psicologico; sarà inoltre posta una particolare attenzione al ruolo del consumo dei soft drink nell’insorgenza del sovrappeso e dell’obesità. Di seguito sarà illustrato il disturbo dell’emotional eating, vale a dire mangiare in seguito a stati emotivi, e sarà specificato che non solo gli alimenti solidi, ma anche le bevande possono essere utilizzate per alleviare il disagio psicologico. Per questo motivo sarà descritto il possibile ruolo delle bevande analcoliche nell’eating su base emozionale, con una distinzione relativa alle differenze di genere. Infine, verranno fornite indicazioni su come far fronte all’emotional eating.

Le scelte alimentari Prima di presentare le ricerche sui fattori che influiscono sul consumo dei soft drink, bisogna considerare le variabili che influiscono sul consumo del cibo in generale. Come già segnalato, la disponibilità e la varietà degli alimenti rappresentano un importante elemento che influisce sulla scelta e tuttavia è anche il risultato di diversi fattori e della loro interazione (Mela 1999; 2000). Tale processo è rappresentato nella Figura 1. • Stati interni attuali: molti autori indicano una reciprocità nella relazione fra l’umore e il cibo; il cibo può influenzare gli stati d’umore, ma d’altro canto diversi stati d’umore possono determinare una preferenza per un cibo specifico piuttosto che per un altro. Infatti, alcuni soggetti utilizzano il cibo come lenitivo di un disagio. • Piacere: gli esseri umani nascono con una preferenza innata per gusti particolari, e quello più appagante è il piacere del dolce (Mennella e Beau-

Figura 1 Fattori che influenzano il desiderio di assumere un alimento particolare. Gli stati interni attuali si riferiscono a stati psicologici (per esempio l’umore) e fisiologici (per esempio la sete). Il piacere si riferisce alla sensazione generale ricavata dagli alimenti. L’adeguatezza percepita si riferisce al contesto nel quale si consuma il cibo: dove, quando e con chi. (Society of Chemical Industry 2000, riprodotto con modifiche)

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Capitolo 3 • Psicologia e consumo delle bevande analcoliche; normalità e patologia

champ 1996; Mela 1997). Diversi autori suggeriscono che il sapore gradevole di alcune bevande ne favorisca il consumo, che a sua volta contribuisce a mantenere una buona idratazione, mentre altri autori asseriscono che specifici ingredienti di alcuni soft drink potrebbero causare maggiore disidratazione (Brouns, Kovacs e Senden 1998). • Adeguatezza percepita: inizialmente convenzioni sociali e individuali possono determinare l’abbinamento del cibo a contesti d’uso; questo processo diventa parte di un insieme di comportamenti, quasi automatici, che portano a desiderare cibi e bevande particolari in situazioni specifiche (Mela 2001).

Scelta dei soft drink: caratteristiche delle bevande e fattori psicologici L’effetto del colore sulla “sensazione rinfrescante” e sul gusto delle bevande Per indagare il fenomeno del consumo dei soft drink è necessario considerare i fattori che influiscono sulla loro scelta. I soft drink condividono molte caratteristiche con altri alimenti, però hanno anche caratteristiche specifiche che devono essere studiate per comprendere le motivazioni alla loro assunzione. Per esempio, alcuni studi indicano che il colore di una bibita può influire sulla “percezione rinfrescante”. Tale percezione subisce un’ulteriore integrazione in base all’associazione colore-sapore. Clydesdale e coll. (1992) ritenevano che le bibite analcoliche marroni e chiare dessero la sensazione di essere maggiormente dissetanti rispetto a bevande di altri colori. Al contrario, la ricerca di Zellner e Durlach (2002) ha indicato che i cibi e le bevande sono più rinfrescanti quando hanno un colore “chiaro”, quelli di colore marrone vengono percepiti come meno rinfrescanti. Clydesdale e coll. (1992) hanno suggerito che la percezione “rinfrescante” collegata al colore marrone sia da porre in relazione “all’associazione appresa” bevanda marrone = cola, mentre il colore chiaro delle bevande è associato all’acqua. L’influenza del colore sulla percezione del gusto può essere importante in quanto può potenziare la sensazione rinfrescante di una bevanda. Il colore potrebbe rappresentare una sorta di valore aggiunto. Sembra inoltre che l’effetto del colore sulla percezione rinfrescante dipenda anche dal gusto della bevanda. Per esempio, il marrone può essere associato a una diminuzione della sensazione rinfrescante in una bevanda come la birra, dotata di un sapore forte, mentre non produce lo stesso effetto in un’altra bevanda come la cola nella quale l’intensità del colore marrone è abbastanza consistente, ma non associata a un tipo di sapore forte come nel caso della birra. È stata anche rilevata un’associazione fra il dissetarsi e la sensazione rinfrescante (per effetto del colore sulla percezione rinfrescante) e il gusto della bevanda (French e coll. 1993; Guinard e coll. 1998; McEwan e Col-

Scelta dei soft drink: caratteristiche delle bevande e fattori psicologici

will 1996). Infatti, in uno studio condotto da Zellner e Durlach (2003) i soggetti si aspettavano e percepivano differenze nelle qualità rinfrescanti e di gusto in base al colore delle bevande. Inoltre, le bevande chiare e marroni hanno prodotto effetti consistenti e pronunciati. Questo fenomeno è detto sinestesia (Baron-Cohen e Harrison 1997), cioè accoppiamento di sensazioni con stimoli provenienti da diverse modalità sensorie.

Il comportamento pianificato e il modello transteoretico nel consumo dei soft drink Oltre alle caratteristiche delle bevande, come il gusto e il piacere, alcune variabili psicologiche sono state associate al consumo dei soft drink. Per spiegare l’associazione fra variabili psicologiche e consumo di bevande analcoliche sono state utilizzate, in diverse ricerche, la teoria del “comportamento pianificato” e il “modello transteoretico”. La teoria del comportamento pianificato (Ajzen 1989) ritiene che l’intenzione di mettere in atto un comportamento sia la migliore variabile in grado di predire quello specifico comportamento. Le variabili che a loro volta determinano l’intenzione sono: • l’atteggiamento verso il comportamento; • la norma soggettiva; • la percezione di controllo su un determinato comportamento. In sintesi, Ajzen sostiene che “gli individui avranno l’intenzione di mettere in atto un comportamento quando sono presenti i seguenti fattori: valutazione positiva del comportamento; il credere che altre persone significative desiderino che loro mettano in atto quel comportamento; la percezione che quel comportamento sia sotto il loro controllo” (Courneya e McAuley 1995). Questa teoria è stata applicata con successo per lo studio del consumo delle bevande analcoliche per quanto riguarda la fascia adolescenziale e fornisce indicazioni sui fattori che influiscono su questo comportamento, con la possibilità di specificare anche le differenze di genere (Kassem e Lee 2003; Kassem e coll. 2003). Anche le ricerche su adolescenti, maschi e femmine, indicano che l’atteggiamento, la norma soggettiva e la percezione del controllo su un determinato comportamento sono altamente predittivi dell’intenzione di bere bevande analcoliche in modo regolare (Kassem e Lee 2003; Kassem e coll. 2003). La teoria di Ajzen, prima descritta, può essere utilizzata in modo efficace come cornice concettuale per comprendere quali variabili influiscano sul consumo delle bevande analcoliche. Il consumo delle bevande gassate analcoliche negli adolescenti maschi viene da loro spiegato con le seguenti motivazioni: 1. Le bevande analcoliche forniscono sensazioni piacevoli che portano a una regolarità di consumo. Infatti diverse ricerche evidenziano un’elevata associazione tra il piacere e la frequenza del consumo di una determinata bevanda (Bobroff e Kissileff 1986; Tuorila e Pangborn 1988).

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2. Per molti adolescenti le bevande gassate analcoliche costituiscono la prima scelta per dissetarsi. 3. Le preoccupazioni dei possibili effetti dei soft drink sulla salute, in particolare il timore dello sviluppo di carie e di aumento ponderale, ne condizionano il consumo. La situazione è simile per quanto attiene le adolescenti; le differenze riguardano lo sviluppo di comportamenti iperattivi compensatori collegati al consumo di bevande analcoliche; le ragazze manifestano inoltre una maggior preoccupazione per l’aumento ponderale, che porta all’idea di controllo sul consumo delle bevande (Kassem e coll. 2003). Diversi studi hanno evidenziato che i genitori possono esercitare una rilevante influenza sulle credenze relative alle bevande analcoliche e sulle motivazioni al loro consumo, indirizzando le scelte alimentari dei figli in tenera età e adolescenti (De-Bourdeaudhuij e Van Oost 1998; Doyle e Feldman 1997; Neumark-Sztainer e coll. 1999; Story e coll. 2002). I genitori determinano l’ambiente di crescita dei figli (Kirk e Gillespie 1990), agiscono come modelli (Feunekes e coll. 1998), decidono quali cibi comprare e quando mangiare in casa o fuori (Frank 1997). Un’influenza, seppur più debole, viene esercitata anche da amici, insegnanti, istruttori, che bevono regolarmente le bevande gassate aromatizzate, e dai gestori di ristoranti fast food che le pubblicizzano (Barr 1994; Tatar, 1998). Miller e coll. (2001) riferiscono che l’autonomizzazione degli adolescenti li porta a mangiare fuori casa più frequentemente; spesso frequentano locali dove le bevande gassate aromatizzate sono maggiormente pubblicizzate e sono incluse in offerte che escludono altre bevande (Neumark-Sztainer e coll. 1999). Nella scelta di bevande gassate aromatizzate sono influenzati da personaggi famosi della pubblicità o dai gestori di ristoranti fast food. Spesso però percepiscono che i genitori non desiderano che consumino queste bevande. Avere libero accesso a queste bevande, tramite i distributori automatici, e disporre di denaro sufficiente per poterle comprare a scuola facilita il loro consumo giornaliero, sia tra gli adolescenti maschi sia tra le femmine (Kassem e Lee 2003; Kassem e coll. 2003). Il modello transteoretico è stato utilizzato in diverse ricerche come cornice concettuale per spiegare il cambiamento dei comportamenti (Prochaska e coll. 1992); questo modello asserisce che il cambiamento comportamentale è un processo dinamico, non lineare, composto di stadi distinti, e propone una sequenza di cinque stadi di cambiamento, di cui i primi tre riguardano aspetti motivazionali (la precontemplazione, la contemplazione e la preparazione) e due sono basati sull’azione (azione e mantenimento). Per adottare un nuovo comportamento o per alterare un comportamento recente, un individuo dovrebbe passare attraverso questi stadi. Per stabilire l’utilità di questo modello è stato considerato il bilancio decisionale che porta a valutare gli aspetti positivi percepiti di un nuovo comportamento, i benefici, rispetto agli aspetti negativi percepiti, i costi (Velicer e coll. 1985). La strategia del bilancio decisionale di questo modello è

Consumo e abuso di bevande analcoliche

derivata della teoria del decision making sviluppata da Janis e Mann (1997). Un altro costrutto in grado di spiegare il progresso attraverso gli stadi del modello transteoretico (Rapley e Coulson 2005) è la self-efficacy, cioè la convinzione che la persona ha circa la sua abilità di cambiare determinati comportamenti (Bandura 1977). Horacek e coll. (2002) ritengono che la corretta percezione della propria autoefficacia può essere un buon indicatore delle possibilità di progredire nei diversi stadi di cambiamento. Buchanan e Coulson (2007), per formulare ipotesi di promozione della salute negli adolescenti, hanno applicato i costrutti chiave del modello transteoretico (gli stadi del cambiamento, il bilancio decisionale e la self-efficacy) al consumo delle bevande analcoliche, prestando attenzione anche alle differenze di genere. I soggetti dell’indagine (399 studenti di età compresa tra i 10 e i 16 anni), rispetto al consumo di bevande analcoliche, sono stati classificati nei cinque seguenti stadi: • precontemplazione: “Non sto pensando di diminuire o smettere di consumare le bevande analcoliche”; • contemplazione: “Sto pensando di diminuire o di smettere di bere le bevande analcoliche”; • preparazione: “Nell’ultimo mese ho cercato di diminuire la quantità di bevande analcoliche che consumo”; • azione: “In questi ultimi sei mesi ho cercato di diminuire le bevande analcoliche/ho smesso di bere bevande analcoliche”; • mantenimento: “Ho diminuito la quantità di bevande analcoliche/ho smesso di bere le bevande analcoliche da più di sei mesi”. Il bilancio decisionale (se vale la pena di bere le bevande analcoliche) e la self-efficacy sono stati misurati attraverso appositi questionari. I risultati della ricerca hanno indicato che oltre la metà degli adolescenti poteva essere classificata nella fase di precontemplazione. I maschi erano più spesso in tale fase: dovrebbero quindi ricevere, in un programma per il contenimento del consumo, un maggiore aiuto per passare allo stadio di contemplazione. In generale le femmine dimostrano di avere maggiori capacità di controllo rispetto all’uso e all’abuso delle bevande analcoliche.

Consumo e abuso di bevande analcoliche Diverse ricerche hanno cercato di verificare se esiste un’associazione tra il consumo delle bevande analcoliche e lo stato di salute fisica e mentale. Il consumo di bevande analcoliche è spesso associato, dal comune sentire, all’aumento ponderale e all’obesità, ma in realtà i dati della ricerca non sono in grado di evidenziare una relazione causale. Di conseguenza ci si può chiedere se sia giustificato prendere provvedimenti per diminuire il consumo delle bevande analcoliche nell’attesa di benefici significativi della salute pubblica.

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Malik e coll. (2007), in una recente literature review sul consumo delle bevande analcoliche e il loro effetto sulla nutrizione e la salute, hanno preso in esame 30 ricerche (15 studi trasversali, 10 studi prospettici e 5 studi sperimentali) che trattano questo argomento. Le conclusioni della rassegna indicano una probabile associazione fra peso corporeo e consumo di bevande analcoliche, che potrebbe inoltre essere associato a un minor apporto di latte, calcio e altri nutrienti con un aumentato rischio di alcuni problemi medici, tra cui il diabete (in questo caso la maggioranza delle ricerche riguarda le bevande zuccherate e non quelle light). Gli autori dell’articolo indicano che sono necessari ulteriori approfondimenti per verificare queste ipotesi. Un’altra review (Pereira 2006) evidenzia un limitato collegamento tra consumo di bevande analcoliche e obesità. L’autore asserisce che, per l’impostazione metodologica delle ricerche (trasversali, epidemiologiche e prospettiche), una chiara interpretazione della relazione bevande analcoliche/obesità è difficile: sebbene un certo numero di questi studi indichi un’associazione positiva, altri non riescono a dimostrare un reale rapporto di causa-effetto. Diverse ricerche trascurano l’apporto di altre fonti di energia e sarebbero necessari disegni più complessi, e quindi più costosi, per indagare la determinazione plurifattoriale (genetica e comportamentale) dell’aumento ponderale e dell’obesità. Altro limite segnalato riguarda il fatto che molte ricerche tendono a essere di breve durata e indagano soggetti a elevato consumo di bevande analcoliche: si tratta di campioni poco rappresentativi della maggioranza degli individui. Ne deriva la necessità di altri studi per valutare l’impatto effettivo di queste bevande sullo sviluppo dell’obesità (French e Morris 2006). Per quanto riguarda la salute mentale, in linea con due altri studi ecologici che hanno dimostrato una correlazione fra il consumo di livelli di zucchero pro capite e la prevalenza della depressione (Westover e Marangell 2002; Peet 2004), una ricerca trasversale su 5498 soggetti analizza la relazione fra il consumo delle bevande analcoliche e l’iperattività, il disagio mentale e i problemi di condotta negli adolescenti (Lien e coll. 2006). È stata rilevata una correlazione fra il consumo di bevande e la presenza di sintomi che sono indice di iperattività. Per quanto riguarda la salute mentale, gli adolescenti che non consumavano bevande analcoliche manifestavano più sintomi rispetto a quelli che le consumavano con moderazione, mentre il sottocampione con i maggiori sintomi era rappresentato dagli adolescenti che le consumavano molto frequentemente. Bisogna infine segnalare che i soft drink, in alcune condizioni particolari, possono essere utilizzati contro l’abuso di alcol; i forti bevitori possono ridurre il loro bias attenzionale verso l’alcol attraverso un training che li porti a una sostituzione delle bevande alcoliche con quelle analcoliche (Schoenmakers e coll. 2007).

Consumo di bevande analcoliche ed emotional eating

Consumo di bevande analcoliche ed emotional eating Si può ritenere che il consumo moderato di bevande analcoliche non sia di per sé dannoso per la salute e che solo l’abuso, specie di bevande zuccherate, sia collegato a vari problemi di salute fisici e mentali. Vanno ricercate pertanto indicazioni per un corretto consumo e per evitare l’abuso in tutte le fasce d’età. È importante aiutare le persone a non ricorrere a cibo e bevande come a rimedi apparenti e temporanei nei momenti di disagio, in quanto l’abuso può portare al sovrappeso e all’obesità, condizione complessa nella quale interagiscono fattori biologici e psicologici sia individuali sia ambientali (Giovannini e coll. 2006). Tra i vari fattori psicologici, quello dell’emotional eating potrebbe essere il maggiore responsabile dell’aumento di peso. È risaputo che l’eccitamento emotivo e il disagio hanno conseguenze sul comportamento alimentare (Ganley 1992). Le reazioni al disagio possono essere diverse: le ricerche indicano che le caratteristiche individuali portano a differenti modalità di consumo del cibo (Greeno e Wing 1996). Di solito, la reazione fisiologica che segue a uno stato di disagio è la perdita d’appetito, ma alcuni soggetti rispondono a tale condizione mangiando eccessivamente: questo fenomeno è chiamato emotional eating (Bruch 1973; Greeno e Wing 1996; Oliver e Wardle 1999) ed è stato definito come la ricerca del cibo, in assenza di fame fisiologica o bisogno di nutrirsi (Spangle 2004). Altre definizioni includono la pratica del consumo di grandi quantità di cibo (solitamente junk food) per lenire sentimenti negativi e non per diminuire la fame. Vari autori hanno fornito definizioni di questo fenomeno: Heatherton e coll. (1992) ipotizzano che una fuga dalla consapevolezza del sé, causata dal disagio, porta a uno spostamento cognitivo dai pensieri spiacevoli verso il cibo o le bevande; Van Strien (2000) suggerisce che l’emotional eating sia collegabile alla confusione e all’apprensione nel riconoscere e nel rispondere in modo accurato agli stati viscerali ed emotivi legati alla fame e alla sazietà; Timmerman e Acton (2001) sostengono che per affrontare situazioni di vita stressanti alcuni individui ricorrono a risorse di self-care che potrebbero essere interne o esterne. Quando un bisogno non è soddisfatto per un lungo periodo, si crea un deficit che potrebbe essere colmato mediante il consumo di cibo. Queste definizioni indicano che l’emotional eating non produce benefici duraturi, e l’osservazione clinica suggerisce che l’indulgere con il cibo può contribuire a peggiorare l’umore. Anche le bevande analcoliche possono essere utilizzate per mitigare uno stato psicologico negativo; è stato infatti evidenziato che i prodotti zuccherati che possono essere utilizzati per consolarsi non devono essere necessariamente solidi (Elfhag, Tynelius e Rasmussen 2007). Molti studi evidenziano infatti che il consumo delle bevande analcoliche è associato a un dispendio di energia maggiore del dovuto (Berkey e coll. 2004, Di Meglio e coll. 2000, Mattes e coll. 1996, Schulze e coll. 2004). Queste ricerche suggeriscono che un consumo elevato di bevande analcoliche può au-

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mentare la fame, diminuire la sazietà e portare le persone ad assumere dolciumi in dosi più elevate. Mangiare di più, in contrasto a mangiare di meno come risposta allo stress, dipende dal contesto e dal tipo di stress. Mangiare in relazione allo stress è considerata una caratteristica individuale che di solito rimane stabile nel tempo (Stone e Brownell 1994). Non si conoscono con precisione i motivi di queste differenze individuali, però la ricerca indica che i genitori di bambini e adolescenti potrebbero avere un ruolo importante nello sviluppo di queste diversità. Le somiglianze nell’emotional eating fra i genitori e i figli potrebbero indicare, oltre a possibili cause genetiche, una reciproca influenza nei comportamenti alimentari attraverso il modellamento. È possibile che i bambini imitino non solo il consumo del cibo dei genitori e le loro preferenze (Birch & Fisher 1998), ma anche i loro atteggiamenti verso il cibo e i motivi sottostanti i comportamenti alimentari (Brown e Ogden 2004). Snoek e coll. (2007) hanno riscontrato una maggiore diffusione di emotional eating in giovani adolescenti con madri molto controllanti, ma dalle quali non ricevono un adeguato supporto. Invece, per quanto riguarda gli adolescenti più grandi, l’emotional eating più elevato è stato riscontrato nei figli le cui madri non prestano attenzione ai loro comportamenti. Nella fase adulta, invece, possiamo vedere una distinzione fra diverse categorie di persone che consumano bevande analcoliche standard e light. Le persone che consumano bevande gassate zuccherate in maggiori quantità hanno un livello di scolarità basso e una minor propensione al controllo dell’apporto calorico e sono più sensibili ad alcune caratteristiche sensoriali del cibo, come per esempio l‘apparenza, l’odore e il sapore. È interessante notare che le bevande light sono maggiormente consumate da persone che stanno cercando di perdere peso e da persone che abitualmente mangiano per consolarsi, a motivo del gusto dolce, e credono che tali bevande non producano conseguenze negative (Elfhag, Tynelius e Rasmussen 2007). L’essere sensibili allo stimolo del sapore del cibo induce i soggetti con emotional eating a consumare le bevande analcoliche zuccherate invece di quelle light: questo fenomeno è più diffuso tra gli uomini. Va segnalato che le donne sono più propense a utilizzare cibi zuccherati solidi per l’emotional eating, mentre gli uomini sono più propensi a utilizzare le bevande analcoliche (Elfhag, Tynelius e Rasmussen 2007).

Mangiare e bere disfunzionali: modelli psicologici interpretativi Si ritiene opportuno presentare i principali modelli psicologici – comportamentale, cognitivo, psicoanalitico e relazionale-sistemico – che forniscono da punti di vista diversi le possibili interpretazioni dei disturbi dell’alimentazione al fine di offrire alcune possibilità di comprensione del bere analcolico funzionale e disfunzionale.

Mangiare e bere disfunzionali: modelli psicologici interpretativi

Il comportamentismo ha come obiettivo principale la descrizione e lo studio degli eventi psicologici osservabili e misurabili: i comportamenti e gli stimoli ambientali. All’interno di questa prospettiva l’interesse principale è indirizzato ai comportamenti non adattativi e non alle loro presunte cause psichiche: le tecniche sviluppate tentano di estinguere i comportamenti sintomatici e disfunzionali e di sostituirli con altri più adattativi. Particolare enfasi è posta sulla necessità di definire con rigore e in modo operativo gli obiettivi e le metodologie d’intervento. Riguardo al problema del consumo eccessivo di bevande che può portare a un incremento ponderale, la terapia comportamentale si propone di favorire la perdita di peso attraverso l’induzione di un bilancio energetico negativo. Questo obiettivo è perseguito mediante una riduzione dell’apporto calorico e un aumento dei livelli di attività fisica (Wilson 1995). La prospettiva cognitivista si occupa della relazione tra conoscenza e comportamento. Tutte le correnti che afferiscono al cognitivismo clinico condividono l’assunto secondo cui l’insieme organizzato dei significati personali posseduto dall’individuo ne condiziona il comportamento ed è responsabile di eventuali condotte disfunzionali o disadattative (Cionini 1993). L’applicazione di tecniche cognitiviste nel trattamento dell’abuso di bevande analcoliche ha integrato nel tempo i programmi comportamentali disponibili (Wilson 1995). Le strategie impiegate si propongono di modificare gli aspetti cognitivi associati ai comportamenti alimentari disfunzionali. L’acquisizione di modalità di pensiero più funzionali, l’incremento dell’autostima e dell’autoefficacia dovrebbero permettere, secondo questa impostazione, una migliore gestione delle situazioni problematiche e una maggiore possibilità di mantenere il controllo del peso nel breve e nel lungo termine. Le tecniche cognitive più frequentemente utilizzate nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione sono rappresentate dalla ristrutturazione cognitiva e dal problem-solving. La ristrutturazione cognitiva mira ad aiutare i soggetti a superare i pensieri che possono inficiare la loro capacità di controllare il comportamento alimentare. Il problem-solving comporta l’identificazione delle diverse difficoltà collegate al controllo del peso, come l’iperalimentazione, l’abuso di bevande analcoliche, la non corretta gestione del programma terapeutico, l’eventuale aumento di peso. La psicoanalisi ha offerto utili contributi all’interpretazione dell’aumento di peso e del comportamento alimentare in rapporto alle fasi evolutive dell’infanzia e dell’adolescenza. I primi lavori in ambito psicoanalitico suggerivano l’ipotesi che un’alimentazione disfunzionale (per quanto riguarda sia i cibi solidi sia quelli liquidi) fosse l’esito di una “fissazione” del soggetto alla fase orale con effetti sulla formazione del carattere e la strutturazione di una personalità dipendente (Cuzzolaro 1997). Negli sviluppi successivi del pensiero psicoanalitico sono stati messi in luce altri elementi: funzioni deficitarie dell’Io, soprattutto rispetto al controllo degli impulsi, difetti dell’economia narcisistica, in particolare della

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stima di sé e dei disturbi dell’immagine del corpo. Le teorie psicoanalitiche psicosomatiche segnalano la presenza nei soggetti con alimentazione scorretta di una particolare incapacità di descrivere i propri stati affettivi, di decifrare le proprie emozioni e di formare, quindi, rappresentazioni mentali elaborate. Tale disturbo, denominato alessitimia (incapacità di esprimere le emozioni), implica una difficoltà nella regolazione della vita emotiva e pulsionale che si manifesta come incapacità di esprimere sentimenti, per esempio di collera e di ostilità, di gestire situazioni conflittuali o di sostenere emozioni intense. Scollata dal codice simbolico, l’attività psichica refluisce nel corpo e mangiare o bere su base emotiva rappresenta l’unica possibilità di sfogo di sentimenti dolorosi. In linea con tale ipotesi sono i risultati della ricerca di Molinari (1996), che indicano come le famiglie dei bambini obesi presentino bassi livelli d’adeguatezza nella comunicazione, da un punto di vista sia quantitativo sia qualitativo, rilevabili soprattutto nella difficoltà a esprimere emozioni di tipo negativo. Il trattamento di questi disturbi all’interno della prospettiva psicoanalitica è inquadrabile nell’ambito dei trattamenti delle malattie somatopsichiche. I processi mentali inconsci, le resistenze al cambiamento malgrado la richiesta di cura e le vicissitudini emotive del rapporto fra chi cura e chi è curato sono i punti cardine della tecnica psicoanalitica per il trattamento dell’obesità. Infine, adottare una prospettiva sistemica per la conoscenza e il trattamento del bere difunzionale significa comprendere la complessa rete delle interazioni fisiche, biologiche e relazionali che si articolano in modo significativo intorno a questa condizione. Per esempio Bertrando e coll. (1990) sottolineano la presenza di due messaggi possibili nell’obesità derivata da un consumo eccessivo di cibo o bevande: una richiesta di aiuto e un atteggiamento di difesa. Il comportamento alimentare disfunzionale del bambino può essere quindi considerato come una forma di adattamento a un contesto relazionale la cui ripetizione ciclica assolve alla funzione di attenuare la tensione emotiva ed evitare le interazioni conflittuali (Ganley 1992; Hill 1993; Johnson e Hinkle 1993). All’interno di questo modello teorico il trattamento familiare prevede tecniche che diano nuovamente valore e significato alle comunicazioni familiari. Negli ultimi tempi si sono compiuti anche tentativi per integrare i vari modelli: per esempio, un’evoluzione particolarmente interessante dell’intervento comportamentale indirizzato all’obesità infantile e adolescenziale prevede il coinvolgimento delle famiglie nel trattamento. Le ricerche che hanno studiato questa tipologia d’intervento hanno constatato l’importanza della presenza supportiva dei genitori nei programmi di aiuto ai bambini obesi (Fairburn 1995). Le ipotesi fondanti di tale intervento riguardano la possibilità di cambiare i modelli di comportamento alimentare dei membri più piccoli della famiglia responsabilizzando i genitori e sollecitando un loro controllo diretto sulla dieta dei figli. Alcuni autori hanno avanzato diverse critiche nei riguardi della presunta efficacia di questo intervento: Wilson

Conclusioni

(1995), per esempio, ritiene che il coinvolgimento dei genitori nel controllare l’accesso al cibo e alle bevande inibisca nei figli la possibilità di sviluppare una capacità autonoma di controllo; infatti, se l’obesità può essere anche considerata, in un’ottica relazionale-sistemica, una risposta adattativa a una famiglia rigida e manipolatrice che tende a penalizzare l’autonomia dei membri, si potrebbe supporre che un trattamento che solleciti i genitori a un maggior controllo rischi di cronicizzare il problema piuttosto che risolverlo.

Conclusioni Dopo aver presentato una riflessione sugli aspetti psicologici associati al consumo delle bevande analcoliche, collocando il fenomeno nel più vasto campo dell’alimentazione, si è cercato di capire, in base ai dati della ricerca, se e in che modo il consumo delle bevande analcoliche può portare al sovrappeso e all’obesità. Per meglio comprendere tali comportamenti sono stati presentati i meccanismi psicologici che orientano le scelte alimentari, gli effetti percettivi del colore sul gusto e sulla “sensazione rinfrescante” e i principali modelli psicologici interpretativi del mangiare e del bere disfunzionali. La revisione delle ricerche sul rapporto bevande analcoliche e obesità non ha fornito risultati univoci. Pur riconoscendo un certo legame tra un elevato consumo di bevande analcoliche zuccherate e l’aumento ponderale, non è possibile dimostrare un chiaro rapporto di causa-effetto, in quanto l’eccesso ponderale e l’obesità devono essere posti in relazione con cause genetiche, metaboliche e psicologiche e con stili di vita. Sono stati considerati anche alcuni disturbi dell’alimentazione quali l’emotional eating, che riguardano maggiormente gli aspetti interni e relazionali dell’individuo: bere o mangiare su base emozionale sono risultati essere una risposta a un disagio psicologico o sociale. Ne deriva che solo una cura della dimensione globale della persona può sviluppare corretti stili di vita e realizzare una giusta prevenzione. La revisione dei dati della letteratura e la riflessione sulla nostra esperienza clinica ci portano a ritenere che si possa ricercare un nuovo modo d’interpretare e comprendere il consumo delle bevande analcoliche. Si tratta di aiutare i singoli e la collettività ad avvicinarsi alla dimensione del piacere, della socialità, del giusto rapporto con la corporeità (attività motoria, autostima) con maggiore consapevolezza, libertà e responsabilità. Un adeguato regime alimentare non può escludere un corretto consumo di soft drink che, nella vita di tutti, sono associati alla dimensione del piacere. Basti pensare a come molte bevande analcoliche siano anche “colorate di emozioni”. Il proibizionismo, anche in nome della salute, ha difficoltà a competere con il bisogno del piacere, le emozioni, la necessità di sognare. Il consumatore, accanto alla soddisfazione dei bisogni primari di ali-

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Capitolo 3 • Psicologia e consumo delle bevande analcoliche; normalità e patologia

mentarsi, ricerca costantemente nei cibi e nelle bevande un rinnovato piacere del gusto. Essendo nel nostro tempo l’offerta di alimenti molto vasta e differenziata, si sono create condizioni nelle quali è possibile eccedere nell’assunzione di bevande e di cibo; ciò, insieme con la sedentarietà, può determinare un incremento ponderale, malattie dismetaboliche e disturbi cardiocircolatori. L’insorgenza e la diffusione di queste malattie in vasti settori della popolazione ha favorito lo sviluppo della cultura della prevenzione. In questo scenario crediamo che l’alimentazione sana sia quella che contribuisce, unitamente ai progressi della medicina, oltre a prevenire le malattie e a innalzare la durata media della vita, anche a migliorare il benessere psicofisico degli individui. Gli interventi sociali per lo sviluppo di una cultura della salute dovrebbero essere accompagnati da adeguati progetti di ricerca per evitare che alcuni alimenti, per esempio le bevande analcoliche, diventino una sorta di capro espiatorio il cui sacrificio dovrebbe risolvere problemi complessi, che proprio a motivo della loro complessità non possono essere affrontati con semplificazioni e con slogan. In conclusione, crediamo che per le bevande analcoliche andrebbe promossa l’idea di un corretto e adeguato consumo legato al piacere, alla socialità e alla convivialità, nel rispetto del corpo e della salute.

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Capitolo 4 Analisi socioculturale del consumo di soft drink: fra polarizzazione e integrazione dei modelli di riferimento* A. Claudio Bosio

Introduzione: un approccio socioculturale all’analisi di un comportamento quotidiano Bere un soft drink: un comportamento di consumo usuale per molti milioni di italiani, come vedremo più avanti, aproblematico nella sua quotidianità, ma non banale e di non semplice decifrazione. Polarizzato da sempre fra riconosciute (a volte mitizzate) valenze edonistiche e perplessità/dubbi sul versante salutistico, il “bere dolce e gassato” interroga ed è interrogato: alla ricerca di una costruzione di senso complessa, ove nessuna forma di sapere scientifico – scienze mediche comprese, come ben sottolinea il contributo in questo libro di Marco Trabucchi – può avanzare la pretesa di una comprensione egemonica del fenomeno. Un familiare atto di consumo, di fatto, sfida le scienze a intrecciare i loro saperi per rendere conto di una complessità di piani di lettura ineliminabile: i “saperi del corpo”, anzitutto, perché il bere chiama in causa la fisiopatologia alimentare (Cap. 2); i “saperi dell’anima”, poi, perché sul bere l’individuo sviluppa fin dalla sua nascita rappresentazioni soggettive e progetti d’azione che la psicologia si occupa d’indagare (Cap. 3); ma anche i “saperi sociali”, perché le pratiche del bere si situano in contesti sociali; e un sviluppo virtuoso di questi consumi (qualunque sia il senso che si vuole attribuire all’aggettivo) dipende dalla capacità di un gruppo sociale di progettare e ri-progettare modelli culturali in grado di orientare e costruire senso su tali pratiche. Su quest’ultimo livello di analisi insiste il presente contributo. A partire da una base-dati descrittiva della situazione del consumo di soft drink nel nostro Paese, si procederà qui di seguito: • a costruire un abbozzo socioculturale del fenomeno in Italia, chiarendone le dimensioni e la rilevanza collettiva, il profilo dei segmenti della popolazione coinvolti nel consumo e le principali articolazioni delle pratiche di consumo; * Il presente contributo è stato realizzato grazie al supporto informativo messo a disposizione dagli istituti GfK Eurisko e GfK Panel Services Italia, a cui va il ringraziamento dell’autore.

84

Capitolo 4 • Analisi socioculturale del consumo di soft drink

• a ricontestualizzare il fenomeno su un più ampio sfondo di riferimenti rappresentato dalle tendenze culturali oggi caratterizzanti le pratiche alimentari e le pratiche di salute. Di fatto, operata una lettura del “bere dolce e gassato” come fenomeno sociale riferito alla nostra realtà di appartenenza, si attuerà un approfondimento di senso integrando la lettura del fenomeno sullo sfondo di due frames di vita quotidiana di prioritaria pertinenza: i contesti dell’alimentazione e della salute. Da tale intreccio si conta di ricavare elementi per un’analisi socioculturale del fenomeno su cui fondare considerazioni di ordine attuale e prospettico. Una nota sui database I dati presentati nelle pagine che seguono sono stati estratti da due ricerche continuative la cui consultazione è stata resa disponibile dagli istituti di ricerca GfK Eurisko e GfK Panel Services Italia. • Sinottica: indagine quantitativa continuativa multiscopo sulle pratiche quotidiane e sugli orientamenti socioculturali degli italiani. Dal 1993 l’indagine si articola su due rilevazioni l’anno (maggio, ottobre), ciascuna eseguita su campioni indipendenti di 5.000 casi (perciò sommabili in analisi su base annuale) rappresentativi per i principali parametri demo-socio-culturali della popolazione italiana dai 14 anni in poi. La rilevazione è basata su interviste personali face to face. • Panel Services: indagine quantitativa continuativa dedicata al monitoraggio degli acquisti di beni di largo consumo in Italia. La rilevazione si basa su un panel (quindi è ripetuta sullo stesso campione) di 8.000 famiglie, rappresentativo dell’universo delle famiglie italiane per i principali parametri di segmentazione demo-socio-culturale. In entrambe le rilevazioni il consumo di soft drink considera l’aggregato relativo all’insieme delle categorie di prodotto usualmente classificate entro questa categoria (cole, aranciate, limonate, bibite al pompelmo, chinotti, cedrate, acque toniche, ginger, spume, gazzose ecc.).

Il consumo di soft drink in Italia: dimensioni, profili e contesti di consumo Dimensioni del consumo Bere un soft drink, si diceva. Che dimensioni ha il fenomeno e quali tendenze dimensionali presenta? Per rispondere usiamo gli estimatori quantitativi a cui normalmente si ricorre in questi casi: la quota di popolazione implicata nel comportamento di consumo, i volumi di prodotto consumati in una certa unità di tempo (per esempio, l’ultimo anno), il valore economico corrispondente ai volumi.

Il consumo di soft drink in Italia: dimensioni, profili e contesti di consumo

Iniziamo dalla popolazione, ricordando che i nostri dati escludono il consumo infantile e riguardano gli italiani dai 14 anni in poi (la popolazione giovanile e adulta). Con riferimento a questo universo, oggi dimensionato in circa 48 milioni di italiani, il consumo di bevande gassate si presenta contemporaneamente molto esteso e piuttosto stabile nel tempo (Fig. 1). Esteso, perché poco meno della metà della popolazione dichiara un consumo di almeno una volta in una settimana tipo: parliamo, dunque, di una pratica alimentare che ha interessato in modo continuativo più di 20 milioni di italiani nel 2006 (i milioni salgono a circa 35 se consideriamo anche i consumi più estemporanei relativi agli ultimi tre mesi). Stabile, perché negli ultimi dieci anni di vita nazionale la quota dei consumi è rimasta sostanzialmente invariata (le oscillazioni osservate vanno attribuite ad andamenti congiunturali dei consumi e non prefigurano alcuna modificazione tendenziale). A queste osservazioni di fondo se ne può aggiungere una terza relativa alla composizione dei consumi e, più in particolare, al peso che i soft drink light (addizionati con dolcificanti ipocalorici) hanno sul consumo totale: appare di tutta evidenza come le bevande light interessino una quota modesta di consumatori, stabilmente attestata negli ultimi dieci anni attorno al 34% della popolazione (e al 7-8% dei consumatori). Dati sostanzialmente confermativi si ottengono se riorientiamo l’analisi dalla stima dei consumatori a quelle delle quantità di prodotto consumate in un anno (=volumi) e dell’equivalente economico corrispondente (=valore) (Tabella 1). Possiamo stimare per l’anno 2006 un consumo nazionale di bevande gassate dolci pari a circa un miliardo e mezzo di litri (quasi 25 litri pro-capite) e un miliardo di euro (quasi 18 euro pro-capite). Le stime appaiono piuttosto stabili nel tempo (almeno per il periodo disponibile per questa analisi relativo al 2004-2006). Anche qui, inoltre, il concorso delle bevande light si conferma piuttosto marginale.

% soft drink light su totale

6,8

6,4

7,1

8,7

Figura 1 Il consumo di soft drink in Italia: penetrazione del consumo nella popolazione nel periodo 1996-2006 (in %, consumano almeno 1 volta alla settimana)

85

86

Capitolo 4 • Analisi socioculturale del consumo di soft drink Tabella 1.

Consumo di soft drink in Italia: stima in volumi e valori (2006)

Volumi (litri x .000) Valore (Euro x.000)

Consumo totale soft drink

Consumo soft drink light

% soft drink light su totale

1 442 000 1 042 000

126 000 64 000

8,7 6,1

(Fonte dati: Panel Services)

La ricognizione italiana del fenomeno sembra in linea con alcuni riscontri già noti in letteratura, specialmente in quella di origine statunitense (Nielsen e Popkin 2004): la consistenza del fenomeno dei consumi, in particolare, risulta ugualmente rimarchevole. Rispetto ai dati noti in letteratura, però, si osserva una sostanziale differenza relativa al trend temporale: documentata in crescita per gli USA e invece stabile in Italia. È possibile che la differenza rimandi ai diversi periodi di tempo considerati o che, invece, testimoni di una specificità situazionale del nostro Paese. In ogni caso, è evidente che il consumo di soft drink in Italia si configura come una realtà: • consistente • stabile nel medio periodo (né in crescita, né in calo) • tendenzialmente conservativa per quanto riguarda le scelte di prodotto (orientate sulle bevande “classicamente dolci” e molto meno sulla bevanda light).

Profili di consumo Chi è il consumatore di soft drink? L’analisi della penetrazione del consumo nei segmenti della popolazione (costruiti sulla base dei classici parametri demo-socioculturali: sesso, età, istruzione, reddito) mostra una tendenziale trasversalità del fenomeno che appare presente in modo consistente in tutti i segmenti sociali presi in considerazione. Le tipizzazioni demo-socioculturali di questo consumo appaiono complessivamente modeste, salvo che per il parametro dell’età: qui è marcato l’incremento del consumo al diminuire dell’età (per cui, per esempio, la percentuale di consumatori “under 18” è circa tre volte quella dei consumatori “over 65”) (Fig. 2). Ancora una volta la situazione italiana mostra affinità e differenze rispetto alle indicazioni offerte dalla letteratura internazionale: si conferma la relazione fra consumo di bevande gassate ed età (Nielsen e Popkin 2004), ma non si hanno riscontri circa una relazione fra consumo e basso livello d’istruzione (Elfhag e coll. 2007). Insomma, i dati presentati sembrano resistere a una lettura del consumo di soft drink elettivamente connessa ai segmenti “poveri e incolti” della popolazione. La trasversalità demo-socioculturale del consumo pare invece suggerire una certa propensione di questa pratica a integrarsi flessibilmente in diversi segmenti sociali, anche se l’elettività con il mondo adolescenziale-giovanile appare fuori discussione.

Il consumo di soft drink in Italia: dimensioni, profili e contesti di consumo

( )

Figura 2 Il profilo socioculturale del consumatore di soft drink. (Base: % consumatori almeno 1 volta la settimana, 2006)

Se così è, il suggerimento offerto dall’analisi socioculturale non è tanto quello di operare una caratterizzazione del consumatore “al singolare” (caratterizzazione inevitabilmente esposta al rischio di stereotipia), ma di riconoscere la complessità dei legami fra uso di bevande gassate e culture (al plurale) dei consumatori, riconoscendo pure che ciascun segmento ha una sua modalità stilistica di costruire senso su un consumo: da indagare e capire. È questa una prospettiva che si affaccia in letteratura (Brunso e coll. 2004; Wilson 2005; e, con riferimento all’Italia, Conti e coll. 2004), ma molto resta ancora da fare anche in riferimento a una sistematica comparazione interculturale del fenomeno (troppo spesso letto sulla base di una letteratura di origine prevalentemente statunitense).

Contesti di consumo Dove si consumano soft drink? In quali circostanze, occasioni, contesti? I dati disponibili confermano la natura polimorfa e flessibile del soft drink che appare in grado di collocarsi entro i contesti di consumo più vari: in casa e fuori, durante il pasto e fuori pasto, negli ambienti e nei luoghi più disparati (Figura 3). La polisituabilità della bevanda gassata esalta, di fatto, una consapevolezza maturata in questi anni con l’analisi dell’agire di consumo in chiave postmoderna (prospettiva già evocata nel lavoro di Trabucchi, cfr. per un approfondimento in relazione ai consumi: Brown 1998; Featherstone 1991;

87

88

Capitolo 4 • Analisi socioculturale del consumo di soft drink

38 35 28 19 15

(°)

Figura 3 Le forme e i contesti del consumo di soft drink (Base: % consumatori almeno 1 volta la settimana, 2006)

e, per quanto concerne l’Italia, Fabris 2003). Sempre di meno a un’esperienza di consumo sono oggi riconosciute stabilità e universalità di significati: il senso di questa appare mobile, fluido (rispecchiando la mobilità del sé del consumatore) e trova la possibilità di determinarsi solo in riferimento al contesto entro cui si situa. Si parla, in questa prospettiva, di esperienze social embebbed, costruite nel loro significato dalle occasioni, situazioni, luoghi, relazioni, storie entro cui si collocano. Se questa chiave di lettura appare proponibile per l’agire di consumo in generale, essa risulta ancor più pertinente per quelle pratiche, come il consumo di soft drink, particolarmente propense a “contaminarsi” entro situazioni e modelli culturali i più diversi.

Il consumo di soft drink e i contesti di riferimento L’alimentazione Configurato il fenomeno del bere soft drink nei suoi principali elementi costitutivi, si possono ora approfondire i significati socio-culturali in relazione ai contesti della vita quotidiana a cui tale pratica fa prioritariamente riferimento: i contesti dell’alimentazione e della salute.

Il consumo di soft drink e i contesti di riferimento

Il rapporto fra consumo di bevande gassate e alimentazione è del tutto intrinseco, essendo il bere un comportamento alimentare, e non richiede ulteriori argomentazioni. La relazione con l’area della salute appare invece di tipo estrinseco, ma non meno vincolante: sono note, infatti, le analisi orientate a evidenziare una relazione problematica fra consumo di soft drink e aumento di rischi di salute (obesità, in primo luogo): per tutta la popolazione in generale, e con particolare riferimento al mondo infantile-adolescenziale (per approfondimenti, si rimanda al Cap. 2 e alla recente meta-analisi di Vartanian e coll. 2007). Quali arricchimenti offre l’esplorazione degli orientamenti alimentari alla lettura del nostro fenomeno? Fra le tante chiavi di lettura possibili, viene qui proposta l’analisi degli organizzatori culturali che muovono l’alimentazione in Italia. Si tratta di costrutti di sintesi, elaborati su base dati, in grado di mostrare le “correnti culturali” che supportano le pratiche alimentari e ne orientano il cambiamento. Con riferimento all’oggi, è possibile osservare come (Fig. 4): • l’alimentazione sia sostenuta da un modello culturale complesso, poggiante su molte dimensioni; • le dimensioni dominanti facciano riferimento a istanze edonistiche (attenzione alla gastronomia e al buon gusto), ma anche di leggerezza (controllo grassi, zucchero…) e di esploratività (interesse per la varietà/tipicità dei cibi locali e stranieri); • il riferimento a un modello mediterraneo di alimentazione riscuota ampi consensi. Gli orientamenti appena sintetizzati caratterizzano la popolazione italiana in generale e sono ampiamente partecipati anche dai consumatori di soft drink, i quali sembrano condividere questi ancoraggi di fondo a cui aggiungono qualche ulteriore connotato peculiare (più interesse per l’esplorazione alimentare, ma anche maggiore disponibilità per condotte alimentari non salutari improntate alla trasgressività o alla trascuratezza). Si tratta, in ogni caso, di accentuazioni differenziali che non mettono in discussione la condivisione del modello generale di fondo da parte dei bevitori di soft drink. Analogamente, i consumatori di bevande gassate tendono a condividere con il resto della popolazione le direzioni di fondo che hanno orientato i cambiamenti culturali in tema di alimentazione nell’ultimo decennio (Tab. 2): • difesa/mantenimento del valore della gastronomia (cioè, “l’essere buongustai”); • accentuazione di altri valori positivi dell’alimentazione espressi nella ricerca di convivialità (gli altri, gli amici), di novità (esplorazione per proposte del microterritorio e multietniche), di ulteriore adesione al modello alimentare mediterraneo; • presa di distanza da istanze limitative (controllare i grassi, la carne) o di svilimento dell’esperienza alimentare (meno trasgressività e trascuratezza). Etichettare il quadro appena descritto come conferma/accentuazione nel nostro Paese di un interesse edonistico verso il cibo pare francamente un po’ troppo sbrigativo e impoverisce il fenomeno che sta davanti ai nostri

89

Figura 4 Organizzatori culturali dei comportamenti alimentari in Italia (2006)

light

90 Capitolo 4 • Analisi socioculturale del consumo di soft drink

Il consumo di soft drink e i contesti di riferimento Tendenze ed evoluzione degli orientamenti alimentari in Italia nel periodo 1996-2006 (differenze percentuali)

Tabella 2.

Totale popolazione

Consumatori abituali soft drink

%

%

Consumatori abituali soft drink light %

+4 +4 +3

+4 +4 +4

+8 +1 +3

Gastronomia Controllo

= =

–2 =

–7 +2

Trasgressività Trascuratezza Leggerezza Limitazione carne

–2 –5 –6 –8

–3 –4 –5 –8

–6 –5 –6 –11

2006







• Convivialità • Esplorazione • Cucina mediterranea

1996 →

⇔ 冦 ••



• • • •





occhi. Ciò che possiamo osservare non è tanto la ricerca di puro piacere alimentare (quasi nell’accezione biofisiologica del termine), quanto l’apertura alla costruzione di esperienze, certamente piacevoli, attraverso il cibo; una costruzione che prende le distanze dalle rinunce e dalle “pure perdite”, ma anche dalle tentazioni di stravolgere e pervertire l’alimentazione e che appare propensa a esplorare nuove dimensioni di senso nella relazione con gli altri e con altre culture alimentari. Entro questo modello si situano a pieno titolo anche i consumatori di soft drink.

La salute Vediamo ora quali arricchimenti del quadro possono derivare dall’area della salute, un contesto spesso evocato come portatore di un’istanza pedagogica, etica e correttiva nei confronti del consumo di bevande gassate. In continuità con le prospettive d’analisi poste con l’alimentazione, sono qui considerati due indicatori socioculturali: • le rappresentazioni sociali che orientano le pratiche di salute e la loro evoluzione nell’ultimo decennio (parliamo di quei costrutti socialmente condivisi che stanno alla base dei modi di pensare e di agire nell’area della salute; Moscovici 2005, Herzlich 1969); • gli stili di salute presenti nella popolazione italiana (la nozione di stile è qui utilizzata in modo peculiare e designa il profilo tipico di un gruppo sociale di rapportarsi con le aree dell’agire quotidiano, in questo caso la salute; Wells, 1977). Ogni nostra presa di posizione nel quotidiano, sia essa di natura simbolica o pratica, è orientata da organizzatori rappresentazionali di fondo, condivisi in qualche misura dai nostri interlocutori. Parliamo delle rappresen-

91

light

Figura 5 Le rappresentazioni sociali della salute: il quadro 2006 e le tendenze nel periodo 1999-2006

9

light

92 Capitolo 4 • Analisi socioculturale del consumo di soft drink

Il consumo di soft drink e i contesti di riferimento

tazioni sociali, un costrutto da lungo tempo impiegato anche nella ricerca sulla salute. Quali rappresentazioni sociali sono diffuse fra gli italiani in riferimento alla salute? In quale direzione stanno variando? I dati disponibili ci dicono che (Fig. 5): • una concezione della salute di tipo “basico” (intesa come pura assenza di malattia), pur se ancora forte, appare oggi minoritaria ed è visibilmente in contrazione da circa dieci anni a questa parte; • tendono, per contro, ad affermarsi concezioni della salute con “valore aggiunto” poggianti sull’idea di efficienza psicofisica o di equilibrio/armonia psicofisica; • infine, la concezione che fa perno sull’integrazione armonica “mentecorpo” risulta nettamente in espansione nell’ultimo decennio. Anche nell’area della salute come in quella dell’alimentazione, la popolazione sembra dunque orientata verso una rappresentazione culturale complessa, di tipo positivo, fortemente orientata in senso progettuale ed esperienziale… e i consumatori di soft drink risultano perfettamente inseriti in questa tendenza. A risultati analoghi approda anche l’analisi degli stili di salute presenti in Italia (Tabella 3): Tabella 3.

Tendenze ed evoluzione degli stili di salute in Italia nel periodo 1996-2006 (differenze percentuali) Totale popolazione

Consumatori abituali soft drink

%

%

Consumatori abituali soft drink light %

+5 +3

+7 +3

+10 –1

Deproblematizzazione Disagi e controlli medici

+1 =

–1 –1

+6 =

e risposte 冦 •• Problemi Logorio e trascuratezza

–4 –5

–4 –4

–9 –6



2006

1996 →



e bellezza 冦 •• Salute Sport e benessere

⇔ 冦 ••





Nota - Gli “stili della salute” sono il risultato di una cluster analysis sugli indicatori di area, finalizzata a identificare raggruppamenti di soggetti caratterizzati dal medesimo approccio culturale alla gestione della salute. I raggruppamenti stilistici possono essere così brevemente descritti nel loro significato (fra parentesi la consistenza % dello stile nel 2006): • Salute e bellezza (18%): forma fisica e mentale sono oggetto di forti attenzioni in positivo atte a mantenere/potenziare il benessere attraverso specifici interventi sul piano alimentare (alimentazione controllata, cibi leggeri,...) e su quello motorio (ginnastica, sport, palestra, massaggi). • Sport e benessere (24%): elevato livello di benessere psicofisico e assenza di rilevanti problemi/disturbi in riferimento alla salute; forte coinvolgimento nelle pratiche sportive e nelle attività motorie in generale. • Deproblematizzazione (23%): esclusione di qualsiasi intervento orientato al potenziamento del benessere; spiccata propensione a svalutare la rilevanza dei propri episodi di malattia e a rivolgersi al medico solo in stato di chiara necessità. • Logorio e trascuratezza (11%): poca attenzione alla salute e accettazione rassegnata della situazione, si tende a evitare sia il medico sia i farmaci. L’aspetto fisico non è oggetto di cure rilevanti, né in termini passivi (cure estetiche), né in termini attivi (ginnastica, movimento). • Problemi e risposte (7%): alla presenza di alcuni problemi (mal di testa, sovrappeso, insonnia, disturbi digestivi...) si risponde attivamente adottando una strategia di autogestione per la cura di sè (attenzioni cosmetiche, ginnastica e massaggi; controllo sull’alimentazione, ecc.) e ricorrendo al medico a scopo preventivo o ai primi segnali di malattia. • Disagi e controlli medici (17%): centralità delle preoccupazioni per il proprio stato di salute a cui si cerca di rispondere adottando una strategia basata su visite mediche periodiche.

93

94

Capitolo 4 • Analisi socioculturale del consumo di soft drink

• gli stili espressione di una cultura positiva della salute e solidamente radicati in una concezione espansiva e olistica del benessere risultano in crescita in tutta la popolazione e, in particolare, nei segmenti consumatori di soft drink (cfr. gli stili “Salute e bellezza”, “Sport e benessere”); • per contro, altri stili strettamente ancorati all’esperienza del disagio e della cura del disagio (“Problemi e risposte”) od orientati a svalutare le pratiche di salute (“Logorio e trascuratezza”) sono in contrazione, sia nella popolazione in generale, sia presso i consumatori di soft drink. Consumo di soft drink e peso corporeo in Italia: quali indizi? A margine e a completamento delle esplorazioni in tema di salute, sono presi in considerazione alcuni dati relativi al rapporto fra consumo di soft drink e peso corporeo. Il punto non è particolarmente centrale nella logica di questo contributo, ma resta centrale come preoccupazione di fondo propria dei discorsi sociali e scientifici sul consumo di soft drink. Sul punto il contributo di Poli e coll. offre un esame particolarmente approfondito, a cui si rimanda. Qui sono mostrati alcuni indizi (parliamo di indizi perché ci muoviamo entro le possibilità di uno studio osservazionale) relativi all’Italia e derivati da un incrocio fra consumatori di soft drink e stima del peso calcolato sulla base di due indicatori: il BMI (peso e altezza sono stati dichiarati dagli intervistati) e la circonferenza vita (misurazioni effettuate in situazioni di intervista) (Tabella 4). Entrambe le analisi testiTabella 4.

Consumo di soft drink e sovrappeso

Body Mass Index (*)

Totale popolazione (n=10 000) %

Sottopeso (30)

Circonferenza vita (**)

Circonferenza vita normale A rischio obesità addominale (>88 cm per le donne e > 102 cm per gli uomini) Non risponde Media circonferenza vita

6 53 31 10

Consumatori abituali soft drink (n=4552) % 6 54 29 11°

9° 53 29 9

Totale popolazione (n=10 000)

Consumatori abituali soft drink (n=4552) Maschi/Femmine Maschi/Femmine % % % % 75 19

64 31

6 5 92,1 cm 82,3 cm

77° 18

Consumatori abituali soft drink light (n=442) %

66° 30

Consumatori abituali soft drink light (n=442) Maschi/Femmine % % 77 18

70 25

5 4 5 5 90,8 cm 81,2 cm 91,3 cm 79,8 cm

(Fonte dati: Sinottica) (*) Dichiarazione peso e altezza (**) Rilevata nel corso di intervista Nota - Con ° / °° sono evidenziati i valori il cui scarto (positivo o negativo) dal dato del totale campione è statisticamente significativo (p88 cm)

19

31

18 19

30 31

7

8

8 5

10 2

10

17

10 5

19 16

17

22

20 14

23 19

22

29

25 13°°

33 22

26

46

28 25

55° 38

30

53

31 32

53 49

(Fonte dati: Sinottica) (*) Rilevata nel corso di intervista Nota - Con ° / °° sono evidenziati i valori il cui scarto (positivo o negativo) dal dato del totale campione è statisticamente significativo (p