Belìn, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André [PDF]

  • 0 0 0
  • Gefällt Ihnen dieses papier und der download? Sie können Ihre eigene PDF-Datei in wenigen Minuten kostenlos online veröffentlichen! Anmelden
Datei wird geladen, bitte warten...
Zitiervorschau

collana a cura di Riccardo Bertoncelli

A Roberto Dané, un libro che spero gli sarebbe piaciuto. A Piero Milesi

Belìn, sei sicuro? Storia e canzoni di

Fabrizio De André NUOVA EDIZIONE AMPLIATA a cura di Riccardo Bertoncelli

Tutti i diritti riservati Redazione e impaginazione Michele Lauro Giovanni Bartoli (nuova edizione) Crediti fotografici 6, 140, 156 Rolando Giambelli; 10, 38, 42, 98, 172 Reinhold Kohl, Carrara; 72, 86, 93 Olycom, Milano; 124 © Photoservice Electa/Mondadori Vintage Collection Le locandine a pagina 103 e 112 vengono dalla collezione di Mariano Brustio.

www.giunti.it © 2003, 2012 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Via Borgogna 5 - 20122 Milano - Italia ISBN: 9788809782624 Prima edizione digitale: luglio 2013

INDICE

Prefazione, 7 Nota alla seconda edizione, 9 Il suonatore Faber, 11 di Franco Fabbri

Traccia biografica, 43 di Enrico Deregibus

Intervista a Giampiero Reverberi, 73 Intervista a Roberto Dané, 87 Intervista a Massimo Bubola, 99 Intervista a Franz Di Cioccio, 113 Intervista a Mauro Pagani, 125 Intervista a Ivano Fossati, 141 Intervista a Piero Milesi, 155 Intervista a Oliviero Malaspina, 173 La paura dura più dell’amore Fatti e misteri dei Notturni di Fabrizio De André, 181 di Riccardo Bertoncelli

Discografia, 193 di Claudio Sassi

Q

uesto libro è nato da un incontro con Mauro Pagani, che mi ha dato lo spunto iniziale per lavorarci. A Mauro devo anche il titolo, a suo tempo usato per un convegno organizzato a Carrara da Reinhold Kohl con alcuni dei più importanti collaboratori di Fabrizio. Sono grato per questo doppio “pacco dono” e ricambio con la foto qui a fianco, dove Pagani e De André non sembrano per nulla affaticati dalla lavorazione delle Nuvole, anzi. Voglio ringraziare anche Massimo Bubola, Roberto Dané, Franz Di Cioccio, Giampiero Reverberi, per la disponibilità e lo scrupolo con cui hanno accolto il mio invito a ricordare Fabrizio; e Ivano Fossati, che mi ha regalato un bel pomeriggio di fine estate in un incantevole angolo di Toscana che non conoscevo. Mi hanno aiutato per le foto Reinhold Kohl e Rolando Giambelli; grazie anche a loro. E grazie a Mariano Brustio, che mi ha aperto le porte della sua straordinaria collezione di dischi e memorabilia, facendomi vedere cose da lustrarsi gli occhi, raccontandomi storie belle e preziose.

Quando ho fatto circolare l’idea di questo libro, ho trovato facce perplesse e un po’ spazientite – “un altro libro su De André?”. Non ho capito, non capisco. De André mi pare un mondo tanto grande, e dopo quest’anno di ricerche ancora più esteso di quanto immaginavo. Non mancano le mappe in giro ma ne servono ancora; perché quelle che ci sono non hanno il dettaglio che sarebbe necessario (a quando, per esempio, una grande e precisa biografia?) o semplicemente perché, l’ho appena detto, i trent’anni e le cento-e-più canzoni di Fabrizio sono molto larghi e complicati. Spero che dopo questo libro ne vengano altri, e non dubito di venire accontentato; e sarò onorato tutte le volte che qualcosa di queste pagine verrà citato e servirà di spunto per qualcos’altro. Non mi prefiggevo altro scopo quando ho cominciato a lavorarci; e adesso che tutto è chiuso, adesso che il puzzle si è composto con rara precisione (lo prendo come un segno del destino), sono appagato e convinto di aver reso un buon servizio a De André e alla sua opera. Roberto Dané mi ha detto una cosa bellissima su Fabrizio, che troverete nella sua intervista. Lui faceva il regista, in quegli anni, e Faber lo chiamava scherzosamente “metteur en scène”; al che Dané replicava con un maccheronico “metteur ensième”, che trovo un’intuizione straordinaria. Fabrizio De André è stato in effetti un grande, bravissimo “metteur ensième”. Ha preso pezzi di vita, di poesia, di musiche, di suggerimenti, spunti, contributi, e li ha composti in un grande affresco con la sua impronta forte, la sua aura carismatica. Le pagine che vengono parlano giusto di questo. Fabrizio non è solo, sul pinnacolo falso del mito con il suo “genio”, ma insieme alle persone che lo hanno accompagnato e lavorato, faticato con lui, mettendoci anche molto di sé. A chi legge, a questo punto, il compito di “mettere insieme”. Riccardo Bertoncelli 7

Ringraziamenti Per questa nuova edizione voglio ringraziare Piero Milesi e Oliviero Malaspina, per la disponibilità e il generoso contributo, Claudio Sassi, che ha riconsiderato la parte discografica, Federica Ivaldi, che mi ha offerto spunti per la ricerca sui Notturni, Paolo Russo, per una preziosa indagine purtroppo svaporata presto. Un grazie particolare a Walter Pistarini, amico e complice più che semplice collaboratore, uno che da anni “mette insieme” Faber e tanti, tanti pezzi di cultura, di musica, di vita.

Nota alla seconda edizione

S

ono particolarmente affezionato a questo libro che, uscito in prima edizione nel 2003, è diventato un classico della enorme bibliografia (quasi duecento volumi!) riguardante Fabrizio De André. Il successo del libro e il riscontro presso gli studiosi, che mostrano di considerarlo un reference, mi hanno indotto a ritornare sull’argomento con una doverosa espansione, aggiungendo agli intervistati Piero Milesi e Oliviero Malaspina. Milesi (che purtroppo è morto nelle settimane scorse, dopo aver rifinito con puntiglio, così tante volte, il suo contributo) mi ha raccontato nei dettagli la storia che solo in parte conoscevo di Anime salve. Nel primo Belìn c’era la straordinaria genesi di quell’album, raccontata da un ispiratissimo Fossati; in questa nuova edizione c’è il racconto di come quelle ultime canzoni cambiarono pelle e furono poi registrate, grazie all’intervento di un musicista originale e fuori schema come Milesi. Un lavoro di studio lungo, minuzioso, com’era sempre per l’esigente, tormentato, concentratissimo Faber; ma alla fine, come dice bene Piero nella sua intervista, “la musica vince su tutto”. Anime salve è un album meraviglioso, uno dei grandi capolavori della musica italiana; e riascoltarlo dopo averlo rivissuto nelle interviste a Fossati e Milesi, lo dico senza presunzione, può contribuire a renderlo ancora più bello. Oliviero Malaspina è l’ultimo collaboratore di De André in ordine di tempo. Aprì i concerti del suo ultimo tour, quello dell’estate 1998, e per mesi lavorò con lui per un nuovo disco, quattro Notturni che Faber voleva dedicare a un amico di Tempio Pausania morto da poco. Si tenne in contatto fino all’ultimo, smise pochi giorni prima della morte di Fabrizio. Si è sempre detto che quell’idea non prese mai forma, che era tutto nella testa di De André, salvo avarissimi appunti. Ho scoperto che non era proprio così, ho rintracciato una storia fantastica che ha preso spunto dall’intervista di Malaspina e ha finito per coinvolgere anche altri collaboratori, primo fra tutti Mark Harris, già “aiutante di campo” ai tempi del disco del 1981 (“l’Indiano”, come è chiamato tra gli appassionati). Questa storia è contenuta in un breve saggio che ho voluto mettere come sigillo alla nuova edizione e che considero il materiale più prezioso fra tutti. I Notturni sarebbero stati il grande commiato di Fabrizio De André al Novecento che andava a morire e il suo forte, ispirato messaggio per il nuovo millennio. Il destino ha deciso altrimenti, con la prematura morte nel gennaio 1999. Ma non si fa torto a nessuno, anzi!, se si cerca di illuminare un angolo buio della storia per rischiarare un progetto, un’idea, una gemma purtroppo mai sbocciata; che anche così, da gemma, manda riflessi affascinanti. R.B., gennaio 2012 9

IL SUONATORE FABER di Franco Fabbri

...e quante belle biglie a rotolar e quante belle triglie nel mar (Ottocento)

Le biglie di plastica con le foto dei ciclisti sono un ricordo universale per diverse generazioni di italiani. Ma ci deve essere una ragione che spieghi come mai a richiamare pubblicamente quel ricordo siano soprattutto gli attuali cinquanta-sessantenni. “Poulidor! Era da quando ero bambino che non giocavo a palline. Ricorda quelle bilie di plastica con i ciclisti? Io tenevo sempre Poulidor.” Così Michele Serra (nato nel 1954) in uno dei racconti de Il nuovo che avanza, poi ripreso nella radioscena Jekyll, musicata da Michele Dall’Ongaro (nato nel 1957; lì il ciclista nominato è il meno esoterico Baldini);1 Enrico Ruggeri (nato nel 1957) evoca quella memoria come origine di una sua canzone (Gimondi e il Cannibale) dedicata al ciclismo e utilizzata come colonna sonora ufficiale dell’ottantatreesimo Giro d’Italia; Marco Paolini (nato nel 1956) nei suoi Album (a cominciare da Adriatico, 1987) associa biglie e ciclisti alle cerbottane e ai loro proiettili (anch’io: i piroli, o pirieu, come li chiamavano i figli del contadino di Arenzano, vicini di casa, con i quali mi piccavo di parlare in genovese); Luciano Ligabue (nato nel 1960) in uno dei suoi racconti (Ho fatto un giro) ricorda che “fra scivolo, altalene e compagnia bella c’era la ‘piscina di sabbia’ per le infinite gare a biglie con su Gimondi e Zandegù, Bitossi e Balmamion, Adorni e Motta. Chi teneva le biglie coi francesi o i belgi era un puzzolente fighino” (capito, Michele Serra?).2 Questi, almeno, sono i risultati di una rapida ricerca su Internet, con “biglie” (o “bilie”) e “ciclisti” come parole chiave. Si potrebbe obiettare che i maschi italiani nati a metà degli anni ’50, attivi nel mondo dello spettacolo e dei media, abbiano più probabilità di altre persone di comparire in una pagina web, sia pure in virtù di un dettaglio così marginale. Ma vorrei lasciare questa evidenza statistica, qualunque sia la sua origine, come ipotesi di lavoro provvisoria. In realtà, quando ho cominciato a fare quella ricerca, volevo scoprire quando le biglie con i ciclisti fossero state inventate e messe in vendita per la prima volta. Non ho trovato notizie, quindi ho deciso di procedere per indizi. Anche perché avevo un vago ricordo d’infanzia e della prima adolescenza, associato in seguito con la giovinezza di Fabrizio De André (ho qualche anno di più degli autori che ho nominato), di aver giocato con altre biglie – quelle di vetro e quelle di terracotta – per un certo periodo, prima che apparissero quelle di plastica. Internet, in questo caso, mi ha aiutato. In una galleria di ricordi fotografici ho trovato una cartolina di Rimini (toh!), 11

Il suonatore Faber

“circa 1940”, nella quale si vede una pista di sabbia per giocare alle biglie. Escluderei del tutto che allora esistessero le biglie con i ciclisti, per quel poco che so di storia dei materiali: eppure – chissà da quanto tempo – si facevano le gare. Dunque ci deve essere un anno, compreso fra quel 1940 e l’infanzia di Serra, di Paolini, di Dall’Ongaro, di Ruggeri, di Ligabue, nel quale le biglie di plastica sono comparse, mentre l’anno prima non c’erano. Un anno che non dev’essere lontano da quelli di altri oggetti di plastica, materiale moderno, rivoluzionario: l’hula-hoop, lo yo-yo che si vinceva con i tappi della Coca Cola e della Fanta, le costruzioni fatte di bastoncini e giunti regalate dalla crema e dalle caramelle Elah, i soldatini che si trovavano nel Tide. Se esamino la mia collezione di biglie, posso ricavare qualche indizio di più: ci sono Coppi, Bartali, Magni, che quindi dovevano essere ancora sulla breccia (Magni aveva vinto il Giro d’Italia nel 1955, e Coppi era stato secondo), ma non ci sono altri ciclisti dei loro tempi, il dopoguerra e i primi anni ’50 (escluso forse Koblet); invece, anche doppi, ci sono Nencini, Baldini, Gaul, Anquetil. Tutti particolarmente in auge negli anni fra il ’56 e il ’60. Anzi, guardando la biglia di Massignan mi sembra di ricordare che fosse una novità, aggiuntasi alle altre dopo i successi dello scalatore nel Giro del ’59. E nell’estate del 1960 avevo tolto dal sacchetto la biglia del povero Coppi. Quanto a Poulidor, citato da Serra, vinse la Milano Sanremo nel ’61 (suo primo successo significativo), e fu secondo al Tour nel ’65 (dopo Gimondi). Insomma, è certo che quando Serra, Paolini, Dall’Ongaro, Ruggeri e Ligabue erano ragazzini – i primi anni ’60 – si giocava con le biglie di plastica (forse solo con quelle, e comunque tutti loro se lo ricordano bene); anch’io che sono un po’ più vecchio ci giocavo, e forse allora (nei tardi anni ’50) erano una cosa nuova. Quando Dominique Bretodeau (“Non Bredoteau!” come chiarisce un altro personaggio de Il favoloso mondo di Amélie) ritrova il suo piccolo ciclista di plastica e rievoca le imprese di Bahamontes (“l’aquila di Toledo”) al Tour, si ricorda di una tragicomica occasione in cui vinse tutte le biglie dei suoi compagni: erano di vetro. Bahamontes vinse il Tour nel 1959, Bretodeau nel film ha cinquant’anni o poco più (e se ne lamenta), con le biglie da ragazzino giocava a buchetta, non su una pista di sabbia, e chissà se le biglie di plastica sono arrivate prima in Italia o in Francia. Comunque, la biglia di Bahamontes (spagnolo, Liga!) io ce l’avevo. Secondo me, invece, quelli nati all’inizio degli anni ’40 avevano giocato a lungo con le biglie di vetro e di terracotta, prima che comparissero quelle con i ciclisti, e forse con quelle di plastica ci avevano giocato solo da giovanotti (come uno che abbia scoperto il Subbuteo a vent’anni: ne conosco). Ad Arenzano ce n’erano tanti, sia genovesi che milanesi, di quei diciotto-ventenni che prima facevano i grandi con le ragazze, ascoltando canzoni come My True Love (cantata da Jack Scott con quella sua voce profonda: uno dei rocker di allora dei quali si sono perse le tracce) nel 12

juke box dei Bagni Sole, poi le snobbavano e venivano da noi ragazzini a farci vedere come si costruiva una pista di sabbia con tutti i crismi. Leggendo le biografie di Fabrizio De André, che ho conosciuto di persona, brevemente, negli ultimi anni, ho sempre pensato che a quei tempi fosse come uno di quei giovanotti della Genova-bene (cresciuti a biglie di vetro) che sceglievano la loro biglia di plastica nel mio sacchetto. Ecco questo è il punto: la scelta della biglia. Perché non ho associato il ricordo di Fabrizio De André a quello delle biglie con i ciclisti per rievocare quegli anni, talmente cruciali nella sua formazione (a quanto sembra) da occupare una parte preponderante delle sue biografie; né ho voluto – come penso che sia legittimo – seguire ostinatamente la traccia del verso di una sua canzone per mettere in luce le numerose diramazioni del senso che da lì si irradiano (che biglie saranno, quelle di Ottocento? Io dico che sono di vetro). No, il problema è quello della scelta della biglia, o meglio dell’esclusione di una biglia: quella di Maspes. Antonio Maspes (1932-2000) vinse sette titoli mondiali della velocità su pista, tra il ’55 e il ’64. In particolare ne vinse quattro di seguito, fino al ’62 a Milano (città che gli ha dedicato il suo velodromo, il Vigorelli, sede nel ’65 di un famoso concerto dei Beatles); nel ’63 fu battuto in finale da Sante Gaiardoni, di sette anni più giovane, ma nel ’64 a Parigi trionfò ancora. Maspes, ovviamente, aveva la “sua” biglia. Ovviamente? Sì, almeno secondo i produttori (doveva esserci un responsabile, se non un ufficio, nella ditta che fabbricava le biglie di plastica, al quale spettava di scegliere quali ciclisti dovessero essere immortalati nel loro sigillo sferico, e quali no). Ma la cosa a me non sembrava tanto ovvia. Perché Maspes era un pistard. E sì, è vero che quella su cui si facevano le gare con le biglie si chiamava “pista”, ma nella grande maggioranza dei casi era fatta per assomigliare a una strada, con salite, discese, gallerie, curve irregolari. Solo in qualche caso, per fare presto, si tracciava un anello, trascinando il più piccolo della compagnia per i piedi (senza dubbio un altro ricordo presente nella memoria di moltissimi italiani).3 E sì, era una strada anomala, quella “pista”, perché comunque formava un circuito e aveva le curve sopraelevate, ma credo che non ci fosse dubbio che mentre si giocava (in una sfida che non era quasi mai a due, come nella velocità su pista, ma plurima, come semmai in una Sei Giorni) si stesse mettendo in scena una tappa del Giro o del Tour, una classica in linea, o forse meglio di tutto un campionato del mondo, che si è sempre corso in circuito. Una gara su strada. In cui i protagonisti erano tutti campioni del ciclismo su strada. Tranne Maspes. Che non c’entrava per niente. Ricordo questo fastidio, e di non aver mai scelto la biglia di Maspes per giocare, nonostante come ciclista lo ammirassi moltissimo. Avevo una bici da corsa, cercavo di capire come si facesse il surplace. Ma, appunto, proprio il fatto che nella velocità su pista fosse così importante una tecnica e una tattica 13

Il suonatore Faber

come il surplace,4 che non aveva riscontro nelle regole del gioco con le biglie, mi confermava che fra Maspes e gli altri ciclisti, e tra le biglie che li rappresentavano, ci fosse una differenza ineliminabile. Perfino la bicicletta di un pistard è diversa da quella di uno stradista: tanto per cominciare, non ha i freni, non ha cambio, e il surplace è reso possibile dal fatto che la catena non ha scappamento, e pedalando all’indietro si va indietro (e immaginatevi cosa significhi far correre sullo stesso circuito, magari con delle discese, stradisti e pistards). Ora, ammetto che mentre il ricordo delle biglie di plastica è universale, questo del rifiuto di accogliere il pistard in mezzo alle biglie degli stradisti possa essere del tutto individuale. Lo si può benissimo prendere come un sintomo precoce di un’ossessione per le classificazioni e le categorie, e quindi lo offro – disarmato – a chi lo volesse usare contro di me. Ma credo che sia altrettanto legittimo usare questo ricordo alla rovescia, e dire che se perfino un ragazzino di dieci-dodici anni, in un’attività apparentemente innocente come il gioco delle biglie, si fa guidare da una categorizzazione così evidentemente legata alle “regole del gioco”, allora l’attività di classificare, di discriminare, di dividere in categorie, non è necessariamente un’imposizione dall’alto, una disciplina applicata da autorità esterne, che etichettano e razionalizzano per i loro scopi: può essere qualcosa che ha a che fare con il funzionamento del pensiero, con il nostro modo di comprendere il mondo, e perfino di giocarci. Non invento niente: da anni gli psicologi cognitivi se ne occupano. Chi volesse approfondire, potrebbe ricorrere al libro più famoso sull’argomento, o perlomeno con il titolo più furbo, Women, Fire, and Dangerous Things (“Donne, fuoco e cose pericolose”) di George Lakoff,5 o leggere il più accessibile – in senso linguistico e editoriale: è densissimo e appassionante – Kant e l’ornitorinco di Umberto Eco,6 che delle teorie di Lakoff è in buona parte un commento e una parziale confutazione. “Ma pensa se le canzonette me le recensisse Roland Barthes”, diceva Francesco Guccini in Via Paolo Fabbri 43,7 inaugurando nel 1976 un venticinquennio di sana diffidenza antiaccademica nella canzone d’autore, la cui principale manifestazione si può dire sia stata l’insofferenza se non l’esplicita derisione delle classificazioni. Del resto, ogni buon dizionario di citazioni raccoglie decine di frasi di grandi musicisti che accettano come unica distinzione quella fra buona e cattiva musica, e scherniscono perfino le categorie più comuni: a cominciare da quella celebre di Louis Armstrong, attribuita anche al bluesman Big Bill Broonzy: All music’s folk music: leastways I never heard of no horse making it (“Tutta la musica è musica della gente [popolare]: almeno, non ho mai sentito che la facessero i cavalli”). 8 Ma pur non riconoscendomi nel ritratto degli “arguti intellettuali” di Guccini (“trancian pezzi e manuali, poi stremati fanno cure di cinismo, son pallidi nei visi e hanno deboli sorrisi solo se si parla di strutturalismo”), mi per14

metto di insistere che sì, la critica delle canzoni e dei loro autori e interpreti ha bisogno di fondamenti, di ragionare sulle categorie di base. Le “regole del gioco” della canzone non sono, alla fine dei conti, meno importanti di quelle delle biglie.

E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare. (Il suonatore Jones)

È stata una questione di categorie la causa di quell’incomprensione tra Fabrizio De André e il sottoscritto. Una piccola, modesta incomprensione: ma dato che ci siamo incontrati una sola volta nella vita fa una bella percentuale. In realtà, gli incontri sono stati due: ma nel primo caso potrei dire al massimo che ho visto De André da vicino. Eravamo in un salottino della Bluebell, al pomeriggio: Fabrizio aveva un bicchierone di whisky sul tavolo, e leggendo ora le sue biografie capisco che era sotto contratto con Toni Casetta da non molto. Io ero il chitarrista diciassettenne, e autore di una canzone, in un gruppo ricalcato sulla formula dei New Dada, e dato che anche i New Dada erano della Bluebell posso confermare il talento discografico di Casetta: di un genere rappresentato in Italia da due gruppi aveva il monopolio assoluto. Dal 1967 al 1997 fanno trent’anni, e ci sono voluti tutti perché incontrassi Fabrizio davvero. Fu alla presentazione di Accordi eretici, il libro curato da Bruno Bigoni e Romano Giuffrida9 per il quale avevo scritto un saggio.10 In effetti, era un po’ di tempo che eravamo in contatto indirettamente. Da qualche mese abitavo a due passi dalla casa di Piero Milesi, definita da qualche giornalista bohèmien “la soffitta dove Fabrizio De André ha realizzato Anime salve”. Un appartamento normalissimo, in realtà. Piero, vecchio amico, mi aveva anche fatto sentire una stampa di prova del CD, facendomi promettere di non dirlo a nessuno. Come per il falso in bilancio, il reato ora è prescritto. Mi aveva chiesto cosa ne pensassi della successione delle canzoni. Avevo risposto che secondo me il primo pezzo avrebbe dovuto essere Disamistade. Poi ho saputo che anche Fabrizio la pensava così. Primo di una serie di aneddoti, Piero mi aveva raccontato di quando aveva cercato di convincere Fabrizio che un certo inciso melodico, che nei provini aveva cantato con le sillabe “’ndea-oò”, si poteva anche non far suonare a uno strumento – come era chiaramente nelle intenzioni di De André – ma lasciare intatto: “’ndea-oò, ’ndea-oò”. E Fabrizio, dopo averci provato la prima volta: “Ma belìn, Piero, così sembro Toto Cutugno!” 15

Il suonatore Faber

A un certo punto era saltato fuori quel saggio da scrivere, e ne avevo parlato con Piero perché mi servivano gli spartiti di Anime salve che – caso raro – lo stesso Milesi aveva revisionato, garantendomeli privi di tutte quelle trasposizioni, semplificazioni, facilonerie, svarioni, che la storia della popular music e della sua editoria ha consegnato ai poveri musicologi. Avevo giurato che non avrei scritto nulla su “’ndea-oò”. Dato che la propensione al segreto di Piero non dev’essere superiore alla mia, Fabrizio era stato informato del saggio che dovevo scrivere su di lui. Così ci spiavamo a distanza, attraverso Piero, messaggero d’amore. Ma probabilmente De André sapeva del saggio anche attraverso altri canali: i curatori del libro e l’editore (due simpatiche editrici, per la precisione). Era, nell’insieme, una situazione abbastanza insolita: scrivere su un autore che è a sua volta informato di quello che si sta facendo, con l’idea che chi ha commissionato il lavoro sia preoccupato che all’autore non dispiaccia quello che si sta scrivendo. Situazione insolita, ma non unica: succede – ad esempio – quando si scrive un programma di sala per un’opera di un autore contemporaneo. Mi era capitato una dozzina di anni prima, con Leonard Bernstein e la sua A Quiet Place And Trouble In Tahiti, eseguita per la prima volta alla Scala. Lo ricordo non solo perché forse, indirettamente, ero stato chiamato a scrivere su De André per quel libro anche perché ero lo stesso musicologo con interessi popular che aveva scritto su Bernstein, ma soprattutto per le non poche affinità fra i due musicisti: la capacità di essere vicini alle “giuste cause” pur vivendo in una classe agiata (Bernstein per questo si vide appioppare la definizione di “radical chic”, termine coniato per lui da Tom Wolfe in un articolo famoso, a proposito di un cocktail party organizzato da Bernstein in favore del Black Panther); l’attenzione anche musicale agli emarginati e alla loro cultura (basta citare West Side Story); un rapporto a viso aperto con la morte e con la sua presenza nella vita (era l’argomento centrale di A Quiet Place, opera che si apre e si svolge in una funeral home, come il film Il grande freddo che è dell’anno prima). Bernstein si era letto il manoscritto del mio saggio, e mentre lavoravo a quello su Fabrizio mi domandavo se anche lui me l’avrebbe commentato a matita, sottolineando le imprecisioni e marcando con punti esclamativi le affermazioni condivise. Non avvenne, anche se sono certo che De André non abbia aspettato che il libro fosse stampato per leggere quello che era stato scritto su di lui. Così arriva il giorno della presentazione, e tutto fila via “con stima”, come Fabrizio mi scrive nella dedica sul libretto della copia di Anime salve che mi ero portato dietro (regalo di Piero). Devo dire che ci restai un po’ male, forse perché attraverso i racconti di Milesi mi ero finto una conoscenza, non dico un’intimità, che evidentemente era tutta mia. Avendo passato settimane ad ascoltare tutti i dischi di De André, appuntandomi to16

nalità, schemi armonici, l’estensione della sua voce, avevo quella familiarità fasulla dello studioso, dello studente, che pensa di essere entrato nella vita dell’oggetto del suo lavoro (non importa che sia Bach, Picasso, o Kubrick), mentre di fatto rimane un perfetto estraneo. Insomma, non gliene era importato granché del mio saggio, a Fabrizio; chissà poi se l’aveva letto davvero. Non molto tempo dopo apro un giornale e trovo un’intervista a De André. “Franco Fabbri dice che non sono un musicista”, c’è scritto.11 Ah, guarda un po’. Ma io non l’avevo detto. Avevo scritto che il processo attraverso il quale un musicista come De André arriva a produrre un testo (inteso come ciò che noi percepiamo, l’insieme di musica e parole, l’opera) è diverso da quello che caratterizza la pratica della musica colta dal Rinascimento a tutto il Novecento: non è un lavoro di scrittura di una partitura. E l’avevo scritto come premessa teorica, per giustificare la scelta dell’oggetto di studio: le registrazioni, i dischi, non gli spartiti, e nemmeno i testi (qui intesi come la stesura scritta dei versi delle canzoni). Mettevo in guardia contro gli errori degli spartiti, che non sono degli originali ma trascrizioni spesso totalmente infedeli, e avevo bene in mente la relazione a un convegno di una stimatissima studiosa mia amica, che aveva tratto conclusioni nella sua analisi di una canzone dei Beatles da una stesura del testo dove mancavano tutte le ripetizioni, quindi completamente sviante rispetto alla struttura della canzone nella sua forma originaria, quella che si può ascoltare dal disco. Si possono, si devono studiare le partiture di Bernstein, di Sciarrino, sia pure tenendo conto (secondo una pratica che si studia e si tramanda) di come una partitura scritta poi suona, in diverse interpretazioni. Ma già un compositore come Nono pone dei problemi, da questo punto di vista (o meglio, di ascolto). Bisogna proprio ascoltarlo, non vedere solo le sue partiture – quelle dell’ultimo periodo – schematiche e stenografiche. Per non parlare del jazz, di musicisti come Charlie Parker. O delle musiche etniche, di una sousta del Dodecaneso. Avevo usato proprio questi esempi.12 La partitura non fa la musica, e non fa il musicista. Quindi – sostenevo – la musica di un compositore che non scrive anticipatamente sul pentagramma la si studia ascoltando le registrazioni. E Fabrizio De André è, in quanto musicista, uno di questi compositori. Un sunto forse banale, ma necessario, di quanto gli etnomusicologi teorizzano dai tempi in cui Bartók e Kodàly se ne andavano in giro con il loro fonografo, e di quanto è stato nuovamente ribadito da trent’anni di popular music studies. Perché Fabrizio dicesse in quell’intervista che non lo consideravo un musicista in un primo momento mi sfuggiva. Ma era un problema di categorie. Un problema di come le categorie si formano, a partire da convenzioni, prototipi, “arie di famiglia”, tutti quei fenomeni di cui si occupano gli psicologi cognitivi e gli studiosi di semiotica. Come notano quegli studiosi, i processi attraverso i quali la nostra mente costruisce tipi, classi, categorie, sono oscuri e disomogenei: il modello dei taxa, 17

Il suonatore Faber

le classificazioni delle scienze naturali, non si estende al di là di quel campo molto formale di applicazione. I ragni sono aracnidi, classe che a sua volta appartiene agli artropodi, una cui sottoclasse (diversa dagli aracnidi) è quella degli insetti. Ma per le “categorie folk” della nostra mente, specialmente in certe circostanze (quando si deve avvisare un amico che ha un “grosso insetto” sulla spalla) un ragno può benissimo essere un insetto. 13 Sarebbe comodo che classi e categorie si formassero tutte allo stesso modo dei taxa, ma non è così. Ad esempio, c’è un consenso abbastanza generalizzato che i cantautori (categoria comunque meritevole di analisi) siano dei “poeti”. A proposito di Fabrizio De André questa estensione è largamente accettata, e lo stesso libro che contiene quel saggio su Fabrizio come musicista e cantante suggella l’ipotesi affidando l’introduzione a Mario Luzi. Ora, non c’è chi non veda che tra la pratica di un poeta che scrive poesie e un autore di testi di canzoni, e tra le rispettive modalità di ricezione dei loro lavori, ci sono differenze non minori, non più trascurabili di quelle tra un musicista popular e un compositore colto.14 Ho ancora vivido il ricordo della bocca spalancata di due gentili italianiste, partecipanti a un convegno universitario su De André a un anno dalla morte, 15 mentre Piero Milesi spiegava che in una fase già avanzata della realizzazione di Anime salve Fabrizio in certe canzoni cantava più volte sempre la stessa strofa, perché non aveva ancora finito il testo. Milesi lo raccontava in risposta a una domanda con intenzioni filologiche, volta a scoprire se dei testi consegnati al disco esistessero delle varianti. Be’, non proprio quelle che le studiose si aspettavano! Ovviamente per me – ma forse non per le italianiste – Fabrizio, a parte “tre o quattro occasioni”,16 era solito comporre prima la musica che le parole, e in attesa di aver finito il lavoro di “adattare un testo a una musica”, 17 usava una parte dei suoi versi per riempire i vuoti. Immaginatevi un poeta letterato che invitato a leggere una poesia incompiuta (ammesso che questa situazione fantascientifica possa mai presentarsi, anche solo negli uffici del suo editore) reciti due o tre volte gli stessi versi, perché tanto le strofe ancora da scrivere suoneranno uguali! Comunque, l’argomento della distinzione fra il lavoro del poeta letterato e quello del cantautore è stato sollevato varie volte da critici e da poeti (e da cantautori), in modo molto convincente, e non è necessario entrare di nuovo nei dettagli. Basta solo ricordare la funzione – evidentemente non trascurabile – della musica, e l’abisso percettivo che separa la memoria uditiva dal percorso dell’occhio sulla pagina. Forse si è parlato meno del contesto nel quale i versi scritti per la pagina e quelli scritti per una canzone sembrano più apparentati, la recitazione pubblica. 18 Per alcuni questa è l’occasione in cui dimostrare che i versi delle canzoni in forma sonora stanno insieme, hanno consistenza e persuasività, come e di più di quelli delle poesie; per 18

altri – fra i quali mi includo – sono i momenti in cui più penosamente si sente per gli uni la mancanza del respiro della musica, per gli altri la mancanza della chiarezza della pagina. Agli argomenti già noti, vorrei aggiungerne uno senz’altro affascinante, che mi è stato offerto da un incontro con Oliver Sacks, il neurologo autore di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (che era un musicista, tra l’altro) e Risvegli. Avendogli chiesto di raccontarmi altri casi clinici che avessero attinenza con la musica, Sacks mi ha fatto conoscere un suo saggio su La musica e il cervello, dove tra l’altro si legge quanto segue. “È noto fin dalle prime descrizioni dell’afasia un secolo e mezzo fa che sebbene le capacità linguistiche possano essere perdute o gravemente compromesse, le capacità musicali, e quella di suonare o cantare, di solito vengono conservate. Inoltre, se un paziente afasico canta una canzone, alcune delle parole o anche tutte possono essere recuperate insieme alla melodia, possono essere portate da questa, e non vengono perdute. Quindi la musica può dare accesso al linguaggio anche quando a questo non si può accedere direttamente. Questa possibilità di cantare parole, anche quando uno non è in grado di pronunciarle, invariabilmente dona piacere, e una sensazione di non essere disabili in modo così devastante. La domanda immediatamente successiva è se le parole incorporate in una canzone possano essere scorporate e restituite all’uso normale del parlato. Le opinioni qui si dividono, se non altro perché ci sono tante differenze fra i pazienti, ma ce ne sono alcuni, senza dubbio, ai quali con questo sistema possono essere ricordate, per così dire, parole e costruzioni grammaticali che avevano ‘dimenticato’. Con la reintroduzione a queste, dapprima attraverso una canzone, questi pazienti possono iniziare a riguadagnare le vecchie vie di accesso o a costruirne di nuove al loro posto. La musica qui è particolarmente importante come primo passo cruciale, per aprire una porta o iniziare una sequenza che poi può essere aperta a un miglioramento spontaneo e alla terapia della parola.”19 Dunque, la pronuncia delle parole di una canzone avviene a livello neurale attraverso “vie di accesso” (come le chiama Sacks) diverse da quelle del parlato normale, tanto che quando queste vengono danneggiate la “via musicale” può essere usata come alternativa e come base per ricostruire i percorsi “normali”. La testimonianza del neurologo riguarda la pronuncia, non l’ascolto, ma credo che sia abbastanza forte da suggerirci che sostituire a una melodia cantata la semplice pronuncia del testo “incorporato” (embedded, dice Sacks), sia qualcosa di più, e di più arbitrario, che una semplice messa tra parentesi della musica. Ma, comunque, non voglio porre una questione di valore, né discuto dell’uso estensivo, metaforico del termine “poeta”, che può applicarsi a qua19

Il suonatore Faber

lunque artista e anche – come pure è accaduto – ad artigiani, atleti, calciatori. Rilevo soltanto che a livello di una competenza “colta” o puramente professionale la questione dell’identificazione fra cantautori e poeti è tutt’altro che pacifica. Eppure, nel senso comune, sembra trionfare. Viceversa, che un cantautore sia un musicista (nemmeno più specificamente un compositore: un musicista) non è mai stato messo in dubbio a livello “colto” da nessuno, neppure da quelli – esistono ancora – che quando pronunciano la parola “musica” sottintendono la musica scritta da compositori europei fra il XV e il XX secolo, ma possibilmente in paesi di lingua tedesca, fra gli anni della giovinezza di Bach e l’anno della morte di Wagner, tre secoli scarsi.20 Eppure, evidentemente, esiste un luogo comune contrario, secondo il quale un cantautore musicista non è. Talmente radicato, che perfino un uomo colto (senza virgolette) come De André, di fronte all’argomentazione in fondo non particolarmente sottile che il lavoro di composizione di una partitura sia qualcosa di diverso da quello di un musicista autore di canzoni negli ultimi decenni del Novecento, si convince che sotto sotto si voglia dire che lui non è un musicista. E dire che perfino la SIAE chiama “compositore” uno che dia prova di saper scrivere una parte per pianoforte, ma da decenni non nega il diritto di dichiararsi autore integrale di una composizione musicale anche a chi non sappia nemmeno trascrivere una melodia. E come mai? Io penso che c’entri proprio un’“aria di famiglia”, ma non nel senso di quelle somiglianze vaghe e allo stesso tempo indubitabili, genetiche, che gli psicologi cognitivi mettono alla base di alcuni processi di categorizzazione. No, proprio un atteggiamento comune, di un ambiente, quasi una posa. Quel fenomeno per cui si scrivono libri e libri sulla canzone d’autore senza mai nominare una nota, un accordo, e in cui il riferimento preferito alla musica è che debba essere “umile ancella della parola”, programma nel quale si sono riconosciuti autori come Monteverdi, Schubert, Verdi, Janàcek, Nono e così via, tutti notoriamente non musicisti. Ma tale è la forza dell’equazione comune “cantautore uguale poeta” (e poeta uguale letterato), che avendo ovviamente a che fare con un curioso poeta che non solo canta e suona, ma passa notti intere a questionare con il malcapitato produttore di turno se spostare in avanti o indietro un “tic” di percussione di un trentaduesimo, allora per rimuovere l’enormità di questa prova, della presenza di questo lavoro eminentemente musicale, si deve teorizzare quello che secoli di storia della musica hanno dimostrato falso, e cioè che mettere in rilievo la parola, servirla umilmente, sia possibile solo rinunciando alle ragioni specifiche della musica, rinunciando a essere musicisti. Tutt’altro naturalmente. Anzi, è per questo, e non per polemica né per riconoscere tardivamente a Fabrizio quello che non ho mai disconosciuto, che sostengo che De André sia uno dei musicisti italiani più importanti del Novecento, indipendentemente 20

dalle categorie, dai generi, dalle regole del gioco. Insieme a Nono, Maderna, Puccini e altri grandi (compositori e interpreti). E a Morricone. E ad alcuni (pochi) suoi colleghi cantautori. A volte – devo dire – in condivisione con alcuni suoi coautori e produttori, e senza sminuirlo, così come non si sminuisce un autore in un’altra arte eminentemente collettiva del Novecento, il cinema, a ricordare il contributo degli attori, degli scenografi, dei costumisti, del direttore della fotografia, dell’autore delle musiche. Anche in questo senso avevo scritto che il lavoro di De André era diverso da quello di un compositore tradizionale, e varie volte poi ho sottolineato come il modo di procedere, di collaborare, di uno dei massimi compositori della nostra musica colta, Luigi Nono, assomigliasse nell’ultimo periodo molto di più alle pratiche della popular music che al sogno demiurgico di suoi colleghi come Stockhausen o Boulez. Adesso che i musicologi si applicano alla ricostruzione di possibili partiture per opere che nascevano dall’interazione fra schizzi, discussioni con tecnici ed esecutori (i Vidolin, i Fabbriciani, Abbado, Schiaffini, Kremer), prove ed errori, tutto questo – sia pure con le necessarie distinzioni – è diventato patrimonio comune. Ma non era così allora, quando Nono quelle musiche le stava realizzando, e posso testimoniare direttamente come osservare (nel 1984) che molte delle apparecchiature che venivano utilizzate per il Diario polacco n. 2 o per Prometeo fossero le stesse che si trovavano negli studi di registrazione popular, venisse preso – negli ambienti della musica colta – come una superficiale stranezza. E ho già ricordato altrove l’episodio del compositore e del musicologo che entrano in casa mia mentre sto lavorando con un digital delay, e sbottano in un: “Ma questo è il live electronics del Gigi!”21 Chiunque abbia avuto a che fare con queste macchine e con le tecniche collettive di produzione che le sottintendono ne ha molti di aneddoti come questi da raccontare. La vita produttiva di De André e dei suoi collaboratori ne è piena, 22 ma anche quella di Nono. A volte sono poco più che episodi buffi, ma sono sempre rivelatori di qualcosa di più profondo: di un’estetica e di un’etica del suono e del lavoro musicale. E perché il confronto fra De André e Nono non appaia come un tentativo di legittimare il cantautore alla luce riflessa del compositore, o di “umanizzare” il compositore nel riverbero della popolarità del cantautore, vanno anche sottolineate le differenze: quasi paradossalmente, mentre l’ultimo Nono concepisce il rapporto con i suoi collaboratori in modo molto aperto, quasi ai limiti dell’indeterminazione e del “lasciar accadere” che era nel progetto del suo antico avversario John Cage, tutti i resoconti sull’ultimo De André ce lo ricordano come scrupolosamente attento anche al minimo dettaglio, capace di ripetere una frase infinite volte sempre con la stessa intenzione, con le stesse increspature della voce, e disposto a far l’alba in accalorate controversie su minuzie interpretative. 21

Il suonatore Faber

Tua madre ce l’ha molto con me perché sono sposato e in più canto però canto bene e non so se tua madre sia altrettanto capace a vergognarsi di me. (Giugno ’73)

Delle qualità musicali di Fabrizio De André, quella più appariscente – e quella di cui era certo più consapevole – è legata alla voce, al canto. Per rendersene conto non c’è che da fare un esercizio apparentemente semplice: provare a cantare una delle sue canzoni. Anzi, a cantarla e suonarla, come faceva lui. È molto difficile. Perché per quanto la metrica dei versi in moltissimi casi non sia teoricamente in contrasto con quella della musica, per quanto gli accenti degli uni e dell’altra sulla carta coincidano (e così naturalmente avviene sugli spartiti, che diligentemente allineano ciò che sembra fatto per essere allineato), ci si rende conto che nell’originale di Fabrizio, e in qualsiasi realizzazione che abbia un minimo di senso, la voce galleggia sull’accompagnamento, anticipando, ritardando, tuttavia senza mai suggerire l’impressione di un rubato, di un artificio interpretativo. Difficile pensare a una prova migliore di quanto siano inadeguati gli spartiti per capire la musica di De André o di qualsiasi altro autore popular. Sia chiaro, questo non significa che la musica che nasce in forma scritta sia invece da eseguire metronomicamente, salvo “artifici”. Lavoro vertiginosamente complesso, quello di chi interpreta una pagina scritta. Ricordo un seminario di studi sull’interpretazione, dedicato a uno dei più noti Preludi di Claude Debussy, La Cathédrale engloutie. Musicologi, pianisti, studenti, ascoltavano insieme numerose esecuzioni di quella composizione, seguendola sul pentagramma. Qualunque fosse il celebratissimo esecutore, si arrivava a un certo punto a una sezione che appariva curiosamente sfuocata all’orecchio, come se la pagina nascondesse un segreto che nemmeno i Cortot o i Benedetti Michelangeli avevano saputo decifrare. Poi, dea ex machina, arrivò l’organizzatrice del seminario, Rossana Dalmonte, con una registrazione tratta da un vecchio rullo perforato. Era un’esecuzione dello stesso Debussy. Approssimativa (Debussy era un cattivo pianista, si dice). Ma quella sezione intermedia, per incanto, andava a fuoco, scorreva con assoluta evidenza e necessità. Debussy la suonava con un tempo diverso da quello di tutti gli altri interpreti, come se ignorasse quello che lui stesso aveva scritto.23 E funzionava! Per un istante quella registrazione aveva portato in scena lo storico tabù di ogni discussione sull’interpretazione musicale: l’intenzione dell’autore. Ecco, Debussy aveva scritto in un modo, ma aveva inteso in un altro.24 Quando ascoltiamo un disco di De André, siamo messi direttamente a contatto con la sua intenzione. E la sua intenzione è quella di un flusso melodico che si distende sopra l’accompagnamento privilegiando l’intelligibilità e 22

l’espressività del testo, e proprio per questo intrecciando con gli altri elementi della struttura musicale relazioni più complesse. Come ho già detto, l’intento di dare risalto al testo viene perseguito non rinunciando alle ragioni della musica, ma intensificandone le relazioni strutturali. Questo appare evidente fin dalle prime canzoni, dai cosiddetti “peccati di gioventù”. Si potrebbe confrontare La canzone dell’amore perduto con quello che era molto probabilmente il suo modello: non il Concerto per tromba di Telemann – dal quale “prende a prestito” in modo molto palese sia il tema della strofa che quello dell’inciso – ma la già citata My True Love di Jack Scott, il cui “giro di Do” aveva probabilmente suggerito spunti ad altri musicisti italiani in quegli anni.25 La ballad di Scott è costruita in modo elementare, con gli accenti del verso che corrispondono pedissequamente alla scansione armonica: “I prayed to the Lord to send a love, he sent me an angel from heavens above”, eccetera. Tutto il fascino si concentra nella voce grave di Scott (molto da De André, o viceversa) e nell’ipnosi dell’arpeggio che l’accompagna. Fabrizio non ricalca lo schema, iniziando in levare, anche se la scansione di “vio-le” e di “mai, mai e poi mai” con un accenno di birignao presleyano rimanda ostentatamente al modello. Eppure tutto è riscattato dal grande respiro dell’arco melodico e del verso, dalle irregolarità; a voler essere maligni (ma se no, perché De André stesso le avrebbe chiamate “peccati”, queste canzoni?) Brel contraddice, contempera Scott e Presley. Del resto, l’integrazione fra modelli francesi e americani (nel caso di De André anche post Dylan, nel caso degli altri sostanzialmente presleyani) contraddistingue – spesso molto felicemente – tutta la prima generazione dei cantautori italiani, e man mano che la carriera di Fabrizio avanza e si svolge in parallelo a quella dei cantautori della seconda generazione, la presenza nella sua formazione di un Brassens, di un Brel, dà nettamente l’impressione di un valore, di uno scatto in più. È certamente una dote musicale personale di De André quella di saper muovere la voce con tanta sicurezza e libertà nelle trame dell’accompagnamento, ma è altrettanto indiscutibile che le sue fonti, il materiale a partire dal quale si è esercitata questa dote, siano francesi. Magari (come appare evidente ascoltando Brassens) a partire dal jazz, completando un cammino tortuoso che rende conto della consistenza eterea di stili e generi musicali. Insomma, noi apprezziamo in Fabrizio De André, cantautore italiano, la stessa libertà “quotidiana” nella dizione di un testo che gli americani degli anni ’40 trovavano rivoluzionaria nel crooning di Frank Sinatra, ma che vent’anni dopo negli USA è vista come uno stile vecchio, al quale si oppone il singulto ritmato del rock; e De André quella libertà del verso ovviamente non la prende da Sinatra, non la prende dall’America (da cui trae invece altre suggestioni musicali), non la prende nemmeno dai brasiliani della bossa nova, che pure hanno teorizzato un canto perfino stonato (desafinado) purché rispettoso del respiro naturale della 23

Il suonatore Faber

parola, ma la deriva dagli chansonniers francesi, specialmente da uno (Brassens) che riesce a mettere insieme il ritmo e gli accordi della tarantella con la chitarra jazz del gitano Django Reinhardt. Facile, no? Questa caratteristica del canto di Fabrizio è evidente fin dalle prime canzoni, e costituisce la tipica croce del chitarrista dilettante al quale la compagnia della spiaggia richieda, o esiga, La canzone di Marinella. Perché sull’accompagnamento elementare e molto scandito – una specie di bolero modellato sul Deguello della colonna sonora di Un dollaro d’onore (Rio Bravo di Howard Hawks, 1959) – la voce si prende tutte le libertà possibili, a cominciare proprio dall’inizio (provate a mettere su il disco e a individuare su quale movimento della battuta inizia “Questa di Marinella è la storia vera...”). Anche perché il verso – così come lo pronuncia De André – potrebbe suggerire (non sempre) un andamento ternario, ma l’accompagnamento insiste sulle sue quartine (con una pausa al secondo posto). E ovviamente la compagnia della spiaggia canta in coro prendendosi tutte le libertà di Fabrizio e anche qualcuna in più, e il povero chitarrista arranca, sempre incerto se essere in anticipo o in ritardo. E La canzone di Marinella, che da oltre quarant’anni è diventata patrimonio della tradizione orale di generazioni di italiani, sarebbe – se fosse scritta – una pagina di difficilissima interpretazione, ma tantissimi la cantano come se niente fosse (con l’unica eccezione, probabilmente, dell’occasionale chitarrista di accompagnamento). Se andiamo all’estremo opposto della carriera di De André, all’album Anime salve, troviamo le stesse qualità, ormai distillate dall’esperienza e dalla consapevolezza. Ho visto Nina volare, per un chitarrista, non presenta difficoltà maggiori di Marinella, e magari offre qualche soddisfazione in più per l’inciso solistico (contributo di Ivano Fossati, a quanto pare). Ma cantare con la stessa intenzione di Fabrizio, mantenendo il pur semplice ritmo di habanera, è un’altra questione. E se l’attacco di Marinella potrebbe essere un buon test a un esame di dettato musicale o di solfeggio, i versi di Smisurata preghiera “...e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli / con improbabili nomi di cantanti di tango...” non sono da meno. Di nuovo, basta provare. In un’occasione pubblica,26 Ivano Fossati una volta mi ha spiegato il “segreto” di quel suo particolare modo di dividere il verso, del quale (per ovvie ragioni) c’è qualche traccia anche nel De André di Anime salve. Una volta, affascinato da certe poliritmie vocali sudafricane che un suo produttore gli aveva fatto ascoltare, Fossati ha chiesto di cantare sopra una base ascoltando non la sezione ritmica effettiva, ma una traccia “fantasma” (esclusa poi dal missaggio), naturalmente sincronizzata con la base, ma con una divisione diversa. In questo modo, il canto si appoggiava sugli accenti della traccia “fantasma”, risultando così suggestivamente spiazzato (seppure a tempo) rispetto alla ritmica udibile nel missaggio finale. In seguito Fossati ha imparato a dividere in quel modo inconsueto senza bisogno 24

dell’aiuto della ritmica “fantasma”. Sia pure attraverso una testimonianza indiretta, ma molto vicina a De André, comprendiamo così quanto la questione eminentemente musicale della pronuncia del verso sia una componente fondamentale del bagaglio tecnico-espressivo dei cantautori, e oggetto di sperimentazioni. Ai tempi di Anime salve Fabrizio De André aveva un’esperienza almeno trentennale di queste tecniche, oltre a quello che si suole definire un talento innato; nonostante questo (o proprio per questo) attraverso la testimonianza di Piero Milesi sappiamo quanto puntiglio Fabrizio investisse nella realizzazione vocale di ogni singolo verso. Non si può trascurare, poi, la pronuncia in senso stretto, la dizione. De André ha una dizione da italiano colto, accentuata talvolta da qualche vezzo (una g o una c troppo addolcita, qua e là), ma senza manierismi attoriali o toscanismi accademici. Ci si potrebbe arrischiare a dire che insieme a qualche altro cantautore (da Endrigo e Tenco a Fossati) abbia contribuito alla formazione di quella koinè (anche fonetica) che in Italia ha soppiantato il modello dell’annunciatore radiofonico. In particolare, da quando la liberalizzazione dell’etere a metà degli anni ’70 ha polverizzato in mille inflessioni regionali l’idea che potesse sussistere in Italia un equivalente del BBC English, alcune icone vocali hanno conservato per il pubblico l’impronta sonora del “buon italiano”: qualche vecchio politico, qualche scienziato e letterato, i doppiatori del cinema, inevitabilmente uomini di teatro come Carmelo Bene, Vittorio Gassmann, Giorgio Strehler, industriali e manager come Gianni Agnelli e Carlo De Benedetti, ma soprattutto i cantautori. Nonostante oggi ci siano i segni di una crescente compromissione anche linguistica tra economia, mass media e politica, e appaiano tracce di un italiano-Mediaset e un italiano-intellettuale d’opposizione (mi si passi lo schema rozzo), il nostro Paese non ha mai conosciuto le profonde divisioni sociolinguistiche dell’Inghilterra, dove la pronuncia più che connotare addirittura denota la provenienza sociale e culturale. Ricordo la mia sorpresa, anni fa, quando manifestai il mio apprezzamento per Peter Gabriel a un amico inglese di gusti musicali che ritenevo molto vicini ai miei, e mi rispose più o meno: “Come fa a piacerti, con quella pronuncia da liceale perbenino?!” Ecco, non credo che Fabrizio De André sia mai incorso in critiche di questo tipo: perlomeno fino a quando è restato fra noi (non ci sono – purtroppo – garanzie per il futuro) parlare un italiano “perbene”, con una buona dizione, non è stato visto come un segno di presunzione, ma come il normale contrassegno di chi ha qualcosa da dire. Un altro aspetto importantissimo del “cantar bene” di De André è la qualità stessa della voce, sotto il profilo del timbro e del registro. Insieme alla pronuncia (nei vari sensi che abbiamo esaminato), costituisce quell’entità primaria, inconfondibile, che fa dire a Umberto Fiori:

25

Il suonatore Faber

“...più che la mediatrice di un’opera, la voce – questa voce precisa, insostituibile – è qui la vera e più profonda sorgente di quell’opera, la precede (a dispetto delle apparenze) e la fonda. Estremizzando, si potrebbe affermare che ciò che De André ha davvero creato è la sua voce, di cui testi e musiche costituiscono – per così dire – le condizioni d’ascolto. Quando ascoltiamo Preghiera in gennaio (1967) o Il pescatore noi ascoltiamo – attraverso parole e musica – una voce.”27 Una voce, si può aggiungere, fissata in una registrazione, della quale ogni dettaglio è stato per quanto possibile progettato, e poi riesaminato, perfezionato, cosicché (specialmente negli ultimi album, tecnologicamente più elaborati) possiamo essere certi che anche gli elementi più transitori, un’increspatura, uno schiocco, una risonanza, siano stati vagliati e – alla fine – approvati. Il che renderebbe tutt’altro che estremistica l’ipotesi di Fiori, se non fosse che poi – proprio in un caso come quello di De André – le canzoni assumono (“dopo” la voce, è vero) anche una vita autonoma, forse nemmeno tanto marginale, e la registrazione simula un’interpretazione. Così, mentre siamo convinti che l’opera dal titolo La domenica delle salme sia precisamente quella registrazione che si ascolta sulla traccia numero 4 dell’album Le nuvole, e in quell’oggetto sonoro la voce è davvero il centro dell’attenzione, la stessa registrazione con la stessa voce ci si presenta – sia pure illusoriamente, se vogliamo – anche come l’interpretazione di un testo, suggerendoci con autorevolezza (non diversamente da quel rullo di Debussy) le intenzioni di Fabrizio De André, alle quali potremmo attenerci, o che potremmo disattendere, se volessimo anche noi cantare quelle stesse parole con quella stessa melodia. In questa prospettiva, la voce è invece – in modo più tradizionale – uno strumento. Potrebbe essere utile, forse, considerare le due prospettive (la voce che ci si offre attraverso musica e parole, o la musica e le parole che ci si offrono attraverso la voce) come complementari. Ci sono ragioni per ritenere che questa complementarità (o, se vogliamo, ambivalenza) fosse anche nel pensiero di De André. Dice: “[...] Il canto deve in qualche maniera avere come obiettivo quello che anticamente aveva la musica cantata, che era di far guarire le persone. Quindi deve emozionare [...]. La mia voce poteva essere una voce da sciamano...”28 E qui sembra che non ci siano dubbi sulla primarietà della voce rispetto a musica e parole, ridotti a un ruolo di formula magica. Ma poco dopo aggiunge: “Che talvolta poi ne abbia approfittato anche in maniera sgradevole questo è altrettanto vero, nel senso che ho esagerato col colorire le note basse dove non ce n’era assolutamente bisogno, proprio per narcisismo, per far sen26

tire proprio queste basse, nel tentativo di sedurre (soprattutto me stesso). Me ne sono accorto non tanti anni fa. Però l’importante è accorgersene. Anche perché mi è stato detto, altrimenti, chissà, forse sarei andato avanti tranquillamente ancora a lungo...”29 Qui invece siamo alla funzione strumentale della voce. E se è vero che il rilievo sull’abuso delle “tonalità basse (affascinanti, seducenti evocative finché vuoi)”30 proviene da Mauro Pagani, che lo invita (per le canzoni di Creuza de mä) a cantare “davvero”,31 non sono sicuro che se ne possa trarre la conclusione a cui arriva Fiori, 32 di una contraddizione fra il “cantare davvero” (cioè secondo le regole del mestiere, in questo caso suggerite da Pagani) e il “cantare veramente” (cioè attingere alla verità attraverso il canto, come Fabrizio avrebbe fatto senza praticare il mestiere). A me sembra che fin dagli esordi De André sia riconoscibile – e si distingua anche nel panorama della canzone italiana – per capacità vocali, come intonazione, timbro, pronuncia, che per quanto non corrispondessero al mestiere tradizionale (impersonato, semmai, da un Claudio Villa) nondimeno sottintendevano una tecnica, anche molto raffinata. E tendo a credere che a un certo punto (sia pure per istigazione di Pagani) Fabrizio abbia capito che di certe risorse “naturali” della sua tecnica aveva fatto un uso eccessivo, narcisistico. Quel “canto bene” di Giugno ’73 risale a circa dieci anni prima di Creuza de mä, e contiene già il seme della successiva autocritica. Che le note basse fossero una specialità di De André non ci sono dubbi: “[...] Nella canzone d’esordio, Nuvole barocche, l’ambito è tra il sol della seconda ottava sotto il do centrale (sol2, il sol più grave della chitarra, al terzo tasto del mi basso) e il si bemolle appena sotto il do centrale (sib3, quello appena sotto la corda vuota si della chitarra); ne La canzone di Marinella l’ambito è sol# 2-do 4 (il do centrale del pianoforte); in Don Raffae’ (da Le nuvole) l’ambito è sol#2-si3 (il si che precede il do centrale del pianoforte), ma in Khorakhanè (da Anime salve) la nota più grave è un re 2 (quello che sta sotto il mi basso di una chitarra), e in Dolcenera la nota più acuta è il do#4.”33 E si potrebbe aggiungere l’elenco di canzoni nelle quali la nota più grave è il mi2, o una nota ancora più bassa: La città vecchia, La canzone dell’amore perduto, Fila la lana, Amore che vieni, amore che vai (re#2), Preghiera in gennaio, Marcia nuziale, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Cantico dei drogati, Inverno, Il ritorno di Giuseppe, Il sogno di Maria, Maria nella bottega di un falegname, Via delle croci, Un giudice, Il bombarolo, Via della povertà, Le passanti (mib 2), Morire per delle idee, Delitto di paese, Giugno ’73, Quello che non ho, Khorakhanè (re2), Disamistade.34 Mancano del tutto, come si vede, le canzoni di Creuza de mä e de Le nuvole, i dischi 27

Il suonatore Faber

prodotti con Mauro Pagani, anche se Jamin-a contiene un mi2 appena accennato, e La domenica delle salme (la canzone più vicina allo stile vocale del De André dei primi tempi) scende fino a un rispettabile fa2. Siamo comunque nel registro del basso profondo, anche se l’emissione di De André non è confrontabile con quella della voce operistica la cui estensione si spinge in giù fino alle stesse note. Ma catturata e amplificata dal microfono, la voce di Fabrizio mostra anche un corpo, una densità armonica, che i suoi produttori e tecnici del suono hanno spesso definito stupefacente. Possiamo anche elencare le canzoni nelle quali De André si spinge più in alto, oltre il do4 che rappresenta comunque un confine superiore per la voce di basso: La canzone di Marinella, Valzer per un amore (re4), Il fannullone, Il testamento, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (do#4), La collina, Il bombarolo, Voltalacarta, Coda di lupo, Andrea, Avventura a Durango, Una storia sbagliata, Titti, Franziska, Se ti tagliassero a pezzetti, Sidun (do#4), Sinàn Capudàn Pascià (do#4), Megu megùn, ’Â çímma, Monti di Mola (reb4), Dolcenera (do#4), A cùmba (do#4).35 Qui, come si vede, le canzoni del periodo di Pagani ci sono, e anche quelle delle collaborazioni con Francesco De Gregori e Massimo Bubola, durante le quali l’ambito vocale di Fabrizio si sposta verso il limite superiore. Ma non mancano anche canzoni presenti nell’altro elenco, che manifestano l’uso di una gamma molto ampia: dalle note più gravi a quelle più acute dell’estensione. Questo è un fenomeno molto interessante, di rilievo più ampio di quanto non appaia nei due elenchi che abbiamo visto, perché in tantissime canzoni di De André la nota più grave è appena sopra il mi2, e quella più acuta appena sotto il do4. È questo che mi ha spinto a definire Fabrizio, anche nel titolo del mio saggio del 1997, “il cantautore con due voci”. Non posso fare a meno di citarlo: “Ma l’aspetto forse più importante è il riferimento a una dialettica privato/ pubblico, intimo/esterno, che è connotata da quella tra una voce grave, ricca di armoniche, che risuona ‘dentro’ lo stesso ascoltatore, e una voce in un registro medio, più asciutta, necessariamente più ‘portata’. Tra l’altro, mentre in genere la preoccupazione più viva dei cantanti è quella di transitare da un registro all’altro senza discontinuità timbriche, per sua fortuna De André ha una specie di faglia nella voce, che separa molto distintamente le caratteristiche timbriche dei due registri. Non è necessario che ci siano riferimenti diretti alle parole delle canzoni e ai loro significati: conta che ci siano – in molte delle canzoni cantate da Fabrizio De André – due parlanti, anziché uno solo, e questo sì implica un’articolazione più ricca nei rapporti tra le parole e la voce che le pronuncia. Entrano in gioco, insomma, meccanismi di rafforzamento (la voce ‘pubblica’ che narra, quella ‘intima’ che commenta) o di contraddizione (la voce ‘intima’ che racconta, quella ‘pubblica’ che riflette). Un altro cantante e autore che ha proprietà vocali simili, anche se in altri registri e con 28

altre estensioni, è Peter Gabriel, che ha messo a frutto la dialettica tra vari parlanti anche ricorrendo ai cori e alla loro collocazione in uno spazio sonoro diverso da quello del solista (come in The Family And The Fishing Net, dal quarto album, 1982); accorgimenti che si ritrovano in varie canzoni di Creuza de mä, de Le nuvole, di Anime salve, dove la capacità di De André di costruire diversi parlanti, messa da parte nel decennio che inizia nella metà degli anni ’70, si ritrova e si articola ancora maggiormente.”36

Ragazzo straniero ha un disco d’orchestra che gira che gira che parla d’amore. Madamadorè ha perso sei figlie tra i bar del porto e le sue meraviglie. (Volta la carta)

Ci sono vari collegamenti fra questa caratteristica della vocalità di De André – un aspetto che potremmo definire interpretativo, strumentale, solo se non avessimo ragionato sulla primarietà della sua voce – e altri aspetti che a loro volta si sarebbe tentati di definire compositivi, se per converso non avessimo riconosciuto che questi invece spesso risultano degli strumenti al servizio del canto. Anzi, forse proprio da qui possiamo avere prove ancora più consistenti a favore dell’ipotesi che la voce sia l’elemento centrale non solo dal punto di vista della ricezione, di chi ascolta, ma anche sotto il profilo del processo creativo, di ciò che guida il musicista De André mentre fa nascere una sua canzone. Ad esempio, ci sono casi (come La canzone di Marinella, o La città vecchia) nei quali strofe musicalmente identiche o simili vengono riproposte all’interno della canzone all’intervallo di una terza minore sopra: da La minore a Do minore. È una transizione armonica (senza altra preparazione che un rapidissimo passaggio sulla nuova dominante, il Sol) non molto frequente, a differenza di quella canonica alla tonalità un tono sopra che si trova un po’ dappertutto nella popular music non solo italiana, e con sistematica insistenza nelle canzoni del Festival di Sanremo.37 Nei due casi citati, lo spostamento armonico ha certamente anche la funzione di evitare la monotonia, dato che le canzoni sono basate sulla ripetizione di un unico modulo strofico, che ne La città vecchia viene anche enunciato – parzialmente – in versione strumentale. In realtà, in Marinella c’è una variante (sulla quale rifletteremo più avanti), ma si tratta appunto di una variante, non di un inciso contrastante, o di un ritornello, o di qualcosa di sostanzialmente diverso dalla strofa-base. Quindi la transizione al Do minore offre un’apertura che rompe l’uniformità, ma il successivo ritorno al La minore evita la necessità di un’ulteriore transizione o modulazione, che sarebbe immotivata dallo sviluppo del brano (anche alla luce del testo che a quella musica viene “adattato”). Eppure, quello spostamento una terza 29

Il suonatore Faber

minore sopra svolge anche un’altra funzione: quella di muovere in su il registro vocale, offrendo alla voce di Fabrizio l’occasione di presentarsi con un timbro più chiaro. Ne La città vecchia il cambiamento di registro e di timbro corrisponde (nel testo) a un movimento dal singolare al plurale: prima la bimba che “canta la canzone antica della donnaccia”, poi i “quattro pensionati mezzo avvelenati”, prima il “vecchio professore”, poi “i ladri, gli assassini e il tipo strano”, quelli che “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. Ne La canzone di Marinella, forse, è più significativo il ritorno al registro più grave che il passaggio a quello più acuto: “E c’era il sole e avevi gli occhi belli...”, in La minore (al termine di una strofa in Do minore), apre il racconto della seduzione, per condurre alla conclusione tragica (in Do minore), e quando la canzone nuovamente tornerà in La minore, dopo l’esclamativo “...bussò cent’anni ancora alla tua porta”, sarà per il riepilogo. Come si vede, quindi, non c’è uno schema fisso, una “teoria degli affetti” che faccia corrispondere in modo biunivoco certe figure musicali a emozioni o significati codificati: ma è altrettanto evidente che le strategie emotive e narrative della voce e della parola di De André si appoggiano a strutture musicali riconoscibili. Torniamo a Marinella, e a quella variante alla quale abbiamo accennato. Ne La città vecchia la parte in La minore e quella in Do minore hanno una struttura identica: si tratta della ripetizione di due moduli strofici, ciascuno costituito da due semistrofe che sono quasi identiche salvo che per la conclusione (la prima finisce sulla dominante, la seconda sulla tonica: II-V, V-I). Lo strumentale che precede il passaggio al Do minore è una ripetizione della seconda semistrofa. In Marinella, ci sono due strofe in La minore e una sola in Do minore (il tutto ripetuto due volte, con il ritorno conclusivo ancora al La minore). La variante è nella seconda strofa in La minore di ciascun gruppo di due: là dove il testo dice: “Sola senza il ricordo di un dolore...” e “Furono baci e furono sorrisi...”. Qui la successione di accordi è I-IV-V-I (La minore, Re minore, Mi maggiore, La minore). Vediamo invece come si svolge l’armonia nella prima strofa in La minore e in quella in Do minore: I-IV-VIIb7 (V7)-(I)-(VI) I (La minore, Re minore, Sol 7, Do maggiore, La minore, oppure Do minore, Fa minore, Si bemolle 7, Mi bemolle maggiore, Do minore). Ho indicato il settimo grado abbassato (bemolle) perché nella scala minore armonica il settimo grado sarebbe alzato di un semitono: sol diesis in La minore o si naturale in Do minore, mentre qui è sol naturale o si bemolle. I lettori che non hanno nozioni formali di armonia (ma magari qualche dimestichezza con gli accordi sulla chitarra o su uno strumento a tastiera) abbiano la pazienza di seguirmi: verificheranno che quello che succede è molto semplice, nonostante i numeri romani e le parentesi. Dopo essersi svolta sul primo verso con un accompagnamento elementare (da La minore a Re minore, o da Do minore a Fa minore: primo e quarto grado delle ri30

spettive tonalità), sulle prime due sillabe del secondo verso (“che scivolò...”, “come l’amore rosso...”, “lui ti baciò...”, “nel fiume chissà come...”) la melodia va su una nota che corrisponde al sesto grado della scala (in La minore è un fa: la-si-do-re-mi-fa, in Do minore è un la bemolle: do-re-mi bemollefa-sol-la bemolle). Lì l’accompagnamento potrebbe andare su un accordo che contenga quella nota: magari non quello sul quarto grado (il Re minore, o il Fa minore), che è appena stato usato, né quello sul sesto grado (il Fa maggiore o il La bemolle maggiore), che è proprio basato su quella stessa nota, e che suona molto scontato e definitivo (chi ha uno strumento a portata di mano provi!). Ad esempio, si potrebbe usare l’accordo di settima diminuita sul settimo grado (in La minore, Sol diesis diminuito; in Do minore, Si diminuito), risolvendo poi sulla dominante (Mi, oppure Sol) e sulla tonica (La minore, oppure Do minore): è una soluzione ragionevole, scolastica. Fabrizio invece sceglie un’altra strada: va su un accordo di settima sul settimo grado abbassato (Sol 7 quando la tonalità è La minore, oppure Si bemolle 7 quando la tonalità è Do minore), e lo usa per passare alla tonalità relativa maggiore (Do maggiore, oppure Mi bemolle maggiore), della quale quell’accordo è la dominante. Da lì passa al sesto grado della nuova tonalità, che altro non è, poi, che il primo grado della tonalità di partenza (il La minore, o il Do minore). Questa apertura alla tonalità relativa maggiore, con successivo ritorno al minore, è molto suggestiva, e anche molto tipica di De André: tanto che quando nella seconda strofa di Marinella c’è la famosa variante (ecco perché ci interessava) e l’apertura viene meno, il tono risulta più dimesso. Ma ricorrere a questa apertura implica – in sostanza – abbassare il settimo grado, cioè usare la scala minore naturale e non quella armonica o melodica, cioè ancora usare l’arcaico modo eolico, eliminando o riducendo al minimo l’uso (sia melodico che armonico) della sensibile, cioè del settimo grado “non abbassato”. 38 È quello che avviene – per restare al nostro esempio – in Marinella: c’è qualche passaggio sull’accordo di dominante (costruito sulla scala armonica, quindi con la sensibile), ma nella melodia la sensibile (un sol diesis) si trova una volta sola, proprio nella variante (“vivevi senza il sogno di un amore...”, e “poi furono soltanto i fiordalisi...”). Anche ne La città vecchia i passaggi sulla sensibile sono rari, discendenti o di volta; ne La guerra di Piero, altra canzone in questo stile melodico-armonico tipico di De André, la melodia non passa mai sulla sensibile. Lo stesso avviene in Disamistade, che chiunque (ascoltando Anime salve) riconosce come un “ritorno” a questo stile. Ho osservato altrove che il ricorso ad atmosfere pre-tonali, modali, rinascimentali (i critici dell’epoca esageravano un po’, e dicevano “gregoriane”), è caratteristico di tutta una fase di trasformazione della popular music, non solo italiana: 31

Il suonatore Faber

“Le ragioni stanno, con ogni probabilità, nella ricerca di una diversità dalla produzione ‘leggera’ corrente, che era facile identificare con usurate successioni tonica-dominante e con l’invadenza nelle melodie della sensibile. Qualunque fonte, possibilmente autentica, che promettesse di limitare l’onnipresenza della dominante e di eliminare la sensibile, era benvenuta: il blues, il ‘pendolo eolico’ nel rock (La minore-Sol maggiore-Fa maggiore-Sol maggioreLa minore),39 le atmosfere modali derivate dalla musica folk, la musica pretonale. In questo senso, l’adozione di quelle armonie da parte di De André denota una scelta precisa e consapevole, e il fatto che nella musica popolare italiana siano rimaste un tratto stilistico suo personale ne fa in qualche modo lo scopritore di un blues rinascimentale, italiano.”40 Proprio così, anche se questo recupero (che in alcuni casi è accompagnato da ambientazioni omologhe nel testo) ha caratteristiche diverse da quello che fu tentato da alcuni compositori colti del primo Novecento, come Respighi e Casella, che cercavano ideologicamente nel passato le radici di una cultura musicale (soprattutto strumentale) italiana, scavalcando l’Ottocento dei grandi operisti. Eppure, non è curioso l’affetto di De André per quel Valzer campestre di Gino Marinuzzi jr., musicista cresciuto in quell’atmosfera (nato nel 1920, il padre fu direttore dal 1928 al 1934 dell’Opera di Roma, e dal 1934 al 1945 della Scala)? E quella Madamadorè che salta fuori in Voltalacarta, non viene dalla stessa filastrocca citata da Ottorino Respighi? Fabrizio De André, come è noto, arrivò a conoscere e mettere alla prova i suoi accordi preferiti, quelle soluzioni melodico-armoniche basate sul modo eolico, attraverso Georges Brassens. Lo dichiara in un’intervista a Fernanda Pivano, pubblicata sul “Corriere della sera” nell’estate del 1997. Brassens, a sua volta, aveva imparato quel “giro” – tipico della tarantella – dalla madre, di origine italiana. Ma anche senza bisogno della trasmissione familiare, gli accordi della tarantella sarebbero arrivati in Francia comunque; non solo attraverso le numerose traduzioni “colte” che ne furono fatte nell’Ottocento, ma anche perché le danze popolari italiane si erano diffuse in tutta Europa fin proprio dal Rinascimento. E la più popolare e diffusa di quelle danze, il passamezzo antico, ha questa tipica sequenza di accordi: I-VII-I-V / I-VII-IV-I (dove il settimo grado è quello naturale del modo eolico). In La minore sarebbe: La minore, Sol maggiore, La minore, Mi maggiore / La minore, Sol maggiore, La minore, Mi maggiore, La minore. “Aria di famiglia”, come può verificare chiunque sappia immaginarsi il suono di questi accordi, o abbia la possibilità di suonarli. Anche se non necessariamente l’impiego di una tonalità minore implica il ricorso a quelle particolari atmosfere armoniche, può essere interessante confrontare la proporzione delle canzoni in minore, o che comunque iniziano in minore, con quelle in maggiore, in tre periodi distinti della produzione di De 32

André. Arbitrariamente, ma forse con qualche ragione, ho suddiviso la carriera di Fabrizio in tre grandi archi temporali: dagli esordi al 1974 compreso, dal 1975 al 1981 compreso (periodo delle collaborazioni con De Gregori e con Bubola), dal 1982 al 1996 (da Creuza de mä, che esce nel 1984, ad Anime salve). Nel primo periodo le canzoni in minore sono più di due terzi (circa il 68%); nel secondo sono meno di un sesto (il 15%), nel terzo sono più di un terzo (il 35%), e insieme alle canzoni esplicitamente modali (né in maggiore né in minore) controbilanciano il 56% circa di canzoni in tonalità maggiore, che viceversa erano solo il 32% nel primo periodo, e salivano all’85% nel secondo. Il calcolo, naturalmente, tiene conto delle canzoni composte nei periodi indicati, non delle varie riedizioni (e anche nuove registrazioni) di canzoni composte in precedenza, che nella discografia di De André sono piuttosto numerose. L’idea che lo stile melodico-armonico di Fabrizio si evolva, con un abbandono delle atmosfere eoliche nel periodo De Gregori-Bubola e un ritorno successivo, è suffragata da queste cifre, per quanto valgano. E se a queste osservazioni aggiungiamo quelle precedenti sugli spostamenti dell’ambito vocale (che si restringe e va verso il registro acuto a metà degli anni ’70, rinuncia alle note basse durante la collaborazione con Pagani, e poi si amplia nuovamente verso il grave in Anime salve), abbiamo un quadro abbastanza chiaro delle trasformazioni musicali di Fabrizio De André. Io suonatore di chitarra io suonatore di mandolino (Se ti tagliassero a pezzetti)

Ma non c’è solo la voce, nei dischi di De André. Ci sono anche strumenti, che realizzano quella griglia ritmica sulla quale (o contro la quale) si muove la pronuncia di Fabrizio, che lasciano il posto alla sua voce nei diversi registri in cui si muove, che costruiscono lo sfondo armonico e le polifonie della cui atmosfera abbiamo appena discusso. C’è, tanto per cominciare, la chitarra, presenza dominante, significativa, specialmente se si considera che nell’arco della carriera di De André questo strumento – nel panorama più ampio della popular music – ha avuto periodi di grandissima fortuna ma anche di oscuramento, specialmente nella funzione di strumento che accompagna. E come ho cercato di far notare, non è che l’accompagnamento chitarristico delle canzoni di Fabrizio sia così scontato, anzi. Non meno degli altri aspetti musicali che abbiamo considerato, l’uso della chitarra marca le diverse fasi dello stile del nostro autore; e non solo la chitarra di Fabrizio, ma anche quelle dei molti e diversi collaboratori. A ripercorrere oggi la discografia di De André, uno degli aspetti più appariscenti è come le singole produzioni siano segnate dallo stile degli arrangiamenti ma anche – e in modo spesso determinante – dalla tecnica degli strumentisti. 33

Il suonatore Faber

Negli album di Fabrizio c’è la storia della popular music italiana, delle influenze che ha subito, delle sue idiosincrasie, delle mode. Sia pure con le trasformazioni che abbiamo studiato, quando la nostra attenzione si concentra sulla voce e sui comportamenti melodici e armonici notiamo una grande coerenza, il lungo cammino di un’unica persona. Ma se apriamo l’ascolto a tutto il panorama sonoro, eccoci di fronte a una vera folla: lì c’è il batterista beat con le sue rullate veloci, qui le percussioni rimandano alla world music, il frullo di un flauto ci ricorda che è esistito Ian Anderson, mentre un glissando ci fa pensare che un tempo i bassi senza tasti non si usavano, e un po’ dappertutto (tranne che negli album da Creuza de mä in poi) si ha quell’impressione non gradevolissima che i sessionmen italiani – anche i migliori – per molti anni non abbiano mai ascoltato davvero le canzoni che registravano, non le abbiano capite, e spesso le abbiano solo usate per infilare qua e là il piccolo trucchetto di diteggiatura che avevano appena rubato a un disco angloamericano. Passandola liscia con arrangiatori e produttori forse troppo tolleranti. Tra i rimpianti della perdita di Fabrizio, uno di quelli più amari è proprio questo: negli ultimi tempi era finalmente arrivato alla maturità un ambiente di musicisti davvero stilisticamente autonomi, con i quali De André avrebbe potuto fare nuove produzioni magnifiche, ma anche riprendere vecchie canzoni e restituirle alla stessa nitidezza senza fronzoli degli ultimi album. Ho ascoltato una Collina cantata e suonata splendidamente da Vittorio De Scalzi, con Mario Arcari all’oboe, e spero che prima o poi questa e altre riprese delle canzoni di Fabrizio illustrino con maggiore evidenza delle mie parole questa possibilità. Forse potrebbero occuparsene proprio gli arrangiatori, i produttori, i coautori che hanno lavorato con lui. Sono, in un certo senso, la parte di De André che continua a vivere. Perché, come ho ricordato più volte anche qui, nonostante l’aura di individualità implicita nella nozione di “canzone d’autore”, ogni compositore nella popular music è una personalità molteplice, un autore a più mani, indipendentemente dal riconoscimento formale, dall’attribuzione dei diritti: “Un autore sottopone una canzone, ma il lavoro dell’arrangiatore può trasformarla radicalmente; il fatto che l’intervento dell’arrangiatore venga sancito in una parziale titolarità dell’opera (e quindi con diritti d’autore) è spesso più il risultato di una negoziazione o di una dinamica di rapporti di forza che una valutazione automatica. A sua volta, un arrangiatore può lasciare spazi all’improvvisazione degli strumentisti, e la tecnica particolare, o il suono caratteristico di uno di questi interventi, può modificare l’arrangiamento o il risultato finale.”41 Ciò che ha fatto Fabrizio De André l’hanno fatto, in parte tutt’altro che trascurabile, anche Giampiero Reverberi, Nicola Piovani, Roberto Dané, Tony 34

Mimms, Massimo Bubola, Oscar Prudente, Mauro Pagani, Piero Milesi. Ed è confortante pensare che la responsabilità e il rigore dei lavori di Fabrizio si proietti anche su di loro e si irradi da loro. Ognuno ha caratteristiche e meriti particolari. È difficile confrontarli: anche sotto questo profilo Fabrizio De André pone – attraverso la sua musica e la sua biografia – problemi esemplari. Il problema dei generi e dei valori, tanto per cominciare. Percorrendo l’elenco dei collaboratori e coautori sembra di scandire il panorama – quasi completo – dei principali generi musicali italiani: da quando la canzone d’autore (che non si chiamava ancora così) si staccò dall’alveo della “musica leggera” anche appoggiandosi sull’artigianato impeccabile di arrangiatori come Reverberi, fino all’epoca in cui è stata invece la musica colta a cercare un rapporto con la popular music; in questo senso è stata una vera fortuna per tutti (c’entra anche il caso) che Fabrizio abbia incontrato proprio Piero Milesi, il meno ideologico dei compositori della sua generazione, uno disposto a restare nell’oscurità di etichette esoteriche americane piuttosto che rivendicare con proclami l’attenzione (che sarebbe stata meritatissima) di editori e istituzioni concertistiche di casa nostra. Ed è comunque interessante il rovesciamento di prospettiva che si realizza nel trentennio che separa e unisce le prime e le ultime produzioni: Milesi, compositore riconosciuto per quanto non integrato nell’ambiente istituzionale italiano, che si spoglia della sua autoralità e lavora minuziosamente al servizio del cantautore, come un normalissimo arrangiatore o tecnico del suono,42 mentre proprio i lavori di e con Reverberi – diplomato al Conservatorio ma fino ad allora autore di uno scolastico Concerto per pianoforte e orchestra – segnano uno sviluppo dall’artigianato ambizioso (da ascoltare il suo arrangiamento per la prima versione de Il cielo in una stanza di Paoli, tra bossa nova e fugati barocchi) alle prime affermazioni di “classicità” (il sottotitolo di Tutti morimmo a stento è, come si sa, Cantata in Si minore per solo, coro ed orchestra). La carriera di Giampiero Reverberi come compositore si svolge dopo, molto dopo, la collaborazione con Fabrizio. Un altro caso interessante è quello di Nicola Piovani. Venticinquenne, con alle spalle una collaborazione con Duilio Del Prete – premiata dalla critica – nel 1971 si trova a lavorare con Fabrizio a Non al denaro non all’amore né al cielo, come coautore e arrangiatore. Due anni dopo uscirà Storia di un impiegato. Il primo film con musiche di Piovani, N.P. Il segreto, di Silvano Agosti, è pure del 1971, e a quel periodo appartiene l’apprendistato con il compositore greco Manos Hadjidakis, autore di canzoni, musica da film, da camera e sinfonica, premio Oscar nel 1960 (migliore canzone) per Ta pedià tou Pireà, dal film di Jules Dassin Mai di domenica. “Hadjidakis era a Roma per dei lavori a Cinecittà” mi ha detto Piovani in una conversazione a Radio Tre43 “e io gli facevo da ‘negro’.” Hadjidakis nel 1970 compose e arrangiò un album, Reflections, insieme al New York Rock & Roll Ensemble, che 35

Il suonatore Faber

costituisce uno dei casi rari e isolati di progressive o art rock statunitense; uno dei componenti del gruppo era Michael Kamen, in seguito anche lui affermato autore di colonne sonore (Brazil, Die Hard, Arma letale). Così, attraverso Piovani, troviamo collegamenti non solo con la musica da film (come dovrebbe essere ovvio soprattutto ascoltando quegli album; ma il carattere cinematografico è evidente anche in altri periodi e con altri collaboratori: si pensi a Disamistade o al finale di Smisurata preghiera), ma anche con il nascente rock progressivo, ben prima delle collaborazioni con la PFM o con Mauro Pagani. Ed ecco che il lavoro di Piovani ci suggerisce un rapporto tra Fabrizio De André, il “poeta”, e un genere eminentemente strumentale come la musica da film, e con il più ambizioso e proprio per questo bistrattato (spesso ingiustamente) dei generi del rock: quel progressive che sembrerebbe agli antipodi della definizione di “canzone d’autore”, e che se invece fosse stato incluso da principio nella categoria di “musica d’autore” – come di fatto in molti casi meritava – sarebbe stato molto più facilmente inquadrabile nel campo di interessi di chi si interessava ai cantautori. E il collegamento può estendersi (i gradi di separazione, in musica, sono sempre pochissimi) verso la cosiddetta world music. È stata osservata più volte la contiguità fra musicisti che hanno avuto una storia importante nel progressive e la passione per le “musiche del mondo”. Il nome di Peter Gabriel è quello che viene in mente per primo, e dato che si tratta – non solo formalmente – di un cantautore, il collegamento dovrebbe essere stabilito. Tanto più nel nostro caso, se è vero (lo ha ricordato varie volte Milesi) che Fabrizio De André si presentava alle riunioni preliminari per Anime salve portandosi un disco di Gabriel, e suggerendo che quello era il tipo di sonorità che lo affascinava di più. Ma non è solo questo. È che da più parti si sottolinea come l’investimento (e anche lo sfruttamento) nella world music sia stato intrapreso a partire dalla seconda metà degli anni ’80 da parte di musicisti e produttori europei e americani che trovavano nelle “musiche del mondo” quel grado di originalità, di “autenticità” (fra cautissime virgolette), di non compromissione col mercato che il rock aveva smesso di avere. Non solo cinismo, quindi. E allora assume un senso il rapporto fra il lavoro di Fabrizio De André e Mauro Pagani (musicista progressive in seguito affascinato dalla musica ottomana, greca, mediorientale) e dischi come My Life In The Bush Of Ghosts di Brian Eno e David Byrne (1981, il manifesto del sound della world music, prima della world music), o il terzo album di Peter Gabriel (1982, con la sezione ritmica ghaniana in The Rhythm Of The Heat), che precedono di un paio d’anni Creuza de mä. Varie volte Mauro Pagani ha rivendicato il fatto che Creuza de mä anticipi la world music: ed è vero, nessuno parlava di world music nel 1984 (il termine – sia pure ovvio e già usato dagli etnomusicologi – venne adottato dai discografici nell’estate del 1987). Ma l’idea di una musica sincretica e sintetica, con elementi 36

di varie tradizioni etniche, suoni presenti, percussioni in rilievo, nasce con quegli album dei primissimi anni ’80, che fra i musicisti (e, credo, anche a casa Pagani e De André) circolavano e venivano studiati. Ma non fa niente, non è in discussione il valore del lavoro (molti dicono il capolavoro) dei due autori, o dell’autore collettivo De André. Anzi, forse è nella relazione molteplice con le sue fonti ciò che affascina di più, ciò che rende quell’album così particolare, così unico. È l’invenzione di una tradizione: qualcosa che nasce inequivocabilmente dall’influenza di opere e linguaggi eterogenei, ma che si pone in modo così autorevole come necessaria (deve esserci, una “musica mediterranea”) da presentarsi coerente, compatta, compiuta. C’è una fotografia che meglio di tante altre suggerisce il senso del lavoro di questo compositore a più mani, uno dei grandi del nostro Novecento, che si è incarnato in Fabrizio De André. Lo ritrae durante le prove di una delle tappe di una tournée, davanti a un ombrellone da spiaggia che cerca di gettare ombra su un set di percussioni (si intravede una conga, sovrastata da delle chimes, con numerosi microfoni ancora da piazzare). Impugna un bouzouki, e del suo viso si vede solo un ghigno indecifrabile, “una specie di sorriso”, perché gli occhi sono coperti da una maschera da Pulcinella. Fabrizio era genovese: non si capisce bene cosa c’entri, con Pulcinella. Il bouzouki è uno strumento greco di origine turca, che con le accordature alle quali lo ha sottoposto Mauro Pagani per trarne le bellissime canzoni in genovese (vero genovese?) sue e di Fabrizio soffre un po’, tant’è vero che tuttora Mauro e Cristiano (che ne ha ereditato uno) passano ore – anche durante i concerti – ad accordarlo. Eppure a questo caos di oggetti trovati, di sentimenti separati, di maschere e di persone, di musicisti innamorati di questo e di quello (e di tutto), Fabrizio De André ha saputo dare un suo ordine, creare delle regole del gioco, scegliere con ostinazione quello che doveva esserci e quello che stava fuori. L’anarchico De André, tutt’altro che senza principi, il poeta De André, tutt’altro che vago, ha frugato nel suo sacchetto, e ha scelto. Secondo me, comunque, erano biglie di vetro.

37

NOTE

1

Michele Serra, Il nuovo che avanza, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 58. È interessante notare che il racconto che precede “Jekyll” si intitola “Le bilie di vetro”. 2 Luciano Ligabue, Fuori e dentro il borgo, Baldini&Castoldi, Milano, 1997, p. 151. 3 L’apparizione delle biglie di plastica, più grandi e più leggere, segna in ogni caso una evoluzione nella tecnica di costruzione delle piste: quelle per le biglie di vetro o terracotta dovevano essere necessariamente di sabbia umida e compressa, mentre le biglie di plastica potevano correre anche sulla sabbia asciutta, polverosa. 4 Dato che la posizione e la condizione in cui si affronta la volata finale è determinante per il risultato, i due concorrenti dopo la partenza si fermano sul posto in equilibrio (è vietato poggiare i piedi per terra, pena la squalifica) e si confrontano in una sfida snervante e faticosa: il corridore che cede e si avvia per primo rischia di essere preso alle spalle e superato, dopo aver trascinato l’avversario nella sua scia. 5 George Lakoff, Women, Fire, and Dangerous Things. What Categories Reveal about the Mind, The University of Chicago Press, Chicago, 1987. 6 Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano, 1997. 7 Su questa quasi omonimia che mi perseguita si veda Franco Fabbri, Album Bianco2, Arcana, Roma, 2002, pp. 177-178. 8 La frase gioca sull’ambiguità tra “folk” come attributo di musica e folks, “gente”. 9 Romano Giuffrida, Bruno Bigoni, a cura di, Fabrizio De André. Accordi eretici, Euresis Edizioni, Milano, 1997. 10 Franco Fabbri, “Il cantautore con due voci”, in R. Giuffrida, B. Bigoni cit., pp. 155-167. 11 Intervista di Giacomo Pellicciotti, “la Repubblica”, 4 novembre 1997. 12 Franco Fabbri, “Il cantautore con due voci”, cit., p. 156. 13 Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco cit., p. 201. 14 Umberto Fiori, nel suo contributo al volume curato da Giuffrida e Bigoni (“La canzone è un testo cantato. Parole e musica in De André”, pp. 145-154), fa notare quanto sia diverso anche il lavoro di composizione dell’insieme musica-testo in una canzone rispetto a quanto avviene in ambito “colto”. 15 “Giornata di Studio nel primo anniversario della scomparsa di Fabrizio De André”, Università degli Studi di Trento, Dipartimento Scienze Filologiche e Storiche, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Trento, 11 gennaio 2000. 39

Il suonatore Faber

16 Lo ricorda De André stesso nella conversazione pubblicata in Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo. Da Carlo Martello a Princesa, Edizioni Associate, Roma, 2001 (quarta edizione), p. 59. 17 De André, in Doriano Fasoli, cit., p. 60. 18 V. Franco Fortini, La poesia ad alta voce, I taccuini di Barbablù, n. 6, Siena, 1986; Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984; Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna, 1992; Umberto Fiori, Deshumanizaciòn del arte, in Poesia ’98, Castelvecchi, Roma, 1999, che prende le mosse proprio dal dibattito sui cantautori-poeti; Umberto Fiori, Il Bianco e l’Augusto, in Poesia 2001, Castelvecchi, Roma, 2002. Ringrazio Umberto Fiori per questi suggerimenti bibliografici. 19 Oliver Sacks, “Music and the Brain”, in Concetta M. Tomaino, ed., Clinical Applications of Music in Neurologic Rehabilitation, MMB Music, Saint Louis, 1998, pp. 1-18. La traduzione è mia. 20 Mi rendo conto che per alcuni lettori questo riferimento può apparire perlomeno bizzarro. Sappiano allora che in questa definizione di “musica” potrebbero riconoscersi alcuni dei critici di musica “colta” di alcuni quotidiani italiani. 21 Franco Fabbri, “Zappa e l’elettroacustica”, in Gianfranco Salvatore (a cura di), Frank Zappa domani, Castelfranchi, Roma, 2000. 22 Sono diventati una delle attrazioni preferite nei convegni di studio su De André: come nel caso di “Belìn, sei sicuro? (al lavoro con Faber)”, tavola rotonda organizzata all’interno della manifestazione “... Signora libertà, signorina anarchia...”, Comune di Carrara, 5-6 aprile 2002. Lì hanno partecipato Piero Milesi, Mauro Pagani, Pepi Morgia, Massimo Bubola, Franz Di Cioccio, Reinhold Kohl. 23 Per la precisione, Debussy interpreta un cambio di metro (fra 6/4 e 3/2) mantenendo uniforme la durata di ogni singolo movimento della battuta, mentre la maggior parte degli esecutori mantiene uniforme la durata della nota di un quarto, come in casi simili (soprattutto in presenza di un metro “strano” come 6/4) di solito si sottintende. 24 Charles Burckhart, “Debussy Plays La Cathédrale engloutie and Solves Metric Mystery”, in The Piano Quarterly, Fall 1968, pp. 14-16. La registrazione su rullo di Debussy è del 1913 (Welte-Mignon n. 2738B). 25 L’arrangiamento di Tony De Vita per la celeberrima interpretazione di Mina de Il cielo in una stanza (1960), così diverso da quello di Giampiero Reverberi per l’originale di Gino Paoli su disco Ricordi (1960), e sul quale è invece sostanzialmente modellato quello successivo di Ennio Morricone per il rifacimento di Paoli su disco RCA (1962), non è lontano dalle atmosfere di My True Love, canzone della quale la stessa Mina aveva inciso una cover. My True Love è una delle non poche canzoniombra che hanno avuto un certa influenza sulla storia della canzone italiana, pur senza essere state conosciute dal grande pubblico. 26 Conversazione su Bela Bartók, Biennale di Venezia, 14 settembre 2001. 27 Umberto Fiori, “La canzone è un testo cantato. Parole e musica in De André” cit., p. 153. 28 Doriano Fasoli cit., p. 40. 29 Ibid. 30 Doriano Fasoli cit., p. 65.

40

31

Ibid. Umberto Fiori, “La canzone è un testo cantato” cit., p. 154. 33 Franco Fabbri, “Il cantautore con due voci” cit., p. 160. 34 Sono indicazioni ricavate direttamente dall’ascolto dei dischi, non dagli spartiti che spesso sono in tonalità differenti. Ho segnalato le note diverse dal mi2; dove non indicato la nota più grave è, appunto, il mi2. 35 Vale quanto detto nella nota precedente. Se non indicato diversamente, la nota più acuta è il do4. 36 Franco Fabbri, “Il cantautore con due voci” cit., p. 161. 37 Molti ricordano la parodia esemplare che della modulazione “in salita” – alla fine della canzone sanremese “canonica” – fecero Elio e le Storie Tese ne La terra dei cachi, preparando la modulazione e poi non svolgendola. 38 Chi conosce l’armonia capirà la ragione di queste virgolette: in realtà è il settimo grado della scala naturale (modo eolico) che viene innalzato di un semitono per ottenere la scala minore armonica e quella melodica, non viceversa. 39 V. A. Björnberg, “Armonia eolia nella ‘popular music’ contemporanea”, in Musica/Realtà n. 46, Libreria Musicale Italiana, Lucca, 1995, pp. 41-49. 40 Franco Fabbri, “Il cantautore con due voci” cit., p. 164. 41 Franco Fabbri, “Il cantautore con due voci” cit., p. 166. 42 I contributi compositivi di Piero Milesi alle canzoni di Anime salve, firmate da De André insieme a Fossati, sono certamente importanti. In altre occasioni sarebbero stati riconosciuti con la partecipazione ai diritti d’autore. A quanto mi ha riferito una volta Piero Milesi (e non ho motivo di dubitare che le cose stessero proprio così) Fabrizio gli aveva promesso di compensare questo mancato riconoscimento affidandogli la composizione di una parte delle musiche dell’album successivo. 43 “Radio Tre Suite”, luglio 2002. 32

41

TRACCIA BIOGRAFICA

1940

Fabrizio Cristiano De André nasce a mezzogiorno del 18 febbraio, mentre Hitler sta per invadere la Norvegia. In quella casa di Genova, al numero 12 di via De Nicolay, zona Pegli, si sente lo sferragliare dei treni della vicina ferrovia e il Valzer campestre della Suite Siciliana di Gino Marinuzzi jr. L’ha messo sul giradischi il padre, Giuseppe De André, un signore tutto d’un pezzo con una solida cultura umanistica e manageriale e con origini provenzali, da cui il profumo di Francia che aleggia in casa. Gestisce istituti scolastici, diventerà poi stimato vicesindaco repubblicano della città e alto dirigente dell’Eridania. E non sopporterà fascisti, clero e comunisti, probabilmente in quest’ordine. di Enrico Deregibus

1942 Nei primi mesi dell’anno, da una Genova piegata dalla guerra, Luisa Amerio in De André e i figli Mauro e Fabrizio (lui dice Bicio, o Babiccio) sfollano in Piemonte, in una cascina di Revigliano d’Asti. Giuseppe quando può li raggiunge.

1943 I giorni sono continue scoperte felici. Negli spazi sconfinati della campagna, al ritmo della natura, il piccolo Bicio s’innamora di tutto. Brucia energia e curiosità, si sporca di terra, sta con i contadini nei campi, guarda Nina, la sua compagna di giochi, volare sulle corde dell’altalena.

1944 Giuseppe De André, ricercato dai fascisti, si rifugia nella cascina di Revigliano e nei dintorni. È un padre che si vede e non si vede, che compare e scompare come la guerra e con la guerra. Bicio scappa di casa per qualche ora. Ha quattro anni. Resterà per sempre così, libero e curioso di cose e di uomini.

1945 Alla fine del conflitto, da un campo di concentramento torna lo zio Francesco. È denutrito, di cibo e di vita. Bicio lo scruta e inizia a riflettere, forse a capire. A cinque anni ha già in corpo la terra e la guerra, due dei temi che sputerà fuori attraverso le canzoni. Arrivano settembre e l’Italia liberata, Bicio diventa Fabrizio e torna in una Genova mezza stuprata, con gli americani che dalle portaerei sventolano berretti, sigarette e speranze. Si ricomincia. 43

Traccia biografca

Il piccolo De André inizia la prima elementare dalle suore Marcelline, che sguainando il suo carattere ribelle soprannomina prontamente “porcelline”.

1946 Passa dalle suore a una scuola pubblica, la “Cesare Battisti”, ma per lui non cambia niente. Ha ancora dentro Revigliano: si riempie il terrazzo di animali e, a ogni estate, torna nell’astigiano per 3 o 4 mesi.

1947 Il padre Giuseppe porta Fabrizio e Mauro a vedere Genoa-Torino. I due maschi più vecchi della famiglia sono torinisti. Vince il Torino 3 a 2 e il piccolo bastian contrario automaticamente diventa genoano. In estate a Cortina conosce Paolo Villaggio, figlio di conoscenti dei suoi. Ha otto anni in più. Ci farà amicizia, grande amicizia, anni dopo. In autunno comincia la terza elementare. Il fratello maggiore Mauro cerca di raddrizzarlo, ma non c’è verso. Lui si mette pure a far amicizia con i ragazzini teppistelli di via Piave, una via Pàl spostata centinaia di chilometri a sud-ovest. Fanno monellate, anche pesanti, e sfamano i gatti del quartiere.

1948 Cresce velocemente il rampollo della stimata famiglia De André. Ha anche orecchio musicale: i suoi a otto anni gli fanno studiare il violino, fino ai quattordici.

1950 È l’ultima estate alla Cascina di Revigliano. Il padre la vende. Fabrizio inizia le scuole medie.

1952

In seconda media viene bocciato. La scuola naturalmente continua a stargli stretta. Le imposizioni non fanno per lui, che anni dopo, con luminosa metafora, definirà il se stesso ragazzino “una testa di cazzo”. Fedele a tale conformazione brucia le tappe dell’adolescenza. In estate Fabrizio ha il suo primo rapporto sessuale, con una nave-scuola presentatasi sotto forma di una ragazza francese che lo corteggia durante una vacanza in Alta Savoia. Romanzando, potremmo mettergli in bocca adesso, dopo quell’amplesso, la prima sigaretta – a dodici anni.

1953 A Genova comincia a frequentare ragazzine figlie di. Ma lo attraggono anche le madri, e non solo fisicamente. Gli spazi della città sono limitati, ma dentro i vicoli intravede un altro tipo di libertà, di voglia di vivere. La vita 44

dei caruggi inizia a diventare la sua, appena fuori di casa e fuori da scuola. Ci scopre poesia e musica, proprio mentre scopre la poesia e la musica.

1954 In un bel giorno di primavera il padre, di ritorno da uno dei suoi viaggi nell’amata Francia, gli regala alcuni dischi di Georges Brassens: lui li ascolta e sente un tac da qualche parte dentro. È come se tutti i pezzi della sua vita scompigliata, tutte le emozioni acri, gli ideali abbozzati, le esperienze multicolori, i pensieri ammassati, avessero trovato un posto, con i baffi e la chitarra, dove raccogliersi e scaldarsi l’un l’altro. Capisce che quei veicoli insulsi che sono state sino a ora le canzoni possono trasportare anche contenuti importanti e irriverenti, parole d’opposizione e giustizia sociale, storie diverse e di diversi. Insomma, è grazie a Georges Brassens che De André farà il cantautore, e probabilmente anche molte altre cose. La signora Luisa scopre che a suonare il violino è il maestro, corrotto a dolcetti, e non il monello. La storia di Fabrizio con lo strumento ad arco finisce lì, anche per via di un problema alla mascella. Un giorno però si ritrova in mano una chitarra, e ci giochicchia piuttosto bene. La madre gliene regala una e un maestro colombiano, Alexandro Jiraldo, gli insegna senza annoiarlo a suonarla e gli fa ascoltare musica sudamericana. Lui s’innamora prima di quella e poi di jazz, di Gerry Mulligan e di Lee Konitz, di Lenny Tristano e del Modern Jazz Quartet, anche se è buona parte della Genova giovane ad appassionarsi alla nuova musica. A settembre Fabrizio conosce il poeta Remo Borzini, che lo influenzerà non poco. Il ragazzo traduce le cose di Brassens, butta giù anche qualche suo verso su qualche quaderno, ma parole e musica sono ancora amori scostati, non comunicanti, per ora. In ottobre arriva al ginnasio con molte tacche sulla linea dell’esperienza. Continua a non starci bene, incastrato dietro un banco, e il fatto di avere un fratello primo della classe contribuisce a mettergli ansietà. Però legge moltissimo; i libri, spiegherà poi, sono come nonni che gli raccontano storie.

1955 In autunno comincia la quinta ginnasio. È un ragazzo di bella presenza, con un fascino signorile e plebeo allo stesso tempo, e con quello va a caccia di donne e di altre trepidazioni, nei balli a palchetto delle estati astigiane e giù nella Genova d’angiporto, in quell’aria spessa, carica di sale e gonfia di odori. Ama la gente semplice e le cattive compagnie; lui, cucciolo di borghesia, ci si riconosce. Anche per via di quella palpebra dell’occhio sinistro che non vuole stare su, ammainata come poche altre cose in vita sua. A dicembre, il suo istinto e la sua tecnica con la chitarra lo guadano alla prima esibizione in pubblico, in trio, in uno spettacolo di beneficenza. 45

Traccia biografca

1956 A inizio anno mette su un gruppo, The Crazy Cowboys e The Sheriff One, che, come da sigla, mesce country et similia nei localini di Genova. De André suona il banjo e canta. Appena velata di nicotina quella sua voce, anche se non ancora del tutto intonata, già penetra ed emoziona. In estate Fabrizio si guadagna pure una denuncia. Una notte lo scoprono dentro una chiesa di montagna, di cui ha sfondato la porta, a far l’amore con una ragazza. È un modo per celebrarsi un matrimonio, però il parroco locale segue un’altra scuola di pensiero. La cosa finisce in tribunale, ma l’intervento del professor De André convince il prete a ritirare la denuncia. È roba che, se nella vita fai il funzionario di banca, preferisci nascondere. Se invece diventi cantautore, e pure un poco maledetto, la metti anche nelle canzoni. Fabrizio inizia a suonare jazz ispirandosi a Jim Hall, il chitarrista del trio di Jimmy Giuffre. Gli servirà non poco: tra i nostri cantautori non a caso è quello con la miglior tecnica chitarristica. La formazione si chiama Modern Jazz Group, un quartetto capeggiato dal pianista Mario De Sanctis. In un concerto al teatro Duse capita che occorra un sassofonista e De Sanctis propone tale Luigi Tenco, già discretamente quotato in città. Di tanto in tanto Tenco tornerà a suonare con il gruppo, ma lui e De André si conosceranno davvero solo qualche anno dopo. A ottobre inizia il liceo.

1957 In quella fitta adolescenza fa capolino anche la politica e, quasi immediatamente, la scelta anarchica di De André, che lo accompagnerà fedele tutta la vita, perfettamente coerente alla sua vena libertaria e alla sua predilezione per quello che il marxismo chiama sottoproletariato. Sottovalutandolo, appunto. Da qui qualche futura incomprensione con la sinistra tutta. Fabrizio si iscrive alla Federazione anarchica di Carrara. Nel frattempo continua a suonare nel Modern Jazz Group, divenuto intanto un sestetto. I membri della band si trovano spesso al negozio Ricordi di via Fieschi per ascoltare le ultime novità d’America. Inizia a frequentare Paolo Villaggio. Con il futuro Fantozzi la vita si carica ancor più di bohème: nottate brave, amori tariffati, pacchetti e pacchetti di Nazionali, scherzi pesanti, grandi dormite. Il punto di ritrovo è la casa di un amico con le gambe e le braccia paralizzate ma con cervello e ironia quanto mai agili. Villaggio ha raccontato di come De André in quegli anni vivesse con “l’ansia tremenda di non farcela nella vita”. Fra l’altro è lui ad averlo soprannominato Faber, un gioco fra il suo nome e le matite Faber Castell che usava. 46

1958 Fabrizio se ne va di casa. Viste le frequentazioni, potrebbe anche campare alla giornata e in modo losco, ma preferisce iniziare a lavorare come segretario in una delle scuole del padre. Quella sua voce tonda e fonda lo porta a cantare alla Borsa d’Arlecchino, un teatrino sotterraneo dove qualcuno lo nota e lo porterà alla prima incisione discografica. A fine anno il Modern Jazz Group si scinde in due quartetti.

1959 Fabrizio si diploma. Con l’autunno, alle sigarette affianca l’alcol e ai vecchi amici il poeta, brutto, sporco e cattivo, e per di più anarchico e semicieco, Riccardo Mannerini. Con lui per diversi anni divide, in salita Sant’Agostino, un monolocale e una stufa a kerosene. All’Università frequenta medicina e lettere (la facoltà con la maggior densità di ragazze), poi si iscrive a giurisprudenza: darà molti esami ma non si laureerà.

1960 È l’anno in cui esce il primo 45 giri di Fabrizio (il cognome per molti anni non comparirà), pubblicato da una piccola etichetta genovese, la Karim, che ha sede vicino al negozio Ricordi. Contiene Nuvole barocche e E fu la notte, su cui si può tranquillamente sorvolare. Lui le interpreta come fosse Domenico Modugno, ovvero quanto di più innovativo circoli nel fatuo mondo della canzonetta. A primavera Fabrizio si reca spesso a Napoli, emigrante per amore. In aprile si esibisce al Teatro Margherita nella rivista goliardica “La stagione dei melograni”. Alla fine del primo tempo, in un quadro intitolato “Venezia, la Lunik e tu”, compare vestito da Arlecchino e canta Arlecchino ha paura (la musica è di Umberto Bindi). Dopo di lui entra in scena Villaggio con qualche monologo. A giugno Genova mostra l’anima e i denti di una città medaglia d’oro della Resistenza. Le piazze e le vie si riempiono e si arroventano contro il congresso in città del MSI, che sta dando l’appoggio a un disgraziato governo monocolore DC guidato da Tambroni. A guidare la protesta è Sandro Pertini. Il congresso non si farà e Tambroni dovrà dimettersi. In estate scrive con l’amica Clelia Petracchi la prima canzone, La ballata del Miché. Da notare come fin dall’inizio De André abbia cercato sponde per la sua scrittura. Il giovin cantautore, per rimorchiare, va in giro a dire di aver scritto lui Quando, brano di un qualche successo. Finché una sera, alla Cambusa di 47

Traccia biografca

piazza De Ferrari, non incrocia l’autore vero, che prima gli chiede, comprensibilmente incazzato, delle spiegazioni e quindi, sinceramente avutele, si mette a ridere. È Luigi Tenco. I due diventano amici. Anche Tenco, come Fabrizio e altri ragazzotti che un po’ vogliono fa’ gli americani e un po’ gli esistenzialisti (Gino Paoli, Bruno Lauzi, Umberto Bindi, cantautori, e anche i fratelli Reverberi, musicisti), gira per quelle strade e nei relativi bar, e scrive canzoni fuori dai canoni.

1961 Fra boom economico, gatte e arrivederci, i coetanei di De André conquistano juke box e negozi di dischi. In febbraio, alla Borsa d’Arlecchino De André si esibisce in “Eva a Go Go dalla parte di lui”. È coprotagonista e canta delle canzoni francesi, da Aznavour a Brassens. Alcune le ha tradotte lui. Una parte delle musiche sono firmate, piccolo il mondo, da Paoli e Bindi. Dopo gli spettacoli il ventunenne si apparta con la sua bella, una graziosa di nome Anna, con le gambe pelose e il mestiere più vecchio del mondo. Passano per più di un anno le notti in albergo, a cognac e amore. Ormai ci siamo: la Karim dà alle stampe un 45 giri con due sue canzoni. Sul lato A c’è la La ballata del Miché, storia di un suicidio d’amore partorito in galera. Le parole riescono a essere senza tempo, portate in giro da una melodia ispirata e suggestiva, un valzer dipinto di fisarmonica. Gran bell’esordio, una canzone che ancora adesso mantiene intatta la sua bellezza malinconica e retrò. Sul lato B La ballata dell’eroe, decisamente più ingenua (forse non l’ha creata Fabrizio ma Bicio, mentre guardava suo zio) e costruita sul rimario, anche se in quegli anni una tanto decisa presa di posizione contro la guerra non è cosa da poco. Il testo pare quasi una prima stesura de La guerra di Piero. De André registra i brani con Giampiero Reverberi in quella Milano che ospita i suoi colleghi genovesi e la loro casa, la Ricordi, guidata da un giovane avvocato dalla vista lunga, Nanni Ricordi, forse il più illuminato discografico italiano. Sono le prime pennellate a un grande affresco, sorta di lungo concept album di canzoni che durerà quasi quarant’anni e che, come da dichiarazione di decenni dopo del loro autore, lui avrebbe intitolato I miserabili. È già chiaro: De André canterà gli emarginati, ma senza abbellirli. Li conosce, li racconterà come sono. Il punto focale della sua opera, il chiodo fisso, è l’affermazione della marginalità come valore.

1962 Fabrizio scrive i testi e le musiche per uno spettacolo teatrale, “Il taxista clandestino”. 48

Tenco riprende La Ballata dell’eroe per la colonna sonora di un film in cui recita, La cuccagna. Pur di inserire il brano dell’amico e collega, arriva a litigare con il regista, Luciano Salce. A luglio De André si sposa. Lei è Enrica ‘Puny’ Rignon, ragazza genovese con sette anni in più, conosciuta l’anno prima. Tiene alcuni spettacolini con Villaggio, ad Albisola, in un locale che si chiama Pozzo della Garitta. Villaggio racconta anche di esibizioni sulle navi della Costa Crociere (dove c’è anche Berlusconi cantante). In alcune delle mille notti insieme nascono canzoni a quattro mani, in cui il confine fra il goliardico e il satirico è piuttosto labile. In autunno Gino Paoli, baciato ormai da una certa popolarità, deve esibirsi al circolo della Stampa di Genova. Chiede a De André di fargli da spalla, cantando alcune sue canzoni. È una buona occasione per farsi conoscere ma De André è intimorito. Finisce che Paoli lo va a prendere a casa, in Porsche, e praticamente lo trascina sul palco, mentre lui vorrebbe tornarsene a casa in bus. Canta La ballata dell’eroe, La ballata del Michè e l’ancora inedita Il testamento, che ha fatto sentire a Paoli qualche tempo prima. È la prima volta che esegue in pubblico le sue canzoni. Alla fine dell’anno Puny Rignon gli dà un figlio, Cristiano. Nel frattempo, tenendo famiglia, De André ha iniziato a lavorare come vicepreside (sono i paradossi della vita) nelle scuole del padre, degli istituti professionali frequentati più che altro da adulti. Prosegue inoltre sia gli studi di legge, con diversi trenta, sia le notti lunghe nella Genova meno raccomandabile, queste con esiti ancora migliori. Il De André di questi anni sembra avere sette vite, tutte nello stesso tempo: marito, padre, responsabile di istituti scolastici, studente, cantante, jazzista e animale notturno.

1963 Due delle canzoni scritte con Villaggio, Il fannullone e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, finiscono in un nuovo dischetto, pubblicato all’inizio dell’anno sempre dalla Karim e sempre a nome Fabrizio. I brani sono arrangiati da Giampiero Boneschi. La prima è una sorta di dichiarazione d’amore per la vita dissoluta dei due. La seconda indigna benpensanti assortiti perché contiene la parola “puttana”, non contemplata dalle canzoni dell’epoca. Arrivano una denuncia e un minimo di notorietà. La Karim gli passa 70.000 lire al mese. Nel corso dell’estate viene pubblicato su 45 giri anche Il testamento, che è un piccolo manifesto della scrittura del Fabrizio De André d’inizio anni ’60: ironia, gusto noir, anticonformismo senza compromessi, la diversità (ancora implicitamente) intesa come risorsa. Da lì si guadagnerà l’aura di male49

Traccia biografca

detto e qualche altro tentativo di censura per la presenza nel testo di nuovo di “puttana” oltre che della variante “battona”. Il retro ripropone La ballata del Miché. Colpisce, di tutte queste canzoni, la dimensione atemporale, assorta tra sogno e realtà, che in qualche modo diventa un punto di forza.

1964 È un anno importante. Accantonando un po’ l’ironia e facendo lievitare, tra tutti i suoi temi, l’amore e la morte (questa però trattata in modo più romantico di quello), De André incide con Reverberi a Roma due brani destinati a finire nella storia dell’italica canzone. In estate viene ripubblicata La ballata dell’eroe, in un 45 giri che sul lato B riporta una canzone nuova, La guerra di Piero. È il canto antimilitarista dell’epoca, fa pendant con i Dylan e le Baez d’oltreoceano, anche se si diffonde a macchia d’olio solo dopo un po’ di tempo, quando oltre ai fucili americani si scalderanno gli anni e gli animi d’Europa. Oltre all’arrangiamento anche la musica è di Vittorio Centanaro, un amico chitarrista che però non la firma perché non iscritto alla SIAE, come invece gli ha consigliato De André. Una faccenda burocratica può cambiare una vita. A fine anno tocca a La canzone di Marinella, facciata A di un 45 giri che sul lato B riporta Valzer per un amore, un brano scritto sulla musica del Valzer campestre di Marinuzzi che gli aveva accompagnato i natali. La canzone di Marinella è una favola, semplice semplice, sognante e tristarella, in cui luccicano particolarmente le sfumature vocali di De André. Nasce da un articolo di cronaca su una giovane donna di strada astigiana, buttata in un fiume da qualche delinquente passato nella categoria malavitosa superiore. In mezzo al decennio, De André continua a conquistare nuovi adepti. Non è ancora arrivato quel che si chiama il grande successo ma un certo pubblico, il più attento, studenti e consimili, il nome ormai lo conosce bene. Vedi alla voce “passaparola”.

1965 Fabrizio si arena, chissà perché, su una canzonetta, Per i tuoi larghi occhi, in cui l’unico spunto interessante è l’inconsueto aggettivo associato a occhi. Sul retro c’è Fila la lana, rielaborazione di un brano del XV secolo e decisamente più degna. Fabrizio scrive Stringendomi le mani per Giuliana Milan. Alla fine dell’anno arriva, con gli arrangiamenti di Elvio Monti, un 45 giri con una delle più convincenti canzoni del periodo, La città vecchia, in cui (finalmente, verrebbe da dire) dichiara pubblicamente amore per i caruggi. Prendendo spunto dall’omonima poesia di Umberto Saba e da Embrasse moi 50

di Jacques Prévert, oltre che dalla musica di Le Bistrot di Brassens, in una serie di piccoli e vispi bozzetti. De André tratteggia i personaggi che popolano la Genova d’angiporto. Nella prima versione del brano una strofa recita: “Quella che di giorno chiami con disprezzo specie di troia / quella che di notte stabilisce il prezzo alla tua gioia”. La frase viene censurata e i versi incriminati sostituiti con: “Quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie / Quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie”. La musica saltellante di mazurka si compenetra benissimo con il testo discolo d’ironia, dove anche le solite baciatissime rime acquistano da questo punto di vista un ruolo nuovo, un’alt(r)a valenza. E il 45 giri ha buoni riscontri di vendita. Sull’altro lato c’è Delitto di paese, prima traduzione di Brassens pubblicata da De André. Ma tutte le canzoni di questi anni sono fortemente marchiate dall’influenza del suo zio transalpino e delle musiche francesi in genere. I suoi coetanei invece guardano all’America.

1966 Nel primo 45 giri dell’anno scintilla La canzone dell’amore perduto, forse la più bella composizione d’amore ‘tradizionale’ di De André. Il testo di per sé non è particolarmente memorabile, ma associato alla musica diventa meravigliosamente evocativo. L’incantata melodia è un adagio di Georg Philipp Telemann tratto dal Concerto in Re maggiore per tromba, archi e continuo. Sul retro, La ballata dell’amore cieco, riuscito episodio in linea con la vena più noir di De André. Un giorno, al baretto di corso Italia, Tenco e De André discutono di un album in comune. Il primo vuol fare “un disco comunista”, il secondo “un disco anarchico”. Intanto vedono insieme diverse volte La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, passando le notti a parlarne. In autunno esce Geordie, celebre brano tradizionale inglese rielaborato da De André, che lo interpreta con Maureen Rix, sua insegnante di inglese. Tre decenni dopo lo ripescherà nel suo ultimo tour, interpretandolo con la figlia Luvi. Il lato B offre Amore che vieni, amore che vai, canzone d’amore più che decorosa e raro caso in De André di scrittura simultanea di testo e musica, come anche La ballata dell’eroe. Le vendite evidentemente non vanno male, visto che lui prova a chiedere un forte aumento alla Karim (300.000 lire al mese) e quelli accettano. Consigliato dal fratello Mauro, tenta anche con gli arretrati, ma la casa discografica di lì a poco fallisce. Alla fine dell’anno la Karim fa in tempo a pubblicare il primo 33 giri, Tutto Fabrizio De André (per la prima volta compare il cognome), che raccoglie pari pari la maggior parte dei brani già pubblicati su singolo. È una mezza scommessa, dal momento che gli LP in Italia tirano abbastanza poco; e 51

Traccia biografca

quindi è anche un punto d’arrivo. Il disco sarà pluriristampato nel tempo, con titoli diversi. Sono canzoni indimenticabili ma spesso anche acerbe. Il linguaggio non è ancora diventato bello, forte e sano, la forma annacqua in parte la sostanza. Ma De André inizia a credere in se stesso.

1967 La notte fra il 26 e 27 gennaio un amico lo sveglia e gli dà la notizia: Luigi si è suicidato. Lui si precipita a Sanremo con Puny e Anna Paoli. In una delle notti seguenti, prima del funerale a Ricaldone, scrive Preghiera in gennaio, partendo da una poesia di Francis Jammes (“Prière pour aller au paradis avec les ânes”) già rielaborata da Brassens per la sua La Prière. Per molti anni non dirà che parla di Tenco, saltuario amico con cui aveva immaginato dischi e tournée (ne avevano ancora riparlato non molto tempo prima). Preghiera in gennaio finisce in un 45 giri insieme a Si chiamava Gesù, una specie di trailer de La buona novella che guarda al Cristo come a una persona umana, come a un povero cristo. È la prima incisione per la Bluebell di Antonio Casetta, un’etichetta un po’ più grande che riuscirà anche a sostenere meglio il suo percorso artistico. Con la nuova casa discografica nasce il primo vero album di De André, intitolato frugalmente Volume 1, forse qualitativamente inferiore ai 45 giri che lo hanno preceduto. Il disco, prodotto da Reverberi e Malcotti, è compilato mettendo insieme alcune composizioni già edite, una traduzione di Brassens (Marcia nuziale) e altre cose nuove, come le citate Preghiera in gennaio e Si chiamava Gesù e poi La morte (sulla musica di Le verger du roi Louis ancora di Brassens), Barbara, Spiritual e Caro amore, scritta sul Concerto di Aranjuez di Joaquin Rodrigo e poi sostituita già nelle prime ristampe da La stagione del tuo amore. Ma i due brani più noti, pubblicati sullo stesso 45 giri, sono Via del campo e Bocca di Rosa. La prima ufficialmente nasce su una musica del XVI secolo, tratta da una ricerca di Dario Fo e Enzo Jannacci, anche se poi quest’ultimo spiegherà di averla scritta lui. Dal punto di vista dei contenuti è una sorta di La città vecchia 2, però molto più dolente e assorta. Bocca di Rosa, ancora dedicata a una bella di notte, è una “metafora evangelica dell’amore” che gli porta in dote ulteriore pubblico. In Volume 1, riarrangiata, c’è anche Carlo Martello, la cui notorietà si sta ampliando visto che il processo per “contenuto osceno” finisce sui giornali. De André verrà comunque assolto, con il pretore che taglia corto: “Mi dica piuttosto quando uscirà il suo prossimo disco”. A dicembre Mina inserisce La canzone di Marinella, insieme a vari standard americani, nel suo Dedicato a mio padre; è il primo album della PDU, la sua etichetta personale. 52

1968 Mentre ascolta inappetente anche un po’ di rock, specie Moody Blues e Pink Floyd, arriva il ’68, che De André vive nei paraggi dei gruppi dell’estrema sinistra. Ma l’anno della contestazione significa per lui anche un’altra cosa: la possibilità di vivere di canzoni. Nel febbraio Mina pubblica in 45 giri La canzone di Marinella; il brano ottiene un grande riscontro di vendite e, di conseguenza, diritti d’autore per Fabrizio De André. Molla l’università a pochi esami dalla laurea in legge e anche l’impiego nelle scuole del padre. In qualche modo, torna a essere definitivamente il Bicio che corre per i campi di Revignano. Libero e anarchico. Per il “Corriere Mercantile” commenta il Festival di Sanremo. Grazie anche alla scarsa concorrenza, ad aprile Volume 1 scala le classifiche di vendita dei 33 giri fino al secondo posto (dietro Morandi), dove alloggerà per otto mesi. Tutto Fabrizio De André viene ristampato con il titolo La canzone di Marinella. De André non è d’accordo e non acconsentirà neanche alle successive ristampe del materiale Karim. Mina propone un tour insieme (per “tenerle buono il loggione”) ma De André rifiuta. Non ci pensa neanche a cantare in pubblico. Scrive, insieme a Giampiero Reverberi, le musiche per il programma televisivo “I viaggi di Gulliver”, con testi di Umberto Simonetta ed Enrico Vaime. I brani sono interpretati da Arturo Corso, Anna Noraga, Giancarlo Dettori e Sandro Massimini. Lavora alle canzoni del nuovo LP. Ormai ha poco senso pensare a fugaci 45 giri (anche se continuerà a pubblicarne) e ciò comporta una svolta notevole nell’impostazione, nell’approccio alla scrittura. Se un certo numero di canzoni devono stare una a fianco all’altra, varrà la pena in qualche modo di allacciarle, si sarà detto lui, accendendo l’ennesima sigaretta. In agosto registra negli studi RCA di via Tiburtina, a Roma, il volume 2 della sua discografia. Giampiero Reverberi collabora alle musiche e cura gli arrangiamenti. La strumentazione è quella di un disco di musica sinfonica. In settembre esce Tutti morimmo a stento, prima produzione organica su 33 giri e anche primo album italiano a tema. Che è sempre quello: l’emarginazione. “Parla della morte psicologica, morale, mentale che un uomo normale può incontrare durante la vita”, parole di De André. Il sottotitolo recita ieratico: “Cantata in Si minore per coro ed orchestra”. L’album, nel quale continua ad avvertirsi una certa rigidità retorica, costituisce comunque un netto salto di qualità. Musicalmente appare più ricco del precedente, e letterariamente, è innegabile, sa toccare tasti di grande emotività, anche perché con quelli è scritto. La scrittura fluisce sincera, canzoni come la quasi autobiografica Cantico dei drogati (rielaborazione fatta con Mannerini di 53

Traccia biografca

una sua poesia intitolata Eroina), La ballata degli impiccati (ispirata da una poesia del francese Villon), Leggenda di Natale (ripreso da Le Père Noël e la petite fille di Brassens), la sottovalutata Inverno o Girotondo, inframmezzate da tre Intermezzi, restano. E segnano. I finali Recitativo e Corale sono invece predicozzi piuttosto turgidi. L’album riceve il “Premio della critica discografica”, un riconoscimento ottenuto anche l’anno precedente. In ottobre esce Senza orario senza bandiera, disco d’esordio dei New Trolls, un gruppo genovese che avrà una carriera lunga e scoscesa. De André ha messo mano ad alcune poesie di Mannerini per la parte letteraria dell’album. Anche qua c’è un filo che lega i brani, il viaggio d’esilio di un uomo nel mondo (che è poi la storia di Mannerini). Esce una nuova versione del 45 giri con La canzone di Marinella, e vende parecchio. A dicembre viene pubblicato anche Volume 3, successo facilmente pronosticabile, visto che rilustra brani già noti come La canzone di Marinella e La guerra di Piero, ma che solo ora, a quattro anni dalla loro uscita, diventano dei classici. Ci sono poi altre traduzioni da Brassens (Il gorilla e Nell’acqua della chiara fontana), S’i fossi foco dal sonetto di Cecco Angiolieri e Il re fa rullare i tamburi, traduzione e adattamento di una canzone popolare francese. È sempre Giampiero Reverberi a occuparsi degli arrangiamenti.

1969 De André ormai è, anche, artista di peso dal punto di vista commerciale. Due suoi dischi frequentano contemporaneamente la classifica: Tutti morimmo a stento vi entra a gennaio, ci sta un anno e raggiunge il quarto posto; Volume 3 esordisce a marzo, ci si stabilisce per quasi due anni e tocca anche il primo posto. Fabrizio è coautore di Le strade del mondo (Simonetta-Vaime-De AndréReverberi), 45 giri di Laura Olivari e dell’orchestra di Giampiero Reverberi e sigla della trasmissione TV “Gulliver”. Tutto va per il verso giusto: De André acquista credibilità e sicurezza, anche se non molla la quotidiana bottiglia di whisky. Compra casa in Sardegna, a Portobello di Gallura. Primo approccio con la canzone dialettale. Fabrizio scrive le musiche di A famiggia di Lippe (testo di Peo Campodonico) e Ballata triste - A canson do balilla (testo di Vito Elio Petrucci). Cantati da Piero Parodi, i brani vengono inseriti nello spettacolo “T’ae present o Carrossezzo” in scena al teatro Duse di Genova, musicato da Reverberi. Vengono poi pubblicati su un 45 giri di Parodi. A fine anno De André registra delle versioni in inglese di alcune sue canzoni, probabilmente l’intero Tutti morimmo a stento. L’uso della lingua inglese in molti passaggi evidenzia una certa interpretazione quasi 54

da crooner, alla Dean Martin. C’è l’intenzione, poi abortita, di cercare nuovi sbocchi sui mercati internazionali.

1970 Fabrizio tira fuori di tasca, in 45 giri, Il pescatore, dietro al quale non si fa fatica a scorgere di nuovo la figura di Gesù. Il brano diventa un altro dei suoi sempreverdi (“vecchi ronzini da battaglia” li chiamerà lui nell’ultimo tour). Alcuni accreditano la musica a Franco Zauli, già compositore con Elvio Monti di colonne sonore per spaghetti western, altri a Zauli-Reverberi. Le strade del mondo esce anche nella versione di Leda. Iniziano le registrazioni del nuovo album, arrangiato da Giampiero Reverberi e prodotto da Roberto Dané. Ci suonano anche i Quelli, la band che poco dopo dà origine alla Premiata Forneria Marconi (PFM), in cui milita anche Mauro Pagani al flauto. Sergio Bernardini, patron della Bussola di Viareggio (il posto più ‘in’ dove si potesse andare a suonare) va a trovare Fabrizio cercando di convincerlo a fare una tournée con la prima data nel suo locale. De André rifiuta. Bernardini tornerà alla carica più volte negli anni a seguire. A novembre esce il nuovo 33 giri, La buona novella, concept album sulla vita di Gesù, basato su vangeli apocrifi armeni, bizantini e greci, non riconosciuti dalla Chiesa. C’è la narrazione dell’inizio e della fine di Cristo in terra, fatta più che altro raccontando i personaggi che gli sono stati più vicini. Tra il Laudate Dominum iniziale e il Laudate hominem finale si srotola, in brani come L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe, Il sogno di Maria e Ave Maria, la descrizione, dai risvolti assai umani, delle figure dei genitori di Cristo; e quindi, in Maria nella bottega di un falegname, Via della Croce e Tre madri, il racconto degli ultimi giorni visto da angolazioni illuminanti. Il disco ha grande costrutto e forza complessiva, ma non si può non rimarcare in particolare la forza espressiva del brano conclusivo, Il testamento di Tito, che possiede un testo di inesausta durezza e lucidità, fra l’altro originariamente scritto sulla melodia di Blowin’ in the wind di Dylan. Per la versione definitiva De André elabora una musica di Corrado Castellari e di Michele Maisano. L’accoglienza de La buona novella è un po’ controversa, al di là delle vendite considerevoli (da dicembre sta sette mesi in classifica e approda al secondo posto). Un disco su Cristo appena dopo il ’68 sembra un’assurdità. Evidentemente i nuvoloni sociali e politici dell’Italia 1970 non permettono a molti di scorgerci la lunare metafora sul potere, dove Gesù è un rivoluzionario che predica fratellanza. De André nella sua ultima tournée, oltre a parlarne, ha riproposto gran parte di questo album, che considerava uno dei suoi più riusciti, se non il migliore. 55

Traccia biografca

1971 Gianni Morandi interpreta La canzone di Marinella nel suo album Un mondo di donne. Fatto piuttosto significativo. Altro LP tematico è Non al denaro non all’amore né al cielo, nove riletture di poesie tratte dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. È un disco di grande compattezza, di vivida incisività, composto per i testi insieme allo scrittore Giuseppe Bentivoglio e per le musiche insieme a Nicola Piovani. È un passaggio importante eppure poco sottolineato, questo: d’ora in poi De André non perderà quasi mai la consuetudine e la necessità di scrivere con altri. Nell’album c’è la vita raccontata da chi l’ha lasciata, quindi senza più infingardaggini. È una sorta di lente d’ingrandimento sull’uomo, sulle sue bassezze e altezze, fabbricata mediando fra l’impostazione politica che voleva darle Bentivoglio e quella umana cara a De André. Dopo l’introduzione di La collina sfilano Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore, Un medico, Un chimico, Un ottico e, infine, Il suonatore Jones, con più che probabili riferimenti autobiografici, seppure sublimati. L’album è prodotto da Dané e Sergio Bardotti e arrangiato dal debuttante Piovani.

1972 Non al denaro non all’amore né al cielo entra in classifica in gennaio e vi rimarrà otto mesi, facendo capolino anche al primo posto. A famiggia di Lippe e Ballata triste - A canson do balilla vengono incisi da Piero Parodi nel suo album Piero Parodi canta Zena, insieme alla versione in lingua genovese di Bocca di Rosa tradotta da Cesare G. Romana, da sempre amico di Fabrizio. Dal punto di vista affettivo De André ha una storia piuttosto importante con una ragazza, Roberta. Canterà la ragazza e la storia in Giugno ’73. Fabrizio pubblica un 45 giri con due sue traduzioni di Leonard Cohen, Suzanne e Giovanna d’Arco.

1973 In estate a Roma, fino al 10 luglio, viene registrato un nuovo LP, scritto sempre insieme a Bentivoglio e Piovani, che si occupa anche di arrangiamenti e direzione d’orchestra. Sarà anche per le incomprensioni de La buona novella, ma stavolta De André si tuffa, con Storia di un impiegato, in un racconto di stampo fortemente politico. È un disco terribilmente rischioso, anche perché De André realizza un altro concept album, ma senza rete, senza il supporto narrativo e contestuale 56

che gli era stato dato nei dischi precedenti dai vangeli emarginati e dall’opera di Masters. “Un impiegato ascolta, cinque anni dopo, una delle canzoni del maggio francese 1968”: così iniziano le note di copertina di Roberto Dané e l’album stesso. Dopo l’Introduzione c’è appunto Canzone del Maggio, rielaborazione di un canto del ’68 parigino. In un primo momento il brano è la traduzione quasi letterale dell’originale francese, una versione sensibilmente diversa da quella pubblicata nell’album. Ad esempio, la strofa “Per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti” era: “Voi non avete fermato il vento / gli fate solo perdere tempo”. Dopo Canzone del Maggio entra in scena il colletto bianco protagonista, che si inventa anch’egli rivoluzionario in La bomba in testa e Al ballo mascherato. Ma è con i successivi Sogno numero due (testo scritto a quattro mani con Dané), La canzone del padre, Il bombarolo, Verranno a chiederti del nostro amore e Nella mia ora di libertà che si fa strada l’assunto del disco: il potere riproduce se stesso e le sue violenze sempre, comunque e chiunque se ne impadronisca. L’album – che pure possiede diversi momenti floridi e indubbiamente va in cerca di nuovi respiri, anche ritmici – è sempre stato considerato, anche dal suo autore, come uno dei più confusi. La vena anarchica di De André deve fondersi con quella marxista di Bentivoglio e spesso i punti di sutura e di contraddizione sono fin troppo evidenti. Non a caso è l’ultimo episodio della collaborazione fra i due. Inizia da lì una certa crisi esistenziale e creativa, che pur con qualche straordinario sprazzo di azzurro si addenserà fino al 1978. In cerca di vie d’uscita, De André chiede a Francesco De Gregori di collaborare con lui. Il giovane cantautore di belle speranze e grande creatività, che conosce bene per esserlo andato a vedere al Folkstudio di Roma, può fornire nuova linfa alle sue canzoni. De Gregori accetta. A novembre Storia di un impiegato entra in classifica, ci soggiorna cinque mesi e la scala sino al terzo posto.

1974 A primavera De André ospita De Gregori nella casa di Portobello di Gallura. Buttano giù canzoni e whisky. Ogni mattina, quando De André ancora dorme, De Gregori si ritrova con delle strofe già scritte, ci lavora su e quando l’altro si sveglia continuano insieme, mettendoci anche le musiche. De Gregori va a dormire e De André continua di notte a comporre. Durante la registrazione di Canzoni, il nuovo album, i suoi occhi incrociano quelli di una bella ragazza bionda che nella sala a fianco sta incidendo il suo primo album come solista. Si chiama Dori Ghezzi, è stata interprete con Wess di canzoni di successo per famiglie. Buttiamola un po’ in rosa: 57

Traccia biografca

è come se si conoscessero da sempre. E non si separeranno più. Forse per questo lui non ha mai voluto scrivere una canzone su di lei: unica eccezione sarà Hotel Supramonte. Canzoni è un’altra mezza (e anche più) antologia, dove stilisticamente si incontrano il De André vecchio e quello nuovo. Oltre a rifacimenti di suoi pezzi storici, ci sono sei traduzioni: le due già edite da Leonard Cohen, più tre dal solito Brassens (Le passanti, Delitto di paese e Morire per delle idee) e una di Dylan, Via della povertà (Desolation row). Questa è scritta insieme al virgulto De Gregori, che l’aveva già tradotta ai tempi del Folkstudio. È l’anteprima su disco di una collaborazione che caratterizzerà Volume 8, il successivo lavoro. Prodotto ancora da Dané e arrangiato ancora da Reverberi, Canzoni non va granché bene in quanto a vendite: entra in classifica ad agosto, non va oltre il dodicesimo posto ed esce dopo tre mesi. Usiamo la formuletta “disco di transizione”.

1975 Volume 8 è un lavoro con diversi spunti interessanti ma non va probabilmente inserito tra i migliori di De André. Il linguaggio si fa decisamente più visionario, frammentato, sigillato; si sente insomma la mano di De Gregori, coautore di molti dei brani. È una brusca sterzata, di quelle che si fanno d’istinto, di nervi, quando non se ne può più. De André butta per sempre alle ortiche pop il rimario e vola libero, anche se ancora appesantito. Le classifiche, in cui entra a marzo, lo contemplano per nove mesi e al massimo al settimo posto. Il disco è prodotto da Dané e arrangiato da Tony Mimms, un ex trombettista che aveva lavorato con Baglioni per Questo piccolo grande amore. L’ascendente degregoriano è in qualche modo germogliato negli stilemi del collega più vecchio; pare addirittura che nei primi provini De André cantasse alla De Gregori. Le canzoni scritte a quattro mani sono La cattiva strada, Oceano, Dolce Luna e Canzone per l’estate. Buoni brani ma nulla di più. C’è poi Nancy, una traduzione da Cohen di De André e Le storie di ieri, un disegno del fascismo di ieri e di oggi, opera del solo De Gregori, a cui non è stato permesso di inciderlo nel suo disco detto della Pecora. Ma Volume 8 va ricordato più che altro per le due canzoni scritte dal solo De André, Giugno ’73 e la straordinaria Amico fragile, definita non a torto dallo stesso autore come la sua composizione più importante. È un’eruzione, un flusso di coscienza ispido e ispiratissimo, stra-autobiografico e inebriante come la bottiglia di superalcolico con cui l’ha scritta, tutta in una notte. Sono le ultime canzoni composte da Fabrizio De André da solo. Grandi canzoni. Da questo momento scriverà sempre insieme ad altri, e nasceranno molte delle sue cose migliori. 58

Si fa strada l’idea di comprare terra in Sardegna, una Revigliano più aspra e più grande. Fabrizio ha visto delle terre vicino a Tempio Pausania. Da qui (anche da qui) la decisione di cedere alle molte e assai remunerative lusinghe e andare finalmente sopra un palco, lui, le sue canzoni e un gruppo dietro. Si prende il rischio di esordire dal vivo a 35 anni, Fabrizio De André. Fervono i preparativi per la prima tournée. Ad accompagnarlo De André chiama il nucleo della nuova formazione dei New Trolls: Gianni Belleno, Ricky Belloni, Giorgio D’Adamo e Giorgio Usai. Provano un mese intero. De André è teso. 18 marzo, prima data alla Bussola di Viareggio, da Bernardini. Clima da grandi occasioni, retropalco nervoso, platea quanto mai assortita. Abbondanza di autorità e pienone di gente, incanalatasi lì da tutta Italia per guardarlo, sentirlo, scoprirlo, una buona volta, questo tipo che gli ha smosso l’anima e i pensieri e che non si è quasi mai fatto vedere, ha rifiutato concerti, radio, TV. Prima d’ora. In apertura dovrebbe esibirsi un cabarettista, Beppe Grillo, fratello di un suo amico e semi-manager. Ma De André gli dice che è meglio salga sul palco dopo. Ci sale lui, sbronzo di whisky e spinto, fisicamente spinto, da Paolo Villaggio e da Marco Ferreri, il regista. Chitarra in mano, leggìo davanti e poco più in là una marea di gente. Alla fine Grillo neanche ci prova a esibirsi, non se lo filerebbe nessuno. Il concerto è stato un successo, il pubblico ha risposto in modo totale. Insomma: “Credevo peggio”. Vengono poi fuori polemiche per i compensi ricevuti, ma il tour tutto sommato fila liscio.

1976 La tournée dura fino al luglio del ’76 per una novantina di date; ad aprirle, in molte occasioni, un giovane Eugenio Finardi. Ai concerti nei posti da borghesi si alternano quelli per i circoli di Lotta Continua o il festival di Re Nudo. Spesso De André propone una versione di Via della povertà aggiornata, con i nomi di politici e personaggi pubblici del momento, da Agnelli ad Almirante, da Montanelli a papa Paolo VI. A un certo punto entra in scaletta tutto l’album Storia di un impiegato. Nella data di Sanremo, per la prima volta, Fabrizio dedica Preghiera in gennaio a Tenco. In aprile De André compra la tenuta dell’Agnata in Sardegna. In estate, a 36 anni, prende la patente.

1977 Mancano canzoni nuove. De André ascolta con interesse Nastro giallo, il primo album di un giovane cantautore veronese, Massimo Bubola. 59

Traccia biografca

Un giorno alza il telefono, chiama Bubola e gli chiede di scrivere delle canzoni con lui e per lui. Bubola si trasferisce in Sardegna, i due iniziano a parlare molto, di massimi e minimi sistemi, e a scrivere. Il 30 novembre Dori Ghezzi mette al mondo Luisa Vittoria, detta Luvi.

1978 Le canzoni scritte con Massimo Bubola affluiscono in Rimini, il nuovo album, pubblicato per la Ricordi, visto che la Produttori Associati ed ex Bluebell è fallita. Diversi pezzi del disco raggiungono una certa notorietà: quello che lo intitola, Volta la carta, Andrea, Sally. Ma, oltre ai due strumentali Tema di Rimini e Folaghe, anche il resto del lavoro ha spunti di gran pregio, da Parlando del naufragio della London Valour a Coda di lupo, da Zirichiltaggia (Baddu tundu), che è la prima volta di De André alle prese con un dialetto, in questo caso il sardo, sino alla traduzione di Romance in Durango di Dylan, ribattezzata Avventura a Durango. L’album, e in particolare la canzone principale, si conficcano, non senza una certa pietas, nella carne della piccola borghesia dell’epoca, nelle sue piccole crisi d’identità, nel suo piccolo male di vivere, nelle sue piccole vigliaccate, già diverse da quelle dei perbenisti benpensanti degli anni ’60. I testi filtrano il meglio di quel che ha stilisticamente prodotto De André fino a ora, le sonorità si avvicinano a certo rock americano in modo fertile. Rimini colleziona, a partire da giugno, cinque mesi in classifica. Si arrampica fino al quinto posto. In estate la PFM tiene dei concerti in Sardegna. Di Cioccio e compagnia vanno a parlare con De André, vogliono proporgli un tour insieme. Lui nicchia, vede già folate di rock spazzare via le sue canzoni, ma alla fine si fa convincere. I membri del gruppo si spartiscono il lavoro di arrangiamento sui vari brani. La Lato Side pubblica Le canzoni di Fabrizio De André, a cura di Luigi Granetto. Ci sono i testi, delle note agli album e una testimonianza della madre di De André. A dicembre parte la storica tournée con “accompagnamento e arrangiamenti” della Premiata Forneria Marconi. Franz Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco Mussida, Flavio Premoli, Lucio “Violino” Fabbri e Roberto Colombo innestano una spina dorsale rock a molti dei vecchi e nuovi pezzi di De André. Apre i concerti David Riondino.

1979 Si decide di registrare le date di Firenze e Bologna, dal 13 al 16 gennaio, anche se poi per problemi alle apparecchiature uno dei concerti non potrà essere utilizzato. Il trionfale tour – capita che ci sia qualche casino e qualche 60

contestatore, ma nulla di che – termina a febbraio. Sono stati battuti 12.521 chilometri e 35 città. A luglio entra in classifica il primo album dal vivo tratto dalla tournée. In sei mesi di permanenza raggiungerà il settimo posto, ma negli anni continuerà a vendere senza sosta. Una nuova generazione si è avvicinata alle canzoni di De André. Il 27 agosto nella tenuta dell’Agnata, Fabrizio viene rapito insieme a Dori Ghezzi. L’avvenimento fa notizia. Il cantautore che aveva negato per anni il suo volto e la sua presenza pubblica torna a scomparire, stavolta vittima di un sequestro di persona. Son quattro mesi duri, i due compagni riscoprono il caldo e il freddo, la paura, la speranza, la depressione. Liberati due giorni prima di Natale, perdonano i sequestratori sardi (non i mandanti). La “mente” della banda è un veterinario toscano che, come si sarebbe scoperto in seguito, ha tutti i dischi di De André in casa. Muore, suicida, Riccardo Mannerini.

1980 A inizio anno De André fonda una sua etichetta discografica, la Fado (dalle iniziali dei nomi suo e della sua compagna). Il primo LP pubblicato è Mama Do-dori di Dori Ghezzi, dove lui suona in qualche brano, come Stringimi piano, stringimi forte, scritto da Bubola e dedicato al rapimento. Nel disco avrebbe dovuto comparire anche una traduzione di Famous blue raincoat di Leonard Cohen, fatta da De André con Sergio Bardotti e intitolata La famosa volpe azzurra. Ma Dori Ghezzi non se la sente di confrontarsi con tal canzone, che quindi passa a Ornella Vanoni per il suo album Ricetta di donna. In ottobre viene pubblicato un 45 giri con Una storia sbagliata (dedicata a Pasolini) e Titti, scritte con Bubola prima di iniziare a lavorare al nuovo album. Il lato A è la sigla di un programma televisivo sui delitti Pasolini e Montesi. In novembre esce, in edizione economica, un secondo album tratto dai concerti con la PFM (starà in classifica ad aprile e maggio dell’anno dopo e arriverà al sedicesimo posto). De André inizia a pensare a un nuovo disco, che tratti in qualche modo anche l’esperienza del rapimento. Ha in mente due titoli di canzoni, “Chi non ruba non è un uomo” e “Questa non è l’ora di fumare sigarette”, due frasi che gli dicevano spesso i rapitori. A fine anno inizia a scrivere i nuovi brani, sempre insieme a Bubola.

1981 Il nuovo disco viene registrato tra giugno e luglio a Milano, con gli arrangiamenti di Mark Harris e Oscar Prudente. 61

Traccia biografca

Alla fine di agosto esce il nuovo album, comunemente chiamato l’“Indiano” per l’immagine della copertina. Il tour e la recente esperienza del sequestro influenzano in qualche modo il lavoro, che trae linfa dall’accostamento tra culture uguali e diverse come quelle degli indiani d’America e dei pastori sardi. Fra i brani si segnalano Quello che non ho, una sorta di manifesto, di filosofia di vita; Fiume Sand Creek, sul massacro del popolo indiano; Hotel Supramonte, l’unico episodio che sfiora delicatamente i momenti del sequestro; Se ti tagliassero a pezzetti, all’apparenza solo una bella canzone d’amore; Canto del servo pastore. Sono i momenti importanti di questo disco, dove trovano posto anche l’Ave Maria sarda e due altre composizioni, Franziska e Verdi pascoli, forse meno pregnanti. Le vendite vanno piuttosto bene. Il disco conquista il terzo posto in classifica, dove rimane quattro mesi, da novembre in poi. È in partenza un nuovo tour con la direzione artistica di Mark Harris e, fra l’altro, la partecipazione come strumentista di Mauro Pagani, già con la PFM pre-De André. I due iniziano a parlare di una collaborazione per un futuro disco. La Fado pubblica il nuovo album di Bubola, Tre rose. De André lo produce e si produce ai cori. Esiste anche una sua versione, mai pubblicata, proprio del brano Tre rose.

1982 Esce, sempre per la Fado, Chiamali tempi duri, l’unico album dei Tempi Duri, band di quattro ragazzi tra cui Cristiano De André. Pare che il padre abbia dato una mano per i testi. La tournée prosegue, e allunga anche verso i Paesi di lingua tedesca, dove da qualche anno De André gode di una discreta notorietà. Via della povertà viene offerta ammodernata da versi tipo: “Al Quirinale sono disperati / Pertini è diventato vecchio / e Andreatta piange disperato / vedendo Craxi che ride nello specchio”; oppure: “Se Bearzot ha rifatto l’Italia / Garibaldi ha diviso l’Africa”. Esce, per le edizioni EDA, Fabrizio De André, un libriccino dell’amico e giornalista de “La Stampa” Marco Neirotti.

1983 Inizia, insieme a Mauro Pagani, il lavoro sul nuovo disco, in cui De André vuole manifestare compiutamente la sua attenzione per l’etnia e le etnie, anche attraverso l’uso del dialetto genovese nei testi. In estate vengono fatti alcuni provini delle canzoni. A fine anno tocca alle registrazioni vere e proprie. Una parte consistente delle canzoni scritte non verrà pubblicata. 62

1984 Creuza de mä esce in febbraio, ed è album stupendo e spartiacque non solo per il percorso artistico di De André ma per tutta la musica italiana. Pagani, oltre a comporre le musiche, forgia, affiancato da De André, arrangiamenti affascinati e affascinanti di Mediterraneo. Se ne sente il fiato acre e impudico, grazie anche a una tessitura inconsueta, colorata di strumenti etnici, con basso e batteria preziosi e poco invadenti. La bellissima Creuza de mä apre l’album. E poi il coito di Jamin-a, la morte bambina di Sidun, la leggenda di Sinàn capudàn pascià, il ritratto dinoccolato di ‘A pittima, la festa peripatetica di ‘A dumenega, la nostalgia di Da a me riva: sono solo sette canzoni, ma bastano. La voce di De André va a cogliere tonalità nuove, rintocca molto meno sui bassi. I testi non fanno che confermare le sue doti di scrittura. Insomma: se in alcuni casi è consentito usare il termine capolavoro, questo è uno di quelli. Parecchi non se ne accorgono: il disco arriva solo al decimo posto nelle classifiche e ci staziona per due mesi appena, maggio e giugno. A novembre tocca comunque le 100.000 copie. A maggio Carlos Santana e Bob Dylan si esibiscono a Milano, Verona, Roma. David Zard, che organizza il tour dei due, chiede a De André di aprire il concerto, prospettandogli perfino un possibile duetto con Dylan. Fabrizio rifiuta e, per inciso, proprio in quel periodo smette anche di ascoltare musica angloamericana. Il 7 agosto da Mestre parte il nuovo tour, a due anni di distanza dal precedente. Si apre con La guerra di Piero. Mauro Pagani è sempre al fianco di De André. A fare da supporter, il cantautore ed ex cestista Angelo Baiguera. I concerti proseguono fino alla fine di settembre. Una sera a Bologna De André parla con Ivano Fossati di una possibile collaborazione. Riprenderanno il discorso più volte. In autunno si aggiudica la neonata targa Tenco per il miglior album dell’anno e quella per la miglior canzone in dialetto con Creuza de mä. Ritira le targhe ma non suona.

1985 Con lo pseudonimo Ferri, scrive (presumibilmente con la mano sinistra) le parole di Faccia di cane, che i New Trolls portano a Sanremo vincendo il Premio della critica. Insieme ad altri 21 cantanti Fabrizio partecipa a una registrazione di Volare di Modugno, i cui proventi vanno a opere umanitarie in Etiopia. Dovrebbe essere il nostro Live Aid, ma diciamo che oggi quell’incisione ha valore più che altro per la sua presenza. In luglio muore Giuseppe De André. Al capezzale chiede al figlio di smettere di bere. Smetterà. 63

Traccia biografca

Il seguito di Creuza de mä tarda ad arrivare. De André e Pagani fanno e disfano idee. Che fare? E come farlo? È terribilmente difficile imbastire il seguito di un disco di quel livello.

1986 Si parla di un album dedicato alla Mongolia. L’idea prevede una realizzazione a più mani: quelle di De André, Pagani, Fossati e anche di Vasco Rossi. La cosa naufraga dopo poco. Un altro progetto solo abbozzato è quello di un disco ispirato all’Africa. Da fine maggio a fine settembre De André e Pagani girano il Mediterraneo in barca, fin verso Grecia e Turchia. È una bella esperienza, ma di strettamente artistico non nasce nulla.

1987 De André e Pagani si dedicano alla stesura della colonna sonora (inedita su disco) di Topo Galileo, l’unico film di Beppe Grillo. Giuseppe Adduci pubblica per Gammalibri Fabrizio De André, il primo volume d’impronta saggistica dedicato all’opera di De André. Inizia a profilarsi qualche idea su un nuovo album, sempre con Pagani.

1988 Nell’album La pianta del tè Ivano Fossati ospita De André e De Gregori in Questi posti davanti al mare. Il risultato riesce a essere il prodotto dei tre fattori. Ecco finalmente l’idea propulsiva per il nuovo album: la stupidità umana, e quella italiana in particolare. De André e Pagani iniziano a lavorarci concretamente, scrivendo canzoni.

1989 Le Edizioni Associate pubblicano Fabrizio De André - Da Marinella a Creuza de mä, di Doriano Fasoli. Vi si trovano una lunga intervista, tutti i testi delle canzoni e un’analisi degli album. In agosto improvvisamente muore Mauro, il fratello maggiore a cui Fabrizio è fortemente legato. È un importante avvocato e prezioso collaboratore di uno dei più importanti industriali italiani, Serafino Ferruzzi, ma soprattutto è ed è sempre stato in qualche modo il suo alter ego, la pecora bianca della famiglia. Con la scomparsa del padre e del fratello, De André ha perso in pochi anni due importanti punti di riferimento. Fabrizio chiede a Ivano Fossati un aiuto per la stesura di due testi in genovese da inserire nel nuovo album. Il 7 dicembre De André e Dori Ghezzi si sposano. È quindici anni che stanno sempre insieme. 64

A fine anno la rivista “Musica e dischi”, con un referendum fra giornalisti musicali, indica Creuza de mä come il miglior disco italiano del decennio.

1990 Il nuovo album viene registrato negli studi Metropolis di Milano. Degli arrangiamenti di alcuni pezzi si occupano Piero Milesi e Sergio Conforti, del resto Pagani con De André. Fabrizio collabora al disco La mia razza di Mia Martini, che lo ringrazia nei crediti. In autunno De André torna al fronte, a sei anni di distanza da Creuza de mä. È il più lungo intervallo fra due suoi dischi. Il nuovo lavoro, intitolato Le nuvole, è prodotto e quasi interamente scritto ancora con Pagani. Il disco, irrorato di satira, è diviso in due parti. La prima, in italiano, scardina in chiave antiborghese le storpiature dell’epoca, dal consumismo al conformismo, con quattro brani stilisticamente assai diversi l’uno dall’altro: il prologo di Le nuvole, Ottocento, Don Raffae’ (testo composto insieme a Bubola) e La domenica delle salme. La seconda parte, cantata utilizzando dialetti di mare, offre ritratti di quella marginalità cara a De André. Ci sono le genovesi Megu Megùn e ‘Â çímma (scritte per i testi con Ivano Fossati), la napoletana e tradizionale La nova gelosia e la sarda Monti di Mola. In realtà è evidente che l’intero variopinto lavoro ha una sua omogeneità. Si tratta di due (o otto come le canzoni) facce della stessa medaglia. Il singolo, chiamiamolo così, è Don Raffae’. Il disco è premiato con il secondo posto in classifica e sei mesi di permanenza, a partire da novembre. Da La domenica delle salme viene tratto un video con la regia di Gabriele Salvatores. De André canta Davvero davvero nell’album di Mauro Pagani Passa la bellezza e interpreta e scrive insieme a Francesco Baccini Genova blues, incluso in Il pianoforte non è il mio forte.

1991 A casa De André, durante qualche conviviale incontro, nasce tra una sigaretta e l’altra l’ipotesi di un disco a quattro tra De André, De Gregori, Baccini e Fossati. Il 18 febbraio da Modena parte un tour nei Palasport che termina un mese dopo a Milano. È ancora Pagani a occuparsi della direzione musicale. Lo spettacolo parte con il prologo di Le nuvole e quindi con De André che entra in frac a cantare Ottocento. Il progetto di un disco a quattro si arena, anche perché, a quanto pare, De Gregori si ritira ben presto. Ma da lì probabilmente nasce l’idea di un album a due fra De André e Fossati, in qualche modo sancito da una partecipazione a sorpresa di quest’ultimo a un concerto del tour di Fabrizio. 65

Traccia biografca

In marzo e aprile Il viaggio, una raccolta non autorizzata di brani dei primi anni, raggiunge il sesto posto in classifica. Il primo maggio De André partecipa al rituale concerto della CGIL in piazza San Giovanni a Roma, duetta con Roberto Murolo in Don Raffae’. Ma l’apparizione è stata registrata due notti prima. Il duetto viene ripetuto anche per il nuovo album dell’artista napoletano, Ottantavogliadicantare, che esce nel 1992. In estate l’artista riparte in tour. Esce per Sperling & Kupfer Amico fragile - Fabrizio De André, una biografia curata dall’amico giornalista Cesare G. Romana, dove De André si racconta umanamente e artisticamente. A ottobre Le nuvole viene premiato dal Tenco come miglior album dell’annata e La domenica delle salme come miglior brano. Stavolta De André dà vita a un breve set. A fine anno esce 1991 Concerti, live che documenta l’ultimo tour: il disco rimane solo un mese in classifica, a gennaio 1992, raggiungendo al massimo il ventesimo posto.

1992 De André collabora con i sardi Tazenda in due brani dell’album Limba. Canta in Etta abba, chelu ed è coautore della sanremese Pitzinnos in sa gherra (Marielli-De André). Fabrizio è coautore anche di Navigare (Manfredi-De André-Gianco), che canta con Ricky Gianco nel suo lavoro Piccolo è bello. A ottobre parte una nuova tournée, la sua prima teatrale. De André e Fossati si sono decisi: faranno un disco insieme.

1993 Si conclude il lunghissimo tour. A Santa Teresa di Gallura comincia a prendere corpo l’album con Fossati. I due artisti iniziano a scrivere e scambiarsi idee.

1994 De André continua le puntate in dischi altrui. Compare come cantante in La fiera della Maddalena, dall’album Max del giovane e dotatissimo collega genovese Max Manfredi. De André e Fossati lavorano sodo sul progetto comune. Si rinchiudono per settimane in un palazzo sulle alture dietro Camaiore, isolati per non perdere concentrazione. Scrivono, buttano, limano, discutono, chiacchierano (il 55enne De André della sua prostata, il 44enne Fossati dei suoi amori), litigano pure. Compongono con due chitarre oppure con il pianoforte di Fossati. A volte escono e si girano un po’ d’Italia, specie il sud. 66

1995 A gennaio muore la madre Luisa. A maggio De André e Fossati terminano, in una cascina in provincia di Alessandria, l’estenuante lavoro sulle canzoni dell’album. La pubblicazione è prevista per settembre. Il 18 maggio, durante un concerto a Milano, viene alla luce il progetto Canti randagi, una sorta di tributo a De André da parte di alcuni dei maggiori artisti e gruppi di musica tradizionale italiana, che riprendono e traducono nei rispettivi dialetti alcune sue canzoni. Se il relativo album si trovasse ancora nei negozi, sarebbe più che consigliabile. A lavoro di scrittura finalmente e finemente ultimato, De André e Fossati si ritrovano con vari musicisti a Longiano, in Romagna, per la preproduzione dell’album a doppia firma. Emergono però divergenze artistiche incolmabili. Ancora De André cantante: in Mis amour, dall’album A toun souléil dei provenzali Troubaires de Coumboscuro, e in Un libero cercare, dal disco omonimo di Teresa De Sio. Arriva settembre, ma l’uscita dell’album di coppia viene rinviata. Il progetto è sospeso. Per la prima e unica volta scrive un brano con il figlio Cristiano per un comune amico morto di AIDS. Si intitola Cose che dimentico, esce prima su CD singolo e poi nell’album Sul confine di Cristiano, che ha ormai una sua carriera come musicista, fra l’altro di grande talento. Viene ristampato in versione ampliata il libro di Doriano Fasoli, con il nuovo sottotitolo “La cattiva strada. Da Carlo Martello a Don Raffae’”. Vengono aggiunte una discografia completa a cura di Luciano Ceri e testimonianze di vari personaggi, da Fernanda Pivano a Paolo Villaggio, da Francesco De Gregori a Beppe Grillo, da Marco Ferreri a Dori Ghezzi. Fossati lascia. Le canzoni passano tutte a De André, che ci lavora, per gli arrangiamenti, con Piero Milesi a Milano.

1996 La prima metà dell’anno è dedicata alla realizzazione del nuovo disco (“con qualche problema, visto che non cantavo da tre anni e fumo troppo”). Gli ultimi tasselli sono la scelta del titolo e l’intervento vocale di Fossati in due brani. De André partecipa – con una versione inedita di Sidun cantata con Mauro Pagani e il coro Exodus – a Fatto per un mondo migliore, album benefico per Acnur. 18 settembre 1996: esce Anime salve, il volume 13 della discografia di De André. L’ultimo. Anche se doveva essere il primo di tre contrattualizzati con la BMG (2000 e 2003 le scadenze degli altri). È un album di rara inten67

Traccia biografca

sità e bellezza, rasenta la perfezione. Possiamo arrischiare? È il suo disco più bello. Le canzoni non hanno cedimenti, De André è in grande vena, perfettamente in equilibrio tra testo e musica, tra forma e contenuto. Si parte a voce sola con Prinçesa: “Sono la pecora, sono la vacca, che agli animali si vuol giocare / sono la femmina camicia aperta / piccole tette da succhiare”. E qualche perbenista storce ancora la bocca. Vade retro Satana. Ci sono tante storie, piene, vere, belle, forti. Ci sono i rom di Khorakhanè (a forza di essere vento), ci sono le riflessioni e i riflessi di Anime salve, l’alluvione e l’amore di Dolcenera, il sogno e il ricordo di Ho visto Nina volare, la storia d’ipocrisia di  cúmba, le faide della incantevole Disamistade, il mare tangibile, concreto, di Le acciughe fanno il pallone (arrangiata da Cristiano De André). Fossati interviene in  cúmba e in Anime salve. E per chiudere: “Ricorda, Signore, questi servi disobbedienti alle regole del branco”. Le parole della conclusiva Smisurata preghiera sono le ultime nette, ampie pennellate all’affresco de I miserabili. Un addio da grande artista. Il disco entra direttamente al primo posto in classifica. A novembre De André fa il suo esordio come scrittore con il romanzo Un destino ridicolo, scritto ovviamente a quattro mani, con Alessandro Gennari.

1997 A marzo parte una lunga serie di concerti che scavalcherà stagioni e posti all’aperto e al chiuso. Cristiano è sul palco a fianco del padre, nello stesso ruolo che aveva Mauro Pagani nei tour precedenti. A cura di Romano Giuffrida e Bruno Bigoni viene pubblicato Fabrizio De André - Accordi eretici (Euresis), un volume che analizza sotto molteplici aspetti l’opera del cantautore, con saggi di Ezio Alberione, Bruno Bigoni, Fulvio De Giorgi, Franco Fabbri, Umberto Fiori, Romano Giuffrida, Liana Nissim, Luigi Pestalozza e con un’introduzione del poeta Mario Luzi. Esce anche, a cura di Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André. Conversazioni ai margini (Demos editore). Il volume assorbe una serie di colloqui dell’autore con De André su vari argomenti. A ottobre De André regala un piccolo concerto al Premio Tenco, dove Anime salve ottiene la targa come miglior disco e Prinçesa come miglior canzone. Per la terza volta De André conquista contemporaneamente i riconoscimenti per album e canzone. Nella storia del Tenco è successo solo un’altra volta, protagonista Paolo Conte. In autunno viene pubblicata la raccolta M’innamoravo di tutto, con un’inedita Canzone di Marinella in duetto con Mina. Il 2 novembre debutta, al Teatro Regio di Parma, il tour invernale “M’innamoravo di tutto”. La voce a volte fatica un po’ a uscire (“Ho la gola a quadretti” dice lui) ma nessuno se ne accorge. 68

1998

Il tour va avanti fino a primavera e fino alla pubblicazione di In concerto, il live tratto dai concerti del 13 e 14 febbraio a Roma (Teatro Brancaccio). In luglio inizia la tournée estiva, e poco dopo un fastidioso mal di schiena. Nell’agosto De André interrompe i concerti. Un tumore ai polmoni lo ha aggredito e non lo mollerà più. A metà dicembre viene ricoverato a Milano all’Istituto dei Tumori. Torna a casa solo a Natale.

1999 Fabrizio De André si spegne l’11 gennaio, alle 2 e mezzo di notte, tra una domenica e un lunedì. I quotidiani gli dedicano le prime pagine, e tre o quattro interne. Qualcuno lo chiama poeta, come se la canzone fosse un’arte minore rispetto alla poesia. I funerali si tengono il 13 gennaio nella basilica di Santa Maria Assunta a Genova, fra gli occhi gonfi e le lacrime vere di 10.000 persone di ogni tipo. Sì, perché ognuno ha il suo Fabrizio De André.

69

INTERVISTA

Lei è di Genova, come De André. Vi cono­ scevate anche prima che la musica in qualche A GIAMPIERO REVERBERI modo vi legasse? Genova, ottobre 2002 No. Fabrizio l’ho conosciuto che io avevo 19 anni, lui uno di meno. Non ci conoscevamo prima perché si viveva a Genova tutti e due, sì, però lui nella Genova-bene, io nella Genova-male; De André stava nei quartieri alti di Albaro, io alla Foce. Suo padre era un noto dirigente ed esponente politico, il mio invece un idraulico. Ci incontrammo a un certo punto perché io conoscevo Arduino, direttore del negozio Ricordi, dove ero un cliente fisso, a comprare dischi e spartiti; e mio fratello Gianfranco aveva appena cominciato a lavorare alla Ricordi a Milano anche grazie all’interessamento di questo signore. Arduino è stato un personaggio importante nella Genova di quegli anni, anche se misconosciuto – nessuno lo ricorda o lo cita mai. Fu grazie a lui che Gianfranco, che ha cinque anni più di me, finì a lavorare alle edizioni musicali da Rapetti, il papà di Mogol, e da lì cominciò a portarsi su, a Milano, gli artisti di Genova che conosceva. Gino Paoli fu il primo; e anch’io lì cominciai la mia collaborazione con la Ricordi, il mio primo arrangiamento in assoluto fu quello de La gatta. A un certo punto Arduino si tolse dalla Ricordi e fondò la Karim. Era il direttore artistico, il direttore generale, insomma faceva tutto lui; con i soldi di alcuni imprenditori genovesi, che lo conoscevano e si fidavano, che conoscevano e apprezzavano Fabrizio e avevano capito che con i dischi in quegli anni si poteva guadagnare. Così nacque la Karim, e il primo artista sotto contratto fu appunto Fabrizio; e quando venne il tempo del primo 45 giri, Nuvole barocche, Arduino chiamò me. Un po’ perché ero di Genova, un po’ perché costavo poco; e forse anche perché in qualche modo ero in sintonia con quel tipo di progetti. Qui siamo nella preistoria. Primi anni ’60... Inizi inizi, proprio il 1960. Nuvole barocche è di quell’anno. L’anno seguente facemmo La ballata del Miché, poi più avanti La guerra di Piero. Cominciò così. Immagino che avevate pochi mezzi, che si lavorava in economia... Non è che avevamo pochi mezzi; è che si cercava di spendere poco, anzi meno – il vecchio discorso dei genovesi un po’ pidocchiosi. D’altra parte Fabrizio non è che richiedesse grandi risorse; e anch’io, non ho mai usato l’orchestra come un modo di sentirmi importante. Quando ritenevo che oc73

Intervista a Giampiero Reverberi

corressero 80 persone, come in Tutti morimmo a stento, richiedevo 80 persone; quando ne bastavano due, come nella Ballata del Miché, si procedeva con due. Devo dire comunque che quando ebbi bisogno dell’orchestra, non lesinarono; e ne usai una già a cominciare da Nuvole barocche. E dove registravate? Mah, faccio fatica a ricordare. Credo alla Ricordi. Sotto il palazzo storico, negli scantinati. Avevamo un Ampex tre piste, c’erano ottimi tecnici del suono come Patergnani, Natali – gente che con pochi mezzi sapeva ottenere bellissime sonorità. Davvero alchimisti del suono. Quel primissimo giovanissimo De André era l’ingenuo timido però bril­ lante personaggio che raccontano le storie? Sì, certo. Fabrizio era innanzitutto di una simpatia straordinaria; un tipo con molta ironia di sé, e poi con una grande cultura. Sul fatto della timidezza, bisogna chiarire; più che timido, diciamo che era facile a essere coinvolto emotivamente. Fabrizio era il tipo che se incontrava qualcuno per strada che gli proponeva una collaborazione, un disco, non riusciva a dire di no. Più avanti, quando il gioco è diventato più serio, con Casetta e la Produttori Associati, lui ha tratto molto vantaggio da suo fratello Mauro che gli faceva da scudo, che in qualche modo bilanciava questo suo modo di fare. C’erano delle volte che lui d’istinto diceva di sì a qualche progetto, poi chiamava Mauro e lo avvisava; guarda, ti chiamerà questo o quello perché ha parlato con me, raccontagli qualche balla, risolvila tu per me. Anche con Casetta, ricordo che qualche volta si andava a cena fuori, c’ero anch’io; e Casetta era un tipo affascinante, un grande signore, uno che ci sapeva fare. Una cena con lui era piena di buoni cibi e vini – e in certe condizioni, a parole, sei disposto a fare tutto anche gratis. Per fortuna poi, al momento del contratto, arrivava Mauro e fermava tutto, e metteva i puntini sulle i. Fabrizio non ha mai amato troppo quelle sue prime registrazioni. Non per nulla adesso, chi le vuole ascoltare le trova in un disco intitolato Peccati di gioventù. Furono davvero “peccati” quelle canzoni? Vede, c’è sempre una sorta di snobismo nel giudicare certe pagine passate, che forse è una forma di intellettualismo. Faccio un esempio su un’altra sponda; se lei va da Morricone e gli fa i complimenti per le sue colonne sonore, se ne fa un nemico. Morricone vuole essere ricordato e complimentato per i suoi lavori più colti, per quella musicaccia inascoltabile che ogni tanto compone; mentre in realtà è stato un genio proprio nella composizione di musica per film, uno dei più grandi in assoluto. Sono forme per certi versi di autolesionismo; che si spiegano con il fatto che ogni artista crede sempre di valere più di quello per cui è apprezzato. Nel caso di Fabrizio, posso im74

maginare che dopo aver pubblicato dischi come Creuza de mä si sia sentito così avanti da guardare un po’ dall’alto in basso le sue prime pagine. Io sono convinto del contrario. Secondo me negli ultimi album non ci sono la freschezza, la genuinità, la purezza di quelle opere d’inizio – c’è molto più artificio. Mi è capitato di partecipare a Garessio a una tavola rotonda su Fabrizio, dove ho ascoltato molti che si sono parlati addosso. Lì nel mio intervento credo di aver detto una cosa molto precisa, facendo un paragone tra il giardiniere che si coltiva le rose nel suo giardinetto e l’industriale dei fiori che ha mille serre e mille collaboratori, uno per ogni fiore da coltivare. È un’altra cosa; e magari alla fine puoi restare abbagliato dalla coreografia, dai mille colori e profumi, ma la poesia che c’era nel giardinetto era una cosa magica che non hai più. No, si sbaglia a giudicare così il suo percorso; senza dimenticare poi che certe cose le hai raggiunte perché prima ce ne sono state altre. E poi, diciamo anche un’altra cosa; che le prime canzoni erano tutte sue, mentre quelle dopo no. Ecco, questo punto dei collaboratori è un po’ il nodo di tutta la vicenda. Lei come lo vede? Guardi, quando Casetta fallì e Fabrizio passò alla Ricordi, alla metà degli anni ’70, mi disse una frase storica: “Fino ad ora, i dischi li ho sempre fatti quando ho voluto io. Da adesso in poi, temo di doverli fare quando vorranno gli altri.” Era davvero così. Fino a quell’epoca, lui prima scriveva le canzoni – quando ne aveva voglia, quando gli veniva l’ispirazione – poi le mettevamo a posto insieme e le pubblicavamo. Casetta sapeva aspettare. Era come se avesse un conto in banca vincolato; non lo poteva usare subito, ma prima o poi lo avrebbe speso. Con la Ricordi l’orizzonte cambiò, il contratto proprio lo prevedeva. Fu allora che entrarono in gioco i Bubola, i Pagani, e il ruolo di Fabrizio cambiò: non doveva più solo scrivere ma cercare collaboratori che lo aiutassero a produrre dischi. Poi, per carità, Fabrizio era così bravo e intelligente che qualsiasi idea venisse da chiunque, parlo di testi, sapeva assorbirla e modellarla con uno stile inconfondibile – la rendeva davvero sua. Musicalmente, invece, devo dire che a mio avviso si è perso per strada. Non so quanta roba ci sia di suo nelle ultime cose. In quello che abbiamo realizzato insieme sì, e credo che si possa anche desumere dalla natura stessa della musica. Non so, faccio un esempio; un brano come l’introduzione di Tutti morimmo a stento, si capisce che ha una tale fisionomia che non appartiene a lui, è mano mia. Nella Buona Novella, tutti i pezzi dove c’è pianoforte sono chiaramente roba mia, quelli dove c’è una chitarra sono di Fabrizio. I pezzi per coro sono evidentemente miei, perché De André Stravinskij non lo conosceva e lì ci sono dei riferimenti precisi. Se uno conosce 75

Intervista a Giampiero Reverberi

un po’ la musica, può capire chi ha messo mano a cosa; ed è chiaro che in dischi impegnativi come Tutti morimmo a stento, Fabrizio non era in grado di reggere da solo tutta l’architettura. Lì c’è un mio intervento profondo. Lei però non è accreditato come autore... Solo perché la SIAE all’epoca consentiva che l’etichetta potesse essere differente rispetto al deposito originale. In realtà io sono a tutti gli effetti autore di molte parti di quei dischi. A dire il vero, a tutti faceva comodo che apparisse solo il nome di Fabrizio; anche a me. Io avevo l’ambizione di comporre qualcosa di più grande e importante di qualche semplice canzone, e non mi interessava proprio avere il nome in etichetta. L’ho sempre pensata così. Ricordo che agli inizi di carriera Gino Paoli non era iscritto alla SIAE e voleva che i suoi pezzi li firmassi io. “Poi mi dai i soldi e ci sistemiamo.” No, mi rifiutai; anche perché contavo di scrivere un giorno o l’altro qualcosa di mio, veramente importante, e non avrei mai voluto che qualcuno pensasse che non era davvero farina del mio sacco. Sono sempre stato dell’idea che è giusto firmare le cose che davvero si sono scritte. Così con Fabrizio, ci sono molte canzoni in cui non ho messo mano ed è giusto che siano sue e solo sue. Ma La buona novella, Tutti morimmo a stento, quelli sono progetti comuni che è stato giusto spartire. Spartire naturalmente a metà; perché poi è inutile far la conta, io ci ho messo due chili di farina, tu due etti di zucchero. Anche quando collaborammo con i New Trolls per Senza orario, senza bandiera fu così. La musica di Signore, io sono Irish è tutta mia ma è giustamente cointestata; come altre parti che sono di Nico e dei ragazzi, dove ho collaborato solo marginalmente. La citazione classica della Canzone dell’amore perduto, il Concerto per tromba di Telemann, fu un’idea sua o di Fabrizio? Di Fabrizio. Mi interessa ricostruire il clima di quegli anni. Le influenze, per esempio, il tipo di musica che si ascoltava e che entrava in gioco... Posso parlare per quel che mi riguarda. Allora avevo, e ancora oggi ho, una cultura assolutamente aperta. Quando avevo 12 anni, mio fratello mi regalò Artistry In Rhythm di Stan Kenton, e quella fu la mia iniziazione al jazz. Da quando misi i pantaloni lunghi, verso i 15-16 anni, fino al diploma, fui abbonato fisso alle stagioni musicali che si tenevano qui a Genova. Musica di tutti i tipi, sinfonica, jazz, anche leggera. Ricordo di essere andato una volta con Luigi Tenco a un concerto di Van Wood – capitava anche quello. Non avevo pregiudizi di nessun genere. Quello che arrivava a Genova, lo si andava a vedere: Sinatra, Chet Baker, Gerry Mulligan – chiunque fosse. 76

Questo naturalmente ha avuto riflessi nel mio lavoro; ho sempre saputo arrangiare di tutto, e l’ho sempre fatto volentieri – dal rock & roll di Jannacci e Gaber alla Gatta di Gino Paoli, dove usai un flauto, agli arrangiamenti per Lucio Battisti fino ai New Trolls, con le chitarre distorte e quel tipo di rock lì. Fabrizio invece musicalmente era più pigro, no? Uno dei rimproveri che gli si muove di solito è di non aver molto curato l’aspetto musicale nelle sue prime canzoni; non come i testi, almeno. Per me Via del campo resta una delle più belle canzoni che siano mai state scritte. Se poi uno vuol dire che è musica semplice, per carità; ma oggi non va di moda il “minimalismo”? Dipende sempre da quello che uno vuole. Secondo me, erano giuste per quello che lui stava facendo. Stava facendo il menestrello, la sua strada era quella. Più che da Brassens, Fabrizio è partito dai trovatori medioevali. Cosa faceva il trovatore? Prendeva una melodia che la gente in qualche modo conosceva e su quelle arie già orecchiate, canticchiate, al posto dei testi in latino della messa innestava le storie profane del re, della cortigiana, del vicino di casa. Faceva una specie di “giornale scandalistico” dell’epoca, un giornale cantato; con musiche già conosciute perché veniva più facile, era un modo di favorire la circolazione di quei brani. Fabrizio è stato un trovatore del nostro tempo; con la stessa idea di accompagnarsi a musiche già conosciute o nell’aria, comunque semplici. Semplici ma straordinarie. Aggiungiamo poi il fatto, questo è un punto su cui non smetterò mai di battere, che in quegli anni fare canzoni era un esercizio molto meno complicato di oggi. Non dovevi risponderne ai critici; non dovevi giustificarti. Molte cose si facevano per puro divertimento. Addirittura nessuno di noi, agli inizi, pensava di fare quello per mestiere, tutta la vita. Forse io sì, ero andato a scuola per quello; ma non avevo certo studiato dieci anni pianoforte e otto composizione per fare l’arrangiatore di musica leggera. Aspiravo a qualcosa di meglio. Fabrizio proprio non ci pensava; e se il padre avesse immaginato che quella era la sua strada, penso che lo avrebbe strangolato nella culla! Tanto è vero che al principio si firmava solo “Fabrizio”. Ma per tutti era così: Lauzi studiava lingue, Paoli faceva il grafico, Luigi Tenco era iscritto a economia e commercio. Nessuno pensava di vivere con le proprie canzoni. Ci si divertiva; e il gusto era quello di riuscire a fare delle cose che ci piacevano, proprio come certi mostri sacri che noi ammiravamo e di cui tutti parlavano. Il resto non esisteva. Che qualcuno potesse recensire i nostri dischi o intavolarci delle discussioni, proprio non ci interessava. Dopo è cambiato tutto, dopo è subentrata l’idea che se avevi fatto la tua villetta a Cambiaso poi dovevi fare Villa d’Este e dopo Villa d’Este il Parco dei Principi di Rockfeller. Dopo è venuta quell’escalation che ha cambiato le carte in tavola; e i dischi sono diventati qualcosa da registrare non per te, e il tuo gusto e divertimento, ma per gli altri. 77

Intervista a Giampiero Reverberi

Limitandoci a De André, questo passaggio avviene con il fallimento della Produttori Associati. O viene prima? Be’, Casetta era uno che lasciava carta bianca a Fabrizio, non lo ha mai costretto. Però non posso dimenticare l’influsso politicizzante di Dané, che lo ha completamente frastornato... Ricordo quel convegno a Garessio che citavo prima. C’erano un prete, un rom, un comunista, un anarchico. E tutti dicevano: “Ah, Fabrizio era uno dei nostri.” La verità è che Fabrizio ha sempre fatto quel che gli pareva; e ognuno ha preso di quel suo fare ciò che più gli andava bene. In tanti gli hanno messo l’etichetta; a cominciare da Dané e da quei dischi degli anni ’70 in cui Fabrizio è diventato l’intellettuale di sinistra tipico e ha cominciato anche lui a parlarsi addosso. E se devo dire la mia opinione, il disco più brutto di De André è Non al denaro non all’amore né al cielo; anche perché lì mi sembrava radunata tutta la sinistra italiana – mancava solo la copertina di Guttuso. Son punti di vista, per carità. Comunque la penso così. Quello fu anche il primo disco di Fabrizio senza i suoi arrangiamenti... Be’, c’era Dané di mezzo e a quel punto avevamo capito che non potevamo lavorare insieme. Dané lo incontrai la prima volta alla fine delle registrazioni di Tutti morimmo a stento. Ricordo, era una venerdì notte tardi, stavamo facendo i missaggi. Avevamo cominciato il lunedì, quel disco lo realizzammo giusto in una settimana. Arrivò ’sto tipo e cominciò a sproloquiare di qua e di là. Era uno che parlava, parlava, si parlava tanto addosso. E gli dissi: “Senti, sono le due di notte. Dobbiamo finire ’sto disco. O esci o stai zitto.” Il nostro rapporto iniziò e finì lì. E siccome Casetta sapeva che ero fatto così, non le mandavo a dire a nessuno, e che anche Dané aveva un carattere forte, evitò accuratamente di farci lavorare insieme. O io o lui. Torniamo a prima di Dané. Il modo di lavorare del periodo Bluebell era diverso da quello Karim? In linea di massima no; e registravamo sempre di preferenza alla Ricordi. La sala mi piaceva; i tecnici, come ho detto, erano molto bravi e avevano la mia fiducia. Facemmo un’eccezione per Tutti morimmo a stento; perché lì ci voleva un’orchestra grande, ci voleva un coro – c’era bisogno di spazio. Così andammo agli studi RCA di Roma, dove avevo già registrato una colonna sonora per un film francese. Anche lì c’era un tecnico bravo di cui mi fidavo, Mastroianni, che poi sarebbe diventato un famoso montatore cinematografico. Comunque, Tutti morimmo a stento e La buona novella sono un po’ le eccezioni di quel periodo, perché erano album concepiti come tali, avevano un’idea organica di fondo. La regola era un’altra; andare in studio a registrare delle canzoni per i 45 giri. Poi, quando ce n’erano pronte un po’, si assemblavano i long playing. 78

Mi hanno tutti raccontato di un De André in studio indeciso, titubante; che non si decideva mai a licenziare una canzone perché aveva sempre qualche dubbio. Lei lo ricorda così? Ho avuto una specie di rissa con Mauro Pagani, al convegno che dicevo prima. Lui narrò dei sei mesi passati a preparare Creuza de mä, delle fatiche e delle indecisioni; replicai che Tutti morimmo a stento l’avevo realizzato con Fabrizio in cinque giorni, senza il minimo contrasto. Io un Fabrizio così non me lo ricordo. Ricordo che lui mi chiamava, io abitavo in via Zara, lui in corso Italia – che significa 500 metri solo perché c’è il giro della strada, altrimenti in linea d’aria avrei potuto entrare direttamente dalla finestra a casa sua. Mi chiamava quando aveva qualcosa di pronto; io ascoltavo, prendevo appunti, facevo. Tutti questi travagli, se mai ci sono stati, non li ho mai visti. Si lavorava in semplicità e assolutamente d’accordo. Lui si fidava ciecamente delle mie soluzioni musicali; i suoi testi non li guardavo neanche, perché intanto sapevo che erano perfetti. Andavamo in sala, registravamo e il giorno stesso, o il giorno dopo, si missava. Fine. Se le cose sono cambiate, sono cambiate dopo. Ma è quello che dicevo prima; sono cambiate quando lui è diventato, quando lo hanno fatto diventare il grande intellettuale, il depositario della cultura italiana. Allora ogni canzone, ogni parola ha cominciato ad avere un peso immenso. Ma ricordo certe canzoni delle origini, come Carlo Martello, scritta con Paolo Villaggio proprio facendo a gara a chi scriveva la stronzata più grossa. Era divertimento puro. Guardi, in parole povere; io sono contento di avere conosciuto un altro Fabrizio De André. Un Fabrizio astemio, tranquillo, sereno, rilassato; e fiducioso di quello che faceva. Poi, per carità, so che con altri si è comportato diversamente, non lo voglio negare. Con me però era così; anche perché, se veniva a casa mia – io non fumo e non bevo – lui non fumava e non beveva. E così anche in studio. Chissà, forse è stato anche per questo che a un certo punto abbiamo smesso di collaborare insieme; perché si era stancato di avere ’sto grillo parlante che gli stava addosso a fare la sua coscienza. Quindi, insomma, in studio si lavorava bene e velocemente. t utti mo rimmo a stento venne realizzato in cinque giorni; anche La buona noveLLa andò via così rapida? Forse in quel caso ci volle un po’ più di tempo. Lì registrammo a strati; prima le basi, con la PFM, poi aggiunsi gli archi, poi i cori e via così. Tutti morimmo a stento venne invece registrato proprio come si ascolta, in diretta, in sequenza. Ecco perché durò poco. Ricordo ad esempio La leggenda di Natale, che Fabrizio cantò suonando la chitarra proprio con l’orchestra alle spalle.

79

Intervista a Giampiero Reverberi

Come chitarrista, Fabrizio com’era? Bravo, davvero bravo. Aveva una buona impostazione classica; poi, per carità, non era un virtuoso. Però, per quel che gli serviva, la chitarra la sapeva suonare bene. Aveva una bella uguaglianza; nel senso che suonava tutte le note belle pulite, uguali, senza far sentire lo spostamento, senza scricchiolare sul manico. E il tocco era buono come il suono. E come cantante? Fabrizio aveva una voce straordinaria. Il 90% del suo successo, a mio avviso, è merito di quella voce... Forse il 90 è troppo, facciamo il 60%; poi per un 20 viene la musica e per un 20 ancora le parole. Mentre tutti hanno sempre sostenuto che erano i testi la componente principale. È vero che ha sempre scritto bei versi; però appoggiati a una voce fuori dall’ordinario. La dimostrazione sta nel fatto che Fabrizio è riuscito con la sua voce a dare dignità anche a testi non proprio riusciti, mentre quando sono stati altri a interpretarlo, molte belle canzoni ne hanno risentito. La grande abilità di Fabrizio era un paradosso. Lui non cantava, modulava su note precise dando sempre l’impressione di parlare. Erano melodie ma non c’era mai impostazione, non c’era mai l’appoggio sulla nota perché la nota lo richiedeva; era la parola a richiedere semmai l’appoggio. Negli ultimi dischi però lo fanno cantare. Tanto per cominciare, gli cambiano la tonalità, elevandola, e questo è già un problema; si esce dalla sua specialità, le note gravi, e si entra in una zona per lui più critica. E poi lo senti che interpreta, che imposta, che dà importanza alla nota; e io trovo che sia un passo indietro. Di cantanti a quel modo, ce n’è tanti di migliori; mentre di voci tanto straordinarie che cantano in quell’altro modo, c’erano solo la sua e pochissime altre. Le voglio raccontare un aneddoto. Una volta ero in Germania, ci vado spesso per il mio lavoro con il Rondò Veneziano, e capitai in un ristorante di Monaco. A un certo punto dagli altoparlanti uscì la voce di Fabrizio. Era una cassetta che la proprietaria, così mi raccontò, aveva comprato durante un viaggio in Italia e si era portata a casa. Le piaceva molto, era una vera ammiratrice. “Allora lei conosce l’italiano” le dissi. “No” rispose, “neanche una parola.” Rimasi stupito. “Guardi che De André è famoso soprattutto per i testi.” “Ah” fece lei, “con quella voce potrebbe cantare anche l’elenco del telefono.” Torniamo a tutti morimmo a stento. Ho letto una vecchia intervista in cui Fabrizio ricordava di essere stato influenzato dall’idea di days of future Passed, il disco dei Moody Blues con l’orchestra sinfonica. Fu davvero un’i­ spirazione quell’album? Tutto ci ispirava, tutto ci influenzava. Se un gruppo rock usava gli archi e la musica classica senza che se ne lamentassero né gli appassionati di rock 80

né quelli di classica, voleva dire che l’idea era buona, che si poteva fare. E ci buttammo anche noi, a vedere se ci riuscivamo. In fondo era una sfida, e le sfide ci piacevano. Fra le cose che avete fatto insieme, De André/Reverberi, c’è anche un cu­ rioso progetto TV dedicato ai Viaggi di Gulliver – “ispirato ad antiche bal­ late provenzali”, ho letto da qualche parte... Mah, non so chi può aver tirato in ballo le “antiche ballate provenzali”. La storia è questa. Alla RAI di Milano, in corso Sempione, c’era un dipartimento che curava alcune trasmissioni di varietà che dovevano, volevano avere una certa valenza culturale. Ricordo che a capo di quella sezione c’era una persona coltissima, amabilissima, che era Raffaele Crovi, oggi uno scrittore piuttosto affermato. Fu lui ad avere l’idea di realizzare una serie di programmi per i più piccoli in cui i bambini non venivano trattati da bambini ma un po’ più da grandi. Uno di quei programmi riguardò le avventure di Gulliver; con un testo che si basava sull’originale ma aveva anche riferimenti con l’attualità – diciamo un Gulliver portato nel nostro tempo. Chiamarono me e Fabrizio e ci divertimmo come matti, inventandoci una specie di commediola musicale. I testi erano di Simonetta, Vaime, gli autori RAI di quegli anni; e tra gli interpreti c’erano il povero Massimini, bravissimo, e Dettori. Fu un vero spasso; anche perché ci divertimmo a dare a ogni brano un’identità musicale diversa. Ricordo un pezzo a tre voci finto messicano, in stile mariachi. Poi, se uno vuole leggere in queste cose un’anticipazione della sua svolta “etnica”, faccia pure. A me fa ridere. Noi facevamo musica e basta. I significati, le connessioni, i riferimenti, li lascio tutti agli altri. Guardi, so che può sembrare assurdo, ma i testi delle canzoni che arrangiavo io neanche li ascoltavo; vale per Fabrizio e vale anche per Lucio Battisti. Li ho ascoltati vent’anni dopo. Non ho mai voluto farmi condizionare dai testi, ero tutto concentrato sulla musica. Anche perché lavoravate prima sulla musica e poi sui testi... Sì, nel 99 per cento dei casi sì. Questo con Fabrizio ma, per quel che mi riguarda, anche con le Orme, con i New Trolls. Mi vengono in mente poche eccezioni; per esempio Le tre Marie, una canzone in cui si partì da un testo già pronto, o Signore, io sono Irish, di cui esisteva un abbozzo generale. Comunque non c’è una regola fissa. Dipende sempre da cosa è più importante; e ad ogni modo tutto si deve amalgamare, parole e musica devono adattarsi le une all’altra. Con La buona noveLLa, la vostra collaborazione si interrompe. Sì. C’era di mezzo Dané, come ho detto; ma c’era anche il fatto che era cambiato il modo di lavorare, e io a certi metodi non sottostavo. Non ho 81

Intervista a Giampiero Reverberi

mai accettato di lavorare più di un mese, ma dico tanto, intorno a un disco; anche perché vivevo di quello e non potevo permettermi di perdere troppo tempo dietro a un singolo progetto. Avrebbero dovuto darmi troppi soldi per far tornare i conti. E poi, quando lavoro, io sono una bestia; non mi fermo, non ho paura di starci su ore e ore. Però a un certo punto dev’essere finita; se ci resto troppo addosso, finisco per lavorare male. Devo aggiungere che ci fu anche un episodio che, non so se è il caso di ricordarlo, fu antipatico e contribuì a peggiorare i rapporti. Fu quando Michele Maisano propose il progetto di Non al denaro non all’amore né al cielo. Perché l’idea originale fu di Michele; aveva letto il libro di Edgar Lee Masters, se n’era innamorato e voleva farci un disco. E venne da me a parlarne, perché la sua idea era di replicare lo schema di Senza orario, senza bandiera dei New Trolls; con i testi di Fabrizio e i miei contributi musicali. E invece il progetto finì direttamente a De André, e io non venni coinvolto. Lei ci rimase male... Be’, sì. Fra l’altro il libro lo conoscevo, ne ero anch’io attirato e su quei testi avevo composto già alcuni lieder per voce e pianoforte. Però anni dopo lei tornò a collaborare con Fabrizio e la Produttori Asso­ ciati. Un disco solo: canzoni. Fra l’altro il disco forse più incerto e di crisi di De André; sembrava non saper che pesci pigliare e allora riadattava vecchi suoi brani e traduceva... Mah, siamo sempre lì. Non è che Fabrizio non sapesse che pesci pigliare. Era Casetta piuttosto che aveva bisogno di un disco in fretta, e lo si combinò in quella maniera. L’artista mica può sempre fare l’artista. Ogni tanto è un burattino nelle mani dei discografici; e per contratto fa quello che i discografici decidono. E siccome la maggioranza erano canzoni in cui avevo già avuto le mani in pasta, e c’entravo io e non Dané, e non c’era la politica di mezzo, Casetta mandò a chiamare me. E lei, fra l’altro, si tenne fedele agli arrangiamenti originali. Guardi, a parere mio ogni canzone ha il suo arrangiamento. Uno. Io ricordo che anni fa Patty Pravo mi chiese di fare un nuovo arrangiamento di Emozioni per lei. Le risposi di no, per due motivi. Uno, perché l’avevo già fatto per Battisti e rifarlo mi sembrava una mancanza di rispetto. Due, perché per me l’arrangiamento di Emozioni era quello là. Punto e basta. Oltretutto lì si parlava di una canzone particolare e di un arrangiamento che, se posso dire, è fra i più “assoluti”. Io starei attento a toccare gli arrangiamenti di certe canzoni. Ho ascoltato quelli di Battiato per Fleurs, le due canzoni di Fabrizio, e lo avrei preso a schiaffi. Ma fatti i cazzi tuoi, cosa vieni a rompere? Non mi sembra che abbia aggiunto qualcosa di nuovo. 82

Be’, se uno cambia poco può anche essere un complimento, no? Vuol dire che l’arrangiamento originale era bello... Sì, ma non è stato fatto con quello spirito. Se vuoi farmi un complimento, copia l’arrangiamento originale. Rifallo pari pari. Io ricordo che anni fa Endrigo rifece con Bacalov un pezzo che avevamo fatto insieme tempo prima. Bacalov mi telefonò e mi disse: “Senti, devo rifare questo pezzo ma credo che ti copierò l’arrangiamento, perché è così bello che mi sembra di non poter fare altrimenti.” Bene, copialo pure, grazie. Non è un plagio; questo sì è un omaggio, un complimento. Adesso io ho citato Battiato ma non è l’unico. Anche quello che ha fatto gli arrangiamenti per La buona novella, la versione teatrale, quella con Bisio. Se lo incontro per strada, prendo a schiaffi anche lui. Insomma, un minimo di rispetto... canzoni fu l’ultimo disco insieme per la Produttori Associati. Poi De An­ dré non lo vide più? No, con lui ho avuto sempre e solo rapporti professionali. Non ci frequentavamo fuori dagli studi. Un po’ perché sono un tipo schivo, non tanto di compagnia, e poi perché, se vogliamo far di conto, io e Fabrizio in una giornata avevamo giusto un paio d’ore in comune: dalle 5 alle 7 di pomeriggio. Lui alle 5 si svegliava, io alle 7 smettevo. Quando lui dormiva, io lavoravo; e viceversa. Quindi ci siamo persi di vista. Però ci fu un’appendice un po’ particolare; e fu quella di Rimini. Rimini venne registrato proprio nei mesi in cui la Produttori Associati fallì. La Ricordi subentrò, rilevò tutti i contratti e si trovò questo disco che era a metà. L’arrangiatore era Tony Mimms e a me raccontarono che, per questioni di contratto, la Ricordi non poté usare quanto aveva preparato fino a quel momento. Se devo dire la verità, è una versione che non mi ha mai convinto. Probabilmente c’è dietro dell’altro. Ad ogni modo, mi chiamarono a finire il disco; e io lo finii, aggiungendo delle parti mie ma usando anche materiale di Mimms, quello che era buono. E ce n’erano di cose buone, dato che Mimms è sempre stato un ottimo arrangiatore e un gran musicista. Insomma, applicai al lavoro altrui il rispetto che pretendo venga usato nei miei confronti. Quella fu, a tutti gli effetti, l’ultima volta in studio con Fabrizio De André. Sì, fu l’ultima volta. Smisi di lavorare con la Ricordi, ci furono screzi vari, entrò in gioco anche quello. Ma poi forse vale quanto dicevo prima. Credo che alla lunga il fatto che io non bevessi e non fumassi mi rendeva una specie di specchio in cui Fabrizio non si vedeva volentieri. E poi gli orari; io entravo in sala alle 9 del mattino e smontavo alle 7 di sera. Dieci ore in sala 83

Intervista a Giampiero Reverberi

sono già una vera fatica, è difficile tenersi le orecchie pulite, mantenere la concentrazione e la lucidità. Lui amava lavorare la sera, la notte; mentre per me tutto quello che in sala si faceva dopo le 19 era tempo sprecato, lavoro buttato via. E poi, diciamoci la verità, perché pagare l’orchestra in notturna, che costa anche di più? Credo sia stato un sacrificio per Fabrizio adeguarsi ai miei ritmi per tanti anni. E a un certo punto decise di fare diversamente. Ho trovato una sua dichiarazione molto affettuosa nei confronti di De André. “Le cose migliori le ho fatte con Fabrizio. È lui che mi ha dato la possibilità di scrivere anche qualcosa, mentre per gli altri ero un semplice arrangiatore.” Crede che sia stata una cosa reciproca? Non lo so. In un libro che lo riguardava ho letto una sua dichiarazione in cui, a proposito del mio progetto Rondò Veneziano, mi dava della puttana. Così, il concetto più o meno era quello. Negli ultimi tempi, non lo so, forse non ho saputo costruirmi un alone di simpatia, non ho curato bene la mia immagine pubblica. Quando lavoravo, l’ho già detto, ero una bestia; ero tenace, accanito, badavo solo al risultato. Tutto si può dire dei miei lavori, meno che pecchino di noncuranza, di trascuratezza. Poi si poteva anche ridere e scherzare e andare a cena; però dopo, fuori dal lavoro, e neanche sempre l’ho fatto. Può darsi che sia stato questo a non rendermi simpatico. O forse ho avuto successo con il mio lavoro e sono diventato, non so come dire, famoso, ricco; un po’ come il maggiordomo che vince alla lotteria e si può permettere un’auto più bella della tua, e questo ai nobili dà fastidio. Io credo che Fabrizio non abbia mai ascoltato in vita sua un solco solo dei dischi del Rondò Veneziano; però si è sentito in dovere di esprimere quel giudizio, come a dire che lui era un artista capace di mandare in giro messaggi mentre io badavo solo ai soldi. Mi spiace. Credo che si sia fermato all’immagine del Rondò Veneziano, che è sicuramente un’immagine cheap. Ma se avesse ascoltato qualcosa, avrebbe trovato anche dell’altro, della sostanza; se no, non si giustificherebbero i “tutto esaurito” che ho avuto più volte a Salisburgo, a Gstaad, a Vienna per quattro anni di fila. Quindi, non so bene cosa rispondere. Con lui non abbiamo mai affrontato direttamente il discorso; ci siamo sentiti così poche volte negli ultimi anni, e sempre per occasioni tristi, come la morte di suo fratello. Mi devo basare sul sentito dire, su frasi riferite; per esempio che anni dopo giudicava Tutti morimmo a stento un disco un po’ barocco, pieno di troppa musica non sua, mentre era meglio disposto a ricordare La buona novella. Che giudizio dà, complessivamente, del De André che ha conosciuto? Il De André che ho conosciuto io era un ragazzo straordinario. Divertentissimo, simpaticissimo, con un’autoironia di cui nel tempo ho fatto te84

soro, perché ho capito che è un elemento importantissimo anche per trovare un buon rapporto con se stessi. Io ho conosciuto davvero un ragazzo d’oro. Però mi fermo a un certo punto. Dopo non ho testimonianze e posso solo immaginare. Credo che sia stato rovinato: il Fabrizio che beve, il Fabrizio indeciso, il Fabrizio che s’arrovella, sono immagini di una persona che in qualche modo si butta via. Credo che qualcuno abbia guastato certi suoi meccanismi interiori. Quindi lei non è d’accordo con chi vede una carriera sempre in ascesa, con le opere migliori nell’ultimo periodo? Mah, anche di Battisti qualcuno sostiene che le cose migliori le abbia fatte verso la fine, quando scoprì la poesia. Per me son tutte musse. Dipende da quello che uno chiede, alle canzoni come alla cucina: è meglio una pasta e fagioli fatta come si deve o un piatto esotico ed elaborato? Io scelgo la pasta e fagioli. Poi, forse, sotto un profilo intellettuale le ultime opere possono essere anche giudicate grandi. Però io so che quando ascolto Via del campo, piango. Per me, è quello il vero Fabrizio De André.

85

INTERVISTA A ROBERTO DANé Milano, aprile/ottobre 2002

Premetto che faccio fatica a distinguere bene i dettagli. L’esperienza con la Belldisc e poi con la Produttori Associati è stata fantastica ma nel ricordo la rivivo come un blocco unico, 1969-’74, una sola cosa che trabocca di storie e situazioni. Sei anni fondamentali, comunque; e anche per Fabrizio, se sommiamo quei sei ai quattro precedenti, abbiamo, credo, la stagione più importante e densa della sua vita artistica.

Tu hai cominciato a lavorare con De André nel 1969. Lo hai conosciuto allora o già lo conoscevi? Io l’ho conosciuto... Guarda, nel momento in cui cominciamo a parlare mi è venuto un flash e ricordo quando effettivamente ho conosciuto Fabrizio per la prima volta. Prima del ’69. Prima. Io avevo fatto la regia del “Festival delle Rose”, all’Hilton di Roma – l’anno che vinse Al Bano con Nel sole, dev’essere stato il 1967. Facevo teatro, ero regista e in quell’occasione lavoravo per una signora, una sorta di Ravera o Radaelli al femminile che si chiamava Isa Pisan. Ricordo che c’era Gorni Kramer che dirigeva l’orchestra, anzi, le orchestre: tutte le orchestre, di tutti. Io, appunto, facevo il regista ma non soltanto. Scrivevo anche canzoni e facevo spettacoli di cabaret a Milano; canzoni non di quelle solite ma un po’ impegnate, alternative – con Alessandro Massimini, Duilio Del Prete, al “Nebbia Club”, al “Derby”. Insomma, questa signora Pisan mi portò da Antonio Casetta, proprietario della Bluebell che, se non ricordo male, a quel tempo si chiamava Belldisc. De André lavorava per Casetta. Dunque, la Pisan mi porta da Casetta, mi siedo davanti a lui e in cinque minuti gli spiego il mio progetto: fare dischi con il materiale di certi spettacoli di cabaret – “Il mondo di Cochi e Renato”, tradurre Brel e Brassens in italiano – tutto un certo mondo alternativo che c’era in quel periodo. E in cinque minuti lui mi dice: “Sì, lo facciamo.” Io stentavo a crederci e sono andato avanti un’ora a spiegargli nei dettagli la cosa, fino a quando lui è sbottato: “Guardi che le ho già detto di sì, un’ora fa.” La collana andò a chiamarsi “Off Off”, e si compose con i progetti che avevo in mente e altri ancora: per esempio Giorgio Gaslini e Fabbrica oc­ cupata, il Pilato sempre di Giorgio Albertazzi. Già che ero lì, che stavo diventando una “risorsa” della casa discografica, Casetta mi nominò anche direttore artistico. E una delle prime cose che feci in quel ruolo, fu andare a Roma dove Fabrizio De André stava registrando il nuovo album, Tutti morimmo a stento, con Giampiero Reverberi. Non feci il produttore, diciamo che diedi una mano come di solito fa un direttore artistico. Quella fu 87

Intervista a Roberto Dané

in effetti la prima volta che incontrai Fabrizio: ma, come si può immaginare, fu un contatto superficiale. Dopo un po’, qui certamente siamo nel 1969, tornai da Casetta e gli sottoposi un’altra idea, che avevo intenzione di realizzare con Duilio Del Prete: un disco basato sui Vangeli apocrifi, sulle storie di Gesù tramandate e non accettate ufficialmente dalla Chiesa. E lui, che era un grande discografico, di buon fiuto, mi ascoltò con attenzione e alla fine disse: “Ma scusi, perché questa idea non la propone a Fabrizio De André? Sa, è un periodo che è un po’ in crisi, non sa cosa fare. Gliela proponga, fatela insieme.” E io, be’, cosa dovevo dire? Con De André c’era sicuramente una maggiore esposizione, andava anche meglio. Così lo incontrai, e portai con me il libro che tanto mi aveva incantato, con le storie di Gesù mai accolte fra i testi sacri. Io vengo da una cultura particolare. Sono di La Spezia, e la mia è stata la prima città d’Italia che ha avuto un governo di centrosinistra. Fu un esperimento non per caso fatto lì; perché c’erano gli elementi per farlo. Vengo da una cultura cattolica, però aperta. I nostri punti di riferimento, quando eravamo giovani, erano Léon Bloy e Maritain, il cattolicesimo più sensibile alle tematiche della sinistra, come ben sapeva Giovanni XXIII, che prima di diventare Papa era stato Nunzio Apostolico in Francia. Nasceva il dialogo con i comunisti, e la visione della vita, delle cose del mondo si ampliava, diventava ecumenica. C’era questa grande idea affascinante di umanizzare la figura di Cristo; fino ad allora non era stato così, la figura era sacra, intoccabile, insondabile. Queste erano le mie radici. Quanto a Fabrizio, lui aveva questo spiritaccio anarcoide, vorrei definirlo così più che “anarchico”. Però quell’argomento lo attirava. Il progetto gli piacque e cominciammo a lavorare. Prima hai detto che De André ai tempi della buona noveLLa era un po’ in crisi. Era davvero così? Mah, non userei la parola “crisi”. Diciamo che era in attesa di qualcosa, come spesso gli capitava. Come sempre gli è capitato. Quando ci frequentavamo, gli diedi un soprannome, un po’ per gioco e un po’ sul serio. Io facevo il regista e allora in francese ero il “metteur en scène”. Lui invece era, in un francese mio maccheronico, il “metteur ensième”. Aveva questa straordinaria capacità, che non ho più riscontrato ai suoi livelli in nessuno, questa somma abilità di comporre le cose – di pescare una cosa per le parole, un’altra per la musica, da chiunque, da tutti, da un sentito dire, da un incontro casuale. E secondo me il più grande talento di De André, prima ancora del talento stesso incontestabile dello scrivere e del cantare, è stato nel mettere assieme, con coerenza, tutto ciò che ha trovato. Prima di tutto un percorso, inventato o trovato; poi una coerente composizione degli elementi finalizzati a questo progetto. 88

La mia proposta eccitò questo suo lato. Era come se aspettasse proposte, anzi, le aspettava; e gli arrivavano, anche perché non era uno qualunque ma un artista ormai di successo. Gli arrivavano. Lui sceglieva e operava. Così dunque nacque La buona noveLLa. Con che metodo di lavoro? Il lavoro si svolgeva a Genova, sul lungomare, nella sua casa di corso Italia. Avevamo una traccia di base, una specie di sceneggiatura del lavoro; non a caso io venivo dal teatro e il disco lo vedevo così, come un progetto complessivo. Lavoro a pacchetto: tutta la settimana lavorativa, di regola cominciando la sera. Per carità, qualche volta ci sono state delle eccezioni e abbiamo lavorato per esempio a Milano, perché non ce la facevo a stare tutta la settimana lontano da casa e dalla famiglia. Però la regola era Genova, la cena alle 8 di sera e poi il lavoro. Un fiasco di Chianti in mezzo, non era ancora epoca di bottiglie di vino, c’erano i fiaschi – e tutta la notte si lavorava, dalla sera alla mattina. Più a fare i testi che le musiche. Andavamo a letto alle 8 del mattino e ci svegliavamo alle 4, alle 5 del pomeriggio. Lunedì-venerdì; qualche volta anche il sabato. Avevo una moglie e non ancora figli, ogni tanto proprio mi mancava e allora staccavo, per poi ritornare. Un tour de force massacrante... Be’, che fosse faticoso non ci sono dubbi. Ma era anche una fatica che non sentivi perché era comunque un lavoro creativo, che ti appagava, che ti gratificava. Se poi la vedi in prospettiva storica, la fatica proprio sparisce; è un disco che ha venduto benissimo, che ha avuto successo, che è diventato un mito. Più di così... Il ricordo che ne viene è qualcosa di meraviglioso. Quanto durò l’impresa? Un anno. Fu un lavoro lungo, lunghissimo, di bulino. Si procedeva a passi lentissimi. Passavamo magari una notte per decidere un verso. Se guardi, alla fine, non è che La buona novella sia un disco così verboso e ricco. Se si prendono tutti i versi e li si divide per un anno di lavoro, alla fine la media è di un verso per giorno più o meno. Avanza anche qualcosa. In questo procedere lento giocavano due elementi fondamentali del carattere di Fabrizio. Il primo era l’insicurezza sua tipica, esasperata. Si lavorava a certe ipotesi di frasi, di verso, e poi ci si tornava su, una due dieci volte. Sempre così. “Belìn, ma sei sicuro che così vada bene?” diceva lui con quella sua cantilena genovese – e ricominciava. Il secondo elemento, strettamente legato al primo, era la volontà di non licenziare mai, ma proprio mai, un verso senza che fosse più che perfetto, secondo le sue intenzioni e i suoi convincimenti. Sai, oltretutto noi si lavorava senza scadenze precise, almeno prima di entrare in studio. Non è che l’album per forza dovesse uscire entro 89

Intervista a Roberto Dané

una data e a quella data qualcosa si dovesse comunque produrre, bene o benino che fosse venuto. Non avevamo vincoli; e questo eccitava il suo lato perfezionistico. Aveva delle sue tecniche particolari. Che so, una quartina con un primo verso che doveva essere importante, un secondo sempre importante e poi un terzo più semplice, per abbassare il tono e culminare poi con un quarto di nuovo importante. E non ti dico le rime. Non dovevano essere banali, e mai di poco pregio. E la metrica; precisa, puntuale ma con dei buchi ogni tanto, dei punti di rilascio. Uscire dalla metrica apposta per poi tornarci al verso dopo e così dare un’idea di allentamento della tensione e subito dopo di conforto a chi ti segue. Perché la metrica, diciamocelo, è confortante. Una tecnica raffinatissima, oggi fra l’altro assolutamente perduta. Oggi si lavora con autori che non hanno la minima idea della precisione e dell’assiduità che occorrono. Che davanti a un nodo da sciogliere, a un verso da cambiare, la prendono sottogamba. “Dai, vado di là e in mezz’ora abbiamo risolto il problema.” Vado di là? Mezz’ora? Ma di che stiamo parlando? No, io ho conosciuto tutto un altro modo di concepire il lavoro. Fabrizio non ragionava in termini di mezze ore. Ragionava in termini di giorni: due, cinque, otto, dieci, quelli che occorrevano. E quello che ho imparato da lui, da un lavoro così, è che alla fine comunque ce la fai; alla fine, dopo tanto faticare, la bella canzone viene. Le musiche invece come nascevano? Le musiche... Qualcuna l’ha composta davanti a me, qualcuna me la sono trovata pronta. Capitava che si stesse lontani per una vacanza, per un periodo di sosta, e al ritorno Fabrizio aveva sempre qualcosa di nuovo, non smetteva di lavorare. Poi Giampiero Reverberi ci metteva i colori e gli arrangiamenti; “vestiva la musica e la mia consueta balbuzie melodica”, come Fabrizio scrisse nelle note all’album. E in studio, com’era Fabrizio? Indeciso, come nello scrivere. Però va detto che in studio lasciava fare molto a me. Non è vero che fosse così assillante come qualcuno sostiene, molti missaggi sono stati fatti con lui fuori dalla porta. D’altronde, non si poteva fare diversamente; se volevi arrivare a una fine, se volevi decidere un missaggio anziché un altro, non potevi lasciare la decisione a uno che aveva dubbi praticamente su tutto. In studio ricordo una cosa che è difficile da scrivere, ci sarebbe voluta una cinepresa. Innanzitutto, lui ci metteva molto di sé nelle registrazioni. C’erano altri musicisti impegnati ma molte chitarre erano sue; era un modo di marchiare il disco, e trovo che fosse giusto così. Era bravo a suonare e a colorare il disco in quel modo. Faceva una due otto takes, fino a che non 90

andava bene. Si sedeva, forse era un tic ma secondo me quel tic esprimeva bene il suo sentimento, mentre ascoltava la pista della chitarra. Si sedeva, stava con la testa china e le mani ciondolanti e scuoteva la testa in su e in giù; come a dire sì sì, no no. Dondolava così. E noi lo guardavamo e dicevamo: “Eccolo lì, Fabrizio.” Tipico. Forse va bene, forse non va bene. Era una specie di “m’ama non m’ama” sfogliando la margherita; e non sapevi mai quale sarebbe stato l’ultimo petalo. Qualche volta bisognava strappargli un po’ il lavoro dalle mani; e per fortuna lui capiva. Con lui si poteva non finire mai. Però era un indeciso fattivo; accettava cioè che si andasse avanti. Oddio, devo dire che poi qualche volta aveva ragione; magari dieci giorni dopo rifacevamo una cosa che era sembrata giusta e sulla quale lui invece aveva avuto dubbi dal primo minuto. A differenza della scrittura, dove poteva avere tutto il tempo che voleva, in studio i tempi per forza erano stretti – c’era una sala che costava, un fonico che doveva essere pagato, i musicisti anche. E c’erano le esigenze di bilancio di un’etichetta per la quale l’uscita di un disco o meno poteva significare proprio la sopravvivenza. Quando l’uscita del disco era stata fissata, mettiamo per ottobre, non c’erano santi che tenessero: a ottobre si doveva uscire. Il tuo essere produttore era sciogliere quei dubbi? Be’, era un po’ tutto. Sì certo, sciogliere i dubbi. Ma anche selezionare gli argomenti, anche se non ero l’unico. Mi viene in mente Non al denaro non all’amore né al cielo, che arrivò in studio proposto da Bardotti; e non per nulla Bardotti produsse con me, nel senso che curò alcune parti musicali in studio. Poi il repertorio, naturalmente anche quello era affare mio oltre che di Fabrizio. Il produttore, è una mia vecchia idea, dev’essere una levatrice; deve cavare dall’utero dell’artista le sue canzoni; possibilmente con delicatezza, senza usare il forcipe – ma se è il caso praticando anche un bel taglio cesareo, perché a volte occorre… Fabrizio era un insicuro, l’ho detto; almeno fino a che ha lavorato con me. Poi non so, può essere anche cambiato. Aveva la paura della pagina bianca, del nastro vergine. E il mio primo lavoro era quello di stimolarlo, di fargli vincere quell’ansia originaria. Poi era un esigente. Voleva il massimo del massimo, aveva una sua idea per esempio che i versi dovessero stare in piedi da soli. Prendi i testi di quel periodo, prova a leggerli; scoprirai che ogni verso, anche isolato dal contesto, ha un suo senso, una sua autonomia. Una sua estetica. Era quello il suo modo di reclamare il ruolo di poeta. Fabrizio voleva a tutti i costi essere un poeta. E gli sembrava che non gli fosse riconosciuto quel talento? Io credo che a chiunque faccia musica non venga riconosciuto quel talento. È un discorso vecchio: la canzone è sempre stata considerata una 91

Intervista a Roberto Dané

scorciatoia artistica, una serie B. Il Nobel, insomma, non lo daranno mai a un cantante. Aggiungi il fatto che qui poi stiamo parlando di trent’anni fa, la preistoria della canzone d’autore. Oggi certi versi li trovi sulle antologie del liceo e anche delle medie, oggi si fanno tesi sui cantautori; ma trent’anni fa non era così. Non c’era riconoscimento di quel lavoro, neanche si immaginava che qualcuno potesse lavorare tanto accanitamente e appassionatamente sui versi come faceva Fabrizio. Un lavoro che naturalmente aveva agganci con altri, che traeva ispirazione da fonti esterne. Ma questa “figliolanza” è di tutti, no? Si è sempre figli di qualcuno prima di essere padri di qualcun altro; e il figlio dovrà sempre ricordarsi che prima del padre, se vogliamo, c’è un nonno, e su su per l’albero genealogico. Proprio ricordando la sua genesi teatrale, e il tuo lavoro di regista, non trovi che sia un peccato che La buona noveLLa non abbia mai avuto un alle­ stimento in scena? Vedi, erano ancora i tempi in cui Fabrizio non era e non voleva essere un personaggio pubblico. Non andava in TV, non teneva concerti; quindi è un’ipotesi che non prendemmo nemmeno in considerazione. E comunque, se ci devo ragionare, non credo che perdemmo qualcosa. Quelle canzoni hanno il mistero della canzone, sono musica da ascoltare in una stanza in silenzio... E la ascoltavano in tanti, sai. Ti voglio raccontare questo di De André. Non ricordo in quale anno di questi che stiamo ricordando, comunque mi incaricò di rinnovare il contratto con l’etichetta che nel frattempo aveva cambiato sigla. Cominciava un mondo nuovo e il concetto di imprenditore stava cambiando. Il proprietario restava Antonio Casetta ma non sarebbe stato bello e “intonato” chiamarla Casetta Records o mettere comunque l’accento sul padrone. Così fui proprio io a inventare la sigla Produttori Associati, prendendo a prestito l’idea da Charlie Chaplin e dalla sua mitica United Artists. E durante questo passaggio De André mi pregò di sentire un po’ in giro, di valutare anche altre ipotesi, e così feci. E la cosa sbalorditiva che ricordo è che tutti mi ascoltavano con attenzione, poi mi dicevano: “Sai, però, noi vorremmo artisti diversi, più commerciali.” Come commerciali? Erano anni in cui Mina e Morandi, per parlarti di due mostri “commerciali”, vendevano vagonate di 45 giri ma non più di 10.000 copie per i loro album; mentre De André, con tutto che non passava per radio e per TV, era un artista da 250.000 copie. Duecentocinquantamila copie! Ma ti rendi conto? E il bello è che nessuno se lo immaginava neanche lontanamente. Oggi questo sarebbe impensabile. Oggi qualunque presidente o direttore commerciale di un’etichetta conosce perfettamente le vendite anche degli altri, e ci fa i suoi conti. Allora non era così; e non ti dico quanti, e non faccio nomi per carità di patria, quanti discografici rifiutarono Fabrizio in quel frangente. E questo la dice lunga sulla discografia italiana, 92

Intervista a Roberto Dané

che da allora sino praticamente alla fine degli anni ’80 ha ignorato colpevolmente tutta una scena di canzone d’autore; con la presunzione di sapere che intanto era musica che non vendeva – quando era esattamente vero il contrario. Così alla fine Fabrizio rinnovò il contratto, quasi inevitabilmente; e andò bene così. Come nasce invece storia di un imPiegato? Nasce da interminabili discussioni politiche mie con Fabrizio. Erano passati pochi anni dal maggio parigino e si cominciava a cogliere appieno la portata di quel movimento, di quei discorsi. Erano cambiati proprio il clima dei tempi e i gesti; non c’erano più quell’allegria, quella freschezza, quella felicità – tutto il contrario, erano cominciati gli anni di piombo. D’altronde, è cosa risaputa, non si scrive mai delle cose allegre e felici; si scrive sempre dei conflitti. Queste discussioni politiche nascevano da personalità piuttosto diverse. L’abbiamo detto prima: tu di estrazione cattolica e poi comunista, Fabrizio anarchico... Anarcoide più che anarchico, l’ho già sottolineato prima. Con una forte dose di individualismo. Fabrizio metteva la sua persona innanzi a tutto. Non era uno che avrebbe messo se stesso al servizio della politica; semmai il contrario – e sia chiaro che parlo di creatività, non di altro. Sì, eravamo diversi ma alla fine le nostre posizioni non erano così distanti; perché poi a unirci era la solidarietà per i più poveri, per i derelitti, per gli emarginati. Cominciammo a sceneggiare quelle nostre idee, a comporre la nostra storia. Sempre con il metodo della Buona novella – lunghe, lunghissime notti a scrivere e a rifinire insieme. Poi a un certo punto, arrivò una canzone francese che diede un senso particolare a tutto; che è la Canzone del maggio. Come vi arrivò? E chi lo sa. Arrivavano fogli, dischi, libri da tutto il mondo. Spuntavano come funghi in luoghi alternativi come la Libreria Calusca, quella di Primo Moroni. Ciclostilati, fascicoli, materiale di “controinformazione” che chissà chi diffondeva. In quella corrente di cose “diverse”, ci capitò quel disco. Un singolo, un 45 giri, e c’era una ragazza che cantava questa canzone. Un inno del maggio parigino, anzi, l’inno più famoso di quei giorni. Ce ne innamorammo e pensammo a una traduzione. Telefonai a Parigi, contattai amici discografici per avere la sub edizione di quel brano e poterlo così tradurre in Italia. Be’, era strano, non si riusciva a stabilire un contatto preciso, non si trovava niente. Un giorno, finalmente, tramite un amico del giro politico riesco a parlare con Cavanna – il mitico direttore di una celebre rivista di fumetti politici, la prima del suo genere. Parlo con lui e con Wolinski. 94

Prendo l’aereo, arrivo a Parigi e trovo appunto Wolinski, che mi consegna con fare sospetto a una persona di sua fiducia. Seguimi, sembra un film. Questa persona mi fa salire su un’auto malmessa, proprio smandrappata, che a fatica riesce a muoversi. Fai conto che niente di questa storia si svolgeva in maniera rilassata e normale; era tutto segreto, circospetto, appunto come al cinema. Bene, alla fine di un lungo giro che non finisce più, mi portano al quarto piano di una casa di periferia; e in quella stanza lontano da tutto e da tutti, vuota, incontro una ragazza – la ragazza della canzone, quella che cercavo. E perché tutto quel segreto? Perché era ricercata. Io non lo sapevo, l’ho scoperto lì; e ho scoperto anche che lei non voleva avere diritti su quella canzone. Mi disse: “Ve la regalo, è una canzone di tutti”. Fabrizio l’aveva già tradotta, io avevo anche portato il testo per farglielo approvare. E quando tornai in Italia lo modificammo un po’, ci sentimmo liberi a quel punto di modellare la canzone come meglio ci piaceva; e lasciammo quella nota a pie’ di pagina: “liberamente tratta da un canto del maggio francese”. storia di un imPiegato nacque con l’aiuto anche di Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani. Bentivoglio com’era arrivato a voi? Mah, si era presentato con dei testi, credo che contattò direttamente Fabrizio. “Io scrivo queste cose. Possono interessare?” Ci erano piaciute, tutto qui. Anche con Bubola sarebbe successa una cosa del genere. Bentivoglio poi è sparito, si è tirato fuori dal mondo della canzone. Sinceramente non ne so più nulla e faccio fatica anche a ricordare quanto abbia inciso sui testi di quell’album. Mi vengono piuttosto in mente i contributi di Fabrizio, le canzoni più marcatamente sue: per esempio Il bombarolo, o Verranno a chie­ derti del nostro amore. E anche la Canzone del maggio. E Piovani? No, Piovani era un amico. Un mio carissimo amico; tanto che il mio primo figliolo si chiama Nicola, proprio in suo onore. Piovani è una mia scommessa vinta. Lo introdussi nel mondo discografico quando era ancora sconosciuto, nel 1971; ma si lavorava insieme da tempo, dalla metà degli anni ’60 – quando facevo cabaret, quando facevo regia a teatro. Era molto legato al mondo della musica popolare ma aveva le orecchie aperte anche sulla musica nuova; se ci fai caso, in Storia di un impiegato si usa timidamente un sintetizzatore. Fui io a presentarlo a Fabrizio, a cominciare da Non all’amore. Molti temi li scrisse lui, altri Fabrizio. È difficile rintracciare cosa precisamente appartiene a uno e cosa all’altro; la scelta salomonica fu quella di firmare insieme tutto. 95

Intervista a Roberto Dané

C’è qualche canzone particolare di quel periodo a cui sei legato? Mah, te l’ho già detto, vedo tutto come un continuum, come un disegno unico. Questo vale in particolare per La buona novella e per Storia di un impiegato. Se proprio vogliamo, un pezzo che mi piace molto e che giudico straordinario è Il testamento di Tito. Lì però io non c’entro nulla. Quello è un brano di Fabrizio, ricordo che lo portò già finito una volta che ci ritrovammo dopo una sosta, credo che fossero le vacanze di Pasqua. Come giudichi oggi la storia di un imPiegato? Si è detto e scritto che è un disco verboso, alla fine datato... Sì, forse è datato; ma è un pezzo di storia, esprime un’epoca. Forse avrebbe dovuto essere un film, comunque è un disco coraggioso, e le critiche che ha ricevuto sono un segno anche di spessore. Era un disco politico, quello era il tema; sempre, anche una canzone come Verranno a chiederti del nostro amore non veniva giocata sul registro sentimentale ma come spunto per parlare di politica. C’è chi sostiene che tu, Piovani, Bentivoglio abbiate dato a Fabrizio un’impronta marxista che in fondo non era la sua. Guarda, a De André nessuno dava nessun tono, marxista o che altro. De André era De André; sceglieva lui, anche quando stringeva alleanze e collaborazioni, anche quando altri erano molto, intensamente presenti. Fabrizio ha passato la vita a collaborare, le canzoni che ha scritto da solo sono veramente poche, molto poche. Ma è vero che gli altri li usava, per essere sempre se stesso. Era lui il filtro, lui a mediare; e alla fine, lui a decidere. Questa è la sua grandezza, e la cifra dei suoi successi e insuccessi; nessuno al di fuori di lui può ritenersi responsabile di quello che ha fatto. Secondo me, quello è stato piuttosto il periodo in cui Fabrizio è stato più forte e propositivo. Per quanto io abbia collaborato, specie a quei due dischi, era comunque lui che dava la linea. Io mi adeguavo, mi uniformavo al suo stile e ai suoi modi. Se ti sposti nel tempo, anche solo di qualche anno, è Fabrizio invece che si appoggia agli altri; pensa ai dischi con De Gregori, con Bubola e soprattutto a quelli con Pagani – in Creuza de mä la musica è tutta di Mauro. Fabrizio in quegli anni non faceva concerti né promozione. Aveva paura del pubblico? Guarda, ti dico solo che per RAI 2 in quel periodo, parliamo del ’72-’74, feci la regia di un paio di trasmissioni condotte da Memo Remigi: una era “Qualcosa da dire”, l’altra ora mi sfugge. Il titolo era già un programma; “qualcosa da dire” significava spazio ai cantautori che avevano storie da raccontare, novità da proporre e non i soliti “ti amo” e “non lasciarmi solo”. Le 96

canzoni le cantavano davvero, niente playback. Be’, li ebbi tutti, da Paoli a De Gregori; tutti i cantautori veri, quelli che avevano qualcosa da dire. Tutti meno Fabrizio, nonostante il nostro rapporto. Lo portai una volta a fare la TV svizzera. Fu una tragedia. Restava in albergo e non veniva in studio; oppure veniva in studio e si inchiodava a una sedia. Panico. Durò tre giorni, una fatica da dentista – quando tu prima mi parlavi di fatica di comporre, figurati. Questa era fatica reale. Ed era tutto vero, stava male sul serio. Piangeva, non dormiva. Poi mi telefonava alle quattro di mattina e si lamentava: “Secondo te, sono un poeta o non sono un poeta?” Come ti dicevo prima; era pieno di insicurezze. Ed era proprio così, non ci giocava. Ci fu quella televisione, poi faticosamente un’altra. Poi finalmente venne uno spettacolo al Palalido, e fu la prova del fuoco. Lo ricordo intimorito e titubante dietro il sipario, lui e la sua chitarra, perché la forma molto spartana era quella; e ricordo di averlo annunciato io, al proscenio. C’erano 7.000 persone, ed erano 7.000 solo perché di più non ce ne potevano stare. Quando uscì, mi arrivò addosso un’ondata incredibile di calore e di energia da parte del pubblico. È un’emozione che non posso dimenticare.

97

INTERVISTA

Leggendo le biografie su De André, mi sembra che la tua figura sia sempre un po’ sfuggente. A MASSIMO BUBOLA Come se i dischi che avete fatto insieme non Grezzana, marzo 2002 siano stati così importanti nello sviluppo della sua carriera... Mah, io credo che contino i fatti e i fatti sono che quei dischi per Fabrizio hanno si­ gnificato un’apertura importante verso un pubblico più vasto. Credo che sia storia or­ mai. E se abbiamo costruito nei testi e nelle musiche non uno ma due album, credo che un motivo profondo ci sia, che non andrebbe sottovalutato. Io venivo da un quartiere di Verona, Borgo Venezia, dove lo sport nazio­ nale era giocare a pallone e suonare in una rock band. Dicono che in città negli anni ’60 ci fossero qualcosa come 600 complessi. Si eseguivano soprat­ tutto cover. Ho cominciato suonando i Creedence e gli Stones, poi i Led Zep­ pelin, Deep Purple, Doors, Ten Years After, T. Rex, poi la mia band è passata alla musica di Bob Dylan. Quello era il mio mondo e quella fu una delle esperienze che mi portai dietro nella collaborazione con Fabrizio. Qualcuno di noi aveva già capito allora che il rock era uno dei veicoli più importanti della nuova poesia. Suonavamo il blues, suonavamo il folk, il country, ma anche la musica popolare veneta. Le canzoni sono frutto di sedimentazioni, tutti coloro che hanno abitato queste nostre terre hanno lasciato qualcosa e ogni tanto un elemento o l’altro riaffiora. A Fabrizio ho portato questa musicalità, questa miscela, che è per certi aspetti simile alla sua. Io sono figlio della cultura contadina della bassa veronese, vengo dal mondo patriarcale. Poi mi sono trasferito a Verona, ho fatto il liceo classico, ho frequentato l’università a Padova, ho coltivato i miei interessi per la letteratura, la storia, il teatro, il cinema e naturalmente per la musica. Da queste radici sono venute, credo, delle buone canzoni popolari, che è un “popolare” pressoché antitetico al nazional­popolare televisivo. Fabrizio però veniva da una famiglia un po’ diversa. Sì, però mi raccontava che era sfollato da bambino verso la fine della guerra nelle Langhe. Era uno che il mondo contadino lo conosceva bene e lo amava. È stato un buon mélange, quello fra me e lui. Avevo un professore di Liceo, che mi ha cresciuto alla poesia. Mio padre amava Mallarmé e Bau­ delaire e Verlaine e fin da quando ero adolescente mi aveva fatto conoscere tanti poeti come Rilke, Hölderlin, Campana, Apollinaire, Eluard. Io credevo nell’energia del rock, nella sua fisicità e mi piaceva l’idea che questa forza potesse emergere nell’esecuzione dal vivo, con una band di amici, in una ma­ 99

Intervista a Massimo Bubola

niera simultanea e corale. Non è un caso che le canzoni di Rimini entrate poi nei live di Fabrizio con la PFM siano così vitali. Erano state scritte probabil­ mente per quella dimensione. Io e Fabrizio ci incontrammo alla Produttori Associati, dove lui aveva già registrato parecchi album e io avevo inciso il mio primo disco: Nastro giallo. Era un periodo strano. La Produttori Associati, la nostra casa di­ scografica, stava chiudendo, assorbita dalla Ricordi. Nelle prime canzoni mi interessava l’aspetto onirico e nascosto della scrittura, la sua forza evocativa. Leggevo Breton, studiavo Buñuel in un corso monografico di cinema all’uni­ versità. Con Fabrizio mi trovai d’accordo soprattutto su poeti che avessero quella qualità visionaria ma un linguaggio essenziale e diretto, non troppo arzigo­ golato come Machado, García Lorca, Neruda, Ritzos, Guillen. De André era di una parrocchia diversa, un po’ in sospetto per noi rockisti. Questo almeno nei ’60. Sei d’accordo? Sono d’accordo. Mia sorella, che è del 1950, lo ascoltava in casa ma io non è che ci prestassi grande attenzione. Stavo da un’altra parte, ero più sul versante del rock d’oltreoceano. Devo confessarti che quando De André mi chiamò a collaborare, perché aveva ascoltato il mio primo album che, bontà sua, gli era piaciuto molto, io lo conoscevo poco; non a fondo almeno, a parte i soliti ascolti del liceo con i dischi dei compagni di scuola – ricordo Non al denaro, non all’amore né al cielo e Storia di un impiegato. Frequentavo più le bands. Cantautori pochi, a parte Bob Dylan, Leonard Cohen, Johnny Cash, Neil Young, Van Morrison, e italiani ancora meno: Guccini, Lolli, De Gregori. Quindi lo scoprii tardi, quando lui mi chiamò. Fu Roberto Dané a metterci in contatto, era il suo produttore. Ci fu quel primo contatto, poi passarono sei o sette mesi e un giorno, era estate, Fabrizio mi chiamò per invitarmi in Sardegna. Ci andai. C’era Fabrizio Bentivoglio, che aveva già collaborato con lui ai testi in dischi precedenti. Abitavamo in una casa strana, ospiti di una vecchia maestra a Tempio Pausania. Fabrizio non aveva ancora la sua tenuta. Siamo nel 1976. Fu un incontro comunque interlocu­ torio, di cose scritte non ce ne furono. Ritornai in inverno ma non più in Sardegna, a Milano. Abitava da Dori Ghezzi, vicino a viale Certosa, e lì co­ minciammo a scrivere le prime cose. Lavorammo all’inizio su qualche canzone che avevo già abbozzato come Andrea, Sally, Rimini. Le altre canzoni invece le costruimmo ex novo in­ sieme. Ci si rimpallavano le idee, si lavorava ognuno per proprio conto, poi si confrontavano i percorsi. Un lavoro in parallelo. Arrivati a cinque­sei can­ zoni, ne decidemmo i colori: questa canzone è gialla, questa blu, ci manca un verde. Perché ogni canzone aveva una sua storia, un suo colore, una sua 100

tonalità. Ci affidavamo a questo metodo che veniva dalla musica classica. Una sinfonia epica doveva avere una certa tonalità, una drammatica un’altra e così via. Lavorammo tutto l’inverno e la primavera successiva. Poi andammo a re­ gistrare a Roma, alla Ortophonic, con Tony Mimms come arrangiatore. E la Produttori Associati chiuse definitivamente. Mimms aveva dei problemi per­ sonali e il disco venne reinciso in seguito a Milano con la collaborazione di Giampiero Reverberi. Non so se esiste copia della prima versione. Io seguii le registrazioni romane, dove decidemmo anche la copertina e l’impostazione grafica con il fotografo Cesare Monti. A Milano no, mi feci vivo giusto un paio di volte. Il disco è Rimini. Sì, è Rimini. Quello con la cover di Romance In Durango, di Bob Dylan. In realtà la cover doveva essere un’altra. Dané mi chiese infatti di tra­ durre Born To Run, di Bruce Springsteen. Fabrizio aveva già fatto delle cover, soprattutto di Cohen: Nancy, Suzanne, Joan Of Arc e anche Desolation Row di Dylan. Quella canzone di Springsteen, però, li sconsigliai di farla perché aveva una metrica micidiale e mi sembrava troppo difficile da ren­ dere in italiano, con quella metrica incalzante e quell’intensa energia rock. Avremmo avuto molte difficoltà a portarla nel mondo di Fabrizio. Il disco che ascoltavamo di più in quel periodo era Desire di Bob Dylan. In Desire i testi non erano solo di Dylan, c’era anche la mano di Jacques Levy, che fra l’altro era un autore di teatro. Le canzoni sono tutte piccole sceneggiature. Prendemmo in considerazione all’inizio Isis – altra ballata con una bella storia – ma Romance In Durango aveva qualcosa che ci piaceva di più, era come un fumetto di Tex Willer. Ci andava bene per bilanciare un disco che aveva una certa ponderosità. Aveva una struttura da film di Sergio Leone. Ci mettemmo dentro del divertimento, il gusto di parlare in napoletano era una specie di nostro slang interno. Poiché l’originale aveva l’inglese nelle strofe e lo spagnolo nel ritornello: “no llores mi querida”, noi usammo l’i­ taliano e il napoletano: “nun chiagne Maddalena”. Parlare in napoletano piaceva molto a Fabrizio. Era una lingua che trovava confacente al suo ca­ rattere e alla sua indole. Il lavoro di adattamento fu certosino, proprio per ricreare le rime in italiano e rispettare il senso del brano, che non era certo realistico, visto che i luoghi di cui si parla nella canzone, nella realtà distano migliaia di chilometri: come Durango e i templi aztechi. Non era un viaggio vero, insomma, geograficamente plausibile, ma semmai rappresentava un’idea fantastica e iconografica del Messico. 101

Intervista a Massimo Bubola

R imini in effetti non viene ricordato per Avventura a Durango ma per altre canzoni: a cominciare da Andrea. Andrea in origine si chiamava Lucia. Era una canzone di montagna. Io ho anche quelle radici. Da ragazzo andavo in vacanza ad Asiago e di lì partivo per visitare l’Ortigara, le trincee, i monti del primo conflitto mondiale. C’era una presenza ancora forte della guerra, ne ero ogni volta profondamente colpito. Ed ero colpito anche dal Piave, quando ci passi sul ponte dell’auto­ strada c’è un cartello che dice: “Fiume sacro alla Patria”. Mi chiedevo come potesse essere sacro qualcosa che era stato lo scenario di un macello di quelle dimensioni... Nella prima versione, Lucia era la storia di una ragazza che aveva perso l’innamorato al fronte. Poi venne l’idea di dissacrare questo mito. Di creare una storia d’amore omosessuale all’interno di questa guerra santa. D’al­ tronde, nella letteratura del passato c’erano già esempi importanti, basti pen­ sare a Eurialo e Niso nell’Eneide di Virgilio o a Cloridano e Medoro nell’Orlando Furioso di Ariosto. Era il tema dei due soldati amanti. Fu una canzone fortunata, proprio ben accolta, anche in Germania e nei paesi di lingua te­ desca, perché Andrea in quei luoghi è un nome femminile e veniva quindi interpretata come una storia d’amore popolare. Mi è capitato di sentirla al Prater di Vienna, di sentire un’orchestrina che la cantava in tedesco, in una versione ballabile; subito dopo eseguirono Rosamunda. Con che idea nacque Rimini? Con Fabrizio usavamo dei paletti per delimitare il nostro terreno ideolo­ gico. Poi riempivamo gli spazi interni, con le nostre semine. Volevamo analiz­ zare la piccola borghesia italiana, che ha sempre creato dei grossi problemi a questo Paese. Una borghesia raccogliticcia, di etnie e culture diverse, che si era compattata sui valori di un cattolicesimo spesso molto ipocrita, frainteso e di maniera. Decidemmo di dedicare il disco ad analizzare i difetti di questa piccola borghesia italiana, così anemica e gretta, così diversa per esempio dalla borghesia francese che nel corso della storia aveva dato segno di ben di­ versa apertura culturale e garanzie democratiche. Una vera borghesia illu­ minata non l’abbiamo mai avuta. La nostra è una piccola borghesia di ex bottegai, molto limitata, molto ignorante, basta guardare lo specchio della sua TV odierna. Il disco è un’analisi di questi comportamenti, per esempio in London Valour. C’è l’analisi di un certo voyeurismo collettivo che ancora adesso si manifesta. Penso a certi incidenti in autostrada, alla gente che ral­ lenta per guardare il dramma. Ecco, allora ai genovesi che passeggiavano sul lungomare capitò di assistere alla tragedia della nave che aveva rotto i suoi ormeggi ed era stata sbattuta contro gli scogli, con i marinai a bordo. Mor­ bosità e guardonismo di gruppo, oggi più che mai eccitato dai media. Per 102

Intervista a Massimo Bubola

certi versi fu una visione anticipata di quello che sarebbe divenuto un filone ora fiorente di certi programmi televisivi in cui si rappresentano i più bassi istinti nelle persone in crisi di relazione e si assiste a veri massacri familiari esibizionistici in pubblico. Era una storia vera, ma di quando? Una storia degli anni ’60. I marinai probabilmente erano ubriachi, veni­ vano dalla Colombia, forse erano fatti e comunque cotti. Non fissarono bene gli ormeggi e finì in un macello – c’è quel verso che dice: “I marinai, uova di gabbiano, piovono sugli scogli”. Ti spiace se analizziamo le canzoni una a una? Voltalacarta è quella che sposa di più il vecchio De André... La musica guarda più al nuovo folk, a Jethro Tull, Amazing Blondel, Steeleye Span, quel tipo di folk revival inglese. Viene da lì e poi viene dalle filastrocche venete, quelle che da piccolo mi aveva insegnato mia nonna. E poi c’è Angiolina, questa figura di eroina popolare tratta anch’essa dalla tra­ dizionale canzone veneta: “Ohi Angiolina, bell’Angiolina, innamorato io son di te / E la g’avea la veste rosa, e le scarpette di raso blu”. Erano le canzoni che cantavo con mio padre, la domenica tornando dalla montagna. Coda di lupo suona come l’archetipo della Domenica delle salme. Un modo buñueliano di confondere realtà e sogno. È un pezzo musicalmente vicino a certe ballate rock dylaniane, potenti, epiche, pensavo a Hard Rain nella versione della Rolling Thunder Review. Strofe lunghe, con chiusura ritornellata. Io parlo ovviamente dalla mia parte del vento. Sono nato, come dicevo, in una famiglia patriarcale veneta. C’era questa grande corte e c’era mio nonno, che sovrintendeva all’educazione dei piccoli, perché quella era la consuetudine e girava con una nidiata di bambini e di cani per il paese e per i campi. Ci insegnava oralmente le cose: riconoscere i nidi, le erbe, fare le fionde e tanti racconti tra epica e mitologia. Era la parte dei ricordi che miscelammo poi con le letture e l’attualità. Devo dire che la parte “moderna” è quella che oggi mi piace di meno, che trovo più invecchiata – il riferimento a Lama, agli indiani metropolitani sono foto di giornale un po’ consunte. Come quando spacchi un sasso e ci trovi un fossile. Quando l’arte si lega troppo all’attualità, finisce per alzarsi poco, per parlare un po’ meno successivamente. È la differenza tra la satira latina e la lirica. Sono più attuali le liriche di Catullo o Properzio che non le satire di Giovenale, che sbeffeggiava le matrone romane. Così anche in Sally, prefe­ risco le prime due strofe, quelle dell’apologo. 104

Zirichiltaggia. È una storia vera. C’era un vicino, un amico di Fabrizio, che aveva un fratello con cui aveva avuto un problema di eredità. Non si rivolgevano più la parola. Ci ispirammo a quella vicenda, anche riprendendo certe strutture antiche, come quella dell’alterco sardo, in cui i poeti si confrontano facendo delle rime uno contro l’altro, dicendosi spesso, come nel nostro caso, cose pesanti. Un omaggio alla Sardegna, alla Gallura, la terra tanto amata che ci accoglieva. Un pezzo folk, pescato in un mondo musicale vicino a Voltalacarta, con una struttura da giga, sempre provenienti dall’area celtica, che è la base di tanta musica popolare italiana, specialmente la musica del Centro­ Nord. Come giudichi quel disco oggi? Secondo me, venne curato abbastanza bene, anche perché fu prodotto due volte, quindi ci fu modo e tempo di perfezionarlo. E poi Mimms era bravo, aveva prodotto dei dischi molto belli… Era un trombonista, un musicista scozzese molto dotato e sensibile. Uscito il disco, tu e Fabrizio rimaneste in contatto? Uscito il disco, la Produttori Associati chiuse e mi chiesero se volevo passare alla Ricordi. Io ricevetti una proposta migliore e andai invece alla Polydor, dove pubblicai Marabel. In quell’album feci il percorso inverso di Rimini, cioè cominciai a Milano con Tony Mimms e finii per registrarlo a Roma con l’assistenza di Antonello Venditti. Fu un periodo molto felice. Dopo Rimini, io e Fabrizio continuammo a tenerci in contatto, andai ancora a trovarlo. Poi c’era Cristiano che per me era come un fratellino, l’avevo conosciuto che aveva 13/14 anni. C’era un legame anche familiare. Fabrizio poi aveva in mente di creare un’etichetta, insomma, c’erano delle idee da elaborare. L’estate del ’78 la passai con Venditti, suonando nella tournée di Sotto il segno dei pesci. L’estate seguente invece andai a militare, a Casale Mon­ ferrato. Ricordo che ero in caserma, stavo giocando a pallone, quando venne un amico a dirmi che avevano rapito Fabrizio. Rimasi così stranito e scioc­ cato da non riuscire ad alzarmi dal letto per due giorni. Fabrizio aveva un rapporto così bello con la Sardegna. Aveva già costruito la fattoria, conosceva tutti, frequentava pastori e contadini della zona. Era una persona che voleva integrarsi, aveva amore per quella terra. Non era certo un colonizzatore. Finii il militare a giugno del 1980 e subito dopo andai a trovarlo in Sar­ degna. Gli venne fatta una proposta per uno speciale TV su Pasolini. Gli chiesero di fare una sigla e lui mi coinvolse. Fu così che nacque Una storia sbagliata. Facemmo anche un video insieme, che fu girato a Calcata, un pae­ sino della Tuscia su uno sperone di tufo. E poi realizzammo un 45 giri, che 105

Intervista a Massimo Bubola

fu la prima produzione mia e di Fabrizio, con una sorta di session che coin­ volgeva musicisti dei New Trolls e della PFM. Ci accoppiammo sul lato B un reggae molto allegro e popolare, Titti. Era il ritratto di una donna libera che viveva due amori di segno opposto. Era il periodo in cui si leggeva molto Jorge Amado, c’è quell’influenza e il profumo del Brasile del Nord­Est. Tu eri molto giovane in quegli anni. Provavi soggezione nei confronti di Fabrizio? Non tanto anche per merito suo. Con Fabrizio ci si divertiva anche, si scherzava spesso, si andava a pescare, si cucinava. Giravamo molto per la Gallura, si andava alle sagre di paese, alle feste dei vicini. Comunque non avevamo mai ritmi di lavoro troppo pesanti. Non dico che si lavorasse quando non c’era di meglio da fare, però, insomma, ce la prendevamo calma. I primi tempi, devo confessare, mi trovai un po’ spaesato. Era una vita solitaria, quella che facevamo, con ritmi dilatati. Lui si alzava d’abitudine di primo pomeriggio e io facevo fatica a seguirlo in quei suoi ritmi. La mattina ero spesso solo, quando era inverno intorno non c’era nessuno. Santa Teresa era a 10 chilometri. La prima volta che andai, Fabrizio non aveva ancora la sua tenuta. Abitava a casa di una maestra, a Tempio Pausania, stava cer­ cando ancora il suo paradiso. E poi vivevamo spesso nella casa al mare, a Portobello. Quali erano le ore del lavoro? Fabrizio si svegliava tardi, come dicevo, nel primo pomeriggio. Dopo sveglio, si prendeva un’ora di allegria, si accendeva qualche sigaretta, chiac­ chieravamo, lui seduto sul letto. Poi c’era sempre qualcosa da fare. Siamo andati anche a comprare degli alberi insieme e delle vacche. Verso le 3 si cominciava a lavorare e si procedeva così fino all’ora di cena e anche dopo proseguivamo, se eravamo sull’onda, fino a notte inoltrata. Io stavo facendo l’università a Padova, ma frequentavo poco. Venivo da una famiglia di inse­ gnanti, mio padre e le mie sorelle lo erano, e conoscevo bene quel mondo, sapevo soprattutto quante poche gratificazioni economiche offriva. Quando mi arrivarono i primi diritti d’autore, dopo un anno circa, capii che quello del cantautore poteva essere il mio mestiere e darmi da vivere. Il secondo disco insieme fu F abRizio D e a nDRé , quello che tutti conoscono come l’“Indiano”. Mi racconti delle sue radici? Io amavo molto Ry Cooder e tutto il rock sudista americano: gli Allman Brothers, i Lynyrd Skynyrd, Joe Ely, Butch Hancock. Era un mondo che sen­ tivo molto vicino. L’ho detto anche a Lou Reed una volta dopo un reading: “Noi il Tex­Mex l’abbiamo inventato 2000 anni prima di voi, quando i ro­ mani si sono incontrati con i celti sul crinale dell’Appennino tosco­emiliano 106

mischiando le loro musicalità”. Il rock è l’unica musica che sa essere fonoas­ sorbente nei confronti delle varie musiche popolari occidentali. Tutte queste cose si riflettono nell’“Indiano”. Andai una volta all’eremo delle carceri, ad Assisi, ricordo che era no­ vembre, e parlando con il priore gli domandai ragione di quel loro modo di vivere spartano, con quelle quattro cose nel povero orto. Lui mi rispose: “Per essere felici, bisogna pensare a quello che si ha, non a quello che non si ha. Se pensi a quello che ti manca, ti mancherà sempre qualcosa, sarai sempre un infelice”. E partimmo da quella riflessione, partimmo anche da un dato che avevamo scoperto leggendolo su un libro di antropologia: che un bambino Navajo possedeva circa 30 oggetti in tutto e un bambino tedesco più di 800. Pensammo che fosse una buona chiave per affrontare quell’argomento: con­ siderare tutte le cose che ci vengono imposte come necessarie e che necessarie non sono e che anzi contribuiscono fortemente alla nostra infelicità. E poi il senso di stabilità, di precarietà, l’idea di andare e tornare. Gli indiani non avevano questo senso del ritorno, si spostavano e basta. Abbiamo fatto un buon lavoro bibliografico. Abbiamo letto molti libri, a cominciare dai classici come Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Piccolo grande uomo, Alce Nero parla, accanto ad altri più di tipo scientifico­ antropologico ma anche libri d’arte e di oggettistica. E dischi, anche. Sai quell’album di Ry Cooder con Flaco Jiménez, il live “Show Time”? Cercavamo le radici popolari nella nostra musica. Ci interes­ sava quell’aspetto di “museo popolare” a cielo aperto. L’idea era di portare quelle melodie in superficie, metabolizzandole nel rock. Ricordo da bam­ bino la festa della trebbiatura, con l’orchestrina e i contadini che ballavano sull’aia. Il tema dell’“Indiano” era già venuto fuori da certi discorsi impostati ai tempi di Rimini. C’era già molta controinformazione sull’epopea dei pel­ lerossa, erano usciti film come Soldato blu, Piccolo grande uomo. In quel periodo in Sardegna il movimento autonomista era piuttosto attivo, si ve­ devano scritte di “Sardinia libera”, “Sardinia colonia” un po’ ovunque. E quindi venne facile il raffronto – anche se ardito – tra due civiltà che rischia­ vano di soccombere, schiacciate da un potere centrale più forte, economica­ mente e militarmente. Non vince le guerre chi è più ricco culturalmente ma chi è più ricco economicamente. C’era poi quello sposalizio ancora più forte con la Sardegna, anche se in mezzo c’era stata la violenza che aveva subito, Ma Fabrizio aveva ri­scelto la Sardegna. Dopo il rapimento, come l’avevi trovato? Stranamente molto allegro e con molta voglia di lavorare al nuovo pro­ getto. Mentre nel periodo di Rimini c’erano tensioni e incertezze, durante la composizione dell’“Indiano” il clima era più felice. Era cambiata la sua 107

Intervista a Massimo Bubola

vita e, a parte quella dolorosa parentesi, si era stabilizzata verso il bello. Avevamo bei progetti per il futuro. Solo ogni tanto aveva dei momenti di panico, questo sì, delle improvvise cadute, come se il rumine dei giorni della prigionia gli tornasse a galla. Da un lato, giustificava molto i suoi rapitori, non li aveva criminalizzati; dall’altro, si portava dietro questo shock, che ogni tanto gli riappariva violentemente. Aveva dei ricordi improvvisi e anche a volte buffi, come quando raccontava che uno dei sequestratori aveva la voce come Guccini, con la erre moscia. Come nacque l’“Indiano”? L’“Indiano” fu scritto quasi tutto all’Agnata, nella fattoria, in tre­quattro mesi. Eravamo un bel gruppo di persone: musicisti, produttori, amici e fidan­ zate. Fu registrato nei nuovi studi di Antonio Casetta al castello di Carimate, con due arrangiatori: uno era Mark Harris, l’altro Oscar Prudente. Fabrizio ha sempre avuto l’idea di concept album. In quel periodo aveva una certa passione per i Pink Floyd. Voleva delle canzoni come nei loro di­ schi, che emergessero da una colonna sonora, che entrassero l’una nell’altra. Gli piaceva un’ambientazione con rumori di fondo. Si sente fin dall’inizio del disco con i suoni della caccia, che registrammo io e Sandro Colombini durante una battuta di caccia al cinghiale. In Fiume Sand Creek ritorna questa idea di rumori pinkfloydiana, un po’ tribale. Ricordo che Cristiano sapeva imitare il verso dell’upupa che fu re­ gistrato nella quarta strofa. È una ballata che ha retto molto bene il tempo e ha mostrato con gli anni molte facce di sé. Si presta a essere riarrangiata: lo ha fatto Fabrizio con la PFM e anch’io nel mio album Amore & guerra del ’96, dove ho fatto tesoro anche del lavoro di Robbie Robertson nel suo album Music for native Americans. Dicevi dei Pink Floyd. Se ti tagliassero a pezzetti sembra anch’essa una citazione – c’è un testo di Roger Waters che usa quell’espressione, il primo di meDDle. No, la nostra fonte era un’altra. Era una frase che avevamo preso da una poesia pellerossa, e poi rielaborata. Come per Coda di lupo il personaggio subisce una metamorfosi progressiva durante il procedere della canzone. La figura femminile qui è molto simbolica, è la Signora Libertà, Signorina Fan­ tasia, che finisce col camminare fianco a fianco al suo assassino alla stazione di Bologna, ricordando anche la strage del 2 agosto 1980. Di quel brano mi piacciono le immagini e un certo clima agreste, pagano, mitico. Sembra una canzone adatta a una commedia di Shakespeare. È una sorta di sposalizio della Vergine. Oggi è una canzone che ho rifatto comple­ tamente, la suono a blues, anzi, meglio, a soul. Con Fabrizio invece si decise un andamento più rarefatto, quasi impressionista. 108

Canto del servo pastore. Volevamo guardare la vita dal punto di osservazione più basso. Ci sem­ brava interessante quell’ottica paradossale. Di solito quando si guarda un panorama, lo si osserva dal punto più alto. Invece qui siamo scesi all’ultimo grado della scala sociale, al servo pastore. Un ragazzo che sopravvive pasco­ lando pecore d’altri. Una storia di solitudine, miseria, disadattamento. Un uomo che non aveva alcun diritto. Ci sono riferimenti a François Villon ma anche a una certa letteratura sarda, a certi libri come Padre padrone. Una canzone molto commossa e credo commovente, dove ancora una volta la Sardegna è vicina all’America. Questo giovane è molto simile a quei ragazzi pellerossa che hanno perduto la loro identità e vivono di alcol e souvenir per turisti. Ave Maria. L’Ave Maria in Sardegna non è solo un canto religioso ma un vero e pro­ prio inno nazionale. Era bello mettere un inno di pace, visto che quasi tutti gli inni in genere sono guerreschi... Ad arrangiarlo fu Mark Harris, che era sì americano ma aveva la moglie sarda e sapeva parlare perfettamente il logu­ durese. Aveva poi una voce da tenore leggero e la cantò in maniera convin­ cente. Hotel Supramonte. È nata come una canzone d’amore, poi si è allargata. Una sera alla fine della tournée con Venditti, quella del Segno dei pesci, ci trovammo con Claudio Baglioni, che era in vacanza ad Alleghe in una bella villa al centro del lago omonimo. Diventai amico di un ragazzo che aveva un hotel, il Mi­ ralago. Mi invitò l’inverno dopo a sciare. Lì scrissi una canzone che era una storia d’amore molto autobiografica. Quella storia mia si è andata poi a mescolarsi con le drammatiche vicissitudini di Fabrizio. Le due storie sono andate a confondersi l’una nell’altra e alla fine nel testo le ritrovi entrambe. Franziska. C’era questa figura magica, un po’ mitica, di una ragazza selvatica che avevamo visto passare a cavallo. Occhi azzurri ma sguardo scuro. Sembrava una dea. Poi nella canzone divenne la fidanzata di un bandito. Una donna sola che aveva tutti gli svantaggi della solitudine e tutti gli svantaggi di un legame. Musicalmente era una specie di beguine con un riff latino molto im­ portante, come in Andrea. Verdi pascoli. Non mi è mai piaciuta troppo. Fra le cose a cui ho partecipato, è tra quelle che mi piacciono meno. Volevamo chiudere l’album con una canzone 109

Intervista a Massimo Bubola

leggera, scegliemmo un reggae, in anni in cui Bob Marley non era ancora molto conosciuto qui da noi. I tuoi dischi vengono considerati “il periodo rock” di Fabrizio De André. Ma nonostante il tuo impegno e i risultati che comunque avete raggiunto, De André non è mai stato un tipo rock. Credo che la sintassi del rock sia appartenuta più alla mia generazione e che Fabrizio, pur apprezzando molti autori come Dylan o Lou Reed, fosse più affascinato dalla parte testuale. Diciamo poi che non è mai stato molto d’accordo sul mio modo di fare musica in maniera molto pura, schietta. Lui aveva un’idea più composta dell’esecuzione dei brani; voleva stare seduto, tranquillo, con il leggio davanti. Perché agitarsi tanto se hai dei bei testi e belle canzoni? Più uno ha cultura, più è immobile; la cultura insomma vista in maniera cattolica fraintesa, come sofferenza. Non si può gioire di ciò che è cultura, si gioisce delle canzonette. E dire che ricordo Leonard Cohen, cioè un profondo poeta, al Teatro Smeraldo di Milano in un concerto in cui le sue canzoni le interpretava con verve, si muoveva, accennava passi di valzer. Sem­ brava Gilbert Bécaud, con due coriste che avevano l’aria delle spogliarelliste, belle e poco vestite. Be’, fu una cosa che scandalizzò la critica, perché il can­ tautore te lo immagini sempre fermo e seduto, un po’ tristanzuolo, con il ma­ glione sudato, che canta i suoi versi e sembra appena uscito da una riunione condominiale. Eppure Dylan, per fare un altro esempio, è uno che ha un forte senso dello spettacolo anche se fa belle canzoni ricche di impegno; e Spring­ steen, non è che scriva brutti testi perché sul palco è un grande performer. Ho sempre avuto quell’idea lì di spettacolo. E poi un’altra cosa che mi trovava in disaccordo con Fabrizio è il concerto come ripetizione ordinata dei dischi in studio. Secondo me il live è teatro, i dischi sono cinema; in studio ti affidi ai montaggi, ai tagli, alle riscritture, sul palco devi essere capace di un adattamento, di una riduzione teatrale – chi l’ha detto che devi ripetere tutto uguale? A teatro vado per vedere una commedia, non la replica di un film. Dopo l’“Indiano” prendeste strade diverse – salvo però ritrovarvi per Don Raffae’. Quella canzone fu un ritorno al nostro vecchio amore per la cultura partenopea. Io avevo fatto una vacanza alle isole Tremiti, che fino all’800 erano un bagno penale dei Borbone soprattutto per detenuti politici, e dunque la lingua che vi si era diffusa, e ancora oggi è parlata, è il napoletano. E l’isola ancora adesso è popolata dai discendenti dei secondini, di quelli che al bagno penale ci lavoravano. I cognomi sono quelli di Scotti, Scognamiglio, Cafiero. Scelsi Cafiero per la rima con “brigadiero”, poi il personaggio prese il nome di Pasquale, che faceva rima con “Poggioreale”. Scrivemmo molte più strofe di quante poi rimasero sul disco; ce n’era una, ricordo, su Ciro Cirillo. Ci 110

lavorammo sopra molto tempo. Fabrizio aveva paura che il pezzo non fosse ab­ bastanza ironico, che non creasse una sufficiente ilarità. Ancora alla fine del mis­ saggio era un po’ titubante e devo dire che anch’io ero un po’ perplesso. Invece fu una canzone di grande riuscita, che diventò subito molto popolare. Una can­ zone che circolò anche nelle carceri ed ebbe dei risvolti strani, perché fra l’altro si fece vivo Raffaele Cutolo che mandò a Fabrizio dei testi da musicare. Si era innamorato di una bella ragazza e le aveva scritto una serie di poesie d’amore. Noi peraltro non avevamo mai pensato di riferirci a Cutolo. Don Raffae’ è un nome napoletano classico, che usò spesso anche Eduardo De Filippo. Tra il primo e l’ultimo De André che hai conosciuto c’è un arco di vent’anni. Che differenze ti vengono in mente? Alla fine era più tranquillo. Aveva smesso con l’alcol e questo aveva ad­ dolcito il suo carattere. E come lo valuti, staccandoti se riesci dalla vostra collaborazione? Fabrizio è stato una persona importante perché, fin dall’inizio, ha dato una scossa molto forte alla musica in Italia, ha fatto entrare la letteratura nella canzone. Non era il primissimo: c’erano già Tenco, Paoli, veri chansonniers. Però ha portato tematiche alte, cultura vera. Ha spianato la strada a tanti altri che sono venuti dopo. Ha ridotto un gap che c’era con la poesia ufficiale e ha aiutato a cambiare non solo il mondo della canzone ma pro­ prio il modo d’intendere e approcciare la cultura. In Paesi come la Francia, il Brasile, ma anche gli Stati Uniti, non c’è mai stata quella differenza tra poesia alta e popolare che esiste da noi. De André ha aiutato a infrangere questo tabù, che però per certi accademici conservatori continua a resistere. Abbiamo ancora questo retaggio antico, di una poesia italiana che è nata e cresciuta nelle corti rinascimentali. Quindi è una poesia dotta, per pochi, spesso autoreferenziale, che vive in ambienti chiusi, che poco si mischia con le voci del popolo e del mondo non letterato. Comunque, l’opera di Fabrizio è assai composita, varia. Andrebbe studiata, non iconografata. Non ha bisogno di beatificazioni né di vaghe apologesi. E musicalmente? Musicalmente, De André ha cambiato spesso moduli. Era un uomo in co­ stante ricerca. All’inizio era molto vicino a Brassens, poi con Reverberi e Pio­ vani ebbe una musicalità più complessa. Con De Gregori scelse un modo di fare musica e testi diverso, come credo sia successo con me, poi con Pagani c’è stata una scelta di tipo etnico­mediterraneo fino alle ultime canzoni con Fossati, ancora diverse. Ha sempre sposato i moduli stilistici dei suoi col­ laboratori, se li è cuciti addosso ed elaborati con talento e intelligenza e na­ turalmente con il grande carisma che possedeva. 111

INTERVISTA

Con Fabrizio De André hai condiviso una A FRANZ DI CIOCCIO (PFM) serie di concerti famosa, fra 1978 e 1979, quelli con la PFM. Ma tu Fabrizio lo conoMilano, agosto 2002 scevi già da prima, dalla buona novella. Sì, era il 1970. Noi non eravamo ancora PFM, eravamo Quelli. E ci eravamo un po’ stancati di come andavano le cose, ci era­ vamo detti che volevamo novità. La musica di allora non sviluppava le caratteristiche che desideravamo: era l’epoca dei cantanti belli e di repertori fatti per lo più di covers. Aggiungi il fatto che noi eravamo bassi nel tabellone, diciamo così, teste di serie numero 1000, e regolarmente ci toccavano le covers peggiori. Ci siamo presentati a un Cantagiro con una canzone che ritengo sia tra le più brutte mai scritte; si chiamava Dizzy, non ricordo neanche di chi fosse l’originale. Ricordo bene invece chi cantava in inglese un altro nostro pezzo, I’m A Tiger; era Lulu, la guardarobiera dei Beatles – renditi conto. Il lavoro con De André fu una boccata d’aria pura per noi, che accanto alle incisioni come Quelli facevamo anche lavoro di studio, regolare, spesso con Giampiero Reverberi; avevamo lavorato insieme, per esempio, in molte incisioni di Lucio Battisti. Avevamo stabilito un modo di lavorare molto efficace e lui era contento; era soprattutto una questione di affiatamento, è una fatica se devi passare il tuo tempo a mettere d’accordo, per esempio, basso e batteria, e una fortuna invece se trovi la ritmica già solida, compatta. Quando a Reverberi venne affidato il lavoro della Buona novella, pensò a noi; e l’invito venne accolto da parte nostra con grande entusiasmo. Conoscevate già De André per altre vie? Solo musicalmente. Per noi era l’autore della Canzone di Marinella e di altre canzoni che non passavano alla radio ma che allora si conoscevano, erano un culto. Un culto strano, fra l’altro, perché stava avendo successo; però non è che si sapesse molto di lui. Giravano tre fotografie in croce, poche interviste o nessuna; insomma, era avvolto da un certo alone anche di mistero. All’epoca, va detto, noi eravamo un gruppo che stava crescendo. Stavamo per cambiare pelle, per diventare Premiata Forneria Marconi ed eravamo per così dire dei cavalli selvaggi, ricchi di energia, di musicalità, che però non sapevano bene dove andare. Per noi lavorare in studio anche con altri era un modo di mettere fieno in cascina, di collocare la nostra musicalità in posti strategici. Con Battisti era andata così, ed era andata bene. Con Fa­ brizio andò bene egualmente, perché c’erano questi testi bellissimi, che con il tempo trovo anzi che abbiano acquistato più valore ancora; e c’era anche 113

Intervista a Franz Di Cioccio

l’idea di un album concept che all’epoca ci colpì moltissimo – l’idea di avere una storia che facesse da cornice, con la musica che ci fluiva dentro. Forse mi sbaglio, ma La buona novella fu il primo, vero concept della musica italiana. C’erano stati altri esempi ma più virtuali che altro; lo stesso Senza orario, senza bandiera dei New Trolls, che si ricorda sempre, è un titolo unico per una serie di storie ma non aveva la continuità del concept, non aveva quadri, capitoli diversi per sviluppare un racconto organico. Qualche tempo dopo, come PFM, registrammo Storia di un minuto e fummo molto influenzati da quella struttura. La buona novella è una delle radici forti del nostro primo album. Ci piacque l’idea di una sceneggiatura e l’idea di testi che andavano insieme a comporre una storia. C’era anche una dimensione teatrale; e noi per anni meditammo di eseguire Storia di un mi­ nuto dal vivo in una situazione di palco a due livelli – noi sopra a suonare e sotto la storia rappresentata. Un sogno purtroppo mai realizzato. Tornando a quella prima collaborazione con De André, noi in studio lavoravamo “a pacchetto”, nel senso che venivamo ricompensati collettiva­ mente. Era un modo di aiutarci, di far crescere il gruppo. Mauro era appena entrato e anche a lui toccò una parte, per quanto piccola, quella dell’ottavino nella Bottega del falegname; poi, per il resto dell’album, suonò il tamburello. Ci fu anche questo aspetto in quelle registrazioni con Fabrizio; servirono a unirci come gruppo, a farci stare insieme, a darci compattezza. Ricordi qualcosa di particolare di quelle sedute? Non ho molti ricordi personali di Fabrizio legati a quella prima volta. Me lo ricordo inquieto, questo sì, e poi rileggendo le sue biografie penso di aver capito che c’erano storie personali che lo agitavano. Con altri artisti mi era capitato di legare di più, di stare più insieme. Lucio Battisti è un buon esempio. Lucio non era il musone che tutti dicono; era un caciarone invece, gli piaceva divertirsi e stare in compagnia, naturalmente con chi decideva lui. Con De André, c’era un profondo rispetto ma tutto finiva lì. Io mi presen­ tavo come ho sempre fatto, molto rock, e lui era un po’ distante, molto De André. Lo vedevo distaccato dalle cose. Era il tipo introverso che uno s’im­ maginava. Comunque, la cosa non influiva sulle registrazioni. Il garante di tutto il progetto in studio era Reverberi, era lui che ci aveva chiamato e che credeva in noi, e a Fabrizio stava benissimo. Se ripenso a quei giorni, non mi vengono in mente immagini dell’uomo o storie particolari ma il nostro stupore, e il nostro piacere, davanti a quei testi così belli, e strani, e grandiosi, che fra l’altro capivamo e non capivamo: avevano una ricchezza che si è svelata solo nel tempo. Be’, con il senno di poi se avessimo avuto la fortuna di avere De André a scrivere i testi in qualcuno dei nostri lavori, forse saremmo arrivati davvero a quel che si chiama “ma­ sterpiece”, il capolavoro. 114

Lui era uno vorace, avido di cose soprattutto da leggere. Era uno che comperava un libro a mezzogiorno e il mattino dopo lo regalava. Lo aveva letto, masticato, digerito in quelle poche ore; non era andato a dormire fino a che non lo aveva finito. A me una volta regalò un libro sui pellerossa, ce l’ho ancora, lo tengo lì come una reliquia; e guarda caso, fra l’altro, il disco dopo fu proprio un album dedicato ai pellerossa e alla loro cultura. E diceva sempre: non so scrivere, non mi riesce più, non mi viene più. Invece non era vero. Continuava a macinare. Aveva l’hard disk pieno di cose, altro che. Ed era come se gli cantassero dentro; lui doveva solo estrarle ed erano perfette – non una parola fuori posto. Era uno che sapeva tutto di un sacco di cose. Era in grado di parlare di qualsiasi argomento in maniera precisa e soprattutto documentata. Davvero un sacco di argomenti: dai funghi al jazz a García Lorca. Com’è che tanti anni dopo vi ritrovaste? Allora, a un certo punto – è il 1978 – incidiamo Passepartout, che è il punto più basso della PFM, non tanto come qualità ma come riscontro com­ merciale. Noi non capivamo, però era vero che erano cambiate molte cose nello scenario: l’avvento del punk, il riflusso, il gusto per una certa musica istintiva e barbara, da non musicisti, che era proprio il contrario esatto della nostra. Insomma, anarchy non solo in UK, ma anche in Italy. A quel punto, decidiamo di andare in tournée; perché credo che, come sempre, l’unico modo di fare verifiche per una band sia andare in giro e incontrarsi con i fans. Un modo di serrare i ranghi, di guardarsi tutti negli occhi e di capire – cosa vogliamo noi e cosa vogliono loro. Lo facciamo e ci capita di andare in Sardegna. Passiamo dalle parti di Tempio Pausania e lì, da qualche tempo, abita Fabrizio. Noi negli anni ci eravamo incontrati qualche volta, così, abbastanza per caso. Capitava so­ prattutto al Castello di Carimate, perché una volta gli studi servivano anche a questo; adesso non più, ognuno i dischi se li fa a casa sua. Però una volta capitavano questi incontri; capitavano negli studi e poi d’estate negli auto­ grill, negli spostamenti fra un concerto e l’altro. C’era tutto un mondo che si ritrovava negli appuntamenti classici, San Remo o il Festival Bar; ma noi e Fabrizio non partecipavamo a quei riti, e allora o era il Castello o un au­ togrill. Comunque sempre due chiacchiere generiche, tipo “ué, belìn, come state? Adesso sto in Sardegna, ho messo su una specie di fattoria, ho com­ prato le mucche”, e via così. Quella volta in Sardegna, invece, fu un contatto meno vago. Gli telefo­ nammo, lo invitammo al concerto e lui venne; e gli piacque molto lo show. Mi sono sempre domandato perché gli piacque, voglio dire, in quel momento lì; forse perché era un pieno di vigore ma non caciarone, elettrico ma con varie parti acustiche – se vogliamo un po’ mediterraneo, adesso si direbbe “etnico”. 115

Intervista a Franz Di Cioccio

Alla fine ci salutammo e lui ci invitò a pranzo per il giorno dopo, a casa sua. E quando eravamo là, io che sono l’uomo­spogliatoio della PFM, il por­ tavoce per questo tipo di situazioni, gli faccio una proposta bruciante. Gli dico: “Pensa che bello sarebbe se facessimo un disco insieme.” E lui la prende un po’ così, non dice no ma sta bene attento a non dire neanche sì. Allora in­ sisto e provo a spiegargli i vantaggi di un’operazione del genere, e mi metto con gli altri a improvvisare qualcosa. Tipo: “Pensa cosa potrebbe essere Il pescatore se lo facessimo insieme”, mettendo l’accento anche sul lato goliar­ dico della cosa. La cosa si vedeva che lo stuzzicava. Ed ero contento perché era un mio mito quello della collaborazione fra artisti, fin dai tempi di Dylan con la Band o di Jackson Browne con gli Eagles; in Italia non era mai accaduta una cosa del genere, e la trovavo una cosa molto provinciale. Scattò credo anche una certa affinità zodiacale. Io sono Acquario di gen­ naio, Fabrizio lo è di febbraio e nel nostro segno c’è questo modo un po’ pindarico di immaginarsi progetti fantastici prima che ci sia la pur minima concretezza, volando a due palmi da terra. E capii che la cosa lo attirava, anche se c’erano delle questioni tecniche che potevano intralciare. E lui, da buon genovese, avanzò subito uno di quei dubbi commerciali e mi disse: “Eh be’, bisogna vedere anche se la Ricordi è d’accordo.” Giusto. Allora presi la palla al balzo, andai alla Ricordi dal grande boss, che era Lucio Salvini, e gli dissi: “Senti, c’è questo progetto tra noi e De André. Che ne dici? Secondo me, bisogna che vieni con noi in Sardegna da Fabrizio e che ci mettiamo d’accordo.” Lui era d’accordo: “Mi piace moltis­ simo l’idea. Ma la vostra casa discografica, la Numero Uno, cosa ne pensa?” E in effetti quello era un problema. Perché quando sottoposi l’idea alla Nu­ mero Uno, mi stopparono subito: “Fate un disco del genere, e il giorno dopo che è nei negozi noi lo facciamo ritirare.” Lì dovetti lavorare d’ingegno e trovai l’escamotage, perché di escamotage si tratta. Se volevamo essere soci nel disco, doveva esserci il nostro nome in copertina; ma se avessimo figurato come esecutori, la Numero Uno ci avrebbe bloccato subito. Così, dopo una notte di pensamenti, inventai l’ac­ corgimento di strillare i nostri nomi come arrangiatori. “Fabrizio De André ­ Arrangiamenti PFM”. Insomma, il disco ufficialmente era suo; con il nostro contributo di arrangiatori. Che poi noi anche suonassimo, be’, quella era una casualità. A quel punto, prendo l’aereo e vado in Sardegna con Salvini. Ci mettiamo d’accordo economicamente e poi organizziamo la serie di concerti. Salvini ci rifila il pacco dei dischi di De André e dice: “Okay, cominciate.” Ed era un lavoro monumentale, a cominciare dalla selezione; come si faceva a deter­ minare quali pezzi fare e quali no? E poi: chi lo decideva? Lui si era tirato fuori: diceva “sentitevi ’ste canzoni”, anzi, per essere precisi diceva “sentitevi 116

’sta roba”. Va be’, ci mettiamo d’accordo sulla scaletta, cercando di scegliere anche in base alla varietà, alla diversità: non troppe canzoni “alla francese”, non troppe ballate d’amore, non troppi ’60 o ’70. Insomma, una cosa equi­ librata, che tenesse conto anche e soprattutto degli stili musicali; perché, a considerare i testi, era tutto bellissimo. E una cosa equilibrata anche conside­ rando chi era lui e chi eravamo noi. Chi fece di voi, praticamente, la scelta? Chi ci lavorò? La scelta la facemmo insieme, ognuno con il suo carattere e ognuno con le sue idee, secondo il più classico spirito PFM. Siamo sempre stati così: per­ sonalità forti che litigano come i galli di Asterix per una cipolla da mettere in mezzo. Però alla fine quella è la forza, quello è il collante, e davanti a un progetto del genere non fu difficile arrivare a una scelta condivisa. Te la dico così: noi avevamo deciso di fare il gruppo che accompagnava nella maniera più splendida e meravigliosa il poeta massimo che per noi c’era in Italia. E per raggiungere quello scopo, dovevamo mettere in gioco tutte le nostre capacità, spogliandoci del tipico retaggio degli anni ’70: cioè, fac­ ciamo vedere quanto siamo bravi. Non era quello il punto, che invece magari a volte entrava in ballo quando c’era la PFM. Il punto era mettersi al servizio della canzone. La canzone doveva essere vestita e affrescata in un bel modo musicale. Ci passammo i brani, tre a uno, quattro all’altro; e discutemmo le proposte che ne venivano. Non so dirti di preciso chi arrangiò Volta la carta e chi invece La canzone di Marinella. Diciamo che dividemmo il lavoro in grandi blocchi: a Flavio affidammo per esempio le cose più rarefatte, tipo la Guerra di Piero, a Patrick invece i brani più “francesi”, anche considerando la sua origine. Alla fine comunque fu un lavoro collettivo. Devo dire che pensammo anche a un brano nostro cantato da lui, o al­ meno con lui – sarebbe stato una chicca. Pensammo a Il banchetto, c’era la parte del Sire che gli stava su misura. Poi però alla fine non se ne fece nulla. Quando veniva il momento dei bis, uscivamo noi con Celebration; ed era un cambio di toni, un cambio di registro che il pubblico apprezzava ma che, devo ammettere, lasciava Fabrizio sempre un po’ interdetto. Non rientrava nei suoi parametri. Comunque chiudevamo con Amico fragile e lì si tornava sul classico. C’erano diffidenze in giro sulla vostra collaborazione. C’erano sì, anzi, pochi avrebbero scommesso tre lire sulla sua riuscita. Il pubblico sembrava spaccato. C’era chi diceva: “a me piace la PFM, però De André che palle.” E altri invece: “De André mi sta bene, ma la PFM...”. C’e­ rano diffidenze, prevenzioni. Alla fine si capovolse tutto. Ho incontrato un sacco di gente che mi ha detto: “Vi ho scoperti per quel tour con De André”, e non era il nostro pubblico solito; ma anche nostri fans che ci hanno con­ 117

Intervista a Franz Di Cioccio

fessato di avere rivalutato De André dopo quei concerti. Insomma, c’è anche questo nel bottino della collaborazione: avere unito due mondi in origine lontani, avere gettato un ponte fra il rock e la canzone poetica. Comunque, la soddisfazione più grande fu che alla fine i pezzi vennero bene, e gli piacquero così tanto che non volle più toccare quegli arrangia­ menti. Fabrizio lo diceva sempre: non ha senso riprendere un quadro finito. E quel quadro era finito nelle sfumature più sottili, con i dettagli accurati che tanto gli piacevano. Ci sono pezzi che hanno preso nuova vita dopo quel tour. Penso a Il pescatore – per il pubblico Il pescatore è quella canzone lì, non quella originale del disco. Ma anche Bocca di Rosa, che poi servì da base all’arrangiamento di Don Raffae’; se tu lo ascolti bene, l’imprinting è quello. Dopo quel tour, ha messo in croce tutti quelli che hanno suonato dal vivo con lui: queste canzoni sono arrangiate così, non si toccano. Che altri pezzi ti suscitano ricordi? Soprattutto La bottega del falegname – era come Bob Dylan in giro con i suoi amici. Un gioco tipo Commedia dell’Arte. Tutte le sere c’era questa gag che mi piaceva fare con Roberto Colombo, che in quel periodo era nel com­ plesso. Io facevo il falegname che lavorava, Giuseppe, e lui faceva Maria, che lo apostrofava in milanese. “Ué, ‘ste fe’ lì?” E io: “Eh, mi sun chi che laùri, e mi sun chì che laùri, mentr’ i altér, in tuti a divertiss...”. E intanto sotto partiva la musica, e, insomma era un modo di divertirci e di togliere anche un po’ di sussiego al brano. Una cosa molto da band, molto live. E Fabrizio ci stava, rideva sul palco. Era più rilassato e riusciva a non essere accademico come nella versione su disco, dove la sua voce era così importante che diven­ tava un monumento. Marinella invece fu un problema, perché c’era stata nel frattempo la ver­ sione di Mina e da quel punto in avanti erano cazzi. Però anche lì ci impe­ gnammo, stringendo allargando rifinendo; e non sono così presuntuoso da dire che la nostra versione riuscì meglio, però, insomma, la ritengo davvero di alto livello. Amico fragile è un pezzo che ricordo perché per me è stato un massacro, proprio il massacro di Fort Apache. Io non capivo; avevo 250.000 battute di attesa prima di fare “pum pum” con la cassa, e lui non voleva assolutamente che ci fossero interventi prima di quel punto – e io ero appeso al fraseggio di chitarra, ero lì ad aspettare che lui cantasse “e ancora ucciso dalla vostra cortesia...”, con le pause di uno che sapeva dare le pause al testo. Fabrizio com’era in quel periodo? Be’, molto più tranquillo di quando lo avevamo conosciuto la prima volta. C’era Dori che gli dava serenità, aveva avuto la bimba, che era pic­ colina. Era felice, sorridente, pieno di energia. A parte il problema del bere, 118

che all’epoca già c’era. Fai conto oltretutto che noi eravamo astemi, tutti, e neanche potevamo fargli compagnia; canne quante se ne possono immagi­ nare, ma neanche un goccio. Comunque non lo lasciavamo solo con la botti­ glia, fingevamo di berne un po’ anche noi; poi magari il whisky lo versavamo nei lavandini. E in scena? Era preciso, meticoloso? Rissosissimo, litigavamo quasi tutti i giorni. Aveva sempre dei dubbi, dei risentimenti. “Stasera non suoniamo perché...”, e c’erano sempre dei perché. La tournée sotto questo profilo è stata un casino infernale. Come tutte le cose belle, è stata difficoltosa. Ed era anche comprensibile; era la prima tournée che faceva condividendo un palco con qualcuno che aveva una certa personalità – e lui a questa personalità si appoggiava. Gli coprivamo le spalle. Era diversa dalla tournée che aveva fatto qualche anno prima con i New Trolls; perché i New Trolls erano amici, finivano per perdonargli tutto. Noi eravamo una macchina perfettamente oliata di fianco a uno che era una spanna sopra tutti – e lui non aveva l’abitudine alla tournée, non era attrez­ zato mentalmente. Con il tempo ha imparato, ma allora si faceva prendere dalle lune. In parte era vero che aveva paura della gente; anche se poi gli piaceva quell’incontro, gli piaceva la sfida. C’era una contraddizione strana; la sua paura era anche un modo di esorcizzare la paura. Se ne nutriva, in un certo modo. Per noi era il contrario esatto, era il pane quotidiano. Allora io nei camerini prima di salire in scena ero gasato, facevo il guerriero e gli dicevo: “Fabrizio, adesso andiamo lì e li stendiamo!” E mi accorgevo che ri­ schiavo di ottenere l’effetto contrario, lui non aveva quella carica e quelle si­ curezze. Era sempre un po’ pessimista, esitante. “Stasera va che ci fischiano.” “Ma che cazzo dici, gli facciamo un culo così!” C’era anche una diversità di carattere, noi eravamo dei barbari rock gozzoviglianti, lui invece più quieto, misurato; e in camerino lo venivano a trovare persone in giacca e cravatta, intellettuali o gente bene, che contrasta­ vano con i nostri fans. Raccontami qualche aneddoto. Mah, ricordo di quando registrammo Zirichiltaggia a Bologna, dovevamo fare un ritocco al live. Erano le prove del pomeriggio e Fabrizio, prima di partire con la canzone, si rivolse ai carabinieri di servizio per creare un po’ d’effetto: “Fra di voi c’è sicuramente qualche sardo che può capire la lingua e la storia di questo brano.” Niente, cadde nel vuoto: non c’era neanche un sardo, nessuno capiva. Aveva un suo modo di provocare il pubblico. Diceva: “Noi siamo venuti qua, se non volete ascoltarci, l’unico modo per mandarci via è quello di eli­ minarci fisicamente.” Questo lo dice a Trento e subito, tàc, parte una lattina, 119

Intervista a Franz Di Cioccio

piena, verso il bersaglio più grande e individuabile: che era la mia batteria, immensa, larga da quel tavolo a quell’altro. Mi presero alla testa, mi fecero uno sbrego. Ogni tanto capitava, tiravano sul cantante o sul batterista, gli unici bersagli immobili; tutto il resto si muoveva, veniva più difficile. Quella volta mi fecero male. In camerino mi incazzai di brutto: “Non puoi conti­ nuare a provocare così, dove cazzo vuoi arrivare?” “Belìn, non me ne sono accorto, dovevi dirmelo che scendevamo.” “Eh sì, scendevamo. Ma dai!” Un’altra volta tirarono un bicchiere, che ci sfiorò; poi il giorno dopo, par­ lando con dei ragazzi in un autogrill, scoprimmo che chi aveva fatto il lancio era fra loro. Gli parlammo, alla fine ci chiese scusa; e fece un pezzo di tour con noi. Erano anni così, il clima era quello. E Fabrizio, più che cercare di passarci indenne, si immischiava, faceva domande. Voleva sapere se i disor­ dini erano stati causati dagli anarchici o da chi, se la polizia aveva caricato. Erano anni turbolenti. Il pubblico voleva mettere il becco nelle scelte degli artisti e seguiva le onde di certa stampa alternativa che dava un po’ la linea. Dovevi stare attento a come ti muovevi, c’era uno spirito molto polemico e un gusto proprio a infamare. Fabrizio per esempio aveva suonato una volta alla Bussola di Viareggio e quello veniva considerato un posto da ricchi, quindi il covo del nemico. Non gliela perdonarono per anni. Tutte le sere di quel tour c’era qualcuno che, infallibilmente, glielo gridava: “vai alla Bussola”, o cose anche meno ca­ rine. Una sera ricordo che a un certo punto si avvicinò al microfono e disse: “Ci rivediamo dopo. Fine della prima parte.” Fine della prima parte? Era un set unico, non c’erano parti. Nei camerini gli chiesi spiegazioni e mi rispose che così, quella volta aveva deciso di fare una pausa. E noi chi siamo, non ci avverti prima? In realtà scoprii che c’era uno giù tra il pubblico che gli aveva rotto i coglioni e lui fece quella sosta per andarlo a cercare. Lo trovò, e fece la seconda parte con un occhio pesto. “Gliene ho dette, belìn, ma me le ha date.” Quanti furono i concerti della tournée? Non ricordo bene quanti furono ma ne bastò uno per registrare; quello di Firenze al Palatenda. Ci fu solo un piccolo ritocco in un brano, credo Zirichiltaggia, che registrammo più avanti a Bologna durante le prove, perché Fabrizio non era rimasto contento della prima versione e voleva rifarlo a tutti i costi. Peccato non avere più registrazioni, oggi fra l’altro verrebbero comode; ma così andava ai tempi ed era anche una questione economica, visto che Fabrizio aveva voluto il miglior studio mobile all’epoca disponibile, cioè il Manor Live, e quello costava. La prima idea era stata quella di registrare il concerto di Milano, ma ac­ cadde che quello show venne rinviato per un abbassamento di voce di Fa­ brizio. Gli capitava sempre, si stressa, fuma come un turco; voglio dire, si stressava, fumava come un turco. Quando parlo di Fabrizio mi capita spesso 120

di parlarne al presente, pensa un po’... Fumava, si stressava e poi la tensione, perché era uno che sentiva la serata. A volte la tensione diventava insoppor­ tabile e allora scattava la tentazione di mandare tutto a monte. Come quella volta a Roma. Mi telefona e mi dice: “Be’, allora, ho deciso di fermare la tournée e di tornare a casa.” “No, tu non fermi la tournée.” “Sì, io la fermo.” “No, tu sei metà dello show, tu sei Fabrizio De André; e la PFM invece vuole andare avanti.” E perché voleva fermare la tournée? Mah, non so, mille cose. Aveva sempre ripensamenti. Non era uno nato per andare sulla strada. Con il tempo poi ha imparato, ha capito che il con­ tatto con il pubblico era importante e lo stimolava. Ma solo con il tempo. Quelle volte lì era ancora esitante, faceva resistenza. Lo costringemmo pra­ ticamente a cantare Amico fragile in piedi, ci riuscì l’ultima sera. Per lui era una novità assoluta; sempre lì seduto, rannicchiato, con la lucina davanti... D’altronde era un uomo di penna, non da palcoscenico. Anche se poi lo è diventato, uomo di palco; se vedi l’ultimo suo video, ha un piglio quando canta... il piglio di uno che ha cambiato modo di stare in scena e anche la voce. Meno posata, più aperta. Sta rincorrendo una cantabilità che prima non aveva; anche per via di canzoni con meno pause, con una musicalità prorompente, più serrata. Negli ultimi tour poi era lui a presentare i musicisti mentre con noi ero io che lo facevo. E avevo i miei problemi, perché la sera lui mi spiegava per bene cosa dovevo dire fra una canzone e l’altra, come dovevo spiegare certi brani, e dopo che l’avevo fatto mi bacchettava perché magari non avevo ca­ pito giusto. Sei d’accordo, come ho trovato scritto anche da più parti, che il volume 1 del live è la parte buona della torta e il 2 invece sono un po’ gli avanzi? Non sono avanzi, non mettiamola così. È che per rispetto al pubblico si pensò di scegliere proprio “il meglio del meglio” in un album solo; un doppio si immaginava che costasse troppo. Nel primo disco c’erano tutti i classici, poteva bastare e avanzare. Rimasero fuori i pezzi nuovi, quelli di Rimini, in fondo erano anche quelli meno conosciuti e ricordati; fermo re­ stando che Rimini è un gran bel lavoro, con buoni arrangiamenti. Il tour andò bene, fu un successo. Ci furono progetti di una seconda parte? Il tour andò benissimo, fece sempre il “tutto esaurito”. Non ci fischia­ rono mai, a parte qualche contestazione, ma era la dialettica dei tempi. Con­ testavano in base all’idea che si erano fatti di noi e della nostra pubblica immagine: sei anarchico, sei borghese, siete un gruppo rock quindi non do­ 121

Intervista a Franz Di Cioccio

vreste suonare con un cantautore, che cazzo fate insieme, che cazzo ci rap­ presenta. Oltretutto erano spazi piccoli, sarebbe stato bello e giusto replicare in spazi più grandi, d’estate; anche perché si era diffuso il tam tam e c’era un sacco di gente che a quel punto voleva vedere quello che nel frattempo era diventato un evento. Però ci fu uno scazzo con Mamone, l’organizzatore – era un classico di Fabrizio quello di litigare con l’impresario. Mettici anche che era pigro, e un po’ diceva di essere stanco, così tornò in Sardegna mentre noi continuammo a fare concerti. Ed eravamo a Ravenna, ricordo, quando arrivò la notizia del suo rapimento. E ogni tanto ripenso, come nel film Sliding Doors, cosa sarebbe successo se fossimo andati in tournée e cosa invece è successo non andando in tournée. Fai conto che fu una decisione dell’ul­ timo minuto, perché quel tour estivo era praticamente già pronto e definito. All’ultimo momento Fabrizio si tirò indietro; era una delle sue caratteri­ stiche. Aveva sempre dei ripensamenti. Era fatto così. Un altro suo tratto tipico era il fatto di arrivare sempre all’estremo per vedere come reagivi. Sfidare. Mettere in difficoltà le persone per provarle: se uno aveva la forza di reagire, dimostrava di avere i coglioni. Altrimenti, se lo pappava. Si cibava della tua reazione. Lo scontro quasi fisico avveniva spessissimo. Alle prove ha litigato un giorno con Flavio e si sono mandati a fanculo. Il giorno dopo, come se niente fosse successo. Questo per i motivi più diversi: un accordo che non andava bene, un po’ di sarcasmo quando diceva “la piva”, per dire il suono delle tastiere. Noi però eravamo un muro, un gruppo vero. Il fatto era quello. Non poteva prendersela con uno e basta; se la doveva prendere con tutti. Detto questo, c’era comunque un bel clima di intimità e cameratismo. Avevamo anche sviluppato un nostro slang. Lui in quel periodo era fissato con gli indiani, come avrebbero scoperto tutti con il disco dopo; e ci era­ vamo dati un soprannome pellerossa. Io mi chiamavo Due Orsi, in onore delle mie ascendenze abruzzesi – l’orso marsicano. Mussida era Alce Bianco, Colombo invece Naso di Fata. Noi eravamo i guerrieri, pronti a difendere il Grande Capo; che era Lui, Coda di Lupo, come la canzone di Rimini. Non trovi che dopo la sua morte sia in atto una specie di canonizzazione della sua figura che in fondo non gli fa bene? Almeno, non è vera... Io credo che dovrebbe bastare ascoltare le sue canzoni. E che sì, forse, è come dici tu: troppe rievocazioni, troppe celebrazioni. “Qui c’è la chitarra di Fabrizio, la suoneremo in quella occasione...” Non esiste, Fabrizio non aveva quel tipo di rapporto con quella chitarra. E non era neanche uno che appariva. Non amava le celebrazioni, gli eventi, era il contrario di un presenzialista. Ti dico una cosa che forse non sa nessuno. Non ricordo più l’anno, ma un 1° maggio era Mauro Pagani l’organizzatore della festa a San Giovanni. 122

Allora volevamo fare una cosa che doveva unire i due cerchi: c’era Mauro, c’era Fabrizio, c’eravamo noi. Suonare tutti insieme. Be’, sarebbe stato un gran colpo; anche perché all’epoca in quanti ci avevano visto? 10.000 in tutto? Erano pur sempre palasport, quindi poche persone. Prova a pensare a un concerto di Fabrizio De André con la PFM negli anni ’90; e prova a immaginare quante persone sarebbero venute a vederlo. Be’, chiunque al suo posto avrebbe detto: va bene. Invece lui no. Non se la sentiva, lo imbaraz­ zava. E questo era lui, uno che non aveva proprio nel sangue l’idea di specu­ lare. Sì, era genovese, stava attento ai soldi; ma stava attento anche alla sua libertà, ai suoi ritmi. Quindi quell’evento fu solo sfiorato. Avremmo fatto Il pescatore. Pensa che bello: tutti insieme appassionatamente. Non credo quindi in queste super ultra celebrazioni; credo anzi che diano l’immagine opposta di chi era veramente Fabrizio. Tutti i suoi dischi parlano per lui, tutta la sua opera è lì a parlare per lui. Credo che la gente comunque se lo porti dentro, perché è riuscito a dare un senso speciale alle sue cose. Non ho mai visto un cantautore farlo; ho visto qualche raro poeta, ho visto Pasolini. Ma un cantautore mai.

123

INTERVISTA A MAURO PAGANI Milano, gennaio 2002

Cominciamo a mettere dei paletti storici. Tu hai cominciato a collaborare con Fabrizio per i suoi dischi nell’81, giusto? Giusto. Però tu conoscevi Fabrizio già da parecchio tempo. Eh sì. La prima volta che l’ho conosciuto, ero entrato da poco nei Quelli.

Alla fine degli anni ’60... No, direi nel 1970. Comunque, era il tempo della Buona novella. Io sono entrato nei Quelli giusto alla fine; si son chiamati ancora così solo per cinque o sei mesi, prima di diventare Premiata Forneria Marconi. Erano la ritmica preferita di Detto Mariano e Giampiero Reverberi, cioè il gruppo dei turnisti che lavorava abitualmente per la Ricordi agli studi Regson. Per in­ ciso, gli studi erano allora qui dove stiamo parlando, erano questi che oggi ho ribattezzato Officine Meccaniche. Si lavorava come matti tutti i giorni, a 4.250 lire all’ora, che il più delle volte ti arrivavano dimezzate o anche meno per varie forme di caporalato musicale. I Quelli furono presi tutti insieme per suonare La buona novella. Franz era il batterista, Giorgio Piazza, “Fico”, suonava il basso, Premoli le tastiere, Mussida era il chitarrista. Allora capitò che un giorno andai da loro nello studio dove registravano, che la Ricordi aveva allestito in un teatrino parroc­ chiale in via dei Cinquecento, dietro a piazzale Corvetto. Era uno studio ve­ ramente ridicolo, perché aveva magari delle buone macchine però con degli ascolti autocostruiti, con una risposta in frequenza piuttosto vaga. Fai conto poi che era un teatrino parrocchiale, quindi malmesso. Il palcoscenico aveva le assi che scricchiolavano e chi suonava lassù doveva stare ben attento a non muoversi, a stare proprio immobile, altrimenti il rumore del legno che ondeggiava finiva sul nastro. Un giorno, come dicevo, li accompagnai al lavoro, perché ero curioso di vedere cosa facevano. Al pomeriggio arrivò De André e fu la prima volta che lo conobbi. E il primo flash che ho di Fabrizio è quel suo camminare ciabat­ tando, che ha sempre avuto e aveva anche allora, sebbene fosse giovane; con quella sua aria già da stanco, sveglio da poco ma con due allegri bicchieri già in corpo, e l’occhio acquoso. Tranquillo, comunque, molto gentile, com’è sempre stato, da appena sveglio almeno fino alle 7 di sera. Si respirava una bella aria. Giampiero Reverberi era bravo per davvero, arrangiava bene e La buona novella procedeva a gonfie vele. A un certo punto Reverberi ebbe bisogno di un ottavino per un passaggio e venni chia­ mato io, che ero il flautista dei Quelli. Quindi eseguii la parte prevista nella 125

Intervista a Mauro Pagani

Bottega del falegname. Devo confessare che anni dopo mi è capitato di ria­ scoltarla e l’ho trovata davvero buona, addirittura troppo buona. Cioè, vo­ glio dire, ho il forte sospetto che Reverberi l’abbia fatta a un certo punto registrare a qualcun altro – nessuno me l’ha mai detto, comunque è tutta perfettina e a modo e, insomma, dovevo essere veramente in stato di grazia quel giorno oppure, molto semplicemente, non sono io. Ad ogni modo, morale della favola, quel giorno ci conoscemmo, io e Fa­ brizio. Poi per anni non ci siamo più visti. Poi c’è stata una specie di staf­ fetta. Io me ne sono andato dalla PFM e lui invece con loro ha cominciato la collaborazione. Siamo alla fine dei ’70. Lì lo rividi, una volta che andai a ritrovare i ragazzi e a parlare con loro. A quel punto avevamo qualche punto in più in comune, cioè la Sardegna; perché Fabrizio aveva preso casa da quelle parti e io ci andavo spesso, anche perché in quel periodo ero sposato con una ragazza sarda. Tra l’altro io stavo a Santa Teresa di Gallura, quindi non molto distante da Tempio, dov’era lui. Quel contatto fu fugace ma l’estate dopo, siamo nel 1979, andai a tro­ varlo a Tempio. Lo andai a trovare giusto prima del rapimento, che poi gli scassò la vita per un anno, un anno e mezzo. Devo dire che Fabrizio reagì molto bene a quella storiaccia, non ha mai portato odio e risentimento nei confronti dell’isola e neanche nei confronti delle persone. E questo suo atteg­ giamento finì per piacere alla gente del posto, che negli anni successivi lo cir­ condò di molto rispetto e affetto. Non solo Fabrizio non portò risentimento, per esempio non si costituì parte civile contro chi lo aveva rapito, ma volle comportarsi lealmente rispetto ai suoi stessi rapitori, che in fondo lo avevano trattato civilmente. La trattativa l’aveva condotta suo padre, con molta durezza. Era un uomo d’affari e aveva deciso di gestire la richiesta di riscatto appunto come un af­ fare. Quelli partirono da non so quanti miliardi e lui rilanciava, bluffando, poche centinaia di milioni. Quelli minacciavano di tagliargli la gola e lui, da pokerista, ribatteva cose assurde tipo: “Be’, mi ha creato problemi per tutta la vita, mi risolvete un problema.” A un certo punto arrivarono alla cifra di 500 milioni ma ne ballavano ancora 50, che quelli pretendevano a tutti i costi. E la trattativa non si sarebbe sbloccata se Fabrizio non avesse promesso ai rapitori, dico proprio alla manovalanza che lo teneva lì, quei 50 benedetti mi­ lioni. Si impegnò lui a darli quei soldi e lo fece personalmente, dopo essere stato liberato. E se ascolti il disco che fece subito dopo, quello con l’indiano, c’è tutta una serie di riferimenti alla Sardegna paragonata alla nazione dei Nativi Americani – colonizzati, depredati dal proprio territorio. Cercò di no­ bilitare la stessa esperienza del rapimento; decise insomma di seppellire l’ascia di guerra, anche perché aveva deciso di continuare a vivere lì. Ecco, noi ci conoscemmo veramente, cioè cominciammo a scambiarci esperienze e a lavorare insieme, dopo tutto questo. Ci ritrovammo a Cari­ 126

mate, dove ci capitò di avere due studi a fronte. Da una parte c’era Fabrizio che registrava l’“Indiano”, i produttori erano Mark Harris e Oscar Prudente; dall’altra c’ero io, che stavo registrando la colonna sonora di Sogno di una notte d’estate, il musical del teatro dell’Elfo con la regia di Gabriele Salva­ tores. Quindi, per quella vicinanza fortuita, passammo due mesi a chiacchie­ rare, a scambiarci impressioni, a fare progetti. Fabrizio stava registrando l’ultimo suo disco “americano” – chiamiamolo così, o “dylaniano”. Fu la conclusione di un suo periodo – iniziato con De Gregori ai tempi del Vo­ lume 8 e proseguito poi con Bubola. Un periodo di confusione per Fabrizio. Da qualche anno viveva una crisi d’identità. Lui era di origini musicali fran­ cesi ma aveva spostato l’asse verso l’America, per curiosità, per voglia di cambiare. E a quel punto aveva voglia di cambiare ancora. Io avevo già pubblicato il mio primo album “solo” e con la colonna so­ nora del Sogno stavo cominciando a inserire elementi nuovi, che ancora non si chiamavano world ma insomma, tiravano da quelle parti – liuti arabi, percussioni africane. Fabrizio era curioso, gli piaceva quell’idea del Medi­ terraneo “nostro” per farla finita con l’America “degli altri”. Ho scoperto poi, con il tempo, che tra i pezzi che avevo fatto per la colonna sonora gliene piaceva uno in particolare, che cantava Mark Harris. Si chiamava Good Morning e lui mi diceva sempre: “Belìn, hai scritto Blue Moon e non lo sai.” Gli piaceva proprio tanto. E quello fu lo spunto per lavorare insieme. Fabrizio aveva già provato a riarrangiare le sue vecchie cose con la PFM, poi il rapporto si era interrotto e a quel punto io gli venivo comodo; se non altro perché sapevo suonare diversi strumenti, dal violino al flauto alla chi­ tarra, e poi perché c’era una sorta di continuità con l’esperienza precedente – la PFM era ancora per qualche verso “paganosa” in quel periodo. Allora fui cooptato per la tournée dell’“Indiano” e cominciai a suonare in giro con Fabrizio. Chi c’era con voi? Allora. C’era Lele Melotti, c’era Claudio Pascoli al sax e un chitarrista, Tony Soranno; e poi un bassista di Trieste che si chiamava Sergio Portaluri, che negli anni ’80 si è poi buttato a fare dance e credo abbia avuto molta for­ tuna, sai con quelle produzioni italiane che andavano anche all’estero. Credo che abbia avuto successo molto più lui di noi che abbiamo continuato con la canzone d’autore. Non ricordo il tastierista... che però, adesso mi viene in mente, era Mark Harris. Allora, lui e Maurizio Preti alle percussioni. Furono molte date? Furono sì molte date, dall’81 all’83 circa; anche perché ci fu una tournée all’estero che si rivelò un’avventura fantastica. Facemmo un paio di date in Svizzera e sei o sette in Germania. Fabrizio era popolare da quelle parti 127

Intervista a Mauro Pagani

perché aveva avuto un successo proprio da classifica con Andrea. Credo che fosse stato d’aiuto anche il titolo; Andrea in tedesco è un nome di donna e tutti pensavano che fosse una canzone d’amore dedicata a una ragazza. Manco s’immaginavano che era la storia di un omosessuale, con tutti i suoi problemi: la cantavano come una ballatona d’amore, stava bene e via. Ven­ dette 7 o 800.000 copie, credo. Quindi qualche anno dopo andammo in avanscoperta da quelle parti, convincendo Fabrizio a fare un tour che era in fondo solo promozionale; e non fu facile convincerlo, perché di soldi ne gi­ ravano pochi e lui, da buon genovese, l’idea di un tour così, per promozione, senza tanti denari, proprio non la mandava giù. Alla fine comunque finimmo quel giro e lui continuava a rimasticare quell’idea di un disco di musica etnica, mediterranea – ogni tanto saltava fuori. Io lo lasciavo parlare. In realtà da anni lavoravo su quei materiali, ero proprio fissato. Ascoltavo solo quello. Fai conto, almeno cinque anni, dal ’76 all’81, non ho ascoltato altro. Poi non c’era la documentazione che c’è oggi, i dischi erano quelli che erano. Ma tu parli di musica mediterranea o di un po’ tutte le culture non anglosassoni? Di tutto, di ogni parte del mondo. Guarda, avrò ascoltato non meno di 1500, forse anche 2000 dischi. Poi, dopo l’ascolto, avevo selezionato i ma­ teriali più interessanti, avevo preparato una specie di personale greatest hits con 50, 100 dischi che valevano; con particolare attenzione per quelli che chiamavo i “figli bastardi” della dominazione araba o turca – cioè gli incroci fra quei mondi e l’Occidente. Così per esempio nella musica balcanica, dove l’impronta turca è molto forte: ci sono Paesi come la Bulgaria che hanno avuto 400 anni di dominazione turca, quindi puoi immaginare quanto pro­ fondo sia il segno di quella cultura. La Bulgaria in realtà era un collettore che mediava non solo quello ma anche i musicisti gitani di Romania, d’Un­ gheria. Ma ti posso fare anche un esempio da tutt’altra parte. Il Nordafrica per esempio. Per preparare Creuza de mä andai in Algeria, a riscoprire pro­ prio la geografia culturale di quei luoghi; trovando che c’erano posti con una forte impronta turca, come Orano, che era anche uno strano centro di spiritualità. Fai conto che c’era un muezzin che negli anni ’70 cantava le preghiere quotidiane con una tale abilità, un tale fascino che i suoi appun­ tamenti quotidiani erano una specie di appuntamento per la città. Si ferma­ vano tutti ad ascoltarlo, e anche per quello venne rimosso dalle autorità. L’Algeria in tempi lontani era uno snodo fondamentale di certi traffici. Il bej di Algeri controllava tutta la zona centrale del Mediterraneo, era la base dei pirati saraceni. Per dirti, in Sinàn Capudàn Pascià la storia del rapito convertito venne fuori perché, al mio ritorno da quel viaggio, raccontai a Fa­ 128

brizio la storia del rapimento di Miguel de Cervantes. Cervantes era stato rapito dai turchi ed era rimasto 10 anni in galera ad Algeri, liberato poi per intercessione del Re di Spagna. Gli raccontai quella storia e lui, che era una spugna, se ne appassionò e andò subito a consultare le cronache del tempo e lì trovò la vicenda del marinaio Cicala fatto prigioniero, poi convertito e diventato bej. “Capudàn” era una storpiatura per “capitano”, Sinàn era Ci­ cala in genovese, “Sigà”, anche quello storpiato; e Pascià il titolo che dav­ vero aveva ottenuto. Una storia raccontata alla De André e fatta diventare un apologo sui voltagabbana; con quel finale memorabile, dove Sigà riflette e dice: “In fondo, che differenza fa tra bestemmiare Nostro Signore e bestem­ miare Allah”? Un gran pezzo di filosofia. Una delle grandi scoperte di quel viaggio in Algeria fu la forte presenza della cultura kabil. Alcune centinaia di migliaia di persone divise fra Algeria e Marocco, oggi identificate e confuse con i berberi. In realtà berbero è una nostra storpiatura occidentale di “barbaro”. I kabil hanno questo di caratte­ ristico, che non hanno mai coltivato una cultura scritta e tutta la loro tradi­ zione è orale; ed è una tradizione oggi in pericolo anche perché la progres­ siva arabizzazione dell’Algeria sta mettendo a rischio la sopravvivenza della loro stessa lingua. Per tornare a Sinàn Capudàn Pascià, lo spunto per quel brano mi venne da un grandissimo musicista algerino chiamato Mohammed El­Anka, il quale faceva musica kabil però in lingua araba; ed era, se vogliamo, l’uomo della mediazione fra quei mondi spesso in attrito. In quel periodo c’era un festival musicale importante, il Festival d’Algeri, luogo d’incontro classico fra Europa e Nordafrica; fra l’altro i discografici registravano in quelle oc­ casioni, quindi costituiva anche un veicolo di trasmissione musicale fuori dall’ambito strettamente algerino. Anka era un protagonista classico di quelle serate, con la sua mandola e la sua grande orchestra piena di coriste e di percussioni. Avevi in mente precisamente un disco, durante quelle esplorazioni musicali, o facevi il viaggiatore curioso e basta? No, volevo scoprire, conoscere. A dire il vero, poi, non era stata tanto l’Africa la mia meta originaria. Sulle prime la mia attenzione si era concen­ trata sulla musica balcanica, per via anche di due amicizie importanti: Moni Ovadia e Demetrio Stratos. A Demetrio ci arrivo facilmente, per via degli Area. Ma Moni Ovadia, come lo conoscevi? Moni Ovadia fu il fondatore e l’anima del gruppo Folk Internazionale, uno dei grandi motori della musica colta milanese degli anni ’70. Per dirti, lì hanno militato Piero Milesi, con tutto quello che poi ha fatto, e Mario Ar­ 129

Intervista a Mauro Pagani

cari, che io portai a Creuza de mä e poi venne traghettato verso la sponda di Fossati. Mi piaceva la musica balcanica, la consideravo un punto massimo anche come tecnica e virtuosismo. Bartók era un mio grande amore, le sue musiche e i suoi scritti sulla musica popolare. Era una parte di me, sempre più importante; l’altra faccia del mio essere rock. Ero una sovrapposizione di strati, che cercava la sintesi: il musicista istintivo da strada e lo studente puntiglioso del Liceo classico. Il progressive è stata la prima chiave musicale della mia vita; lì ho po­ tuto sfogare la mia impostazione classica con elementi di cultura popolare. Poi è stato importante il mio rapporto con il Canzoniere del Lazio. Loro erano passati dalla cultura popolare del Centro Italia alla musica africana. Infine Demetrio. Demetrio era greco, la sua musica originale non era tanto quella delle isole ma quella della parte Continentale e dell’Epiro, vicino alla Macedonia. Lì la musica somiglia molto a quella che si suona in certe zone centrali della Turchia; è più ruvida, non ha le cadenze e gli accomodamenti pop di certe orchestrone ballabili tipo Egitto – è quella suonata sul saz, con monodìa e canto. In Creuza de mä ce ne sono diverse tracce: per esempio Jamin-a. Mi sono dilungato a spiegarti tutto questo perché Creuza de mä ha ra­ dici profonde. È un disco scritto in tre mesi che però viene da sei anni di lavoro. Quel lavoro era propedeutico al mio secondo album. Poi arrivò Fa­ brizio e cambiò le carte in tavola. Tutto il mio lavoro si unì alle sue idee e così nacque Creuza. Quando ci fu questo incontro fatale, avevi già materiale scritto, pronto? Qualcosa. Jamin-a c’era già. Creuza de mä praticamente anche, e così Capudàn Pascià. Invece Sidun non c’era. Sidun è stata molto influenzata da quello che in Algeria scoprii di musica andalusa. La musica andalusa in realtà parte dal kabil e prende tutta la musica del Marocco, arriva fino al sud della Spagna. Ero ancora in uno stadio di progettazione e l’interesse di Fabrizio mi fece molto pensare. A un certo punto lo presi da parte e gli domandai, sincera­ mente: allora, lo vuoi sul serio questo disco? E lo vuoi fare vero o lo vuoi fare finto? Perché, sai, c’era sempre la possibilità che si facesse un tipico disco da cantautore con qualche ammiccamento qua e là. No no, disse lui decisissimo, voglio una cosa seria, una cosa vera. Bene. E allora per fare così bisognava avere un progetto forte, e preciso. Il progetto musicale, l’idea è venuta fuori subito. Veniva naturale perché questo mio approfondire a rag­ giera, nell’area del Mediterraneo, tutti questi figli illegittimi della cultura turca e araba presupponeva un viaggio – un viaggio fantastico. Il disco in­ somma doveva comporsi come se fossero racconti di viaggio di un marinaio che ritorna a casa dopo tanto tempo, e narra quello che ha visto. 130

Il primo problema che si poneva in quest’ottica era quello della lingua. Creuza de mä in origine doveva essere scritto in grammelot, cioè in una lingua inventata – la lingua di chi è appunto stato in giro tanti anni e ha dimenticato il suo parlare, innestandovi elementi di altre lingue con cui è ve­ nuto in contatto. Siccome ha lavorato sulle navi con greci, turchi, egiziani, fenici, macedoni, la sua lingua è diventata un miscuglio di tutto. Era un’idea teorica, questa del grammelot, o qualche bozza proprio l’avete elaborata così? Qualcosina abbiamo fatto, ma poco. Perché subito Fabrizio, da un lato mosso dalla pigrizia, dato che era un lavoro molto lungo da fare, e dall’altro con un’intuizione geniale, obiettò: ma il genovese è già questo, è “lingua mista” per eccellenza. Il genovese in effetti, fai conto, ha già mille parole di etimo arabo. Ho accettato subito. Fantastico: è una lingua straordina­ riamente musicale, lui la conosceva e quindi gli sarebbe stato facile essere poetico – perché in effetti, a inventare una lingua dal nulla, c’è anche il pro­ blema di riuscire a essere poetici, di darle morbidezza e flessibilità. Lui poi aveva già collaborato a dischi in genovese. Sì, c’era anche quello. Deciso dunque il piano generale, gli esposi la mia idea di andare a documentarmi, con un viaggio per l’appunto in Algeria. Lui mi disse: “Sì, sì, però vacci tu, belìn, non mettermi in mezzo.” Fabrizio era davvero un uomo pigrissimo. Lui era un po’ come Salgari, un viaggiatore della mente. I suoi viaggi veri all’estero sono stati pochi – in Africa, in Bra­ sile con Dori, però da turista. C’era poi il fatto che parlava solo francese, non conosceva l’inglese, e detestava le lingue che non conosceva, perché lo mettevano in difficoltà. Quando si trovava con gli inglesi, non riusciva a co­ municare e scalpitava, abituato com’era a essere il polo di tutto, il centro dell’attenzione. Comunque, insomma, andai a fare questo viaggio, recuperai alcuni stru­ menti che sono stati poi usati per Creuza de mä, e conservo ancora oggi, e poi i dischi preziosissimi di Mohammed El­Anka che ti dicevo. In effetti ottenere della documentazione su disco non fu facile, perché non avevano l’abitudine di registrare e vendere dischi come da noi. Nei pochi negozi tro­ vavo solo dischi etnici della Vedette: fatti a Rozzano, ri­esportati là! I dischi della collana Albatross. Un’altra componente che confluì in Creuza de mä fu quella medie­ vale, coltivata, stimolata da una serie di incontri con medievalisti di grande cultura. Mi informai di storia della cultura, studiai le radici delle cose che musicalmente mi attiravano. Arrivai fino ad Alessandro Magno, alla Persia che aveva conquistato e di cui aveva importato la fondamentale cultura; per incrociare qualcosa che aveva senso, per evitare di fare papocchi storici 131

Intervista a Mauro Pagani

campati per aria. Se inventi dei flussi, degli incroci, delle contaminazioni devi esserne cosciente, non fai come gli americani che mettono il country dappertutto perché “ci va”. Volevo insomma che fosse un progetto chiaro e serio; che si evitasse quello che io chiamo “l’approccio turistico” – il tizio con vestito maghrebino e strumento esotico che finge la festa marocchina al villaggio Valtur. Creuza de mä è un disco unico anche per questo lavoro lungo e attento. E, nonostante tutto, è un disco comunque con una sua vitalità spontanea; cioè, io non sono uno studioso, io continuo a essere un bluesman scappato da casa. Nobile se vuoi, “studiato”; un bluesman con il Devoto­Oli nello zaino, o il Georges­Calonghi. Però questo sono. È un disco speciale; scritto all’occidentale, contaminato con strumenti nostri ma con un vero passo et­ nico: il passo che prendi quando quel tipo di musica la ascolti e la ascolti, diventa la tua colonna sonora abituale, la tappezzeria della tua vita quoti­ diana. È come il blues. Hai presente quanta gente dice di suonare il blues. Ma se tu non sei dentro al modo di portare il tempo del blues, lo si sente a un chilometro di distanza – ti accorgi subito di uno che fa finta di suonarlo, dopo tre note. Perché il mondo della musica etnica è figlio di una tradizione orale che nel mondo classico si chiama “interpretazione della partitura”. Ci sono corsi appositi, e lunghi, e faticosi, per chi vuol fare il direttore d’orche­ stra: dove ti insegnano, a seconda delle epoche storiche, come si legge quella nota lì, come si esegue, gli accenti com’erano, il legato come si faceva, le ve­ locità di esecuzione per tradizione. Perché la notazione scritta è comunque imprecisa. Nelle tradizioni orali il testimone della musica, per dire così, viene pas­ sato completo: le note e il modo di portare il tempo. Fabrizio ti seguiva, aveva preso anche lui questa “scuffia” come te? Fabrizio era più distaccato ma la cosa gli piaceva molto. Mi diede il via, io cominciai a lavorarci. Avevo lo studio sotto casa e ho cominciato a fare. Due mesi dopo, gli ho portato la prima facciata di Creuza de mä esatta­ mente come oggi è: più due temi che sarebbero poi serviti a modellare Sinàn Capudàn Pascià e Da a me riva. Lui non aveva ancora scritto i testi. No. Quando però ha sentito i provini, è completamente impazzito. Ha capito cosa stava succedendo. Glieli ho dati cantati in arabo maccheronico. Lui si è portato via i pezzi, ha scritto i testi, me li ha riportati. A quel punto li ho sistemati, li ho cantati su basi provvisorie e gli ho ridato un provino più evoluto. Lui allora si è preparato alla versione precisa, imparandosi diligen­ temente i testi a memoria. Era pignolissimo, lo ha fatto alla perfezione. E da quel punto non ho più potuto cambiare niente. Il grande ruolo di Fabrizio 132

in quest’album è che ha impedito che il passaggio allo studio di quei primi nastri portasse a una perdita di freschezza. Per dire, Jamin-a alla base era sorretta da un pattern alla batteria elet­ tronica; per me voleva dire che poi ci avrei lavorato. E così feci, non una ma tre volte, con Walter Calloni, cercando soluzioni diverse, ritmi più mossi. Fabrizio mi lasciò fare ma poi, quando ci fu da registrare, pretese che tor­ nassi all’origine; dovetti portarmi da casa il mio DMX e ripetere quel pattern iniziale così com’era. Così anche in altre canzoni: non potei più cambiare nulla – velocità, strumenti, struttura. Questa è la verità: lui si mise tra me e la mia creatura e mi impedì di rovinarla. E fu una grande idea; d’altronde sotto questo profilo Fabrizio aveva una sensibilità straordinaria. Era un grande animale musicale, però pigro; e per pura pigrizia, direi, si era ridotto praticamente a non essere più musicista. Per assurdo, in Creuza de mä sono stato più autore e arrangiatore che produttore, che era il ruolo che in fondo mi competeva. Il vero produttore è stato lui; e non era il suo mestiere. Lui mi ha preso e mi ha inchiodato. Mi ha prosciugato, anche. Ricordo che finii le registrazioni il 23 dicembre e il giorno dopo mi misi a letto con una broncopolmonite che mi trascinai per un mese e mezzo, più quattro mesi di convalescenza. Ci toccò anche riman­ dare l’uscita dell’album, per quel mio malanno. Un misto terribile di tensione e stress; e il bello è che se ascolti il disco non c’è traccia di quelle ombre – è tutto limpido, solare. All’inizio per me Creuza de mä fu anche un disastro economico. Mi ero appena costruito lo studio sotto casa, una villettina con giardino a piano terra dalle parti del Parco Ravizza; e per registrare le basi avevo patteg­ giato 25 giorni a forfait. In realtà la cosa durò 75 giorni da me, più altri due mesi al Castello, dove l’album fu rifinito e mixato. Tutto questo con Alan Goldberg, che venne da me a lavorare prima di andare a Carimate. Cominciammo le ritmiche ad agosto, e cominciammo le voci sempre lì da me; una stanza semplice senza tante macchine, che qualche volta chiamavo “Felipe Studio” per via del mio gatto, sempre sul mixer. Di fianco c’era uno stanzino, dentro al quale troneggiava uno scaldabagno bianco in alto a sini­ stra. Quando il disco uscì ed ebbe tanto successo, tutti mi chiedevano il se­ greto del suono di Creuza de mä e io spiegavo che non importavano tanto i trucchi soliti dei fonici, ma la presenza di uno scaldabagno Zoppas bianco, da 120 litri, disposto strategicamente. E davo le misure per ottenere quella fantastica rifrazione di suono. Che ricordi hai di quelle registrazioni? Ricordo un agosto caldissimo, uno dei più caldi della mia vita. Il povero Calloni suonava la batteria in uno stanzino senza aria condizionata, e su­ dava senza tregua. Fabrizio si era trasferito a casa mia. Faceva così caldo che 133

Intervista a Mauro Pagani

dormiva in mutande sul balcone, su un materasso che aveva portato fuori, incurante delle zanzare e dello smog milanese; e incurante anche dei vicini di casa, che lo spiavano stupiti. Sul balcone non solo dormiva ma vomitava anche, il residuo di certe sue sbronze; e lo faceva scientificamente nei vasi di fiori. Così, quando le registrazioni finirono, non avevo più un solo vaso an­ cora in vita sul balcone. Con tutta la lunga storia che mi hai raccontato della sua genesi, Creuza de mä è intestato solo a Fabrizio De André. È una cosa che ti ha pesato? Mi ha pesato sì, c’erano anni della mia vita in quel disco. All’epoca devo dire che ho rosicato molto. Poi mi è passata. Non era una questione econo­ mica. Era una questione di fondo, riguardava cose su cui avevo scommesso la mia anima. In fondo me n’ero andato dalla PFM perché avevo immaginato un mondo nuovo e avevo deciso di buttarmici. Mi ha dato fastidio fino a quando un giorno, prima delle Nuvole, non ci siamo presi e chiariti. Poi tutto a posto, abbiamo continuato senza problemi. Diciamo che a Fabrizio quel disco era piaciuto così tanto ed era stato così ricoperto di gloria e onori che aveva finito per impossessarsene. Gli era ve­ nuto un meccanismo infantile tipo “mio mio mio”; e il bello è che lo faceva anche con me, a un certo punto non distingueva più. Tempo fa mi hai raccontato un bell’aneddoto al riguardo... Ah sì. Fabrizio aveva rilasciato un’intervista al “Sabato”, come a quei tempi si chiamava l’inserto settimanale del “Corriere della Sera”. Parliamo dell’85, credo. Gli avevano dedicato la copertina, e l’intervista iniziava con una frase tipo: “I miei pezzi etnici, con gli illuminati arrangiamenti di Mauro Pagani”. Be’, mi sembrò un po’ scorretto. Andai da lui e protestai: “Oh, Fabrizio, non è che hai un po’ esagerato?” Al che lui prende il pezzo, lo riguarda e commenta: “Oh belìn, vedi i giornalisti come sono fatti?” “Eh”, dico io. “Eh”, dice lui. “Non ‘illuminati’, avevo detto ‘illuminanti’.” Hai capito? Il problema della comproprietà dei pezzi l’aveva completa­ mente rimosso. A livello SIAE comunque i brani sono tutti cointestati? Certo. Abbiamo fatto a metà esattamente, musica e parole, per evitare che il musicista, com’è regola, prendesse il doppio di chi ha scritto il testo, 8/24 anziché 4. Con il risultato paradossale che io, bresciano puro con neanche remote ascendenze liguri, risulto coautore di bellissimi testi in genovese! Finito Creuza de mä? Finito Creuza de mä, abbiamo cominciato a pensare al disco nuovo; che doveva essere un disco a due nomi, quello sì – De André­Pagani. Già firmato, 134

c’era un contratto in quel senso. Io sinceramente dopo Creuza volevo pren­ dermi una pausa per pensare a un disco mio. Fabrizio però aveva obiettato: “No, dai, facciamo un disco insieme.” Okay, va bene. In effetti mi sembrava strano. A metà registrazione, infallibile, mi chiamano quelli della Ricordi e mi dicono: “Sai, in fondo Fabrizio non incide da tanti anni, uscire con un disco a due nomi può sembrare un ripiego, un modo di svalutare l’espe­ rienza.” A quel punto ho abbozzato. Ho mantenuto le royalties e l’approccio produttivo come se fosse un disco mio in coppia, però ho accettato l’idea che alla fine comparisse solo il nome suo. Un sacrificio, anche se devo dire la verità; è il disco che in vita mia mi ha fatto guadagnare di più. Più semplice del primo? No, guarda, Le nuvole è stato il vero casino. Anche perché finito, di­ gerito, metabolizzato tutto, Fabrizio ha cominciato a sentire l’enorme pre­ senza di Creuza. Qualunque cosa avessimo fatto, sarebbe stato confrontato con quel disco. Per questo gli dicevo: “Lasciamo stare quelle cose. Giriamo al largo, facciamo qualcosa di diverso.” Lui invece tendeva istintivamente a ripetere Creuza. Il bello è che all’esterno la percezione era completamente diversa; si pensava cioè che fossi io a spingerlo a tornare in quel mondo mentre era vero il contrario – io volevo che Fabrizio tornasse a fare un al­ bum in italiano, su tutt’altre basi. La mia idea era che l’ultimo grande al­ bum del De André “classico” fosse stato La buona novella. Già i due di­ schi “americani” erano lontani dal suo mondo tradizionale; e ancora di più Creuza de mä. Secondo me, era arrivato il momento che ritornasse a fare un disco “alla De André”. Siamo andati avanti a discuterne per un po’. Lui, come ho detto, premeva per un Creuza de mä 2 – si continua il viaggio; e se guardi, in effetti, la seconda facciata delle Nuvole è un po’ quello, un’appendice al disco pre­ cedente. Facemmo anche un viaggio per verificare quell’idea di sequel. Si era comprato una barca a vela, gli piaceva andare in giro e così decidemmo di fare prua verso la Grecia. Restammo fuori due mesi e mezzo ma non fu una ricerca vera e propria, come la intendevo io e come doveva essere. Gli dicevo: “Guarda Fabrizio che per fare una ricerca seria dobbiamo andare a cercare ben oltre la riva, sulle montagne, in qualche villaggio dove un pa­ store magari non ha ancora la radio e suona come gli hanno insegnato i suoi nonni. Non è che scendi e al primo che incontri chiedi, con il microfono sotto il naso: ‘Lei è greco? Su, mi canti qualcosa’.” Lui niente. In fondo non sapeva come andava il mondo. Così passammo due mesi e mezzo bellissimi, divertentissimi, ma senza scrivere una sola, dico una sola riga di musica o di testi per quel nostro progetto. Niente. Io ho scritto tanti appunti che poi mi sono venuti buoni, specie per Passa la bellezza. Ho riordinato le idee, chiarito certi progetti. Ma per quel seguito di Creuza, non si è creato nulla. 135

Intervista a Mauro Pagani

Alla fine riuscisti a portarlo dalla tua? Alla fine ci fu in realtà una mediazione. Il mio discorso era: “Se vuoi una Creuza 2, la posso scrivere in un mese e mezzo con un braccio legato dietro alla schiena. Ma non è quella la strada. Voglio qualcosa di più stimolante, di più difficile. Voglio un disco di contenuti profondi; e non lontani come una fiaba, ma calati nella realtà.” Lui era incerto. Allora la mettevo sul piano commerciale e gli dicevo: “Fabrizio, tu sei l’unico fra i cantautori importanti a non avere mai avuto un disco da 1 milione di copie. Ce l’hanno avuto tutti. Ma puoi ancora arrivarci e questo ci arriverà se tu lo riempi delle cose giuste: una nuova Canzone di Marinella, un Bocca di Rosa.” Be’, Marinella non gli è venuta, si è rifiutato anche solo di provarci: ma Don Raffae’ è una specie di Bocca di Rosa, no?, cambiati i contenuti. E comunque alla fine il disco ebbe l’effetto commerciale che avevo previsto; fu semplicemente il più venduto in tutta la storia di Fabrizio de André. E lui? Lui continuava a nicchiare. Quell’idea del viaggio continuava a piacergli e l’idea che per qualche mese lo attrasse fu quella di spostare la direzione; non più il Mediterraneo ma l’Oriente, sulle piste dei mongoli. La storia dei mon­ goli: un’odissea questa volta per terra, non per mare, da quei luoghi remoti a Baghdad, ad Alessandria d’Egitto, alle pianure europee. Cominciammo a svi­ luppare quel progetto, trovai anche una ventina di canzoni mongole originali che potevano servirci da spunto. Poi, piano piano, Fabrizio si convinse che non era come se l’era immagi­ nata; doveva essere una storia di grandi spazi e rischiava invece di diventare claustrofobica. Si convinse che non ci si poteva scrivere un disco. Allora co­ minciò a darmi retta e venne quella mediazione che prima dicevo. Le nu­ vole, se vogliamo, è stato il primo disco, e l’unico, che davvero abbiamo composto a quattro mani. In Creuza la nostra somma era stata semplice­ mente musica (mia) più parole (sue); due blocchi messi insieme. Qui invece lui entrò nella musica e io penetrai nei testi. Le nuvole, il titolo, viene da Aristofane. Fabrizio da anni si trascinava quest’idea di lavorare su Aristofane. Gli piaceva la modernità delle sue com­ medie; Le nuvole, in particolare, gli sembrava una descrizione straordinaria dell’Italia anni ’80. Il testo di ’800 in particolare ha quella precisa deriva­ zione; però porta un altro titolo, che in realtà doveva essere quello di tutto l’album. Se ci pensi bene, alla fine degli anni ’80 tirava un’aria decisamente ottocentesca: classi divise per censo e non più per nobiltà di nascita, religio­ sità apparente, cattolicesimo di facciata. Un impero vince e gestisce la dis­ soluzione dell’altro. Sembrava di essere nel 1815, al crollo di Napoleone e dell’aristocrazia, con l’ascesa della classe borghese. E la riscoperta delle etnìe, che porta ai processi irredentistici nazionali. 136

Alla fine Le nuvoLe diventò un mosaico. Sì, decidemmo di dividere l’album in due; i brani in italiano e quelli in ge­ novese. Io continuavo a scrivere anche i pezzi etnici ma intanto lo stimolavo a non perdere di vista gli altri, perché secondo me il cuore dell’album batteva lì – era quello il segno forte, e non per nulla è per quello che Le nuvole viene ricordato. La prima facciata era una suite di teatro buffo, che per contrasto volevamo chiudere in maniera forte. Avevo scritto delle cose su una cassetta; e fra i vari materiali c’erano un pezzettino giocoso e una cosa più dramma­ tica. Lui li prese al volo e li sistemò strategicamente, elaborandoli; il pezzo giocoso è il tema di ’800, mentre l’altro è quello che sta al centro della Domenica delle salme – “Figlio, povero figlio...” Era una citazione anche lì delle Nuvole, il dolore del protagonista per il figlio. Cristiano non capì che era una citazione e venne da me a lamentarsi; quell’idea del “povero figlio, annegato come un coniglio” non gli piaceva proprio. Be’, glielo dovetti spiegare: “Dai, Cristiano non sei mica tu, non è mica una storia vera.” Sì, alla fine venne un mosaico. C’era una canzone napoletana, che poi finì nella seconda facciata; l’avevo presa dalla collezione di Roberto Murolo. Poi gli intermezzi di piano da Ciaikovski. Lì secondo me poteva starci un pezzo su Renato Curcio, con il paragone con Pellico e la detenzione allo Spielberg. Invece restò solo un’idea, che finì intessuta come citazione nella Domenica delle salme. Quando cominciammo a comporre i tasselli, Fabrizio venne preso da qualche dubbio. Gli sembrava un disco un po’ troppo leggero. E prese ad arrovellarsi su cosa potesse fare per ovviare a quella mancanza di peso. Così cominciò a consultare la sua agendona. Aveva un’agenda grande, di pelle, di quelle che le banche regalano a Natale. E nelle pagine bianche alla fine aveva appuntato tutta una serie di immagini che lo avevano colpito, e geremiadi che gli erano venute. Frasi prese dai giornali come “tentò la fuga in treno” – era la cronaca di un omicidio di un senzatetto avvenuta a Trento qualche mese prima, lo aveva colpito e se l’era segnata. Ecco, partì da lì, con l’idea di scrivere una canzone tipo Amico fragile, con una struttura abba­ stanza libera da consentirgli versi lunghi, senza troppi vincoli metrici. La cosa mi andava bene. Facciamo prima il testo, proposi. Andammo in Sardegna quattro o cinque giorni, ricordo sedute felici, io, lui e un bel bot­ tiglione di vino. Così scrivemmo La domenica delle salme. Il mio zampino in quel brano è ciò che gira intorno al “silenzioso avvenuto colpo di Stato” – quello che Craxi tentò soltanto e Berlusconi ha poi realizzato. È un brano che va riletto alla luce della politica, non solo il mitico CAF, anche il governo attuale. Prendi “il ministro dei temporali”: chi meglio di Umberto Bossi? Cosa mi dici di Don Raffae’? Don Raffae’ è una tarantella da operina, è musica comica, anche qui da ’800. La strofa è di Fabrizio, per la prima volta alla chitarra dopo anni; l’in­ 137

Intervista a Mauro Pagani

ciso è mio, con quella citazione di una vecchia canzone di Modugno. Il testo lo scrisse lui ma l’idea di un pezzo su Cutolo era mia; avevo letto su un gior­ nale della vita in carcere comoda di quel boss della camorra e mi era venuta la tentazione di costruirci una canzone. Poi entrò in gioco Bubola, diede un contributo anche lui. Dovendo tornare a scrivere in italiano, Fabrizio aveva mille dubbi; e gli piaceva confrontare le idee con qualcuno. Per farla breve, si rompeva le balle a scrivere da solo; e Bubola andava bene, era un amico, c’era esperienza comune. Fabrizio ne aveva stima e Massimo quando scrive con gli altri è molto creativo. È vero comunque che Fabrizio si era stancato di scri­ vere in italiano; e quella era una crisi che veniva da lontano, dagli anni ’70. Finito Le nuvoLe è finito anche il tuo rapporto con Fabrizio. Una separazione consensuale o cosa? Be’, dopo il disco sono venuti i concerti, da cui è stato tratto il live. Poi si è cominciato a parlare del disco successivo. E a quel punto è entrata in gioco, credo, anche, la superstizione. Fabrizio era un tipo molto supersti­ zioso; e nella sua vita, con i suoi team di lavoro aveva sempre realizzato due dischi e poi cambiato. Era una delle sue cabale, il due. Poi spuntò Fossati e pensarono di lavorare insieme. Io a quel punto ero una presenza molto forte e devo dire anche costosa; te l’ho raccontato, per Le nuvole ero a tutti gli effetti un coautore. Fabrizio non capì che, nel caso di una collaborazione con Fossati, avrei fatto volentieri un passo indietro. Lavorare con Ivano mi sembra un passo inevitabile, prima o poi capiterà che faremo una canzone insieme; se non altro per le molte affinità che ci legano. Comunque, io non c’entravo con quel progetto. A loro serviva sì un produttore ma non un pro­ duttore artistico – per quello bastava Fossati con il suo team. Serviva un pro­ duttore di business, che di una torta ne facesse due. E presero Colombini, che con la sua musica non aveva niente a che fare da un bel po’ ma, siccome a suo tempo aveva prodotto Dalla e De Gregori, Fabrizio pensò che potesse essere l’uomo giusto. In realtà poi successe quel che successe; erano due per­ sonalità troppo forti. E poi Fabrizio aveva un approccio al disco completa­ mente diverso da quello di Ivano. Lui in studio ci arrivava con idee incerte, spunti vaghi, non era uno da fogli di carta con la sequenza degli accordi come Fossati. Però vi siete lasciati senza rancore. Assolutamente. Devo dirti che per un mese ci ho schiumato rabbia, perché mi sembrava di perdere un’occasione unica, irripetibile, per mere que­ stioni di piccolo ego o di soldi. Poi tutto è rientrato e già l’anno dopo, mi sembra che fosse il ’95 o forse il ’96, Fabrizio mi ha chiamato e mi ha but­ tato lì l’idea di un altro disco. “Finisci il tuo studio, fai le tue cose”, mi disse, “poi però ricominciamo a fare qualcosa insieme”. C’era già un’idea molto 138

generale; una grande suite, di tono quasi operistico – era in fondo il progetto di ’800 che non si era realizzato a suo tempo. Due mesi prima che venissi a sapere della malattia, mi domandò se avessi già cominciato a farci qualcosa. “Be’, prima dimmi come la vuoi”, gli ri­ sposi. “Vuoi una cosa solare, positiva, o vuoi qualcosa di negativo, di cupo? “Cupo?” fece lui. “Altro che cupo. Dev’essere il requiem di questo secolo.” E alla fine cosa ti resta, di questa storia lunga e bella? Sai, noi alla fine siamo diventati fratelli, mi sembra quasi di avere so­ stituito Mauro che a un certo punto morì. Avevamo un legame speciale. Il mio ruolo un po’ s’incastrava con il suo ma eravamo degli animali simili. La malattia e la mala sorte hanno cancellato anche i pochi scazzi che si erano venuti a creare. Ci siamo lasciati senza strascichi; nelle ultime telefonate, quando lui era già malato, abbiamo chiarito anche i più piccoli dettagli, ci siamo chiesti scusa per quello che avevamo in conto uno con l’altro. È stata una grande storia e ho imparato tantissimo. Io venivo da un mondo musicale in cui il testo contava relativamente: Celebration sono due righe, Mattino anche meno. Guarda che è brutto: devi usare lo scalpello, devi scolpire epigrammi. Con la ritmica scandita, oltretutto: non potevi aprirti, non potevi spiegarti, le parole erano sacrificate alla melodia, all’inglese. Con Fabrizio invece per la prima volta ho affrontato la canzone – con il peso della cosa, con le attenzioni del caso. E forse qualcosa gli ho insegnato anch’io, perché nel canto di Creuza ci ho messo dentro il mio modo di cantare rock e soprattutto blues. E da lì in avanti, mi sembra, Fabrizio ha cambiato il suo modo di cantare; si è sentito libero di farlo in una maniera nuova e diversa. Lui non ha mai cantato bene come nelle ultime tournées; e non solo i pezzi nuovi, anche le sue canzoni di una volta, riprese da un altro punto di vista. Ed era un continuo crescere, perché si era sbloccato da quel suo birignao di essere legato al testo, che era il suo vanto e la sua prigione, e riusciva a essere cantante a tutto tondo. Non era più prigioniero della parola. È stata una crescita comune; io ho imparato a lavorare con la canzone, lui è diventato più musicista. E sai, quando lavori con quelli bravi capitano questi regali. È una grande fortuna. Certo bisogna meritarsela, bisogna cercarsela, tutto quello che vuoi. Comunque è una benedizione. E si imparano un sacco di cose. Si impara so­ prattutto la credibilità. Lavori con un cantautore così attento ai testi e ti ri­ cordi che per te, musicista, una volta le parole erano solo un pretesto per can­ tare, mentre invece ora sei uno che canta quella frase lì in quel momento lì. Primo, ci devi credere. Se non ci credi, non mi convincerai mai. Secondo, tu da un buco piccolo così guardi e mi scruti dentro. Terzo, cosa devono fare le can­ zonette? Emozionare, altrimenti non servono a niente. Quarto, quinto, sesto... Hai capito? Si impara, accidenti se si impara. 139

In una tua lunga intervista/libro, con Pietro Cheli, ho trovato scritto che a tuo avviso la A IVANO FOSSATI grande canzone d’autore italiana è fatta di Campagna di Radicofani, quattro autori fondamentali: Guccini, De settembre 2002 André, De Gregori e, a parte, Paolo Conte... Parlavo di una certa concezione di “canzone d’autore”. Se l’approccio che ho è infatti di derivazione “francese”, allora per forza mi devo rifare a quei nomi e solo a quei nomi; fa eccezione in parte De Gregori, che ha avuto un’influenza anche rock, dylaniana so­ prattutto. Ma se la base è la canzone francese, la “chanson à texte”, quella di Brel e di Brassens, insomma, allora i maestri che vengono da lì sono quelli; e Fabrizio e Paolo Conte soprattutto. Non perché non consideri il resto; ma il resto mi appare diverso, separato, mi appare frutto di un’intenzione musicale e intellettuale diversa. INTERVISTA

De André è stato influente per la tua educazione musicale? Lo ascoltavi molto quand’eri ragazzo? Diciamo che l’ho sempre ascoltato, fin dai miei anni più giovani. Ma all’inizio non moltissimo. Mi è esploso letteralmente tra le mani quando avevo già una ventina d’anni, con quell’album famoso tratto dall’Antologia di Spoon River – Non al denaro non all’amore né al cielo. Lì sì, lì mi ha veramente colpito e segnato. E questo vale anche per l’album suc­ cessivo, Storia di un impiegato. Per questioni certamente letterarie, come sarebbe piaciuto a lui; per questioni di direzione, di intuizione, di racconto. Però devo dire anche per questioni musicali; perché quello era il periodo in cui Fabrizio mi pare si staccasse da una sorta di maniera italo­francese delle prime canzoni, che era delegata molto agli arrangiatori – nella prima fase sembrava che Fabrizio non si occupasse troppo della creazione musicale, se non della scrittura. Aveva sempre al suo fianco degli arrangiatori; e quello era uno schema ricorrente nel mondo della canzone leggera di quegli anni, nel mondo degli interpreti. Invece, a partire da Non al denaro, il suo la­ voro diventa anche di fortissima ricerca musicale; e di avvicinamento formi­ dabile ai gusti dei ragazzi di allora. Ricordo benissimo quell’epoca, fra quei ragazzi c’ero anch’io; ci affascinava molto la direzione letteraria che pren­ deva ma eravamo catturati anche da quella fantasia, da quella nuova ricerca musicale che cominciava a fare capolino nei suoi dischi – e che avrebbe poi portato alla collaborazione con la PFM e ai dischi con Mauro Pagani. In quel caso c’era Nicola Piovani, che dava a Fabrizio un numero di colora­ zioni alle sue canzoni infinitamente superiore a quelle che aveva avuto fino a quel momento. 141

Intervista a Ivano Fossati

Di solito questa svolta musicale la si fa risalire a Creuza de mä, agli anni ’80... Secondo me invece è tardi, se vogliamo guardare l’insieme della sua vi­ cenda. Fabrizio ha cominciato ad andare in profondo nella musica molto prima, direi all’inizio degli anni ’70. Naturalmente lo ha fatto a suo modo, per come voleva lui e per quanto gliene importava; perché bisogna ricordare che comunque, in fondo, Fabrizio era un letterato – un letterato che can­ tava. Era comunque uno che annusava l’aria molto molto prima degli altri. Se pensiamo a Creuza, in realtà oggi mi appare un’operazione in grandissimo anticipo addirittura su quello che avrebbe potuto essere. Arrivo a dire che un disco così, fatto cinque anni più tardi, sarebbe stato ancora più giusto e allora sì “a tempo” – e probabilmente avrebbe venduto il triplo. Parliamo di un disco che è sempre stato considerato ed è un riferimento: ma non quel che si può dire “un disco di successo”. Uscì nel 1984; e un certo tipo di vi­ sione del mondo, musicale e letteraria, si è aperto proprio grazie a operazioni come quella – pagando lo scotto di essere l’apripista. Ma non sarebbe stato De André se si fosse limitato ad andare “a tempo”. Ricordo un giorno di quel periodo che lo incontrai a Milano, alla Sony credo. Fabrizio aveva nella tasca dei jeans la cassetta finale di Creuza de mä, che sarebbe uscito di lì a una settimana. E me la fece ascoltare. Dav­ vero non riuscivo a credere alle mie orecchie. Sapevo che aveva preparato un disco in genovese ma non potevo immaginare qualcosa del genere; perché nessuno aveva mai utilizzato la lingua genovese, parlo di lingua e non di semplice dialetto, in una tale maniera e con una tale intenzione poetica pro­ fonda. Ricordo che l’abbiamo ascoltato insieme, quel pomeriggio, e sono ri­ masto allibito dalla novità che era a tutti i livelli: una lingua altra ma anche una musica altra. Una musica che fino a quel momento conoscevamo solo per diretta provenienza da qualche musicista maghrebino o mediorientale. Mai avevamo pensato che qualcuno di noi potesse impadronirsi con cultura ed equilibrio di quel tipo di musica. Ma, per tornare all’inizio, il punto di partenza era un’idea intellettuale. La stessa scelta che avrebbe fatto uno scrittore, o un saggista, con un’intui­ zione forte. Non è la scelta di un musicista, è sempre la scelta di un artista e di un intellettuale. Anche l’uso degli strumenti, e dell’orchestrazione – anche la scelta dei musicisti con cui suonare. Una visione più ampia, insomma. Una strategia culturale – un’idea di cogliere i tempi... Sì, ecco: cogliere i tempi. È così. Cogliere i tempi, nell’attimo utile. Non più tardi del momento utile per comunicare quest’intuizione forte che hai avuto. 142

Tu Fabrizio quando l’hai conosciuto? Conosciuto nel senso di incontrato, frequentato appena un po’, be’, an­ cora negli anni ’70; ma senza un vero approfondimento. È stato più tardi che ha cominciato a maturare qualcosa e più o meno ai tempi di Creuza de mä, alla metà degli ’80, sono venuti i primi discorsi di una possibile collaborazione insieme. Un’idea vaga, generica: scrivere qualcosa insieme, anche se nessuno dei due sapeva bene cosa. Era il 1984, credo. Avevo ap­ pena firmato un contratto con quella che allora si chiamava CBS e stavo lavorando a dischi come Ventilazione o Le città di frontiera, a can­ zoni come La musica che gira intorno – ecco, era quel periodo lì. Ricordo che ci incontrammo una volta a Bologna e spuntò quell’ipotesi; anche se naturalmente fin da subito tutti e due eravamo consci del fatto che, se anche fosse accaduto, per la somma dei due caratteri sarebbe stato fra chissà quanti anni. Così è stato, infatti. Da quel 1984 iniziale bisogna passare al 1990, credo che l’anno fosse quello, per trovarci intorno a un tavolo a scrivere appunto insieme. Però questo era nei patti. Quando ci vedevamo si par­ lava, si stava bene, si progettava; ma poi c’erano sempre dischi e concerti in mezzo, c’erano vite diverse. E in fondo è già una fortuna che una colla­ borazione alla fine ci sia stata; perché avrebbe potuto semplicemente non succedere mai. La prima volta fu quella di Megu megùn e ’Â çímma. Sì, erano due brani per Le nuvole. Fabrizio era in un momento impor­ tante. Era il disco che seguiva Creuza de mä; quindi un passaggio forte, sentito come tale. Fabrizio sapeva di dover consolidare quella linea e nello stesso tempo dare anche qualche segnale di novità e mutamento. Quindi niente di più difficile. Aveva pensato che io potessi aiutarlo a scrivere quelle canzoni e venne da me con la musica, che Mauro Pagani aveva già preparato. Fabrizio venne a casa mia in Liguria e rimase 15 giorni da me. Furono due setti­ mane di lavoro come lo intendeva lui, come lo ha sempre inteso: come gli scolari, ligi al compito che devono preparare. Anche negli ultimi tempi aveva un senso del compito sempre fortissimo. Non era come me; io prefe­ risco aspettare l’ispirazione dal cielo mentre viaggio, mentre giro – un alibi per indugiare, per fare l’asino, perché mi piace in fondo perdere tempo. Fabrizio invece si imponeva dei vincoli folli. Quindi prendersi l’impegno di lavorare con lui significava prendersi un impegno duro, anche di ore di lavoro, di intensità. Lui faceva così. Non si distraeva, si concentrava; si legava alla sedia, alla Vittorio Alfieri. Così fece anche quella volta. Fatta la prova, si convinse che forse avremmo potuto essere compagni anche in un’avventura più lunga. 143

Intervista a Ivano Fossati

Quella collaborazione mi sembra anche un attestato di stima, no? De André era uno che delegava molto musicalmente ma sui testi era un certosino, un puntiglioso... Credo che Fabrizio in quel caso, in quelle due canzoni, sapesse già in che direzione voleva andare. Credo che in quel caso lui si rivolgesse a me come esperto di lingua genovese; perché anche in Creuza de mä aveva giusta­ mente cercato qualcuno che la lingua la conoscesse a fondo. Quella volta la scelta cadde su di me. E tu sei un esperto di lingua genovese? Semplicemente la conosco bene; e la conosco bene perché ci sono cre­ sciuto, con quelle parole, perché i miei parlavano in dialetto e lo sape­ vano bene. Oggi non lo parlo più tanto, e me ne dispiace. Però conosco la lingua e conosco anche certi modi di dire tradizionali, un po’ perché li ho assorbiti nel corso degli anni e un po’ perché li ho studiati, da appassio­ nato. Certe formule linguistiche antiche, perdute – in quelle due canzoni ce ne sono. Però, ripeto, Fabrizio sapeva benissimo dove andare a parare con quei brani; c’era spazio per contributi di altri ma la strada di fondo era già segnata. Anche perché la ragione vera dei suoi dischi erano i testi. Io credo che se Fabrizio avesse potuto fare dei dischi parlati, senza musica, li avrebbe fatti volentieri. Perché la musica non gli importava più di tanto. Era un semplice veicolo; era un bel mezzo sul quale lui amava correre. A lui importavano i testi. Uscito Le nuvoLe, il vostro progetto prese un’accelerazione? Non proprio, non abbiamo mai corso. È sempre stata una storia lunga, laboriosa. Si sapeva, non si sapeva; Fabrizio impiegava molto tempo a de­ cidere quale sarebbe stato il prossimo passo. O meglio; si prendeva molto tempo prima della decisione. Voleva essere sicuro della passione che ci avrebbe messo. Non gli piaceva programmare un disco quattro anni prima. Lui si prendeva molto tempo; tutti pensavano che Fabrizio avrebbe lavorato cinque o sei anni su un album, ma non era così. Fabrizio si prendeva sei anni, è vero; ma sul disco in effetti finiva per lavorarci solo gli ultimi due. Il resto del tempo era dedicato, per quello che so io, innanzitutto a vivere, che è una cosa che me lo ha sempre fatto stimare molto. Si dedicava alla sua famiglia, alla sua azienda in Sardegna, all’allevamento degli animali; e se ci pensi bene è una cosa stupenda, per un artista che avrebbe potuto dedicarsi alle sue can­ zoni 365 giorni all’anno. Invece no. Me lo ricordo bene nei lunghi periodi in cui smetteva di pensare alla mu­ sica e ai dischi; era un uomo che badava agli aspetti materiali della sua vita, tutto assorbito dalle sue passioni e dalle sue storie. Alla fine poi catturava la benedetta idea che inseguiva e allora, in un tempo certo non breve ma molto 144

più breve di quello che si può immaginare dall’esterno, stendeva il progetto e lo concretizzava. Lavorava con questa relativa velocità perché, come di­ cevo prima, Fabrizio era capace di sedersi al tavolo e di fare i compiti come un ragazzino. Non si alzava finché l’idea non era messa a fuoco, finché la frase, la strofa, la rima non erano precise e perfette. Aveva questa grande forza di volontà; e non doveva neanche imporsela, era nel suo carattere. Era come se piegasse al suo desiderio pensieri, cose e anche le incapacità. Dico così perché a volte capita di inseguire un’idea che ti sfugge, di non riuscire a mettere giù precisamente quello che hai in mente. Dove moltissimi si arren­ derebbero e darebbero per impossibile l’impresa, lì Fabrizio si impuntava e prevaleva. Voleva vincere sull’apparente incapacità di descrivere, che so, una situazione o un pensiero davvero difficilissimi da esprimere. Io lo seguivo in parte, fin dove il mio carattere me lo consentiva. Mi è capitato di fare delle lunghe passeggiate mentre lui restava lì, al tavolo di lavoro. E quando ritornavo, dopo i miei giri al sole e all’aria, magari era an­ cora lì, ad arrovellarsi su un aggettivo, a limare una strofa. A un certo punto comunque il progetto cominciò a focalizzarsi... Sì, però lentamente, molto lentamente. Noi abbiamo iniziato a lavorare ad Anime salve nel ’93, se non ricordo male, quindi vuol dire che ne ab­ biamo parlato almeno un anno prima. Nel ’93 per la prima volta ci siamo chiusi in un posto, che era una casa sopra Viareggio, sulle colline alle spalle di Camaiore – la casa di famiglia del mio produttore, Beppe Quirici. Una bella palazzina settecentesca immersa nella quiete – giusto quello che ci serviva. Eravamo completamente soli, salvo una signora che ci accudiva. E quella fu la prima volta che mi trovai, per lunghe settimane, a cercare di ca­ pire come organizzare mentalmente questo lavoro; che a dire la verità non mi pareva tanto semplice, anche se vedevo Fabrizio come un amico. Mi sembrava un’idea anzi strana essere chiusi sulle colline di un certo posto a stanare delle idee che non c’erano neanche in embrione. Perché non ci siamo chiusi in quel posto con una sorta di canovaccio, con un vago pre­soggetto o diario di bordo. Eravamo lì con il materiale per scrivere e un bel po’ di stru­ menti musicali, amplificatori, cose tecniche – ma senza nemmeno un collabo­ ratore. E da quel testa a testa, nelle nostre intenzioni, doveva nascere il disco. A pensarci bene, è un’idea lineare, molto affascinante anche, se vogliamo; due persone che si confrontano in un bel posto, per un tempo indefinito, e vediamo cosa siamo capaci di fare. A ripensarci oggi, è un’idea che può es­ sere anche spaventosa. Può essere l’anticamera dell’inferno... Può essere l’anticamera dell’inferno. E invece quel primo segmento to­ scano andò bene; fu piuttosto leggero e anche divertente. Le idee comincia­ 145

Intervista a Ivano Fossati

rono ad arrivare – e l’entusiasmo per i primi titoli, le prime soluzioni lette­ rarie e musicali trovate ci diedero coraggio. Vi eravate spartiti da subito il campo? Lui grosso modo i testi, tu la musica. Guarda, non si è mai detto. Non l’abbiamo mai fissato precisamente. È venuto naturale. Il risultato finale è che Fabrizio ha scritto il 90% dei testi, che però contengono qualche idea e intuizione mia, e io il 90% della musica, anche qui con qualche contributo suo. Però non è mai stato programmato. Era istintivo. Fabrizio, ricordo, aveva una sua postazione privilegiata nella cucina della casa. Non so perché, ma scriveva sempre in cucina. Anche per Le nuvole, se ci penso – una canzone delle nostre due l’abbiamo scritta in una cucina di Amalfi, mentre lui preparava l’arrosto. Ma non era ’Â çímma, sia chiaro; quella sarebbe facile, verrebbe naturale dire: “’Â çímma l’hanno scritta in cucina”. Ecco, se ci penso c’è la stanza della cucina come filo del nostro scrivere Anime salve. È un disco che è stato composto in varie case, in vari periodi – perché poi non stavamo insieme sempre. Lavoravamo per lunghi periodi ma poi ci perdevamo di vista, ognuno faceva le cose che doveva fare, e poi dopo due o tre mesi riprendevamo. Nel frattempo passavano le stagioni e nel mio ricordo ci sono situazioni estive come appunto quella casa sopra Camaiore e una invernale in Piemonte – però sempre in quel modo, sempre quello stare soli uno davanti all’altro – una specie di duello... Dici duello perché c’era rivalità? No, nessuna rivalità. Il carattere di Fabrizio era formidabilmente prevedi­ bile in questo senso. Fabrizio era una persona deliziosa finché non arrivava il momento di fissare le cose – solo in studio diventava più duro, e più diffi­ cile il suo carattere. Nel momento in cui le cose dovevano essere fissate per sempre. Be’, è comprensibile. La paura per chi fa un mestiere come questo sta proprio lì; al momento di definire e chiudere, lì termina il divertimento. Quando non puoi più cambiare le cose e la forma delle cose a tuo piaci­ mento. Poi, in quel passaggio in cui senti che l’ultima versione di ciò che hai fatto sarà quella che resterà, comincia a venirti un po’ di paura. Fabrizio ne aveva molta di più, perché sentiva, credo, di avere delle re­ sponsabilità molto forti nei confronti di quello che non chiamerei neanche il suo pubblico ma l’esterno, “gli altri”. Sentiva una responsabilità forte, ci teneva a essere preciso. Fabrizio, sai, era uno che rispondeva alle interviste via fax; e non per altro, perché non voleva essere frainteso, perché tutto, le parole ma anche le pause, fossero al posto giusto. Per cui, puoi immaginarti, se temeva di essere frainteso con le parole di un’intervista, figurarsi con una canzone, con un disco. E poi c’era il fatto che lavorava con un’altra persona, 146

quindi non aveva il controllo totale della situazione; era un altro motivo di apprensione. E credo che demandasse il fatto musicale solo ed esclusiva­ mente per potersi concentrare sulla parte del pensiero. Un po’ per questo e un po’ perché negli ultimi anni del lato strettamente musicale gli importava meno. Però era una cosa di cui non faceva alcun mistero. Finché era solo con i suoi pensieri, e anche con i pensieri di un altro, con cui poteva dialogare, era una persona squisita. Le mie impressioni su quello che si faceva, lui sapeva che si potevano discutere; e così da parte mia. Sol­ tanto all’approssimarsi della fotografia finale, ecco che incominciava a dare segni di paura – la paura del finito. Paura di essere frainteso: o paura di non aver definito al meglio, che il colore generale del lavoro non fosse quello che lui sentiva dentro di sé. Credo che Fabrizio avrebbe rifatto i dischi all’infi­ nito, un po’ come le storie e leggende dicono di Peter Gabriel. È proprio per questo che abbiamo deciso presto, e devo dire che mi sono mosso per tempo su questa pista, di non registrare insieme il disco. Man mano che ci si avvicinava a quel momento, mi rendevo conto che quello che dovevamo fare era stato fatto – cioè scrivere. Poi quest’uomo doveva essere lasciato libero di costruire il racconto come voleva lui. Sarebbe stato difficile farlo insieme. Non è vera allora la leggenda secondo cui la separazione è stata in effetti traumatica. Siete andati in studio e ci sono stati contrasti così forti che addirittura avete litigato, anche fisicamente... No, guarda. Abbiamo cominciato ma non in studio. Con i musicisti ma a livello di provini, di pre­produzione. Siamo passati per quella fase solitaria, idilliaca, che raccontavo – in Toscana e a casa mia in Piemonte, all’epoca avevo un cascinale nella zona di Gavi. E poi, terminata la scrittura dei pezzi, abbiamo tentato una pre­produzione. Lì sono cominciati i guai. Nel giro di poco, 15­20 giorni, si è capito che Fabrizio aveva un’idea sua ferrea di come realizzare l’album – che poi ferrea non era, era come se Fabrizio volesse ri­ manere fortemente abbracciato a certi schemi musicali; perché di quello parlo, non dei testi – i testi eravamo concordi che erano quelli preparati, e andavano bene. Anche la parte musicale come scrittura andava bene. Quello che ci avrebbe reso la vita difficile era il vestito, era il come – quale colore generale dare all’album. Avrei preferito un’altra cosa. Se l’avessi dovuto fare io, avrei utilizzato altri strumenti, mi sarei tenuto più lontano dall’idea di musica etnica, che cominciava a suonarmi falsa. Mi sarei tenuto più lontano da quello che lui stesso aveva intuito nell’84. Feci una lunga discussione con Fabrizio proprio su questo argomento. Lui aveva avuto quella formidabile intuizione con Creuza de mä e lui per primo, a mio parere, avrebbe dovuto allontanar­ sene. Io sostenevo che sarebbe stato un atto di straordinaria vivacità da parte 147

Intervista a Ivano Fossati

sua. Fabrizio invece sembrava voler restare attaccato a schemi esecutivi, stru­ mentali legati a quell’esperienza passata. E quando alla fine ascoltai il disco, mi resi conto che l’intenzione sua era giusto quella; non discostarsi troppo da quel se stesso che era diventato dall’84 in poi. Il disco era ottimo, per carità, ma a mio avviso avrebbe dovuto tener conto di segnali provenienti dal futuro; personalmente avrei colorato Anime salve con qualche linea mu­ sicale, con qualche piccolo messaggio “avanti” e non “indietro”. A me non piacciono le situazioni blindate. Ho una insofferenza per le si­ tuazioni sicure. D’altro canto non sono così pazzo da rischiare tutto; però un poco sì. A me sembrava di vedere in quel periodo una volontà di fre­ nare su certe scelte, di voler rimanere in un ambito più sicuro. Ti faccio un esempio. In quei mesi ero in pieno amore per Joe Zawinul, i suoi dischi mi stimolavano, mi aprivano nuovi orizzonti. Ora, non potevo pretendere che la voce di Fabrizio si adagiasse sulle ritmiche di Zawinul o sulle sue armonie; però mi sarebbe piaciuto che da lì o da altri esempi lui traesse la voglia di spostarsi da qualche altra parte. Sono tuttora convinto che sarebbe stato un segnale forte, molto forte se avesse esplorato una zona e poi l’avesse lasciata per una direzione nuova. Sarebbe stato importantissimo, da parte di uno come lui. È una cosa che posso fare io, ed è sotto gli occhi di alcuni; l’avesse fatta lui, sarebbe stata sotto gli occhi di tutti. Mi sarebbe piaciuto se questo sogno mio, di spostamento continuo e un po’ inaspettato, l’avessi fatto in compagnia di uno come lui. Forse Fabrizio pensava che era un modo di prendere le distanze dal suo passato... Non credo che avrebbe dovuto prendere le distanze; solo distaccarsene serenamente. Ma su questo punto non ci saremmo mai accordati e così deci­ demmo di lasciare che l’operazione Anime salve fosse un’operazione di sola scrittura. Fortunatamente lo abbiamo fatto per tempo, in modo che non si creasse un problema fra noi due. Quanto alle storie vergognose sul nostro rapporto, le ho sentite anch’io. Ma non è mai successo niente del genere. Ci sono state delle tensioni, quelle sì, riguardo alla produzione, e con i musicisti; ma il rapporto tra Fabrizio e me è rimasto sempre molto civile. Arrivo a dire forse anche troppo; forse in qualche momento avremmo dovuto scazzarci sul serio. Ma niente di quel che si racconta è vero; solo tensioni e nessuna vera storia, nel senso di storiaccia. Un’altra interpretazione un po’ maliziosa riguarda il fatto che tu partecipavi al disco con i tuoi musicisti di fiducia; mentre Fabrizio era solo e forse poteva sentirsi prigioniero in quella situazione. Sì, però è vero anche che avevamo cercato di equilibrare. Quel problema in effetti stava sul tappeto – io sarei entrato nel disco con molte mani che 148

mi aiutavano. E proprio considerando questo, avevamo pensato di fare un’e­ quilibrata miscela di persone più utili e fidate da entrambi i lati; insomma, non due entourages ma uno solo, che potesse soddisfare entrambi. Ma non era quello il problema sai. Non era un equilibrio diverso che avrebbe messo tranquillo Fabrizio. Era proprio la linea che si sceglieva. E su questo argo­ mento va detto che in quella fase Fabrizio era uno che si irrigidiva su certe questioni; ma io pure, non ero disposto a seguirlo dappertutto. Io sentivo tanti strumenti a corde, ne avevo sentiti troppi per i miei gusti in quegli anni. Sentivo troppe risonanze etniche intese come Mediterraneo o Medioriente, per quanto siano vaghe definizioni del genere. Alla fine quello che ci divideva era un discorso su una sorta di occidentalismo, del quale io mi schieravo a difesa. Sai, facevamo lunghe discussioni sul fatto che il pianoforte ci dovesse ap­ parire, in un disco così; Fabrizio era convinto di no, il pianoforte era per lui uno strumento colto, non popolare, quindi in certi momenti poteva stridere con l’intenzione di alcune canzoni. Io a mia volta sostenevo che non ci si poteva fermare davanti a divisioni di questo tipo, che bisognava, nell’anno 1993/94 in cui stavamo preparando il disco, superare questioni del genere. E per supportare le mie tesi andavo a recuperare dischi di ogni tipo, di mu­ sicisti che mescolavano, che sperimentavano. E Fabrizio con grandissima vo­ lontà si sottoponeva ad ascolti feroci. Prima ti citavo Zawinul. Be’, ricordo che gli portai qualche suo disco – e tu puoi immaginare Fabrizio che ascolta Joe Zawinul! Però devo dire che ascoltava tutto con interesse, assoluta­ mente con attenzione; questo faceva parte del suo prepararsi di cui dicevamo prima. Fabrizio era una persona molto seria quando si preparava. Se ti di­ ceva che ascoltava un disco per prepararsi, puoi stare certo che lo avrebbe fatto, anche se gli avesse fatto orrore. E per serietà, non per compiacere. Siccome molto spesso è difficile indicare una via da percorrere a parole, e qualche volta anche con gli strumenti, allora utilizzavo lavori già fatti; l’uso di orchestre di un certo tipo, i modi di un direttore o arrangiatore, colorare una sensazione in quella particolare maniera, per esempio scrivendo gli archi così e non altrimenti. Fabrizio si sottoponeva di buon grado a queste veri­ fiche: poi però tornava implacabilmente a una sua idea che si era costruito e che era solida – da cui poi è venuto Anime salve come è. Be’, anche se in mezzo c’è il lavoro di Piero Milesi... Sì, in mezzo c’è il lavoro di Milesi ma era Fabrizio che guidava, che di­ rigeva. Magari non interveniva sulla partitura ma l’idea generale e le linee portanti sono sue. Poi Milesi è un musicista molto bravo e non solo, colto; un particolare che con Fabrizio aveva peso. Un musicista capace di dare a Fabrizio dei riferimenti precisi, delle coordinate non solo di direzione ma anche di periodo musicale. Io comunque non c’entro con la scelta di Milesi, 149

Intervista a Ivano Fossati

che è di Fabrizio; e a quel punto di Anime salve non c’ero già più, avevo ab­ bandonato l’idea di vedere quel disco con il colore che amavo di più. A quel punto, quale che fosse la direzione presa, quale che fosse il risultato finale, io ero contento comunque di aver partecipato all’album. In origine l’idea era quello di cointestarlo. Sì, ed è un’idea che è rimasta a lungo sul tavolo. Come ti ho detto, fino al momento di definire il disco nei dettagli. Fino al momento di mettere mano agli strumenti. Nel momento in cui sono entrati nella nostra vicenda i bassi e le batterie, le tastiere, i bouzouki, gli oud, i tamburi etnici, le sonagliere, in quel momento il sogno si è sfaldato. A ripensarci, mi accorgo che siamo partiti entrambi per questo progetto con un enorme entusiasmo ma in due direzioni opposte. Sai come due podisti, però schiena contro schiena: uno di qua, l’altro di là. E ce ne siamo accorti subito. Sulle prime abbiamo tentato qualche aggiustamento; ci pareva naturale, in fondo eravamo persone diverse. Poi però ci siamo accorti che una mediazione non era possibile. Tanto è vero che, non appena terminata la collaborazione con Fabrizio, non ho aspettato neanche un mese e mi sono buttato in studio a registrare Macramé. Ed ero molto stanco, va sottolineato, venivo da mesi e mesi del lavoro duro che ho detto. Ma mi sono chiuso un mese in un altro posto e ho cominciato un nuovo progetto. Era il desiderio di ritrovarmi musicalmente a casa mia. Qualcun altro si è ritirato insieme a te? Il produttore in origine doveva essere Beppe Quirici e se ne andò anche prima di me. Quando Beppe lasciò, credo di avere atteso forse una decina di giorni; ma poi, quando facemmo altre ipotesi di produzione, certi nomi stranieri, questo o quello, ebbi la precisa percezione che tutto stesse andando all’aria. Allora pensai che l’unica soluzione era che l’album diventasse un album, un bellissimo album di Fabrizio De André; che lo avrebbe condotto da par suo nel modo che desiderava – e così è stato. E a tutt’oggi sono con­ vinto che sia stata la soluzione migliore – perché abbiamo un bel disco di De André e forse avremmo avuto un album ibrido di De André­Fossati. Ti sarà capitato poi di riascoltarlo. Come lo giudichi oggi? L’ho detto, è un bel disco di Fabrizio De André. Per quel che mi riguarda, sono molto felice e orgoglioso di quello che ho fatto; e questo vale per le cose che mi piacciono di più e anche per le cose che mi piacciono di meno. Ma credimi, sono stato doppiamente contento per avere avuto quella forza di decisione e per non avere trascinato le cose verso una soluzione che alla fine sarebbe stata meno chiara e meno bella. Magari una cattiva risoluzione fra noi due oppure, peggio, un cattivo risultato. Sono stato molto contento, anche se so che è stato difficile farlo capire a quelli intorno; a cominciare da Fabrizio, 150

che l’ha vissuta in fondo come una sconfitta. Lo dico perché me lo ha confi­ dato lui stesso. A Fabrizio piaceva che le cose annunciate fossero poi realiz­ zate, che andassero a fine. Io invece sono dell’idea che non tutto quello che si ha in mente è sempre possibile. Se ancora ci ripenso, comunque, mi trovo lucido e convinto di aver fatto la cosa giusta; contadinescamente, era la solu­ zione migliore per ottenere un risultato di livello e per non incrinare noi stessi. Tu canti in due brani. Mi hai detto che non avete neanche tentato l’album insieme, in studio. Quindi devo dedurre che questi sono interventi successivi alla vostra separazione... Sì, è così. Questo conferma quel che dicevo prima, cioè che il rapporto è rimasto buono. A un certo punto Fabrizio, prima che l’album finisse, un bel po’ prima, mi buttò lì l’idea di intervenire in un paio di brani. Ci sentivamo ogni tanto e in una di queste telefonate lui mi disse: “Dai, il disco alla fine insieme non lo abbiamo fatto. Ma un paio di canzoni le potresti anche cantare con me.” Previde la tonalità di quei due brani, che era rimasta quella dei pro­ vini, e li registrò lasciandomi uno spazio, che poi io riempii con il mio cantato. E ricordo che prima che lui terminasse di registrare, ci vedemmo un giorno a Milano e registrai quelle parti. Lo vidi contento, e a me stava benissimo. Una di queste canzoni è Anime salve; ed è molto tua, forse quella più “tua” del disco. Sì, è vero. Probabilmente è quella che a livello musicale è più connotata con il mio stile. Ecco, devo dire che su quella canzone Fabrizio è intervenuto poco; come in altri casi vale il contrario. Ti faccio un esempio: Disamistade. Quel pezzo è totalmente di Fabrizio, o quasi: io mi sono limitato a inserire un passaggio armonico, reso poi con l’orchestra d’archi, un passaggio discen­ dente che vale come collegamento. Ma il nocciolo, la sostanza della canzone è altro; ed è Fabrizio. Anime salve è l’opposto. È un brano molto mio e per Fabrizio è un esercizio curioso, insolito. D’altronde però fare un disco in­ sieme significava anche uscire ognuno dai propri ambiti. Prendi una canzone come Smisurata preghiera; è un brano che porta Fa­ brizio molto fuori dai suoi schemi soliti. Però lui ci entra perfettamente, con forza, convinto. Quella è una delle occasioni, mi sembra, in cui si sente la parte migliore del nostro lavorare insieme; la parte in cui Fabrizio accetta il mondo dell’altro, che in quel caso ero io. In Smisurata preghiera ci sono passaggi armonici, modulazioni, anche una parte ritmica assolutamente non usuali per lui; che lui interpreta benissimo. Per me è uno dei brani in cui Fabrizio riesce meglio, uno degli episodi più convincenti. Quelli sono i mo­ menti dell’album che somigliano di più alla mia idea del progetto. Avessi do­ vuto decidere io, avrei fatto un album molto simile a quello che si ascolta in Anime salve e Smisurata preghiera. 151

Intervista a Ivano Fossati

E d’altro canto, qualcosa del disco che invece non è uscito dal guscio? Be’, che non sia uscito proprio dal guscio no. Che abbia creato delle dif­ ficoltà, sì. La canzone più difficile in assoluto da costruire è stata Dolcenera. Anche se ad ascoltarla oggi può apparire immediata, molto “divertente”, è stata in realtà una canzone difficilissima. Non si riusciva mai a comporre le diverse parti; e con il passare del tempo è stata molto, troppo manipolata. Anche se il risultato finale non lo dà a vedere e forse sarebbe meglio non dire certe cose. Però è la verità; è la canzone che è costata più fatica. Mi sembra che Ho visto Nina volare sia un altro esempio di canzone in cui sei tu che invece ti sposti un po’ dalla parte di De André... Abbastanza, sì. Guarda, nell’album ci sono canzoni la cui lavorazione è durata settimane, ma proprio lunghe settimane; il caso di Dolcenera è stato proprio estenuante. Ho visto Nina volare è l’eccezione; l’abbiamo scritta di getto, in quaranta minuti netti. Non credevamo alle nostre orecchie, tutt’e due abituati a lavorare settimane e mesi sulle musiche, sui testi. Ricordo che quel pomeriggio Fabrizio era seduto al solito tavolo di cucina e lavorava su questo testo, che gli era stato ispirato da un’antica canzone popolare ripresa da Caetano Veloso. Niente di diretto, era solo una suggestione. Erano giorni che ascoltavamo un suo disco, Fina estampa. E c’era questa canzone che gli piaceva da impazzire, che lo commuoveva. Ricordo che su questo entusiasmo Fabrizio di getto stese il testo. Io contemporaneamente stavo dall’altra parte della casa, con la chitarra e con un tema che mi frullava da giorni – e lo stavo ripulendo, sistemando. Era un tema delicato, anche un po’ malinco­ nico. E ci siamo davvero incontrati come per incanto. Fabrizio mi ha fatto ascoltare il suo testo, leggendomelo, e io ho avuto una folgorazione. “Senti, ma perché non proviamo a combinarlo con questo tema – sono tre giorni che ci lavoro, proviamo.” E ha funzionato subito; ma non perché qualcuno avesse ascoltato l’altro, così, per un incontro bello e fortunato. E in quaranta minuti la canzone era pronta; dico davvero pronta, nella versione come la si ascolta. L’abbiamo subito registrata con le apparecchiature che avevamo lì, in quattro e quattr’otto; e poi, ricordo che saranno state le cinque di po­ meriggio, siamo usciti a festeggiare. Siamo usciti a festeggiare non perché la canzone fosse un capolavoro, secondo me, ma per la velocità – una cosa che non ci toccava più da anni. Io e lui da soli; sai che festeggiamenti. Però stu­ piti e felici per il miracolo che ci era accaduto. Che giudizio dai, complessivamente, di Fabrizio De André? Devo pensare a quello che ho imparato da lui. Ma non mi riferisco al comporre insieme, non è Anime salve il punto cruciale. Quando penso a ciò che ho imparato da lui, penso sempre a quando ero ragazzo. E non so se m’importa questa strana aura, quello che oggi c’è intorno al suo ricordo. Mi 152

importa ricordare quello che ho imparato quando c’era da imparare. Quando ci siamo incontrati e ci siamo messi al tavolo a scrivere, avevo 42 anni. Non era più il momento di imparare; era il momento di mettere nero su bianco quello che sapevo, di fronte a lui. Il momento di imparare era quando ascol­ tavo Non al denaro, quando apprendevo che in un mare di musica leggera come quella di allora si poteva anche costruire un album piacevole e inte­ ressante, musicalmente affilato, che traeva spunto da un’opera letteraria – un fatto assolutamente inedito per l’epoca. Ecco, se penso a questo, se penso a Storia di un impiegato, se penso al suo fare dischi solo se e quando gli an­ dava; e anche alla posizione che aveva assunto in quegli anni, una posizione se vuoi di grande successo e intensità, ma scomoda. Un artista in quegli anni poteva vivere molto più comodamente, senza andare a cercarsi quelle aspe­ rità. Fabrizio si è cercato asperità tutta la vita. Ecco, se penso a tutto questo e faccio la somma, che giudizio posso darti? Il migliore possibile. Poi stargli vicino era un’altra cosa. Poteva essere facile o difficile a se­ conda dei momenti, a seconda dei casi. Ma questo mi riguarda meno. Il tempo che ho passato vicino a Fabrizio, è stato quasi sempre un tempo ottimo. Poi ogni tanto, in quelle fasi che ho raccontato, abbiamo avuto dei contrasti. Ma più che scontrarci, che è quanto tutti in fondo hanno pensato, abbiamo fatto un grande tiro alla fune. Sai, proprio, due begli asinoni con i piedi puntati, uno contro l’altro. Non siamo mai venuti meno a una regola di cordialità e amicizia ma il tiro alla fune c’è stato, micidiale. Però siamo quasi sempre stati bene insieme, anche perché ci siamo sempre rifugiati, questo è forse una cosa che ci ha salvati, in un mondo nostro che, a torto o a ragione, consideravamo solo nostro. Parlavamo di tante cose, della musica ma anche del Genoa e della Sampdoria, in una genovesità, in una ligusticità che sapevamo essere una nostra difesa. Una difesa fragile, e ne eravamo convinti. Però, sai, al centro di Roma noi ci sentivamo come due passanti comunque estranei, un po’ protetti da quest’aura speciale che poi in fondo non c’era – come due ragazzini. Ci sentivamo sempre in trasferta. Fabrizio era un uomo preparato e colto ma è buffo come si sentisse in trasferta appena al di là dell’Appennino. Amava tanti luoghi, la Sardegna so­ prattutto, ma il suo baricentro era sempre Genova. E poi lui si sentiva antico, e così era effettivamente: un uomo che sapeva di essere fatto di una carne an­ tica, di un pensiero antico, e questa sua specificità la curava. Era uno strano genovese, in fondo di passaggio; aveva in realtà radici piemontesi e francesi. Ma Genova era comunque il suo fulcro, e per esempio quando apriva bocca, per quanti luoghi avesse frequentato, per quanto la vita lo avesse spinto al­ trove, si coglieva l’accento della sua città, che non aveva mai perso. E lui voleva questo, non ha mai fatto niente in vita per non essere collocabile lì. So che gli piaceva conoscere Genova, le parti più intime e popolari, gli piaceva somigliarle. Ed era uno dei pregi che lui mi riconosceva, questo essere geno­ 153

Intervista a Ivano Fossati

vese più a fondo. Lui sentiva antico me. E me lo diceva; ti sento genovese fino alla mediterraneità. “Tu devi avere ascendenze maghrebine.” Io invece, al contrario, lottavo per la mia occidentalità. La nostra amicizia era fatta di questo. Era fatta di alcuni argomenti che erano nostri e solo nostri. Stavamo insieme come in una sorta di copertura arcaica che sentivamo intorno a noi. Totalmente inventata, sia chiaro. Le vie di Genova, il suono della lingua, l’andare indietro a raspare il significato di certe cose, di certe espressioni del dialetto; o scambiarsi impressioni su un libro, magari neanche raro ma particolare. Una volta abbiamo trovato un libro sui pifferai di una valle ligure che ora non ricordo, che si spostavano fino alla Germania a suonare – ecco, qualcosa del genere. E ognuno, in casi simili, si immaginava che l’altro fosse l’unico interlocutore possibile per di­ scorsi del genere. E non era vero, lo sapevamo, ma ci andava bene così. Quello che era vero è che c’era Genova in mezzo a noi, c’erano forte­ mente Genova e tutta la Liguria. Argomento di forte comunione ma anche di divisione. Perché la sua Liguria non era, in fondo, la mia. Ne aveva un’idea molto mediterranea, in senso lato, e a me pareva che così facendo facesse un torto alla sua specialità. Mi sembrava che fosse per metà un errore. E allora, figurati: su un argomento come questo, ci si poteva stare anche due giorni.

154

INTERVISTA A PIERO MILESI Mattarana, marzo 2010

Tu sei della mia generazione, quindi sei cresciuto con De André. Parlo degli anni ’60… Sì, ma a dirti la verità non me lo filavo molto.

Ah, ecco. Per dirla tutta, non me lo filavo per niente… Vedi, mia madre era pianista e il mio orecchio era quindi costruito su quello che sentivo in casa; ero molto influenzato dai grandi della musica classica, da Bach a Debussy. Intorno ai 14 anni avevo letteralmente consumato per i troppi ascolti gli LP dei quartetti di Beethoven e la Sagra della Primavera di Stravinskij… In quel mondo Fabrizio non c’entrava. Il “cunzi cunzi cunzi cunzi” di una ballata suonata con la chitarra mi risultava perfino fastidioso. Il rock non lo ascoltavi? Certo, come no. Quando avevo dieci anni un mio cugino mi aveva fatto sentire i Beatles con un mangiadischi, e quella musica mi aveva impressionato. A quei tempi girava poco in Italia; solo poi sono arrivati da noi i complessi, anche se un po’ troppo italioti, a parte i Rokes e pochi altri. E poi, nella seconda metà degli anni ’60, le grandi rivelazioni: Hendrix, Blue Cheer… Da ragazzino ho avuto anch’io il mio complesso; vivevamo di Jimi e Led Zeppelin, ci facevano andare giù di testa. Era una questione di suono, qualcosa che andava oltre la musica stessa. Per me il suono è sempre stato l’essenza della musica. Nella classica mi facevo catturare dal sinfonismo di fine Ottocento; quegli esperimenti sul colore, sulla tinta, come gli impressionisti in pittura. Il suono ha la potenza dell’evocazione: è come certi odori che hai annusato da bambino e li ritrovi cinquant’anni dopo, e ti risvegliano un’emozione incredibile. Ho sempre cercato questo nella musica, lo cercavo anche allora e De André queste cose non me le dava. Per come ero io allora, un disco era musica e il testo della canzone solo un pretesto per cantare. Se non che avevo una sorella e un fratello che possedevano suoi dischi e, dopo qualche ascolto “di rimbalzo”, a un certo punto ho incocciato nella B uona novella . Mi aveva incuriosito musicalmente, conteneva già elementi di “commistione”, se mi passi il termine ormai abusato. In certi punti riusciva a combinare aspetti della musica classica con quelli della leggera, molto lontani però dai miei Beethoven ed Hendrix; e in più però c’era un testo che mi faceva riflettere. Un lavoro che avrebbe meritato di essere riproposto nei concerti, soprattutto per i contenuti. Sarebbe stato bello, ma forse era prematuro e anche un po’ rischioso, visti i tempi che correvano. A Fabrizio l’ho detto più di una volta: “guarda che ci sono cose da 155

riconsiderare, la Buona novella è un’opera attualissima, bisognerebbe lavorarci e recuperarne almeno dei brani.” E così poi è stato fatto. Quindi tu non sei un fan di De André ma a un certo punto ti capita di incontrarlo… Sì, e non ricordo bene la prima volta. Forse fu alle Scimmie, o forse a casa di Mauro Pagani quando stavano lavorando a Creuza de mä; era nei primi anni ’80, dopo la tournée con la PFM. Avevo visto quel concerto a Milano e… be’, non avevo ancora del tutto cambiato idea sulla musica italiana ma lì c’ero rimasto, c’era tanta musica bellissima, ricca, fatta ad arte, su cui galleggiava la voce di Fabrizio, imperiosa, come un vascello sull’oceano. Comunque sia, quel primo contatto fu superficiale e solo anni dopo successe qualcosa. Lui stava registrando Le nuvole e fu Mauro a coinvolgermi. C’erano due brani da orchestrare, Le nuvole e Ottocento. Lavoro facile, un compitino da conservatorio. Mauro mi ha dato i provini fatti con una tastiera, che aveva realizzato con Sergio Conforti, e io ci ho lavorato, mettendoci del mio – ho un po’ allungato la coda di Le nuvole e riconsiderato i tempi, i rallentati eccetera, e mi sono presentato in sala di registrazione con l’orchestra pronta e la mia partitura. Non avevo fatto nessun provino – grazie a Dio! De André alla fine è rimasto contento, e ricordo di avere avuto l’impressione che lavorare con lui fosse come bere un bicchiere d’acqua; e non capivo Mauro che stava lì a sospirare e a lamentarsi, “sapessi com’è difficile lavorare con Fabrizio, è un’impresa!” Boh! A me era sembrato gentilissimo, disponibile. Sì, ogni tanto aveva qualche legittima richiesta, come quella di eseguire Ottocento un po’ più lentamente, per essere più comodo nel cantarci sopra (avevamo deciso di lavorare senza click); cosucce del genere, qualche virgola qua e là ma niente di particolare – ed erano comunque appunti sempre opportuni. Solo dopo, lavorando su Anime salve, ho capito Mauro. Alla fine è sempre la solita storia. All’inizio di ogni rapporto umano ognuno di noi presenta la parte migliore di sé, poi invece… è il gioco della seduzione. Trovi che fosse una persona difficile? Lui non si considerava così. Gli piaceva dire: “belìn, ma se sono uno zuccherino!”, e in effetti quando andavamo in giro e incontrava i fan era davvero disponibilissimo, e attento – aveva una grande capacità di ascolto. Ci teneva ad avere una certa immagine e non faticava troppo per mantenerla; gli veniva spontaneo. Poi però, lavorandoci insieme... Mauro mi ha confessato che ogni tanto con lui aveva istinti omicidi, e io anche. Una volta a Dori ho detto: “Io, tuo marito lo ammazzo, se continua a fare così, lo ammazzo. Risposta: “Be’, fa così perché ti vuole bene.” E, porca zozza!, pensa se mi avesse voluto male! 157

Intervista a Piero Milesi

Vedi Riccardo, a volte si tende a santificare il personaggio, omologandolo a uno stereotipo… Fabrizio non era né un santo né un diavolo. Era semplicemente un artista, con la A maiuscola. E come tutti i grandi artisti era molto umano, estremamente umano, forse anche troppo; nel bene e nel male, nei pregi e nei difetti, e a volte la sua intelligenza poteva giocargli contro. Era spesso esagerato nella percezione di sé come nelle insicurezze, nella sua empatia con il mondo e negli egocentrismi. A volte era anche invidioso; sapeva comprenderti molto bene e incoraggiarti quando voleva, ma sapeva farti anche molto male e mortificarti. Oscillava tra l’essere saggio e l’essere impulsivo… un virtuoso alcolista. Forse perché dentro di sé aveva troppo da gestire. Questa è la mia opinione, cerco solo di dire quello che penso. Lavorando, spesso ti diceva che era tutto una merda, e te lo dichiarava facendoti sentire una nullità, umiliandoti quasi con gusto. E quando eri al limite, quando pensavi di non farcela più, magari cambiavi una virgola e improvvisamente ti diceva che era un capolavoro… Almeno con me si comportava così. Qui non parlo di quando ho collaborato a Le nuvole ma di quando ci ho lavorato a lungo, per Anime Salve. Sul lavoro, vedi, Fabrizio era giustamente preciso, esigente, ambizioso; qualità che apprezzo, io non penso di essere da meno, che a volte però nascondono qualche insicurezza. Quando sei insicuro diventi capriccioso e scassi i nervi del prossimo. Perché ti piace, perché non ti piace, perché sì, perché no. E perdi un po’ di vista quello che stai facendo. Nel mondo della musica poi c’è spesso un comportamento un po’ nevrotico, un girotondo a scaricare le colpe su altri e trovare sempre un capro espiatorio, che per i meno stabili e in certe situazioni è necessario per la sopravvivenza. Il fonico dà la colpa all’assistente, l’assistente dà la colpa al produttore, il produttore dà la colpa al discografico, il discografico dà la colpa al cantante, il cantante dà la colpa all’arrangiatore. Questa cazzo di colpa gira sempre di mano in mano, di persona in persona, come nel gioco della candela quando si ballava da adolescenti; così le insicurezze di ognuno alimentano comportamenti perversi. Aggiungi poi che Fabrizio non si presentava con un disco nuovo da parecchi anni… Non era una situazione facile e lui lo sapeva; man mano che ci si avvicinava alla meta, diventava sempre più nervoso. Tutto si è calmato solo dopo la presentazione del disco alla stampa, come d’incanto è ridiventato uno zuccherino… Prodigio che durava fino al lavoro successivo. Qui però sei andato troppo avanti, sei già arrivato ad anime salve. Procediamo con più calma. Dopo le nuvole… Sì, scusa… Finito il lavoro con Le nuvole, io faccio la mia vita e per un po’ lo perdo di vista. Poi a un certo punto mi arriva la proposta di scrivere un’opera lirica e lì tiro fuori un’idea che avevo nel cassetto e che avevo intimamente maturato dopo avere visto alla Scala il Manfred di Schumann con Carmelo Bene: una bella voce narrante fuori campo (ma non di impostazione 158

teatrale, per carità!) che dialogasse con l’orchestra e i cantanti e che tenesse sempre il filo del racconto. Pensai subito alla voce di Fabrizio. Mi sembrava perfetta per quel che avevo in mente, mi affascinavano il timbro, il tono e la cadenza che avevo ascoltato nei suoi recitati della Buona novella. Lo chiamo, gli faccio la proposta e lo sento esitante. “Mah, non so”. Però l’idea dell’opera gli piaceva e allora fu lui a buttarmi uno spunto: “senti”, mi disse, “il Carlo Felice insiste perché produca qualcosa per loro; perché non facciamo insieme qualcosa sul Balilla? Sai, quel ragazzino genovese del ’700, la storia di ‘che l’inse!’”… Per me era un argomento inedito e lontano dalla mia esperienza, per lui di Genova no. Anzi, era un’occasione di legarsi ancora di più alla sua città e alla genovesità. Vado da lui, gli faccio sentire un un po’ della mia musica, gli piace. Ne parliamo e, okay, vada per il Balilla! Io mi butto: giorni in biblioteca alla Sormani, leggo, mi documento. Per la musica ho delle idee che mi eccitano. Fabrizio mi ha dato come riferimento il barocchetto, che poi è lo stile degli anni in cui la storia si ambientava. Lui ne era un appassionato, aveva dei mobili in casa in quello stile. Ma io prendo il barocchetto e lo porto da un’altra parte. Per me è un orpello, un ornamento, e gli ornamenti in musica sono i mordenti, i trilli, le acciaccature, quel tipo di articolazioni che all’epoca diventarono quasi elementi strutturali. Da lì parto con una mia idea di installazione sonora… tipo, la gente entra in teatro, non con le luci piene ma con le mezze luci. Appena varcata la soglia è già “dentro” l’opera, deve stare attenta, parlare sotto voce, mandando così a quel paese l’aspetto salottiero dell’andare a teatro. Ovunque intorno ci sono suoni e riferimenti d’epoca; piccoli emistichi musicali e abbellimenti spuntano come casualmente qua e là, e si rivelano un po’ per volta. Questo dura per tutto il tempo dell’affluenza del pubblico in sala mentre lentamente, molto lentamente, è sempre più buio e questi elementi di barocchetto musicale si articolano sempre più, trasferendosi poco alla volta all’orchestra fino a organizzarsi in partitura, per cui… non c’è bisogno che il sipario si alzi, l’opera è già cominciata. Sì, lo so, poteva apparire una pippa mentale e anche Fabrizio la prima volta che provai a spiegargliela mi diede del matto. Poi però gli entrò la pulce nell’orecchio: “Belìn, ma sai che questa cosa qui mi intriga?” Però non siete mai approdati a niente di preciso. Mai, ma nel nostro mondo è la regola: si fanno progetti e poi ne va dritto uno su dieci… se va bene. Però ’sta storia del Balilla non era stata del tutto improduttiva. Fabrizio aveva visto che ero solerte, che sapevo buttarmi nei progetti; e probabilmente fu così che mi guadagnai un gettone per l’album successivo. Poi c’era il fatto che probabilmente rappresentavo una ventata di musica nuova per le sue orecchie. Si sa che Fabrizio giocava sempre a spiazzare con ogni nuovo disco e il collaboratore del momento altro non era 159

Intervista a Piero Milesi

che lo “strumento” per una nuova scelta stilistica. A mo’ di certi registi cinematografici spregiudicati, non aveva remore in questo senso; poteva usare mondi musicali diversi per i suoi obiettivi e così, “rubando”, riusciva a fare quello che nell’ambito della canzone d’autore non era ancora mai stato fatto. Penso a Mauro e a come si è fatto prosciugare la sua cantina di idee con Creuza. Visti i risultati, non c’è dubbio che Fabrizio avesse ragione; e oggi lo ringraziamo per questo. Io in quei tempi ero molto legato ai minimalisti, Reich, Glass, e in quello che facevo c’era sicuramente la loro influenza. Non bisognava però pronunciare quella parola, “minimalismo”, a Fabrizio dava fastidio. Lo riportava a un atteggiamento modaiolo piccolo borghese e forse la riferiva al minimalismo in letteratura, che proprio non gli andava giù. Lui era carne, passione, sangue. Quindi tu avevi un bonus ma non lo sapevi – e neanche lui voleva usarlo subito, mi par di capire, perché inizia a lavorare con Fossati. Sì, forse niente di programmato. Erano anni che pensava di lavorare con Fossati. Però un giorno mi arriva una telefonata, con un tempismo direi perfetto, perché era un periodo che ero senza lavoro su commissione e stavo ciondolando intorno al mio nuovo disco. “Senti, sto facendo un album insieme a Ivano e per gli archi si pensava a te.” Io non sapevo niente del progetto ma l’idea mi piace, abbozzo subito un sì e lui aggiunge: “Guarda, la produzione la fa Beppe Quirici e stiamo provando a Longiano. Se vieni ti diamo i pezzi, abbiamo più o meno individuato su quali puoi lavorare.” Allora vado a Longiano e, belìn, c’era un’aria assurda. Neanche il tempo di salutare e il gelo lo tagliavi con il coltello. Io però sono un po’ pirlacchione e mi sono calato nella parte di chi arriva e fa finta di non capire, e si sforza di sciogliere un po’ l’atmosfera. Come un amico che va a trovare un marito e una moglie in fase di separazione e prova a farli divertire tutti e due. Ma, appunto, si stavano già dividendo? Non ancora, ma secondo me sotto sotto qualcosa già bolliva. Quando avevano composto i pezzi insieme era andata benissimo, poi sulla realizzazione, arrivati agli arrangiamenti… quello è il momento in cui si decide la sonorità del disco, la sostanza del significato musicale, e sui vestiti delle canzoni avevano idee opposte. Fossati era innamorato di Joe Zawinul, De André era legato all’etnico dei dischi precedenti; riducendo banalmente, per uno dovevano esserci il pianoforte e suoni elettrici, per l’altro strumenti a corda e suoni acustici. Va be’, proviamo lo stesso. Mi danno i pezzi, però… però non c’era praticamente niente. Io chiamo Quirici. “Beppe, se non mi dai i pezzi, mi è impossibile arrangiare il nulla!” Ricordo che per i brani che mi competevano c’era solo la coda di Khorakhanè, fatta con una tastiera e accordi tenuti. È la prima 160

cosa che ho arrangiato e me la sono curata bene quella codetta lì, con tutta calma, volevo lasciare una buona impressione. Faber non c’era e io l’ho meditata in piena libertà, come se fosse mia, mi sono fatto mille appunti. Abbozzavo a dei ribattuti degli archi a formare delle onde, oppure a un movimento di violini, poi ci ripensavo: no, i violini devono stare più fermi, sono i celli che devono muoversi, quando il pezzo modula devono esprimere inquietudine. Era una canzone sul tormento del popolo Rom, e dovendo lavorare sugli archi mi veniva spontaneo riferirmi a Mahler, a Smetana, a tutta una certa sensibilità mittel-europea. Sì, è vero, sono ariani-indiani che arrivano anche in Spagna passando per il Nord Africa, ma per il nostro vissuto li percepiamo come un popolo dell’Est europeo. Avevi anche il testo? No, non l’avevo, non c’era ancora, sapevo solo di cosa trattava e sapevo che doveva essere in lingua romanes. Era un la-la-laaa, a sillabe, giusto per la metrica. Però il testo… guarda che in certi casi meno segui il testo e meglio è, c’è il rischio che ti limiti nelle intuizioni. Se l’affronti in modo didascalico diventano arrangiamenti da messa beat o giù di lì. A volte basta solo uno spunto di due/tre parole per acchiapparlo, tu elabori di pancia e di testa sapendo che la musica ragiona al meglio solo con se stessa, e poi vedi quello che è venuto: testo, parola, significato, note. Te ne accorgi a istinto se il tutto si incolla bene e, se qualcosa non gira, ci torni su. Ma per un po’ di tempo io ho avuto solo quello, la coda di Khorakhanè, e continuavo a chiedere qualcos’altro ed era sempre un “aspetta”, un “domani vediamo”. Si muovevano al ritmo di una nota al giorno e poi, inevitabilmente, si sono arenati. Forse il peccato originale è stato quello di avere convocato pressoché solo i musicisti di Fossati – a parte Naco, che si era già visto con Fabrizio in Sardegna per il berimbao di Disamistade. È chiaro e più che comprensibile che, per sentirsi tranquillo, un produttore preferisca lavorare con gente fidata, con musicisti collaudati come Stefano Melone ed Elio Rivagli, per fare due grandissimi esempi. Probabilmente un team così precostituito e solido poteva dare l’impressione di prevaricare Fabrizio e “tirare” dalla parte di Fossati, e a lui questa cosa non andava giù; per dirla tutta, lo mandava in paranoia. Come sia poi andata ufficialmente, lo sapete voi meglio di me. Ivano dice a Fabrizio “meglio che il disco lo faccia tu, firmiamo insieme ma vai avanti da solo”, e quindi, senza più un team di lavoro, tutto l’aspetto produttivo ricomincia da capo. Tabula rasa. A quel punto Fabrizio ripesca me, l’ultimo arrivato. “Te la senti di arrangiare tutto?” “Be’, sì”. Mi ha messo subito alla prova. Era luglio se ben ricordo, “fai due o tre pezzi,” mi ha detto, “a settembre ne riparliamo”. Nel frattempo Fabrizio mi chiede data e ora di nascita, perché doveva farmi il quadro astrale… eh, sì, voleva essere ben sicuro. 161

Intervista a Piero Milesi

Che pezzi erano? Prinçesa, Dolcenera e Khorakhanè, ma ora non ricordo quale affrontai per primo, a parte la coda di Khorakhanè, come ho detto prima. Un’altra questione da sistemare subito era quella del produttore. Io non avevo tanta voglia di lavorare con una terza parte e buttai lì a Fabrizio: “Perché non lo produciamo noi?” “Eh ma poi, belìn, come si fa.” “Tranquillo, organizzare lo studio e i turni è la cosa più facile, prendi il telefono e lo fai, ed è già l’occasione per preparare i musicisti alla seduta. Se poi salta fuori che non si riesce a fare tutto, prendiamo un aiuto”. Ma non ce n’è stato bisogno. In fondo le nuvole e Creuza de mä le aveva prodotte lui con Mauro, giusto? Mentre qui voleva un produttore esterno. Sì, ed era già in contatto con Colombini, ma l’ho rassicurato: “Stiamo sempre insieme, già che arrangiamo, mano a mano affrontiamo ogni cosa.” Io fra l’altro avevo già prodotto i miei dischi. Comunque, il lavoro è cominciato, anzi, ricominciato, e intanto parlavamo molto, io e Fabrizio, su come doveva essere l’album. In vita sua aveva inciso dischi con sonorità molto diverse, e ciò dipendeva dal fatto che, non avendo lui una precisa identità musicale, lo stile dell’album gli era conferito dal collaboratore o arrangiatore del momento. Era passato per tanti generi, dalla ballata trobadorica all’etnico mediterraneo, passando per la classica, il rock, il folk… Secondo me Anime salve non doveva essere né un disco elettrico né un disco acustico; né classico né rock né folk, e nemmeno etnico. Non si può pianificare uno stile a tavolino. Ma la soluzione l’avevamo a portata di mano. Bastava tener conto dei tanti mondi sonori attraversati in carriera, una digestione del suo vissuto musicale, e arrivare a una nuova identità che abbracciasse le esperienze più interessanti. Siamo partiti da alcune tracce della pre-pre-produzione di Longiano, che in qualche caso potevano crearmi delle difficoltà; voglio dire, per Fabrizio erano acquisite ma a me non erano del tutto familiari. Ovviamente c’era anche il mio vissuto musicale da considerare, i miei vissuti, e cercavo di tirare fuori quei lati che immaginavo incontrassero il suo gusto, o meglio i suoi gusti. In questo senso un po’ alla volta abbiamo preso le misure. L’intento era arduo: inventarsi inedite combinazioni sonore con materiali già “collaudati” e apparentemente anche scontati... In fin dei conti questa era già la poetica di De André per i testi: sapeva esprimere concetti estremamente profondi e insoliti con le parole più semplici e più che usurate. Un lavoro di sintesi e reinvenzione, diciamo così. Mi sembrava l’unica via possibile, solo ripescando nell’usato si poteva raggiungere l’originalità. Lo stile di Anime salve, insomma, come una base da cui ripartire per altri album. Ma è vero, come ricorda Fossati, che lui si era fermato a Creuza e rivoleva quei suoni? 162

Sì, ma in parte; nel frattempo aveva fatto Le nuvole. Un giorno venne da me con un disco di Peter Gabriel; che mi piaceva, certo, ma era degli anni ’80, era ancora quello che Mauro, credo, gli aveva fatto ascoltare come stimolo. “Sì Fabrizio, ma di acqua ne è passata sotto i ponti, non trovi? Comunque, se posso dirti la mia, io non sentirei dischi. Stiamocene fuori.” E lì mi accusò di essere un presuntuoso, ma il punto non era quello. Per certi versi lo capivo, lui ha sempre avuto bisogno di agganciarsi a qualcosa, nella letteratura come nella musica. Un riferimento, un punto di partenza… Comunque, dischi da quel giorno non ne abbiamo più sentiti. Quindi, fammi capire, siete partiti da posizioni abbastanza diverse ma poi avete trovato un territorio comune… Sì, a onde; c’erano dei momenti in cui ti lasciava fare e dei momenti in cui non ti lasciava fare. In un viaggio così ne attraversi di ogni. Ma a un certo punto il territorio comune dovevamo trovarlo per forza. Guarda… a proposito delle Nuvole, gli avevo fatto indelicatamente notare che mi faceva strano che fosse diviso in due, metà De André “classico” e metà etnico. “Fabrizio, secondo me questo è un limite. Sembra che non sapevate se farlo così o cosà e avete fatto mezzo e mezzo.” Lui si era giustamente inalberato: “E belìn, era voluto! È stata una scelta mia e di Mauro, insieme.” Sì, era vero, era una scelta, anche interessante perché insolita, ma secondo me la sfida vera era mescolare quegli elementi, e per mescolare intendevo un lungo lavoro, nota su nota, sperimentando soprattutto nuove combinazioni strumentali e stilistiche. Avevamo discusso bene quel giorno e ci eravamo capiti su come Anime salve dovesse conquistarsi la sua identità negli arrangiamenti. Si era creata tra noi una certa intesa e da lì le scelte si alleggerivano di certe zavorre ideologiche. E poi, guarda, ci tengo a dirlo, Anime salve è un album con molti momenti di musica strumentale, e in questo Fabrizio e Ivano sono stati davvero provvidenziali. Hanno dato molto spazio a code, codette, introduzioni, intermezzi. Bisognerebbe cronometrare, c’è davvero tanto. Così, giorno dopo giorno, l’identità sonora dell’album è andata a delinearsi. Poi per volere del destino, o forse no, Anime salve si è ritrovato a essere, anche per come suona, una sorta di riepilogo della carriera di Fabrizio – il compimento della sua vita, il sigillo finale… Ma questo non potevamo immaginarlo. Dimmi di una canzone che non è venuta come tu avresti voluto. Ti dico una canzone che poi è venuta bene ma che al momento nessuno dei due aveva in testa in quel modo: Ho visto Nina volare. Allora, guarda, io Nina senza di lui non l’avrei mai arrangiata così. Era un pezzo che sulla carta sembrava facile… All’inizio della nostra collaborazione avevamo fatto un patto: su ogni nota noi dobbiamo essere d’accordo, su tutto! Però di note 163

Intervista a Piero Milesi

ce n’erano un’infinità e con il tempo inevitabilmente emergevano gli incriccamenti. E quella canzone, vuoi perché fu tra gli ultimi brani da arrangiare, vuoi perché eravamo proprio stanchi… fatto sta che come riferimento avevamo un provino che a mio avviso suonava troppo dark. Ovvio, era solo un provino; però mi piaceva tantissimo la canzone ma soffrivo il mood. Era tutto troppo “sotto”, sentivo il bisogno di dare suono in alto. Fabrizio invece ci si era affezionato: voce, chitarra e un loop di tom che accompagnava. Io avevo paura che fosse uno stacco troppo brusco rispetto alle altre canzoni; nelle prove di infilata dei brani, il disco suonava tutto con un certo equilibrio di frequenze, poi arrivava Nina e sembrava fosse stata concepita su un altro pianeta. Come stesura invece era perfetta, e qualsiasi cosa provavi ad aggiungere correvi il rischio di sciuparla. Abbiamo anche pensato che si poteva lasciarla solo chitarra e voce, era bellissima – ma poi si dovevano fare i conti con il resto dell’album. Allora io tiro di qui e lui tira di là, io vado su, lui va giù e a un certo per aprirla un minimo tiro fuori un campione di nacchere. Ta, tatata. Maledetto il giorno in cui sono apparse quelle nacchere! Perché okay, l’idea passa ma… tre giorni per fare quattro suoni di nacchere! Tata… no! Perché c’era già un tata prima, forse è meglio solo un ta, no… allora forse qui è meglio non mettere niente… no, risentiamo tutto da capo. Io metterei un… “ho visto Nina volare” ta, nooo!, è meglio tatata… e, porca miseria!, in ’sti tre giorni Mozart avrebbe scritto due sinfonie e noi come due scemi a insistere su tatata, ta, tata! E sono venute bene quelle nacchere, anche a volume bassissimo le senti, ti arrivano perché non c’è nient’altro in quella zona. Avevo usato anche dei suoni tipo “glass”, quelli utilizzati all’inizio di Khorakhanè per intenderci, notine eteree e un po’ astratte che almeno sfiorassero le frequenze alte; però a Fabrizio non piacevano, le soffriva proprio, e ancora adesso non so perché. In quel brano io tendevo a mettere aria, i cirri come diceva lui. De André li chiamava cirri? Sì, io volevo mettere suoni in alto, come i cirri, lui i nembi – forse perché pensava al testo. Io invece senza quei cirri, senza l’altezza del cielo, non la sentivo giusta; mi pareva scollata dal resto dell’album. E neanche lui era convinto, ma per il motivo opposto. Alla fine, dopo tanti tira e molla, con un tamburello e con il bansuri quelle frequenze sono state appena in parte occupate. Forse un’altra ragione del braccio di ferro è che a quel punto fra di noi era in atto uno scontro di ego e le scelte a volte erano dettate più dalle impuntature che dalla giusta considerazione delle cose. Alla fine il compromesso è stato davvero notevole, anche se ognuno dei due è rimasto sulle sue posizioni. E parlo solo della pre-produzione… perché anche in sala, durante la realizzazione, sono sorti problemi: tonalità che non andavano più bene, chitarra 164

rifatta più volte e io che mi ero fissato in modo maniacale sull’accordatura dei floor tom stressando Ellade Bandini. Pensa che Fossati mi ha raccontato che Ho visto Nina volare è il pezzo che hanno composto più in fretta, in un quarto d’ora. Sì, e si vede. E si vede anche che per questioni di debito karmico quella canzone doveva in qualche modo scontare la mancanza di sofferenza nella gestazione… Fossati quando è ispirato butta giù, vomita che è un piacere; quando è in vena gli viene tutto che sta in piedi subito, dalla a alla zeta. A Longiano mi sono fatto un’idea di come lavora, e mi ha impressionato; una canzone, quando il momento è giusto, è già bella e pronta. Invece Fabrizio amava costruire un po’ per volta: metti, leva, metti, togli ancora. Tra mille ripensamenti. A distanza di tempo ti posso dire però che Nina è venuta benissimo, e quell’estenuante tiro alla fune è stato in fondo salutare. Quale invece il pezzo che avete sviluppato più facilmente? Direi Anime salve. Era già ben dettato, completo nella forma. Avevo un provino di Ivano realizzato con il pianoforte e le frasi sono rimaste com’erano. Così mi sono limitato a orchestrare: tastiere, launeddas, colori vari e poi il groove del provino a cui Fabrizio si era affezionato, rifatto e migliorato con gli aggiustamenti di Naco ed Ellade. Quello, devo dire, è stato abbastanza facile. Però “facile” è una parola grossa, ogni pezzo ha avuto il suo calvario. Di Khorakhanè, per esempio, avevo il provino cantato da Fossati, e si presentava come una ballata in tre quarti. Io la percepivo come una lenta ballata country… se fosse stata in inglese avrei pensato alla prateria e a un’armonica a bocca, almeno a me faceva quell’effetto. Mah, era un clima che mi urtava e non mi ispirava. Allora via, tutto cambiato: arpeggio in ottavi e senza accentature, più spazio, e il cantato di conseguenza diventava sospeso, più magico. Fabrizio all’inizio non ne era convinto; si era affezionato al provino e io gli stavo cambiando i riferimenti. Ma poi con onestà mi ha detto: “dammi il tempo di abituarmici”. Su quella canzone avevamo anche dei dubbi di tonalità. L’abbiamo registrata in Sol, in Fa diesis e in Fa; versioni con un cantato sempre molto diverso, non tanto per il timbro dovuto ai semitoni di differenza ma per l’intenzione espressiva che cambiava molto. Sul cantato Fabrizio ha fatto un gran lavoro, di pura precisione, penetrando nel dettaglio. Non so quante sedute, e ogni volta andava a correggere una piccola inflessione, un respiro, un’increspatura. Aveva una curva di apprendimento sbalorditiva. La prima take poteva essere anche stonata e sgraziata ma poi migliorava, migliorava sempre e, una volta messo a fuoco un particolare, non lo dimenticava più. Fabrizio 165

Intervista a Piero Milesi

era così; pensa solo alla differenza di come cantava Marinella all’inizio della carriera rispetto alle ultime versioni. Era una ginnastica continua, che dava i suoi frutti perché era sempre concentrato a cantare meglio di come aveva fatto la volta prima. Un giorno, dopo il tour di Anime salve, mi ha detto: “Se dovessi ricantare ora il disco, lo farei in un giorno solo, e lo farei meglio”. Non ho dubbi. Avete lasciato qualche canzone per strada? Qualche pezzo abbozzato e non finito? Ricordo che Fabrizio mi aveva fatto ascoltare una canzone che allora non sapevo di chi fosse e che ipotizzava di inserire nell’album. E qui, pensa che coincidenza: proprio poco fa Walter Pistarini mi parla di Mis Amour, cantata da Fabrizio nell’album dei Li Troubaires de Comboscuro, e mi viene il sospetto. Walter me la fa sentire per telefono e… sì, la canzone era proprio quella. È una filastrocca medievale molto bella ma difficile da inserire in quel contesto, lo puoi immaginare, con tutti i brani firmati De André/Fossati. Per il resto, tutto quello su cui abbiamo lavorato è finito nell’album, che alla fine è diventato il più lungo dell’intera discografia. Siamo riusciti a farci stare dentro tutto, anche i pezzi “ritardatari”. Smisurata preghiera è stata a rischio fino alla fine. Era bella ma aveva una natura sfuggente. Il provino era fatto con una sola chitarra e a me sembrava troppo soft, troppo preghiera. Così ho provato a considerarla in modo opposto e ho proposto a Fabrizio di iniziarla con una batteria aggressiva, solo quella; la preghiera la sentivo estremamente ritmica, arrabbiata, al limite dell’imprecazione. Fabrizio c’è stato, quindi io mi sono messo a lavorare sulla musica e lui sul testo. È stato un momento molto buono quello, forse perché, con i ruoli più distinti, non ci “pacciugavamo” a vicenda. Non sapendo poi come chiuderla, mi sono inventato quella coda strumentale di mancoseddas che si muovono per quarte parallele, che ho scritto pensando a Mario Arcari. A Fabrizio la coda è piaciuta molto e mi ha fatto piacere sentirmi dire che Smisurata Preghiera avrei dovuto firmarla anch’io; in quella circostanza però non si poteva e mi promise che mi sarei ampiamente rifatto nel disco successivo. Alla fine ci arrivò anche un regalo dal destino, forse la preghiera era stata ascoltata: con sorpresa notammo che si attaccava benissimo all’adagio finale e venne facile decidere di unirli come ultimo brano dell’album. Quella scelta, inizialmente stimolata dalla musica e solo poi confortata dal significato del testo, andò a determinare la quadratura di tutta l’opera, in ogni suo aspetto – un piccolo miracolo, un segno di conferma che c’eravamo. Fabrizio in quel momento l’ho visto veramente contento, cosa rara quando sei perennemente in ansia e cerchi quello che non riesci trovare, ma continui a cercare, a cercare… Dopo anni di sforzi e fatiche investite in quella impresa, e mi commuovo se ci penso, in quel momento stava realizzando che la vetta era stata raggiunta e 166

aveva scollinato. Ora si poteva vedere dall’altra parte… La sua gioia era ovviamente anche la mia. Anche quella volta la musica aveva vinto, su tutto. Mi sembra che Le acciughe fanno il pallone sia stata l’ultima canzone dell’album composta – dico in ordine di tempo. Le acciughe fanno il pallone all’inizio proprio non c’era, è nata da un appunto di Fabrizio, credo, buttato giù una notte a casa sua. Mi ha chiesto se mi andava bene che l’arrangiasse Cristiano e a me andava benissimo, primo perché Cristiano è un bravissimo musicista, molto più bravo di come appare, e poi perché eravamo già al Metropolis a registrare e volevo rimanere concentrato sulla realizzazione. Cristiano mi aveva chiesto se si poteva far suonare una flautista molto brava che aveva conosciuto in Sardegna, una certa Michela Calabrese che nessuno conosceva. Non avevo obiezioni, di lui mi fido, e infatti; si è anche ottimamente integrata, nell’assolo di shanai di Arcari, con il violino pizzicato di Cristiano e con le ritmiche di Naco. Naco era straordinario, se senti quello che ha fatto nella coda di Prinçesa… così dotato di una buona conoscenza delle percussioni brasiliane, solo lui poteva incastrare quei ritmi in modo tanto articolato e nello stesso tempo fluido. In pratica le percussioni se le è fatte tutte da solo. Non mi hai detto nulla di Dolcenera… Era una delle canzoni che ci affascinava di più, avremmo voluto che fosse il singolo e la prima del disco. Ma era troppo lunga per quel ruolo; abbiamo anche provato ad accorciarla, e Fabrizio era disposto a riadattarne il testo, ma si snaturava e venivano fuori strani mostricini che… mmmmh. Non andava toccata. Così il singolo è stato Prinçesa, e Dolcenera è rotolata al quarto posto. È una canzone singolare, con quel particolare accompagnamento di chitarra imparato da Fabrizio quando era ragazzino dal suo insegnante di chitarra paraguayano. Come gli veniva bene poi, suonare in 6/8 e cantare in 3/4! Senti, ma tutte queste prove, questo fare e disfare… Esiste una documentazione precisa, esistono takes diverse e prove di lavorazione? Per quanto riguarda i testi, esiste qualcosa nel mio computer e degli appunti rimasti a casa mia; ma non ci spenderei troppe fantasie. È vero, sì, Fabrizio eliminava quello che poi ricopiava in bella ma, oltre che per prudenza, era anche per una questione di ordine. Avevo il salotto pieno di appunti e foglietti volanti, non ci si capiva più niente. A un certo punto ho pensato di battere alcuni testi al computer per averli in una pagina sola; poi lui ha continuato a correggerci sopra e alcuni fogli mi sono rimasti, vedi? Sino alla fine continuava a limare, a cambiare – un aggettivo qui, una verso là. Alcune cose le ha cambiate in extremis durante la registrazione definitiva. Sull’audio era 167

Intervista a Piero Milesi

più o meno la stessa cosa. Lui si fidava di me, ma i cantati della pre-produzione mi sono rimasti, privatissimi. In genere i cantati che non andavano bene li cancellavo mano a mano. Per quanto riguarda i provini delle musiche, basi appunti files DAT eccetera, ho conservato più o meno tutto. Un giorno dovrò fare un po’ di ordine. Ero estremamente ligio nel tenere tutto top secret e resistere alle curiosità degli amici, considerato che Fabrizio era anche terrorizzato che gli si potessero rubare le idee. Solo una volta, a disco praticamente finito, ho concesso un’anteprima a Franco Fabbri, di cui mi fido ciecamente. Sai, per un critico o uno studioso è diverso che per un musicista. Fabrizio aveva paura che per i posteri rimanessero cose imprecise, al limite fuorvianti. Lo studioso nell’imprecisione ci sguazza, negli errori trova magari conferma di una sua ipotesi, capisce un percorso, vede la crescita. Il musicista no, svela la sua opera al pubblico, amici a parte, solo quando la ritiene compiuta, sufficientemente giusta da esserne orgoglioso; anche per evitare il giudizio prematuro di colleghi spesso invidiosi. E guarda che questa prospettiva storica non è teoria. Faber ne era consapevole e me lo disse. Era convinto che anime salve avrebbe lasciato un segno profondo. Quanto è durata la lavorazione di anime salve? Guarda, così, a memoria… è durata da maggio del 1995 ad agosto del ’96; e se i primi due mesi sono stati a ritmo ridotto, diciamo che poi per un anno ci abbiamo dato dentro – sabati e domeniche compresi, e personalmente anche i giorni di Natale, Pasqua… e Capodanno qualche oretta. In genere lavoravo 10/12 ore al giorno, a volte anche di più. Avevo avvisato amici e parenti che sarei sparito per un anno e che potevano dimenticarmi. Quel che si dice full immersion… Fino all’Epifania a casa mia, poi in studio. Dove? Al Metropolis, dove Fabrizio aveva registrato le nuvole e che ci dava affidamento; a parte gli archi alle Officine Meccaniche di Pagani. E lì è successa una cosa veramente curiosa… vedi, lo studio è vicino al Naviglio, e sulla strada che lo costeggia ci passa il tram. E un giorno che avevamo una caterva di microfoni aperti per la seduta degli archi, il tram è passato in un momento particolare in cui si stava suonando l’adagio finale; e un cupissimo, appena percettibile, quasi subliminale rumore si è infilato in sottofondo. Se ci presti attenzione, a volume molto alto e con un buon subwoofer, si sente; ma non ti dico dov’è, devi scoprirlo. Be’, qualcuno avrebbe forse pensato di scartare quella take. Ma perché? Fosse stato, che so, lo scricchiolio di una sedia, ci avrebbe dato fastidio; quello invece lo abbiamo considerato un contributo sonoro e l’abbiamo lasciato. Aggiungi che con Fabrizio tutto assume un significato particolare… 168

Un intervento Cageano… Sì, e te ne racconto un’altra. Lavorando al provino di Smisurata preghiera avevo puntato tutto, come ti dicevo, sulla batteria che avevo registrato con suoni campionati, e che era ancora distante da quella suonata poi da Rivagli. Per farla sentire a Fabrizio, avevo aggiunto al volo uno striminzito pianoguida suonando solo il cambio d’accordo, raddoppiato con un suono tenuto tipo organo; giusto per capire dove eravamo e dove cantare. Poi, va da sé, in studio avremmo registrato un “vero” pianoforte con Alberto Tafuri, che trovavo perfetto per questa circostanza. Se non che, mentre lavoravo sul pezzo con Alberto, arriva Fabrizio e rimane sconcertato da quello che stavamo facendo. Si era affezionato a quel piano-guida, per me assolutamente provvisorio; ormai l’aveva assimilato, e non c’è stato verso di fargli cambiare idea. Alberto ha quindi risuonato il piano-guida, aggiungendo solo poche note di passaggio e minimi, ma efficaci, condimenti. A quel punto è toccato a me abituarmi a quel piano, che proprio non avrei mai lasciato così. Me ne sono fatto una ragione; di più, oggi lo trovo una genialata, sembra una finezza “ben pensata”. Prima dicevamo del record di lunghezza di un album di Fabrizio De André. Volendo c’è un altro record, che è quello dei musicisti impiegati: sono trentatré, qualcuno si è preso la briga di contarli… Trentatré sì, ma secondo la questura erano di meno, eh eh… E aggiungi la sezione d’archi, ventitré/ventiquattro musicisti. Sì, tanti musicisti, un bel via vai… Anche se la parte più impegnativa e creativa, devo dire, sono stati i mesi di pre-produzione a casa mia. Io volevo lavorare con calma al disco con delle tracce vocali di Fabrizio, così, per avere il suo colore, era un modo di orientarmi meglio; e avevo prenotato lo studio di un amico sui Navigli, perché un giorno mi buttasse giù quelle tracce. Ma Fabrizio era mal disposto, l’appuntamento era alle due e si è presentato alle cinque e, insomma, non ne aveva voglia. Ne registriamo una e “dai, facciamo tutto da te”. Fabrizio voleva lavorare in gran segreto, come dei carbonari… niente doveva trapelare di quello che stavamo facendo. Va bene, facciamo così. Avevo un buon microfono per la voce, ho fatto un buco nel muro per passare i cavi dallo studio all’antibagno e ho accrocchiato un gabbiotto di ripresa; lui stava lì, l’antibagno era la sua postazione per cantare, con la lavatrice su cui appoggiare posacenere, sigarette, matita e testi. “Belìn, ti faccio il bucato!”. Dunque, tre pacchetti di Faber e uno mio al giorno – ti lascio immaginare il colore dei muri dopo sei mesi, ho dovuto reimbiancare l’appartamento. Lui in genere arrivava il tardo pomeriggio e ci stava fino a notte; a volte lo accompagnavo a casa alle quattro di mattina e c’era da attraversare Milano, da Città Studi a zona Fiera. Tornavo che erano più o meno le cinque, per dirti la vita che facevo. Un’ora di pulizia al com169

Intervista a Piero Milesi

puter per fare chiarezza delle decine di tracce registrate, prima di chiudere e andare a dormire. Una volta mi ero assopito da poco e squilla il telefono. È Dori, mi avvisa che Fabrizio sta venendo da me. Ma che ore sono? Le nove. Le nove? “Sì, non riusciva a dormire e allora ha deciso di venire lì a far qualcosa”. Ma come… Mi alzo, con un sonno incredibile, e già suona il citofono. “Dai, ti faccio un caffè e lavoriamo, dai, va bene così che sono ancora caldo! Non potevo dormire.” Altro che caldo, io ero andato a dormire con la nausea del pezzo fatto e rifatto fino a tre ore prima, e neanche il tempo di uno straccio di sogno per staccare. Va be’, dai… Attacchiamo e dopo dieci minuti, ma che dico?, anche meno, lui oscilla e gli prende il coccolone. Oh cacchio! “Mi stendo un attimo. Tu lavora, lavora”. Eh già, il letto è uno solo e se lui lo occupa… Certo che devo lavorare, dove altro posso andare? Ogni tanto riemergeva dal sonno e lo sentivo smaniare: “Belìn, l’inciso! Cura l’inciso!”... e invece a me, combattendo con il sonno, andava di lavorare sulla strofa. Insomma, si alza alle quattro, bello come il sole, mentre io non sapevo neanche più come mi chiamavo. “Ti faccio un bel caffè, dai, con la schiumetta”. Mai visto così gentile, e dopo il microristoro: “Oh bene… adesso, però, SI LAVORA!”… Non so cosa gli avrei fatto! Dopo l’uscita del disco me l’ha confessato: “sì, è vero, ti ho un po’ stressato, avevo paura che tu perdessi la tensione.” Be’, lavorando giorno e notte non c’era da temere. Quindi, cosa devo dirti? È stata una faticaccia, ma anche un onore, un’esperienza che mi ha cambiato; ma sapevo anche che non poteva durare per molto. E così a un certo punto, a disco chiuso, dopo avere fatto insieme a Michele Ascolese la direzione musicale del tour dei palasport, dopo averlo aiutato per Marinella con Mina (in pratica la coproduzione artistica, e mi riprendo almeno il credito), e mentre stavo già lavorando al prossimo tour, quello nei teatri… insomma, con grande fatica mi sono chiamato fuori. Ero completamente “Deandreizzato”, avevo bisogno di recuperare la mia vita. Così un giorno gli ho detto, in modo un po’ solenne: “Fabrizio, ti devo parlare perché è un po’ di notti che non dormo niente.” “Belìn, ti do io, tre gocce di questo, due pasticche di quello, poi mezza pasticca di…” Lui era bravo a fare il piccolo chimico. “No, no, Fabrizio non è quello il problema.” “Ma dai, fidati, quattro gocce di whisky, mezza goccia di quello – fai una bomba e vedrai che dormi come un angioletto”. “No, no, no, Fabrizio, io proprio non ce la faccio più. Mi sa che ti lascio. Lascio.” Lui allora resta in silenzio, cambia espressione. “Belìn, ma non mi lasciare nella merda.” “Stai tranquillo, sto ancora con te un mese, due, il tempo di passare tutto a chi verrà… poi voglio pensare al mio nuovo disco che ho lasciato per aria quasi due anni fa.” “Sì, io ho lavorato tutta la vita solo per me e… fai bene.” Mi ha abbracciato, lo ricordo come fosse ora, forse perché ha visto che in quel momento ho cercato di essere sincero, non volevo ingan170

narlo con scuse tipo quella del parente in fin di vita. Non sai come si irrigidiva quando gli si contavano delle musse. “Stai tranquillo.” Ho lasciato tutto a Mark Harris: gli appunti, le sequenze del tour precedente, i provini, tra cui il ritorno di Giuseppe che avevo appena finito di riarrangiare. Avevo l’umore di chi stava traslocando e mescolavo sentimenti diversi; l’entusiasmo di riprendere ossigeno rientrando nella “mia” realtà e anche un po’ di malinconia per le cose che lasciavo. Poi ogni tanto ci siamo sentiti, raramente per la verità. Mi chiamava domandandomi come mi sembravano i suoni del nuovo tour, e mi parlava del nuovo disco che intendeva fare. E alla fine di questo lungo racconto? Alla fine ti dico ancora una cosa su quella famosa coda di Khorakhanè. Come ti raccontavo prima, avevamo fatto il patto di essere d’accordo su tutto, anche se poi verso la fine, per ragioni di pragmatismo, quel patto si era allentato. Bene, quando gli feci ascoltare il mio provino, nonostante un po’ di legittimo timore, mi sentivo fiducioso. Bene, lui lo ascolta e… mentre lo ascolta avverto che, mmmmh, le cose non gli tornano. Il pezzo finisce e mi dice risentito: “Eh, belìn, m’hai fatto una sinfonia!”. Io ci resto malissimo. Ma come… era il primo pezzo che affrontavo, ne ero orgoglioso, ci ero stato dietro una settimana… e lì non sono stato diplomatico: “Guarda, se cambi una nota, una sola nota, io non ci sto. Sul resto puoi cambiarmi tutto... qui no!”. Evidentemente era rimasto spiazzato. Si aspettava una cosa diversa, più spaziale, con molti pedali; un po’ alla Pink Floyd, per capirci. Per me invece era perfetta così, e anche dal punto di vista della citazione storico-geografica mi sembrava pertinente. Poi arriva Dori, gliela facciamo ascoltare e lei: “ A me piace, bella.” E Fabrizio a quel punto deve abbozzare, i patti sono patti. “Va be’, come vuoi tu”. Però ogni tanto ci ripensava, gli era rimasto l’ossicino e non sopportava di non potere metterci becco, anche se poi in quel breve intervento di organetto c’è la sua mano. Passano circa otto mesi e, un paio di giorni prima di andare a registrare gli archi, mi fa: “Senti, della coda di Khorakhanè pensavo una cosa… e se gli archi rispondessero alla prima frase del cantato a canone?”. E me la canta. Io soffrivo. “Ah no!” e meno male che quella volta sono stato lesto a rispondere, “non si può, questo l’ha già fatto Venditti.” “Ah, se l’ha fatto Venditti allora no, no!”. Pensa, salvato da Venditti. Bene, la registriamo finalmente con l’orchestra e alla fine della seduta siamo tutti soddisfatti, compresi i professori d’orchestra che si complimentano. E Fabrizio, con la più bella faccia di bronzo che si ritrova, mi fa: “Eh belìn, te l’ho sempre detto che questo è il pezzo forte del disco!” Ma come, m’ha fatto morire otto mesi con ’sta roba di cui io ero convinto e lui no, e alla fine se ne esce così, serafico: “Te l’avevo detto, io”. L’avrei strozzato. Ma ero troppo contento quel giorno, e lui anche. 171

INTERVISTA

Il primo De André della tua vita… Quello di un juke box nel locale che gestiA OLIVIERO MALASPINA vano i miei genitori, quando ero piccolisVoghera, marzo simo. Ricordo che in questo jukebox c’era e novembre 2011 Delitto di paese. Io sentivo quella voce e quelle parole e non capivo bene, ero un bambino, ma la voce era pazzesca. Lì mi sono innamorato di Fabrizio. Subito, ero così piccolo che dovevo salire su una sedia per far girare la rotella e cercare i tasti. Poi è venuta in aiuto mia sorella, che aveva tutti i dischi di De André, e poi ci ho messo del mio, ad ascoltare, a studiare. Il primo Malaspina cantautore, invece… Ho cominciato a scrivere all’inizio degli anni ’80; meglio, a buttar giù cose, ma senza molta convinzione. Oltretutto non avevo voglia di passare per i discografici. Diciamo che l’inizio vero e proprio è stato un premio Rino Gaetano. Non ricordo l’anno preciso e neanche i nomi degli organizzatori, so che le selezioni si tenevano alla sede di Antenna Tre, a Castellanza; e che c’entrava anche Radio Italia, che passava i pezzi. Gli ascoltatori di Radio Italia Solo Musica Italiana dovevano votare con un tagliando che trovavano sul Radiocorriere TV. Giuro che non ne ho mai spedito uno, ma sono arrivato in finale, anzi, ho vinto, ma non mi hanno dato il premio. Perché non ti hanno dato il premio? Perché ero totalmente ubriaco, impresentabile. La serata finale era in una discoteca fuori città, tra Milano e Abbiategrasso, e c’era una piscina con bar. Fino all’esibizione mi sono contenuto, poi io e la mia corista ci siamo detti: “Ma a noi, in fin dei conti, che ci frega?”, e giù spumantini, giù bianchini, tempo mezz’ora ed eravamo stesi al suolo. Ci hanno riportati a casa gli altri, non ricordo neanche come ci sono arrivato. Poi mi hanno spiegato che mi avevano cercato per la premiazione ma ero nello stato che ho detto. “Guarda che il premio l’avevi vinto tu, ma abbiamo dovuto darlo al secondo perché tu non eri presentabile!” Questa però è la preistoria. Perché i tuoi primi album vengono ben dopo, negli anni ’90… Sì, Caravaggio è del 1995, Hai Hai Hai dell’anno dopo. Poi ho fatto Benvenuti mostri, che è uscito come mio album “solo” anche se in origine l’idea era quella di farlo con Fabrizio. Ecco, fermati. Il tuo incontro con Fabrizio De André. 173

Intervista a Oliviero Malaspina

Be’, allora devo parlare di un altro premio, che è il Premio Recanati, che ho conosciuto quasi per caso e poi è diventato una mia riserva speciale. Un giorno ho visto un annuncio, era sul Corriere mi pare, che riguardava questo premio; e soprattutto ho fatto caso alla giuria, al comitato artistico di garanzia, in cui c’erano Fabrizio De André, Mauro Pagani, Sergio Endrigo, Teresa De Sio. Caspita che bel comitato di garanzia, mi sono detto, vediamo cosa succede se mando qualcosa di mio. Eh, passa un po’ di tempo e mi arriva un telegramma: “Complimenti lei è nella rosa dei trenta prescelti per andare alla finale”.Va be’, sarà uno scherzo oppure sì, sarò uno dei trenta e finisce lì. Invece dopo un po’ mi arriva un altro telegramma che annuncia la mia vittoria. Quindi il primo aggancio con De André ce l’hai avuto in quella occasione, perché lui era uno dei giurati e quindi uno di quelli che ti ha ascoltato. Diciamo che lui mi ha ascoltato, certo, però come gli altri. Non è che mi abbia chiamato dicendo “genio assoluto, corri da me”. Non è andata così. Che idea ti sei fatto di quella sua esperienza da giurato? Che era un giudice scrupoloso, con altri giudici altrettanto seri. Un giorno, spulciando negli archivi di Musicultura, ho sbirciato i giudizi e ho visto quello di Fabrizio sulla mia seconda vittoria, Figlio di un do Minore. E c’era scritto: “Bella la sivigliana, peccato che l’abbiano già fatta a Siviglia.” Poi aggiungeva: “Molto bello il testo.” E c’erano anche i commenti riguardanti gli altri. Senti, qui però va spiegata una cosa: che tu il Premio Recanati l’hai vinto per tre anni, nel 1991, 1993, 1994, e che De André è stato giurato in tutte le occasioni. Sì, è stato giudice in tutti gli anni in cui ho vinto ma non è che fossi raccomandato. Per inciso poi, sembra non sia una leggenda metropolitana che io abbia vinto un quarto premio Recanati e non me lo abbiano dato per paura delle polemiche. Rischiavano di passare per imbecilli, continuando a dare premi a chi poi non veniva preso dai discografici, e magari qualcuno poteva pensare che fossimo in combutta, che ce la cantavamo e ce la suonavamo io e il Recanati. O ancora, terza ipotesi che preferisco, il Premio andava al più meritevole e molto semplicemente i discografici non capivano niente. Comunque sia, il Premio io me lo sono goduto, è stato un onore, e fra l’altro lì ho incontrato Cristiano e stretto dei rapporti con lui. È stato tramite lui che sei arrivato personalmente a Faber? Sì e no. Nel senso che l’avevo già incontrato una volta tramite Michele Ascolese, per via di una tesi scritta da un amico che volevo fargli arrivare. 174

Era una tesi intitolata “Questioni di generi nella canzone d’autore”, dove si analizzavano testi di Dalla, De Gregori, Guccini, De André. Sono andato a trovarlo in camerino, a Milano, al Teatro Smeraldo, e lui si è appassionato subito, si è buttato a leggere ed era sinceramente stupito: “Nessuno ha mai sezionato così bene queste canzoni”. Sono andato a salutarlo anche alla fine ma niente di che, un incontro fugace. Con Cristiano invece, dopo il primo incontro e le solite promesse, “magari ci sentiamo un giorno e facciamo qualcosa insieme”, è nata una sana collaborazione. Insieme abbiamo composto Notti di Genova ed è nata una reciproca stima, e volentieri gli ho fatto avere il mio primo libro di poesie, Vivere davanti alla luna fredda. Ora, io non lo sapevo ma quel libro finì nelle mani di Fabrizio, e una sera che tornavo in auto da Milano, suona il cellulare ed è Cristiano. “Sono proprio contento di Notti di Genova” dice, e barabì barabà, “adesso ti passo un amico che vuole parlarti”. Accidenti, era Fabrizio, che mi dice: “Ciao, sai che scrivi proprio bene?”. “Grazie!”, balbetto io. “Senti, vedi se riesci tra qualche giorno, tieniti in contatto con Cristiano, a venire a casa mia dieci minuti.” Certo, come no, devo avergli buttato giù il telefono perché sai come succede certe volte, uno non capisce più niente, tipo zig zag in autostrada terrorizzando il prossimo. Insomma, mi ero emozionato. Mi riprendo, qualche giorno dopo richiamo Cristiano e lui mi dà il numero di suo padre. “Quando possiamo vederci?” “Dopodomani alle quattro,” dice lui, “perché io non mi alzo molto prima.” E allora va be’, due notti insonni come puoi immaginare, fatto sta che dopo cinque minuti io con Fabrizio mi sentivo come se ci avessi passato la vita. Una cosa folle, e guarda che non c’entravano le canzoni ascoltate prima, c’entrava proprio la persona, il contatto umano. Cinque minuti per essere a mio agio e avere l’impressione che lo conoscevo da sempre. Avete parlato subito di fare qualcosa insieme? Molto vagamente, è stato tutto vago per un po’. Diciamo che abbiamo cominciato ad annusarci, tant’è vero che dopo quel primo incontro ne sono venuti altri e poi telefonate, molte telefonate quasi tutti i giorni. E poi, un po’ sul serio e un po’ per gioco, abbiamo cominciato a buttar lì dei progetti: un romanzo a quattro mani, anche se Fabrizio era già impegnato con Gennari per un altro libro dopo Un destino ridicolo, un Dizionario della Musica, che non è mai nemmeno partito, e un Dizionario dell’ingiuria, per cui invece mi sono divertito a compiere delle ricerche in biblioteca. C’è stato un periodo in cui mi sono proprio buttato, ho raccolto una pila di documenti e li ho messi lì per farli vedere a De André, quando mi avesse chiamato. E, per darti l’idea di chi era Fabrizio anche umanamente, ti racconto questa storia. Mentre sto facendo ricerche per questo Dizionario dell’ingiuria, mi rilasso nei ritagli di tempo con la playstation. Prendo un gioco di simulazione sulle società calci175

Intervista a Oliviero Malaspina

stiche e divento manager dell’Empoli, perché a me piacciono le cose difficili; non vado a prendermi la Juventus che ha una caterva di soldi, no, vado a impiccarmi con l’Empoli che non ha una lira, che deve salire dalla B alla A o non so se era appena entrato in A. Da lì cambio un po’ di giocatori, spendo dei soldi, poi mi chiedono di fare il cambio luci per le partite in notturna, una cosa e l’altra… il conto in banca comincia ad andare in rosso, anzi proprio sprofonda. A un certo punto la banca mi dice che devo vendere un giocatore importante per poter rientrare. Insomma, in pieno trip per le disperate condizioni economiche dell’Empoli Calcio, mi telefona Fabrizio e mi dice: “Come sta andando il lavoro?” “Senti,” gli rispondo, “puoi chiamarmi tra cinque minuti?”, e butto giù il telefono. E questo sicuramente non gli è piaciuto… e vado avanti con questa catastrofe multimediale, chiamiamola così, finché non mi stroncano del tutto, la direzione mi licenzia e… richiama Fabrizio: “Allora?” “Scusa,” gli dico, “chiamami fra dieci minuti perché sono nei guai, sto fallendo con l’Empoli Calcio.” “Ah, belìn , allora ti richiamo dopo.” Passano dieci secondi, venti al massimo, e mi richiama: “Cazzo, ma io non sapevo che eri impiccato con le azioni dell’Empoli, dimmi come posso aiutarti a uscire da questa merda di situazione, perché mi sembri disperato!” Al che gli dico: “Ma no, Fabrizio, guarda che era un gioco di simulazione!” “Ma sei proprio una testa di minchia,” sbotta lui, “sei un cazzone, mi hai fatto spaventare, mi è venuto un mezzo infarto. Dai, piantala con quelle stronzate, vieni dopodomani a Torino, al Colosseo, che dobbiamo parlarci.” Fortunatamente quando ci siamo visti a Torino, al Colosseo, sono stati baci e abbracci e non è successo nulla; in effetti mi ero comportato da stupido e temevo che ce l’avesse con me. Ho venduto la playstation immediatamente e basta con quel cacchio di giochi di simulazione. Di che periodo stiamo parlando? Direi 1995, perché era l’epoca in cui stavo lavorando con Cristiano, aiutandolo a rifinire Sul confine. Fabrizio in quel periodo era agli inizi del lavoro con Fossati per Anime Salve, e pendolava tra Milano e Longiano. Una cosa che mi è rimasta impressa è che io arrivavo a casa di Fabrizio con due borse, e dentro c’erano cose che riguardavano i nostri progetti e cose mie, non so, appunti di poesie, appunti di racconti. Sai perché c’è un ringraziamento a Fabrizio sul mio libro di racconti? Perché molti me li ha salvati lui, nel senso che io cestinavo furiosamente, a casa mia o quando andavo da lui. E Fabrizio, vedendomi sempre strappare qualcosa, non capiva. “Ma che cazzo continui a strappare?” “No, guarda Fabrizio sono dei racconti, non…” “Fa’ un po’ vedere. Mmmh, questo lo terrei, questo lo terrei, questo rimettici le mani, sì, dai, rimettici le mani.” Gli ho dato retta, me li sono tenuti e li ho aggiustati. Sono finiti tra i racconti Del pesce che piange e che ride, e lì c’è un ringraziamento 176

a Fabrizio perché senza quel suo consiglio non li avrei mai finiti, non avrei mai chiuso il libro. Un giorno Fabrizio mi dice “Senti, ho questi carboncini fatti con Ivano, vuoi mica metterci un po’ di colore?”. Offerta molto interessante ma io, preso da terrore assoluto, rispondo: “No!”. Fabrizio si stupisce: “Perché?” “Perché sto lavorando a un mio nuovo libro di poesie.” “Fammele vedere,” dice lui. Io ne tiro fuori due o tre e lui apprezza: “In effetti sono molto belle.” Va be’, si era incazzato ma non me l’ha fatta pesare. “Sono molto belle, ciao, tienile”. Nel frattempo la collaborazione con Fossati era andata a catafascio ed era subentrato Milesi. Insomma, continuavate ad annusarvi ma niente ancora di preciso… Sì, niente, fino a quando un giorno lui mi dice: “Senti ragazzo, facciamo una cosa: tu mi apri il tour.” L’ultimo che ha fatto? Quello del ’97-’98? Sì, quello di Anime salve. Con i musei delle cere, come diceva lui, Bocca di rosa e quelle reliquie. Al che gli dico: “Fabrizio, ma sei sicuro? Io ti apro un tour?” Be’, non sbagliavo a essere titubante, perché non era un’apertura classica. De André quel tour l’aveva strutturato in modo molto particolare. Io non ero il supporter che suonava alle sei del pomeriggio, mentre la gente si prepara e mangia il panino con la lattina di birra. Io ero quello che apriva lo show e dopo di me non c’era nessuna pausa, era tutto di fila: e fra l’altro io salivo mentre tutti aspettavano Fabrizio. Due brani miei, poi subito lui con il primo tempo. Pausa, poi due brani di Cristiano e il secondo tempo. Era uno spettacolo molto lungo e senza nessuna interruzione, e Fabrizio era così convinto della formula che sulle locandine c’era solo il suo nome, mai il mio. Non che io ci tenessi in maniera particolare, ero già contento così. Però il mio nome non c’era ed era una cosa che lui aveva fortemente voluto: “Vedi, siccome devo produrti un disco, voglio vedere la reazione del pubblico, che si aspetta me e si trova uno che non ha mai visto.” In effetti venivo accompagnato sul palco al buio, poi si accendevano le luci e c’era questa reazione tutte le sere, aaaaaaaaaah. La volta più terribile è stata a Nuoro perché c’erano dodicimila persone nell’anfiteatro e tremila fuori che non riuscivano a entrare. Tutti che aspettano Fabrizio De André e arrivo io… e senti questo noooooooo di gente sconcertata. Quella volta ho detto “Be’, non fate così, in fin dei conti faccio solo due pezzi, poi arriva Fabrizio.” Mi sono guadagnato un applauso tiepidino. Alla fine del primo pezzo dicevo sempre: “Piacere di conoscervi, sono Oliviero Malaspina.” Una sera a Nuoro mi hanno risposto in sardo: “Piacere nostro.” Bellissimo. Comunque, io tutte le sere vivevo quello stress.

177

Intervista a Oliviero Malaspina

Che canzoni facevi? Facevo Segnali di fine corsa e Il silenzio e la luce. Però Il silenzio e la luce non nella versione di Scaramante ma con una musica mia e di Eros Cristiani, che mi accompagnava al piano. Quindi sul palco eravamo: io alla chitarra, Cristiani, Michele Ascolese e Giorgio Cordini alle chitarre. Ed è andata sempre bene, ho fatto tutte le date fino a Saint Vincent, quando è successo il fattaccio, quando Fabrizio si è sentito male sul palco. E quindi, a Saint Vincent, eravamo tutti al ristorante come degli idioti ad aspettare che ci dicessero qualcosa. Poi a casa, due giorni dopo, mi ha chiamato lui: “Guarda, non c’è niente di buono, comunque noi continuiamo a lavorare.” Perché nel frattempo lui aveva elaborato questo progetto, queste quattro suites di venti minuti con una scrittura di prosa poetica che per lui era una novità, una sfida: non era poesia, non c’erano rime baciate come usava solitamente. Per intenderci, non era la formula di Bocca di rosa e anche l’estensione dei pezzi non rientrava nei canoni della canzone. Questa quadrilogia era incentrata sul tema della notte, e avevamo cominciato a lavorarci quando è intervenuto quel malore e ha dovuto sospendere il tour, e curarsi pesantemente. Non ha mai mollato. “Continuiamo a lavorare, non c’è nessun problema,” e lo abbiamo fatto fino alla settimana in cui è stato ricoverato, e poi non l’ho più visto. Senti, questo progetto dei Notturni è uno dei luoghi più misteriosi e affascinanti di De André. Qualcosa è trapelato ma molto poco, e c’è l’idea che tutto fosse a uno stadio molto embrionale… Embrionale… Guarda, per la musica non so ma per i testi sono parte in causa e posso dirti che eravamo ben oltre l’embrione. I testi erano finiti, punto. Io li conservo in copia anastatica, depositati in una cassetta di sicurezza; Dori, non so dove, ma li ha anche lei, in originale. Te li posso far vedere, troverai che ci sono tracce di due penne diverse: io scrivevo con una penna nera, Fabrizio correggeva con una penna blu. All’inizio del lavoro Fabrizio non stava così male ed era per così dire il capo cordata, era lui che procedeva a imbastire la struttura dei testi. Verso la fine, perché davvero abbiamo continuato fino all’ultimo, quel lavoro di imbastitura generale era stato delegato a me e lui interveniva per correggere. Quanto è durato il vostro lavoro insieme? Be’, fai conto che Fabrizio ha cominciato il progetto dei Notturni ancora fresco di Anime salve, prima del tour. Io ero anche stupito di tutta quell’energia, perché ti ho detto dei progetti che mi aveva fatto balenare, quelli dei Dizionari, e magari un altro romanzo. Era insolito per lui non darsi tregua, era come se sentisse che erano gli ultimi giorni.

178

Aveva anche degli impegni con la casa discografica: doveva ancora tre album, a cadenza grosso modo biennale. Guarda, io su queste cose sono molto naïf, ero tutto concentrato sul progetto e ne so poco. Ricordo vagamente che si accordò con la casa discografica per un minimo garantito, credo trecentomila copie, ma tutta la mia attenzione era rivolta ai testi, perché era una scommessa eccitante e difficile. Dopo Creuza de mä, dopo anime salve un progetto così era sconvolgente, con un linguaggio di prosa poetica completamente nuovo. In una scena come quella italiana, solo lui poteva avere il coraggio e l’audacia di una mossa simile. Da quello che so, pensava di coinvolgere un’orchestra di almeno 40 elementi e di affiancare nella parte musicale Mark Harris, Piero Milesi, Mauro Pagani e sicuramente Cristiano, come supervisione e forse come arrangiamento. So che i giornali hanno parlato di Luciano Berio, ma io non ne ho mai saputo nulla. Posso dirti che personalmente avevo proposto Eros Cristiani, il pianista che dicevo prima. Come lavoravate? Lavoravamo a casa sua, ore e ore: all’inizio con il massimo della tranquillità, alla fine con un po’ di ansia per tutto quello che stava accadendo. A volte ci ponevamo degli obiettivi che non riuscivamo a raggiungere, perché lui inevitabilmente si stancava. Lavoravamo a frames per creare una struttura, per dirla con Umberto Eco. Alla fine abbiamo definito quattro notturni, quattro diversi sguardi al mondo delle tenebre: la notte come cecità del potere, la notte come luogo di riscatto dei perdenti, la notte come momento per la morte. L’ultima suite, la più grandiosa, era la notte come fenomeno atmosferico, come pausa del giorno e della luce, secondo il De Rerum Natura di Lucrezio. A Fabrizio piaceva quella connessione con il mondo classico e il legame che così si stabiliva con Le nuvole di Aristofane, l’opera che gli aveva fatto da guida dieci anni prima. Perché questa vicenda dei Notturni è rimasta così segreta? Proprio segreta non direi. Fai conto che fin dal 1997 Guido Harari, a un congresso se non ricordo male a Padova, aveva accennato a questo lavoro in corso; e Mark Harris aveva fatto sapere che stava lavorando a una parte delle musiche. Quando Fabrizio è morto, io sono rimasto così sconvolto da cedere alle insistenze di Mario Luzzatto-Fegiz e gli ho passato alcuni versi, una minima parte di quello che avevamo definito. Sono finiti in prima pagina sul Corriere della sera. Ho chiarito che il mio non era un atto di vanità o una appropriazione indebita, per brillare di luce riflessa, ma Dori si è inalberata e il giorno dopo sempre sul Corriere ha voluto puntualizzare. “Devo difendermi,” vado a memoria. “A questo punto chiunque può dire che stava lavorando con Fabrizio.” Lì ci sono rimasto veramente male: io non ero chiunque, io per 179

Intervista a Oliviero Malaspina

settimane, fino alla metà di novembre del ’98, sono stato l’unico che aveva accesso a casa sua, oltre ai medici e naturalmente ai familiari. Non poteva entrare nessun altro. Non ho voluto fare polemiche ma ci sono rimasto malissimo, considerando l’affetto che univa me e Fabrizio e la stima che aveva nei miei confronti. Fin dall’inizio dei Notturni, nel 1997, lui aveva voluto che mi legassi con un contratto in esclusiva alla sua società di edizioni, Le nuvole, e oltre a quel disco insieme c’era anche l’idea di un album mio con il suo contributo e la sua produzione. Nella cassetta di sicurezza in cui stanno i Notturni ci sono anche alcune canzoni scritte insieme, che non ho voluto pubblicare in Benvenuti mostri ma su cui ogni tanto ritorno, e non so bene che ne farò. Una dovrebbe eseguirla Cristiano nel suo nuovo album a cui sto collaborando. Si chiamava Dal nulla, diventerà La bambola. È ispirata a un personaggio di Dylan Dog, Johnny Freak. In quel periodo con Le nuvole avevo scritto anche un pezzo per Milva, un altro progetto abbandonato; un disco in cui doveva stare anche Lunfardia, quella canzone di Roberto Ferri e Fabrizio che qualche anno fa è stata passata a Celentano. Hai mai provato a pensare a come sarebbe cambiata la tua vita se il disco dei Notturni fosse uscito? Sì, ma non è un esercizio che mi piace. Vorrei che Fabrizio non fosse morto, questo sì, Notturni o meno. È chiaro che avrei tenuto moltissimo a vedere completato quel progetto, è chiaro che si tratta di un’occasione perduta. Ma è altrettanto chiaro che non capita tutti i giorni di collaborare con un Fabrizio De André, e a me è toccato quel privilegio. Io ritengo che i miei testi siano difficili per lo standard della canzone, figuriamoci poi in un’epoca di bassa marea come questa. E non solo difficili, anche intensi, fino a fare male. Io ho questa idea della canzone: che se vai a scavare, le cose belle o sono estremamente divertenti e sciocche o sono molto, molto tristi e devastanti. Tutte le vie di mezzo non valgono, sono il “paraculame” che ci sorbiamo in questo periodo. E allora, stando così le cose, Fabrizio e Cristiano sono stati gli unici a darmi fiducia e a capire che potevo dare qualcosa di valido. Sarò loro sempre grato per questo.

180

La paura dura più dell’amore Fatti e misteri dei Notturni di Fabrizio De André di Riccardo Bertoncelli

“C’

era già un’idea molto generale; una grande suite, di tono quasi operistico. ‘Che colore vuoi?’, gli domandai. ‘Una musica solare, positiva, o qualcosa di negativo, di cupo?’ ‘Cupo?’, fece lui. ‘Altro che cupo. Dev’essere il requiem di questo secolo.’” Mauro Pagani fu l’unico a parlarmi dei Notturni, nel giro di interviste del 2002 che sta alla base di questo libro. Non li chiamò così ma il progetto era quello, e quando Faber era morto se n’era parlato, anche se solo per una breve stagione, sull’onda dell’emozione. Si era scritto che De André voleva onorare la figura di un amico sardo morto da poco e per quello aveva vagheggiato una suite di quattro movimenti dedicati alla notte come fenomeno fisico e come metafora – il buio della ragione umana, la cecità del potere, il nascondiglio dei reietti. Aveva fatto circolare l’idea tra i collaboratori più fidati e ne aveva accennato anche a un conterraneo all’apparenza lontanissimo, Luciano Berio. Che straordinario allineamento musicale! Peccato che tutto fosse rimasto allo stato embrionale, un pour parler tra gioco e utopia. Intervistato alla morte di Faber, Berio aveva confermato l’amicizia (“recente”) ma smentito ogni frutto di collaborazione; e più che dei Notturni aveva volentieri parlato di un provocatorio progetto di inno nazionale che era tornato più volte nei discorsi fra lui e De André. “Ci eravamo divisi i compiti: a lui toccavano i testi, a me la musica. E io intanto la musica l’ho scritta. Purtroppo mancano le sue parole.” (Repubblica, 12 gennaio 1999) “Non ho mai scritto una sola nota per i Notturni,” mi ha confermato Pagani ancora di recente. “Non ce ne fu il tempo. Fabrizio mi accennò della cosa e nel giro di un mese seppi che si era ammalato. Non l’ho più neanche rivisto fisicamente. Ci siamo fatti lunghe telefonate e, più che di lavoro, si parlava di vita, dei fatti nostri – e spesso, volentieri, con allegria.” Anche Piero Milesi mi ha confessato di non essersi molto dedicato al progetto, di cui pure era stato informato. “Scrissi qualcosa nel periodo in cui ero a Bonassola, sarà stato il 1997 o il ’98. L’idea mi piaceva ma non avevo fretta; i tagli lunghi sono il mio pane, poter scrivere musica fuori dalla gabbia della canzone, per un quarto d’ora, era stimolante e toccava le mie corde. Sapevo della suite, da quel che ricordo dovevano essere coinvolti anche Mauro e Mark Harris, e magari Luciano Berio. Certo, c’era il rischio che fossero contributi troppo diversi e magari in contrasto, ma Fabrizio aveva fiducia: ‘la mia voce poi incolla tutto’. Ricordo che come viatico per il nuovo lavoro mi consigliò un libro: ‘Piero, leggiti la Palude definitiva di Giorgio Manganelli, perché nei Notturni il tuo quarto verterà su quello.’ Lui aveva sempre dei riferimenti letterari, amava Manganelli e quel libro soprattutto lo aveva colpito. E ha colpito anche me, l’ho trovato addirittura profetico da un certo punto di vista. Il mio pantano si chiama vita, l’ultimo scorcio della mia vita. Mi sono riconosciuto nel protagonista che non ha colpe e pure si ritrova a scappare, e resta impaludato.” 183

La paura dura più dell’amore

Un germoglio gelato sul nascere, questo dei Notturni – sembrerebbe tutto chiaro. Un giorno del 2007 Gino Castaldo accompagna Dori Ghezzi a Siena, al Centro studi Fabrizio De André presso la biblioteca della Facoltà di Lettere, dov’è conservato l’archivio di libri e carte di Faber. Sul Domenicale di Repubblica racconta quella visita. “Sul retro bianco di un libro leggiamo un’annotazione che fa sobbalzare i presenti: ‘Notturno delle raganelle, notturno del vento’, e poi continua: ‘Un intero raggio di sole/ (la raganella disidratata sul vetro inaridì/ evaporò/ bevve il sangue verde)./ Il falco gira e gli attribuiscono infamie/ e arriva l’acqua, come sempre in ritardo’. È l’unico appunto rimasto di quella che sarebbe stata la nuova opera di Fabrizio De André. ‘Sì, era la sua ultima idea’, conferma Dori Ghezzi guardando assorta il foglio. ‘Evidentemente dettato dal suo stato d’animo, dal suo inconscio, c’era il desiderio di lavorare su questi quattro Notturni, chiamiamoli anche Requiem, cercando di vedere i vari aspetti del buio, sia il fenomeno atmosferico sia la cecità, il non voler capire le cose. Ogni notturno aveva un suo modo di rappresentare il buio, compresa la morte, ma è rimasto tutto nella sua testa, non è riuscito a cominciare. Sono rimasti solo questi brevi appunti. Aveva in mente di chiedere a quattro compositori di scrivere quattro diverse musiche su cui avrebbe messo dei testi. Sicuramente uno doveva essere Mauro Pagani, pensava a uno in chiave jazz, l’altro più classico. Forse inconsciamente già presagiva la fine, chissà, poi è andata com’è andata. C’era il tour ma si sentì male, dovette interrompere e l’idea è rimasta lì. Mi piacerebbe che i quattro Notturni venissero comunque scritti, ora vedremo se riusciamo a riprendere l’idea.’ L’idea viene in effetti ripresa – purtroppo. Nel 2009 la Fondazione De André indice un concorso tra appassionati per premiare una canzone ispirata a quel frammento di Notturni e a un altro nel frattempo riemerso. Raganelle di luglio, cicale notturne del prato trafitte all’alba da un intero raggio di sole sul diafano inganno di un vetro. E il Maestrale si avventò rabbioso sull’intera brigata di sughere pettinate all’Umberta. Il concorso è vinto da Notturno dalle parole scomposte di Jeri-Di Tollo, interpretato da Andrea Barsali (chitarre) e Chiara Jeri (voce). No comment. C’è qualcosa che però non torna. Immediatamente dopo la morte di De André, gennaio 1999, una vecchia volpe delle pagine degli spettacoli, Mario Luzzatto Fegiz, ha portato alla luce una traccia sorprendente a proposito dei Notturni, intervistando un giovane cantautore da qualche tempo legato a De 184

André, Oliviero Malaspina. La notizia della morte si è appena diffusa, Malaspina è sconvolto e quasi in lacrime cede alle pressioni del giornalista che gli chiede lumi sulla loro collaborazione. Gli racconta del progetto e dei mesi passati a lavorare, come farà poi con più dettagli nell’intervista pubblicata nelle pagine precedenti; e soprattutto gli consegna alcuni versi che han tutta l’aria di essere stati ben lavorati e meditati. Il Corriere della sera del 13 gennaio 1999 ne pubblica una parte in una manchette in prima pagina. Un secondo frammento compare nelle pagine interne. È uno scoop che fa sensazione ma l’effetto è breve. Dori Ghezzi getta acqua sul fuoco e non dà ufficialità a quei testi, rilasciando un comunicato che intende chiarire quella e altre questioni similari. “Dori Ghezzi ha più volte espresso il desiderio che la privacy di suo marito, in tutte le sue implicazioni, venisse rispettata ora che lui non c’è più , con lo stesso rigore con cui questo è accaduto in vita. Ciò riguarda soprattutto le opere a cui stava lavorando assieme ad altre persone. Come noto, De André produceva un gran numero di scritti, appunti e prove, dei quali solo una minima parte, quella rispondente secondo il suo severo e personalissimo giudizio alla qualità del progetto che si era prefisso, vedeva la luce.” Tutto molto saggio e molto vero. De André lavorava fino allo sfinimento il suo musica e parole, cambiava anche all’ultimo minuto; più che indecisione era feroce perfezionismo. Era artista da colpi di scena all’insaputa di tutti, anche dei più stretti collaboratori. È leggenda 185

La paura dura più dell’amore

che Bubola scoprì la copertina dell’ “Indiano”, con tutto il concept che ne veniva, solo il giorno della conferenza stampa, pur avendo contribuito così intensamente a quell’album. Il progetto dei Notturni era solo all’inizio, e di certo Faber avrebbe battuto quella lastra chissà ancora quante volte, fino a ottenere il suono che aveva in mente. Ma perché non riconoscere almeno la dignità di “bozze”, e neanche primissime, al lavoro con Malaspina? No, i Notturni per la Fondazione restano quegli sparsi appunti sulle carte, il Notturno delle raganelle e pochissimo altro. “Finale musicale,”propone un altro frammento. “Breve accenno al pianoforte di un notturno di Chopin: l’ultima nota presa da chitarra elettrica che canta una melodia, su bolero marcia funebre per chitarra e orchestra.” “Quattro notturni,” così altrove. “Paolino Cannone fissa le pietre del rio. Ritornello osceno.” Paolino Cannone è un piccolo mistero nel mistero: l’amico di Tempio Pausania, così la vulgata, che aveva stimolato l’idea dei Notturni e a cui doveva essere dedicato il primo movimento (o proprio tutta l’opera, secondo altre fonti). “Vita, miracoli, morte e ascensione di Paolino Cannone,” è scritto in un altro appunto: “Münchhausen di Gallura. Paolino Cannone, Paolino del Cannonau”. Nome vero, nome di fantasia? Bella domanda. In un piccolo bar di Voghera, un freddo giorno di novembre, Oliviero Malaspina mi emoziona portando sotto braccio una cartelletta azzurrina con elastico in cui ha raccolto i frutti del suo lavoro con De André. Lo apre e dentro c’è un piccolo tesoro di originali, copie, appunti che riguardano quel suo album perduto, che Faber avrebbe dovuto produrre, e i Notturni. Sono in gran parte fotocopie di testi che ha vergato su carta quadrettata, con una calligrafia da vecchio studente di Regio Liceo (quale in effetti non è mai stato). Uno solo è battuto a macchina da scrivere. “Gli originali li ha Dori alla Fondazione,” mi avvisa. Li sbircio, vorrei fotografarli ma capisco che non è il caso. Ritrovo “l’ombra inquieta”, la paura che dura più che l’amore e altro di quelle tenebrose fantasie; e mi convinco che quel bocciolo non era gelato proprio subito, che qualcosa era pur cresciuto. Noto che non ci sono raganelle né “sughere pettinate all’Umberta”. “Quelli proprio non so,” dice Malaspina. “Non conosco quei versi, non sono mai entrati nel nostro progetto.” Per me e per l’amico che mi accompagna, Walter Pistarini, è un flash luminoso; ma anche Oliviero è sballottato dai ricordi, e quei fogli lo toccano. “Questa è la più bella descrizione dell’organo femminile,” mormora come tra sé e sé mentre a bassa voce legge: “Le piccole labbra per lo zucchero, le grandi labbra per il sale/ Tra le gambe un’acqua di fortuna piccante d’angostura./ Amore a mezza luce, coltello di mezza luna.” Con le varie stesure dei testi ci sono note sparse, alcune pertinenti, altre meno. C’è un divertente dizionarietto di termini dei clochards, approntato da Oliviero per quando mai occorresse insaporire i versi (la notte è “bruna”, 186

la luna “spia”, la miseria “leggiera”, la mammella “mostosa”). Ci sono note che han tutta l’aria di essere un primo spunto, proprio agli inizi: “Andare ad ascoltare i vari autori di notturni. Cercare nelle suites fusioni di più generi. Fusione fondamentale in due suites dei cori. Chiedere a Eros una ritmica ‘forte’”. (Eros è Eros Cristiani, il tastierista che aveva accompagnato Oliviero in quei suoi concerti “di spalla” a Faber; anch’egli candidato a partecipare al progetto, una volta chiarita la parte musicale). Un appunto si riferisce all’abbozzo di un Notturno d’amore viaggiando sulle linee del palmo di una mano, in forma di dialogo; una prostituta rientra a casa al mattino dopo la sua fatica e racconta storie alla figlia piccola. “Importante: voce madre puttana e voce figlia, non necessariamente cantata a due voci – però si può vedere.” Molte sono note perdute, travolte dai flutti del tempo; Malaspina stesso fatica a raccappezzarsi e a ricordare. “Usare il meno possibile anima e anime”, chissà chi ne abusava: e un imperioso “lasciar perdere Cioran” che resta lì, a mezz’aria. Il foglietto più illuminante, una luccicante pepita, lo trovo verso la fine, quando Malaspina sta raccogliendo i fogli per rimetterli nella cartellina e riporli nella cassetta di sicurezza dove da anni stanno. È un vero e proprio indice del progetto, con tanto di guida essenziale delle fonti letterarie. In un accesso di entusiasmo che posso immaginare, Oliviero ha aggiunto a metà foglio un gioioso “Ok boss!!!”. Par di capire che De André ha chiarito, il quadro è delineato, si può procedere. 1) Storia di Paolino Cannone eccolo, il nostro misterioso eroe. 2) La cecità del potere (malattia contagiosa) riferimenti a Camus e Céline. 3) Morte per morte – il nichilismo e la sua spiritualità. L’uomo vocato alle estreme conseguenze del male. 4) Notturno come fenomeno fisico e atmosferico naturalmente qui la fonte è il De Rerum Natura di Lucrezio. 5) Notturno d’amore qui c’è un punto interrogativo. Anche perché i Notturni previsti erano quattro e questa era giusto un’ipotesi, diciamo “di riserva”. Sotto il Notturno d’amore sono indicati Essenza del nichilismo, di Emanuele Severino (Adelphi) e La regina disadorna, di Maurizio Maggiani. Più sotto, dopo una greca divisoria, altri cenni bibliografici: ancora il De Rerum Natura, La Bibbia, Lobo (Antonio “Lobo” Antunes, lo scrittore portoghese di In culo al mondo), il Manuale del boia (Charles Duff, per Adelphi). L’appunto più straordinario riguarda Raffaele Cutolo, il camorrista che in effetti dopo la trasparente citazione di Don Raffaè si era messo in contatto con il cantautore e gli aveva scritto più volte, inviandogli anche sue poesie (“un paio davvero pregevoli”, aveva commentato Faber). De André e Mala187

La paura dura più dell’amore

spina avevano isolato una sua frase sulla giustizia e intendevano usarla come incipit dell’opera. Anzi, l’idea era ancora più maliziosa. “Pensavamo di virgolettarla senza indicazione di chi l’avesse scritta. Era un modo di proporre un beffardo quiz; e la risposta giusta era di quelle da lasciare a bocca aperta.” Dunque possiamo immaginare che Fabrizio De André, nell’ultimo anno della sua vita, nei ritagli di tempo concessigli dai concerti, lavorasse non proprio al buio su quel progetto di nuovo disco. D’altronde aveva appena rinnovato il contratto con la BMG Ricordi, con generoso anticipo, promettendo un album per il 2000 e altri due non troppo più in là. Doveva produrre, insomma, un po’ più rapidamente di quanto aveva fatto con i tre album precedenti (da Creuza de mä ad anime salve passano dodici comodi anni); anche se Mauro Pagani è convinto che quello non fosse un grande problema, “alla fine era sempre Fabrizio a decidere i tempi, non si faceva strangolare da nessuno. Con un pretesto, una piroetta o un vaffanculo riusciva a evitare gli obblighi troppo stringenti”. Ad ogni modo il progetto era quello dei Notturni, e sui testi ci sono le tracce che abbiamo detto con Oliviero Malaspina, mentre sulla musica… Berio era stato solo una suggestione, Pagani aveva ricevuto giusto una indicazione, Piero Milesi aveva abbozzato molto poco. E il quarto sempre citato, Mark Harris? Il quarto è un’altra sorpresa. Harris era stato istruito sul progetto, come no, e si era mosso con rapidità ed entusiasmo. Me lo racconta un giorno di primo autunno in una trattoria dove il tempo si è fermato, in una vecchia cascina alle porte di Milano, travolgendomi con la sua irresistibile energia. Solo che, colpo di scena, a lui non risultano altri autori; quel progetto di Notturni in versi liberi, in quattro parti, doveva essere un lavoro suo e di Faber, e per quello si era messo al lavoro fin dal principio del 1998. Non solo, e questa è un’altra grande sorpresa; aveva steso già un piano di produzione dell’album che De André, alla fine di aprile di quell’anno, aveva approvato. In fondo a qualche suo cassetto ha ritrovato quel planning, scritto su un foglio quadrettato da scuola con la dicitura “Progetto XX”, e me lo ha fotocopiato. Perché “Progetto XX”? “Perché la prima volta che avevo collaborato con lui,” ride Harris, “erano i tempi del disco dell’Indiano, che non aveva titolo ma era il decimo che pubblicava – allora io l’avevo chiamato Progetto X. Tanti anni dopo era venuto il seguito: progetto XX, appunto.” Il piano di produzione è tagliato apposta su De André e su tempi agevoli. Dodici settimane d’inizio a partire dal settembre 1998, poi una pausa di sei mesi fino all’estate 1999, per verifiche e ripensamenti; lavoro serrato da luglio a settembre, altra pausa negli ultimi mesi dell’anno e il rush finale, dal 3 gennaio a fine aprile 2000.

188

La paura dura più dell’amore

“Abbiamo cominciato a considerare il progetto mentre curavamo i missaggi del disco dal vivo e del DVD, gennaio-febbraio 1998. Lui aveva la nomea di uno che si sapeva quando entrava in studio ma non quando usciva, mentre io all’epoca dell’Indiano ero riuscito a stare sotto il budget e questa cosa lo aveva colpito. Così mi spronò: ‘Tu che sei bravo in queste cose, metti giù un planning preciso e vediamo.’ Mancavano due anni al dunque, era anche un modo di risparmiare. Il budget era di tutto comodo, 300 milioni se non sbaglio. Così immaginai 150 giorni fra pre-produzione, a casa mia, e studio vero e proprio. ‘Io il calendario lo vedrei così,’ gli dissi. ‘Secondo me ci stiamo dentro e credo che vada incontro al tuo modo di lavorare, perché non devi stare tutto il mese in sala ma si fa un po’ e un po’ – hai tutto il tempo per ripensamenti in corso d’opera.’ Fui convincente, approvò il piano; anche se poi sappiamo tutti com’è andata…” Ti parlò mai dei testi? Mi lesse qualcosa al telefono, una volta, e sempre al telefono io gli feci ascoltare qualcosa che avevo già composto. Ma tu non eri vincolato dall’idea che si trattasse di Notturni? Guarda, Notturno è una parola che tra noi non è mai venuta fuori. “Notturno” se vogliamo poteva essere solo il quarto movimento, che lui voleva intenso, assorto, solenne. Era il requiem per la morte di un amico, e la musica doveva percorrere l’intero arco della sua esistenza: nascita, giovinezza, maturità, morte. Ma il resto… Io non avevo indicazioni in quel senso. Il primo quarto lo avevo già scritto e aveva tutto un altro clima – era felice, gioioso, con cori africani. Lo hai conservato in archivio? Sì, ho degli appunti, ma su un floppy MIDI, su Atari, quindi difficile da riesumare. Lo ricordo bene comunque, te lo posso descrivere. Era basato su un ostinato di chitarra, quattro frasi otto misure, che si ripetono mentre sotto cambia l’armonia. Era una sorta di gioco Escheriano in musica, con cambi di prospettiva… La melodia la ricordo, come ho fatto lavorare gli archi no; e comunque è chiaro che oggi lo farei diverso. Era lento e maestoso, andava in crescendo e si vivacizzava via via. Sul finale entravano cori africani; per quello nel piano trovi scritto “senegalesi”. C’è scritto anche “mongoli”… Ah, quello riguardava il secondo e terzo movimento, che non sono mai partiti. Un’idea rimasta sulla carta, una suggestione dovuta al fatto che io ho sangue di gruppo B – eredità, dicono, di antenati venuti dalle steppe mongoliche. Sono fiero di queste mie radici ed era un modo di esprimerlo. Pen190

savamo a interventi di musicisti veri, non di campionamenti; e come trovi segnato, avremmo dovuto registrarli nella fase centrale della produzione, quando il progetto era già ben definito. Avevi qualche artista di riferimento mentre componevi? No, sinceramente no. Se proprio ci ripenso, oggi posso trovare un collegamento con la musica di qualcuno; e quel qualcuno è Ralph Towner, il chitarrista degli Oregon. E il quarto movimento, il requiem? Quello l’ho solo abbozzato. Faber lo voleva con un tono di jazz, a trio; mentre il resto doveva essere per orchestra sinfonica con inserzioni di strumenti elettrici. Il quarto movimento era l’unico su cui avesse indicazioni chiare. C’era un pezzo di riferimento, ed era The Train And The River di Jimmy Giuffre, uno dei suoi preferiti. Faber amava quella musica, amava il Modern Jazz Quartet, un certo West Coast jazz; gli piaceva quello più preziosino, più scritto, che pure a me piace anche se io tendo a svariare di più. Per dirti, sono sempre stato un grande fan di Monk e lui per scherzo sul palco mi presentava come Mark Thelonious Harris. E un giorno, a casa sua, siamo venuti sul discorso e gli ho detto che quel disco di Jimmy Giuffre ce l’avevo; nel 1997 la Mosaic aveva pubblicato un cofanetto con l’integrale di quel jazzista per Capitol e Atlantic, e c’era anche The Train And The River, che lui ricordava da quand’era un ragazzo – non lo aveva più riascoltato da allora. “Oh, belìn,” si è emozionato, ha chiesto informazioni. “Be’, vai in quel negozio in via Vincenzo Monti, vai da ‘Black Saint’”, gli ho detto, “ce l’avranno di sicuro.” L’ha ordinato subito, se l’è mangiato; e gli è venuta voglia di una musica del genere per quel nuovo progetto. (Per la storia, per chi avesse piacere a seguire le tracce di certi amori musicali, The Train And The River è il brano chiave di 3, un album Atlantic di Giuffre, 1956, registrato con il chitarrista Jim Hall e il contrabbassista Ralph Peña. È un brano che “rielabora marcati elementi folk”, per dirla con Giuffre, in cui il protagonista prende tre assoli con sax baritono, tenore e clarinetto – tutti in chiavi diverse. Il cofanetto Mosaic citato è il numero 176 del catalogo, sei CD, tiratura limitata di 5000 copie. Da tempo non è più disponibile, eBay sembra l’unica via per rintracciarlo.) Proviamo a tirare i fili. In una vita parallela, a gennaio 1999 Fabrizio De André sta ragionando sui provini dei Notturni che prima di Natale ha finito di abbozzare a casa di Mark Harris. C’è foschia in questa altra vita, non si vede bene, ma i testi sembrano quelli composti con Malaspina e naturalmente 191

La paura dura più dell’amore

rifiniti ogni giorno di più mentre la musica, chissà, forse Harris è rimasto solo o forse si sono definiti altri contributi. “Sai,” mi ha confessato Pagani quando gli ho chiesto di ritornare con la memoria ai Notturni, “a Fabrizio piaceva operare così: spargere semi, raccogliere dove voleva, tenere per sé la strategia. Quel progetto era ancora a uno stadio preliminare: stava preparando un terreno, si stava muovendo a cercare suggestioni. Aveva sparso la voce, poi avrebbe fatto le sue scelte. Poteva accadere di tutto. Anche il fatto che avesse definito i testi prima di ogni altra cosa mi lascia perplesso. Io gliel’ho visto fare una sola volta, con La domenica delle salme; per il motivo evidente che i versi in quel caso erano così forti e potenti che non ammettevano vincoli – dovevano essere assolutamente liberi.” Ipotesi, dubbi, parole nel vento. Nella vita reale Fabrizio De André muore l’11 gennaio 1999, in una clinica di Milano, portando con sé l’idea di quell’opera fosca e maestosa che nelle vene e nella mente percepiva come la sua ultima. Riavvolgiamo il nastro. “Che colore vuoi? Una musica solare, positiva o qualcosa di negativo, di cupo?” “Cupo? Altro che cupo. Dev’essere il requiem di questo secolo.” Tra le carte di Malaspina, in quel bar di Voghera, ho trovato una trascrizione dai Dialoghi di Leucò di Cesare Pavese. È il dialogo tra Ippòloco e Sarpedonte, nel capitolo dedicato a La Chimera. Ippòloco è figlio di Bellerofonte e di suo padre appunto si parla, dell’uccisore della mitica Chimera che gli dèi hanno punito per la sua vanità e lasciato solo e malato. “Era una mia ricerca, poteva essere una sorta di introduzione ai Notturni,” ha mormorato Oliviero quando gli ho chiesto lumi sul foglio; e ora che rileggo il passo su una sdrucita edizione Einaudi mi vengono i brividi per come appare intonato a tutta questa storia. Ippòloco: Anche lui fu crudele, dunque. Sarpedonte: Era giusto e pietoso. Uccideva Chimere. E adesso che è vecchio e che è stanco, gli dèi l’abbandonano. Ippòloco: Per questo corre le campagne? Sarpedonte: È figliolo di Glauco e di Sisifo. Teme il capriccio e la ferocia degli dèi. Si sente imbestiare e non vuole morire. “Ragazzo” mi dice, “quest’è la beffa e il tradimento: prima ti tolgono ogni forza e poi si sdegnano se tu sarai meno che uomo. Se vuoi vivere, smetti di vivere...” Ippòloco: E perché non si uccide, lui che sa queste cose? Sarpedonte: Nessuno si uccide. La morte è destino. Non si può che augurarsela, Ippòloco.

192

In appendice al libro abbiamo pensato di inserire una discografia ragionata per esigenze di spazio, rimandando a volumi più specifici per l’elencazione di tutte le emissioni, ristampe e riedizioni. Per ogni album è quindi indicata la prima emissione e per le successive ristampe solo la casa discografica, mentre non sono stati citati i dischi in cui Fabrizio De André collabora come autore o esecutore. È stata anche effettuata una scelta tra le diverse copertine utilizzate per le varie emissioni dei 45 giri e degli album. Da sottolineare che tutti gli album sono stati editi anche in cassetta stereo 7 e alcuni su supporto stereo 8. Dal 1986 la Ricordi ha ristampato tutto il catalogo in CD tranne Tutto Fabrizio De André e qualche raccolta. Dal 2009 la BMG sta ristampando tutti gli album di Fabrizio De André in vinile colorato con veste grafica simile all’originale e una edizione a tiratura limitata degli stessi su 45 giri a 180 gr. in un elegante cofanetto.

1961 Fabrizio Nuvole barocche (Fabrizio-Stanisci-Giannilario) E fu la notte (Fabrizio-Stanisci-Franchi) 1961 Karim KN 101, 45 giri, copertina standard forata 1971 Roman Record Company RN 034, 45 giri, edito con copertina fotografica

Fabrizio La ballata del Michè (Petracchi-Fabrizio) La ballata dell’eroe (Fabrizio) 1961 Karim KN 103, 45 giri Due copertine differenti con alcune variazioni cromatiche nei titoli dei brani.

1963 Fabrizio Il fannullone (Fabrizio-Villaggio) Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (Fabrizio-Villaggio) 1963 Karim KN 177, 45 giri Tre copertine differenti con alcune variazioni cromatiche nei titoli dei brani.

Fabrizio Il testamento (De André) La ballata del Michè (Petracchi-De André) 1963 Karim KN 184, 45 giri Due copertine differenti con alcune variazioni cromatiche nei titoli dei brani.

195

Discografa

1964 Fabrizio La guerra di Piero (De André) La ballata dell’eroe (De André) 1964 Karim KN 194, 45 giri Due copertine differenti.

Fabrizio Valzer per un amore (dal Valzer campestre tratto dalla Suite siciliana di Gino Marinuzzi; testo: De André) La canzone di Marinella (De André) 1964 Karim KN 204, 45 giri La prima edizione riporta il titolo La ballata di Marinella sull’etichetta del disco.

1965 Fabrizio Per i tuoi larghi occhi (De André) Fila la lana (anonimo-De André) 1965 Karim KN 206, 45 giri

Fabrizio La città vecchia (De André) Delitto di paese (L’assassinat) (Brassens; testo italiano: De André) 1965 Karim KN 209, 45 giri La prima edizione contiene una versione censurata con parole differenti del brano La città vecchia.

196

1966 Fabrizio La canzone dell’amore perduto (De André) La ballata dell’amore cieco (o della vanità) (De André) 1966 Karim KN 214, 45 giri Emesso con 4 copertine simili, ma con i titoli dei brani di colori differenti.

Fabrizio Geordie (tradizionale inglese; testo italiano: De André) Amore che vieni, amore che vai (De André) 1966 Karim KN 215, 45 giri La prima edizione ha codice di catalogo errato (KN 216).

Tutto Fabrizio De André La ballata dell’amore cieco (o della vanità), Amore che vieni, amore che vai, La ballata dell’eroe, La canzone di Marinella, Fila la lana, La città vecchia, La ballata del Michè, La canzone dell’amore perduto, La guerra di Piero, Il testamento 1966 Karim KLP 13, LP Tre edizioni differenti, due delle quali con l’inserto “Fabriziogramma” di colore bianco o grigio.

1967 Volume 1 Preghiera in gennaio, Marcia nuziale (La marche nuptiale) (Brassens-De André), Spiritual, Si chiamava Gesù, La canzone di Barbara, Via del campo (De André; musica del XVI secolo tratta da una ricerca di Dario Fo), Caro amore (De André; dal Concierto de Aranjuez di Joaquín Rodrigo), Bocca di rosa, La morte, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (De André-Villaggio) Canzoni di Fabrizio De André tranne dove indicato 1967 Bluebell Records BBLP 39, LP Ristampato con copertina differente e poi riedito da Produttori Associati, Ricordi e Ricordi Orizzonte. 197

Discografa

Fabrizio Preghiera in gennaio (De André) Si chiamava Gesù (De André) 1967 Bluebell BB 3177, 45 giri 1970 Produttori Associati PA/NP 3177, 45 giri

Via del campo (De André) Bocca di rosa (De André) 1967 Bluebell BB 3187, 45 giri 1970 Produttori Associati PA/NP 3187, 45 giri

Caro amore (De André; tratta dal Concierto de Aranjuez di Joaquín Rodrigo) Spiritual (De André) 1967 Bluebell BB 3189, 45 giri

1968 La canzone di Barbara (De André) Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (De André-Villaggio) 1968 Bluebell BB 3193, 45 giri Disco mai distribuito ufficialmente.

Tutti morimmo a stento Cantico dei drogati (De André-Mannerini), Primo intermezzo, Leggenda di Natale (tratta da Le Père Nöel et la petite fille di Brassens), Secondo intermezzo, Ballata degli impiccati (De André-Bentivoglio), Inverno, Girotondo, Terzo intermezzo, Recitativo, Corale Canzoni di Fabrizio De André tranne dove indicato 1968 Bluebell records BBLP 32, LP, numerato anche nella versione stereo Bluebell BBLPS 32. Riedito da Produttori Associati, Ricordi e Ricordi Orizzonte con copertina differente.

198

La canzone di Marinella La ballata dell’amore cieco (o della vanità), Amore che vieni, amore che vai, La ballata dell’eroe, La canzone di Marinella, Fila la lana, La città vecchia, La ballata del Michè, La canzone dell’amore perduto, La guerra di Piero, Il testamento 1968 Roman Record Company RCP 703, LP

Nuvole barocche Nuvole barocche, E fu la notte, Delitto di paese, Valzer per un amore, Per i tuoi larghi occhi, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Il fannullone, Geordie, Amore che vieni, amore che vai, La canzone dell’amore perduto 1968 Roman Record Company RCP 704, LP

Fabrizio De André, Vol. 3 La canzone di Marinella, Il gorilla, La ballata dell’eroe, S’i’ fosse foco, Amore che vieni, amore che vai, La guerra di Piero, Il testamento, Nell’acqua della chiara fontana, La ballata del Michè, Il re fa rullare i tamburi 1968 Bluebell Records BBLPS 33, LP Riedito da Produttori Associati (La cui prima emissione contiene Il pescatore al posto de La canzone di Marinella), Ricordi e Ricordi Orizzonte con copertina differente.

Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (De André-Villaggio) Il testamento (De André) 1968 Bluebell BB 3193, 45 giri 1970 Produttori Associati PA/NP 3193, 45 giri Esecuzioni differenti dalle precedenti edite su etichetta Karim.

La canzone di Marinella (De André) Amore che vieni, amore che vai (De André) 1968 Bluebell BB 3202, 45 giri 1970 Produttori Associati PA/NP 3202, 45 giri Esecuzioni differenti dalle precedenti edite su etichetta Karim. 199

Discografa

La ballata del Michè (De André-Petracchi) La guerra di Piero (De André) 1968 Bluebell BB 3204, 45 giri 1970 Produttori Associati PA/NP 3204, 45 giri Esecuzioni differenti dalle precedenti edite su etichetta Karim.

1969 Il gorilla (Le gorille) (Brassens; testo italiano: De André) Nell’acqua della chiara fontana (Dans l’eau de la claire fontaine) (Brassens; testo italiano: De André) 1969 Bluebell BB 3206, 45 giri 1970 Produttori Associati PA/NP 3206, 45 giri

La leggenda di Natale (De André; tratta da Le Père Nöel et la petite fille di Brassens) Inverno (De André) 1969 Bluebell BB 3207, 45 giri 1970 Produttori Associati PA/NP 3207, 45 giri

1970 Il pescatore (De André) Marcia nuziale (La marche nuptiale) (Brassens; testo italiano: De André) 1970 Bluebell BD 8032, 45 giri 1970 Liberty LIB 9065, 45 giri 1970 Produttori Associati PA/NP, 45 giri

La stagione del tuo amore (De André) Spiritual (De André) 1970 Produttori Associati PA/NP 3189, 45 giri

200

La buona novella Laudate Dominum, L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe, Il sogno di Maria, Ave Maria, Maria nella bottega di un falegname, Via della croce, Tre madri, Il testamento di Tito, Laudate Hominem Canzoni di Fabrizio De André tranne Ave Maria (musica di Gian Piero Reverberi) e Il testamento di Tito (musica di Corrado Castellari) 1970 Produttori Associati PA/LPS 34, LP Riedito da Produttori Associati con copertina differente, Ricordi e Ricordi Orizzonte con altra copertina.

1971 Non al denaro non all’amore né al cielo La collina, Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio), Un giudice, Un blasfemo (Dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato), Un malato di cuore, Un medico, Un chimico, Un ottico, Il suonatore Jones Testi di Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; musiche di Fabrizio De André e Nicola Piovani 1971 Produttori Associati PA/LPS 40, LP Ricordi e Ricordi Orizzonte con copertina differente.

Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio) (De André-Bentivoglio-Piovani) Un giudice (De André-Bentivoglio-Piovani) 1971 Produttori Associati PA/NP 3196, 45 giri La prima edizione, censurata, aveva il sottotitolo Dietro ogni giudice c’è un nano sul lato B.

201

Discografa

1972 Fabrizio De André La ballata dell’amore cieco (o della vanità), Amore che vieni, amore che vai, La ballata dell’eroe, La canzone di Marinella, Fila la lana, La città vecchia, La ballata del Michè, La canzone dell’amore perduto, La guerra di Piero, Il testamento, Nuvole barocche, E fu la notte, Delitto di paese (L’assassinat), Valzer per un amore, Per i tuoi larghi occhi, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Il fannullone, Geordie, Amore che vieni, amore che vai, La canzone dell’amore perduto 1972 Idea Phonogram IS 5305 004, 2 LP con copertina apribile 1973 Fontana 66441933, 2 LP, copertina di Mario Convertino

Suzanne (Cohen; testo italiano: De André) Giovanna d’Arco (Jeanne d’Arc) (Cohen; testo italiano: De André) 1972 Produttori Associati PA/NP 3216, 45 giri con due copertine differenti. Il brano Giovanna d’Arco (Jeanne D’Arc) ha una strofa in più rispetto a quella che sarà inserita nell’album Canzoni.

1973 Storia di un impiegato Introduzione, Canzone del maggio, La bomba in testa, Al ballo mascherato, Sogno numero due, Canzone del padre, Il bombarolo, Verranno a chiederti del nostro amore, Nella mia ora di libertà Testi di Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; musiche di Fabrizio De André e Nicola Piovani. Il testo di Sogno numero due è di Fabrizio De André e Roberto Dané; Canzone del maggio è liberamente tratta da una canzone francese del 1968 scritta da Dominique Grange. 1973 Produttori Associati PA/LP 49, LP con copertina apribile con libretto. Riedito da Ricordi e Ricordi Orizzonte con copertina differente. 202

Il bombarolo (De André-Bentivoglio-Piovani) Verranno a chiederti del nostro amore (De André-Bentivoglio-Piovani) 1973 Produttori Associati PA/NP 3224, 45 giri promozionale mai distribuito ufficialmente.

Fabrizio De André, Vol. 1 (La canzone di MarineLLa) La ballata dell’amore cieco (o della vanità), Amore che vieni, amore che vai, La ballata dell’eroe, La canzone di Marinella, Fila la lana, La città vecchia, La ballata del Michè, La canzone dell’amore perduto, La guerra di Piero, Il testamento 1973 Fontana 6492 019, LP 1978 Philips 6389 012, LP

Fabrizio De André, Vol. 2 (carLo MarteLLo ritorna daLLa battagLia di Poitiers) Nuvole barocche, E fu la notte, Delitto di paese (L’assassinat), Valzer per un amore, Per i tuoi larghi occhi, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Il fannullone, Geordie, Amore che vieni, amore che vai, La canzone dell’amore perduto 1973 Fontana 6492 020, LP 1978 Philips 6389 015, LP

1974 Canzoni Via della povertà (Desolation Row) (Dylan; testo italiano: De André-De Gregori), Le passanti (Les passantes) (Brassens; testo italiano: De André), Fila la lana, Ballata dell’amore cieco (o della vanità), Suzanne (Cohen; testo italiano: De André), Morire per delle idee (Mourir pour des idées) (Brassens; testo italiano: De André), Canzone dell’amore perduto, La città vecchia, Giovanna d’Arco (Jeanne D’Arc) (Cohen; testo italiano: De André), Delitto di paese (L’assassinat), Valzer per un amore 1974 Produttori Associati PA/LP 52, LP con copertina rosa bordi tondi e scritte nere. Riedito da Produttori Associati, Ricordi e Ricordi Orizzonte con copertina differente. 203

Discografa

1975 Volume 8 La cattiva strada, Oceano, Nancy (Cohen; testo italiano: De André), Le storie di ieri (De Gregori), Giugno ’73 (De André), Dolce luna, Canzone per l’estate, Amico fragile (De André) Canzoni di Fabrizio De André e Francesco De Gregori tranne dove indicato 1975 Produttori Associati PA/LP54, LP Riedito Ricordi e Ricordi Orizzonte.

La cattiva strada (De André-De Gregori) Amico fragile (De André) 1975 Produttori Associati PA/NP 3236, 45 giri Mai distribuito ufficialmente.

1976 Fabrizio De André Il pescatore, Bocca di rosa, Le passanti (Les passantes), La canzone dell’amore perduto, La cattiva strada, Un giudice, Il testamento, Verranno a chiederti del nostro amore 1976 Produttori Associati ORL 8064, LP

1978 Rimini Rimini, Volta la carta, Coda di lupo, Andrea, Tema di Rimini, Avventura a Durango (Romance in Durango) (Dylan-Levy; testo italiano: De AndréBubola), Sally, Zirichiltaggia (Baddu tundu), Parlando del naufragio della London Valour, Folaghe Canzoni di Fabrizio De André e Massimo Bubola tranne dove indicato 1978 Ricordi SMRL 6221, LP con copertina apribile e libretto. Riedito da Ricordi Orizzonte.

Andrea (De André-Bubola) Volta la carta (De André-Bubola) 1978 Ricordi SRL 10.863, 45 giri promozionale per RAI

Rimini (De André-Bubola) Coda di lupo (De André-Bubola) 1978 Ricordi SRL 10.864, 45 giri promozionale per RAI

Avventura a Durango (Romance in Durango) (Dylan-Levy; testo italiano: De André-Bubola) Sally (De André-Bubola) 1978 Ricordi SRL 10.866, 45 giri promozionale per RAI

Il pescatore (De André) Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (De André-Villaggio) 1978 Ricordi SRL 10.874, 45 giri

1979 Fabrizio De André: In concerto arrangiaMenti PFM Bocca di rosa, Andrea, Giugno ’73, Un giudice, La guerra di Piero, Il pescatore, Zirichiltaggia, La canzone di Marinella, Volta la carta, Amico fragile 1979 Ricordi SMRL 6244, LP con copertina apribile e libretto. Riedito da Ricordi Orizzonte.

Il pescatore (De André) Bocca di rosa (De André) 1979 Ricordi SRL 10.901, 45 giri

205

Discografa

1980 Fabrizio De André: In concerto arrangiaMenti PFM, vol. 2 Avventura a Durango (Romance in Durango), Presentazione, Sally, Verranno a chiederti del nostro amore, Rimini, Via del Campo, Maria nella bottega di un falegname, Il testamento di Tito 1980 Ricordi ORL 8431, LP

Una storia sbagliata (De André-Bubola) Titti (De André) 1980 Ricordi SRL 10.926, 45 giri

1981 Fabrizio De André (“L’indiano”) Quello che non ho, Canto del servo pastore, Fiume Sand Creek, Ave Maria (Canto tradizionale sardo rielaborato da un adattamento di Albino Puddu), Hotel Supramonte, Franziska, Se ti tagliassero a pezzetti, Verdi pascoli Canzoni di Fabrizio De André e Massimo Bubola 1981 Ricordi SMRL 6281, LP La prima edizione, edita in pochissime copie con differente grafica di copertina e vinile di colore blu è stata distribuita in occasione del concerto del 21 luglio 1981 a Merano.

206

1982 Fabrizio De André La canzone di Marinella, Valzer per un amore, La guerra di Piero, Delitto di paese (L’assassinat), Per i tuoi larghi occhi, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitier, La città vecchia, La canzone dell’amore perduto, Il fannullone 1982 Super Star SU 1003, LP

Fabrizio De André Bocca di rosa, Il pescatore, La canzone di Marinella, Andrea, La città vecchia, La canzone dell’amore perduto, La guerra di Piero, La cattiva strada 1982 Ricordi SRIC 005, LP

1984 Fabrizio De André Cofanetto contenente le ristampe degli album Volume 1, Volume 3, Volume 8 e Rimini con allegato un libretto con i testi e alcune fotografie 1984 Ricordi AMRL 46285, 4 LP con libretto

Creuza de mä Creuza de mä, Jamin-a, Sidun, Sinàn capudàn pascià, ‘A pittima, ‘A dumenega, Da a me riva Canzoni di Fabrizio De André e Mauro Pagani 1984 Ricordi SMRL 6308, LP

207

Discografa

1986 Fabrizio De André La canzone di Marinella, Andrea, La guerra di Piero, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Bocca di rosa, Il pescatore, Creuza de mä, Fiume Sand Creek, Il testamento di Tito, Via del campo, Quello che non ho, Amico fragile 1986 Ricordi STVL 6351, LP

1989 Fabrizio De André & PFM: in concerto Bocca di rosa, Andrea, Giugno ’73, Un giudice, La guerra di Piero, Il pescatore, Zirichiltaggia, La canzone di Marinella, Volta la carta, Amico fragile, Avventura a Durango (Romance in Durango), Presentazione, Sally, Verranno a chiederti del nostro amore, Rimini, Via del Campo, Maria nella bottega di un falegname, Il testamento di Tito 1989 Fonit Cetra TAL 1001/1002, 2 LP

1990 Le nuvole Le nuvole, Ottocento, Don Raffae’ (De AndréBubola-Pagani), La domenica delle salme, Megu megùn (De André-Fossati-Pagani), La nova gelosia (tradizionale del XVIII secolo), ‘Â çímma (De André-Fossati-Pagani), Monti di Mola Canzoni di Mauro Pagani e Fabrizio De André tranne dove indicato 1990 Fonit Cetra TLP 260, LP, copertina con e senza ologramma. La prima edizione è Ricordi (STVL 6444), edita in pochissime copie con copertina senza ologramma.

208

1991 1991 Concerti Don Raffae’, La domenica delle salme, Fiume Sand Creek, Hotel Supramonte, Se ti tagliassero a pezzetti, Il gorilla (Le gorille), La canzone dell’amore perduto, Il testamento di Tito, La canzone di Marinella, Creuza de mä, Jamin-a, Sidun, Megu megùn, ‘A pittima, ‘A dumenega, ‘Â çímma, Sinàn capudàn pascià, Le nuvole 1991 Fonit Cetra TAL 1003, 2 LP

Il viaggio La canzone di Marinella, La ballata dell’amore cieco (o della vanità), La guerra di Piero, Valzer per un amore, La città vecchia, Il fannullone, La canzone dell’amore perduto, Fila la lana, E fu la notte, Amore che vieni, amore che vai, La ballata dell’eroe, Geordie, Il testamento, Nuvole barocche, La ballata del Michè, Per i tuoi larghi occhi, Delitto di paese (L’assassinat), Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers 1991 Philips 848 288-1, LP

1995 La canzone di Marinella La canzone di Marinella, La ballata dell’eroe, Il fannullone, Amore che vieni, amore che vai, La guerra di Piero, Valzer per un amore, E fu la notte, Il testamento, La ballata del Michè, Fila la lana, La canzone dell’amore perduto, La città vecchia, Per i tuoi larghi occhi, La ballata dell’amore cieco (o della vanità), Nuvole barocche, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers 1995 Replay Music RMCD 4082, CD

209

Discografa

Fabrizio De André 1995 BMG-Ricordi CDF 01053, 17CD Cofanetto contenente Volume 1 (CDMRL 6493), Tutti morimmo a stento (CDMRL 6496), Volume 3 (CDMRL 6494), La buona novella (CDMRL 6498), Non al denaro non all’amore né al cielo (CDMRL 6499), Storia di un impiegato (CDMRL 6497), Canzoni (CDMRL 6491), Volume 8 (CDMRL 6495), Fabrizio De André (antologia del 1976) (CDMRL 6488), Rimini (CDMRL 6492), Fabrizio De André in concerto – arrangiamenti PFM vol. 1 (CDMRL 6489), Fabrizio De André in concerto – arrangiamenti PFM vol. 2 (CDMRL 6490), Fabrizio De André (CDMRL 6281), Creuza de mä (CDMRL 6308), Le nuvole (CDMRL 6444) e 1991 Concerti (ACDMRL 26478)

1996 Anime salve Prinçesa, Khorakhanè (a forza di essere vento), Anime salve, Dolcenera, Le acciughe fanno il pallone, Disamistade, ‘A cumba, Ho visto Nina volare, Smisurata preghiera Canzoni di Fabrizio De André e Ivano Fossati 1996 LP BMG-Ricordi STVL 392351, LP Una prima edizione del disco è inserita in un cofanetto promozionale a tiratura limitata per la stampa con CD, blocco note, tre fotografie e tre pagine di presentazione dell’album. In seguito è stato commercializzato in circa 3000 copie alcune delle quali numerate. Riedito nel 2006 in cofanetto da BMG.

Dolcenera (De André-Fossati) 1996 BMG-Ricordi CDRPR 436512, CD singolo fuori commercio.

210

1997 Mi innamoravo di tutto Coda di lupo, La canzone di Marinella, Sally, La cattiva strada, Canto del servo pastore, Bocca di rosa, Se ti tagliassero a pezzetti, Jamin-a, La canzone dell’amore perduto, Il bombarolo, Ave Maria La canzone di Marinella è un inedito duetto di Fabrizio con Mina, registrato espressamente per questo disco. 1997 BMG-Ricordi TCDMRL 74321 533042, CD

La canzone di Marinella (De André) CDs Ricordi, Nuvole 74321 538792 Edizione promozionale a tiratura limitata e numerata, duetto inedito con Mina.

1999 De André in concerto Creuza de mä, Prinçesa, Khorakhanè, Dolcenera, L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe, Il sogno di Maria, Tre madri, Il testamento di Tito, La città vecchia, Amico fragile, Il pescatore, Geordie, Via del campo, Volta la carta Canzoni registrate dal vivo a Genova (Teatro Carlo Felice), Milano (Teatro Smeraldo) e Roma (Teatro Brancaccio) durante la tournée 1997-1998. 1999 BMG-Ricordi 74321 656992, CD

Da Genova Il suonatore Jones, Ottocento, Andrea, Verranno a chiederti del nostro amore, Canzone per l’estate, Hotel Supramonte, Don Raffae’, Amore che vieni, amore che vai, Suzanne, La ballata del Michè, Canzone del maggio, La guerra di Piero, Girotondo, Anime salve 1999 BMG-Ricordi 74321 728992, CD

211

Discografa

Opere complete 1999 BMG-Ricordi 74321 692572, cofanetto di 14 CD con libretti contenenti testi, note originali e foto Riedizione di tutti gli album registrati in studio da Fabrizio De André tra il 1967 e il 1997.

2000 Amico fragile 2000 BMG-Ricordi 74321 752482, CD singolo fuori commercio in tiratura limitata di 4000 esemplari, allegato al programma di sala del concerto-tributo Faber, amico fragile… una serata insieme per gli ultimi tenutosi al Teatro Carlo Felice di Genova, il 12 marzo 2000.

Peccati di gioventù La canzone dell’amore perduto, La ballata dell’amore cieco (o della vanità), La canzone di Marinella, Delitto di paese (L’assassinat), Fila la lana, Il fannullone, La ballata del Michè, Il testamento, Amore che vieni, amore che vai, La guerra di Piero, Valzer per un amore, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Geordie, La ballata dell’eroe, Per i tuoi larghi occhi, La città vecchia 2000 Universal Music 542 927-2, CD

2001 Ed avevamo gli occhi troppo belli 2001 EDA 001, CD contenente i parlati di Fabrizio tratti da diversi concerti più Se ti tagliassero a pezzetti eseguita dal vivo e La canzone dei carbonari. Edizione completa di libretto.

212

In concerto, volume II Jamin-a, Le acciughe fanno il pallone, La domenica delle salme, Disamistade, Fiume Sand Creek, Sidun, Anime salve, Don Raffae’, Ho visto Nina volare, ‘A cumba, Bocca di rosa, Smisurata preghiera 2001 BMG-Ricordi 74321 867622, CD

2004 Fabrizio De André Platinum Deluxe Butterfly La canzone di Marinella, La ballata dell’eroe, Il fannullone, Amore che vieni, amore che vai, La guerra di Piero, Valzer per un amore, E fu la notte, Il testamento, La ballata del Michè, Fila la lana, La canzone dell’amore perduto, La città vecchia, Per i tuoi larghi occhi, La ballata dell’amore cieco (o della vanità), Nuvole Barocche, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers 2004 PDL 1012, CD

2005 In direzione ostinata e contraria Amore che vieni, amore che vai, La città vecchia, Via del campo, Bocca di rosa, La canzone di Marinella, Ballata dell’amore cieco (o della vanità), Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, La guerra di Piero, La ballata dell’eroe, Il pescatore, La canzone dell’amore perduto, La ballata del Michè, Preghiera in gennaio, Valzer per un amore, Si chiamava Gesù, Il sogno di Maria, Ave Maria, Il testamento di Tito, Inverno, Girotondo, Terzo intermezzo, Recitativo (Due invocazioni e un atto d’accusa), Corale (Leggenda del re infelice), La collina, Un giudice, Un ottico, Il suonatore Jones, Introduzione, Canzone del maggio, Il bombarolo, Verranno a chiederti del nostro amore, La cattiva strada, Giugno ’73, Canzone per l’estate, Amico fragile, Andrea, Volta la carta, Titti, Una storia sbagliata, Geordie, Fiume Sand Creek, Hotel Supramonte, Se ti tagliassero a pezzetti, Creuza de mä, Sidun, ‘A dumenega, La domenica delle salme, ‘Â çímma, Don Raffae’, Khorakhanè, Prinçesa, Ho visto Nina volare, Anime salve, Smisurata preghiera, Cose che dimentico (De André-Facchini-Cristiano De André) 2005 Sony BMG 82876752322, 3 CD 213

Discografa

2006 In direzione ostinata e contraria 2 La stagione del tuo amore, Nell’acqua della chiara fontana, S’i’ fosse foco, Fila la lana, Il re fa rullare i tamburi, Spiritual, La canzone di Barbara, Il testamento, Delitto di paese, Il gorilla, Cantico dei drogati, Leggenda di Natale, Ballata degli impiccati, Laudate Dominum, L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe, Maria nella bottega di un falegname, Tre madri, Laudate Hominem, Un malato di cuore, Un medico, Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio), Al ballo mascherato, Canzone del padre, Nella mia ora di libertà, Suzanne, Le passanti, Via della povertà, Oceano, Le storie di ieri, Avventura a Durango, Sally, Coda di lupo, Rimini, Zirichiltaggia (Baddu tundu), Parlando del naufragio della London Valour, Quello che non ho, Canto del servo pastore, Franziska, Ave Maria, Sinàn capudàn pascià, Da a me riva, ‘A pittima, Jamin-à, Le nuvole, Ottocento, Monti di Mola, La nova gelosia, Megu megùn, Dolcenera, Le acciughe fanno il pallone, ‘A Cumba, Disamistade 2006 Sony BMG 886970286626, 3 CD

2007 Fabrizio De AndrŽ & PFM: in concerto Bocca di rosa, Andrea, Giugno ’73, Un giudice, La guerra di Piero, Il pescatore, Zirichiltaggia, La canzone di Marinella, Volta la carta, Amico fragile, Avventura a Durango (Romance in Durango), Presentazione, Sally, Verranno a chiederti del nostro amore, Rimini, Via del Campo, Maria nella bottega di un falegname, Il testamento di Tito 2007, Sony BMG 88697187332, 2 CD

214

2008 Effedia, sulla mia cattiva strada

DVD: Effedia, il film. Regia e interviste d’archivio: Teresa Marchesi. Con: Fabrizio De André, Georges Brassens, Enza Sampò, Mina, Franco Battiato, Mia Martini, Zucchero, Fernanda Pivano, Roberto Murolo, Luigi Tenco, Sergio Castellitto, Gabriele Salvatores, Wim Wenders, Fiorello, Vasco Rossi CD 1: Bella se vuoi volare, La cattiva strada, La città vecchia, Dolcenera, Le acciughe fanno il pallone, Quello che non ho, Il gorilla, Le passanti, Amore che vieni amore che vai, La ballata del Miche’, La canzone di Marinella (con Mina), La ballata dell’eroe, La guerra di Piero (con PFM), Sidun, Fiume Sand Creek, Girotondo, Cielito Lindo (con la Banda Osiris), Canzone del maggio, Il testamento di Tito, Bocca di rosa CD 2: Maria Giuana, Via del Campo, Creuza de mä, Khorakhanè (A forza di essere vento) (con Luvi De André), Monti di Mola, Andrea, Rimini, Hotel Supramonte, Ho visto Nina volare, Un malato di cuore, Don Raffae’ (con Roberto Murolo), Preghiera in gennaio, Se ti tagliassero a pezzetti, La domenica delle salme, Ottocento, Amico fragile, Dai monti della Savoia 2008 Nuvole/Sony BMG 88697415552, cofanetto 4 LP e 1 DVD, oppure 2 CD e 1 DVD

2009 Cofanetto edito da BMG contenente 19 album in CD, 1 DVD e un libretto di 160 pagine con la presentazione di ogni album. I CD: Volume 1, Tutti morimmo a stento, Volume 3, La buona novella, Non al denaro non all’amore né al cielo, Storia di un impiegato, Canzoni, Volume 8, Fabrizio De André, Rimini, Arrangiamenti PFM, Arrangiamenti PFM Vol. 2, Fabrizio De André (Indiano), Creuza de mä, Le Nuvole, 1991 concerti CD1, 1991 concerti CD2, Anime salve, Fabrizio De André... da Genova Il DVD: Fabrizio De André in concerto, registrazione integrale del concerto registrato a Roma al Teatro Brancaccio il 13 e 14 febbraio 1998.

215

Discografa

Raccolta di 13 CD e 1 DVD abbinati a “Repubblica” e “L’Espresso” con libretto monografico. I CD: Volume 1, Tutti morimmo a stento, Volume 3, La buona novella, Non al denaro non all’amore né al cielo, Storia di un impiegato, Canzoni, Volume 8, Rimini, Fabrizio De André (Indiano), Creuza de mä, Le Nuvole, Anime salve Il DVD: Fabrizio De André in concerto, registrazione integrale del concerto registrato a Roma al Teatro Brancaccio il 13 e 14 febbraio 1998.

2011 Sogno n° 1 Preghiera in gennaio, Ho visto Nina volare, Hotel Supramonte, Valzer per un amore (con Vinicio Capossela), Tre madri, Laudate Hominem (solo per coro e orchestra), Disamistade, Rimini, Anime salve (con Franco Battiato), Le nuvole (solo orchestrale) 2011 Nuvole Production/Sony Music In edizione Digipack e Deluxe con un libretto di 48 pagine con scatti inediti.

216

DISCOGRAFIA ESTERA DI FABRIZIO DE ANDRÉ La discografia estera di Fabrizio De André non è molto vasta, ma alcuni pezzi sono molto appetibili, soprattutto da un punto di vista collezionistico. Da notare che le copertine dei 45 giri editi per il mercato estero sono tutte differenti da quelle italiane. Dal 1979 in poi gli album sono stati pubblicati anche in cassetta stereo 7.

1967 Caro amore, Via del Campo Marcia Nunziale, Bocca di rosa 1967 Alvorada EP 79-41, 45 giri EP, Portogallo

1975 Fabrizio De André La canzone di Marinella, La cattiva strada, La ballata del Michè, Canzone del maggio, Verranno a chiederti del nostro amore, Amico fragile, Canzone per l’estate, Giugno ’73, Dolce Luna 1975 Produttori Associati PA/USA 7001, LP, USA

Amore che vieni, amore che vai La ballata dell’amore cieco 1975 Flexi Disc Krugosor, 45 giri, Russia

217

Discografa

1977 The Best Of Fabrizio De André La cattiva strada, Un matto, Il bombarolo, Preghiera in gennaio, Bocca di Rosa, Amico fragile, Un chimico, Al ballo mascherato, Ballata dell’amore cieco, Via della croce, Via del campo 1977 Produttori Associati 6.22955, LP, Germania Due edizioni, di cui la prima con errori sui titoli dei brani in copertina e sull’etichetta.

La cattiva strada Amico fragile 1977 Produttori Associati 6.12047, 45 giri, Germania

La cattiva strada Nancy (Seems So Long Ago, Nancy) 1977 Ricordi 0035.051, 45 giri, Germania

1978 Rimini Rimini, Volta la carta, Coda di lupo, Andrea, Tema di Rimini, Avventura a Durango (Romance in Durango), Sally, Zirichiltaggia (Baddu tundu), Parlando del naufragio della London Valour, Folaghe 1978 Ricordi 0065.009, LP, Germania, con copertina a busta 1978 Ricordi 0065.009, LP, Austria, con copertina a busta 1978 Ricordi Serie Club Edition 38 227, LP, Austria, con copertina a busta 1987 Ricordi 827 692-2, CD, Germania

218

Andrea Folaghe 1978 Ricordi SL 0245, 45 giri, Jugoslavia 1978 Ricordi 0035.041, 45 giri, Germania 1978 Ricordi 0035.041, 45 giri, Austria Alcune copie hanno all’interno un inserto promozionale della casa discografica con la recensione del disco.

1979 Sally Volta la carta 1979 Ricordi 0035.045, 45 giri, Germania Alcune copie hanno all’interno un inserto promozionale della casa discografica con la recensione del disco.

Fabrizio De André: In concerto arrangiaMenti PFM Bocca di rosa, Andrea, Giugno ’73, Un giudice, La guerra di Piero, Il pescatore, Zirichiltaggia, La canzone di Marinella, Volta la carta, Amico fragile 1979 Ricordi LL 0619, LP, Jugoslavia 1979 Ricordi 0065.013, LP, Germania, con copertina differente 1979 Seven Seas K22P-308, LP, Giappone 1979 Ricordi 1-201.708, LP, Spagna 1979 Ricordi GM LPS 200.2669, LP, Venezuela, edito con due etichette differenti 1987 Ricordi CDMRL 6244, CD, Giappone

1980 Fabrizio De André: In concerto arrangiaMenti PFM, vol. 2 Avventura a Durango (Romance in Durango), Presentazione, Sally, Verranno a chiederti del nostro amore, Rimini, Via del Campo, Maria nella bottega di un falegname, Il testamento di Tito 1980 Ricordi 0065.019, LP, Germania, con copertina differente 219

Discografa

Fabrizio De André Via della povertà (Desolation Row), Le passanti (Les passantes), Fila la lana, Ballata dell’amore cieco (o della vanità), Suzanne, Morire per delle idee (Mourir pour des idées), La canzone dell’amore perduto, La città vecchia, Giovanna d’Arco (Jeanne D’Arc), Delitto di paese (L’assassinat), Valzer per un amore, La cattiva strada, Oceano, Nancy, Le storie di ieri, Giugno ’73, Dolce luna, Canzone per l’estate 1980 Ricordi serie Star Gold 0085.005, 2 LP, Germania 1980 Ricordi serie Star Action 0085.006, 2 LP, Germania

Una storia sbagliata Titti 1980 Ricordi 0035.056, 45 giri, Germania

1981 Fabrizio De André (“L’indiano”) Quello che non ho, Canto del servo pastore, Fiume Sand Creek, Ave Maria, Hotel Supramonte, Franziska, Se ti tagliassero a pezzetti, Verdi pascoli 1981 Ricordi 0065.025, LP, Germania, con copertina leggermente differente 1981 Ricordi 0065.025, LP, Austria, con copertina leggermente differente 1987 Ricordi 827 693-2, CD, Germania

Fiume Sand Creek Hotel Supramonte 1981 Ricordi 0035.058, 45 giri, Germania

220

Un giudice La canzone di Marinella 1981 Fleet 6017399, 45 giri, Olanda

Andrea Volta la carta 1981 Philips 6208063, 45 giri, Benelux

1984 Creuza de mä Creuza de mä, Jamin-a, Sidun, Sinàn capudàn pascià, ‘A pittima, ‘A dumenega, Da a me riva 1984 Ricordi 813.474-1, LP, Germania 1984 Seven Seas K28P479, LP, Giappone 1984 Ricordi Polygram 030211FG, LP, Grecia, mai pubblicato ufficialmente 1985 Ricordi KICP 24, CD, Giappone, con copertina differente e OBI

Creuza de mä Sinàn capudàn pascià 1984 Ricordi 821 784-7, 45 giri promozionale, Germania, con copertina

1986 Fabrizio De André La canzone di Marinella, Andrea, La guerra di Piero, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Bocca di rosa, Il pescatore, Creuza de mä, Fiume Sand Creek, Il testamento di Tito, Via del campo, Quello che non ho, Amico fragile 1990 Ricordi 829 277-1, LP, Germania 1990 Ricordi 829 277-1, LP, Austria 1990 Ricordi CDMRL 6351, CD, Germania

221

Discografa

1990 Le nuvole Le nuvole, Ottocento, Don Raffae’, La domenica delle salme, Megu megùn, La nova gelosia, ‘Â çímma, Monti di Mola 1990 Ricordi 849.035-1, LP, Germania, copertina senza ologramma 1991 Ricordi KICP 115, CD, Giappone Alcune copie del vinile hanno all’interno un inserto promozionale della casa discografica con la recensione del disco.

1999 Non al denaro non all’amore né al cielo La collina, Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio), Un giudice, Un blasfemo (Dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato), Un malato di cuore, Un medico, Un chimico, Un ottico, Il suonatore Jones Testi di Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio; musiche di Fabrizio De André e Nicola Piovani. 1999 SI-WAN RECORDS SRMWP 1012, CD, Corea

222