Autopsia virtuale  
 8804611375, 9788804611370 [PDF]

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Zitiervorschau

Il libro Port Mortuary – letteralmente il porto dei morti – è il luogo in cui vengono smistati i cadaveri dei caduti in guerra della base dell’Aeronautica militare di Dover. È qui che Kay Scarpetta sta seguendo un corso di addestramento sulle autopsie virtuali quando, in una fredda sera di febbraio, viene richiamata in tutta fretta dalla nipote Lucy e dall’investigatore Pete Marino al CFC di Boston, il nuovo centro di medicina forense civile e militare da lei diretto. Qualcosa di molto grave e inspiegabile è appena accaduto, qualcosa che potrebbe rovinarla sia professionalmente che personalmente, travolgendo nello scandalo la struttura sperimentale di cui è a capo. Un giovane uomo, morto apparentemente per un malore e custodito nella cella frigorifera del CFC, viene trovato in un lago di sangue, e ciò avalla l’ipotesi che fosse ancora vivo quando vi è stato rinchiuso. L’autopsia sul suo cadavere rivela la presenza di agghiaccianti lesioni interne di origine sconosciuta, complicando ulteriormente il quadro. La situazione è tanto più seria in quanto Jack Fielding, vicecapo del centro, è scomparso nel nulla dopo essere stato indagato per un suo presunto coinvolgimento in altre morti sospette. Kay Scarpetta si trova di fronte a un caso estremamente difficile e pericoloso che ha pesanti riflessi non solo sulla sicurezza nazionale, ma anche sulla sua vita privata. In una frenetica corsa contro il tempo, con l’aiuto di Pete Marino, del marito Benton Wesley e della nipote Lucy, Kay deve affrontare un nuovo nemico scaltro e crudele e fare i conti con una vicenda che coinvolge i fantasmi di un passato mai sopito che la riporta indietro di vent’anni, agli inizi della sua carriera professionale. In Autopsia virtuale Patricia Cornwell fa ritrovare ai propri lettori una voce che non sentivano da anni, quella di Kay Scarpetta, ritornando alla narrazione in prima persona che ha contraddistinto i suoi primi romanzi, e dà accesso immediato e diretto alle riflessioni, ai dubbi e alle emozioni del personaggio, raccontando la storia nella sua prospettiva e restituendolo in tutta la sua complessità.

L’autore Patricia Cornwell è una delle più famose autrici di best seller internazionali. I suoi romanzi sono tradotti in trentasei lingue, in più di cinquanta paesi. È tra i fondatori del Virginia Institute of Forensic Science and Medicine, del National Forensic Academy, del New York OCME Forensic Sciences Training Program’s Advisory Board, nonché del McLean Hospital’s National Council, dove è sostenitrice della ricerca psichiatrica. Nel 2008, Patricia Cornwell ha vinto il Galaxy British Book Award, nella sezione Crime Thriller. Fra i suoi primi best seller ricordiamo Postmortem – l’unico romanzo ad aver vinto nello stesso anno cinque dei premi più prestigiosi – e Insolito e crudele, insignito del Gold Dagger Award come miglior romanzo giallo del 1993. Tutti i romanzi di Patricia Cornwell sono pubblicati in Italia da Mondadori. L’autrice vive tra New York e la Florida. Visitate il suo sito www.patriciacornwell.com.

Patricia Cornwell AUTOPSIA VIRTUALE

Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani

Mondadori

AUTOPSIA VIRTUALE

A Staci: devi essere con me mentre vivo tutto questo...

NOTA PER IL LETTORE Questo romanzo è un’opera di fantasia, ma non di fantascienza. Le procedure mediche e forensi, le tecnologie e le armi che vi sono descritte esistono già. Alcuni fatti di cui si parla in queste pagine sono estremamente preoccupanti. E tutti possibili. Sono reali e operativi anche vari enti e istituzioni citati nel romanzo, fra cui: – il Port Mortuary presso la base dell’Aeronautica militare di Dover, nel Delaware; – il medico legale delle Forze armate (Armed Forces Medical Examiner o AFME); – il Laboratorio di identificazione genetica delle Forze armate (Armed Forces DNA Identification Laboratory o AFDIL); – l’Istituto di medicina legale delle Forze armate (Armed Forces Institute of Pathology o AFIP); – il dipartimento della Difesa (Department of Defense o DoD); – l’Agenzia per i progetti di ricerca avanzati del dipartimento della Difesa (Defense Advanced Research Projects Agency o DARPA); – il Royal United Services Institute (RUSI); – le armi speciali telecomandate dette SWORDS (Special Weapons Observation Remote Direct-Action System). Sono invece frutto della fantasia dell’autore, per quanto verosimili, il Cambridge Forensic Center (CFC), l’Istituto di detenzione Chatham, la Otwahl Technologies e il robot per la rimozione dei caduti nelle zone di guerra chiamato MORT (Mortuary Operational Removal Transport), così come tutti i personaggi della vicenda e la vicenda stessa. Desidero ringraziare tutti gli uomini e le donne che lavorano con l’AFME e l’AFIP, che da sempre hanno la gentilezza di condividere con me le loro intuizioni e le loro sofisticate conoscenze. Apprezzo moltissimo la loro disciplina, la loro integrità e la loro amicizia. Come sempre, grazie di cuore alla dottoressa Staci Gruber, direttore del Cognitive and Clinical Neuroimaging Core del McLean Hospital e professore associato presso il reparto di psichiatria della Harvard Medical School. E naturalmente la mia riconoscenza va alla dottoressa Marcella Fierro, ex direttrice dell’Istituto di medicina legale della Virginia, e al dottor Jamie Downs, anatomopatologo di Savannah, Georgia, per le loro consulenze.

1 Nello spogliatoio del personale femminile butto il camice sporco nel cesto dei rifiuti pericolosi e mi tolgo gli altri vestiti e gli zoccoli. Mi domando se la scritta nera sul mio armadietto, COL. SCARPETTA, verrà cancellata subito dopo la mia partenza per il New England, domani mattina. Finora non ci avevo pensato, ma è un’idea che mi disturba. Una parte di me non vuole andare via. La vita alla base dell’Aeronautica militare di Dover, nel Delaware, ha i suoi lati positivi, malgrado i sei mesi di formazione molto impegnativa e la desolazione di avere a che fare ogni giorno con la morte per conto del governo degli Stati Uniti. La mia permanenza qui è stata sorprendentemente priva di complicazioni. Posso addirittura dire che è stata piacevole. Mi mancherà il fatto di alzarmi prima dell’alba nella mia modesta stanzetta, indossare pantaloni, polo e scarponcini militari e attraversare il parcheggio al buio e al freddo per andare alla sede del golf club a bere un caffè e mangiare qualcosa prima di salire in macchina e raggiungere il Port Mortuary, dove non sono io a comandare. Lì lavoro per l’AFME, il medico legale delle Forze armate, e sono sotto parecchie persone di grado superiore al mio. Non spetta a me prendere decisioni critiche, per cui non sempre vengo consultata. Non sarà così al mio ritorno nel Massachusetts, dove invece sono io la responsabile di tutto. Oggi è lunedì 8 febbraio. L’orologio sulla parete sopra i lavabi bianchi e lucidi segna le 16.33. Le cifre luminose, rosse, sembrano un avvertimento. Fra meno di novanta minuti devo essere alla CNN a spiegare ai telespettatori che cosa fa un patologo radiologo forense, in gergo RadPath, e perché ho deciso di diventarlo, e che cosa c’entrano Dover, il dipartimento della Difesa e la Casa Bianca con la mia scelta. Perché non sono più un semplice medico legale, immagino che dirò, e neppure una riservista dell’AFME. Dall’11 settembre 2001, da quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, e adesso con il massiccio invio di truppe in Afghanistan, il confine tra il mondo militare e quello civile è svanito definitivamente. Ripasso mentalmente i punti che dovrei citare nel mio discorso. Un esempio che potrei fare è questo: lo scorso novembre, nell’arco di quarantott’ore sono arrivati a Dover tredici combattenti caduti in Medio Oriente e altrettante vittime da Fort Hood, nel Texas. Le maxiemergenze non si verificano più soltanto sui campi di battaglia, e per la verità non sono più tanto sicura di sapere che cosa si intenda ormai per campo di battaglia. Sembra che ce ne siano ovunque, dirò alla TV. Le nostre case, le scuole, le chiese, gli aerei di linea, i luoghi dove andiamo a lavorare, a comprare, a divertirci ormai sono diventati tutti dei campi di battaglia. Mentre raccolgo cosmetici e articoli da bagno, passo in rassegna le osservazioni che intendo fare sull’imaging tridimensionale – cioè sull’uso della TAC, la tomografia assiale computerizzata, in sala autopsie – e mi riprometto di sottolineare che, sebbene l’unica struttura civile in grado di effettuare autopsie virtuali negli Stati Uniti sia la mia nuova sede di Cambridge, nel Massachusetts, presto Baltimora seguirà il nostro esempio e la tendenza si diffonderà. L’esame autoptico tradizionale, in cui si seziona il cadavere

scattando una serie di fotografie, sperando di non tralasciare nulla e di non introdurre artefatti, può essere drasticamente migliorato e reso più preciso grazie alla moderna tecnologia, ed è giusto che questo avvenga. Mi dispiace non essere a World News stasera, perché in realtà preferirei fare questa conversazione con Diane Sawyer. Il problema con la CNN è che sono ormai un’ospite abituale e la confidenza fa perdere il rispetto. Avrei dovuto pensarci prima. Invece mi rendo conto solo ora che c’è il rischio che l’intervista sconfini nel personale. Avrei dovuto avvertire il generale Briggs di questa possibilità e anche di quello che mi è successo stamattina, quando la madre furibonda di un soldato morto mi ha aggredita verbalmente al telefono accusandomi di avere compiuto gravi discriminazioni nei confronti di suo figlio e minacciando di fare scoppiare uno scandalo. Chiudo lo sportello metallico dell’armadietto, che sbatte facendo un rumore simile a una detonazione. Cammino scalza sul pavimento di piastrelle beige, liscio e fresco sotto i piedi, con il mio cestino di plastica contenente shampoo e balsamo all’olio di oliva, scrub esfoliante a base di alghe marine fossili, un rasoio, una bomboletta di gel spray per la rasatura delle pelli sensibili, detergente liquido antibatterico, spugna, collutorio, uno spazzolino da denti e uno da unghie e olio Neutrogena profumato, per quando avrò finito. Entro in una delle docce aperte, dispongo ordinatamente tutto quanto sulla mensola di piastrelle e apro l’acqua calda, regolandola alla massima temperatura che riesco a sopportare. Mi giro sotto il getto potente per bagnarmi tutta, alzo la faccia verso la doccia e quindi mi guardo i piedi bianchi, lasciando che l’acqua mi massaggi il collo e la testa e allenti un po’ la tensione muscolare. Intanto entro mentalmente nella cabina armadio del mio appartamento alla base per decidere come vestirmi. Il generale Briggs – John, come lo chiamo quando siamo soli – vuole che indossi la tuta mimetica dell’Aeronautica o, meglio ancora, l’uniforme di servizio blu, ma io non sono d’accordo. Penso che dovrei presentarmi in borghese, come sempre quando appaio in TV, magari con un semplice tailleur scuro e una camicetta color avorio. Al polso metterò il sobrio Breguet con cinturino di cuoio che mi ha regalato mia nipote Lucy, non il cronografo Blancpain con il grosso quadrante nero e la lunetta in ceramica che mi ha regalato sempre lei, perché ha la passione degli orologi e di tutto ciò che è tecnicamente complesso e costoso. Non pantaloni, ma gonna e tacchi alti, in modo da sembrare disponibile, non aggressiva. È un trucco che ho imparato tanto tempo fa in tribunale. Ho scoperto che ai giurati piace che mi si vedano le gambe mentre descrivo fin nei minimi dettagli anatomici le ferite mortali e le varie fasi dell’agonia di una vittima. Briggs disapproverà la mia scelta in fatto di abbigliamento, ma ieri sera, mentre bevevamo qualcosa guardando il Super Bowl, gli ho ricordato che nessun uomo, tranne Ralph Lauren, può permettersi di dire a una donna come vestirsi. Il vapore nella doccia si muove, disturbato da una corrente d’aria. Mi sembra di sentire qualcuno e mi irrito. Potrebbe essere chiunque del personale – militare, medico o con altre mansioni – autorizzato a entrare in questa struttura altamente riservata, che ha bisogno di andare in bagno, di disinfettarsi, di cambiarsi. Penso alle colleghe con cui ho

appena finito di lavorare nella sala autopsie principale e ho la sensazione che si tratti di nuovo del capitano Avallone. Mi è stata addosso tutta la mattina, durante l’esame tomografico, come se io non fossi in grado di farlo da sola, e ha continuato ad aleggiare come una nebbia bassa intorno alla mia postazione di lavoro per il resto della giornata. Probabilmente è lei a essere appena entrata. Un attimo dopo me ne convinco e provo un moto di risentimento. “Lasciami in pace!” «Dottoressa Scarpetta?» mi chiama con la sua voce melliflua e priva di qualsiasi passione che sembra seguirmi ovunque. «La vogliono al telefono.» «Sto facendo la doccia» grido per farmi sentire nonostante lo scroscio dell’acqua. È un modo per dirle di lasciarmi in pace. “Un po’ di privacy, per cortesia.” Non voglio vedere né il capitano Avallone né nessun altro in questo momento, e non perché sono nuda. «Mi scusi, ma Pete Marino ha bisogno di parlarle.» La voce pacata si avvicina. «Potrà aspettare cinque minuti?» urlo. «Dice che è importante.» «Gli può chiedere cosa vuole?» «Dice solo che è importante, dottoressa.» Prometto di richiamarlo subito e probabilmente sembro maleducata, ma non posso accontentare sempre tutti, malgrado le mie buone intenzioni. Pete Marino è l’investigatore con cui lavoro da metà della mia vita. Spero che non sia successo niente a casa. No, Marino me lo direbbe se si trattasse di una vera emergenza, se fosse successo qualcosa a mio marito Benton, o a Lucy, o se ci fosse un problema grave al Cambridge Forensic Center, di cui sono la direttrice. Non si limiterebbe a farmi riferire da qualcuno che mi vuole parlare per una faccenda importante. Con ogni probabilità è solo impaziente. È un impulsivo e, quando gli viene un’idea, me la deve comunicare immediatamente. Spalanco la bocca per sciacquare via l’odore di carne umana bruciata e decomposta che mi è rimasto in gola. Il tanfo dei cadaveri su cui ho lavorato oggi mi sale nei seni paranasali portato da ondate di vapore, molecole di putrida biologia che mi hanno accompagnato fin sotto la doccia. Mi sfrego le unghie con il detergente liquido antibatterico, lo stesso che uso per i piatti o per decontaminare le scarpe dopo essere stata sulla scena di un crimine, e mi spazzolo denti, gengive e lingua con il Listerine. Mi lavo le cavità nasali fin dove riesco ad arrivare, strofinando ogni centimetro quadrato di pelle, poi mi insapono i capelli, non una ma due volte. Il tanfo permane; non riesco a sentirmi pulita. Il soldato morto di cui mi sono appena occupata si chiamava Peter Gabriel, come il famoso cantante rock, ma era un soldato di prima classe, di stanza nella provincia di Badghis, in Afghanistan, da meno di un mese quando un ordigno rudimentale, ricavato da un pezzo di tubo di plastica riempito di PE-4 e chiuso con una lamiera di rame, ha perforato la blindatura del suo Humvee scatenando una tempesta di fuoco all’interno. Al soldato di prima classe Gabriel ho dedicato quasi tutta la mia ultima giornata di lavoro in

questa grande struttura ad alta tecnologia in cui medici legali e scienziati delle Forze armate si occupano abitualmente di casi che l’opinione pubblica non immagina di loro competenza, come per esempio la morte di JFK e la recente identificazione in base al DNA dei membri della famiglia Romanov e dell’equipaggio del sottomarino H.L. Hunley, affondato durante la Guerra civile. Il nostro è un ente nobile ma poco conosciuto, le cui radici risalgono al 1862, all’Army Medical Museum, i cui chirurghi tentarono di salvare Abraham Lincoln mortalmente ferito e poi gli fecero l’autopsia. Dovrei raccontare tutto questo alla CNN. Mi impongo di concentrarmi sulle cose positive e di non pensare a quello che mi ha detto la signora Gabriel. Non sono un mostro, non sono intollerante. “Quella povera donna era sconvolta.” È naturale: ha perso il suo unico figlio. I Gabriel sono neri. “Come ti sentiresti se fossi nei suoi panni, santo cielo? Tu non sei razzista, lo sai.” Mi accorgo che è di nuovo entrato qualcuno nello spogliatoio, ormai pieno di vapore come un bagno turco. Ho il battito accelerato per il caldo. «Dottoressa Scarpetta?» Il capitano Avallone sembra meno incerta di prima. Forse ha delle novità. Chiudo l’acqua, esco dalla doccia e prendo un telo di spugna per coprirmi. Il capitano Avallone è una vaga presenza che intravedo vicino ai lavabi e agli asciugamani elettrici ad aria calda. Riesco a distinguere solo i capelli scuri, i pantaloni militari color cachi e la polo nera con lo stemma ricamato, blu e oro, dell’AFME. «Pete Marino...» esordisce. «Adesso lo chiamo.» Prendo un altro telo da uno scaffale. «È qui, dottoressa.» «Come sarebbe a dire?» Quasi mi aspetto di vederlo apparire nello spogliatoio, come una creatura preistorica che emerge dalla nebbia. «La aspetta sul retro, vicino all’ingresso di servizio, dottoressa» mi informa. «La accompagnerà all’Eagle’s Rest a recuperare i bagagli.» Lo dice come se fossero venuti a prendermi quelli dell’FBI, come se fossi stata arrestata o licenziata. «Ho ordine di accompagnarla da lui e di fornirvi tutta l’assistenza necessaria.» Il nome di battesimo del capitano Avallone è Sophia. Ha appena finito l’internato in radiologia ed è sempre maledettamente formale e ossequiosamente cortese quando ti sta addosso. Non è il momento. Mi incammino sulle piastrelle con il cestino e lei mi segue. «Non parto fino a domani. E non ho in programma di andare da nessuna parte con Marino» dico. «Posso occuparmi io della sua macchina, dottoressa, visto che non la prenderà...» «Gli ha chiesto cosa diavolo è successo di così urgente?» Prendo dall’armadietto la spazzola e il deodorante. «Ci ho provato, dottoressa» risponde. «Ma è stato poco collaborativo.» Un C-5 Galaxy passa rombando sopra le nostre teste, ormai prossimo ad atterrare sulla pista 19. Il vento, come al solito, soffia da sud. Uno dei molti principi dell’aeronautica che ho imparato da Lucy, la quale fra le altre

cose è anche pilota di elicotteri, è che i numeri delle piste corrispondono all’orientamento delle stesse rispetto alla bussola. Diciannove, per esempio, sta per centonovanta gradi, e ciò significa che la testata opposta della stessa pista sarà contrassegnata da 01. E l’orientamento viene scelto in funzione dell’effetto Bernoulli e delle leggi newtoniane del moto. Tutto dipende dalla velocità a cui l’aria deve passare sopra l’ala affinché l’aereo possa decollare e poi atterrare contro il vento, che in questa parte del Delaware soffia dal mare verso terra, dall’alta pressione verso la bassa, da sud verso nord. Un giorno dopo l’altro gli aerei da trasporto militari portano qui i morti e li riportano via lungo una striscia di asfalto che corre, come lo Stige, dietro il Port Mortuary. Il Galaxy grigio squalo è lungo come un campo da football e talmente enorme e pesante che pare quasi immobile nel cielo bianco di cirri. Riconoscerei di che tipo di aereo si tratta anche senza guardare; conosco il suono acuto dei suoi quattro motori. Ho imparato a distinguere il rumore dei motori a turbina con centosessantamila libbre di spinta, sono in grado di identificare un C-5 o un C-17 a miglia e miglia di distanza, riconosco anche elicotteri e convertiplani, so distinguere un Chinook da un Black Hawk o da un Osprey. Nelle belle giornate, se ho un momento libero, mi siedo su una panchina fuori dal mio alloggio e guardo le macchine volanti di Dover come se fossero creature esotiche, lamantini, elefanti o uccelli preistorici. Non mi stanco mai della loro goffa spettacolarità, del loro rumore assordante e delle ombre che proiettano sul suolo. I carrelli toccano terra con uno sbuffo di fumo, così vicini che ne sento le vibrazioni negli organi cavi del mio corpo mentre vado verso l’area di carico con le sue quattro enormi saracinesche, l’alto muro di protezione e i generatori di riserva. Mi avvicino a un furgone azzurro che non ho mai visto prima. Pete Marino non accenna a salutarmi né ad aprirmi la portiera. Non ne deduco nulla, né di positivo né di negativo, perché Marino è uno che non perde tempo in convenevoli e da quando lo conosco non è mai stato affabile o particolarmente gentile. Sono passati più di vent’anni dalla prima volta che ci siamo visti a Richmond, in Virginia, all’Istituto di medicina legale, o forse sulla scena di un crimine. Non me lo ricordo più. Salgo a bordo e chiudo la portiera, mettendomi la sacca tra i piedi. Ho ancora i capelli umidi dopo la doccia. Lui non dice niente, ma mi giudica: gli sembro in uno stato pietoso. Capisco sempre cosa pensa dalle occhiate di traverso che mi lancia; mi squadra dalla testa ai piedi soffermandosi dove non dovrebbe. Non gli piace quando sono in tenuta AFME: pantaloni militari color cachi, polo nera e giacca tattica. Credo di avergli fatto paura, le poche volte che mi ha visto in divisa. «Dove l’hai rubato?» gli chiedo mentre fa retromarcia, riferendomi al furgone. «L’ho preso in prestito dall’aviazione civile.» Da questa risposta per lo meno capisco che non è successo niente a Lucy. Il terminal privato all’estremità nord della pista viene utilizzato dal personale non militare autorizzato ad atterrare nella base dell’Aeronautica. Marino è arrivato qui in elicottero con mia nipote. Mi viene il dubbio che siano venuti per farmi una sorpresa.

Che si siano presentati senza avvertirmi per risparmiarmi la fatica di prendere un volo di linea domani mattina e riportarmi a casa. Mi piacerebbe, ma non credo sia così, e allora cerco spiegazioni nella grossa faccia di Marino. Lo osservo nell’insieme, un po’ come sono solita fare con i miei pazienti prima di esaminarli. Scarpe da ginnastica, jeans, la solita giacca di pelle Harley-Davidson foderata di montone che ha da una vita, berretto degli Yankees – che porta a proprio rischio e pericolo, visto che adesso vive nella Repubblica dei Red Sox – e i soliti occhiali sorpassati con la montatura di metallo. Non riesco a vedere se si è rasato i pochi capelli grigi che gli restano sulla testa, ma è pulito e abbastanza in forma: non ha le guance rubizze di quando beve whisky né la pancia gonfia per la birra o gli occhi rossi. Le mani sono salde sul volante. Non sento odore di sigarette. Non ha ricominciato né a bere né a fumare. Per fortuna si è dato una regolata. In passato ha esagerato con sesso, alcol, droga, sigarette, cibo, turpiloquio, intolleranza e pigrizia. E forse anche con le bugie. Quando gli fa comodo, sa essere evasivo o mentire spudoratamente. «Lucy è all’elicottero, immagino...» comincio a dire. «Sai com’è da queste parti quando hai un caso per le mani. Peggio della stramaledetta CIA» mi interrompe. Svoltiamo in Purple Heart Drive. «Ti va a fuoco la casa e nessuno ti dice un cazzo. Eppure avrò chiamato cinque volte. Così ho preso una decisione esecutiva e siamo partiti.» «Sarebbe carino se mi dicessi perché.» «Non ti volevano interrompere mentre stavi facendo il soldato di Worcester» mi risponde, con mio grande stupore. Il soldato di prima classe Gabriel era di Worcester, nel Massachusetts. Non ho idea di come faccia Marino a sapere che mi stavo occupando di lui. Non avrebbero dovuto dirglielo. Il nostro lavoro al Port Mortuary è estremamente riservato, quando non è addirittura coperto dal segreto militare. Mi chiedo se la madre del soldato ucciso abbia davvero fatto ciò che minacciava e si sia rivolta ai media. Chissà se ha detto anche che l’anatomopatologa militare che ha fatto l’autopsia a suo figlio è una razzista. Senza lasciarmi il tempo di parlare, Marino spiega: «A quanto pare è il primo caduto in guerra di Worcester e i media locali non parlano d’altro. Ci hanno telefonato in parecchi, erroneamente convinti che qualsiasi cadavere che abbia a che fare con il Massachusetts finisca da noi». «I giornalisti hanno dato per scontato che facessimo l’autopsia a Cambridge?» «Be’, anche il CFC è una sorta di “port mortuary”, un centro di smistamento cadaveri, no? È un errore comprensibile.» «A quest’ora pensavo fosse risaputo che tutte le vittime dei teatri di guerra vengono mandate direttamente qui» replico. «Sei sicuro che abbiano telefonato per questo?» «Perché me lo chiedi?» Marino mi guarda. «Ti viene in mente qualche altro motivo a me ignoto?» «No, era solo una domanda.» «Io so che ci hanno chiamato e noi gli abbiamo detto di rivolgersi a Dover. Tu ti stavi

occupando del ragazzo di Worcester e non ti passavano telefonate, così alla fine ho contattato il generale Briggs. Eravamo partiti da una ventina di minuti e stavamo facendo rifornimento a Wilmington. Così Briggs ha mandato il capitano Perfettini a cercarti nella doccia. È single o della stessa sponda di Lucy? Perché non è per niente brutta...» «Come fai a sapere se è bella o brutta?» replico, perplessa. «Non c’eri quando è passata al CFC mentre andava a trovare sua madre nel Maine.» Cerco di ricordare se mi è mai stato riferito. Ho la sensazione di non sapere niente di quello che è successo ultimamente nel centro che in teoria dovrei dirigere. «Fielding le ha fatto fare un bel giro turistico, l’ha trattata come una VIP.» A Marino il mio vice, Jack Fielding, sta antipatico. «Comunque, quello che volevo dire è che ho cercato di avvisarti. Non intendevo piombare qui come un fulmine a ciel sereno.» Marino si sta comportando in modo evasivo, me la sta raccontando. Per qualche motivo ha ritenuto necessario venire qui senza avvertirmi. Probabilmente voleva essere sicuro che io lo seguissi e non facessi storie. Intuisco che dev’esserci sotto qualcosa di grave. «Non credo che tu sia “piombato qui”, come dici, per il caso Gabriel.» «Purtroppo no.» «Cosa è successo?» «Abbiamo un problema.» Guarda fisso davanti a sé. «E ho detto a Fielding e a tutti gli altri che non ci sono santi: finché non arrivi tu il cadavere non si esamina.» Jack Fielding è un anatomopatologo forense molto esperto, che non prende ordini da Marino. Se il mio vice ha deciso di astenersi e aspettare che arrivi io, probabilmente si tratta di un caso che può avere implicazioni politiche, o per il quale rischiamo una denuncia. Mi irrita che Fielding non mi abbia telefonato o mandato un’e-mail. Controllo di nuovo l’iPhone: nessun messaggio da parte sua. «Ieri pomeriggio verso le tre e mezzo, a Cambridge» comincia Marino. Nel frattempo siamo arrivati in Atlantic Street, al centro della base, e procediamo lentamente nel crepuscolo. «A Norton’s Woods in Irving Street, a due passi da casa tua. Peccato che non fossi a casa! Saresti potuta intervenire subito sul posto, a piedi, e magari le cose sarebbero andate diversamente.» «In che senso?» «Maschio, bianco, fra i venti e i trent’anni. È uscito a portare a spasso il cane ed è morto all’improvviso. Un infarto? No, per niente» continua mentre passiamo in mezzo a file di capannoni, hangar e altri edifici di cemento e metallo contrassegnati da numeri. «In pieno giorno, di domenica pomeriggio, con un sacco di gente in giro perché c’era un evento in corso nella villa. Quella con il tetto verde di metallo, hai presente? Come si chiama?» Nel parco di Norton’s Woods c’è la sede dell’American Academy of Arts and Sciences, un edificio in legno bellissimo, con grandi vetrate, che viene affittato per convegni e cerimonie. È poco lontano dalla casa in cui, nella primavera scorsa, siamo

andati ad abitare io e Benton; io volevo essere più vicino al CFC e lui alla Harvard Medical School, dove ha una cattedra al dipartimento di Psichiatria. «In altre parole, sotto gli occhi e a portata d’orecchie di tutti» continua Marino. «Un posto e un orario del cavolo per far fuori qualcuno.» «Non hai detto che è morto di infarto? A parte il fatto che, così giovane, sarà stata un’aritmia cardiaca.» «Sì, la prima ipotesi è stata questa. Un paio di testimoni lo hanno visto portarsi le mani al petto e stramazzare a terra. Sembrava morto sul colpo. Lo hanno portato dritto da noi e ha passato la notte nella cella frigorifera.» «Perché dici che “sembrava” morto sul colpo?» «Perché stamattina presto, quando Fielding è andato a ritirarlo dalla cella frigorifera, ha notato delle gocce di sangue per terra e tantissimo sangue nel carrello. Ha chiamato subito Anne e Ollie. Il morto aveva perso sangue dal naso e dalla bocca. Sangue che ieri pomeriggio, quando è stata fatta la constatazione del decesso, non c’era. Quando l’hanno soccorso non c’era sangue, nemmeno una goccia. Si è messo a sanguinare dopo. Ed è sicuro che sia sangue; non sono fluidi organici da decomposizione, perché non si sta decomponendo. Il lenzuolo che gli hanno steso addosso è sporco di sangue, nel sacco mortuario c’è circa un litro di sangue: un casino. Mai visto sanguinare un morto in vita mia. Così ho raccomandato: “C’è un problema, nessuno dica un cazzo”.» «Cosa pensa Jack? Che cos’ha fatto?» «Scherzi, vero? Bel vice che hai! Non farmi parlare.» «È stato identificato? E perché proprio a Norton’s Woods? Abita lì vicino? È uno studente di Harvard? Della Divinity School?» È vicinissima a Norton’s Woods. «Dubito che fosse lì per partecipare all’evento in corso, visto che era con il cane.» Ostento molta più calma di quanta ne provi. Siamo nel parcheggio dell’Eagle’s Rest. «Non abbiamo molti particolari, per ora, ma pare che fosse un matrimonio» dice Marino. «La domenica del Super Bowl? E chi si sposa la domenica del Super Bowl?» «Chi non vuole nessuno alla festa. Oppure uno che non è americano, o è antiamericano. Non lo so, cazzo, ma non credo che il morto fosse tra gli invitati. E non soltanto per via del cane: aveva una Glock nove millimetri sotto la giacca, nessun documento di identità e ascoltava una radio satellitare portatile. Quindi molto probabilmente capirai dove voglio andare a parare.» «No, non capisco.» «Lucy ti saprà dire di più riguardo alla radio satellitare, ma sembra che stesse spiando qualcuno; e forse quel qualcuno ha deciso di restituirgli il favore. Insomma, a mio avviso gli hanno fatto qualcosa, lo hanno ferito. I soccorritori non se ne sono accorti, quelli dei trasporti funebri neanche, e l’hanno chiuso in un sacco. E lui durante il trasporto ha cominciato a sanguinare. Il guaio è che senza pressione arteriosa non poteva sanguinare, quindi vuol dire che era ancora vivo quando è arrivato all’obitorio ed è stato chiuso nella cella frigorifera. A quattro o cinque gradi, sarà morto assiderato durante la

notte. Ammesso che non fosse già morto dissanguato.» «Se aveva una ferita che ha causato quell’emorragia importante, come mai quando è stato trovato non sanguinava?» «Dimmelo tu.» «Per quanto tempo hanno cercato di rianimarlo?» «Un quarto d’ora, venti minuti.» «È possibile che durante i tentativi di rianimazione gli si sia perforato un vaso sanguigno?» chiedo. «Una ferita grave, ante o post mortem, può provocare un sanguinamento notevole. Per esempio, potrebbero avergli rotto una costola durante la rianimazione cardiopolmonare, provocando una lesione o recidendo un’arteria. È possibile che lo abbiano intubato in via presuntiva causando il danno e il sanguinamento che mi hai descritto?» Ma, nel momento stesso in cui faccio queste domande, so già la risposta. Marino ha una lunga esperienza in fatto di morti e omicidi. Non avrebbe requisito mia nipote e il suo elicottero per catapultarsi qui a Dover se ci fosse una spiegazione logica o anche soltanto plausibile. Jack Fielding è perfettamente in grado di riconoscere una lesione provocata da un artefatto accidentale. “Perché non si è fatto sentire?” «La caserma dei vigili del fuoco di Cambridge è a meno di due chilometri da Norton’s Woods, e difatti i soccorsi sono arrivati nel giro di pochi minuti» dice Marino. Siamo seduti sul furgone con il motore spento. È quasi completamente buio; il cielo e l’orizzonte si confondono e a ponente resta una traccia quasi impercettibile di luce. “Quando mai Fielding ha gestito un’emergenza senza di me?” È uno che si defila lasciando che gli altri rimedino ai pasticci che lui combina. Per questo non ha cercato di contattarmi. Magari si è di nuovo licenziato. Quante volte lo deve fare perché io smetta di riassumerlo? «Secondo loro, la morte è stata istantanea» aggiunge Marino. «A meno che uno non si disintegri saltando su un ordigno esplosivo, la morte istantanea non esiste» ribatto. Detesto che Marino faccia affermazioni così superficiali. Morte istantanea. Morto sul colpo. Morto prima ancora di toccare terra. Sono vent’anni che si esprime così, nonostante gli abbia ripetuto non so quante volte che l’arresto cardiaco e respiratorio non sono la causa, ma il sintomo della morte imminente, e che per arrivare alla morte clinica ci vogliono come minimo parecchi minuti. Non è un processo istantaneo né semplice. Gli ricordo ancora una volta questo dato di fatto della medicina perché non so che cos’altro dire. «Be’, ti sto soltanto riferendo quello che mi hanno detto. Secondo loro, era impossibile rianimarlo» replica Marino, come se i soccorritori ne sapessero più di me in fatto di morte. «“Nessuna reazione agli stimoli” hanno scritto sul referto.» «Li hai interrogati?» «Ho parlato con uno di loro stamattina, per telefono. Non aveva polso, non aveva riflessi né niente. Era morto. O per lo meno così ha detto lui. D’altra parte, cosa mi doveva dire? Che non erano sicuri che fosse morto, ma lo hanno mandato lo stesso

all’obitorio?» «Quindi gli hai spiegato perché gli stavi chiedendo precisazioni.» «Ma no! Non sono mica ritardato, cazzo. Non vogliamo che ’sta cosa finisca sulla prima pagina del “Boston Globe”, giusto? Se questa storia arriva alle orecchie dei giornalisti, posso pure tornarmene al dipartimento di New York o magari cercare lavoro come guardia giurata. Peccato che non assumano più nessuno, però.» «Quale procedura hai seguito?» «Io non ho seguito un bel niente. È stato Fielding. Naturalmente lui dice che ha fatto tutto a regola d’arte, che la polizia di Cambridge gli ha detto che non c’era nulla di sospetto, che si trattava di una morte naturale con tanto di testimoni. Allora lui ha autorizzato il trasferimento del cadavere al CFC e la pistola è stata presa in carico dalla polizia per gli accertamenti del caso. Normalissima routine, dice Fielding, e non è colpa nostra se i soccorritori hanno combinato un casino. Vuoi sapere come la penso io? Non importa: se la prenderanno con noi comunque. I media ci salteranno addosso e diranno che deve tornare tutto a Boston. Te l’immagini?» Prima che l’estate scorsa il CFC cominciasse a occuparsi di casi civili, l’Istituto di medicina legale del Massachusetts era a Boston. Afflitto da un sacco di problemi politici ed economici, era costantemente coinvolto in scandali che finivano sui giornali. Corpi andati perduti, spediti all’impresa di pompe funebri sbagliata, cremati troppo in fretta... In un caso di sospetto omicidio di un bambino erano addirittura stati esaminati i bulbi oculari di un altro cadavere. C’erano stati numerosi avvicendamenti alla sua direzione e vari uffici distrettuali erano stati chiusi per mancanza di copertura finanziaria, ma non era mai successo nulla di gravità paragonabile a ciò di cui mi sta parlando Marino. «Preferisco non immaginarmelo.» Apro la portiera. «Preferisco concentrarmi sui fatti.» «Non sarà facile, perché sembra che non ci siano molti fatti...» «E a Briggs hai detto le stesse cose che hai appena detto a me?» «Gli ho detto quello che doveva sapere» risponde Marino. Ripeto la domanda. «Le stesse cose che hai appena detto a me?» «Più o meno.» «Non avresti dovuto. Toccava a me dirglielo. Toccava a me decidere che cosa gli serviva sapere.» Sono seduta con la portiera aperta e il vento soffia dentro l’abitacolo. Ho ancora i capelli umidi e sento freddo. «Non è che devi parlare con i miei superiori se non riesci a parlare con me perché sono occupata.» «Be’, tu eri occupata e io ho parlato con lui.» Scendo dal furgone e cerco di rassicurarmi pensando che la descrizione di Marino non può essere precisa. I soccorritori di Cambridge non commetterebbero mai un errore così disastroso. Cerco di immaginare una ragione per cui una ferita mortale non ha sanguinato subito, ma solo in un secondo tempo, e mi arrovello sull’ora del decesso e su come possa quel poveretto essere morto nella cella frigorifera. Sono perplessa. Non mi raccapezzo e soprattutto sono preoccupata per questo ragazzo presunto morto arrivato al CFC avvolto in un lenzuolo e chiuso in un sacco mortuario. È una scena da vecchio film

dell’orrore. Uno che rinviene dentro la bara. Sepolto vivo. Non mi è mai successa una cosa così spaventosa. Non ho mai neppure sfiorato una simile tragedia, non una sola volta in tutta la mia carriera. Non conosco nessuno a cui sia successo. «Se non altro non sembra che abbia tentato di uscire dal sacco mortuario.» Marino cerca di consolarmi e tranquillizzarsi. «Non c’è niente che faccia pensare che a un certo punto si è svegliato ed è stato preso dal panico. Niente graffi sulla cerniera, segni che abbia scalciato o roba del genere. Se avesse cercato di liberarsi, penso che l’avremmo trovato in qualche posizione strana, oppure sarebbe caduto. Chissà se si riesce a respirare dentro quei sacchi, ora che ci penso. Probabilmente soffochi, perché sono impermeabili. Ma in realtà perdono. Trovami un sacco mortuario che non perda. E c’è anche un’altra cosa: gocce di sangue per terra, dall’ingresso di servizio fino alla cella frigorifera.» «Possiamo parlarne dopo?» È l’ora del check-in all’albergo e c’è parecchia gente nel parcheggio mentre ci incamminiamo verso l’ingresso, moderno e lineare. Marino ha un vocione che si sente da lontano, come se parlasse costantemente in un anfiteatro. «Dubito che Fielding si sia preso la briga di guardare i filmati» dice. «Dubito che abbia fatto un accidente di niente. Quello stronzo non si è fatto né vedere né sentire da stamattina all’alba. È di nuovo latitante. Come è già successo altre volte.» Apre il portone di vetro. «Spero proprio che non finisca per farci chiudere. Sarebbe il colmo. Tu gli fai un favore e gli dai un lavoro dopo che ti ha piantato in asso per l’ennesima volta, e lui rovina tutto.» Nella hall con le vetrine piene di medaglie e ricordi aeronautici, con le comode poltrone e il televisore maxischermo, una targa dà il benvenuto agli ospiti nella casa natale del C-5 Galaxy e del C-17 Globemaster III. Alla reception aspetto in coda, in silenzio, dietro un uomo con una tuta da combattimento tigrata che sta comprando crema da barba, acqua e varie mignon di scotch Johnnie Walker. Avverto l’impiegato che ho intenzione di partire prima del previsto e che, sì, mi ricorderò di riconsegnare le chiavi e naturalmente so che mi verrà addebitato il costo della camera – trentotto dollari, tariffa convenzionata con la pubblica amministrazione – anche se non mi fermo a dormire. «Com’è che dicono?» continua Marino. «Nessun’opera buona resta impunita.» «Cerchiamo di non essere così negativi.» «Io e te abbiamo rinunciato a un buon posto a New York e abbiamo chiuso l’ufficio di Watertown, ed ecco la ricompensa.» Non faccio commenti. «Spero proprio che non ci rovini la carriera» incalza Marino. Non gli rispondo perché ne ho già sentite abbastanza. Passiamo davanti al business center e ai distributori automatici di bevande e saliamo a piedi al secondo piano. A questo punto Marino mi informa che Lucy non ci sta aspettando al terminal dell’aviazione civile, ma è in camera mia. Mi sta facendo la valigia: tocca le mie cose e decide cosa prendere e cosa lasciare. Sta svuotando il mio armadio, i miei cassetti, prendendo il mio computer, la stampante e il router. Marino ha aspettato a dirmelo

soltanto adesso perché sa benissimo che in circostanze normali questo mi irriterebbe da morire, nonostante si tratti di mia nipote, genio dell’informatica ed ex agente federale, che ho tirato su come se fosse mia figlia. Le circostanze sono tutt’altro che normali, e mi fa piacere che Marino sia qui e Lucy nella mia stanza, che siano venuti a prendermi. Devo tornare a casa e sistemare tutto. Percorriamo il lungo corridoio con la moquette rossa e superiamo la balconata con gli arredi in stile coloniale e la poltrona massaggiante messa cortesemente a disposizione dei piloti stanchi. Inserisco la chiave magnetica nell’apposita fessura e mi chiedo chi abbia fatto entrare Lucy in camera mia. Poi penso di nuovo a Briggs e alla CNN: non riesco a immaginare di andare in TV, stasera. E se ai media fosse giunta voce di quel che è successo a Cambridge? A quest’ora lo saprei. Marino lo saprebbe. Il mio segretario Bryce lo saprebbe e me lo direbbe. No, andrà tutto bene. Lucy è seduta sul mio letto ben rifatto e sta chiudendo la cerniera del mio beauty case. Quando la bacio, sento il profumo del suo shampoo agli agrumi e mi rendo conto di quanto mi sia mancata. La tuta nera da aviatore mette in risalto il verde degli occhi e il biondo dorato dei capelli corti. Ha i lineamenti decisi, il fisico scattante, ed è bella, di una bellezza poco convenzionale, un po’ da maschiaccio ma femminile, muscolosa ma con un bel seno. Ha lo sguardo intenso, quasi severo. Anche quando scherza o vuole essere gentile, tende a intimidire il prossimo e ha pochi amici, o forse nessuno tranne Marino. I suoi amori non durano mai, nemmeno quello con Jaime. Non ho espresso ad alta voce i miei sospetti, non ho fatto domande, ma non credo che Lucy si sia trasferita da New York a Boston per motivi economici, come mi ha raccontato. Ammesso che la sua agenzia di indagini informatiche fosse in declino – e non ci credo –, guadagnava comunque più a Manhattan di quanto prenda adesso al CFC. Cioè niente. Mia nipote lavora praticamente gratis. Non ha bisogno di soldi. «Cos’è questa storia della radio satellitare?» La osservo attentamente, cercando di interpretare i segnali che manda, impercettibili e sconcertanti come sempre. Scuote un flacone contenente poche capsule di Advil, decide che non vale la pena di tenerlo e lo butta nel cestino. «Il tempo non è granché. Vorrei partire.» Toglie il tappo a una boccetta di Zantac e getta via anche quella. «Parleremo durante il volo. Dovrai farmi da secondo pilota e aiutarmi, perché non sarà facile evitare neve e ghiaccio sulla nostra rotta. A casa sono previsti trenta centimetri di neve, a partire dalle dieci.» Il mio primo pensiero va a Norton’s Woods. Voglio andare a fare un sopralluogo, ma prima che ci arrivi sarà coperto di neve. «Peccato» osservo. «C’è il rischio che la scena del crimine non venga mai analizzata.» «Ho raccomandato alla polizia di Cambridge di tornarci stamattina.» Marino si guarda intorno come se fosse la mia stanza a dover essere perquisita. «Non hanno trovato niente.» «Ti hanno chiesto perché volevi che ci tornassero?» Di nuovo la stessa preoccupazione. «Gli ho detto che avevamo dei dubbi. Per via della Glock. Il numero di serie era

abraso... non so se te l’ho detto, prima» aggiunge guardandosi intorno. Sembra che osservi tutto tranne me. «La balistica può tentare con l’acido. Spesso così si recupera il numero di serie. Altrimenti proveremo con l’LC-SEM» decido. «Se è rimasta qualche traccia del numero, con il microscopio elettronico a scansione a grande camera la troveremo. E chiederò a Jack di andare a fare un sopralluogo a Norton’s Woods.» «Ci andrà sicuramente. Vedrai» commenta Marino sarcastico. «Almeno qualche fotografia prima che cominci a nevicare...» dico. «O lui o qualcun altro. Chiunque sia di turno...» «Tempo sprecato» sentenzia Marino interrompendomi. «Non c’era nessuno di noi, ieri. Non sappiamo dove sia successo esattamente. Solo che era vicino a un albero e a una panchina verde. Sai che informazione, visto che il parco è di circa due ettari e mezzo ed è pieno di alberi e di panchine verdi.» «Non abbiamo fotografie?» chiedo mentre Lucy continua a esaminare la mia piccola farmacia di pomate, analgesici, antiacidi, vitamine, colliri e gel igienizzanti sparsi sul letto. «La polizia avrà scattato delle foto al cadavere in situ, no?» «Sto aspettando che me le mandino. L’investigatore che è intervenuto sul posto stamattina ci ha portato la pistola. Lester Law, detto anche Les Law. Pare che però lo chiamino tutti Lawless, senza legge, com’erano soprannominati già suo padre e suo nonno prima di lui. Una famiglia di poliziotti di Cambridge che risale ai tempi del Mayflower, cazzo. Non lo conoscevo.» «Direi che così può bastare.» Lucy si alza in piedi. «Se vuoi dare un’occhiata, per essere sicura che non mi sia dimenticata niente» mi dice. I cestini della spazzatura traboccano e i miei bagagli sono pronti, allineati vicino alla parete. La porta della cabina armadio è spalancata e dentro non c’è più niente, tranne le grucce vuote. Computer e relativi accessori, documenti stampati, articoli di riviste e libri sono spariti dal tavolo e non c’è più niente né nel cesto della biancheria sporca né in bagno o nei cassetti del comò. Apro il frigorifero: è vuoto e pulito. Mentre Lucy e Marino cominciano a portare via le mie cose, prendo l’iPhone e cerco il numero di Briggs. Guardo fuori, verso l’edificio di tre piani dall’altra parte del parcheggio, e osservo la grande vetrata al centro del terzo piano. Ieri sera ero in quella suite con lui e altri colleghi a guardare la partita e la vita mi sorrideva. Abbiamo applaudito i New Orleans Saints e noi stessi, abbiamo brindato al Pentagono e alla DARPA, l’Agenzia per i progetti di ricerca avanzati del dipartimento della Difesa, che ha reso possibili le autopsie virtuali con l’ausilio della TAC qui a Dover e adesso anche al CFC. Abbiamo festeggiato il compimento della missione, la conclusione di un buon lavoro, e adesso invece mi sento come se la serata di ieri fosse stata irreale, come se me la fossi sognata. Faccio un respiro profondo, seleziono il numero sul mio iPhone e sento un gran vuoto dentro. Briggs non sarà contento di me. Sullo schermo piatto del televisore montato sulla parete del suo salotto si muovono delle immagini. Lo vedo passare davanti alla vetrata, con l’uniforme da combattimento verde e beige con il colletto alla coreana che porta

abitualmente quando non è in obitorio o sulla scena di un crimine. Lo guardo rispondere al telefono e tornare verso la finestra, dove si ferma a fissare nella mia direzione. Da lontano, ci ritroviamo faccia a faccia, separati da uno spiazzo di asfalto e automobili parcheggiate, come se stessimo per sfidarci a duello. «Colonnello» mi risponde con voce cupa. «Ho appena saputo. Le assicuro che me ne occuperò subito. Entro un’ora sarò in elicottero.» «Sa che cosa dico sempre.» La sua voce profonda e autorevole risuona all’auricolare. Cerco di valutare la gravità del suo cattivo umore e le sue intenzioni. «A tutto c’è una risposta. Il problema è trovarla e capire qual è il modo migliore per arrivarci. Il più giusto e il più corretto.» È calmo, prudente, serio. «Rimandiamo tutto» aggiunge. Si riferisce all’ultimo briefing che avevamo in programma e sicuramente anche alla CNN. Mi domando cosa gli ha raccontato Marino. Che gli avrà detto esattamente? «D’accordo, John. Meglio annullare tutto.» «Ho già provveduto.» «Ottimo.» Sono pragmatica. Non intendo lasciargli intuire le mie insicurezze e so che sta cercando di fiutarle. Lo so benissimo. «La mia priorità è capire se ciò che mi è stato riferito è esatto. Perché non riesco a credere che lo sia.» «Non è il momento di andare in TV. Non è necessario che ce lo dica Rockman.» Rockman è l’addetto stampa. Briggs non ha bisogno di parlargli perché lo ha già fatto. Ne sono certa. «Capisco» rispondo. «Un tempismo straordinario. Se fossi paranoico, potrei pensare che qualcuno abbia voluto orchestrare una sorta di bizzarro sabotaggio.» «Tenuto conto di quel che mi è stato detto, non vedo come sia possibile.» «Ho detto “se fossi paranoico”» sottolinea Briggs. Da dove mi trovo, riesco a vedere la sua sagoma robusta, possente, ma non l’espressione del viso. Non ne ho bisogno: so che non sorride e che i suoi occhi grigi sembrano acciaio zincato. «Quanto al tempismo, o è una coincidenza o non lo è» dico. «È il principio fondamentale delle indagini criminali, John. Delle due, l’una.» «Non banalizziamo.» «Lungi da me.» «Se una persona ancora viva è finita nella vostra cella frigorifera, non riesco a pensare a nulla di peggio» replica in tono piatto. «Non sappiamo se...» «È proprio un peccato, dopo tutto questo.» Come se il lavoro che abbiamo fatto negli ultimi anni stesse per svanire di colpo. «Non sappiamo se il resoconto che ci è stato fatto è accurato...» ricomincio. Mi interrompe di nuovo. «Secondo me sarebbe meglio portare qui il cadavere. L’AFDIL può provvedere all’identificazione. Rockman penserà al contenimento del danno mediatico. Abbiamo tutto quello che ci serve.»

Resto basita. Briggs vuole mandare un aereo a Hanscom Field, la base dell’Aeronautica collegata al CFC. Vuole che il Laboratorio di identificazione genetica delle Forze armate e probabilmente altri laboratori militari si occupino della faccenda al posto mio, perché non mi ritiene all’altezza. Non si fida di me. «Non sappiamo se la faccenda sia di competenza federale» gli ricordo. «A meno che lei non sia al corrente di qualcosa che io ignoro.» «Senta, sto cercando di fare ciò che è meglio per tutti.» Briggs ha le mani dietro la schiena e le gambe leggermente divaricate e guarda verso di me, dall’altra parte del parcheggio. «Sto dicendo che potremmo mandare un C-17 a Hanscom. Entro mezzanotte avremmo qui il cadavere. In fondo il CFC è anche un centro di smistamento cadaveri. Ha questa funzione.» «No, la funzione del CFC non è ricevere cadaveri per poi trasferirli e far eseguire le autopsie e le analisi altrove. Il CFC non è nato per fare controlli preliminari prima che entrino in scena gli esperti, per smistare i casi da mandare a Dover. Il mio compito non è questo, e non erano questi i patti quando sono stati investiti trenta milioni di dollari nella struttura di Cambridge.» «Lei dovrebbe rimanere qui a Dover, Kay. Faremo venire qui il cadavere.» «La prego di non interferire, John. Al momento questo caso è di competenza dell’Istituto di medicina legale del Massachusetts. La prego di non mettere in discussione me o la mia autorità.» Dopo una lunga pausa, Briggs afferma, più che chiedere: «Lei vuole davvero questa responsabilità». «Che io la voglia o no, è irrilevante. Ce l’ho.» «Sto cercando di proteggerla, Kay.» «Non è il caso.» Non è questo che sta cercando di fare. Non si fida di me. «Posso affiancarle il capitano Avallone. Mi sembra una buona idea.» Stento a credere alle mie orecchie. «Non occorre» replico con fermezza. «Il CFC è perfettamente in grado di gestire la cosa.» «Vorrei che venisse preso nota del fatto che gliel’ho proposto.» “Preso nota da chi?” Mi viene il dubbio che qualcuno stia origliando, che la telefonata sia sotto controllo. Briggs è ancora in piedi davanti alla finestra e io non vedo se nella stanza con lui c’è qualcun altro. «Qualunque cosa lei decida di fare, io non mi opporrò» dice dopo un po’. «Mi chiami non appena ha delle novità. Anche durante la notte, se necessario.» Non mi saluta, non mi augura buona fortuna, non mi dice che è stato un piacere lavorare insieme per sei mesi.

2 Lucy e Marino sono usciti dalla mia stanza. Valigie, zaini e scatoloni non ci sono più: non resta niente, è come se non fossi mai stata qui e mi sento sola come non mi sentivo da anni, forse addirittura da decine di anni. Mi guardo intorno un’ultima volta per accertarmi di non dimenticare nulla e la mia attenzione vaga per un attimo sul forno a microonde, sul piccolo frigorifero con congelatore e sulla caffettiera, oltre le finestre con vista sul parcheggio e sulla suite illuminata di Briggs, verso il cielo nero sopra il campo da golf deserto. Nuvoloni scuri passano davanti alla luna oblunga facendola accendere e spegnere come un semaforo, quasi volesse avvertirmi che sta arrivando un treno, dirmi se devo fermarmi o proseguire. Non vedo stelle. Temo che la perturbazione si stia avvicinando in fretta, trasportata dallo stesso vento forte da sud che porta qui gli aerei con il loro triste carico. Dovrei sbrigarmi, ma mi lascio distrarre dallo specchio del bagno, dalla persona che vi vedo riflessa. Mi guardo alla luce forte del neon. “Chi sei adesso? Chi sei veramente?” Decido che i miei occhi azzurri, i capelli corti biondi, la forma decisa del viso e del fisico non sono cambiati molto. Sono abbastanza uguale a prima, nonostante l’età. Ho retto bene agli anni trascorsi per lo più in luoghi di cemento e acciaio, senza finestre. In gran parte è ereditario, merito di una voglia di vivere e prosperare che ho nei geni, essendo nata in una famiglia dal destino tragico come un’opera di Verdi. Gli Scarpetta sono una stirpe robusta, originaria del Nord Italia, con lineamenti marcati, pelle e capelli chiari, ossatura e muscoli ben definiti che resistono ostinatamente alle avversità e alle conseguenze di quegli eccessi in cui la gente pensa che io non cada. Ma la tendenza c’è: una passione per il mangiare, il bere e i desideri carnali, per quanto distruttivi. Amo la bellezza e provo emozioni forti, ma so anche essere risoluta e inaccessibile, inamovibile e implacabile. Sono comportamenti che ho appreso, che ritengo necessari. Non mi vengono naturali, né a me né a nessuno della mia famiglia volubile e incline al dramma, e di questo, riguardo alle mie origini, sono sicura. Di tutto il resto, meno. I miei antenati erano contadini e ferrovieri, ma quando mia madre si è messa a fare ricerche genealogiche ha trovato anche artisti, filosofi, martiri e Dio sa chi altro. Secondo lei, fra i miei antenati ci sono gli artigiani che hanno costruito l’altare maggiore e il coro della basilica di San Marco, ne hanno realizzato i mosaici e hanno affrescato il soffitto della chiesa di San Raffaele Arcangelo. Pare ci siano anche vari frati e monaci. L’ultima è che, non so in base a che cosa, avrei legami di sangue persino con Caravaggio, che era un assassino, e con Giordano Bruno, astronomo e matematico che fu mandato al rogo per eresia nel periodo della Santa Inquisizione. Mia madre vive ancora nella sua casetta di Miami e non si sa spiegare come mai io sia l’unico medico che le risulti nell’albero genealogico di famiglia e soprattutto perché abbia scelto di occuparmi di morti. Né mia madre né la mia unica sorella, Dorothy, riescono a concepire che io possa essere stata influenzata da un’infanzia passata ad assistere un padre malato incurabile e dal fatto di essere diventata il capofamiglia all’età

di dodici anni. Per istinto e per formazione, sono esperta in fatto di violenza e di morte. La mia è una guerra contro la sofferenza e il dolore. In un modo o nell’altro, finisco sempre per essere responsabile, o colpevole, di tutto. Sempre. Chiudo la porta di quella che per sei mesi è stata la mia casa, ma non solo. Briggs è riuscito a ricordarmi da dove vengo e dove sto andando. È una rotta che è stata stabilita ben prima del luglio scorso, sin dal 1987, quando pensavo di essere destinata a lavorare per la pubblica amministrazione e non sapevo come fare a rimborsare i debiti che avevo contratto per pagarmi gli studi e laurearmi in medicina. Fu allora che permisi al vil denaro e a una caratteristica vergognosa come l’ambizione di cambiare ogni cosa in maniera irrevocabile e tutt’altro che positiva. A quei tempi ero giovane e idealista, orgogliosa. Volevo di più e non capivo che spesso in questo modo si diventa insaziabili, mai contenti. Avendo studiato gratis sia alla scuola cattolica sia alle facoltà di Giurisprudenza della Cornell e di Georgetown, avrei potuto cominciare la mia carriera libera dai debiti, ma rinunciai a frequentare medicina alla Bowman Gray perché desideravo iscrivermi alla Johns Hopkins. Lo desideravo come non avevo mai desiderato nient’altro in vita mia. Così ci andai senza nessun aiuto economico e finii per accumulare un debito impossibile da risarcire. L’unica soluzione, a quel punto, era accettare una borsa di studio militare. Lo facevano in molti, compreso Briggs, che conobbi all’inizio della mia attività professionale, quando fui assegnata all’AFIP, l’Istituto di medicina legale delle Forze armate, ovvero l’organizzazione da cui dipende l’AFME. Briggs mi assicurò che, dopo un breve periodo a rivedere referti di autopsie sui soldati presso il Walter Reed, l’ospedale militare di Washington, e una volta ripagati i debiti, avrei ottenuto un posto sicuro nella medicina legale civile. Però non avevo messo in conto quello che accadde in Sudafrica nel dicembre del 1987. In quel continente lontano era estate, e Noonie Pieste e Joanne Rule, che avevano pressappoco la mia età, stavano girando un documentario quando vennero legate a una sedia e massacrate di botte. Qualcuno infilò loro una bottiglia rotta nella vagina e strappò loro la trachea. Un duplice omicidio di stampo razzista contro due giovani americane. “Vada lei a Città del Capo” mi disse Briggs. “Svolga le indagini necessarie e le riporti in patria.” Erano tempi di apartheid, propaganda, menzogne. “Perché proprio loro? E perché proprio io?” Mentre scendo le scale per tornare nella hall, mi impongo di non pensarci proprio adesso. “Perché ci sto pensando?” So benissimo perché. Stamattina me ne sono sentita dire di tutti i colori al telefono. Sono stata insultata. Ho rivissuto quel che mi accadde oltre vent’anni fa. Ricordo referti di autopsie spariti e bagagli perquisiti. Ricordo la certezza che anch’io sarei stata trovata convenientemente morta per un incidente, un suicidio, o un omicidio premeditato, come quello delle due giovani donne che rivedo ancora con la stessa chiarezza di allora, pallide e irrigidite sul tavolo d’acciaio. Il sangue defluiva negli scarichi del pavimento, in quella struttura talmente rudimentale che ci

toccò usare seghetti a mano per aprire il cranio alle due morte. Non c’era l’apparecchio per le radiografie e dovetti usare la mia macchina fotografica perché non ce n’erano altre. Lascio la chiave alla reception e, ripensando alla telefonata con Briggs, vedo la verità con grande chiarezza. Non so come ho fatto a non vederla subito. Ripenso al suo tono distaccato, alla sua gelida determinazione mentre lo guardavo dal vetro. L’ho sentito parlare in questo modo in diverse occasioni, ma di solito ad altre persone, in presenza di problemi di entità tale da sfuggire al suo controllo. Questa volta non si tratta solo della sua opinione su di me, dei suoi tipici calcoli e del nostro passato conflittuale. Qualcuno gli ha detto qualcosa, e non è stato l’addetto stampa o altri qui a Dover, ma qualcuno che sta molto più in alto. Sono sicura che Briggs ha parlato con Washington, dopo che Marino gli ha raccontato quello che avrebbe dovuto tacere, illustrando le sue sconsiderate ipotesi senza darmi il tempo di dire la mia. Non avrebbe dovuto parlare né del caso di Cambridge né di me. Ha messo in moto qualcosa di cui nemmeno lui si rende conto, perché sono tante le cose di cui Marino non si rende conto. Non è mai stato un militare, non ha mai lavorato per il governo federale e non sa niente di relazioni internazionali. La sua esperienza si limita alle beghe politiche fra dipartimenti di polizia locali, che liquida come “stronzate”. Non ha idea di cosa sia il potere che può ribaltare un’elezione presidenziale o far scoppiare una guerra. Briggs non avrebbe suggerito di mandare un aereo militare nel Massachusetts per trasferire a Dover il cadavere se non avesse già avuto l’autorizzazione del dipartimento della Difesa, ovvero del Pentagono. È stata presa una decisione senza consultarmi. Fuori, nel parcheggio, salgo sul furgone e non guardo neppure Marino, tanto sono arrabbiata. «Parlami della radio satellitare» dico a Lucy, perché intendo arrivare fino in fondo alla faccenda. Voglio scoprire che cosa sa Briggs, o che cosa gli è stato fatto credere. «Una Sirius Stiletto» risponde Lucy dal buio del sedile posteriore, mentre alzo il riscaldamento perché Marino ha caldo anche quando tutti gli altri gelano. «Praticamente è un MP3 dotato di alimentatore che funge anche da radio portatile XM. È stato ideato per questo. Ma la novità sono le cuffie, tecnicamente molto interessanti.» «Hanno una telecamera miniaturizzata e un microfono incorporato» interviene Marino mentre guida. «È per questo che penso che fosse il morto a spiare e non viceversa. Come faceva a non sapere che aveva un impianto di videoregistrazione incorporato nelle cuffie?» «È possibile che non lo sapesse. Può darsi che qualcuno lo stesse spiando a sua insaputa» dice Lucy rivolta a me, e intuisco che lei e Marino devono aver litigato in proposito. «Il foro stenopeico della telecamera è nella fascia sulla testa, ma è proprio sul bordo e quasi non si vede. E, anche se uno lo nota, non è detto che gli venga in mente che dietro si nascondano una telecamera wireless più piccola di un chicco di riso, un trasmettitore audio altrettanto piccolo e un sensore di movimento che va in standby dopo novanta secondi, se non si muove nulla. Il tipo girava con una micro webcam che

registrava sull’hard disk della radio e su un’ulteriore scheda SD da otto giga. Non posso ancora dirti se lo sapeva, ovvero se era stato lui a mettercela. È quello che pensa Marino, ma io non ne sono sicura.» «La scheda SD è in dotazione con la radio o è stata aggiunta?» domando. «È stata aggiunta. Un sacco di memoria, quindi. Quello che sarei curiosa di scoprire è se i file venivano scaricati periodicamente altrove, per esempio sui computer di casa. Se riuscissimo a metterci sopra le mani, forse capiremmo qualcosa di più.» Lucy sta dicendo che i file video che ha guardato finora non ci rivelano granché. Ha motivo di sospettare che il morto abbia uno o più computer a casa, ma non ha ancora trovato nulla da cui risalire al suo indirizzo o alla sua identità. «I filmati memorizzati sul disco fisso e sulla scheda SD risalgono al massimo al 5 febbraio, cioè a venerdì scorso» continua. «Non so se questo vuol dire che la sorveglianza era appena cominciata o, più probabile, che i file video sono molto pesanti e occupano parecchio spazio, quindi vanno scaricati altrove. I nuovi filmati vengono poi registrati sopra i vecchi sul disco fisso e sulla scheda. Quelli che abbiamo, dunque, potrebbero essere solo i file più recenti. Questo non significa che non ne esistano altri.» «Dunque i video venivano scaricati da remoto.» «È quello che farei io, se fossi la spia» risponde Lucy. «Mi collegherei alla videocamera da remoto e scaricherei quello che mi serve.» «E guardare in tempo reale?» domando ancora. «Certo. Se era lui a essere spiato, quello che lo spiava poteva collegarsi alla webcam e sorvegliarlo in tempo reale.» «Per seguirlo, pedinarlo?» «Un motivo potrebbe essere quello. Oppure per raccogliere informazioni, tenerlo sotto controllo. Come fanno certi quando pensano che il partner li tradisca. Tutto è possibile.» «Anche che costui abbia inavvertitamente filmato la propria morte.» Provo un barlume di speranza e nello stesso tempo sono turbata al pensiero. «Dico “inavvertitamente” perché non sappiamo nulla. Per esempio, non sappiamo se abbia filmato in modo intenzionale la propria morte e quindi se si sia suicidato. Non me la sento di escludere nessuna ipotesi, al momento.» «Che si sia suicidato è escluso» dichiara Marino. «In questa fase non dovremmo escludere nessuna ipotesi» ribadisco. «Un kamikaze, per esempio» suggerisce Lucy. «Come a Columbine e Fort Hood. Magari aveva intenzione di far fuori più gente che poteva a Norton’s Woods e poi ammazzarsi, ma è successo qualcosa e non ci è riuscito.» «Non sappiamo con che cosa abbiamo a che fare» ripeto. «La Glock aveva diciassette colpi nel caricatore e uno in camera» mi dice Lucy. «Una potenza di fuoco notevole. Di che rovinare un matrimonio, decisamente. Dobbiamo farci dire chi erano gli sposi e chi avevano invitato.» «Chi vuole fare una strage si porta appresso dei caricatori di riserva» osservo, perché so tutto sui massacri di Fort Hood e del Virginia Tech, su troppe stragi in cui i colpevoli

hanno aperto il fuoco senza badare a chi uccidevano. «Di solito hanno munizioni in abbondanza e armi di riserva. Ma sono d’accordo con te. L’American Academy of Arts and Sciences è una sede prestigiosa. Dobbiamo scoprire chi erano gli sposi e gli invitati al matrimonio di ieri.» «Immagino che tu sia socia dell’Academy» mi dice Marino. «Magari sai a chi rivolgerti per farti dare un elenco dei soci e il calendario degli eventi.» «Non sono socia.» «Davvero?» Mi astengo dal fargli presente che non ho vinto Nobel né Pulitzer e che non ho dottorati di ricerca, ma soltanto una laurea in medicina e una in giurisprudenza, che per l’Academy non contano. Potrei ricordargli che non ci serve l’elenco dei soci, dal momento che anche i non soci possono affittare quei locali. Basta avere soldi e conoscenze. Non ho voglia di dargli spiegazioni dettagliate. Non avrebbe dovuto chiamare Briggs. «Una bella notizia, e una un po’ meno bella, riguardo ai filmati.» Lucy si sporge da dietro e mi passa il suo iPad. «La bella notizia è che, come pensavo, sembra che non sia stato cancellato nulla, per lo meno recentemente. E questo potrebbe essere un argomento a favore della tesi secondo cui a spiare era il morto. Se fosse stato qualcun altro a spiare lui e lo avesse ammazzato, probabilmente avrebbe cancellato tutto dal disco fisso e dalla scheda SD, per evitare che gente come noi potesse visionare i filmati.» «Perché non ha portato via anche la radio e le cuffie, allora?» dice Marino. «Se lo hanno pedinato e poi lo hanno fatto fuori... Fossi stato io, avrei preso la radio e le cuffie e me le sarei portate via. Secondo me, era lui a filmare, non qualcun altro. Scommetto che era coinvolto in qualcosa di losco e, qualunque fosse il motivo per cui girava con una telecamera, era l’unico a saperlo. Quel che non quadra è che nel video non si vede chi lo ha fatto fuori, e questo mi pare importante. Se è stato aggredito mentre portava a spasso il cane, com’è che la telecamera non ha ripreso l’assassino?» «Non lo ha ripreso perché lui non l’ha visto» ribatte Lucy. «Non ha guardato in faccia l’assassino.» «Ammesso che sia stato ucciso» faccio notare. «Giusto» dice Lucy. «Una telecamera nascosta nelle cuffie riprende più o meno quello che vede chi le ha in testa. Un po’ come un terzo occhio.» «Allora vuol dire che è stato aggredito alle spalle» conclude Marino. «Ed è successo tutto così in fretta che non ha fatto manco in tempo a voltarsi. O è andata così, o è stato un cecchino. Potrebbero avergli sparato qualcosa da lontano. Una freccia avvelenata, per esempio. Non esiste qualche veleno che provoca emorragie? Sembrerà anche inverosimile, ma succede. Vi ricordate la spia del KGB pugnalata con un ombrello con del ricino sulla punta? Era alla fermata dell’autobus e nessuno si è accorto di niente.» «Era un dissidente bulgaro che lavorava per la BBC e non è sicuro che si trattasse di un ombrello. Ti stai addentrando nella foresta senza avere la mappa» gli dico. «Comunque il ricino non ti uccide sul colpo» puntualizza Lucy. «Quasi nessun veleno

ha un effetto così immediato; nemmeno il gas di cianuro. Non credo che sia stato avvelenato.» «Stiamo facendo supposizioni inutili» ribatto. «La mia mappa è l’esperienza che ho accumulato in polizia» mi risponde Marino. «Sto usando il ragionamento deduttivo. Non per niente mi chiamano Sherlock.» Si tocca il berretto da baseball con l’indice. «Da quando in qua ti chiamano Sherlock?» chiede Lucy dal sedile posteriore. «Fare così non serve a niente» insisto guardando Marino. Il volante gli sfiora la pancia, anche se lui si considera in gran forma. «Non sei tu quella che mi consiglia sempre di usare il pensiero laterale?» Lo dice in tono duro, sulla difensiva. «Tirare a indovinare non serve a niente. Collegare i puntini che potrebbero essere quelli sbagliati è un’imprudenza, lo sai.» Marino ha sempre avuto la tendenza a trarre conclusioni affrettate, ma è peggiorato da quando è a Cambridge e lavora di nuovo per me. La colpa, a mio parere, è della presenza militare nella nostra vita, costante come il passaggio degli aerei da trasporto nel cielo di Dover, e, più direttamente, di Briggs. Marino ha una ridicola infatuazione per quest’uomo, potente anatomopatologo forense e generale dell’esercito. Non ha mai dato importanza ai miei rapporti con l’ambiente militare, né passati né dopo l’11 settembre. Li ha sempre ignorati, come se non esistessero. Guarda fisso davanti a sé e i fari di una macchina che viaggia in senso contrario gli illuminano la faccia. Vedo che è di malumore e confuso. In altre circostanze mi farebbe tenerezza, perché gli voglio bene, ma in questo momento no. Sono troppo arrabbiata con lui, anche se ho intenzione di non farmene accorgere. «Cos’altro hai detto a Briggs, oltre a esprimergli le tue opinioni?» gli domando. Siccome Marino non risponde, lo fa Lucy. «Briggs ha visto la stessa cosa che stai per vedere tu» dice. «Non è stata un’idea mia, e non sono stata io a mandarglielo per posta elettronica, tanto per chiarire.» «Cos’è che non gli hai mandato tu, per posta elettronica?» Ma so già di che cosa si tratta e non riesco a crederci. Marino ha mandato a Briggs informazioni riguardanti un caso mio. Briggs le ha avute prima di me. «Me lo ha chiesto lui» dice Marino, come se fosse un motivo sufficiente. «Che cosa dovevo dirgli?» «Non avresti dovuto dirgli niente. Mi hai scavalcato. Il caso non è suo» rispondo. «Sì, be’, in un certo senso lo è» ribatte Marino. «È stato nominato dal ministro della Sanità, cioè praticamente dalla Casa Bianca. Mi pare che sia superiore in grado a tutti noi.» «Il generale Briggs non è il direttore del CFC e tu non lavori per lui. Lavori per me.» Misuro le parole. Mi sforzo di sembrare calma e ragionevole, come quando un avvocato della parte avversa cerca di smontarmi al banco dei testimoni. Lo faccio sempre quando sento che Marino sta per mettersi a imprecare e a sbattere le porte. «Il CFC ha una

giurisdizione mista e può occuparsi di casi federali. Mi rendo conto che questo può generare confusione. La nostra è un’iniziativa congiunta statale, federale e dell’MIT di Harvard. So che è una situazione nuova e senza precedenti, ma proprio per questo avresti dovuto lasciare che me ne occupassi io, invece di bypassarmi.» Cerco di sembrare accomodante e pragmatica. «Coinvolgere il generale Briggs prima del tempo, precipitosamente, rischia di farci sfuggire le cose di mano. Ma quel che è fatto è fatto.» «Come sarebbe a dire “quel che è fatto è fatto”?» Marino pare meno sicuro di sé. Percepisco una nota di ansia nella sua voce e non ho intenzione di aiutarlo. Deve rifletterci lui, perché è stato lui a farlo. «Qual è la notizia un po’ meno bella?» mi volto a chiedere a Lucy. «Guarda» risponde. «Sono le ultime tre registrazioni, fra cui un minuto qua e là quando le cuffie sono state spostate dai soccorritori e dai poliziotti, e un pezzetto di stamattina, quando le ho prese in mano per esaminarle nel mio laboratorio.» Lo schermo dell’iPad brilla colorato nel buio. Tocco l’icona del primo file video selezionato da Lucy per farlo partire e vedo quello che il morto vedeva ieri alle 15.04, e cioè un levriero bianco e nero acciambellato su un divano blu in un salotto con il parquet e un tappeto rosso e blu. La telecamera si muove insieme a lui, perché ha le cuffie in testa e riprende: un tavolino basso carico di libri e giornali in pile ordinate e di fogli che sembrano da disegno, o di carta millimetrata, con una matita posata sopra; una finestra con gli scuri di legno chiusi; una scrivania con due grandi schermi piatti, due MacBook silver e un telefono messo in carica, forse un iPhone, vicino a una pipa di vetro giallastra in un posacenere; una lampada a piantana con il paralume verde; una cuccia di pile e vari giocattoli per cani. Intravedo una porta con serratura di sicurezza e chiavistello e, su una parete, fotografie incorniciate e poster che passano troppo veloci perché io riesca a distinguerne i particolari. Li studierò in seguito. Per il momento non noto nulla da cui dedurre chi sia l’uomo o dove abiti, ma ho l’impressione che si tratti della casa di una persona che ama gli animali, è relativamente agiata e tiene alla sicurezza e alla privacy. Presumendo che la casa e il cane siano suoi, si tratta di un uomo intellettualmente e tecnologicamente molto evoluto, creativo e organizzato, che forse fuma marijuana e che si è scelto come animale domestico un cane bisognoso di cure; non un esemplare da ostentare, ma una creatura che ha subito maltrattamenti e non è in grado di cavarsela da sola. Mi preoccupo per il cane, vorrei sapere che cosa gli è successo. Sono certa che soccorritori e polizia non hanno lasciato un povero levriero a Norton’s Woods ieri pomeriggio, solo e abbandonato nell’inverno del New England. Benton mi ha detto che c’erano meno undici gradi stamattina a Cambridge, e stanotte è prevista neve. Forse il cane si trova nella caserma dei vigili del fuoco, dove viene ben nutrito e ha compagnia ventiquattr’ore su ventiquattro. Forse se l’è portato a casa l’investigatore Law o qualcun altro della polizia. Ma può anche darsi che nessuno si sia reso conto che il cane era dell’uomo che è morto. Oh, mio Dio, sarebbe terribile.

«Che fine ha fatto il cane?» non posso fare a meno di chiedere. «Non ne ho la più pallida idea» risponde Marino lasciandomi sgomenta. «Abbiamo scoperto della sua esistenza solo stamattina, quando io e Lucy abbiamo guardato quel che stai guardando tu. I soccorritori non ricordano di aver visto levrieri in giro... certo, potrebbero non averlo notato... ma hanno detto che il cancello di Norton’s Woods era aperto quando sono arrivati. Probabilmente lo sai, quel cancello non viene mai chiuso, è quasi sempre spalancato.» «Non ce la farà con questo gelo. Com’è possibile che nessuno abbia notato una povera bestia sola e abbandonata? Perché immagino che abbia corso nel parco per un po’, prima di uscire dal cancello. Non penso che sia scappato subito verso la strada, appena il padrone si è sentito male.» «Tanti lasciano i cani liberi di correre senza guinzaglio in parchi come Norton’s Woods» interviene Lucy. «Io con Jet Ranger lo faccio.» Jet Ranger è il suo vecchissimo bulldog e dire che corre è un’esagerazione. «Può darsi che nessuno lo abbia notato perché non era l’unico cane che girava senza guinzaglio» aggiunge Lucy. «A parte il fatto che saranno stati tutti preoccupati per quel poveraccio morto stecchito» rincara Marino. Guardo fuori del finestrino gli alloggi militari lungo la strada poco illuminata e gli aerei grandi e brillanti come pianeti nel cielo buio e nuvoloso. Non riesco a trovare una logica in ciò che mi viene raccontato. Mi sembra strano che il levriero non sia rimasto vicino al padrone. Forse è stato preso dal panico, oppure c’è qualche altro motivo per cui nessuno l’ha notato. «Prima o poi salterà fuori» continua Marino. «È escluso che in una zona come quella nessuno si accorga di un levriero che vaga solo e abbandonato. L’avrà preso un vicino di casa, uno studente. A meno che il tipo non sia stato ammazzato e l’assassino si sia preso il cane. È possibile.» «Perché?» domando perplessa. «Come dicevi tu, dobbiamo mantenerci aperti a tutte le possibilità» risponde. «L’assassino potrebbe essere rimasto lì a vedere che cosa succedeva e aver aspettato il momento opportuno per allontanarsi con il cane facendo finta che fosse suo.» «Sì, ma perché?» «Perché dal cane forse si poteva risalire a lui» ipotizza. «Magari temeva che fosse un indizio. Oppure se l’è portato via per gioco. Per fare uno scherzo. Per tenersi un souvenir. Chi lo sa? Nel video si vede che a un certo punto gli viene tolto il guinzaglio. Però il guinzaglio non è stato ritrovato. Non è arrivato insieme con le cuffie o con il cadavere.» Il cane si chiama Sock. Sul display dell’iPad, l’uomo si incammina e fa schioccare la lingua, dicendo a Sock che è ora di andare. “Andiamo, Sock” lo chiama, con una bella voce baritonale. “Su, vieni, pigrone, che andiamo a fare una passeggiata e la cacca.” Riconosco un lieve accento, britannico o australiano. O forse sudafricano. Sarebbe

strano, una coincidenza davvero bizzarra. Devo smettere di pensare al Sudafrica. “Concentrati su ciò che hai davanti” mi dico. Sock scende dal divano e noto che non ha il collare. Dal nome immagino sia maschio. È magro, con le costole lievemente sporgenti come la maggior parte dei levrieri. È un cane adulto, se non addirittura anziano, e ha un orecchio sfilacciato, forse per una vecchia ferita. Sono certa che è stato salvato dal giro delle corse dei cani e adottato e mi chiedo se abbia il microchip. Se lo avesse, ammesso che riusciamo a trovarlo, saremmo in grado di scoprire da dove viene e forse anche chi è il suo attuale proprietario. Due mani entrano nell’inquadratura: l’uomo si china per mettere un guinzaglio rosso al collo lungo e magro di Sock. Noto un orologio di metallo grigio con tachimetro e vedo un riflesso d’oro, un anello con uno stemma, forse di un college. Se l’anello è arrivato al CFC con il cadavere, potrebbe esserci utile perché forse c’è inciso qualcosa. Le mani sono delicate, con le dita affusolate, la pelle è olivastra. Intravedo un giaccone verde e un paio di pantaloni neri con i tasconi, più la punta di uno scarpone da trekking marrone un po’ graffiata. La telecamera inquadra la parete sopra il divano, rivestita di pannelli di castagno tarlato, e la parte inferiore di una cornice metallica, poi si alza e compare un poster, o una stampa. L’uomo adesso è in piedi; vedo la riproduzione di un disegno che conosco, uno schizzo di Leonardo da Vinci raffigurante un congegno alato, una macchina volante. Torno indietro con il pensiero a parecchi anni fa. Quando è stato esattamente? L’estate del 2001, prima dell’11 settembre. Portai Lucy a una mostra su “Leonardo inventore” alla Courtauld Gallery di Londra e passammo molte ore ad ascoltare affascinate le parole di alcuni degli scienziati più illustri del mondo e a osservare i disegni di Leonardo per progetti di macchine da acqua, da terra e da guerra: la vite aerea, il completo da palombaro, il paracadute, la balestra gigante, il carro automotore e l’automa cavaliere. Il grande genio del Rinascimento era convinto che l’arte è scienza e la scienza è arte e che nella natura è possibile trovare la soluzione a tutti i problemi, a condizione di essere meticolosi e buoni osservatori e di cercare la verità con costanza. Ho tentato di insegnarlo a mia nipote fin da quando era piccola, spiegandole che possiamo imparare molto da ciò che ci circonda, se lo guardiamo con umiltà e coraggio. L’uomo che vedo sul display ha tutte le risposte che mi servono. “Parlami. Raccontami. Chi sei? Che cosa ti è successo?” Va verso la porta, che è chiusa con il chiavistello, e la prospettiva si modifica di colpo: l’angolazione della telecamera cambia al punto che mi chiedo se l’uomo si sia spostato le cuffie sulla testa. Forse non le aveva completamente sulle orecchie e ora che sta per uscire si prepara ad ascoltare della musica. Passa davanti a una sorta di grottesca scultura, un macchinario che pare composto da rottami di metallo assemblati rozzamente. Fermo l’immagine, ma non riesco lo stesso a capire di che cosa si tratti; mi riprometto, non appena avrò il tempo, di rivedere i file esaminando con cura tutti i dettagli e magari facendomi ingrandire i particolari da Lucy. Adesso, però, devo accompagnare l’uomo e il suo cane nel parco che si trova a due passi da casa mia e di

Benton. Devo assistere a ciò che è accaduto. Fra qualche minuto quest’uomo morirà. “Fammi vedere e io capirò. Scoprirò la verità. Mi occuperò di te.” L’uomo e il cane scendono quattro rampe di scale male illuminate. I loro passi riecheggiano leggeri e veloci su gradini di legno senza moquette, dopodiché i due escono in una strada rumorosa, trafficata. Il sole è basso e ci sono chiazze di neve incrostate in superficie di una polvere scura che sembra fatta di briciole di biscotti al cacao. Ogni volta che l’uomo guarda verso il basso, vedo lastre di pietra bagnate, asfalto, sale e sabbia sparsi qua e là. Quando gira la testa, guardandosi intorno mentre cammina, automobili e persone sussultano e traballano. In sottofondo si sente della musica: Annie Lennox. A me arriva solo quello che esce dalle cuffie ed entra nel microfono nascosto vicino alla telecamera. Evidentemente l’uomo tiene il volume molto alto. Male: potrebbe non sentire se qualcuno gli si avvicina alle spalle. Se è tanto preoccupato per la sua sicurezza da chiudere la porta di casa con il chiavistello e girare armato di pistola, perché non si premura di sentire quello che succede intorno a lui? Ma al giorno d’oggi la gente è sconsiderata. Anche i più prudenti ormai sono pericolosamente abituati al multitasking e mandano SMS o controllano la posta elettronica mentre guidano, fanno funzionare macchinari pericolosi o attraversano la strada. Ormai tutti parlano al cellulare andando in bicicletta o sui pattini o addirittura pilotando un velivolo. Quante volte ho detto a Lucy di non rispondere al telefono dell’elicottero? Non importa che sia Bluetooth e le lasci le mani libere. Vedo ciò che vede l’uomo e riconosco la strada che sta percorrendo, Concord Avenue; cammina di buon passo con Sock, passando davanti a condomini di mattoni, alla sede del dipartimento di polizia di Harvard e poi alla tenda bordeaux dell’hotel Sheraton Commander, di fronte al parco pubblico di Cambridge. Abita molto vicino al parco, in un caseggiato vecchiotto di almeno quattro piani. Mi chiedo perché non porti Sock al parco di Cambridge, che è molto frequentato dai padroni di cani. Ma l’uomo e il levriero tirano dritto davanti alle statue e ai cannoni, davanti ai lampioni, alle querce spoglie, alle panchine e alle auto ferme vicino ai parchimetri lungo il marciapiede. Un labrador chiaro insegue uno scoiattolo grasso e Annie Lennox canta: “No more I-love-yous... I used to have demons in my room at night...”. Io sono gli occhi e le orecchie dell’uomo nel momento in cui sono state riprese queste immagini e non ho motivo di sospettare che lui sappia di avere una telecamera e un microfono nascosti sulla testa, o che ci pensi. Non ho la sensazione che abbia chissà quali oscuri piani o stia facendo spionaggio mentre passeggia con il cane. A parte il fatto che ha una Glock semiautomatica e diciotto proiettili da nove millimetri sotto il giaccone verde. Perché? Sta andando a sparare a qualcuno, oppure la pistola è per autodifesa? In questa seconda ipotesi, di che cosa ha paura? Forse girava armato abitualmente, non ci faceva neanche più caso. Ci sono persone così, che non ci pensano su due volte. Perché però il numero di serie della Glock è abraso? Mi viene in mente che la videocamera nascosta nelle cuffie potrebbe essere un esperimento, un progetto di ricerca. Sicuramente Cambridge e dintorni sono la mecca

dell’innovazione tecnologica: è uno dei motivi per cui il dipartimento della Difesa, lo Stato del Massachusetts, Harvard e l’MIT hanno deciso di istituire il CFC proprio sulla riva settentrionale del fiume Charles, in un centro di biotecnologie in Memorial Drive. Forse l’uomo era un ricercatore, magari un informatico o un ingegnere. Guardo quel che passa sullo schermo dell’iPad: immagini mosse del residence Mather Court, un parco giochi, Garden Street e le lapidi storte e consunte del vecchio cimitero. In Harvard Square la sua attenzione si rivolge all’edicola del Crimson Corner. Sembra intenzionato ad andare in quella direzione, forse per comprare il giornale, scegliendo nel vastissimo assortimento di riviste e quotidiani che a me e a Benton piace tanto. Questo è il nostro quartiere, dove usciamo a prendere il caffè, cibi etnici, libri e giornali, dove facciamo la spesa e compriamo cose interessanti da leggere a letto nei fine settimana o durante i giorni di festa che passiamo a casa. Il “New York Times” e il “Los Angeles Times”, il “Chicago Tribune” e il “Wall Street Journal”, e, se non dispiace leggere notizie di uno o due giorni prima, ci sono corposi giornali di Londra, Berlino e Parigi. A volte troviamo “La Nazione” e “L’Espresso” e allora leggo ad alta voce la cronaca di Firenze e di Roma, guardo le inserzioni di ville in affitto e fantastico di vivere come la gente del posto, di andare a visitare rovine e musei, fare gite in campagna e percorrere la costiera amalfitana. L’uomo si ferma sul marciapiede affollato e sembra cambiare idea. Attraversa la strada con Sock e prende Massachusetts Avenue. So, o credo di sapere, dove sono diretti. Svoltano a sinistra in Quincy Street e allungano il passo. L’uomo ha un sacchetto di plastica in mano, come se Sock non potesse resistere ancora molto. Passano davanti alla modernissima Lamont Library e ai due edifici in mattoni in stile Georgian Revival dell’Harvard Faculty Club e del Fogg Museum, poi alla chiesa gotica della New Jerusalem, quindi girano a destra in Kirkland Street. Siamo in tre: anch’io sono con loro. Imbocco Irving Street verso sinistra, a pochi minuti da Norton’s Woods, a pochi minuti dalla casa dove abito con Benton, ascoltando Five for Fighting alla radio satellitare: “... even heroes have the right to bleed...”. Provo una tensione crescente a ogni passo che facciamo, sapendo che l’uomo morirà e il cane si perderà nel freddo pungente, desiderando disperatamente che tutto questo non accada. Cammino insieme a loro come se li stessi accompagnando al proprio destino, perché io so che cosa li aspetta e loro no, e vorrei fermarli e farli tornare indietro. Poi sulla nostra sinistra compare la casa di tre piani, bianca con le persiane nere e il tetto di ardesia, in stile federale, costruita nel 1824 da un trascendentalista che conosceva Emerson, Thoreau e il Norton della Norton’s Anthology e di Norton’s Woods. Dentro quella casa, dove abitiamo io e Benton, ci sono ancora i rivestimenti in legno originali, soffitti intonacati con travi a vista e, ai pianerottoli della scala principale, magnifiche vetrate a piombo francesi con paesaggi naturali che al sole si illuminano come gioielli. Nel piccolo viale di accesso in mattoni c’è una Porsche 911 con il motore acceso e il fumo che esce dai tubi di scappamento cromati. Benton sta facendo retromarcia e le luci posteriori brillano come occhi feroci quando

frena per lasciar passare un uomo con le cuffie e il suo cane, e l’uomo è voltato verso Benton, forse ammira la Porsche, una Turbo Cabriolet nera a trazione integrale che Benton tiene lucida come una scarpa di vernice. Chissà se si ricorda il ragazzo con il giaccone verde scuro e il levriero bianco e nero, se li ha notati. Ma lo conosco: si metterà a pensare ossessivamente a lui e al suo cane, forse ossessivamente quanto me, e mi sforzo di ricordare che cos’ha fatto Benton ieri. Nel tardo pomeriggio è passato dal suo studio al McLean perché aveva dimenticato di portare a casa la cartella clinica di un paziente da valutare. Pochi gradi di separazione tra un giovane uomo e il suo vecchio cane che stanno per essere divisi per sempre e mio marito, solo sulla sua macchina, che sta per andare all’ospedale a prendere una cosa che ha dimenticato. Vedo tutto questo svolgersi sotto i miei occhi come se fossi Dio e, se essere Dio è così, quanto dev’essere spaventoso! So che cosa sta per succedere e non posso fare nulla per impedirlo.

3 Mi rendo conto che il furgone si è fermato e Marino e Lucy stanno scendendo. Siamo davanti al terminal dell’aviazione civile John B. Wallace. Resto dove sono e continuo a guardare il filmato sull’iPad, mentre loro due scaricano i miei bagagli. Dal portellone posteriore aperto entra aria fredda e io mi arrovello sulla decisione dell’uomo di portare a spasso il cane a Norton’s Woods, in quella che viene chiamata Mid-Cambridge, quasi a Somerville. Perché proprio lì? Perché non l’ha portato più vicino a casa? Aveva appuntamento con qualcuno? Un cancello di ferro nero riempie lo schermo; è socchiuso e la mano guantata dell’uomo lo spalanca. Mi accorgo così che si è infilato un paio di spessi guanti neri che sembrano da motociclista. Ha freddo alle mani o c’è un altro motivo? Forse ha davvero intenzioni sinistre. Forse vuole usare la pistola. Immagino di arretrare il carrello di una nove millimetri e premere il grilletto con guanti così spessi e lo trovo illogico. Sento che scuote il sacchetto di plastica e subito dopo, quando abbassa la testa, lo vedo. Intravedo anche qualcos’altro, che mi sembra una scatolina di legno, piccolissima. “È lì che tiene la marijuana” penso. Ne esistono in legno di cedro, addirittura munite di un piccolo igrometro, come gli umidificatori per sigari. Mi torna in mente la pipa di vetro giallastra sul tavolo di casa sua. Forse porta il cane a Norton’s Woods perché è un posto tranquillo, poco frequentato, dove la polizia non passa quasi mai, a meno che non ci siano VIP o eventi importanti, e si fuma anche una canna. Fa un fischio a Sock, si china a sfilargli il collare e sento che dice: “Ehi, bello, ti ricordi il nostro posticino? Mostrami il nostro posticino”. Poi aggiunge qualcosa che mi risulta incomprensibile. “Quasi tue” mi sembra che dica, poi: “Quante ne vuoi...?” o forse: “Quante ne puoi...?”. Lo riascolto due volte, ma continuo a non capire, forse perché è chinato e ha il colletto della giacca sulla bocca. Con chi sta parlando? Non scorgo nessuno nelle vicinanze, solo il cane e le mani coperte dai guanti, poi l’angolo di ripresa cambia: l’uomo si è rialzato e vedo di nuovo il parco, alberi, panchine e, da una parte, un sentiero lastricato vicino alla villa con il tetto di metallo verde. Intravedo alcune persone e deduco, da come sono imbacuccate, che non sono invitati al matrimonio, ma più probabilmente gente che passeggia nel parco. Sock trotterella verso i cespugli per fare i bisogni e il suo padrone si inoltra nel bel parco alberato, fra olmi secolari e panchine verdi. Fischia e dice: “Ehi, bello, vieni con me”. Nelle zone in ombra intorno a grossi rododendri la neve è alta, mista a foglie secche, pietre e rami spezzati che mi suscitano visioni morbose di tombe clandestine, pelle coriacea morta e ossa consunte, rosicchiate, sparse qua e là. L’uomo si guarda intorno e la videocamera nascosta inquadra il tetto di metallo a tre falde dell’edificio di legno e cristallo che si vede anche dalla veranda di casa mia. Quando l’uomo si volta, scorgo una porta e l’obiettivo si ferma su una donna dai capelli bianchi in piedi sulla soglia. Ha un tailleur e un lungo cappotto di pelle marrone e parla al telefono.

L’uomo fischia e la ghiaia scricchiola sotto i suoi piedi mentre cammina sul viale verso Sock, per andare a raccogliere quel che ha prodotto. “... and this emptiness fills my heart...” canta Peter Gabriel. Penso al suo omonimo che è bruciato dentro un Humvee e ne sento i cattivi odori come se li avessi ancora intrappolati nel naso. Penso a sua madre, al suo dolore e alla sua rabbia, alla telefonata di stamattina. Ai patologi forensi non dice grazie quasi nessuno. Certe volte le persone mi trattano come se i loro cari fossero morti per causa mia. Cerco di ricordarmene, di non prenderlo come un attacco personale. Di nuovo le mani guantate scuotono il sacchetto di plastica accartocciato, di quelli che si comprano al supermercato, poi succede qualcosa. Una mano sale verso la testa, la sento colpire le cuffie come se volesse scacciare un insetto, e l’uomo esclama: “Che c...? Ehi...!” in tono concitato, allarmato. O forse è un grido di dolore. Ma non vedo niente e nessuno, solo gli alberi e le persone in lontananza. Non vedo il cane e non vedo l’uomo. Torno indietro e guardo di nuovo la scena. La mano coperta dal guanto nero entra di colpo nell’inquadratura e l’uomo dice: “Che c...? Ehi...!”. Decido che il tono è sbalordito, sconvolto, come se qualcosa lo avesse lasciato senza fiato. Torno indietro e riascolto attentamente, per sentire se c’è dell’altro, e nel tono della voce percepisco protesta, forse paura e, sì, anche dolore, come se qualcuno gli avesse dato una gomitata o lo avesse urtato violentemente su un marciapiede affollato. Poi vedo le cime degli alberi spogli passare veloci, tutto intorno, e pezzetti di ardesia che diventano sempre più grandi: l’uomo cade sul sentiero. O è rimasto sdraiato sulla schiena o gli sono cadute le cuffie dalla testa: lo schermo mostra un’immagine fissa di rami spogli e cielo grigio, poi si vede passare l’orlo di un lungo cappotto nero che sventola, qualcuno che cammina veloce, quindi si sente un altro rumore forte e l’inquadratura cambia di nuovo. Ancora rami spogli e cielo grigio, ma i rami sono diversi e si vedono attraverso le stecche di una panchina verde. Tutto avviene molto in fretta, incredibilmente in fretta. Voci e rumori aumentano di volume. “Chiamate il 911!” “A me sembra che non respiri.” “Non ho il telefono. Qualcuno chiami il 911!” “Pronto? C’è... ehm, sì, da Cambridge. Sì, Massachusetts. Cristo! Presto, presto! Mi hanno messo in attesa, cazzo. Cristo, sbrigatevi! Non riesco a crederci. Sì, sì, un uomo, è caduto a terra e non respira, mi pare... Norton’s Woods, all’angolo tra Irving e Briant Street... Sì, stanno cercando di rianimarlo. Resto in linea... Sì, resto in linea. Sì, cioè, non... Vuole sapere se continua a non respirare. No, no, non respira! Non si muove. Non respira!... Non lo so. A un certo punto ho guardato e ho visto che era per terra, è caduto all’improvviso...” Metto in pausa il video e scendo dal furgone. Mentre mi avvio velocemente verso il terminal, sento che fa freddo e c’è molto vento. Il terminal è piccolo, con la toilette e una sala d’attesa con un vecchio televisore acceso. Per un attimo guardo Fox News e mando avanti veloce il filmato sull’iPad mentre Lucy, appoggiata al bancone, paga la tassa di atterraggio con la carta di credito. Continuo a guardare immagini di rami spogli

attraverso le stecche di legno verniciato di verde e adesso ho la certezza che le cuffie sono finite sotto una panchina e la videocamera è rimasta puntata verso l’alto mentre la radio XM trasmette ”Dark lady laughed and danced...”. La musica è più forte perché le cuffie non sono premute sulle orecchie dell’uomo, ed è assurdo, ridicolo, ascoltare Cher. Le voci fuori campo sono concitate, emozionate. Odo rumore di passi e l’urlo di una sirena in lontananza, mentre mia nipote parla con un uomo di una certa età, un pilota di caccia in pensione che le racconta soddisfatto di lavorare part-time a Dover presso il terminal FBO. «... In Vietnam. Quindi sarà stato un F-4, o no?» Lucy chiacchiera con l’operatore del terminal. «Esattamente! E il Tomcat. È stato l’ultimo su cui ho volato. Ma i Phantom hanno continuato a volare, sa, fino agli anni Ottanta. Se sono ben costruiti, durano da non credere. Pensi da quanto tempo sono in giro i C-5. E ci sono ancora dei Phantom in Israele, credo. Forse anche in Iran. Quelli che sono rimasti negli USA oggi li usiamo come bersagli senza equipaggio, come droni. Un aereo favoloso. L’ha mai visto?» «Sì, a Belle Chasse, in Louisiana, alla base aeronavale. Ci sono andata con il mio elicottero per dare una mano dopo l’uragano Katrina.» «Hanno fatto degli esperimenti di prevenzione con i Phantom: li fanno volare nell’occhio del ciclone.» L’ex pilota annuisce. Lo schermo dell’iPad diventa tutto nero. Le cuffie hanno smesso di registrare e penso che siano finite sotto una panchina quando l’uomo è stramazzato a terra e il sensore di movimento non abbia percepito attività sufficiente a impedire alla videocamera di andare in stand-by. Mi sembra curioso. Come hanno fatto le cuffie a cadergli dalla testa e a finire là sotto? Forse sono state spinte via con un calcio. Potrebbe averlo fatto, senza accorgersene, qualcuno che cercava di aiutarlo, ma potrebbe anche essere stato il gesto deliberato della persona che lo riprendeva di nascosto e lo pedinava. Penso all’orlo di cappotto nero che è passato sventolando e vado avanti premendo a intermittenza il tasto FF. Cerco le immagini successive, i suoni, ma non c’è nulla fino alle 16.37, quando gli alberi e il cielo quasi buio ondeggiano improvvisamente, appaiono due grandi mani nude e si sente uno scricchiolio di carta: le cuffie vengono riposte in un sacchetto. Una voce dice: “... Colts in vantaggio”. E un’altra voce replica: “I Saints ce la faranno. Hanno...”. Poi buio fitto e bisbigli attutiti, quindi silenzio. Prendo il telecomando del televisore che è sul bracciolo di un divano del terminal e cambio canale per ascoltare le notizie e leggere i titoli in sovrimpressione della CNN, ma non c’è una sola parola sul morto di Norton’s Woods. Bisogna che chieda di nuovo di Sock. Dov’è? È inammissibile che nessuno sappia dov’è finito il cane. Fisso Marino che entra nella sala d’attesa fingendo di non vedermi perché mi tiene il broncio, o forse perché è pentito di quello che ha fatto e si vergogna. Non voglio chiedergli niente. È come se la scomparsa del cane fosse in qualche modo colpa sua, come se tutto fosse colpa sua. Non intendo perdonarlo per aver mandato i video a Briggs, per aver parlato prima con lui che con me. Se non lo perdono, forse per una volta Marino imparerà la

lezione, ma il problema è che non riesco mai a convincermi del tutto della sua colpevolezza. Mi riesce impossibile, con le persone a cui tengo. Mi sento in colpa, da brava cattolica. Non so perché, ma mi sto già ammorbidendo nei suoi confronti. La mia determinazione viene meno, scema a poco a poco mentre cambio canale in cerca di notizie che possano eventualmente danneggiare il CFC. Lui va verso Lucy dandomi le spalle. Non voglio litigare con Marino. Non voglio offenderlo. Mi allontano dal televisore, confortata dal fatto che almeno per il momento i media non sanno del cadavere che mi aspetta al CFC. Una notizia così sensazionale verrebbe data in apertura, ragiono. Mi arriverebbero messaggi uno dietro l’altro sull’iPhone. Briggs l’avrebbe saputo e mi avrebbe detto qualcosa. Anche Fielding mi avrebbe avvertito. A parte il fatto che non l’ho più sentito. Provo di nuovo a chiamarlo. Non risponde al cellulare e non è in ufficio. Ovvio: non lavora mai fino a quest’ora, santo cielo. Lo cerco a casa, a Concord, e trovo di nuovo la segreteria telefonica. «Jack? Sono Kay.» Lascio un altro messaggio. «Stiamo per partire da Dover. Potresti mandarmi un SMS o un’e-mail con gli ultimi sviluppi? L’investigatore Law non ha richiamato, immagino. Stiamo ancora aspettando le foto. Hai saputo qualcosa di un cane scomparso, un levriero? È il cane della vittima, si chiama Sock ed è stato visto l’ultima volta a Norton’s Woods.» Ho un tono tagliente. Fielding sta cercando di evitarmi, e non è la prima volta. È bravissimo a rendersi irreperibile. Non c’è da stupirsi, visto che lo ha già fatto spesso in passato. «Be’, riproverò a chiamarti appena atterriamo. Comunque ci vediamo in ufficio. Immagino che sarò lì tra le nove e mezzo e le dieci. Ho mandato un messaggio ad Anne e Ollie. Accertati che ci siano, per favore. Dobbiamo occuparci di questa cosa stasera. Ti dispiace controllare se la polizia di Cambridge sa qualcosa del cane? Potrebbe avere un microchip...» Sembra sciocco insistere su Sock. Cosa diavolo può saperne Fielding? Non si è neppure preso la briga di andare a fare un sopralluogo sulla scena! Marino ha ragione: qualcuno doveva andarci. Il Bell 407 di Lucy è nero, con il vetro posteriore oscurato. Lei sblocca le portiere e il compartimento bagagli mentre il vento colpisce la rampa. Una manica a vento è tesa verso il nord come un birillo a fasce bianche e rosse messo in orizzontale, e questo è sia un bene sia un male. Avremo ancora il vento in coda, ma anche la tempesta sarà alle nostre spalle, pioggia intensa mista a neve. Marino inizia a caricare i miei bagagli, mentre Lucy gira attorno all’elicottero controllando le antenne, le prese statiche, le pale del rotore, i galleggianti di emergenza e le bombole di azoto che servono per gonfiarli, quindi la trave di coda in lega di alluminio e la scatola ingranaggi, la pompa idraulica e il serbatoio. «Se qualcuno lo spiava e lo filmava di nascosto, si è reso conto che è morto» dico a Lucy di punto in bianco. «Se fosse implicato nella sua morte, non pensi che avrebbe cancellato da remoto i video registrati dalle cuffie? Non li avrebbe per lo meno tolti dal disco fisso e dalla scheda SD? Non farebbe di tutto per evitare che trovassimo le registrazioni?»

«Dipende.» Lucy afferra saldamente una maniglia sulla fusoliera e infila la punta dello stivale in uno scalino per salire. «Tu cos’avresti fatto?» le chiedo. «Io?» Sblocca i fermagli e apre un pannello nel sottile rivestimento di alluminio. «Se avessi pensato che non era stato registrato niente di importante o di compromettente, non li avrei cancellati.» Con una torcia SureFire controlla i motori e i relativi supporti. «Perché no?» Prima che Lucy abbia il tempo di rispondere, Marino viene verso di me e dice, senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Vado in bagno. Se avete bisogno, conviene che ci andiate ora». Come se fosse l’assistente di volo che ci ricorda che non ci sono servizi igienici sull’elicottero. Sta cercando di fare pace. «Grazie, io sono a posto» gli dico. Lui si incammina sulla rampa buia per tornare nel terminal. «Io avrei fatto così» continua Lucy passando il potente fascio di luce su tubi e tubetti per accertarsi che non ci sia nulla di allentato o danneggiato. «Avrei scaricato immediatamente i file video collegandomi alla webcam e, se non avessi visto niente di preoccupante, li avrei lasciati dov’erano.» Si arrampica più in alto per controllare il rotore principale, l’albero, il piatto oscillante. Aspetto che torni giù e poi le chiedo: «Perché li avresti lasciati dov’erano?». «Pensaci.» La seguo dall’altra parte dell’elicottero, in modo che lei possa salire a controllare anche quella mentre parliamo. Sembra quasi divertita dalle mie domande, come se le stessi chiedendo delle ovvietà. «Se i file vengono cancellati dopo che lui è morto, vuol dire che la spia non era lui, ti pare?» dice e intanto controlla sotto la cappottatura, esplorando con il fascio di luce. Poi salta di nuovo a terra. «Perché di certo non può averli cancellati da morto.» Aspetto a rispondere, perché non voglio che si faccia male, soprattutto quando è su, vicino all’albero del rotore. Non voglio distrarla. «Quindi tu non li avresti cancellati per questo, se fossi stata la spia e avessi saputo che era morto, o lo avessi ammazzato tu.» «Se fossi stata io a spiarlo e lo avessi seguito per ucciderlo, sì, certo, non avrei cancellato niente e non mi sarei portata via le cuffie.» Punta di nuovo la torcia, piccola ma potente, lungo la fusoliera. «Caso mai qualcuno lo avesse visto con le cuffie in testa nel parco, o per strada. Sono piuttosto ingombranti e vistose.» Giriamo attorno al muso dell’elicottero. «Anche perché, se avessi preso le cuffie, avrei dovuto prendere pure la radio satellitare. E per far questo avrei dovuto frugargli nelle tasche dopo che lui era già caduto per terra, sperando che non mi vedesse nessuno. E gli eventuali file precedenti scaricati chissà dove, nel caso l’avessi spiato da un po’? Come li spieghi se non viene ritrovato nessun dispositivo, ma saltano fuori le registrazioni su un computer di casa o su un server da qualche parte? Sai come si dice.» Apre un pannello di accesso sopra il tubo di Pitot e ne

illumina l’interno con la torcia. «Per ogni reato, ce ne sono due: quello vero e proprio e quello per nasconderlo. Meglio lasciare tutto lì e sperare che la polizia, tu, io o chi per noi pensino che fosse la vittima a fare le registrazioni, come è convinzione di Marino. Io invece dubito che sia così.» Ricollega la batteria. Il motivo per cui la scollega ogni volta che lascia l’elicottero, anche per poco tempo, è che se qualcuno riesce ad accedere all’interno della cabina e si mette ad armeggiare con la manetta del gas e gli interruttori potrebbe accidentalmente far partire il motore. Se la batteria è scollegata, invece, non è possibile. Per quanta fretta abbia di partire, Lucy fa sempre un controllo prevolo completo, specialmente se ha lasciato il velivolo incustodito, anche se in una base militare. Non mi è sfuggito però che questa volta sta esaminando tutto più accuratamente del solito, come se sospettasse qualcosa o fosse preoccupata. «Tutto okay?» chiedo. «Tutto a posto?» «Sto controllando» risponde. La sento distante, come se mi tenesse nascosto qualcosa. Lucy non si fida di nessuno. E fa bene. Nemmeno io mi sarei dovuta fidare di certe persone, fin dal primo giorno. Persone che manipolano, mentono e sostengono di farlo per una causa. Una causa buona e giusta. Noonie Pieste e Joanne Rule morirono soffocate, probabilmente con un cuscino, nel proprio letto. Le loro ferite non erano accompagnate da risposta tissutale. Lo stupro, i colpi di machete e i tagli da vetro furono inflitti tutti quando erano già morte. Erano già morte anche quando vennero legate alle sedie su cui furono ritrovate. Per una causa buona e giusta, secondo i loro assassini. Un’atrocità inconcepibile, che nessuno pagò. A tutt’oggi non è stato punito nessuno. “Non ci pensare. Concentrati su ciò che hai davanti, non sul passato.” Apro lo sportello anteriore sinistro e salgo su un pattino. Il vento soffia a forti raffiche. Mi sistemo nel sedile sinistro, evitando di urtare la barra del collettivo e del ciclico, allaccio la cintura di sicurezza a quattro punti e sento che Marino apre lo sportello dietro di me. È grande, grosso e rumoroso e non appena sale nel vano posteriore, dove si siede sempre, l’elicottero si assesta sotto il suo peso. Anche quando ha solo lui come passeggero, Lucy non lo fa sedere davanti, dove ci sono i doppi comandi, per paura che li urti con un gomito o li usi come bracciolo senza pensarci. Perché Marino non pensa. Lucy entra e inizia un altro controllo prevolo. La aiuto reggendo la checklist, che completiamo insieme. Non ho mai desiderato pilotare i numerosi velivoli che mia nipote ha avuto nel corso degli anni né salire sulle sue moto, o guidare le sue veloci macchine italiane, ma le faccio volentieri da copilota. Me la cavo con le carte topografiche e l’avionica. So cambiare le frequenze sulle diverse radio e inserire il codice “squawk” e altre informazioni sul trasponder, o nel sistema strumentale elettronico Chelton. In caso di emergenza, probabilmente saprei portare l’elicottero a terra in sicurezza, anche se forse non in maniera elegante. «... Interruttori generali in posizione spenta» continuo seguendo la lista. «Sì.» «Interruttori elettrici inseriti.»

«Sì.» Le dita di Lucy toccano agili ogni cosa che controlla. Proseguiamo nella lista plastificata. Lucy inserisce per un attimo la pompa d’avviamento e ruota la manetta del gas fino alla posizione di “minimo in volo”. «Libero a destra» dice guardando fuori dal finestrino dal suo lato. «Libero a sinistra» confermo scrutando la rampa buia, il piccolo edificio con le finestre illuminate e un Piper Cub legato a distanza di sicurezza nell’ombra, con la tela cerata che freme nel vento. Lucy preme il pulsante di avviamento e le pale del rotore principale cominciano a girare lente, pesanti, poi più veloci, come un cuore che batte, e io penso all’uomo che è morto a Norton’s Woods. Penso alla sua paura, all’emozione che ho percepito nelle parole che ha esclamato. “Che c...? Ehi...!” Che cosa ha provato? Che cosa ha visto? Il lembo di un cappotto nero che gli è passato accanto sventolando. Di chi era? Era un cappotto elegante, di lana, o un impermeabile? Non era di pelliccia. Chi lo indossava? Qualcuno che non si è fermato a soccorrerlo. “Che c...? Ehi...!” Un grido di sorpresa, di dolore. Lo riascolto mentalmente più volte. L’angolazione della videocamera che si abbassa di colpo per poi fissarsi verso rami spogli e cielo grigio, quindi l’orlo del lungo cappotto nero che compare nell’inquadratura forse per un secondo. Chi può passare accanto a una persona che sta male come se fosse un oggetto inanimato, una pietra, un ramo secco? Che razza di essere umano riesce a ignorare un uomo che si è portato una mano al petto ed è stramazzato a terra? Quello che l’ha fatto stramazzare, forse. Oppure qualcuno che, per qualche motivo, non vuole essere coinvolto. Come quando si assiste a un incidente o un’aggressione e si scappa per non avere grane. Era un uomo o una donna? Ho visto le scarpe? No, solo l’orlo o un lembo del cappotto che sventolava, poi ho sentito uno scalpiccio e l’inquadratura è stata sostituita da un’altra, con rami di alberi diversi, visti da sotto una panchina verniciata di verde. È stata la persona con il lungo cappotto nero a spingere con un calcio le cuffie sotto la panchina perché non venisse filmato ciò che è successo a quel punto? Bisogna che riguardi il video più attentamente, ma non posso farlo subito. L’iPad è dietro e poi non c’è tempo. Le pale battono l’aria velocemente e il generatore è inserito. Indossiamo le cuffie. Lucy preme altri interruttori sopra la sua testa: l’interruttore principale degli strumenti avionici e quelli degli strumenti di volo e di navigazione. Io sposto l’interruttore dell’interfono sulla modalità “solo equipaggio”, così Marino non può sentirci e noi non possiamo sentire lui mentre Lucy parla con il controllore del traffico aereo. Le lampade stroboscopiche, quella intermittente e le luci d’atterraggio risplendono sull’asfalto tingendolo di bianco. Aspettiamo che la torre di controllo ci autorizzi al decollo. Mentre inserisco la località di destinazione nel GPS touch-screen, nello schermo a mappa mobile e nel Chelton, regolo l’altimetro. Mi assicuro che l’indicatore digitale del combustibile indichi il livello corretto, ripetendo quasi tutte

queste operazioni almeno due volte, perché Lucy crede nella ridondanza. La torre ci autorizza e noi rulliamo in hovering verso la pista e saliamo con rotta verso nordest, superando il fiume Delaware a millecento piedi. L’acqua è scura e increspata dal vento, come metallo liquefatto che scorre denso. Le luci a terra tremolano tra gli alberi come piccoli fuochi.

4 Cambiamo direzione virando verso Philadelphia, perché vicino alla costa la visibilità è peggiore. Premo il pulsante dell’interfono per sentire come sta Marino. «Tutto bene là dietro?» Adesso sono più calma, troppo turbata dal lungo cappotto nero e dall’esclamazione di spavento dell’uomo per essere arrabbiata con Marino. «Si fa prima tagliando per il New Jersey» dice. Sa dove siamo perché c’è una mappa mobile del volo su uno schermo video nel compartimento passeggeri. «Nebbia e pioggia ghiacciata, condizioni di volo strumentale su Atlantic City. E non si fa prima» replica Lucy. «Rimarremo su “solo equipaggio” la maggior parte del tempo, perché per sicurezza ho chiesto il Flight Following.» Marino è nuovamente escluso dalla conversazione mentre riceviamo le informazioni sul traffico in volo passando da una torre all’altra. Ho la carta topografica della zona di Washington aperta sulle ginocchia e inserisco una nuova destinazione sul GPS per un eventuale scalo per rifornimento: Oxford, Connecticut. Controlliamo le condizioni meteo sul radar e vediamo masse compatte di verde e giallo arrivare sopra di noi dall’Atlantico. Possiamo battere in velocità le bufere, aggirarle e passarci sotto, dice Lucy, purché voliamo nell’entroterra e il vento continui a esserci a favore, permettendoci di aumentare la velocità al suolo, che in questo momento è di ben centocinquantadue nodi. «Come va?» chiedo mentre continuo a controllare l’apparato per ricevere le torri e altri velivoli. «Andrà meglio quando saremo arrivati a destinazione. Sono sicura che riusciremo a battere sul tempo questa perturbazione.» Indica lo schermo del radar meteo. «Ma se c’è anche il minimo dubbio, atterreremo.» Non sarebbe venuta a prendermi se avesse pensato che c’era il rischio di dover passare la notte in mezzo alla campagna. Non sono preoccupata. Forse non ho la forza di preoccuparmi anche di questo. «E in generale come ti va?» dico al microfono toccandomi un labbro. «Ti ho pensato molto in queste ultime settimane.» Spero che si confidi con me. «È difficile mantenere i contatti, date le circostanze» risponde. «Ogni volta che pensiamo che tu stia per tornare, succede qualcosa. Così abbiamo smesso tutti di pensarci.» Per ben tre volte ho dovuto rimandare la conclusione del mio soggiorno a Dover a causa di emergenze varie. Una volta sono stati abbattuti due elicotteri nello stesso giorno in Iraq, con un bilancio di ventitré vittime. Poi c’è stata la strage di Fort Hood e, ultimamente, il terremoto a Haiti. Tutti i medici dell’AFME sono dovuti intervenire, nessuno escluso, e Briggs non mi ha permesso di sospendere il corso. Anche poche ore fa ha cercato di farmi rimandare di nuovo la partenza, suggerendomi di rimanere a Dover. È come se non volesse che io torni a casa. «Temevo di arrivare lì e di scoprire che dovevi restare a Dover ancora una settimana, o

un mese» aggiunge Lucy. «Invece hai finito.» «A quanto pare, si sono stufati di me.» «Speriamo che non torni a casa per ripartire subito.» «Ho passato gli esami, ho finito. Ho un centro da dirigere.» «Bisogna che qualcuno lo diriga, su questo non si discute.» Non voglio sentire altre critiche sul conto di Jack Fielding. «E per il resto, tutto bene?» domando. «Hanno quasi terminato il garage. Tre posti macchina, più uno per lavarle. Basta che ne posteggi due una davanti all’altra.» Mi fa un aggiornamento sullo stato di avanzamento lavori, ricordandomi quanto sono lontana da quello che succede a casa mia. «La pavimentazione in gomma è finita, l’impianto d’allarme invece no. Non volevano metterci i sensori per la rottura vetri, però io ho insistito. Purtroppo uno dei vetri originali delle finestre è andato in pezzi e adesso nel garage c’è un po’ di corrente. Lo sapevi?» «No. Ho delegato tutto a Benton.» «Be’, ha avuto molto da fare. Hai preso la frequenza di Millville? Credo che sia centoventitré punto sessantacinque.» Controllo la carta topografica, confermo la frequenza e la inserisco nel selettore del Comm 1. «Come stai?» Ritento. Voglio sapere che cosa mi aspetta a casa, a parte il cadavere nella cella frigorifera del CFC. Lucy non vuole dirmi come sta e adesso accusa Benton di essere stato occupatissimo. Sono certa che non va presa alla lettera. È molto tesa. Controlla in maniera ossessiva gli strumenti, gli schermi radar e quello che si trova fuori dalla cabina di pilotaggio, come se temesse di essere coinvolta in un duello aereo, di essere colpita da un fulmine, di avere un guasto. Ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va, ma forse è perché sono di cattivo umore. «Ha un caso importante per le mani» aggiungo. «Davvero brutto.» Sappiamo entrambe a che cosa mi riferisco: ne hanno parlato tutti i giornali e i notiziari. Johnny Donahue, paziente del McLean, studente di Harvard, la settimana scorsa ha confessato di aver ucciso un bambino di sei anni con una pistola sparachiodi. Benton è convinto che abbia confessato il falso, e questo non fa per niente piacere né alla polizia né alla procura. L’opinione pubblica vorrebbe che la confessione fosse autentica, perché non può pensare che un assassino tanto spietato sia ancora a piede libero. Mi domando come sia andata la valutazione di oggi e intanto penso alla Porsche nera di Benton che esce in retromarcia dal vialetto di casa nostra nel filmato che ho appena visto. Benton stava andando al McLean a prendere la cartella clinica di Johnny Donahue quando un uomo con un levriero è passato davanti a casa nostra. Pochi gradi di separazione. Una rete ci unisce tutti, collega tutta l’umanità. «Teniamo centoventisette punto trentacinque su Comm 2, così sentiamo Philly» dice Lucy. «Sto cercando di stare fuori dal loro classe B, però. Dovremmo riuscirci, a meno che questo tempaccio dalla costa non si avvicini ancora.»

Indica le formazioni verdi e gialle sullo schermo del radar meteo satellitare che mostra le precipitazioni in avvicinamento, come se cercassero di spingerci verso nordovest, verso lo skyline illuminato di Philadelphia, di farci andare a sbattere contro i grattacieli. «Sto bene» dice poi. «Mi dispiace per lui, perché vedo che sei incazzata.» Indica con il pollice dietro di sé; si riferisce a Marino. «Che cos’ha fatto, a parte comportarsi come al solito?» «Tu c’eri quando ha parlato con Briggs?» «Eravamo a Wilmington. Gli ha parlato mentre io pagavo il pieno.» «Non avrebbe dovuto telefonargli.» «È come dire a Jet Ranger di non sbavare quando tiro fuori il sacchetto dei biscotti. È un riflesso condizionato, per Marino: parla troppo con Briggs per darsi un tono. Perché sei più sorpresa del solito?» mi chiede Lucy, come se sapesse già la risposta e mi stesse sondando per cercare di scoprire qualcosa. «Forse perché si tratta di un problema più grave del solito.» Le racconto che Briggs voleva far trasferire il cadavere a Dover. Le spiego che il capo dell’AFME ha delle informazioni di cui non mi mette a parte, o per lo meno che io sospetto mi stia tenendo nascosto qualcosa di importante. Probabilmente a causa di Marino, dico. A causa di quel che Marino ha messo in moto scavalcandomi. «Non credo sia solo questo. Neanche lontanamente» risponde Lucy. Intanto alla radio viene chiamata la sua sigla di immatricolazione. Lucy preme il pulsante radio sulla barra del ciclico e risponde; mentre lei comunica con il controllo di volo, io inserisco la frequenza successiva. Stiamo passando da uno spazio aereo all’altro. Le formazioni sul radar meteo, ora per lo più gialle, ci inseguono da sudest indicando pioggia forte che a questa quota può diventare pericolosa se le particelle di acqua superraffreddata colpiscono il bordo d’attacco delle pale del rotore e si trasformano in ghiaccio. Osservo l’umidità sul parabrezza di plexiglas e non vedo nulla, non una goccia, e intanto mi chiedo a cosa si riferisca Lucy. Cos’è che non crede neanche lontanamente? «Hai notato cosa c’era nell’appartamento?» mi chiede in cuffia. Immagino che alluda all’appartamento del morto e a quello che ho visto nei filmati girati dalla videocamera nascosta. «Hai detto che non credi sia solo questo.» Torno al discorso di prima. «Spiegami a cosa ti riferivi.» «Adesso te lo dico: non volevo parlarne davanti a Marino. Lui non ci ha fatto caso, non ha capito cos’era, e io non ho detto niente perché volevo parlarne prima con te. E comunque non sono sicura che sia un bene che lui lo sappia, punto e basta.» «Di cosa stai parlando?» «Scommetto che Briggs ha capito subito cos’era» continua Lucy. «Ha avuto molto più tempo di te per guardare il video. Non ho dubbi sul fatto che altre persone a cui può averlo mostrato abbiano riconosciuto il marchingegno vicino alla porta, quella specie di

insetto a sei gambe delle dimensioni di una lavatrice e un’asciugatrice impilate, costruito con fili e pezzi di metallo assortiti saldati fra loro. La videocamera lo inquadra per un secondo, prima che l’uomo esca con il cane per andare a Norton’s Woods. Sono sicura che a te non è sfuggito.» «Una specie di scultura di metallo.» Evidentemente, invece, mi è sfuggito qualcosa che Lucy ha colto. Qualcosa di importante. «Un robot. E non un robot qualunque» mi spiega. «Un prototipo sviluppato per usi militari, che doveva diventare un packbot, un robot mobile tattico per le truppe in Iraq. Poi ne è stato proposto un altro uso creativo, che si è rivelato un fiasco clamoroso.» Provo un vago senso di déjà vu, un sinistro presentimento che mi stringe il cuore e si trasforma in consapevolezza e quindi in un ricordo preciso. «Questo modello in particolare non è durato molto» continua Lucy e credo di sapere a che cosa si riferisce. Al MORT. Il Mortuary Operational Removal Transport, un robot per il recupero e il trasporto operativo dei cadaveri. “Oh, mio Dio.” «Non è mai entrato in servizio e ormai è obsoleto se non addirittura ridicolo. È stato sostituito da sistemi robotici di ispirazione biologica dotati di gambe, in grado di trasportare carichi pesanti su terreni sconnessi o scivolosi» dice Lucy. «Come quel robot quadrupede che si chiama Big Dog e che tutti guardano su YouTube. Un aggeggio in grado di portare centinaia di chili per intere giornate in condizioni proibitive, che salta come un daino e riesce subito a ritrovare l’equilibrio anche se inciampa, scivola o lo prendi a calci.» «Il MORT.» Mi decido a pronunciarlo ad alta voce. «Perché avrebbe dovuto tenere un packbot simile al MORT in casa? Temo che mi sia sfuggito qualcosa.» «Tu l’avevi visto, ai tempi di quella polemica in Campidoglio? E hai capito benissimo: sto parlando proprio del MORT.» «No, non l’ho mai visto.» Ho visionato solo alcune dimostrazioni videoregistrate e ho avuto più di una discussione in proposito, soprattutto con Briggs. «Perché dovrebbe tenerne uno in casa?» chiedo di nuovo. «Terribilmente sinistro. Una specie di gigantesca formica meccanica che va a benzina. Fa un rumore simile a una motosega quando cammina. È lento, ha quattro gambe corte, sgraziate, e due pinze davanti, tipo Edward Mani di Forbice. Se te lo vedi venire incontro, scappi. Oppure gli lanci una granata.» «In casa? Perché?» Ricordo dimostrazioni a mio parere raccapriccianti e vivaci discussioni degenerate in vere e proprie liti con colleghi fra cui Briggs all’AFME, al Walter Reed e negli uffici del Senato a Palazzo Russell. Il MORT. Un esempio aberrante di automazione che è stato fonte di polemiche negli ambienti militari e medici. Non era la tecnologia in sé a essere sotto accusa, ma l’uso che ne veniva proposto. Ricordo un litigio con Briggs, una mattina afosa d’estate a Washington, con un caldo insopportabile che saliva dal marciapiede affollato di boyscout in visita nella capitale. Eravamo in divisa, accaldati, frustrati e stressati, e ricordo

che passando davanti alla Casa Bianca, in mezzo alla folla, mi chiesi che cosa ci riservasse il futuro. Quali altri ritrovati disumani ci avrebbe offerto la tecnologia? E tutto questo quasi dieci anni fa: l’età della pietra, rispetto a oggi. «Sono abbastanza sicura... anzi, no, sicurissima... che quello che abbiamo visto a casa di quel tizio era un MORT» dice intanto Lucy. «E non è roba che si compri su eBay.» «Forse è un modello, un facsimile» suggerisco. «Impossibile. Ho zoomato sulle varie parti e si vedono dei graffi, dei segni di usura. Probabilmente è stato usato per ricerca e sviluppo su terreni difficili e si è rovinato un po’. Ho visto persino i connettori per fibra ottica. Il MORT non era wireless: uno dei suoi numerosi difetti era questo. Non come i robot autonomi di adesso, che hanno computer di bordo e ricevono informazioni tramite sensori controllati da unità di comando indossabili, che non ti devi portare appresso in una valigetta Pelican. Come fanno i militari, i cui operatori sul campo hanno le mani libere quando escono con le squadre robotizzate. Adesso hanno questi processori ultraleggeri per applicazioni critiche che si portano nella giubba e servono, per esempio, per governare un mezzo non pilotato o un robot armato: si chiamano SWORDS, Special Weapons Observation Remote Direct-action System, delle armi speciali telecomandate. Una fanteria robotizzata dotata di mitragliatrici leggere M249. Un’idea che mi turba, e so come la pensi tu al riguardo.» «Non ho parole per esprimere quello che penso al riguardo» replico. «Per il momento in Iraq sono state mandate tre unità SWORDS, che però non hanno ancora aperto il fuoco. Nessuno sa come fare a dare a un robot la capacità di prendere decisioni del genere. Quello del quoziente emotivo artificiale è un problema grosso, anche se sicuramente non irrisolvibile.» «I robot andrebbero usati solo nelle operazioni di peacekeeping e di sorveglianza, come bestie da soma.» «Questo lo dici tu, ma non tutti la pensano come te.» «Non dovrebbero prendere decisioni di vita o di morte» continuo. «Sarebbe come lasciar decidere al pilota automatico se dobbiamo volare dentro quelle nuvole che ci stanno venendo incontro.» «Se questo elicottero avesse dei sensori di umidità e temperatura, quella è una decisione che il pilota automatico potrebbe prendere. Dagli dei trasduttori di forza e lui atterra da solo, leggero come una piuma. Mettici un numero sufficiente di sensori e di me non c’è più bisogno: sali a bordo e premi un pulsante, come i Pronipoti. Sembra una follia, ma più folle è meglio è: chiedilo alla DARPA. Hai idea di quanto denaro investa la DARPA nella zona di Cambridge?» Nel vedere un altro spettrale banco di nubi che ci viene incontro nel buio, Lucy abbassa il collettivo, perdendo quota e riducendo la velocità. «Oltre a quello che investe nel CFC» specifica. Ha cambiato atteggiamento, persino la faccia è diversa: ha smesso di cercare di nascondere quello che prova. Questo stato d’animo mi è familiare. Non glielo vedevo da

tempo, ma lo conosco come conosco i sintomi di una malattia che si ripresenta dopo una fase di remissione. «Computer, robotica, biologia di sintesi, nanotecnologie: più folle è, meglio è» riprende. «Perché non esistono più gli scienziati pazzi e forse non esiste più nemmeno la fantascienza. Tira fuori l’idea più campata per aria che ti viene in mente: probabilmente esiste già e da qualche parte la stanno già applicando.» «Stai cercando di dirmi che il morto di Norton’s Woods è legato alla DARPA.» «In qualche modo sì, anche se non so in quale veste né se direttamente o indirettamente» risponde Lucy. «Il MORT non è più in uso, né in ambiente militare né altrove, ma era roba da Guerre stellari otto o nove anni fa, quando la DARPA ha cominciato a investire in applicazioni militari e di intelligence della robotica, in bioingegneria e ingegneria elettronica. E in applicazioni per le indagini della Scientifica e affini, relative ai nostri caduti sui campi di battaglia e nei teatri di guerra.» È stata la DARPA a finanziare la ricerca e lo sviluppo della tecnologia RadPath che usiamo nelle autopsie virtuali a Dover e adesso anche al CFC. E anche il mio corso di aggiornamento, che doveva essere di quattro mesi e poi è diventato di sei. «Una percentuale notevole dei fondi per la ricerca va a laboratori nella zona di Cambridge, a Harvard e all’MIT» dice Lucy. «Ti ricordi quando si è cominciato a non parlare d’altro che di guerra?» È sempre più difficile ricordare i tempi in cui non era così. La guerra è diventata la nostra industria nazionale, come una volta lo erano le industrie automobilistica, siderurgica e ferroviaria. Ecco in che mondo pericoloso viviamo. Non intravedo cambiamenti positivi in futuro. «La brillante idea di usare robot come il MORT nei teatri di guerra per recuperare i feriti, in modo che i soldati non rischino la vita per un compagno caduto?» mi ricorda Lucy. Non la trovo un’idea brillante, bensì malaugurata. La pensavo così all’epoca e lo penso tuttora. Un’enorme stupidaggine. Io e Briggs eravamo su posizioni opposte al riguardo e lui non ammetterà mai che fui io a salvarlo da un passo falso che avrebbe potuto danneggiarlo gravemente dal punto di vista delle pubbliche relazioni. «Ci fu un gran fervore di ricerche per un po’, poi l’idea venne accantonata» aggiunge Lucy. Venne accantonata perché l’utilizzo di un robot per uno scopo del genere presuppone che questo sia in grado di decidere se un soldato caduto, un essere umano, è grave o è morto. «Il dipartimento della Difesa fu oggetto di critiche feroci, per lo meno internamente, perché sembrava una cosa spietata e disumana» dice. Critiche più che giustificate. Nessuno deve morire fra le pinze di un marchingegno che ti trascina via dal campo di battaglia o ti estrae dalle lamiere di un veicolo distrutto o da sotto le macerie di un edificio crollato. «Quello che sto cercando di dire è che le prime generazioni di questa tecnologia sono

state seppellite dal dipartimento della Difesa in magazzini supersegreti o rottamate per recuperarne i pezzi» spiega Lucy. «Eppure il tuo amico nella cella frigorifera del CFC ne aveva uno in casa. Dove l’ha preso? Non può essere una coincidenza. Ha della carta millimetrata sul tavolo del salotto. È un inventore, un ingegnere, qualcosa del genere, e in qualche modo ha a che fare con progetti top secret a cui si accede solo con autorizzazioni ad alto livello. Però è un civile.» «Come fai a essere così sicura che sia un civile?» «Fidati: lo so. Non ha esperienza, non è preparato. Non può essere nei servizi segreti militari o governativi se va in giro ascoltando musica ad alto volume e con una pistola costosa senza numero di serie, probabilmente comprata al mercato nero. Avrebbe un’arma dalla quale non è possibile risalire né a lui né a nessun altro, da usare una sola volta e gettare via...» «Non sappiamo ancora a chi è intestata la pistola?» chiedo. «Che io sappia no, non ancora, ed è veramente ridicolo. Questo non è un agente sotto copertura, assolutamente no. È uno che ha paura.» Lo dice come se lo sapesse per certo. «Era» si corregge poi. «Aveva paura, aveva qualcuno che lo spiava, o almeno questo è quello che penso io, e adesso è morto. Secondo me, non è una coincidenza. Ti suggerisco di stare molto attenta quando parli con Marino.» «A volte dà giudizi avventati, ma non sta cercando di fregarmi.» «Marino non sa niente di medical intelligence e al massimo arriva a non parlare delle indagini con i suoi amici al bowling e con i giornalisti. Ma pensa che confidarsi con uno come Briggs vada benissimo, perché non capisce niente di gerarchie militari.» Lucy è cupa e turbata come non la vedevo da tempo immemorabile. «In un caso come questo, ti conviene parlare solo con me e con Benton.» «A Benton hai detto quello che hai appena detto a me?» «Del MORT è meglio che gli parli tu, perché probabilmente non capirà. Lui non c’era ai tempi delle tue discussioni con il Pentagono. Raccontaglielo tu e poi ne parliamo tutti insieme. Io, te e lui, e nessun altro, almeno per il momento, perché non sappiamo chi è cosa, e sarà meglio chiarirci un po’, capire bene chi siamo noi e chi sono loro.» «Se non posso fidarmi di Marino in un caso come questo, o anche in un altro, perché lo faccio lavorare per me?» Sono sulla difensiva, volutamente provocatoria, perché l’idea di assumere Marino è stata anche di Lucy. Ha convinto me a metterlo a capo delle indagini operative del CFC e ha convinto lui ad accettare, anche se non credo abbia fatto molta fatica. Marino non lo ammetterà mai, ma mi segue come un’ombra. Quando si è reso conto che sarei andata a Cambridge, ha perso improvvisamente la voglia di lavorare per il dipartimento di polizia di New York e per Jaime Berger, il sostituto procuratore a cui era stato assegnato. Ha persino litigato con il padrone di casa nel Bronx. Di punto in bianco ha cominciato a dire che a New York si pagano troppe tasse, che non si può andare in moto e non si trova parcheggio per il pick-up. Eppure non aveva più né l’una né l’altro. Insomma, ha deciso che doveva trasferirsi.

«Non è una questione di fiducia. Si tratta di riconoscere i limiti delle persone.» Un’affermazione stranamente tollerante da parte di Lucy. Di solito per lei la gente è cattiva, o inutile, e merita le punizioni che lei decide di infliggerle. Tira verso l’alto il collettivo e opera un delicato aggiustamento con il ciclico, aumentando la velocità e avendo cura di non salire nelle nubi. La notte attorno a noi è di un buio impenetrabile e ci sono tratti in cui non riesco a vedere luci al suolo. Forse stiamo sorvolando una zona boscosa. Inserisco la frequenza di McGuire per controllarne lo spazio aereo e intanto tengo d’occhio il sistema anticollisione, il TCAS. Non ci mostra altri velivoli da nessuna parte. Forse siamo gli unici in volo questa notte. «È un lusso che non posso permettermi» replico. «Il che significa che forse ho sbagliato ad assumere Marino. E ancora di più ad assumere Jack Fielding, probabilmente.» «Non “probabilmente” e non per la prima volta. Ti aveva già piantato in asso a Watertown per andare a Chicago. Avresti dovuto lasciarcelo.» «A voler essere giusti, a Watertown ci avevano tagliato i fondi. Jack sapeva che con ogni probabilità avremmo chiuso, come infatti è successo.» «Non è per questo che se n’era andato.» Non le rispondo perché ha ragione. Non era quello il motivo: Fielding voleva trasferirsi a Chicago perché a sua moglie avevano offerto un lavoro là. Due anni dopo mi ha chiesto se poteva tornare indietro. Ha detto che rimpiangeva il periodo in cui aveva lavorato per me. Ha detto che aveva bisogno di stare vicino a chi gli voleva bene. Si riferiva a Lucy, Marino, Benton e me: una grande famiglia felice. «Non sono solo loro. Hai problemi con tutti al CFC» dice poi Lucy. «Quindi non avrei dovuto assumere nessuno. Nemmeno te.» «Probabilmente nemmeno me. Non sono portata per il lavoro di squadra.» Lucy è stata licenziata dall’FBI e anche dall’ATF. Ha problemi con l’autorità, non tollera di avere dei superiori, nemmeno me. «Un bel ritorno a casa» replico. «È un rischio inevitabile in un impianto pilota che, per quanto ne dica la gente, è sia civile sia militare, ha competenza sia locale sia federale e ha anche legami con l’università» commenta Lucy. «Insomma, né carne né pesce. Il personale non sa come comportarsi, non è in grado di rispettare i limiti, ammesso che qualcuno li conosca. Ti avevo messo in guardia da subito.» «Non ricordo che tu mi abbia mai messo in guardia. Ricordo solo che mi hai fatto notare il problema.» «Inseriamo la frequenza di Lakehurst e passiamo in VFR. Basta Flight Following» decide. «Se ci lasciamo spingere ancora un po’ verso ovest, avremo un vento al traverso che ci rallenterà di più di venti nodi e ci toccherà passare la notte a Harrisburg o Allentown.»

5 I fiocchi di neve sembrano falene impazzite intorno alle luci di atterraggio quando ci posiamo sulla piattaforma di legno. I pattini toccano leggermente, poi si allargano del tutto appena il peso dell’elicottero si assesta, e quattro paia di fari cominciano a muoversi verso di noi dal cancello di sicurezza vicino al terminal FBO. Passano lentamente sulla rampa, illuminando la neve che scende fitta, e riconosco la sagoma del SUV Porsche verde di Benton. Riconosco anche la Suburban e la Range Rover, entrambe nere. Non conosco la quarta auto, invece, una berlina scura, affusolata, con la griglia del radiatore cromata. Lucy e Marino devono essere venuti all’aeroporto ognuno per conto proprio, stamattina, e devono aver lasciato la macchina al parcheggiatore del terminal. È la cosa più logica. Mia nipote arriva sempre in aeroporto con largo anticipo per preparare l’elicottero, per controllarlo dal tubo di Pitot sul muso fino al puntale della trave di coda. Non la vedevo così ansiosa da molto tempo e, nei due minuti che aspettiamo al minimo in volo prima che termini la procedura di spegnimento, cerco di ricordare quando è stata l’ultima volta che era così per capire cosa sta succedendo. Perché lei non me lo vuole dire. Lucy non parla, a meno che non rientri nei suoi piani; so che non c’è verso di cavarle informazioni finché lei non è pronta a dartele e so anche che in casi estremi questo può voler dire mai. A Lucy piace comportarsi in modo misterioso; si trova molto più a suo agio a essere chi non è che a essere se stessa. È sempre stata così, fin da piccola. Trae energia dalla segretezza ed esce vivificata da esperienze rischiose, pericolose. Più grande è il pericolo, meglio si trova. Finora mi ha rivelato solo che nell’appartamento del morto c’è un robot obsoleto, un packbot realizzato con fondi DARPA che si chiama MORT e in origine doveva servire per rimuovere cadaveri dai campi di battaglia, una sorta di becchino meccanico. Il MORT è una macchina, insensibile e inadatta a quel compito, e anni fa mi battei accanitamente contro la sua adozione, ma la strana coincidenza che se ne trovi un esemplare in casa del morto non basta a spiegare il comportamento di Lucy. Quand’è stata l’ultima volta che mi ha fatto spaventare così – perché è successo più volte –, a parte quella in cui ho temuto che finisse in galera? Sette o otto anni fa, calcolo: quando tornò dalla Polonia, dove aveva compiuto una missione che aveva a che fare con l’Interpol, su cui a tutt’oggi sono praticamente all’oscuro. Non so mai cosa arriverebbe a rivelarmi se insistessi, perché preferisco non farlo. Ho scelto di non indagare su ciò che fece in Polonia. Quel che so mi basta e avanza. Non posso dire lo stesso delle sue emozioni, del suo stato di salute o del suo benessere generale, perché tengo moltissimo a lei, a ogni molecola del suo corpo. Su altri aspetti complessi e clandestini della sua vita, invece, è quasi meglio così. Sia per il suo bene sia per il mio, ci sono particolari sui quali non intendo fare domande. Ci sono storie che non voglio farmi raccontare. Nell’ultima ora di volo, prima che atterrassimo a Hanscom Field, l’ho vista diventare sempre più ansiosa, impaziente, attentissima. Lucy sa essere vigile in maniera estrema,

lo so. La vigilanza è l’arma a cui ricorre quando si sente in pericolo e che la fa entrare in uno stato d’animo che mi turba. Quando ci siamo fermate a fare rifornimento a Oxford, nel Connecticut, non ha voluto lasciare solo l’elicottero nemmeno per un secondo. Ha assistito di persona all’arrivo dell’autopompa e al rifornimento e mi ha fatto rimanere di guardia al freddo quando è andata nel terminal a pagare, perché non si fidava ad affidare il compito a Marino. Me lo ha detto chiaro e tondo. Mi ha raccontato che all’andata, quando hanno fatto rifornimento a Wilmington, nel Delaware, Marino ha parlato tutto il tempo al telefono senza preoccuparsi della sicurezza, senza neanche far caso a quello che gli succedeva intorno. Ha detto di averlo osservato dalla finestra: andava avanti e indietro sulla pista, parlando e gesticolando, senza dubbio tutto preso a raccontare a Briggs dell’uomo che potrebbe essere stato chiuso ancora vivo nella cella frigorifera del CFC. Secondo lei, Marino non guardava minimamente l’elicottero. Non si è neppure accorto che un altro pilota si è avvicinato al velivolo per controllarlo, accovacciandosi per esaminare il FLIR, il Nightsun, e scrutando nella cabina attraverso il plexiglas. A Marino non è venuto nemmeno in mente che gli sportelli erano sbloccati, come lo era il tappo del serbatoio, e che non si può fissare la cappottatura. Chiunque poteva accedere alla trasmissione, al motore, alle scatole degli ingranaggi, agli organi vitali di un elicottero semplicemente sganciando alcuni nottolini. Basta un po’ d’acqua nel serbatoio del carburante per avere uno spegnimento in volo, per far bloccare il motore. Basta un pizzico di contaminante nel fluido idraulico, una manciata di terra, un po’ di olio o di acqua nel serbatoio, e i comandi vanno in avaria. Come il servosterzo di un’auto, ma la cosa è un po’ più grave quando sei a duemila piedi di quota. E se uno vuole procurarti danni veramente seri, contamina sia il combustibile sia il liquido idraulico, così avrai contemporaneamente lo spegnimento del motore e l’avaria ai comandi idraulici. Questo è lo scenario che Lucy mi ha descritto con dovizia di particolari mentre volavamo con l’interfono in modalità “solo equipaggio” per non farsi sentire da Marino. Mi ha spiegato che di notte è ancora più pericoloso, perché un atterraggio di emergenza è sempre difficile, ma con il buio è peggio, dal momento che non vedi cosa c’è sotto di te e puoi solo sperare che non ci siano alberi, linee elettriche o altri ostacoli. Naturalmente il sabotaggio che mia nipote teme di più in assoluto è un ordigno esplosivo. È ossessionata dagli esplosivi, dal modo in cui vengono usati contro di noi e da chi. A sentire lei, anche il governo degli Stati Uniti li userebbe contro di noi, all’occorrenza. Mi sono dovuta sorbire tutti questi discorsi e poi, come se non bastasse, mia nipote mi ha spiegato quanto è semplice piazzare un ordigno sotto un bagaglio o sotto il pavimento del vano posteriore in modo che, quando esplode, distrugga il serbatoio principale, con il risultato che l’elicottero diventa un forno crematorio. Questo mi ha fatto tornare in mente il soldato morto sull’Humvee e le invettive di sua madre al telefono. Così per tutto il resto del volo non ho fatto altro che infelici associazioni di idee perché, nel bene o nel male, se sento parlare di un disastro mi vengono in mente

numerosi esempi di morti atroci di cui mi sono occupata. Io so come muore la gente, so esattamente cosa mi succederà se toccherà a me. Lucy chiude la manetta e abbassa il freno rotore, e le pale smettono subito di girare. Intanto la portiera sinistra del SUV di Benton si apre. La luce nell’abitacolo non si accende. Non si accenderà su nessuno dei tre SUV fermi sulla rampa, perché poliziotti e agenti federali, o ex agenti federali, hanno le loro abitudini: non si siedono mai con le spalle alla porta, detestano allacciare la cintura di sicurezza e non accendono mai la luce in macchina. Sembrano programmati per evitare imboscate e tutto ciò che potrebbe impedire loro la fuga. Fanno qualsiasi cosa pur di non trasformarsi in bersagli. Sono vigili, ma non ai livelli di Lucy in queste ultime ore. Benton scende dall’auto e si avvicina all’elicottero. Si ferma accanto al carrello con le mani nelle tasche del vecchio cappotto di montone nero che gli ho regalato molti Natali fa, i capelli grigi scompigliati dal vento. È alto e magro, con il viso affilato nell’alternanza di luci e ombre nella notte nevosa. Ogni volta che lo vedo dopo una lunga separazione, con occhi nuovi, mi sento attratta da lui come al primo incontro, tanto tempo fa. Avvenne in Virginia, quando io ero appena stata nominata direttrice dell’Istituto di medicina legale ed ero la prima donna in America a occupare quella carica tanto prestigiosa, e lui era una leggenda nell’FBI, profiler di fama e direttore dell’unità di analisi comportamentale di Quantico. Entrò nella mia sala riunioni e io di colpo mi sentii intimidita e insicura, e non a causa degli omicidi seriali di cui dovevamo parlare. «Conosci quel tipo?» mi chiede all’orecchio mentre ci abbracciamo. Mi dà un bacio leggero sulle labbra e io sento l’aroma silvestre del suo dopobarba e la morbidezza del suo cappotto sulla guancia. Guardo, oltre le sue spalle, l’uomo che sta scendendo dalla berlina che adesso vedo essere una Bentley nera o blu scura che emette il ronzio roco di un motore V12. È un uomo alto e sovrappeso, con le guance cascanti e i capelli radi che gli svolazzano al vento. Indossa un cappotto lungo con il bavero rialzato fino alle orecchie e i guanti, e si tiene educatamente a distanza con l’atteggiamento distaccato dello chauffeur. Ma ho la netta sensazione che ci stia osservando con interesse, soprattutto Benton. «Starà aspettando qualcuno» rispondo. L’uomo guarda prima l’elicottero e poi di nuovo Benton. «Oppure si è sbagliato.» «Cerca qualcuno?» Benton gli si avvicina. «Sì. Il dottor Scarpetta?» dice l’uomo in tono interrogativo. «Cosa c’è?» Benton è cordiale, ma fermo. Non lascia trapelare nulla. «Devo consegnare un plico a una persona e mi è stato detto che sarebbe arrivata con l’elicottero del dottor Scarpetta, o comunque al terminal. Per quale dipartimento lavora lei? O forse è della Sicurezza interna? Vedo che l’elicottero ha un FLIR, una fotoelettrica, un sacco di dotazioni speciali. Molto tecnologico. È veloce?» «Che cosa desidera?» «Devo consegnare una busta personalmente al dottor Scarpetta. È lei? Mi hanno detto

di farmi mostrare un documento d’identità.» Guarda Lucy e Marino che scaricano le mie valigie dal compartimento passeggeri e dal bagagliaio. Non mostra il benché minimo interesse nei miei confronti. Ha deciso che sono la moglie del bel signore alto dai capelli grigi. È convinto che Benton sia il dottor Scarpetta e che l’elicottero sia suo. «Andiamocene di qui prima che arrivi una tormenta» dice Benton dirigendosi verso la Bentley. L’autista non ha altra scelta, a parte seguirlo. «Le previsioni parlano di quindici, venti centimetri di neve, ma secondo me ne verrà anche di più. Come se non bastasse quella che c’è, eh? Che inverno! Di dov’è lei? Non di queste parti. Del Sud, mi pare. Tennessee?» «Ha riconosciuto l’accento dopo ventisette anni? Dovrò sforzarmi di più di parlare come voi yankee. Sono di Nashville. Sono arrivato qui con la 66a aerobrigata e non me ne sono mai più andato. Non sono un pilota, ma guido abbastanza bene.» Apre la portiera dalla parte del passeggero e si china nell’abitacolo. «Lei pilota quell’aggeggio? Non sono mai stato in elicottero. Ho capito subito che non era un velivolo militare. Ma immagino che se è della CIA non me lo dirà...» Le due voci mi arrivano portate dal vento mentre aspetto sulla rampa dove mi ha lasciato Benton. So che non è il caso di seguirlo verso la Bentley, ma non voglio sedermi nella nostra macchina senza sapere chi è quell’uomo, che cosa deve consegnare e come faceva a sapere che “il dottor Scarpetta” sarebbe arrivato a Hanscom proprio a quell’ora, o in elicottero o ad aspettare un elicottero. La prima persona che mi viene in mente è Jack Fielding, che conosce il mio itinerario. Controllo l’iPhone: Anne e Ollie hanno risposto ai miei SMS e sono già al CFC ad aspettarci. Da Fielding, invece, nessuna notizia. “Che cosa gli sarà successo?” Qualcosa deve essergli successo di sicuro, e anche qualcosa di grave. Non può trattarsi soltanto della sua solita irresponsabilità, indifferenza, volubilità. Spero che stia bene, che non sia infortunato, o malato, o in lite con la moglie. Guardo Benton infilarsi qualcosa in tasca e poi venire dritto verso il SUV, che è un modo per dirmi di salire a bordo e non fargli domande lì sulla rampa. Deve avere scoperto qualcosa che non gli piace, malgrado la rilassata cordialità che ostentava con l’autista. «Cos’è?» chiedo mentre chiudiamo le portiere e Marino apre il portellone posteriore e comincia a caricare scatole e valigie. Benton accende il riscaldamento e non risponde. Intanto Marino finisce di caricare i bagagli, poi viene dalla mia parte e bussa sul vetro. «Chi cavolo era quello?» Guarda verso la Bentley. La neve cade fitta, grossi fiocchi che gli si posano sulla visiera del berretto da baseball e si sciolgono sugli occhiali. «Quante persone sapevano che tu e Lucy sareste andati a Dover oggi?» Benton si appoggia alla mia spalla per sporgersi a parlare con Marino. «Il generale, il capitano Avallone, che ho chiamato ripetutamente cercando di parlare con il capo, e qualcuno dell’ufficio. Perché?» «Nessun altro? Non è che l’hai accennato en passant ai soccorritori o alla polizia di Cambridge?»

Marino riflette e sul viso gli passa un’ombra. Non è sicuro di ricordare a chi lo ha detto. Si sforza, cerca di fare mente locale. Non vuole ammettere di aver parlato troppo perché è stufo di sentirsi dire che è indiscreto. Non vuole farsi fare l’ennesima predica anche se, a onor del merito, non c’era motivo di tenere segreto il fatto che lui e Lucy stavano per venirmi a prendere nel Delaware. Che io fossi a Dover non era certo un’informazione top secret e in ogni caso sarei dovuta rientrare comunque l’indomani. «Anche se l’hai detto a qualcun altro, non è un problema.» Benton evidentemente pensa quello che sto pensando io. «Sto solo cercando di capire come mai un fattorino sapeva che l’elicottero sarebbe arrivato proprio a quest’ora, tutto qui.» «Dove s’è mai visto un fattorino che gira su una Bentley?» replica Marino. «Qui, adesso. Conosceva anche il vostro itinerario e persino il numero di coda» ribatte Benton. «Maledetto Fielding, che cosa diavolo sta combinando? È fuori di testa, cazzo.» Marino si toglie gli occhiali, ma non ha niente con cui pulirli. La sua faccia sembra nuda, strana, senza i vecchi occhiali dalla montatura di metallo. «Ho accennato ad alcune persone che probabilmente saresti tornata oggi anziché domani. Voglio dire, è chiaro che certi lo sanno per via del problema del morto che ha sanguinato eccetera.» Questo lo dice rivolto a me. «Ma Fielding è l’unico che sapeva tutto e di sicuro conosce l’elicottero di Lucy, perché ci ha anche volato. Merda, tu non hai idea...» aggiunge in tono cupo. «Ne parliamo in ufficio.» Benton vuole piantarla lì. «Non sappiamo un cazzo di lui, in fondo. Cosa diavolo sta combinando? Adesso però basta proteggerlo. Lui mica protegge te» mi dice. «Ne parliamo dopo» insiste Benton in tono minaccioso. «Ti sta mettendo nei guai» aggiunge Marino rivolto a me. «Non è il momento di approfondire.» La voce di Benton è di nuovo piatta, neutrale. «Vuole soffiarti il posto. O forse vuole semplicemente fartelo perdere.» Marino mi guarda, ficca le mani nelle tasche del giaccone e fa un passo indietro. «Bentornata a casa, capo.» I fiocchi di neve che il vento porta dentro la macchina mi arrivano freddi e bagnati in faccia e nel collo. «Fa sempre piacere sapere di chi ci si può fidare, no?» Marino mi fissa mentre chiudo il finestrino. Le luci anticollisione bianche e rosse lampeggiano sulle ali dei jet parcheggiati mentre, lentamente, percorriamo la rampa diretti al cancello di sicurezza che si è appena aperto. La Bentley lo supera e subito dopo passiamo noi. Noto che è targata Massachusetts e non ha scritte che facciano pensare che appartenga a una società di autonoleggio. La cosa non mi sorprende. Le Bentley non sono comuni, soprattutto da queste parti dove la gente è sobria e conservatrice, anche se viaggia su jet privati. In giro ci sono poche Bentley o Rolls-Royce e si vedono più che altro Toyota e SAAB. Passiamo davanti al terminal FBO della Signature Aviation, uno dei vari operatori privati che hanno sede nella parte civile dell’aeroporto, e poso la mano sulla pelle morbida della tasca di Benton senza toccare la busta color avorio che ne sporge leggermente.

«Mi racconti cos’è successo?» A quanto pare gli è stata consegnata una lettera. «Nessuno avrebbe dovuto sapere che arrivavi o che potevi arrivare qui, nessuno dovrebbe sapere nulla di personale su di te o su dove ti trovi, punto» dice Benton, con la faccia e la voce dura. «Lei ha telefonato al CFC e Jack gliel’ha detto. Sicuramente non era la prima volta che chiamava, e chi altri può averglielo detto se non Jack?» Lo dice come se non fosse affatto una domanda, ma io non so a che cosa si riferisca. «Non capisco perché Jack le parli, santo cielo» continua. Non so a chi alluda, ma non credo che Benton non capisca, caso mai ho l’impressione opposta. Non mi sembra neppure sorpreso. «Chi è che ha telefonato al CFC?» domando. «La madre di Johnny Donahue. A quanto pare, quello è il suo autista.» Indica la macchina davanti a noi. I tergicristalli fanno un rumore gommoso passando sul parabrezza per portar via la neve bagnata che si scioglie non appena tocca il vetro. Guardo le luci posteriori della Bentley davanti a noi e cerco di trovare un senso ai discorsi che mi sta facendo Benton. «Dovremmo guardare che cosa c’è dentro.» Intendo nella busta che ha in tasca. «È materiale probatorio. Andrebbe aperta in un laboratorio» ribatte. «Preferisco sapere che cosa c’è dentro.» «Ho finito la valutazione di Johnny Donahue stamattina» mi ricorda Benton a questo punto. «So che sua madre ha telefonato varie volte al CFC.» «Come fai a saperlo?» «Me l’ha detto lui.» «Che è un paziente psichiatrico. La consideri un’informazione affidabile?» «Ho passato quasi sette ore con lui da quando è stato ricoverato. Non gli credo quando dice di essere un assassino e molte altre cose, ma trovo plausibile che sua madre abbia chiamato il CFC» risponde. «Non penserà di poter parlare con noi del caso Bishop.» «Al giorno d’oggi la gente pensa che le informazioni siano tutte di dominio pubblico, pensa di avere il diritto di sapere tutto» replica. Non è da lui fare ipotesi e lasciarsi andare a generalizzazioni. Questa sua affermazione mi pare superficiale ed evasiva. «E alla signora Donahue non piace Jack» aggiunge. Questo commento invece mi pare sincero. «Anche questo te l’ha detto Johnny? E perché sua madre dovrebbe avere un’opinione negativa su Jack?» «Ci sono cose di cui non posso parlare.» Tiene gli occhi sulla strada imbiancata. Continua a nevicare fitto: i fiocchi passano nel fascio di luce dei fari e battono sui vetri. Quando Benton mi tiene nascosto qualcosa, di solito me ne accorgo e non me la prendo. In questo momento, però, mi secca. Sono tentata di prendergli la busta dalla tasca per vedere quello che mi ha mandato la signora Donahue, sempre che sia stata lei a mandarmelo. «Tu l’hai conosciuta, le hai parlato?» domando.

«Finora sono riuscito a evitarlo, nonostante lei mi abbia cercato varie volte in ospedale da quando Johnny è ricoverato. Ma non è opportuno che le parli. Non è opportuno che io parli di certe cose, e so che tu capisci.» «Sarebbe gravissimo se Jack o qualcun altro le avesse rivelato particolari sul caso Bishop» rispondo. «E capisco, o credo di capire, la tua reticenza, ma ho il diritto di sapere se è andata così.» «Non so cosa sai. Se Jack ti ha detto qualcosa» dice Benton. «A che proposito?» Non voglio ammettere, né con Benton né con me stessa, che non mi ricordo con esattezza quand’è stata l’ultima volta che ho parlato con Jack. Le nostre rare conversazioni sono state frettolose e superficiali e quando sono tornata a casa per le feste non ci siamo nemmeno visti. Fielding era via, credo fosse andato da qualche parte con la famiglia, ma non ne sono sicura. Da molti mesi ha smesso di parlarmi di sé e della sua vita. «A proposito del caso Mark Bishop» risponde Benton. «Quando è successo, per esempio, Jack te ne ha parlato?» Sabato 30 gennaio Mark Bishop, sei anni, giocava nel giardino di casa sua a Salem, a circa un’ora di strada da dove siamo adesso, quando qualcuno lo ha ucciso piantandogli dei chiodi in testa. «No» rispondo. «Non me ne ha parlato.» Ero a Dover quando il bambino è stato ammazzato e inaspettatamente Fielding ha preso in carico il caso. La cosa mi ha stupito perché lui si era sempre rifiutato di occuparsi di bambini. Questa volta, invece, per qualche motivo ha fatto un’eccezione. In passato, ogni volta che ci arrivava il cadavere di un bambino, Fielding latitava. Mi è parso subito molto strano, perciò, che volesse occuparsene lui. Rimpiango di non aver dato ascolto al mio primo istinto, che era di tornare a casa. Avrei dovuto, ma non volevo fare al mio vice quello che Briggs aveva appena fatto a me, ovvero dimostrargli sfiducia. «Ho esaminato a fondo il caso, ma io e Jack non ne abbiamo mai parlato, benché io gli abbia fatto capire chiaramente la mia disponibilità.» Mi accorgo che mi sto mettendo sulla difensiva, cosa che mi irrita sempre molto. «Tecnicamente, il caso è suo. Tecnicamente, io ero fuori sede.» Non riesco a trattenermi e so di essere poco convincente. La mia suona come una scusa, e questo mi infastidisce. «In altre parole, Jack non è entrato nei dettagli. Non ti ha comunicato i suoi particolari» conclude Benton. «Pensa a dov’ero e cosa stavo facendo» gli ricordo. «Non sto dicendo che è colpa tua, Kay.» «Colpa mia di cosa? E perché dici i “suoi” particolari?» «Ti sto chiedendo se gli hai fatto domande specifiche. Se lui ha deliberatamente evitato di parlarne con te.» «Sai com’è Jack se ci sono di mezzo dei bambini. Quando ho saputo di Mark Bishop, gli ho lasciato un messaggio dicendo che poteva occuparsene un collega. Invece Jack si

è assunto l’incarico. Sono rimasta sorpresa, ma è andata così. Come ti ho detto, ho rivisto tutti i rapporti: quello di Jack, quello della polizia, i referti del laboratorio eccetera.» «Quindi davvero non sai che cosa sta succedendo.» «Sembra che tu ne sia convinto.» Benton tace. «Cos’è che non so? Le ultime notizie? La confessione del giovane Donahue?» ritento. «So quello che hanno detto i media, e uno studente di Harvard che confessa una cosa del genere fa scalpore. Ma evidentemente stai cercando di dirmi che ci sono particolari che non mi sono stati riferiti.» Di nuovo Benton non risponde. Immagino Fielding che parla con la madre di Johnny Donahue. È possibile che sia stato lui a dirle dov’ero stasera e che lei abbia mandato l’autista a consegnarmi una busta, anche se a quanto pare l’autista non sapeva che sono la dottoressa e non il dottor Scarpetta. Guardo il montone nero di Benton. Al buio intravedo il bordo bianco della busta che gli sporge dalla tasca. «Perché qualcuno del CFC avrebbe dovuto parlare con la madre del ragazzo che ha confessato di essere l’autore dell’omicidio?» La domanda di Benton pare retorica, più un’affermazione. «Siamo assolutamente sicuri che ai media non sia arrivata la notizia che saresti partita da Dover oggi, magari proprio per via di questo nuovo caso?» Allude al morto di Norton’s Woods. «Forse c’è una spiegazione logica per come è venuta a saperlo. Forse lo ha appreso per altre vie, non tramite Jack Fielding. Sto cercando di essere aperto a tutte le possibilità.» A me non sembra. Piuttosto mi pare persuaso che Fielding abbia detto alla signora Donahue che sarei arrivata stasera per un motivo ben preciso, a me del tutto incomprensibile. A meno che non avesse ragione Marino quando poco fa ha detto che Fielding vuole farmi perdere il posto. «Lo sappiamo tutti e due, Benton.» Sento il mio tono convinto e mi rendo conto di essere sicura di ciò di cui è capace Jack Fielding. «I media non hanno parlato di me, che io sappia. E anche se la signora Donahue l’avesse saputo dal telegiornale, come spieghi che conoscesse la matricola dell’elicottero di Lucy? O che sapesse che sarei arrivata in elicottero e sarei atterrata a Hanscom a quest’ora?» Benton prosegue verso Cambridge sotto una tormenta di fiocchi sempre più piccoli. Il vento a raffiche investe il SUV, il buio è mutevole e insidioso. «Però l’autista pensava di dover dare la busta a te» aggiungo. «L’ho capito da come ti trattava. Era convinto che tu fossi il dottor Scarpetta, mentre la madre di Johnny Donahue sa benissimo che sono una donna.» «Difficile dire che cosa sa o non sa» ribatte Benton. «A occuparsi del caso è Fielding, non tu. Come dicevi, tecnicamente tu non c’entri niente. Tecnicamente, non sei responsabile.» «Sono il direttore del centro e quindi sono responsabile. In ultima analisi, tutti i casi del Massachusetts sono di mia competenza. C’entro eccome.»

«Non era questo che intendevo, ma mi fa piacere sentirtelo dire.» È ovvio che non intendeva questo. Non voglio pensare a cosa intendeva davvero. Sono stata via. Dovevo stare a Dover e nello stesso tempo far ingranare il CFC in maniera che funzionasse tutto anche in mia assenza. Forse era una pretesa eccessiva. Forse sono stata deliberatamente messa in condizione di fallire. «Sto dicendo che da quando ha aperto il CFC sei stata invisibile» dice Benton. «Persa in un blackout mediatico.» «Volutamente» replico. «L’AFME non va in cerca di pubblicità.» «So che è stata una cosa voluta. Non do la colpa a te.» «È stato Briggs a volerlo.» Do voce a quel che sospetto Benton stia cercando di dire. Non si fida di Briggs. Non si è mai fidato di lui. Io ho sempre pensato che fosse geloso. Briggs è un uomo molto potente e temibile e Benton si sente molto poco potente e molto poco temibile da quando se n’è andato dall’FBI. E poi c’è il passato che io e Briggs abbiamo in comune. John Briggs è una delle poche persone che ho conosciuto prima di Benton e con cui sono ancora in contatto. Mi sembra di conoscerlo da una vita. «L’AFME non voleva che tu rilasciassi interviste sul CFC o che parlassi in pubblico di cose riguardanti Dover finché il CFC non fosse stato pronto e tu non avessi finito il tuo corso» continua Benton. «Questo ti ha fatto rimanere in ombra per parecchio tempo. Sto cercando di ricordare l’ultima volta che sei stata alla CNN. Sarà passato quasi un anno.» «Guarda caso, ci dovevo tornare proprio stasera, Ma, guarda caso, è saltato tutto. È la terza volta che l’intervista viene annullata. Così come il mio ritorno qui è stato rimandato più volte.» «Un sacco di coincidenze, già» commenta Benton. Forse Briggs ha voluto compromettermi. L’ha fatto apposta. Che idea geniale prepararmi per un incarico più importante, il più importante che io abbia mai avuto, e nello stesso tempo rendermi sistematicamente meno visibile, mettermi a tacere. In ultima analisi, liberarsi di me. È un pensiero sconvolgente. Non ci credo. «E chi è responsabile di queste coincidenze? Ecco che cosa bisognerebbe scoprire» aggiunge poi Benton. «Non sto dando per scontato che Briggs ha fatto qualcosa di machiavellico. Briggs non è il Pentagono. È solo un piccolo pezzo di un ingranaggio molto grande.» «So che hai poca stima di lui.» «Non di lui, dell’ingranaggio. E l’ingranaggio ci sarà sempre. Si tratta soltanto di cercare di capire come funziona per non farsi stritolare.» La neve batte sul vetro e rimbalza. Stiamo attraversando distese di campi aperti e fitti boschi. Quando passiamo su un ponte, vedo che il torrente è in piena. Deve fare più freddo qui, penso: la neve è ghiacciata e i fiocchi più piccoli. Mi sconcerta attraversare zone con condizioni meteorologiche così variabili. «La signora Donahue sa che il primario anatomopatologo, nonché direttore del CFC, si chiama dr Scarpetta ed è il capo di Jack» riprende Benton. «Lo sa per forza, se si è presa la briga di farti consegnare quella busta. Ma forse non sa altro.» Sta cercando una

spiegazione di quanto è successo all’aeroporto. «Guardiamo che cos’è.» Voglio quella busta. «Dovrebbe andare ai laboratori.» «Sa che sono il capo di Jack, ma non sa che sono una donna.» Sembra assurdo, ma è possibile. «Sarebbe bastato cercare il mio nome su Google.» «Non tutti usano il computer.» Mi rendo conto di quanto mi è facile dimenticare che esistono ancora persone tecnologicamente arretrate a questo mondo, anche fra coloro che possiedono una Bentley con autista. Le luci posteriori dell’auto davanti a noi, che viaggia troppo veloce per queste condizioni atmosferiche, si allontanano sulla strada stretta, a due sole corsie. «Hai mostrato un documento di identità allo chauffeur?» «Secondo te?» La risposta è no, naturalmente. «Quindi non si è reso conto che non eri tu il dottor Scarpetta.» «Da quel che ho detto o fatto non può averlo capito.» «Immagino che la signora Donahue continuerà a pensare che Jack lavori per un uomo. Strano che Jack le abbia detto come fare a trovarmi senza descrivermi in modo che l’autista mi riconoscesse, o senza dire almeno che non sono un uomo. Che non abbia usato pronomi, aggettivi o participi passati da cui lo si potesse capire. Strano. Non so.» Non sono convinta delle congetture che stiamo facendo. C’è qualcosa che non quadra. «Non mi ero reso conto che avessi tanti dubbi sul conto di Jack. Non che non siano giustificati.» Benton vuole farmi parlare. Sta facendo l’agente dell’FBI. Non succedeva da un pezzo. «Non dirmi che errare è umano e perseverare diabolico, ti prego» ribatto con foga. «Me lo sono sentita ripetere già abbastanza volte, per oggi.» «Ho detto solo che non me ne ero reso conto.» «Niente più dei soliti dubbi e della mia solita tendenza a negarli» replico. «Non avevo abbastanza informazioni per preoccuparmi più del solito.» È un modo per chiedere a Benton di darmi le informazioni che ha, di dirmi quello che sa, di non comportarsi da poliziotto, di non farmi da psicoterapeuta. Gli sto chiedendo di non essere reticente. Ma lui lo è, eccome. Non dice una parola. Tiene l’attenzione fissa davanti a sé e vedo il suo profilo che si staglia nella penombra. È sempre stato così tra noi: giriamo intorno alle informazioni confidenziali o riservate, ci muoviamo intorno ai segreti come a passo di danza, talvolta mentiamo. All’inizio, siccome Benton era sposato, ci vedevamo di nascosto. Siamo capaci di mentire, tutti e due. Non ne vado fiera e mi piacerebbe che non fosse necessario continuare a farlo per motivi professionali. Soprattutto in questo preciso istante. Benton sta girando intorno a dei segreti e io voglio la verità. Ne ho bisogno. «Senti, sappiamo entrambi com’è fatto Fielding e, sì, è vero che io sono invisibile da quando ha aperto il CFC» riprendo. «Sono stata in una specie di vuoto pneumatico, ho fatto del mio meglio per cercare di gestire le cose da lontano e contemporaneamente

lavorare diciotto ore al giorno, senza avere nemmeno il tempo di parlare per telefono con i miei collaboratori. Abbiamo comunicato solo grazie a e-mail e PDF. Non ho più visto praticamente nessuno. Non avrei dovuto mettere tutto nelle mani di Jack, date le circostanze. Assumendolo di nuovo e andandomene da Cambridge ho creato le premesse perché succedesse quello che è successo. Tu mi avevi avvertito, e non sei stato il solo.» «Non hai mai voluto credere che Jack era un problema.» Lo dice in un modo che mi fa vacillare ancora di più. «Eppure di guai te ne ha causati. A volte non c’è dimostrazione sufficiente a farci vedere quello che non vogliamo vedere. Non riesci a essere obiettiva sul conto di Jack, Kay. Credo di non avere mai capito perché.» «Hai ragione, e questo mi fa rabbia.» Mi schiarisco la voce e cerco di assumere un tono calmo. «Mi dispiace moltissimo.» «Non so se riuscirò mai a capirlo.» Mi lancia un’occhiata, con le due mani sul volante. Siamo soli su una strada coperta di neve e poco illuminata, in macchina in una notte nevosa. La Bentley che era davanti a noi non si vede più. «Non ti sto giudicando.» «Si incasina la vita e poi ha bisogno di me.» «Non è colpa tua se si incasina la vita, a meno che tu non mi abbia tenuto nascosto qualcosa. Anzi, no, non sarebbe colpa tua in nessun caso. La gente si incasina la vita da sola, senza bisogno degli altri.» «Non è del tutto vero. Quello che gli è capitato da ragazzino non se l’è cercato lui.» «Ma non è nemmeno colpa tua» ribatte Benton, come se sul passato di Jack sapesse più di quel che gli ho raccontato io, i pochi particolari di cui sono al corrente. Sono sempre stata attenta a non fare domande indiscrete ai miei collaboratori e soprattutto a Fielding. So quel tanto che basta della sua tragedia giovanile per rendermi conto che ci sono cose di cui probabilmente preferisce non parlare. «È una cosa stupida, lo so» aggiungo. «Non è una cosa stupida. È soltanto una messinscena destinata a concludersi sempre nello stesso modo. Non ho mai capito fino in fondo perché senti il bisogno di recitarla con lui. Ho la sensazione che sia successo qualcosa. Qualcosa che non mi hai detto.» «Ti dico tutto.» «Sappiamo entrambi che non è vero. Neanch’io ti dico tutto, d’altra parte.» «Forse dovrei occuparmi soltanto di morti.» Mi accorgo del tono amareggiato con cui lo dico, del risentimento che trasuda da dietro le barriere che mi sono costruita con cura fin da quando ero piccola. Forse non sono più capace di vivere senza. «Con i morti almeno so come comportarmi.» «Non dire così» mormora Benton. “Colpa della stanchezza” mi dico. Colpa di quello che mi è successo stamattina, quando la madre nera di un soldato nero mi ha insultato per telefono e mi ha accusato di seguire non la regola aurea, ma la “regola dei bianchi”. Poi Briggs ha cercato di scavalcarmi. È possibile che si tratti di una sua macchinazione ai miei danni. È possibile che voglia screditarmi. «È un dannato stereotipo» osserva poi Benton.

«Il buffo degli stereotipi è che di solito hanno un fondamento di realtà.» «Non fare questi discorsi.» «Non ci saranno altri problemi con Jack. La messinscena finirà, te lo prometto. Sempre che non ci abbia già dato un taglio lui, che non se ne sia andato. Non sarebbe la prima volta. Va licenziato.» «Lui non è te, non lo è mai stato né mai potrà esserlo. E non è neanche tuo figlio, per la miseria!» Benton pensa che sia semplice, ma non è così. «Bisogna lasciarlo andare» rispondo. «È un anatomopatologo forense di quarantasei anni che non si è mai guadagnato la fiducia che gli dimostri e non si è mai meritato quello che fai per lui, maledizione.» «Ho chiuso con Jack.» «Hai chiuso con Jack. Ho paura che sia vero e che dovrai lasciarlo andare» dice Benton come se la decisione fosse già stata presa e non dipendesse da me. «Perché ti senti così in colpa?» C’è qualcosa nel suo tono, nel suo atteggiamento, che non riesco a decifrare con esattezza. «Fin da quando eri a Richmond, anni fa, i primi tempi che vi conoscevate. Perché questo senso di colpa?» «Mi dispiace di aver causato tanti problemi.» Evito la domanda. «Mi sembra di avere deluso tutti quanti. Mi dispiace di non essere stata qui. Non so come dirlo. Mi assumo la responsabilità per quello che ha combinato Jack, ma non permetterò più che succeda.» «Ci sono cose di cui non ti puoi prendere la responsabilità, che non dipendono da te. Continuerò a ricordartelo e tu probabilmente continuerai a sentirti in colpa» dice mio marito lo psicologo. Non intendo discutere di cosa sono responsabile e di cosa no, perché non posso parlare del motivo per cui sono sempre stata irrazionalmente fedele a Jack Fielding. Tornata dal Sudafrica, Jack Fielding fu la mia penitenza, un castigo che mi inflissi da sola. Desideravo disperatamente comportarmi bene con lui perché ero convinta di essermi comportata malissimo con tutti gli altri. «Le do un’occhiata.» Mi riferisco alla busta che Benton ha in tasca. «Sono in grado di guardarla senza danneggiarla e ho bisogno di vedere che cosa mi ha scritto la signora Donahue.» Gli sfilo delicatamente la busta dalla tasca, prendendola per il bordo, e vedo che è chiusa con una striscia di nastro adesivo metallizzato che copre in parte l’indirizzo del mittente, stampato sul lembo in un antiquato carattere con grazie. È un indirizzo di Beacon Hill, a Boston, nei pressi del parco, molto vicino alla casa di famiglia di Benton. Sulla parte anteriore della busta è scritto in grafia elaborata, con la penna stilografica: DR KAY SCARPETTA, SPM. Sto attenta a non toccare altro con le dita nude, soprattutto il nastro adesivo, da cui si possono ottenere facilmente impronte digitali, DNA e materiali microscopici. Rifletto che le impronte latenti su superfici porose come la carta si possono evidenziare con un reagente tipo la ninidrina. «Hai mica un coltello a portata di mano?» Mi poso la busta sulle ginocchia. «E mi servono un momento i tuoi guanti.»

Benton allunga una mano e apre il vano portaoggetti. Dentro ci sono un coltello multiuso Leatherman, una torcia e dei tovaglioli di carta. Tira fuori dalle tasche del cappotto un paio di guanti di pelle scamosciata troppo grandi per me; ma non voglio lasciare le mie impronte o cancellare quelle di qualcun altro. Non accendo la luce di cortesia, perché la visibilità è scarsissima. Puntando la torcia sulla busta, infilo la lama in un angolo. Tiro fuori due fogli piegati di carta da lettere color avorio, pesante, con un simbolo in filigrana che non riesco a vedere bene, ma mi sembra un blasone o uno stemma di famiglia. L’intestazione riporta lo stesso indirizzo di Beacon Hill che ho letto sulla busta e i due fogli sono dattiloscritti con una macchina dal carattere corsivo, di un tipo che non vedevo da molti anni, almeno dieci, credo. Leggo ad alta voce: Gentile dr Scarpetta, spero vorrà scusare questa mia, che sicuramente le parrà inopportuna e presuntuosa, ma sono una madre che ha toccato il fondo della disperazione. Mio figlio Johnny ha confessato un reato che sono certa non ha e non può aver commesso. Sicuramente in questi ultimi tempi ha avuto delle difficoltà che ci hanno indotto a farlo curare, ma non ha mai avuto problemi comportamentali gravi, nemmeno quando, quindicenne timido e vittima di bullismo, si iscrisse a Harvard. Se c’è stato un momento in cui ho pensato che potesse avere un crollo è stato proprio quello, quando se ne andò per la prima volta da casa senza avere le normali capacità per interagire e fare amicizia con gli altri. Se l’è cavata molto bene fino al semestre scorso quando, arrivato all’ultimo anno di studi, la sua personalità è cambiata in maniera preoccupante. Ma mio figlio non ha ucciso nessuno! Il dottor Benton Wesley, consulente dell’FBI e medico presso l’ospedale McLean, conosce bene i precedenti e le difficoltà evolutive di mio figlio e forse potrà parlarne con lei, dal momento che non è parso disposto a farlo con il suo assistente, il dottor Fielding. La storia di Johnny è lunga e complicata e penso che lei dovrebbe conoscerla. Basti dire che, quando è stato ricoverato al McLean lunedì scorso, è stato perché lo si è ritenuto pericoloso per se stesso. Non ha fatto del male a nessuno né ha lasciato intendere di poterlo fare. Poi, in maniera del tutto inaspettata, ha confessato un reato così orribile e crudele e in breve tempo è stato rinchiuso nel reparto riservato agli psicopatici criminali. Io mi chiedo, e le chiedo: com’è possibile che le autorità abbiano creduto tanto prontamente alle sue storie assurde e deliranti? Ho bisogno di parlarle, dr Scarpetta. So che l’autopsia del bambino ucciso a Salem è stata eseguita presso il suo centro e mi sembra ragionevole chiedere un secondo parere. Immagino che lei sia a conoscenza della conclusione del dr Fielding, ovvero che si è trattato di un omicidio premeditato, pianificato con cura, di un’esecuzione a sangue freddo compiuta come iniziazione a una setta satanica. Un gesto di tale mostruosità è assolutamente incompatibile con la personalità di mio figlio, il quale non ha mai avuto a che fare con sette di alcun genere. È assurdo pensare che la sua passione per libri e film con contenuti horror, soprannaturali o violenti possa averlo indotto ad “agire” una

cosa del genere. Johnny ha la sindrome di Asperger. È estremamente dotato in alcuni campi e del tutto incompetente in altri. Ha abitudini molto rigide e routine che segue in maniera ossessiva e il 30 gennaio scorso era al Biscuit con la sua amica più cara, una studentessa molto dotata di nome Dawn Kincaid, con la quale esce per il brunch tutti i sabati dalle 10.00 alle 13.00. Non poteva pertanto trovarsi a Salem all’ora in cui è stato ucciso il bambino, nel primo pomeriggio. Johnny ha l’inconsueta capacità di memorizzare e ripetere a pappagallo i particolari più strani e mi sembra chiaro che quello che ha raccontato alle autorità ricalca quanto gli è stato riferito sulla vicenda e quanto hanno scritto i giornali. Mio figlio sembra sinceramente convinto (per motivi a me del tutto incomprensibili) di essere colpevole e sostiene anche che la “ferita da punta” che ha alla mano sinistra sarebbe stata causata da un malfunzionamento della chiodatrice che ha usato per uccidere il bambino, ma tutto questo è inventato. Johnny si è autoinflitto quella ferita con un coltello da bistecca, ed è uno dei molti motivi per cui lo abbiamo ricoverato al McLean. Mio figlio sembra deciso a farsi punire per un reato che non ha commesso e, se le cose andranno avanti così, riuscirà a ottenere ciò che desidera. Troverà qui di seguito i numeri a cui può contattarmi. Spero che avrà compassione di me e lo farà al più presto. Cordiali saluti Erica Donahue

6 Rimetto gli spessi fogli di carta da lettere nella busta e la avvolgo in alcuni fazzoletti di carta che recupero nel vano portaoggetti. Così protetta, la ripongo in una tasca della mia borsa a tracolla che poi chiudo con la zip. Se ho imparato qualcosa nella vita, è che non si può tornare indietro. Se una potenziale prova viene contaminata o perduta, non c’è più niente da fare: è come quando un archeologo, con la cazzuola, spezza un’anfora antichissima. «Sembra che non sappia che siamo sposati» dico mentre gli alberi si piegano sotto la tempesta di piccoli fiocchi di neve. «Forse no» replica Benton. «E suo figlio? Lui lo sa?» «Non parlo della mia vita privata con i pazienti.» «Quindi forse la signora Donahue non sa niente di me.» Cerco di capire come mai Erica Donahue non abbia detto al suo autista che il destinatario della missiva era una donna bionda e minuta e non un uomo alto e brizzolato. «Ha usato una macchina per scrivere... sempre che l’abbia scritta lei.» Proseguo con le mie deduzioni. «E se ti prendi la briga di chiudere una busta con il nastro adesivo perché nessuno guardi cosa c’è dentro, non credo proprio che tu ti faccia scrivere la lettera da qualcun altro. Se la signora Donahue usa ancora la macchina per scrivere, dubito che sappia usare Google o che vada su Internet. La carta da lettere filigranata, la penna stilografica e il corsivo mi fanno pensare a una persona molto precisa, una purista che segue procedure certe e prestabilite e non improvvisa nulla.» «La signora Donahue è una pianista» dice Benton. «Suona musica classica e non condivide con il resto della famiglia la passione per l’alta tecnologia. Suo marito è un fisico nucleare e il figlio maggiore fa l’ingegnere a Langley. Johnny, come ti dicevo, è molto dotato sia in matematica sia in tutte le materie scientifiche. Questa lettera non lo aiuta. Sarebbe stato meglio che non fosse mai stata scritta.» «Sembri tenere molto a quel ragazzo.» «Detesto quando la gente approfitta di chi è più debole e vulnerabile. Perché è facile prendersela con chi è diverso e non si comporta come tutti gli altri.» «Sono sicura che il pubblico ministero di Essex non sarà molto contento quando gli esprimerai questa tua opinione.» Mi sono convinta che sia stata la procura della contea di Essex a chiedere a Benton una valutazione di Johnny Donahue, anche se Benton non si comporta da perito del tribunale. Sembra molto più coinvolto. «Chi ha la sindrome di Asperger parla in maniera ambigua, non ti guarda negli occhi, tende a confessare il falso perché si sente isolato e ha un bisogno disperato di amici» continua Benton. «E così si lascia influenzare in maniera eccessiva.» «Pensi che qualcuno abbia influenzato Johnny convincendolo a addossarsi la colpa di un reato? Perché lo avrebbe fatto?»

«Basta una minima allusione a qualcosa di sospetto. Tipo: non è una strana coincidenza che tu abbia parlato di andare a Salem e che proprio a Salem sia morto un bambino? Sei sicuro di esserti fatto male alla mano chiudendotela in un cassetto e tagliandoti con un coltello da bistecca? Non è che è successo in un altro modo e adesso non te lo ricordi più? La gente sospetta, dopo un po’ anche Johnny comincia a sospettare e piano piano inizia a dire quello che pensa che gli altri vogliano sentirsi dire, a convincersi di quello di cui crede siano convinti gli altri. Non ha consapevolezza delle possibili conseguenze di un simile comportamento. Sono moltissimi i soggetti affetti da sindrome di Asperger, specie giovani, che vengono arrestati e addirittura condannati per crimini che non hanno commesso.» I fiocchi di neve adesso sono più grossi e il vento li soffia da tutte le parti: paiono una pioggia di petali bianchi. Benton scala la marcia e sfiora il pedale del freno. «Forse dovremmo accostare.» Non riesco a vedere la strada: la luce dei fari si riflette sul bianco tutto intorno a noi. «Che tempaccio!» Si china sul volante e guarda fisso la strada sferzata da forti raffiche di vento. «Prima usciamo da questa bufera, meglio è.» «Non pensi che ci convenga fermarci, invece?» «Vedo le strisce bianche e riesco a restare nella mia corsia. E poi non c’è traffico.» Guarda negli specchietti. «Non abbiamo nessuno neanche dietro.» «Mi auguro che tu abbia ragione.» Non mi riferisco soltanto alla neve. Mi sembra che sia tutto molto sinistro, intorno a noi, come se fossimo circondati da forze maligne, da oscuri presagi. «La signora Donahue ha sbagliato, secondo me. Ha agito impulsivamente e forse anche in buona fede, ma la sua non è stata una mossa intelligente.» Benton guida pianissimo nel vortice bianco. «Anche se non è una testimonianza diretta, farà più male che bene. Non la chiamare, Kay: è meglio.» «Devo mostrare la lettera alla polizia» gli faccio notare. «O almeno parlargliene: decideranno loro cosa farne.» «Ha solo peggiorato la situazione scrivendo quella lettera.» Lo dice come se toccasse a lui stabilirlo. «Non ti immischiare, davvero. Non le telefonare.» «Non capisco in che senso ha peggiorato la situazione, a parte cercare di influenzare il CFC.» «Riporta alcune inesattezze. Johnny non legge romanzi dell’orrore, violenti o fantasy, né ama quel genere di film. O, per lo meno, a me non risulta. Dire una cosa del genere non lo aiuta. Inoltre Mark Bishop non è stato assassinato nel primo pomeriggio, ma verso le quattro. Non so se la signora Donahue si rende conto di cosa implica questo per suo figlio» dice Benton mentre la bufera si placa, velocemente come è iniziata. Di colpo i fiocchi sono di nuovo piccoli e ghiacciati e vorticano come granelli di sabbia sull’asfalto, accumulandosi lungo il ciglio della strada. «Johnny era al Biscuit con la sua amica, questo è vero» continua Benton. «Ma lui dichiara di esserci rimasto fino alle due, non fino all’una. Pare che ci andasse spesso con

questa sua amica, ma non mi risulta che avessero l’abitudine consolidata di passarci tutti i sabati dalle dieci all’una.» Il Biscuit è in Washington Street, a meno di un quarto d’ora a piedi da casa nostra. Penso ai sabati in cui sono a Cambridge e alle volte che con Benton siamo andati in quel caffè, che ha il menu scritto con il gesso sulla lavagna e i tavoli con le panche di legno. Mi chiedo se ci siamo mai stati quando c’erano anche Johnny e la sua amica. «Lei a che ora dice che sono andati via?» «Sostiene di essersene andata verso l’una, ma senza Johnny. Lui si comportava in maniera strana e non voleva uscire. Lei ha detto alla polizia che Johnny voleva andare a Salem a farsi leggere le carte, ne parlava continuamente. E che, quando lei ha lasciato il caffè, è rimasto seduto al tavolo.» Trovo interessante che Benton abbia letto le dichiarazioni rilasciate dai testimoni alla polizia. Il suo compito non dovrebbe essere di determinare se uno è colpevole o innocente, ma di valutarne la sanità mentale, decidere se è capace o incapace di intendere e di volere. «Chi soffre di Asperger ha problemi con il concetto di leggere il futuro, le carte o quel che è» spiega Benton. Più approfondisce l’argomento, più divento perplessa. Mi parla come se fosse lui a indagare sul caso, come se stessimo lavorando insieme. E, tuttavia, ogni volta che tocchiamo l’argomento Jack Fielding, diventa immediatamente criptico. Non è una coincidenza. Mio marito non si lascia mai sfuggire informazioni, anche se a volte fa finta. Quando pensa che io debba sapere qualcosa che non gli è concesso dirmi, trova il modo di farmici arrivare. Viceversa, se decide che è meglio che io rimanga all’oscuro, non mi aiuta minimamente. È frustrante vivere così, ma almeno non posso dire di annoiarmi. «Johnny è incapace di pensiero astratto e non comprende le metafore. È molto concreto» insiste Benton. «Cosa dicono gli altri avventori?» gli domando. «Non è stato trovato nessuno in grado di confermare la versione di Johnny o della sua amica?» «No. Sappiamo solo che sabato mattina lui e Dawn Kincaid erano in quel caffè» replica Benton. Non mi ricordo di averlo mai visto così turbato per una semplice valutazione. «Non so se fosse un’abitudine e ci andassero davvero tutte le settimane. Quando Johnny ha confessato, era già passato un po’ di tempo. È straordinario quanto poco si ricordi la gente. E se la memoria non li aiuta, suppliscono con la fantasia.» «Quindi abbiamo solo le dichiarazioni di Johnny e adesso la lettera di sua madre» ricapitolo. «Johnny sostiene di essere andato via dal Biscuit alle due, cioè a un’ora che non gli avrebbe consentito di arrivare a Salem e commettere un omicidio verso le quattro. Sua madre, invece, dice che il figlio ha lasciato il caffè all’una, ovvero in tempo per commettere il reato.» «Come ti dicevo, non lo sta aiutando per niente. Anzi, direi che aggrava la sua posizione. Finora l’unico elemento che potrebbe invalidare la confessione è proprio la tempistica. Un’ora fa la differenza, però.»

Penso a Johnny, lo immagino alzarsi dal suo tavolo al Biscuit verso l’una per andare a Salem. A seconda del traffico e dell’ora in cui è uscito da Cambridge o Somerville per prendere la I-95 in direzione nord, potrebbe essere arrivato a casa Bishop, nel centro storico di Salem, verso le due, due e mezzo. «Johnny ha la macchina?» «Non ha neppure la patente.» «Ha preso un taxi? Un treno? Di questa stagione il traghetto non c’è. Fa servizio solo in primavera e in estate e comunque parte da Boston. Hai ragione, comunque: senza macchina, ci si mette molto di più. Un’ora sicuramente fa la differenza se devi prendere un mezzo.» «Non capisco come faccia la madre a saperlo» insiste Benton. «A meno che non gliel’abbia detto lui. Johnny potrebbe aver cambiato versione per l’ennesima volta. Inizialmente ha dichiarato di essersene andato dal caffè alle due e non all’una, ma forse ha cambiato idea su quel punto fondamentale perché ha avuto la sensazione che a qualcuno facesse piacere. Sarebbe strano, comunque. Molto strano.» «Tu l’hai visto stamattina.» «Io non lo influenzerei certo a cambiare la sua deposizione su un punto così.» Benton mi sta dicendo che è un dettaglio nuovo e non crede che Johnny abbia cambiato la sua versione dei fatti riguardo l’ora in cui se n’è andato dal Biscuit. Forse la signora Donahue si è sbagliata e basta. Quando prendo in esame questa ipotesi, tuttavia, la trovo poco convincente. «Quindi come sarebbe arrivato fino a Salem?» domando. «In taxi o in treno. Ma non ci sono prove né che abbia preso un taxi né che sia salito su un treno. Non lo ha visto nessuno, non ha biglietti né ricevute, niente che dimostri che sia mai andato a Salem o abbia avuto a che fare con la famiglia Bishop. Niente, a parte la confessione» dice Benton. Guarda nello specchietto retrovisore. «La cosa più importante è che la sua versione dei fatti coincide esattamente con quello che hanno scritto i giornali e cambia ogni volta che subentra una novità o che un reporter tira fuori un’ipotesi nuova. In questo senso, quello che scrive la madre è corretto: Johnny ripete a pappagallo quello che gli si dice, parola per parola. Se uno allude a una certa informazione, o a un certo scenario, lui gli va dietro. È molto suggestionabile, facile da manipolare, e agisce in maniera sospetta: fa parte della malattia.» Guarda di nuovo nello specchietto. «Presta un’attenzione spasmodica ai dettagli, per esempio agli orari. Johnny ha sempre detto di essere andato via dal caffè alle due. Anzi, alle due e tre minuti. Chiedigli che ore sono o a che ora ha fatto una certa cosa e sta’ tranquilla che te lo dirà con una precisione assoluta.» «Perché dovrebbe aver cambiato idea proprio sull’ora?» «Io non credo che abbia cambiato idea, infatti.» «Se però dice di essere andato via prima, la sua confessione diventa più credibile. Potrebbe averlo fatto per questo.» «Johnny non vuole essere credibile: è veramente convinto di quello che dice. E non

perché se lo ricorda, ma perché non si ricorda niente e in qualche modo lo hanno persuaso che è successo davvero.» «Ma chi? Sembra che abbia confessato prima ancora che la polizia cominciasse a indagare sul suo conto. Gli inquirenti non possono avergli estorto una confessione.» «Johnny non ha memoria dei fatti. È convinto di aver avuto un episodio dissociativo dopo essersene andato dal Biscuit alle due, di essere arrivato non sa come fino a Salem e di aver ucciso un bambino con una pistola sparachiodi...» «Ma non l’ha fatto» lo interrompo io. «Almeno questo te lo posso dire con assoluta certezza. Non ha ucciso Mark Bishop con una pistola sparachiodi. Mark Bishop non è stato ucciso con una pistola sparachiodi.» Benton non dice niente e accelera. I fiocchi di neve sono minuscoli e talmente gelati che scricchiolano come ghiaia sotto gli pneumatici. «La signora Donahue ha chiaramente frainteso l’opinione espressale da Jack.» Parlo con convinzione, ma una parte di me non riesce a smettere di preoccuparsi: non so come gestire la situazione. Potrei seguire il suggerimento di Benton e non richiamarla, farla contattare dal mio segretario, Bryce, domani mattina e informarla che non sono autorizzata a parlare del caso Bishop né di nessun altro caso. Bisogna che gli raccomandi di non farmi sembrare troppo occupata in altre faccende e insensibile al suo dolore. Questo pensiero mi fa tornare in mente la madre del soldato Gabriel e le cose terribili che mi ha detto stamattina a Dover. «Immagino che tu abbia letto il referto dell’autopsia» dico a Benton. «Sì.» «Dunque hai visto che Jack non parla di nessuna pistola sparachiodi, ma solo di lesioni mortali provocate da chiodi piantati nella scatola cranica.» Decido che non posso delegare a Bryce una telefonata che spetta a me fare. Chiamerò la signora Donahue e le chiederò di non cercare più di mettersi in contatto con me, per il suo stesso bene. Subito dopo, però, vengo assalita dai dubbi. Penso e ripenso a come comportarmi con lei. Sono indecisa. Mi sono sempre fidata di me stessa, della mia capacità di dialogare con persone disperate, piene di rabbia e di dolore. Non capisco cosa mi è preso stamattina. La signora Gabriel mi ha dato dell’intollerante. Non mi era mai successo. «Gli esperti non hanno escluso l’utilizzo di una pistola sparachiodi» mi comunica Benton. «Neppure Jack.» «Mi sembra incredibile.» «Eppure lo dice lui stesso.» «È la prima volta che lo sento.» «Lo ha detto a chi era disposto a starlo a sentire. Non mi importa quello che ha scritto nel referto o nei documenti che hai letto tu» ribadisce Benton. E guarda di nuovo nello specchietto. «Perché avrebbe detto una cosa che contraddice i risultati delle analisi di laboratorio?» «Io mi limito a riferirti che so per certo che Jack ha detto che l’arma del delitto era una pistola sparachiodi.»

«Dire che era una pistola sparachiodi va contro i riscontri medici e scientifici.» Vedo nello specchietto laterale i fari di un veicolo dietro di noi, a una certa distanza. «Una pistola sparachiodi lascia un segno coerente con un unico colpo, simile all’impronta del percussore sul bossolo. Invece in questo caso sui chiodi ci sono segni coerenti con un martello brandito da una persona. Anche sul cuoio capelluto e sul cranio del bambino c’erano segni di martellate, con relativa contusione intracranica. Le pistole sparachiodi spesso lasciano residui di primer che assomigliano a residui di polvere da sparo; tuttavia nelle lesioni di Mark Bishop non c’erano tracce di piombo o bario. Quindi non è stata usata nessuna pistola sparachiodi. Francamente mi stupisce che tu alluda al fatto che polizia e procura la pensino diversamente.» «Non ci vuole molto a capire alcune cose che le persone coinvolte nel caso hanno scelto di credere» dice Benton. Accelera fino al massimo della velocità consentita in quel tratto di strada. Guardo di nuovo nello specchietto laterale e mi accorgo che i fari si sono avvicinati e sparano sul vetro una luce abbagliante fra il bianco e l’azzurro. È un SUV di grosse dimensioni, con fari allo xeno e antinebbia. Marino, penso. Spero che sia lui e che dietro ci sia Lucy. «Che la confessione di Johnny sia veritiera, per esempio» spiega Benton. «Che sia stata una morte rapida, che il piccolo Mark Bishop non si sia reso conto di morire. Altrimenti avrebbe opposto resistenza. Nessuno vuole pensare che un bambino sia stato trattenuto a terra con la forza, cosciente del fatto che stava per morire perché qualcuno gli stava piantando dei chiodi nella testa. Ti pare?» «Non c’erano segni di colluttazione, lesioni che facessero pensare che avesse tentato di difendersi o che fosse stato trattenuto a terra con la forza. È questo che c’è scritto nel referto. Sono sicura che l’hai letto. E che Jack ha spiegato tutto quanto al procuratore e agli investigatori.» «Mi spiace che non gli abbia fatto tu l’autopsia.» Benton guarda nello specchietto. «Cos’ha detto esattamente Jack, oltre a quello che ha scritto nei referti? A parte che non esclude la chiodatrice.» Benton non mi risponde. «Non lo sai neanche tu» dico. Ma non ci credo. «Ha detto che non poteva escludere che fosse stata usata una sparachiodi» ripete Benton. «Che era impossibile giungere a una conclusione certa. Gli è stato chiesto espressamente dopo che Johnny ha confessato. Gli è stato chiesto in maniera specifica e diretta se era possibile che Mark Bishop fosse stato ucciso con una pistola sparachiodi.» «Secondo me, non è possibile.» «Jack non la pensa così. A suo avviso, non si può giungere a una conclusione certa. E non si può escludere la sparachiodi.» «Io invece ribadisco che si può escludere. Con assoluta certezza. E questa è la prima volta che sento parlare di una pistola sparachiodi, a parte quello che è stato scritto su Internet e che non ho considerato, perché diffido di quanto non arriva da fonti che so

personalmente essere affidabili». «Jack ritiene che una pistola sparachiodi premuta contro la testa di una persona lasci segni non dissimili da quelli lasciati da un’arma da fuoco nei colpi a contatto. Ed è possibile che sia questo che vediamo sul cuoio capelluto e nei tessuti sottostanti. Inoltre potrebbe essere il motivo per cui non ci sono lesioni o indicazioni del fatto che il bambino abbia opposto resistenza o fosse consapevole di cosa gli stava succedendo.» «I segni non sono per niente simili. Non c’è paragone» replico. «Le lesioni che ho visto nelle fotografie sono state lasciate da un martello e il fatto che non ci siano segni di colluttazione non significa che il bambino non sia stato costretto a collaborare, con le buone o con le cattive. A me sembra che certe persone qui si ostinino a ignorare l’evidenza, prese come sono dalle loro convinzioni. Trovo la cosa estremamente pericolosa.» «Penso che sia Fielding quello che si rifiuta di accettare l’evidenza. Forse lo fa apposta.» «Dio santo, Benton. Jack è pieno di difetti, ma non è...» «O forse è negligente. Delle due, l’una.» Benton pare convinto. Ho la sensazione che abbia in mente qualcosa. Anzi, ne sono certa. «Senti, hai fatto il meglio che potevi, negli ultimi sei mesi.» «Che cosa vuoi dire?» Ma lo so benissimo: vuol dire che si è verificato esattamente quello che temevo si potesse verificare mentre ero via. «Ti ricordi quando faceva l’apprendistato, ai tempi di Richmond?» Benton si sta avvicinando a un’area off-limits, anche se non lo sa. «Ha sempre patito moltissimo quando c’erano di mezzo dei bambini, sin dall’inizio della vostra collaborazione. Me l’hai detto tu stessa. Appena arrivava un bambino all’obitorio, lui si dava alla macchia e certe volte non veniva a lavorare per giorni. Tu lo andavi a cercare a casa, al bar, in palestra o dove faceva taekwondo e lo trovavi ubriaco fradicio, o intento a combattere come se ne andasse della sua stessa vita. Intendiamoci: a nessuno piace avere a che fare con la morte di un bambino. Ma lui supera ogni limite.» Avrei dovuto incoraggiarlo a specializzarsi in patologia chirurgica, oppure a fare biopsie in laboratorio. Invece l’ho incoraggiato a diventare anatomopatologo, a seguire le mie orme. «Però del caso Bishop si è occupato» mi fa notare Benton. «Avrebbe potuto lasciarlo a un collega. Spero che non abbia raccontato una balla. Oltre a tutto il resto...» Mi rendo conto che Benton teme seriamente che Fielding abbia mentito. «Cos’altro ha fatto?» chiedo guardando nello specchietto e domandandomi se quello che ci sta incollato al paraurti è Marino. «Spero che non glielo abbia detto qualcuno. Di ammettere la possibilità di una pistola sparachiodi, intendo.» Benton guarda nello specchietto senza muovere la testa. Negli anni in cui ha lavorato come agente dell’FBI sotto copertura ha imparato a guardarsi le spalle senza farsene accorgere. A quei tempi era una necessità. Adesso no, ma certe abitudini non si perdono più.

«Chi potrebbe averglielo detto?» «Non ne ho idea.» «A me sembra proprio di sì, invece. Lo sai, ma non me lo vuoi dire.» È inutile insistere, con Benton: se non me lo dice, è perché non può. Sono vent’anni che succede, ma ogni volta mi turba e mi infastidisce. «La polizia è determinata a risolvere il caso» mi dice. «Che l’arma del delitto possa essere una pistola sparachiodi a loro fa comodo, perché si accorda con la confessione di Johnny ed è più facile da accettare, rispetto a un martello. Ho paura che Jack sia stato influenzato.» «In generale? O hai in mente chi può essere stato?» «Potrebbe essere stato Jack a influenzare qualcuno» risponde Benton, e io capisco che è questo che pensa. «Vorrei che Marino la smettesse di starci così attaccato al paraurti. Mi acceca, con quei fari. Cosa sta facendo?» «Non è Marino» replica Benton. «La sua Suburban non ha quei fari e ha la targa anche davanti, mentre questa no. È di un altro Stato, uno Stato in cui non è obbligatoria la targa davanti. Oppure il proprietario l’ha coperta o addirittura tolta.» Mi volto e i fari mi abbagliano. Il SUV è vicinissimo a noi. «Forse ci vuole superare» azzardo. «Non lo so. Vediamo.» Benton rallenta. Anche il SUV rallenta. «Vai, su!» dice Benton al conducente del SUV. «Prendi il numero di targa quando ci sorpassa» aggiunge rivolto a me. Siamo quasi fermi. Anche il SUV si ferma, fa velocemente retromarcia e quindi si lancia in un’inversione a U e si allontana nella direzione opposta alla nostra, slittando sulla neve. Non riesco a vedere la targa né altri particolari. So solo che è un SUV grosso e scuro. «Perché qualcuno dovrebbe seguirci?» domando a Benton, come se lui potesse saperlo. «Non ne ho idea» mi risponde. «Ci stava seguendo, su questo non ci sono dubbi. Ci stava addosso per via del maltempo. La visibilità è talmente scarsa che devi per forza stare appiccicato se vuoi seguire una macchina senza rischiare di perderla al primo incrocio.» «Era un cretino, comunque» sentenzia Benton. «Un dilettante. A meno che non volesse farci sapere che era lì. Credeva che non ce ne accorgessimo?» «Com’è possibile? Eravamo in una bufera di neve. Da dove è spuntato? Dal nulla?» Benton prende il cellulare e fa una chiamata. «Dove sei?» domanda e dopo un po’ aggiunge: «Un SUV, grande, con fari antinebbia e allo xeno e senza targa anteriore. Lo avevamo attaccato al culo, sì. Ha fatto inversione ed è scappato nella direzione opposta. Esatto: Route 2. L’hai visto passare? Be’, questo è proprio strano. A meno che non abbia preso un’altra strada. Senti, se lo... Sì, certo. Grazie». Benton posa il cellulare e spiega: «Marino è a qualche minuto da noi e Lucy è subito dietro di lui. Il SUV è sparito. Magari è così stupido da riprovare a seguirci e noi a quel punto scopriremo chi è. Se il

suo scopo era intimidatorio, non sa con chi ha a che fare. Siamo un bersaglio difficile». «Siamo un bersaglio?» «Se uno ci conosce, non ci prova neanche.» «Se conosce te, intendi.» Benton non risponde. Ma quello che ho detto è vero: se uno conosce Benton, sa che non si lascia intimidire facilmente. Anch’io sento il suo nucleo di acciaio, la sua aura di solidità. Lui e Lucy si assomigliano, da questo punto di vista: quando succede una cosa simile, per certi versi sono contenti. Benton è solo più freddo, più calcolatore, più composto di quanto non sia mia nipote. «Erica Donahue.» È la prima cosa che mi viene in mente. «Ci ha già fatto intercettare una volta. E dubito che si renda conto di quanto è pericoloso l’aitante e fascinoso psicologo del figlio.» Benton non sorride. «Non ha senso.» «Quante persone sanno dove siamo?» Non riesco ad allentare la tensione: siamo entrambi preoccupati. Benton ha un suo modo di alzare la guardia, diverso da quello di Lucy, più nascosto. «Dove sono io, forse. Quante persone lo sanno?» insisto. «La signora Donahue, il suo autista... e poi? Che cos’ha fatto Jack?» Benton accelera e non mi risponde. «Non penserai che Jack voglia farci paura. O anche solo provarci» aggiungo subito dopo. Benton continua a tacere e per un po’ restiamo in silenzio. Non c’è più traccia del SUV, dei suoi fari antinebbia e allo xeno. «Lucy sospetta che beva.» Benton ricomincia a parlare. «Ma discutine con lei. E con Marino.» Lo dice in tono piatto, ma io sento la sua implacabilità. Prova disprezzo per Fielding, anche se evita di esprimerlo apertamente. «Perché Jack dovrebbe mentire? Perché avrebbe cercato di influenzare qualcuno?» Torno al punto più importante. «Pare che sia spesso in ritardo e che scompaia durante l’orario di lavoro. Ha di nuovo disturbi alla pelle...» Benton non mi risponde direttamente. «Spero che non abbia ripreso ad assumere steroidi, oltre a tutto il resto. Alla sua età...» Evito di difendere Jack come al solito, dicendo che quando è stressato gli tornano l’eczema e l’alopecia e che non può farci niente. È sempre stato ossessionato dalla propria immagine fisica, soffre di vigoressia, o dismorfia muscolare. Probabilmente il motivo risiede negli abusi che ha subito da piccolo. Sarebbe assurdo continuare e non intendo farlo, almeno ora. Per una volta, non lo difendo. Guardo lo specchietto ogni pochi minuti, ma del SUV non c’è l’ombra. «Che motivo avrebbe di mentire?» chiedo nuovamente. «O di influenzare qualcuno?» «Non riesco a immaginare come si possa riuscire a fare star fermo un bambino per fargli una cosa del genere» dice Benton. Sta pensando a Mark Bishop. «I suoi erano in casa e dicono che non l’hanno sentito gridare. Non hanno sentito niente. Dicono che hanno guardato fuori e l’hanno visto lì che giocava e un momento dopo invece era

disteso a faccia in giù nel giardino. Non riesco a capire come sia possibile fare una cosa del genere.» «Okay. Visto che non intendi rispondere alla mia domanda, parliamo di quello che vuoi tu.» «Cerco di immaginarmi la scena, di ricostruire come possa essere andata, ma non riesco a capire: i suoi erano in casa, il giardino non è immenso... Com’è possibile che nessuno abbia visto né sentito niente?» Benton è accigliato. Passiamo davanti al Lanes & Games, il club di bowling di Marino. Com’è che si chiama la sua squadra? Gli Assi Pigliatutto. Adesso Marino frequenta militari e uomini delle forze dell’ordine. «Non riesco proprio a capire come si siano svolti i fatti» insiste Benton. Non vuole dirmi cosa pensa veramente di Fielding. O forse non può. «L’assassino sapeva esattamente quello che faceva.» Io riesco a immaginarmi la scena: riesco a vedere nei più piccoli particolari come può aver agito l’assassino. «È stato capace di mettere il bambino a suo agio. Forse lo ha convinto a collaborare. Magari gli ha fatto credere che era un gioco, una finta.» «Si presenta uno sconosciuto mentre sei in giardino e ti convince a giocare a farti piantare dei chiodi nella testa?» riassume Benton. «Mah, non saprei. Mi sembra impossibile. Tutt’al più, se lo conosci... Mi sono mancate le nostre conversazioni.» «Magari Mark lo conosceva. O comunque non lo riteneva un perfetto sconosciuto. Secondo me, era una persona di cui non aveva motivo di diffidare, che poteva chiedergli qualsiasi cosa.» Dico questo sulla base delle lesioni che presentava il cadavere. Anzi, sull’assenza di determinate lesioni. «Non c’è niente che faccia pensare che era terrorizzato, in preda al panico, che abbia cercato di scappare o di difendersi. Quindi è probabile che conoscesse il suo assassino e che si fidasse di lui al punto di collaborare. Anche a me sono mancate le nostre conversazioni. Però ho la sensazione che, nonostante adesso siamo insieme, tu non mi stia parlando veramente.» «Sì che ti sto parlando.» «Uno di questi giorni ti sciolgo nell’acqua un po’ di tiopental sodico e mi faccio dire tutto ciò che mi hai sempre tenuto nascosto.» «Lo farei anch’io, ma temo che non funzionerebbe. Anzi, finiremmo nei guai tutti e due. Tu non vuoi sapere tutto. Non devi. Idem per me.» «Il 30 gennaio alle quattro del pomeriggio.» Sto cercando di capire quanto era buio quando Mark Bishop è stato ucciso. «Com’era il tempo? A che ora è tramontato il sole quel giorno?» «Era coperto e freddo. Alle sedici e trenta era completamente buio» risponde Benton, che deve aver cercato subito queste informazioni, se ha indagato sul caso. «Sto provando a ricordare se c’era neve per terra.» «A Salem no. È sulla costa: piove molto ma nevica poco. Il mare alza la temperatura.» «Dunque niente impronte in giardino.» «Esatto. Alle quattro stava venendo buio e il giardino sul retro della casa era in ombra

per via degli alberi e dei cespugli.» Benton parla come un investigatore. «Secondo le deposizioni dei familiari, la madre di Mark è uscita alle quattro e venti a chiamarlo perché rientrasse e l’ha trovato riverso per terra.» «Perché diamo per scontato che fosse appena morto? In base ai rilievi autoptici non si può stabilire con una simile esattezza l’ora del decesso.» «I genitori ricordano di aver guardato dalla finestra verso le quattro meno un quarto e di averlo visto giocare» risponde Benton. «A cosa giocava? Cosa stava facendo?» «Non so esattamente.» Benton è di nuovo evasivo. «Vorrei parlare con i Bishop.» Sospetto che Benton l’abbia già fatto. «Mi sembra che ci siano un bel po’ di lacune da colmare. Dunque il bambino giocava da solo in giardino. Sua madre intorno alle quattro e un quarto ha guardato fuori e non l’ha visto. È uscita a chiamarlo e l’ha trovato lungo disteso per terra. Ha cercato di farlo rialzare, ma non c’è riuscita, allora l’ha preso in braccio ed è corsa in casa a chiamare il pronto intervento. La chiamata al 911 risulta effettuata alle sedici e ventitré. La signora Bishop era isterica, diceva che il figlio non si muoveva e non respirava più. Temeva si fosse soffocato con una caramella.» «Perché pensava questo?» «Pare che si fosse riempito le tasche di caramelle e cioccolatini prima di uscire a giocare. Siccome le caramelle erano di quelle grosse e dure, lei gli aveva raccomandato di non mangiarle mentre correva o saltava.» Sono abbastanza sicura che Benton deve aver avuto questo genere di dettagli dai Bishop. Deve avergli parlato personalmente. «Ma non sappiamo a cosa giocasse. Correva? Saltava?» insisto. «Io mi sono interessato del caso solo dopo che Johnny Donahue ha confessato.» Benton è di nuovo evasivo. Non so perché, ma ho la netta sensazione che non voglia dirmi cosa stava facendo Mark Bishop nel giardino di casa sua. «La madre in seguito ha dichiarato di non aver visto nessuno in giro e sostiene che non c’erano segni che indicassero che fosse entrato qualcuno nella loro proprietà. Non aveva idea che il figlio fosse stato ucciso finché il bambino non è stato visitato al pronto soccorso. I chiodi erano piantati fino in fondo, i capelli li nascondevano e non c’era sangue. Mark non aveva le scarpe. Era uscito con un paio di Adidas, che però sono sparite e non sono mai più state ritrovate.» «Un bambino che gioca in giardino al calare del sole. Sì, è difficile che abbia dato retta a uno sconosciuto. A meno che non rappresentasse qualcosa che gli ispirava fiducia.» Ritorno sull’argomento. «Un vigile del fuoco, per esempio. Un poliziotto. L’uomo che guida il furgoncino dei gelati.» Benton prende in considerazione varie ipotesi: evidentemente di questo può parlare. «L’ipotesi peggiore è che fosse un parente.» «Un parente che lo ammazza in quel modo spaventoso e gli porta via le scarpe? Un sadico... E poi le scarpe mi sembrano un souvenir.»

«O forse l’assassino voleva farcelo sembrare» puntualizza Benton. «Non sono una psicologa» replico. «Non dovrei fare questo tipo di considerazioni: è il tuo lavoro. Vorrei fare un piccolo sopralluogo nel giardino dei Bishop. Jack non c’è stato, anche se avrebbe dovuto.» Mi sento peggio dopo che l’ho detto. Jack non è andato né a casa dei Bishop né a Norton’s Woods. «Potrebbe anche essere stato un altro bambino. Un gioco pericoloso diventato mortale» dice Benton. «Se è stato un bambino, è sorprendentemente bravo in anatomia» rispondo. Ripenso alle fotografie dell’autopsia, alla testa del bambino con il cuoio capelluto staccato dal cranio. Ripenso alle TAC, alle immagini tridimensionali dei quattro chiodi da cinque centimetri penetrati nel cervello. «Non avrebbe potuto trovare punti più letali in cui infilare quei chiodi» spiego. «Tre attraversano l’osso temporale sopra l’orecchio sinistro fin dentro il ponte di Varolio; uno è stato piantato nella parte posteriore del cranio, dal basso verso l’alto, e ha danneggiato la giunzione cervicomidollare e il midollo spinale.» «Quanto tempo pensi che abbia impiegato a morire?» «Pochissimo. Il chiodo nella nuca l’avrebbe ucciso, da solo, nell’arco di qualche minuto: il tempo che ci vuole per morire una volta che non sei più in grado di respirare. Le lesioni midollari all’altezza delle vertebre cervicali interferiscono con la respirazione. Penso che polizia, procura, giuria e chiunque altro avrebbe difficoltà a pensare che possa essere stato un compagno di giochi. A me sembra abbastanza evidente che l’intenzione dell’assassino era di uccidere, e di uccidere molto velocemente. Direi anche che si tratta di un omicidio premeditato, a meno che chiodi e martello non fossero già lì, in giardino. E non mi pare che sia così. Dico bene?» «In casa un martello c’era. Ma in quale casa non c’è un martello? Peraltro, gli esami di laboratorio hanno escluso che sia quello usato dall’assassino: i segni non corrispondono. E di chiodi come quelli ritrovati sul cadavere in casa non ce n’erano. Così come non c’erano pistole sparachiodi» spiega Benton. «Erano chiodi a L, di quelli che si usano per i parquet.» «Secondo la polizia, in casa non c’era niente di simile» ripete. «Di ferro, non di acciaio inossidabile» continuo ripassando le fotografie e i referti delle analisi di laboratorio. Mi rendo conto di parlare come se quel caso fosse il mio, o il suo. Stiamo discutendo come ai tempi in cui lavoravamo insieme, collaborando alle stesse indagini. «Con tracce di ruggine nonostante la zincatura, a indicare che non erano stati acquistati di recente» continuo. «Probabilmente erano stati conservati in un luogo umido, magari vicino al mare.» «Sulla scena del crimine non c’era niente di tutto questo: nessun chiodo a L, da parquet o no, di ferro o altro materiale» ribadisce Benton. «È stato il padre a mettere in giro la voce della pistola sparachiodi. Almeno pubblicamente.» «Pubblicamente? Vuoi dire che l’ha detto ai giornalisti?» «Esatto.»

«E quando? Quando l’ha detto ai giornalisti? È questo il problema. Da dove arriva questa voce e quando ha cominciato a circolare? Sappiamo con assoluta certezza che è stato il signor Bishop a metterla in giro? Perché, se così fosse, sarebbe molto significativo. Potrebbe voler dire che cercava di tirarsi fuori con il fatto che non possedeva l’arma del delitto. Potrebbe essere un modo per depistare le indagini.» «L’ho pensato anch’io» replica Benton. «Tuttavia, ammesso che sia stato davvero Bishop a parlarne con i giornalisti, non potrebbe averlo fatto su suggerimento di qualcuno?» Intuisco che sta cercando di dirmi qualcosa e mi convinco che sa perfettamente chi ha tirato fuori per primo la storia della pistola sparachiodi. Provo a indovinare cosa mi vuole dire. Non è difficile: Jack Fielding sta cercando di influenzare l’opinione pubblica riguardo al caso Bishop. Dietro questa voce, che rimbalza di notiziario in notiziario, c’è Jack Fielding. «Devo tornare sulla scena del crimine. Come si chiama l’ispettore di Salem?» Ci sono un sacco di cose da fare, un sacco di informazioni da recuperare. Non so da che parte cominciare. «Saint Hilaire. James Saint Hilaire.» «Non lo conosco.» Mi sento un’estranea nella mia stessa vita. «È convinto che Johnny Donahue sia colpevole. Ho paura che entro breve lo accuseranno di omicidio di primo grado. Dobbiamo sbrigarci. Quando Saint Hilaire leggerà la lettera della signora Donahue, si convincerà ancora di più della colpevolezza di Johnny. Dobbiamo fare qualcosa in fretta» dice Benton. «Non dovrei prendermela così a cuore, ma mi turba il fatto che Johnny, pur non avendo ucciso nessun bambino, si farà detestare dai giurati, perché non si sa comportare in maniera adeguata, fraintende gli altri e si fa fraintendere. Lo considereranno spietato e arrogante, perché è capace di mettersi a ridacchiare quando non c’è niente da ridere, è sgarbato, brusco e non se ne rende conto. Questa cosa è assurda, campata per aria. La confessione di Johnny è fasulla. È un classico esempio di errore giudiziario.» «Perché allora è rinchiuso al McLean?» «È al McLean perché ha bisogno di cure. Non dovrebbe essere rinchiuso con gli psicotici, a mio avviso. Il problema è che nessuno mi sta a sentire. Forse potresti parlare tu con Renaud e Saint Hilaire: magari a te daranno retta. Potremmo andare a Salem a rivedere il caso insieme a loro. E, già che ci siamo, diamo un’occhiata in giro.» «E la crisi di Johnny?» chiedo. «Se dobbiamo credere a sua madre, i primi tre anni a Harvard è stato bene. Poi, di colpo, è finito in ospedale. Quanti anni ha?» «Diciotto. Quando è tornato a Harvard per l’ultimo anno di corso, quest’autunno, era evidente che stava male» spiega Benton. «Era aggressivo verbalmente e sessualmente, sempre più agitato, paranoico. Aveva percezioni distorte, pensieri ossessivi, sintomi simili a quelli della schizofrenia.» «Fa uso di sostanze stupefacenti?» «Non sembra. Quando ha confessato l’omicidio, gli hanno fatto un test che è risultato

negativo. Persino l’analisi del capello era negativa, sia per gli stupefacenti sia per l’alcol. La sua amica nonché ex compagna di studi Dawn Kincaid, che frequenta l’MIT e lavorava con lui a un progetto, a un certo punto si è preoccupata e ha chiamato la famiglia. Questo a dicembre. Una settimana fa Johnny è stato ricoverato al McLean con una ferita da arma da taglio alla mano e ha detto allo psichiatra di aver ucciso Mark Bishop. Gli ha raccontato di aver preso il treno fino a Salem con una pistola sparachiodi nascosta nello zaino. Dice che aveva bisogno di compiere un sacrificio umano per liberarsi dell’entità maligna da cui si sentiva posseduto.» «Perché proprio con i chiodi? Non poteva ucciderlo in un altro modo?» «Ha tirato in ballo il potere magico del ferro. Molte cose che ha detto erano uscite sui giornali.» Mi viene in mente che ho letto su Internet qualcosa a proposito dell’osso di Tifone e ne parlo a Benton. «Esatto. Nell’antico Egitto l’osso di Tifone, o del demonio, era associato al ferro» mi risponde lui. «Alcuni negozietti di Salem ne vendono.» «Sì, li ho visti anch’io. Li vendono a due a due, uniti a formare una X che poi ti porti appresso in un sacchettino di raso rosso. Sono specie di chiodi, è vero, ma non assomigliano per niente a quelli usati per uccidere Mark Bishop: sono più simili a spilli, di foggia antiquata. Dubito, peraltro, che siano zincati o galvanizzati.» «Il ferro, secondo la tradizione, protegge dagli spiriti maligni. È questo il motivo per cui Johnny avrebbe usato chiodi di ferro, o almeno così dice lui. Il problema è che la sua versione dei fatti non contiene elementi originali, ma tutte teorie già proposte dai giornali nei giorni precedenti la sua confessione.» Benton si interrompe e, dopo un momento, aggiunge: «L’Istituto di medicina legale ha parlato di un movente legato alla magia nera, forse per via di Salem». «Non capisco: non spetta al CFC offrire questo tipo di spiegazioni. Il nostro compito è essere imparziali e obiettivi.» «Ti sto solo riferendo quel che è successo.» «Ma chi ha detto una cosa del genere?» In realtà, non ho bisogno di chiederlo. «Jack è sempre stato una mina vagante. Prima, però, si tratteneva un po’ di più. Adesso invece...» «Mi sembra che abbiamo stabilito che non posso risolvere io il problema Jack. Cosa vogliamo fare?» Torno alla compagna di studi di Johnny, la ragazza iscritta all’MIT. «In che cosa voleva laurearsi Johnny?» «In informatica. Dall’inizio dell’estate scorsa è alla Otwahl Technologies di Cambridge a fare uno stage. Come diceva sua madre, è un ragazzo piuttosto dotato...» «Di cosa si occupa alla Otwahl?» Penso alla grande struttura che abbiamo appena superato, nella zona di Cambridge, in cui è sparito il SUV con i fari allo xeno che ci stava seguendo. «Software per robot, UGV, tecnologia di questo tipo.» Benton lo dice come se non avesse grande importanza, perché non sa quello che so io sugli UGV.

Unmanned Ground Vehicles, veicoli robotizzati per usi militari, come il MORT, un prototipo del quale si trovava a casa del ragazzo morto. «Cosa sta succedendo, Benton?» gli chiedo preoccupatissima. «Dimmelo, per favore.»

7 Ha smesso di nevicare e il vento è calato, ma per terra ci sarà una decina di centimetri di neve. Tuttavia c’è traffico lungo Memorial Drive: la gente del New England è abituata agli inverni rigidi. Sulla sinistra, i tetti degli edifici dell’MIT e i suoi campi da gioco sono imbiancati, mentre sulla destra la neve si alza in volute simili a fumo lungo la pista ciclabile e la rimessa delle barche, per svanire nel fiume Charles gelido e nero. A est, dove il fiume sfocia nel porto, lo skyline di Boston è spettrale, un collage di rettangoli di luce nella notte lattea. Non si vedono volare aerei sopra il Logan. Neanche uno. «Dovremmo cercare di parlare con Renaud il prima possibile» dice Benton. Sostiene che il sostituto procuratore della contea di Essex, Paul Renaud, deve essere informato che bisogna prendere con le dovute riserve la confessione di Johnny Donahue e che potrebbe esserci un legame fra lo studente di Harvard e il morto che giace in una cella frigorifera del CFC. «E se fosse coinvolta la DARPA?» chiede poi. «La Otwahl riceve finanziamenti dalla DARPA, ma non dipende dal dipartimento della Difesa. È una ditta privata, internazionale» rispondo. «Certamente ha stretti legami con il governo, che in questo tipo di ricerca investe decine di milioni di dollari, se non di più, dopo l’invenzione piuttosto infelice del MORT.» «Il problema è di cos’altro si occupano. Potrebbe avere un nesso con quello che è accaduto.» «Non saprei, non con sicurezza. Ma certe cose si capiscono subito semplicemente guardando la sede.» Se tornassimo indietro, verso Hanscom, passeremmo a meno di due chilometri dalla Otwahl Technologies e dal suo magnete superconduttore, un complesso enorme, dotato di un nucleo di polizia interno. «Studiano i neutroni, presumibilmente, per le applicazioni della fisica della materia alle nuove tecnologie.» «Robotica» dice Benton. «Robotica, nanotecnologia, ingegneria del software, biologia di sintesi. Lucy ne sa qualcosa.» «Più di qualcosa, immagino.» «Conoscendola, è probabile.» «Magari stanno mettendo a punto degli umanoidi, per non rischiare di rimanere senza soldati.» «Possibile.» Non sto scherzando. «Briggs saprà qualcosa del robot che avete trovato in casa di questo tipo.» Benton si riferisce al morto di Norton’s Woods. «Per via del video? Cos’altro c’è? Mi chiedo se ne ha parlato con Jack, se lo ha chiamato e lo ha messo sul chi va là facendogli troppe domande.» Mi spiego meglio, ragguagliando Benton sui dettagli della vicenda e sulle registrazioni scoperte da Lucy, che Marino ha sbagliato a inviare per e-mail a Briggs prima che io avessi la possibilità di visionarle. Le ho guardate molto in fretta, durante il tragitto verso

il terminal. Parlo a Benton dell’infelice idea del robot per la rimozione dei caduti nelle zone di guerra, l’automa a sei zampe chiamato MORT che si vede vicino alla porta di casa del morto, e gli ricordo le polemiche e le discussioni che ebbi in proposito con certi politici e soprattutto con Briggs, perché a mio parere non è corretto usare una macchina per recuperare i caduti sul campo di battaglia. Gli descrivo la spietatezza e l’orrore di quell’aggeggio metallico a benzina che si muove emettendo il rumore di una sega elettrica per raccogliere morti e feriti afferrandoli con quelle che sembrano le mandibole di una gigantesca formica. «Immagina di essere lì mezzo morto sul campo di battaglia; vedi che i tuoi compagni ti mandano a pigliare con un aggeggio del genere. Cosa provi?» dico a Benton. «E cosa provano i parenti delle vittime, se per caso lo vedono al telegiornale?» «Ti sei espressa in questi toni veementi quando hai parlato alla commissione del Senato al riguardo?» mi chiede lui. «Non ricordo come mi sono espressa esattamente» gli rispondo. «Sono sicuro che non ti sei fatta molti amici alla Otwahl. Anzi, probabilmente ti sei fatta dei nemici.» «La Otwahl non c’entra, così come non c’entrano le altre aziende che sviluppano questo tipo di tecnologia. La Otwahl ha messo a punto un veicolo robotizzato, niente di più. Sono quelli del Pentagono che ne hanno trovato l’utilizzo. Se non sbaglio, originariamente il MORT doveva essere un packbot come tanti altri, niente di più. Non mi ricordavo neanche che erano stati loro a inventarlo. Non me ne è mai fregato niente. Io ero in disaccordo con il Pentagono per l’uso che intendeva fare di quel robot. Sono stata intransigente.» Mi viene da aggiungere “almeno quella volta”, ma mi trattengo. Benton non è al corrente della volta in cui invece ho ceduto. «In certi ambienti queste cose non si dimenticano. Tutt’altro. Mi spiace non averlo saputo all’epoca» dice Benton, che in quel periodo non c’era. In quel periodo Benton godeva della protezione riservata ai testimoni e non era in condizione di potermi dare consigli o farmi raccomandazioni, visto che io lo credevo morto. «Avrai conservato il materiale, la documentazione.» «Perché?» «Mi piacerebbe dargli un’occhiata, farmi un quadro della situazione. Potrebbe essere illuminante.» «In che senso?» «Mi farebbe piacere dare un’occhiata a quel materiale se l’hai conservato» ribadisce. Allude ai verbali del mio intervento, ai servizi mandati in onda dalla televisione via cavo C-SPAN, che sicuramente ho in cassaforte, nel seminterrato della nostra casa di Cambridge, insieme con altro materiale che preferisco lui non veda. Un grosso classificatore pieno di documenti e fotografie scattate con la mia macchina e cartoncini bianchi sporchi di sangue, perché all’epoca non esistevano ancora i kit FTA per la raccolta del DNA, ma io sapevo già dove sarebbe andata a parare la ricerca in quel settore. Per quanto improvvisati, quei campioni sono comunque utili perché il sangue

che secca all’aria si conserva praticamente in eterno. Ho parecchie buste bianche con frammenti di unghie, peli pubici e capelli, tamponi vaginali, anali e orali e persino ritagli di biancheria intima insanguinata. Ho anche una bottiglia vuota di Chablis e una lattina di birra. Ho portato via di nascosto tutti questi indizi, più di vent’anni fa, da un continente nero e molto lontano. Non ho diritto di conservare quella roba, non avrei dovuto farla analizzare privatamente, ma l’ho fatto. Mi chiedo se Benton avrebbe la stessa opinione di me qualora fosse al corrente di quel che successe a Città del Capo. «Come si suol dire, la vendetta è un piatto che si serve freddo» insiste. «Hai mandato all’aria un progetto enorme, da diversi milioni di dollari, una joint venture fra il dipartimento della Difesa e la Otwahl Technologies; hai pestato i calli a gente importante. D’accordo, sono passati parecchi anni, ma sono convinto che alcuni non se lo sono dimenticati. Adesso ti ritrovi a lavorare con il dipartimento della Difesa, e proprio in relazione alla Otwahl. È un’occasione unica per fartela pagare, Kay.» «Farmela pagare? Un uomo che muore improvvisamente a Norton’s Woods sarebbe un modo per farmela pagare?» «Dovremmo cercare di capire da chi è composto il cast di questo film.» Smettiamo di parlarne perché siamo arrivati al ponte che collega Cambridge a Boston, il Mass Ave Bridge, che la gente del luogo chiama Harvard Bridge o MIT Bridge, a seconda delle simpatie. Vedo il CFC che si staglia all’orizzonte come un faro nella notte, con la sua cupola di vetro e la struttura in titanio e acciaio. La prima volta che Marino l’ha visto ha detto che assomiglia a un proiettile dum-dum. Guardandolo di notte, con la neve, mi sembra che non abbia tutti i torti. Lasciamo Memorial Drive, allontanandoci dal fiume, e svoltiamo a sinistra per entrare nel parcheggio illuminato da lampioni solari e circondato da una recinzione di PVC nero invalicabile e indistruttibile. Prendo il telecomando dalla borsa e premo il bottone che serve ad aprire l’alto cancello. Seguiamo impronte di pneumatici coperte quasi completamente dalla neve. Vedo le auto di Anne e di Ollie, ferme vicino ai SUV e ai furgoni a trazione integrale del centro, e noto che manca un SUV. Dovrebbero essercene quattro, invece ne vedo soltanto tre. L’altro dev’essere andato via prima che cominciasse a nevicare, probabilmente a causa di una chiamata. Mi chiedo chi sia di turno stasera e come mai questa persona abbia preso uno dei veicoli del centro. Per andare a fare un sopralluogo sulla scena di un crimine o per tornarsene a casa? Mi guardo intorno come se fosse la prima volta che entro in questo parcheggio. Oltre la recinzione, su due lati, si vedono i laboratori dell’MIT, tutti vetro e cemento, con antenne e radar sul tetto e le finestre buie, a parte qualcuna debolmente illuminata, come se qualcuno avesse lasciato accesa la lampada da tavolo. Continua a nevicare e i fiocchi sono talmente gelati che producono un rumore come di pioggia sottile. Benton si ferma nel posteggio riservato alla direzione, vicino a quello di Fielding, che è vuoto e bianco di neve. «Potremmo entrare nell’area di carico e scarico» propone Benton. «Non lo fa mai nessuno» rispondo. «Non siamo autorizzati: è riservato a camion e

similari.» «Dover ti ha fatto male. Poco ci manca che ti debba fare il saluto militare.» «Non mi dispiacerebbe.» Scendiamo. La neve mi arriva alle caviglie. È ghiacciata, asciutta. Digito il codice sulla pulsantiera vicino alla saracinesca chiusa, che comincia a sollevarsi lentamente. Marino e Lucy entrano nel parcheggio. L’area di carico e scarico sembra un piccolo hangar pitturato di vernice epossidica. Sul soffitto c’è un carroponte monorotaia che serve a spostare i cadaveri troppo pesanti per essere trasportati manualmente. Una rampa interna conduce a una porta metallica, vicino alla quale c’è il veicolo bianco che a Dover chiamavamo “il furgone del pane”, progettato per trasportare fino a sei cadaveri e che all’occorrenza funge anche da laboratorio mobile per i sopralluoghi sulle scene dei crimini. Mentre aspetto Marino e Lucy, mi rendo conto che sono troppo poco vestita. Il mio giaccone tattico andava bene nel Delaware, ma nel New England è troppo leggero. Ho freddo. Cerco di non pensare a quanto mi piacerebbe sedermi davanti al caminetto con un bicchiere di scotch single malt, o anche di bourbon, a parlare con Benton di qualcosa che non sia una tragedia, un tradimento o nemici dalla memoria lunga. Ho voglia di stare lontano da tutto questo. Ho voglia di sorseggiare un buon whisky e chiacchierare tranquillamente con mio marito, senza giochetti, senza sotterfugi, senza dovermi scervellare per capire cosa sa e cosa non sa. Ho voglia di normalità, ma io e Benton non sappiamo nemmeno cosa sia. Anche quando facciamo l’amore, custodiamo i nostri segreti. La normalità non esiste, per noi. «Niente di nuovo, a parte Lawless.» Marino risponde a una domanda che nessuno gli ha rivolto mentre la saracinesca si richiude. «Finalmente ha mandato le foto via e-mail. Del cane non si sa ancora niente. Nessuno ha denunciato la scomparsa di un greyhound.» «A che cosa ti riferisci?» chiede Benton. Troppo presa a spiegargli le brutture del MORT, mi sono scordata di spiegargli cos’altro ho visto in quel video. Mi sento una stupida. «Quello di Norton’s Woods» rispondo. «C’era un levriero bianco e nero, che si chiama Sock e pare sia scappato all’arrivo dei soccorritori.» «Come fai a sapere come si chiama?» Glielo spiego e intanto passo il dito sopra il sensore della serratura biometrica, in maniera che possa scansionare la mia impronta e aprire la porta che conduce al piano inferiore dell’edificio. Gli dico che il cane potrebbe avere un microchip contenente informazioni utili all’identificazione del padrone. Molte associazioni che salvano i levrieri dal giro delle corse inseriscono di routine il microchip a tutti i cani prima di darli in adozione. «Interessante» commenta Benton. «Credo di averli visti.» «Ti ha guardato mentre uscivi dal vialetto sulla spider alle tre e un quarto di ieri pomeriggio» gli dice Lucy. Entriamo nell’open space che chiamiamo “di lavorazione”,

dove, oltre alla guardiola, ci sono una bilancia digitale da pavimento e le porte di acciaio inossidabile delle celle frigorifere in cui conserviamo i corpi, che coprono un’intera parete. «Di cosa stai parlando?» domanda Benton a mia nipote. «Non gli hai raccontato niente durante il viaggio?» mi apostrofa lei. Non è facile relazionarsi con Lucy quando è di questo umore. Mi offendo, ma so che ha ragione. “Anche lei ti conosce” penso. “Ti conosce altrettanto bene.” Mia nipote si accorge subito se sono preoccupata, anche quando cerco di tenerlo per me. E sono preoccupata da quando sono partita da Dover. Sono stata stupida a non riferire tutto a Benton, a non entrare nei particolari. Benton potrebbe davvero darci una mano. Non conosco nessuno più intuitivo di lui. Chissà quante considerazioni utili potrebbe fare se sapesse tutto quello che è stato registrato dal dispositivo nascosto nelle cuffie del morto. Invece mi sono ostinata a parlare della DARPA, perché in realtà non potevo smettere di pensare a Briggs. Non riesco a superare quello che è successo, oggi e tanti anni fa. Mi sembra che Briggs abbia messo in moto una concatenazione di eventi che non ha fine. Briggs sa di quel buco nero nel mio passato, quel luogo oscuro in cui non ho mai lasciato entrare nessuno, e una parte di me non gli perdona di essere la causa di tutto. Perché fu sua l’idea di mandarmi a Città del Capo. Fu lui a ideare quel piano. «L’uomo è passato con il cane davanti a casa vostra pochi minuti prima di morire» dice Lucy a Benton guardando me. «Se tu non fossi andato via in macchina, avresti sentito le sirene e probabilmente avresti fatto un salto a vedere cos’era successo e adesso avremmo più informazioni.» Lucy mi guarda come se stesse osservando quel luogo oscuro. “Non sa niente” mi dico. Non può sapere. Non gliel’ho mai detto, così come non l’ho mai detto a Benton, a Marino, a nessun altro. La documentazione è stata distrutta, a parte quella che ho conservato io. Briggs me lo assicurò quando lasciai l’AFIP e mi trasferii in Virginia. Anche se non mi era stato detto esplicitamente, già allora sapevo che mancavano dei verbali. Lucy non conosce la combinazione della mia cassaforte. Neanche Benton. Cerco di rassicurarmi, di convincermi che nessuno può averla aperta. «Se passi dal mio laboratorio, ti faccio vedere le registrazioni video» dice Lucy a Benton. «Non le hai ancora viste?» chiedo a Benton, perché ho qualche dubbio. Si comporta come se non le avesse viste, ma è possibile che sia un altro dei suoi innumerevoli segreti. «No» risponde lui. Mi sembra sincero. «Vorrei vederle, però.» «È stranissimo che tu appaia in quel filmato» continua Lucy. «Sia tu sia casa vostra. Sì, è davvero strano. Quando me ne sono accorta, mi si è accapponata la pelle.» Il guardiano notturno è seduto dietro la sua finestrella di vetro e ci saluta con un cenno del capo, ma non si alza. Si chiama Ron ed è un nero grande e grosso con i capelli rasati e lo sguardo scorbutico. Sembra che io gli faccia paura o che lo metta in soggezione. O

forse ha ricevuto l’ordine di non muoversi dalla sua postazione e di non dare confidenza a nessuno. Posso solo immaginare le storie che devono avergli raccontato. Mi torna in mente Fielding. Cosa gli è successo? Quanti guai ha combinato? Quanti danni ha causato al CFC? Mi avvicino alla guardiola e controllo il registro. Dalle tre del pomeriggio sono arrivati tre cadaveri: un incidente stradale, un’arma da fuoco e un’asfissia da sacchetto di plastica, che ancora non si sa se sia stato un suicidio, un omicidio o un incidente. «Il dottor Fielding è in ufficio?» chiedo a Ron. In passato è stato nella polizia militare del corpo dei marines ed è sempre impeccabile nella sua divisa blu con la bandiera americana e la scritta AFME sulla spalla e il distintivo di ottone del servizio di sicurezza del CFC sulla camicia. Mi guarda con diffidenza e senza cordialità da dietro il vetro e mi risponde che non l’ha visto. Ci sono Anne e Ollie, nessun altro: neppure l’investigatore di turno, Janelle. Parla in un tono piatto, formale, tutto “sissignora” e “nossignora”, che trovo irritante. Nonostante a Dover fosse di uso comune, non mi ci sono abituata, anzi. Janelle lavora da casa a causa del maltempo, mi spiega Ron. Pare che l’abbia autorizzata Fielding. Non va bene, è contro le regole. Gli investigatori non possono lavorare da casa. «Siamo nella sala radiografie» lo informo. «Se arriva qualcuno, ci può trovare lì. In ogni caso mi avverta, così le dico se può farlo entrare. A meno che non sia il dottor Fielding, ovviamente. Anzi, no, mi avverta anche se arriva il dottor Fielding. Grazie.» «Sissignora. La chiamo anche se arriva il dottor Fielding. La avverto prima.» Non capisco se vuole una conferma o se mi sta prendendo in giro. «Esatto» rispondo. «Non faccia entrare nessuno senza il mio permesso. Neanche i dipendenti. Meglio essere scrupolosi.» «Sissignora.» «I giornalisti hanno chiamato? Si sono presentati?» «Ho tutto sotto controllo» dice Ron indicando i monitor montati su tre lati della guardiola, divisi in quadranti che mostrano a rotazione le immagini riprese dalle varie telecamere fuori e dentro l’istituto. Ce ne sono nell’area di carico e scarico, lungo i corridoi, negli ascensori, nell’atrio e a tutti gli ingressi dell’edificio. «So che l’uomo ritrovato nel parco ha causato qualche problema.» Ron lancia un’occhiata a Marino, come se loro due si capissero. «Sa dove siamo, dunque.» Apro un’altra porta. «Grazie.» Un corridoio lungo e bianco, con il pavimento di piastrelle grigie, conduce a una serie di porte strategicamente ubicate in maniera da facilitare il lavoro. La prima stanza è quella in cui fotografiamo i cadaveri, rileviamo loro le impronte digitali e ritiriamo gli effetti personali che non sono già stati sequestrati dalla polizia, per conservarli in appositi stipetti. Nella stanza successiva li sottoponiamo a radiografie e TAC e in quella adiacente effettuiamo l’autopsia. Poi ci sono la sala di decontaminazione, l’anticamera, gli spogliatoi, le stanze con gli armadietti personali, il laboratorio di antropologia e quello riservato ai casi infettivi o comunque pericolosi da un punto di vista biologico. Il

corridoio è circolare e termina dove comincia, ovvero all’accettazione. «Come mai il guardiano notturno sa del morto di Norton’s Woods?» domando a Marino. «Come fa Ron a sapere che ci sono problemi?» «Io non gli ho detto niente.» «Mi chiedo cosa sappia.» «Quando siamo andati via, prima, non era di turno. Non l’ho visto per niente oggi.» «Vorrei tanto sapere cosa gli è stato detto» ripeto pazientemente. Non voglio bisticciare con Marino davanti agli altri. «È chiaro che la situazione è delicata.» «Prima di uscire ho raccomandato a tutti di stare attenti a eventuali blitz dei giornalisti» replica Marino togliendosi la giacca di pelle. Siamo arrivati davanti alla sala radiografie e la lucina rossa sopra la porta indica che la macchina è in funzione. Anne e Ollie non hanno certo iniziato senza di me, ma hanno l’abitudine di tenere alla larga la gente da quel luogo dove il livello di radiazioni è troppo elevato per chi è ancora vivo. «Guarda che neanche del fatto che Janelle e gli altri lavorino da casa sono responsabile io» puntualizza Marino. Mi astengo dal chiedere da quanto tempo va avanti questa storia e chi siano “gli altri”. A chi altro è stato dato il permesso di lavorare da casa? Siamo un ente statale, un’installazione paramilitare, non possiamo lavorare da casa! Evito di dirlo. «Quel coglione di Fielding» borbotta Marino. «Sta mandando tutto in merda.» Taccio. Non è il momento di discuterne. «Sapete dove trovarmi.» Lucy si avvia verso l’ascensore e lo chiama con il gomito. Il pulsante è grande, in maniera che si possa premere anche quando si hanno le mani occupate. Lucy scompare dietro le porte di metallo e io passo il dito su un altro sensore biometrico per fare scattare la serratura. Dentro la sala di controllo, il radiologo forense Oliver Hess è seduto a una postazione di lavoro dietro un vetro a piombo. È spettinato e ha la faccia insonnolita, come se lo avessi appena tirato giù dal letto. Intravedo dietro di lui il Siemens Somatom Sensation, color guscio d’uovo, e sento il rumore della ventola. È una versione modificata dell’apparecchio utilizzato a Dover, con un poggiatesta e cinghie di sicurezza diversi; i collegamenti elettrici sono nascosti, i parametri del programma di lavoro già impostati e il lettino ha un rivestimento in vinile piuttosto pesante, che protegge quel macchinario costosissimo da sostanze contaminanti come per esempio i liquidi corporei. Lievemente angolata rispetto alla porta, in maniera da facilitare l’introduzione e l’estrazione dei cadaveri, la macchina è accesa, pronta, e la radiologa Anne Mahoney sta sistemando i marker radiopachi in guttaperca sul morto di Norton’s Woods. Entro, in preda a una strana sensazione. Non l’ho mai visto prima, a parte il video sull’iPad, o comunque mai a figura intera. Riconosco il colore leggermente scuro della pelle e la forma affusolata delle mani. Ha le braccia distese lungo i fianchi, sopra un telo usa e getta azzurro. Le dita, lunghe e sottili, sono un po’ arcuate a causa del rigor mortis. Nel video ho sentito la sua voce, oltre a vedere le sue mani, i suoi abiti e le sue

calzature, ma non gli ho visto la faccia. Non so cosa mi aspettassi, ma i suoi lineamenti delicati mi turbano, come i capelli scuri e ricci e la spruzzata di lentiggini sulle guance lisce. Sollevo il telo e noto che è magrissimo, meno di sessanta chili per oltre un metro e settanta di statura, a occhio. È quasi completamente glabro. Potrebbe passare per un sedicenne, penso, e mi torna in mente Johnny Donahue, che ha più o meno la stessa età. Ragazzi giovani. Potrebbe essere questo il denominatore comune? O è la Otwahl Technologies? «Trovato niente?» domando ad Anne, che è una donna sulla trentina, non bella, con i capelli in disordine e occhi castani molto sensibili. È forse la migliore del mio staff: sa fare praticamente qualsiasi cosa, dagli esami radiografici all’assistenza durante le autopsie e i sopralluoghi. È molto volenterosa. «Questo. L’ho notato quando l’ho svestito.» Mette le mani protette dai guanti sul fianco del morto e lo solleva leggermente per farmi vedere la minuscola lesione sulla schiena, a sinistra, più o meno all’altezza del rene. «Evidentemente sulla scena del crimine nessuno l’ha notato perché non sanguinava, o per lo meno sanguinava poco. Sai del sanguinamento che ha avuto in seguito, no? Io l’ho visto con i miei occhi, quando sono andata per esaminarlo stamattina. Ha sanguinato copiosamente da naso e bocca dopo essere arrivato qui, dentro il sacco mortuario.» «Sì, lo so. Per questo sono qui.» Apro un cassetto e prendo una lente di ingrandimento. Benton mi si avvicina. È bardato anche lui, con camice, guanti e mascherina. «È una piccola ferita» dico chinandomi sul cadavere per esaminare con la lente quel taglietto irregolare che ricorda un’asola. «Di certo non è il foro d’entrata di un proiettile. Potrebbe essere stato provocato da un’arma da taglio, da una lama molto sottile a doppio filo. Uno stiletto o qualcosa del genere.» «Per una stilettata nella schiena si muore all’istante?» Benton mi guarda scettico. «No. A meno che non sia alla base del cranio e danneggi il midollo spinale.» Penso a Mark Bishop e ai chiodi che lo hanno ucciso. «Come ho detto a Dover, potrebbero avergli iniettato qualcosa» ipotizza Marino, che indossa i suoi indumenti protettivi personali, con tanto di cuffia e schermo protettivo sul volto, come se avesse paura di agenti patogeni o spore mortali nell’aria, tipo antrace. «Un anestetico, per esempio. Un’iniezione letale. Quella sì che ti fa cadere a terra all’istante, morto stecchito.» «Prima di tutto, gli anestetici tipo tiopental sodico, pancuronio bromuro o cloruro di potassio vengono iniettati in vena, non nella schiena.» Mi infilo un paio di guanti. «Lo stesso vale per mivacurio e succinilcolina. Se vuoi mettere fuori combattimento rapidamente e in maniera definitiva una persona con un bloccante neuromuscolare, lo devi iniettare per via endovenosa.» «Ti uccide anche se lo fai intramuscolo, però. Dico bene?» Marino apre un armadietto e prende la macchina fotografica. Poi fruga in un cassetto e tira fuori un righello di plastica da usare come riferimento. «A volte, quando giustiziano un condannato a morte, si sbagliano e invece di fare l’iniezione in vena la fanno nel muscolo, ma quello muore

lo stesso.» «Molto più lentamente e dolorosamente» replico. «Questo signore qui, invece, sembra proprio che sia morto molto in fretta. Inoltre non mi pare che questa lesione possa essere stata provocata da un ago.» «Non dico che il boia o chi per lui lo faccia apposta, però succede. E, a pensarci bene, è possibilissimo che lo facciano apposta. So che certi mettono il veleno in frigorifero per essere sicuri che il condannato lo senta entrare e diffondersi, come la mano gelida della morte che lo attanaglia.» Marino lo dice ad Anne, che è contraria alla pena di morte. Offenderla ogni volta che può è il suo modo di flirtare con lei. «È una cosa disgustosa» osserva Anne. «Be’, non è che queste persone si facessero tanti problemi su quanto soffrivano le loro vittime, no? Anzi. “Chi la fa l’aspetti” dicono. Chi mi ha nascosto l’etichettatrice?» «Io. Le penso di notte per fartele di giorno.» «Ah, davvero?» «Sì, mi stai antipatico.» Marino cerca in un altro cassetto e trova l’etichettatrice. «Pare molto più giovane di quello che dicevano i soccorritori. L’avete notato anche voi o è solo una mia impressione? Non pensi che dimostri meno di vent’anni?» chiede ad Anne. «A me sembra un ragazzino.» «Sì, anche a me» risponde lei. «Devo dire, però, che tutti gli studenti universitari ormai mi sembrano giovanissimi. Dei bambini.» «Non sappiamo se fosse davvero uno studente universitario» ricordo a tutti quanti. Marino prende un’etichetta su cui ha stampato la data di oggi e il numero del caso e la appiccica al righello. «Andrò a vedere se qualcuno al campus lo riconosce. Ci vado io, così evitiamo che si spargano voci pericolose. Se abita nei pressi dell’università, come mi pare da ciò che si vede in quel video, sicuramente troverò qualcuno che si ricorda di lui e del levriero. Sock. Che razza di nome è?» «Magari è un’abbreviazione» risponde Anne. «I cani da corsa hanno nomi abbastanza complessi. Magari si chiama Sock It to Me, o Darned Sock, o Sock Hop.» «Glielo dico sempre che dovrebbe andare a un quiz televisivo» commenta Marino. «Magari il nome compare in qualche registro» osservo io. «Potremmo controllare se c’è qualche nome che contiene la parola Sock. Sempre che non avesse il microchip.» «Sempre che troviamo il cane» puntualizza Marino. «Abbiamo già avviato i controlli di impronte e DNA, spero.» Benton guarda fisso il cadavere, come se parlasse con il morto. «Stamattina ho cercato le impronte nell’archivio IAFIS, ma non ho trovato niente. Non risulta neanche nel registro degli scomparsi o dei non identificati. Domani mattina avremo il DNA e proveremo sul CODIS.» Marino posa il righello sotto il mento del morto con le sue grosse mani protette dai guanti. «La storia del cane è strana. Da qualche parte deve pur essere, no? Forse dovremmo scrivere qualcosa sui giornali. Mettere un annuncio su un levriero scomparso e un recapito telefonico a cui rivolgersi.»

«No, meglio che teniamo le distanze dai giornali» replico io. «Infatti» mi dà ragione Benton. «Non vogliamo far scoprire ai cattivi che sappiamo del cane e lo stiamo cercando.» «I cattivi?» domanda Anne. «Cos’altro c’è?» Faccio il giro del tavolo per effettuare quella che Lucy chiama “una ricognizione dall’alto”: osservo il cadavere da capo a piedi. Marino scatta alcune fotografie, poi dice: «Prima che fosse infilato di nuovo nella cella frigorifera, stamattina, gli ho controllato le mani per vedere se c’erano prove materiali e ho messo tutto da parte, compresi gli effetti personali». «Non mi hai parlato degli effetti personali. Avevo capito che non avesse niente addosso» gli faccio notare. «Aveva un anello con uno stemma e un orologio di acciaio marca Casio. Un paio di chiavi con relativo portachiavi e... Vediamo un po’... Un biglietto da venti dollari e una scatolina di legno vuota. Ho fatto un tampone per controllare se c’erano tracce di sostanze stupefacenti. La si vede, nel video. C’è un punto in cui la tiene in mano, appena arrivato a Norton’s Woods.» «Dov’è stata recuperata?» chiedo. «L’aveva in tasca. Io l’ho trovata lì.» «Dunque al parco l’ha tirata fuori e poi se l’è rimessa in tasca.» Mi ricordo di aver visto la scatolina nel guanto nero. «Forse fumava o sniffava» dice Marino. «Io scommetto che in quella scatolina teneva l’erba. Non so se hai notato che aveva una pipa di vetro nel posacenere sulla scrivania.» «Vedremo i risultati degli esami tossicologici» rispondo. «Controlleremo alcol e sostanze. Come sono messi i laboratori? Hanno tanto lavoro in questo momento?» «Dirò a Joe di dare la precedenza a questo caso» promette Anne. Joe è il responsabile degli esami tossicologici. L’ho portato con me da New York, “rubandolo” al dipartimento di polizia. «Il capo sei tu: basta che glielo chiedi.» Anne mi guarda negli occhi. «Bentornata, a proposito.» «Che tipo di stemma c’è sull’anello? E com’è fatto il portachiavi?» domanda Benton a Marino. «Un libro aperto e tre corone» risponde Marino in un tono dal quale deduco che gli piace saperne più di Benton, per una volta. Si sente in posizione di vantaggio: al CFC gioca in casa. «Niente scritte in latino o in altre lingue. Non so come siano fatti gli stemmi dell’MIT e di Harvard.» «Diversi dalla tua descrizione» risponde Benton. «Posso usare un attimo questo?» Indica un computer. «Il portachiavi è un anello di acciaio con una cinghietta di cuoio. Di quelli da attaccare alla cintura» spiega Marino. «A quanto ci risulta, non aveva portafogli e neanche cellulare. Mi sembra abbastanza singolare. A voi no? Chi va in giro senza cellulare, ormai?» «Era uscito a portare a spasso il cane e aveva le cuffie. Forse intendeva stare fuori poco

e non aveva voglia di rispondere a eventuali telefonate» dice Benton mentre digita una stringa di parole in un motore di ricerca. Giro il cadavere sul fianco destro e guardo Marino. «Mi aiuti, per favore?» «Un libro aperto e tre corone» ripete Benton. «City University di San Francisco.» Continua a digitare sulla tastiera. «Un’università online specializzata in scienze della salute. Ma anche le università online hanno un anello di riconoscimento?» «In quale stipetto sono gli effetti personali del morto?» chiedo a Marino. «Number one. Se vuoi, ho la chiave.» «Grazie. C’è qualcosa da mandare ai laboratori?» «Non mi pare.» «Allora teniamoli noi. Li consegneremo alla famiglia quando l’avremo identificato.» «C’è anche Oxford» dice Benton continuando a cercare su Internet. «Ma se l’anello fosse di Oxford, ci sarebbe scritto “Oxford University”. Invece tu hai detto che non ci sono scritte.» «Confermo» replica Marino. «Mi è sembrato un anello fatto su misura, in oro, con uno stemma inciso sopra. Non mi pareva l’anello ufficiale di un’università. No, non c’è scritto niente.» «Se davvero è fatto su misura, non credo che sia della Oxford University» dice Benton. «Piuttosto, di un’università online, perché l’unico modo per averlo è farselo fare. Sempre che uno voglia far sapere al mondo che frequenta un’università online. Questo è lo stemma della City University di San Francisco.» Benton si sposta di lato per lasciar vedere a Marino lo schermo, dove è visualizzato uno stemma piuttosto elaborato, azzurro e oro, con un gufo dorato in cima e tre fiordalisi, anch’essi dorati, un libro aperto al centro e tre corone d’oro in basso. Marino, che tiene il cadavere sul fianco, strizza gli occhi per vedere lo schermo da quella posizione e fa spallucce. «Potrebbe essere. Se se lo è fatto incidere dal gioielliere, magari non ha curato tanto i particolari. Sì, potrebbe essere quello.» «Poi lo vado a vedere anch’io» prometto. In quel momento, però, osservo il cadavere e prendo appunti. «Non c’è motivo di pensare che sia stato coinvolto in una colluttazione. Potrebbe esserci il DNA dell’aggressore sull’orologio o da qualche altra parte. Però sapete come sono fatto.» Marino riprende a parlare degli effetti personali del morto. «Ho eseguito tamponi a tutto quanto. Non ho notato niente di particolare, a parte che l’orologio si era fermato. È uno di quelli ad autoricarica che piacciono tanto a Lucy, un cronografo.» «A che ora si è fermato?» «Me lo sono segnato. Dopo le quattro del mattino, comunque. Dodici ore dopo la morte. Quindi aveva una nove millimetri con diciotto colpi, ma niente telefono» dice. «Okay. A meno che non gliel’abbia portato via qualcuno. Magari la stessa persona che gli ha portato via il cane. Continuo a non capire.» «Nel video un telefono si vede» gli ricordo. «Su una scrivania, collegato al caricatore accanto a un portatile, mi pare. Vicino alla pipa di vetro.»

«Non si vede tutto quello che ha fatto prima di uscire. A me pare che possa aver preso il telefono, uscendo di casa» dice Marino. «O magari ne aveva più di uno. Chi lo sa.» «Appena scopriremo dove abitava, ne sapremo di più» replica Benton lanciando la stampa di quel che ha trovato su Internet. «Si possono vedere le foto della scena del crimine?» «Quando io scoprirò dove abitava» puntualizza Marino posando la macchina fotografica sul bancone. «Sarò io quello che andrà in giro a ficcare il naso. Noi poliziotti siamo più pettegoli delle comari. Scoprirò dove abitava e poi vi chiederò di darmi una mano.»

8 Prendo nota su un diagramma del corpo umano che alle ventitré e quindici il cadavere è rigido e freddo, della stessa temperatura della cella frigorifera in cui era conservato. Presenta macchie color rosso scuro con aree più chiare, a indicare che è rimasto disteso sulla schiena con le braccia lungo i fianchi e i palmi all’ingiù, completamente vestito, con un orologio al polso sinistro e un anello al mignolo sinistro per almeno dodici ore dopo il decesso. Le ipostasi, anche dette “macchie ipostatiche” o “lividure cadaveriche”, sono un indicatore importante, a mio avviso, sebbene spesso vengano male interpretate anche dagli specialisti. Possono infatti sembrare lividi dovuti a traumi quando in realtà sono il risultato fisiologico dell’assenza di circolazione del sangue, che la forza di gravità porta ad accumularsi nei capillari del derma. Le macchie ipostatiche sono scure, rosse o violacee, con aree più chiare nelle zone in cui il corpo è rimasto appoggiato su una superficie rigida. Indipendentemente da ciò che mi viene detto riguardo alle circostanze della morte, i cadaveri non mentono. «Non vedo livor secondario, che indicherebbe che il cadavere è stato mosso mentre si stava formando il livor» osservo. «Tutto quello che vedo mi sembra confermare che è stato chiuso nel sacco mortuario, sistemato nell’alloggiamento della cella frigorifera e lasciato lì senza più muoverlo.» Fisso il diagramma a una cartellina rigida e tratteggio i segni lasciati da pantaloni, cintura, gioielli, calze e scarpe. Sono aree più chiare sulla pelle che indicano la forma di elastici, fibbie, tessuti o trame particolari. «Di sicuro non pare che abbia mosso le braccia o si sia agitato» dice Anne. «E questo è confortante.» «Infatti. Se si fosse svegliato, avrebbe come minimo mosso le braccia. È confortante, sì» ripete Marino digitando sulla tastiera e richiamando un’immagine sullo schermo del computer. Prendo nota del fatto che il morto non ha piercing né tatuaggi ed è pulito, con le unghie curate e la pelle liscia di chi non svolge lavori manuali o attività fisiche che possano causare la formazione di calli su mani e piedi. Gli palpo la testa in cerca di eventuali anomalie, fratture o lesioni, ma non trovo nulla. «Bisogna capire se è caduto a faccia in giù.» Marino legge quello che gli ha scritto l’agente investigativo Lester Law. «Sono stati i soccorritori a metterlo supino?» «Per fargli il massaggio cardiaco doveva essere supino.» Mi avvicino per guardare. Marino clicca su varie foto, tutte uguali ma scattate da prospettive diverse: l’uomo disteso sulla schiena, con giaccone verde e camicia di jeans aperti, la testa girata da una parte, gli occhi socchiusi; primo piano del volto, con tracce di terra, frammenti di erba e di foglie secche sulle labbra. «Zooma lì» suggerisco a Marino. Un clic e l’immagine si ingrandisce: la faccia del morto riempie lo schermo. Torno al cadavere alle mie spalle per controllare se ha lesioni al volto o alla testa e

noto un’abrasione sotto il mento. Gli abbasso il labbro inferiore e trovo una piccola lacerazione, presumibilmente provocata dai denti quando è caduto e ha battuto la faccia per terra. «Non è certamente stata questa a causare l’emorragia» dice Anne. «Il sangue era troppo.» «Sì, lo so» replico. «Ma forse indica che è caduto di faccia, a peso morto, senza prima perdere l’equilibrio, barcollare o cercare di limitare i danni. Dov’è il sacco mortuario in cui è stato trasportato?» «L’ho steso nella sala autopsie, immaginando che lo volessi esaminare» risponde Anne. «Ho messo lì ad asciugare anche i vestiti. Quando l’ho spogliato, ho infilato tutto nell’essiccatoio della tua postazione. La numero uno.» «Grazie.» «Magari gli hanno dato una botta» azzarda Marino. «L’hanno colto alla sprovvista con un pugno o una gomitata in faccia e poi l’hanno pugnalato alla schiena. A parte il fatto che nel video si vedrebbe.» «Avrebbe più di una lacerazione se gli avessero dato un pugno in bocca. Tenuto conto della terra che ha sul volto e di dove sono finite le cuffie...» Sono di nuovo davanti allo schermo e clicco sulle varie immagini. «Io direi che è caduto di faccia. Le cuffie sono volate qui, a quasi due metri di distanza, sotto la panchina. Secondo me vuol dire che è caduto con una forza tale da farle arrivare fin lì e scollegarle dalla radio satellitare che penso avesse in tasca.» «A meno che non le abbia spostate qualcuno, magari con una pedata» suggerisce Benton. «Sì, ci ho pensato anch’io» replico. «Uno di quelli che hanno cercato di aiutarlo, per esempio?» dice Marino. «Se si è avvicinata gente, è possibile che qualcuno abbia dato un calcio alle cuffie facendole finire sotto la panchina.» «Potrebbero anche averlo fatto apposta.» Noto un altro particolare. Lancio una sequenza di immagini e fermo la presentazione su un’inquadratura del polso sinistro. Zoomo sull’orologio di acciaio con tachimetro e ingrandisco il quadrante in fibra di carbonio. L’orario della foto è 17.17, che corrisponde all’ora in cui è stato prelevato dalla polizia, ma il cronografo segna le 22.14. «Quando hai ritirato l’orologio stamattina, ti è sembrato che si fosse fermato. Dico bene?» chiedo a Marino. «Sei sicuro che non segnasse un’altra ora, invece? Che non fosse impostato su un altro fuso orario?» «No, no. Era proprio fermo» conferma. «Come vi dicevo, è uno di quegli orologi ad autoricarica e a un certo punto, stamattina, si è fermato. Molto presto, verso le quattro, tipo.» «A me sembra che fosse regolato su un fuso cinque ore più avanti della East Coast» ribadisco. Gli indico la foto. «Okay, allora si è fermato alle nostre ventitré» replica Marino. «Era avanti e poi si è

fermato.» «Potrebbe voler dire che era appena arrivato da un posto con un fuso orario più avanti di cinque ore» dice Benton. «Appena abbiamo finito, vado a cercare dove abitava» ribatte Marino. Guardo i numeri del controllo qualità sul relativo registro per accertarmi che la deviazione standard sia zero e che il livello di rumorosità del sistema sia entro i limiti della norma. «Siamo pronti?» chiedo. Non vedo l’ora di poter procedere all’esame. Voglio vedere cosa c’è dentro il cadavere. «Facciamo lo scanogramma, poi un programma di lavoro per la ricostruzione tridimensionale; è necessaria una sovrapposizione del cinquanta per cento almeno» dico ad Anne, mentre lei preme il bottone che fa entrare il lettino nella macchina. «Però cambierei il protocollo e partirei dal torace invece che dalla testa, tenendo sempre come riferimento la glabella.» La glabella è la prominenza dell’osso frontale fra le arcate sopracciliari, sopra il naso, che usiamo come punto di repere. «Una sezione trasversale del torace, correlata esattamente alla regione di interesse che hai segnato.» Mentre torniamo nella sala di controllo, guardo l’elenco. «Facciamo una localizzazione della ferita in situ, isolando la zona e le lesioni associate per vedere se c’è qualcosa nel percorso interno della ferita.» Mi siedo fra Ollie e Anne. Marino e Benton si sistemano dietro di noi. Attraverso la finestra vedo i piedi nudi del morto nel tubo. «Auto e smart MT, indice di rumore diciotto. Tempo di rotazione zero virgola cinque, configurazione zero virgola seicentoventicinque» comunico. «Alta risoluzione a strato ultrasottile. Collimazione: dieci millimetri.» Sento il pulsare elettronico dei detettori che cominciano a ruotare sincroni con la fonte radiogena. La prima scansione dura sessanta secondi. Seguo sullo schermo in tempo reale e non capisco bene quello che vedo. Mi sembra impossibile, penso che forse la macchina non funziona, oppure che sullo schermo sia visualizzato un altro paziente, come se avessimo aperto il file sbagliato. Che cosa sto guardando? «Gesù» mormora Ollie. Aggrotta la fronte vedendo le immagini sulla griglia. Sono troppo strane: dev’esserci un errore. «Orienta tempo e spazio di acquisizione e cerca di allineare la ferita davanti-dietro, sinistra-destra e verso l’alto» dico. «Collega i punti per vedere il percorso di penetrazione. Com’è possibile che il percorso della ferita sparisca all’improvviso? Non capisco.» «Che diavolo è?» chiede Marino, confuso. «Mai vista una cosa simile. Non in una ferita da lama» dico. «Be’, prima di tutto quella che vedi è aria» spiega Ollie a Marino. «C’è un sacco di aria.» «Queste chiazze scure qui, qui e qui» indico a Marino e Benton. «Nella TAC l’aria

appare scura. Le aree chiare, invece, sono quelle a maggiore densità. Ossa e calcificazioni sono bianche. Ti fai un’idea di cosa stai guardando dalla densità dei pixel.» Prendo il mouse e muovo il cursore su una costola per fargli un esempio. «Il valore in unità di Hounsfield qui è millecentocinquantuno. In quest’area meno brillante, invece, è quaranta.» Sposto il cursore verso il polmone. «Vuol dire che c’è sangue. Queste zone più opache e più scure sono un versamento di sangue.» Mi viene in mente che proiettili ad alta velocità comprimono e lacerano i tessuti provocando lesioni simili a quelle causate dall’onda d’urto di un’esplosione. Qui però non ci sono proiettili e non è esploso nessun ordigno. Non capisco come sia possibile. «C’è una specie di lesione che attraversa il rene sinistro e sale verso il diaframma fino al cuore, causando una devastazione profonda. E tutto questo.» Indico alcune zone scure intorno a organi interni che appaiono spostati dalla loro sede e lacerati. «C’è aria sotto la cute, nella muscolatura paraspinale, nel retroperitoneo. Da dove è entrata tutta quest’aria? Anche qui. E qui. Lesioni ossee, frattura di una costola, frattura di un processo trasverso, emopneumotorace, contusione del polmone, emopericardio. Altra aria qui e qui.» Tocco lo schermo. «Intorno al cuore e nelle camere cardiache. E anche nelle arterie e nelle vene polmonari.» «Ti era mai capitato qualcosa di simile?» mi domanda Benton. «Sì e no. Ho visto una devastazione simile causata da fucili militari, cannoni anticarro e alcune semiautomatiche con munizioni ad alta velocità e a frammentazione, per esempio. Quanto maggiore è la velocità, tanto più è grande l’energia cinetica all’impatto e quindi i danni, specialmente agli organi cavi, come polmoni e intestino, e ai tessuti non elastici, per esempio di fegato e reni. In quel caso, però, la traccia lesiva è chiara e c’è il proiettile, o almeno frammenti dello stesso. Che qui invece non abbiamo.» «E l’aria?» domanda Benton. «Ci sono sacche d’aria anche in quei casi?» «Non proprio» rispondo. «L’onda d’urto di un’esplosione può causare emboli dovuti alla pressione sulla barriera ematoaerea, per esempio nei polmoni. In altre parole, l’aria finisce nel posto sbagliato. Ma qui è tantissima.» «Sì, tantissima» conferma Ollie. «E comunque non capisco come faccia un accoltellamento a provocare un’onda d’urto.» «Fammi uno strato con queste coordinate.» Indico la ROI, la regione di interesse delimitata da una linea di un bianco brillante, il repere radiopaco sistemato in prossimità della ferita sul lato sinistro della schiena del cadavere. «Comincia qui e vai cinque centimetri sotto e sopra la ROI indicata dai marker. Quello strato lì. Sì, esatto. Riformattiamo in rendering volumetrico tridimensionale da dentro a fuori. Strati sottili, di un millimetro, e cosa suggerisci come incremento fra l’uno e l’altro?» «Da zero virgola settantacinque a zero virgola cinque. Dovrebbe andare.» «Okay. Vediamo come ci appare se seguiamo virtualmente il percorso della lama, per quel che c’è.» Le ossa sono vivide come se le avessimo davanti e gli organi e le altre strutture interne

sono ben definite, in varie sfumature di grigio. Il torace del morto comincia a ruotare lentamente, tridimensionale, sul display. Usando un software modificato che in origine era nato per colonscopie virtuali, entriamo nel cadavere attraverso la ferita e avanziamo con una telecamera virtuale come se fossimo a bordo di una minuscola astronave che viaggia fra nuvole grigiastre di tessuto e passa accanto a un rene squarciato che sembra un asteroide. Davanti a noi c’è un’apertura dai bordi frastagliati. Passiamo attraverso un grosso buco nel diaframma, verso un panorama di devastazione, lacerazioni e contusioni. “Che cosa ti hanno fatto? E chi è stato?” Non ne ho la più pallida idea. Mi sento impotente di fronte a danni che paiono sfidare tutte le leggi della fisica, che paiono un effetto senza causa. Non vediamo proiettili, frammenti, tracce di metallo. Non c’è foro di uscita, solo la minuscola lesione sul lato sinistro della schiena. Penso ad alta voce, ripeto i punti più importanti, mi accerto che tutti capiscano quello che mi pare incomprensibile. «Mi scordo sempre che qui sotto non funziona niente» protesta Benton, distratto, guardando l’iPhone. «Non è uscito niente, non c’è niente che si illumina» dico pensando a cosa fare adesso. «Non c’è traccia di materiale ferroso. Dobbiamo esserne sicuri al cento per cento, però.» «Non capisco che cosa possa aver provocato questi danni.» Benton si alza dalla sedia. Sento che si sta slacciando il camice. «Niente di nuovo sotto il sole. Avete presente? Come molti antichi detti, si rivela fallace.» «Sì, questa è proprio una novità. Almeno per me» replico. Si china a togliersi i copriscarpe. «Non abbiamo dubbi sul fatto che è stato un omicidio.» «A meno che non abbia mangiato fagioli andati a male» dice Marino. Ho la vaga sensazione che Benton si stia comportando in maniera strana. «Sembra un proiettile ad alta velocità, ma il proiettile non c’è. Supposto che sia uscito, da dove?» Continuo a ripetere la stessa cosa. «Dove cavolo è il metallo? Con cosa gli hanno sparato? Con un proiettile di ghiaccio?» «Ne parlavano a Miti da sfatare, la trasmissione televisiva. Dicevano che è impossibile per via del calore» mi risponde Marino, come se io l’avessi detto seriamente. «Non saprei, comunque. Se uno carica la pistola e poi la lascia nel freezer fino al momento dello sparo...» «Sì, se sei un cecchino dell’Antartide...» replica Ollie. «Da dove nasce quest’idea? Da Dick Tracy? Sul serio.» «James Bond, mi sembra. Non so più in che film.» «Forse il foro di uscita c’è, ma noi non lo vediamo» mi dice Anne. «Ti ricordi quel cadavere a cui avevano sparato nella mascella? Il proiettile era uscito dalla narice.» «Vedremmo comunque il percorso del proiettile» obietto. «Ci serve più contrasto fra i tessuti. Dobbiamo essere sicuri che non ci sia sfuggito niente prima di procedere all’autopsia.» «Se avete bisogno, chiamo l’ospedale» dice Benton aprendo la porta. Mi rendo conto

che ha fretta, anche se non so perché. Non si occupa lui del caso. «Altrimenti vado da Lucy» continua. «Do un’occhiata al video e controllo due o tre cose. Vi spiace se uso un telefono di sopra?» «Chiamo io» dice Anne mentre Benton esce. «Mi metto d’accordo con il McLean per la risonanza.» Essendo teoricamente possibile che succeda una cosa del genere, abbiamo una convenzione con la Commissione sanitaria, con Harvard e con il McLean, che dipende da Harvard e dispone di quattro risonanze con magneti di campo compreso fra 1,5 e 9 tesla. Ho fatto in modo che, all’occorrenza, potessimo effettuare risonanze sui cadaveri nel laboratorio di neuroimaging del McLean, dove Anne è impegnata part-time in progetti di ricerca psichiatrica. È così che l’ho conosciuta. Benton lavorava con lei e me l’ha raccomandata. Sa scegliere bene le persone, si può contare sul suo giudizio. Dovrei far fare a lui la selezione del personale. Mi chiedo a chi voglia telefonare. Non capisco nemmeno tanto bene come mai sia qui. «Se vuoi, chiamo subito» dice Anne. «Non dovrebbero esserci problemi: non ci sarà nessuno. Ci presentiamo là, facciamo quel che dobbiamo fare e torniamo qui.» A quest’ora i pazienti psichiatrici del McLean non sono in giro per il campus. Il rischio che ci vedano entrare o uscire dal laboratorio con un cadavere è praticamente nullo. «Se gli avessero sparato con un cannone ad acqua?» Marino guarda allibito il torace che ruota sullo schermo, le costole che girano bianche e luccicanti in 3D. «Davvero. Ho sempre pensato che fosse il delitto perfetto. Riempi una cartuccia di acqua e il getto fa lo stesso effetto di un proiettile, ma non lascia tracce.» «Mai visto in vita mia» replico. «Non vuol dire che non si possa fare» insiste Marino. «Teoricamente, comunque, il foro di entrata sarebbe diverso» rispondo. «Andiamo avanti. Voglio finire prima che arrivi la gente a lavorare.» È quasi mezzanotte. Anne clicca su strumenti per prendere le misure e mi informa che l’ampiezza della ferita prima che si allarghi in corrispondenza del diaframma, a una profondità di 4,2 centimetri, va da 0,77 a 1,59 centimetri. «Questo ci suggerisce...» comincio a dire. «Dobbiamo proprio usare il sistema metrico decimale?» si lamenta Marino. «Abbiamo a che fare con una lama doppia che non supera di molto il mezzo pollice» gli spiego. «Una volta che è penetrata a circa due pollici di profondità, è successo qualcosa che ha provocato gravissime lesioni interne.» «Mi chiedo quanta parte di questa anomalia sia iatrogena» dice Ollie. «Causata dai soccorritori, che hanno provato a rianimarlo per venti minuti. Probabilmente è la prima cosa che ci chiederanno. Dobbiamo considerare tutte le possibilità.» «Non credo proprio. A meno che a cercare di rianimarlo non sia stato King Kong» replico. «Secondo me quest’uomo è stato pugnalato con qualcosa che ha causato una pressione fortissima nel torace e ha dato origine a un grosso embolo. Deve aver sentito

un dolore lancinante ed essere morto nel giro di pochi minuti. Le dichiarazioni dei testimoni, peraltro, lo confermerebbero. Dicono che si è portato le mani al petto e si è accasciato.» «Perché allora ha perso tutto quel sangue a scoppio ritardato?» chiede Marino. «Non avrebbe avuto un’emorragia immediata? Com’è possibile che abbia cominciato a sanguinare dopo che è stato dichiarato morto e già stava arrivando qui?» «Non so darti una risposta. Ma di certo non è morto nella nostra cella frigorifera» dichiaro. Almeno di questo sono sicurissima. «È morto prima di arrivare qui. È morto nel parco.» «Bisogna dimostrarlo. Bisogna che dimostriamo che ha cominciato a sanguinare quando era già morto. E i morti in genere non sanguinano come maiali sgozzati. Come facciamo?» insiste Marino. «A chi lo dobbiamo dimostrare?» Lo guardo in faccia. «Non so con chi abbia parlato Fielding, visto che non so manco dov’è. Se però l’ha detto a qualcuno...» “Come hai fatto tu” penso. Ma lo tengo per me. «Ecco perché bisognerebbe riflettere bene prima di divulgare certi particolari senza avere informazioni adeguate.» Cerco di dirlo con tatto. «Non abbiamo scelta» continua Marino imperterrito. «Dobbiamo provare che i morti possono sanguinare.» Prendo la giacca e dico ad Anne: «Prima una TAC completa di testa e corpo. Poi una risonanza total body, centimetro per centimetro. Mandami tutte le immagini. Voglio vederle subito». «Guido io» dice Marino ad Anne. «Portiamolo giù, così si scalda. Prendiamo uno dei furgoni.» «Non vogliamo che si scaldi. Anzi, metto il condizionatore a manetta.» «Andate voi due. Io vi raggiungo lì.» «Sul serio. Non è che se si scalda poi ricomincia a sanguinare?» «Guardi troppa televisione. Troppi Saturday Night Live.» «Vi ricordate Dan Aykroyd quando faceva Julia Child? “Vi serve un coltello molto, molto affilato.” E il sangue che schizzava da tutte le parti.» Chiacchierano come se niente fosse, tutti e tre. «Mi faceva morire dal ridere.» «I primi sketch erano i più divertenti.» «È vero. Roseanne Roseannadanna.» «Mi piaceva da matti.» «Ho tutti i DVD.» Li sento che ridono. Me ne vado. Passo il pollice davanti al sensore che fa scattare la serratura ed entro nell’area adiacente all’accettazione, una sala bianca con i mobili grigi dove procediamo all’identificazione dei cadaveri che chiamiamo “sala ID”.

Incassati nei muri ci sono stipetti di metallo grigio numerati in cui riponiamo i reperti. Con la chiave che mi ha dato Marino, apro quello in alto a sinistra, dove sono conservati gli effetti personali del morto, in attesa di essere restituiti a chi di dovere. Per il momento non sappiamo chi sia, né chi siano i suoi parenti più prossimi. All’interno dello stipetto trovo sacchetti di carta e buste ordinatamente etichettati e accompagnati da moduli compilati e siglati da Marino. Sono indispensabili per poter rintracciare il percorso di quelle prove, in modo da evitare perdite e manomissioni. Prendo la piccola busta marrone che contiene l’anello con lo stemma, scrivo sul modulo l’ora in cui l’ho prelevato e firmo. Mi siedo davanti a un computer e riporto gli stessi dati sul registro informatizzato, poi mi metto a pensare ai vestiti del morto. Già che ci sono, potrei controllarli adesso, invece di aspettare l’autopsia. Voglio vedere il buco lasciato dalla lama che gli è stata conficcata nella parte bassa della schiena e gli ha devastato gli organi interni. Voglio anche capire quanto sangue può aver perso da quella ferita. Esco dalla sala ID e imbocco il corridoio piastrellato, tornando da dove sono venuta. Passo davanti alla sala radiografie e dalla porta socchiusa vedo Marino, Anne e Ollie che si preparano a trasportare il cadavere al McLean, continuando a ridere e scherzare. Passo oltre senza che mi vedano e apro la doppia porta di acciaio della sala autopsie. È un ambiente ampio, tutto vernice epossidica e piastrelle bianche, con il soffitto chiaro su cui corrono binari di metallo e un’illuminazione fredda e filtrata. Ci sono undici tavoli di acciaio posizionati accanto ad altrettanti lavandini a muro, anch’essi in acciaio, con controllo a pedale e manichetta spray ad alta pressione. Ciascuna postazione di lavoro è dotata inoltre di un bidone per i rifiuti, una bacinella per sciacquare i campioni e un contenitore per lame e bisturi. Dopo accurate ricerche, ho scelto e fatto installare piccole sale operatorie modulari con un impianto di ventilazione “downdraft” con cambio d’aria ogni cinque minuti. Ci sono anche computer, cappe per fumi, carrelli con gli strumenti chirurgici, lampade alogene con bracci flessibili, piani per la dissezione con appositi taglieri, erogatori di formalina e rastrelliere di provette e vasetti di plastica per gli esami istologici e tossicologici. La mia postazione, quella del direttore, è la prima. Ho l’impressione che l’abbia usata qualcuno, ma mi sento ridicola ad averlo anche solo pensato. È naturale che sia stata usata durante la mia assenza. Da Fielding, probabilmente. “Non ha importanza. Perché mi irrita?” Noto che gli strumenti chirurgici sul carrello non sono allineati e in ordine come li avrei lasciati io. Sono sparpagliati su un tagliere di polietilene come se qualcuno li avesse sciacquati alla bell’e meglio. Mi infilo un paio di guanti di lattice perché non voglio toccare niente a mani nude. Normalmente non presto troppa attenzione, non quanta dovrei, perché provengo da quella generazione di anatomopatologi stoici, impavidi e battaglieri che non ammettevano di avere paura o di provare repulsione per qualcosa: vermi, liquidi corporei, putrefazione, cadaveri gonfi, viscidi e verdastri, AIDS e malattie varie. Adesso viviamo nella paura e ci sono regolamenti federali su tutto, ma un tempo lavoravo senza

protezioni di sorta, fumavo, bevevo caffè e toccavo i miei pazienti morti come se fossero stati vivi, pelle nuda contro pelle nuda, per esaminare ferite, guardare contusioni e prendere le misure. Ma ho sempre tenuto in perfetto ordine la mia postazione di lavoro e i miei strumenti chirurgici. Non sono mai stata pasticciona o approssimativa. Non ho mai posato niente sul carrello, neanche un ago, senza prima averlo lavato con acqua calda e detergente. Lo scroscio dell’acqua sul metallo del lavandino è un rumore che associo a tutte le sale autopsie in cui ho lavorato. Già ai tempi di Richmond e anche prima, all’inizio della mia carriera al Walter Reed, sapevo che il DNA era importante e che sarebbe stato presto ammesso come prova in tribunale; anzi, che sarebbe diventato la prova per eccellenza. Intuivo che a quel punto il nostro operato in sala autopsie e in laboratorio sarebbe stato messo in discussione da giudici e avvocati. La contaminazione stava per diventare la nostra nemesi e, sebbene al CFC non abbiamo l’abitudine di sterilizzare gli strumenti con l’autoclave, di certo non gli diamo una lavata frettolosa sotto il rubinetto per poi metterli ad asciugare su un tagliere neanche troppo pulito. Prendo un bisturi da quarantacinque centimetri e noto una macchiolina di sangue secco sul manico di acciaio inox tutto graffiato. Vedo che anche la lama di acciaio è graffiata e ammaccata, non liscia e affilata come dovrebbe essere. Persino la lama del seghetto da ossa è sporca di sangue e ci sono diverse macchioline rosse su un rocchetto di filo cerato a cinque capi e su un ago da sutura. Prendo in mano forcipe, forbici, tronchese, scalpello, sondino e rimango sbigottita nel vedere che sono in condizioni pietose. Mi ripropongo di mandare un messaggio ad Anne per dirle di pulire accuratamente la mia postazione e lavare tutti gli strumenti prima che io cominci l’autopsia dell’uomo ritrovato morto a Norton’s Woods. Voglio che puliscano questa sala da cima a fondo e che venga fatta una revisione degli impianti il prima possibile. M’infilo un paio di guanti e mi avvicino al rotolo di carta bianca – che noi chiamiamo “carta da macellaio” – sulla parete. Ne strappo rumorosamente un foglio e lo stendo sopra un tavolo da autopsia che mi pare più pulito del mio. Mi copro con un camice usa e getta senza legare i lunghi lacci sulla schiena e torno alla postazione. Contro il muro c’è un grande essiccatore in polipropilene bianco con le rotelle di gomma e l’apertura a doppia anta in materiale acrilico trasparente, che apro digitando un codice sul tastierino. All’interno ci sono un giaccone di nylon verde salvia con il colletto di pelo nero, una camicia azzurra di jeans, un paio di calzoni neri e un paio di boxer, appesi ciascuno a una gruccia in acciaio inossidabile. Sul piano inferiore, mobile, ci sono un paio di scarponcini di pelle marrone rovinati e calzettoni di lana grigi. Riconosco gli abiti dal video e mi fa impressione vederli lì. Il ventilatore e i filtri di scarico HEPA emettono un ronzio sommesso. Guardo gli scarponcini e le calze, prendendoli in mano a uno a uno, ma non trovo nulla di particolare. I boxer sono bianchi, di cotone, con l’elastico in vita. Non vedo niente di strano: né macchie né difetti. Poso il giaccone sulla carta da macellaio che ho steso sul tavolo e controllo che nelle tasche non sia rimasto niente. Prendo un diagramma e una cartellina rigida e comincio a

buttare giù qualche appunto. Il colletto di pelliccia sintetica è sporco di terra, sabbia e frammenti di foglie marroni e secche che vi sono rimaste attaccate quando l’uomo è caduto per terra. Anche i polsini di maglia sono sporchi. Il tessuto esterno verde salvia è molto resistente, di nylon, impermeabile e antistrappo. L’imbottitura nera è in fiberfill. Non penso sia stato facile trapassare questi tessuti, a meno che la lama non fosse molto robusta e affilata. Non vedo macchie di sangue sulla fodera, nemmeno in corrispondenza del taglietto sulla schiena. L’esterno, invece, è rigido e scuro a causa del sangue che si è raccolto sul fondo del sacco mortuario dopo che il cadavere vi è stato chiuso dentro per il trasporto al CFC. Non so per quanto tempo possa aver sanguinato dentro il sacco e poi nella cella frigorifera, ma so per certo che non ha sanguinato dalla ferita. Quando apro la camicia di jeans – maniche lunghe, taglia small, che emana ancora un lieve profumo di dopobarba – trovo solo una macchiolina di sangue scuro, che si è seccato rendendo rigida la stoffa intorno al taglio prodotto dalla lama. Le ipotesi di Marino e Anne forse non erano poi tanto campate per aria: l’uomo deve aver effettivamente sanguinato dal naso e dalla bocca mentre era ancora vestito dentro il sacco mortuario, con la testa girata da una parte, presumibilmente nella stessa posizione in cui l’ho visto io nella sala radiografie. Il sangue deve essergli colato dalla faccia ed essersi raccolto nel sacco, fuoriuscendone in parte. Lo vedo con chiarezza quando lo esamino: è un normalissimo sacco per il trasporto di cadaveri adulti, nero con la chiusura lampo in nylon e manici laterali fissati con rivetti. Spesso è proprio in corrispondenza dei manici che si verificano perdite di sangue o liquidi corporei, sempre che il sacco sia intatto, con le cuciture sigillate a caldo prive di difetti e falle. Il sangue esce dai rivetti, specie quando si tratta di sacchi da poco prezzo, ma quello che ho sotto gli occhi costa venticinque dollari all’ingrosso ed è in PVC ad alta resistenza. Ripensando a quello che ho appena visto durante la TAC, a quanto rapidamente sono avvenuti l’aggressione e il ferimento, non riesco proprio a capire le modalità dell’emorragia. Mi quadra ancora meno di quando me ne ha parlato Marino la prima volta, a Dover. Le gravissime lesioni interne riportate dall’uomo devono aver causato un’emorragia polmonare con conseguente sanguinamento dal naso e dalla bocca. Il fatto è che questo si sarebbe dovuto verificare nel giro di pochi minuti. Non capisco perché non sia successo subito, sul luogo del delitto. L’uomo avrebbe dovuto iniziare a sanguinare durante il massaggio cardiaco. I soccorritori a quel punto avrebbero capito che non era stata un’aritmia a ucciderlo. Esco dalla sala autopsie e vado al piano di sopra, rimuginando sul video. Penso ai guanti neri, al fatto che l’uomo se li è infilati appena prima di entrare nel parco. Dove sono finiti? Non ho visto guanti né nell’essiccatoio né nello stipetto con gli altri effetti personali. Ho anche controllato nelle tasche del giaccone: non c’erano. Sulla base delle immagini filmate dalla telecamera nascosta nelle cuffie che l’uomo indossava, lui aveva i guanti quando è crollato a terra. Ripenso alla registrazione che ho visto sull’iPad di Lucy mentre andavamo al terminal. Nell’inquadratura a un certo punto c’era una mano

coperta da un guanto nero, come se l’uomo stesse scacciando una mosca, e si sentiva un rumore secco quando le sue dita urtavano contro le cuffie e lui esclamava: “Che c...? Ehi!”. Davanti all’obiettivo passavano rapidamente alcuni alberi spogli, pezzetti di ardesia per terra; poi il tonfo della caduta e l’orlo di un cappotto lungo, nero, che svolazzava allontanandosi. Quindi silenzio, seguito da voci di persone che si avvicinavano e urlavano che l’uomo non respirava più. Quando arrivo alla sala radiografie, la porta è chiusa. Controllo, ma se ne sono andati tutti e la stanza è vuota e silenziosa. La macchina della TAC brilla biancastra sotto le luci basse di là del vetro piombato. Mi fermo un momento e provo a telefonare, sperando che Anne risponda al cellulare. Forse però è già al McLean, nel laboratorio di neuroimaging, irraggiungibile per via delle spesse pareti di cemento. Quando sento la sua voce, mi sorprendo. «Dove sei?» le domando. C’è musica in sottofondo. «Stiamo parcheggiando» risponde. Deve essere sul furgone con Marino e l’autoradio accesa. «Quando lo hai spogliato, per caso hai visto un paio di guanti neri?» le chiedo. «Credo che avesse un paio di guanti neri, pesanti.» C’è un attimo di silenzio e sento che Anne parla con Marino, ma non capisco cosa si dicono. Poi lei mi risponde: «No. Marino dice che non li aveva nemmeno nella sala identificazioni. Non si ricorda dei guanti». «Mi dici esattamente cos’è successo ieri mattina, per favore?» «Un attimo» sento che dice a Marino. «No, non sono ancora arrivate, se no si farebbero vedere. Le guardie del servizio di sicurezza, intendo. Aspetta qui.» Poi si rivolge di nuovo a me. «Okay. Alle sette e qualcosa è arrivato Fielding nella sala radiografie. Tu sai che io e Ollie veniamo a lavorare presto, verso le sette. Fielding era preoccupato. Aveva visto che dal sacco mortuario era gocciolato sangue dentro la cella frigorifera e anche fuori. Insomma, si era accorto che il cadavere sanguinava o aveva appena smesso di sanguinare. Nel sacco c’era molto sangue.» «E il cadavere aveva ancora i vestiti addosso.» «Sì. Il giaccone era aperto e la camicia a brandelli. Gliel’hanno tagliata i paramedici cercando di soccorrerlo. È arrivato vestito e così è rimasto finché Fielding non è andato a prepararlo per portarlo qui.» «In che senso a “prepararlo”?» Non ho mai saputo che Fielding “prepari” i cadaveri prima dell’autopsia. Non mi risulta che vada a tirarli fuori dalle celle frigorifere e li porti personalmente alla sala autopsie o radiografica. Non si occupa di queste cose da tempo immemorabile, da quando era ancora in prova. In genere lascia i compiti più umili agli inservienti. «Io so solo che ha visto il sangue e si è precipitato da noi perché aveva sentito la polizia di Cambridge e, come sai, lì per lì si pensava che fosse stata una morte naturale, un’aritmia, un aneurisma, qualcosa che gli avesse provocato una morte improvvisa.» «E poi?» «Poi io e Ollie siamo andati a vedere e abbiamo chiamato Marino, che è venuto subito.

E abbiamo deciso di rimandare sia i raggi sia l’autopsia.» «E lo avete rimesso nella cella frigorifera.» «No. Marino ha voluto portarlo nella sala identificazioni per prelevare impronte, tamponi e cominciare a vedere se lo trovavamo sui database IAFIS e DNA, per capire chi era. Quindi che non avesse i guanti è certo, perché Marino avrebbe dovuto toglierglieli per prendergli le impronte digitali.» «Dove sono finiti, allora?» «Io non lo so. E Marino neanche.» «Me lo passi un momento, per favore?» Sento che gli porge il cellulare. Poi Marino dice: «Sì. Ho aperto il sacco ma non l’ho tirato fuori. Come sai, c’era moltissimo sangue». «E cos’hai fatto esattamente?» «Gli ho preso le impronte da dentro il sacco. Se avesse avuto i guanti, li avrei visti di sicuro.» «È possibile che glieli abbiano tolti quelli della Scientifica e li abbiano infilati dentro il sacco, ma tu non li abbia notati? E che poi si siano persi, per qualche motivo?» «No, lo escludo. Ho controllato io gli effetti personali, te l’ho detto. Orologio, anello, portachiavi, scatolina, biglietto da venti dollari. Gli ho preso dalle tasche tutto quello che aveva e ho anche guardato nel sacco, proprio per i motivi che dici tu, caso mai qualcuno ci avesse infilato qualcosa all’ultimo momento, tipo occhiali da sole, cappello, roba del genere. Cuffie e radio satellitare erano in un sacchetto di carta, che è arrivato insieme al corpo.» «Cosa dicono quelli del dipartimento di polizia di Cambridge? So che Lawless è venuto al CFC a portare la Glock.» «Sì, l’ha lasciata al laboratorio balistico alle dieci del mattino. Non ha portato altro, però.» «E, quando Anne ha messo i vestiti nell’essiccatoio, ovviamente i guanti non c’erano. Se tu dici che non c’erano già prima...» Sento che borbotta qualcosa ad Anne e me la passa di nuovo. «No, io non ho visto guanti quando ho messo il resto nell’essiccatoio. Saranno state le nove di sera, penso: quattro ore fa. Ho tolto i vestiti al cadavere per fargli la TAC. Tu sei arrivata poco dopo. Ho sterilizzato l’essiccatoio e ci ho appeso dentro i vestiti.» «Fortuna che qualcosa avete sterilizzato. La mia postazione non era pulitissima.» «Okay, okay» sento che dice, ma non a me. «Aspetta. Cristo, Pete. Aspetta un minuto.» Sento la voce di Marino. «C’erano altri casi.» «Come dici, scusa?» «C’erano altri casi ieri mattina. Può darsi che qualcuno abbia preso i guanti, anche se non capisco perché. Per sbaglio, magari.» «Chi si è occupato degli altri casi?» «Lambotte e Booker.»

«E Jack?» «Due casi oltre a quello di Norton’s Woods» precisa Marino. «Una donna finita sotto un treno e un vecchio che non aveva medico curante. Jack non ha fatto un cazzo. Non c’era proprio» mi spiega. «Non s’è degnato di andare sulla scena del crimine, poi il cadavere si è messo a sanguinare nella cella frigorifera e a noi tocca dimostrare che quel poveraccio era già morto.»

9 La direzione del Cambridge Forensic Center and Port Mortuary è all’ultimo piano e ho scoperto che è difficile spiegare alla gente come fare ad arrivarci, essendo il palazzo a pianta rotonda. Le rare volte che mi capita di dover dare indicazioni a un visitatore, gli dico di prendere l’ascensore e salire al settimo piano, girare a sinistra e cercare il numero 111. È la porta accanto alla 101 e per capire che la 101 è la prima e la 111 è l’ultima ci vuole un po’ di immaginazione. Il mio ufficio sarebbe in fondo al corridoio, se il nostro corridoio avesse una cima e un fondo. Invece è circolare, con sei uffici, una grande sala conferenze, una stanza per la dettatura e il riconoscimento vocale, una biblioteca, una cucina e, al centro, un bunker privo di finestre che Lucy ha deciso di utilizzare come laboratorio informatico e di esame dei documenti. Superato l’ufficio di Marino, mi fermo davanti alla porta 111, che lui chiama CentCom, Central Command. Sono certa che ha scelto questo appellativo altisonante non tanto perché mi vede come un comandante, quanto perché gli piace sentirsi al servizio di un ordine patriottico superiore. La sua è una specie di vocazione. Un tempo non era così appassionato di Forze armate e questioni militari. Per certi versi, questa sua nuova passione è paradossale, quasi Peter Rocco Marino avesse bisogno di ulteriori paradossi per completare la propria incoerenza, i propri conflitti interiori. “Non devo essere così arrabbiata con lui” mi dico aprendo la porta, che è pesante e rivestita in titanio. Marino non è cattivo e non ha fatto niente di terribile. È un uomo prevedibile e non mi dovrei sorprendere. Dopotutto, chi lo conosce meglio di me? Per capirlo, non basta tenere conto del fatto che è di Bayonne, nel New Jersey, è cresciuto per strada, ha fatto il pugile e poi è entrato in polizia. Non è nemmeno tanto importante che suo padre fosse un alcolista e un inetto. La stele di Rosetta, nel suo caso, è prima di tutto la madre e poi Doris, il grande amore giovanile, ora ex moglie. Entrambe, all’apparenza docili e sottomesse, gli hanno fatto molto male. Accendo le luci incassate nei montanti della cupola geodesica di vetro ad alta efficienza energetica. Ogni volta che alzo gli occhi, penso a Buckminster Fuller. Se il famoso inventore fosse ancora vivo, approverebbe l’architettura di questo edificio e forse anche me, ma non la nostra morbosa ragion d’essere, temo. Devo dire che anch’io avrei qualche perplessità sul suo conto. Non concordo con lui sul fatto che la tecnologia sia la nostra salvezza. Di certo non ci ha reso più civili. Anzi, forse proprio il contrario. Mi fermo appena varcata la soglia, con i piedi sulla moquette grigio canna di fucile, come in attesa del permesso di entrare. Probabilmente la mia esitazione è dovuta al fatto che riappropriarmi di questo spazio vuol dire tornare a una vita che negli ultimi due anni ho messo un po’ da parte. Non solo negli ultimi due anni, a dire il vero. Forse sono decenni, sin dagli inizi della mia carriera al Walter Reed, quando mi facevo gli affari miei in una stanzetta angusta e priva di finestre al quartier generale dell’AFIP e Briggs entrò senza bussare e mi posò sulla scrivania una busta grigia formato A4 con il timbro

SEGRETATO. Era il 4 dicembre 1987. Lo ricordo in maniera così vivida che sono in grado di dire com’ero vestita, che tempo faceva e cosa avevo mangiato a pranzo. So che quel giorno fumai tantissimo e la sera bevvi parecchio scotch, da quanto ero emozionata e spaventata. Era un caso importantissimo e il dipartimento della Difesa lo aveva affidato a me, scegliendomi fra mille. Per la verità, era stato Briggs a scegliermi. La primavera dell’anno successivo venni congedata dall’Aeronautica militare non per buona condotta, ma perché l’amministrazione Reagan non mi voleva più fra i piedi e io me ne andai a condizioni che mi fanno sentire male ancora adesso, quando ci penso. Se mi trovo in un palazzo circolare, lo devo al mio karma. Nella mia vita non è mai iniziato né finito niente. Ciò che era distante è qui vicino. In qualche modo, è tutto uguale. Il segno più evidente del fatto che sono stata assente per sei mesi è che l’ufficio di Bryce, il mio segretario, è ingombro di pratiche e carte, mentre il mio è vuoto. Mi sento triste e sola, il tavolo di acciaio che uso per le riunioni è spoglio, senza neanche un po’ di verde. Quando abito uno spazio, lo riempio sempre di piante: orchidee, gardenie, piante grasse e da appartamento, come areca e palma sago. Mi piace il loro profumo, il fatto che siano vive. Quelle che tenevo qui prima di partire non ci sono più, sono morte perché qualcuno le ha annaffiate o concimate troppo. Nonostante avessi dato a Bryce istruzioni dettagliate, nel giro di due mesi me le ha fatte fuori tutte. Sulla mia scrivania non c’è praticamente niente. È una postazione modulare in acciaio spesso ventidue millimetri con piano in laminato nero, mensole e cassetti coordinati. L’ufficio ha una vetrata che dà sul fiume Charles, con una vista bellissima dello skyline di Boston. Dietro la mia poltroncina Aeron, un piano in granito nero corre lungo tutta la parete. Sopra ci sono il sistema laser per microdissezione Leica, con schermi e accessori vari, e il mio fido microscopio di riserva, quello di uso quotidiano, anch’esso Leica. È un’apparecchiatura meno sofisticata, che posso usare con una mano sola, senza bisogno di software o corsi di addestramento. Non c’è altro: niente classificatori o cartelline, nessun certificato di morte da firmare, niente documenti da rivedere prima di sottoscrivere né posta, e solo pochi effetti personali. Decido che non mi piace avere un ufficio così in ordine, così immacolato. Preferisco quando sembra una discarica. È strano che guardare uno spazio di lavoro vuoto mi susciti tante emozioni. Infilo la lettera di Erica Donahue in una busta di plastica e mi rendo finalmente conto del motivo per cui mi dispiace che il mondo stia diventando paperless, privo di documenti cartacei. A me piace guardare in faccia il mio nemico, vedere chi devo battere, e mi conforta avere intorno degli amici. Chiudo la lettera in un armadietto e in quel momento arriva Lucy, silenziosa e subitanea come un’apparizione. Indossa un largo camice da laboratorio, come fa sempre quando vuole stare comoda o nascondersi qualcosa addosso o nelle tasche, molto capienti. Quell’indumento fuori misura la fa sembrare innocua, ma è solo un’impressione. La fa anche sembrare più giovane. Lucy ha poco più di trent’anni, eppure per me resterà sempre una bambina. Mi chiedo se tutte le madri provano le

medesime sensazioni nei confronti delle figlie, anche quando diventano madri a loro volta. Lucy non ha figli, ma è armata e pericolosa. Probabilmente ha una pistola infilata nella cintola. Mi fa piacere che sia qui. Sarò egoista, ma mi conforta che sia rientrata nella mia vita e non sia in Florida o con gente che devo sforzarmi di farmi piacere. Il procuratore di Manhattan Jaime Berger appartiene a questa categoria. Guardo mia nipote, surrogato di figlia unica per me, che entra nel mio ufficio e non riesco a fare a meno di pensare a una verità che non le dirò: sarei contenta se lei e Jaime si fossero lasciate. È per questo motivo che non le ho fatto domande. «Benton è ancora con te?» le domando. «Sta telefonando.» Si chiude la porta alle spalle. «A quest’ora? E a chi?» Lucy prende una sedia e si sistema con le gambe incrociate sul cuscino. «Un collega» mi risponde per farmi credere che stia parlando con uno del McLean, ma non è vero. Anne ha detto che avrebbe contattato lei l’ospedale ed è là con Marino per effettuare gli esami sul cadavere di Norton’s Woods. Perché Benton dovrebbe parlare con un collega dell’ospedale, o con Anne e Marino? «Siamo solo noi tre, dunque» commento. «E Ron, immagino. Se però ti preme lo stesso chiudere la porta, fa’ pure.» È il mio modo per farle capire che non mi è sfuggito il suo comportamento eccessivamente cauto e vigilante. Vorrei che me ne spiegasse il motivo, che mi dicesse perché si sente in dovere di essere tanto evasiva con me, che sono sua zia, surrogato materno nonché capo. E forse Lucy non è soltanto evasiva: forse mente spudoratamente. «Lo so.» Tira fuori dalla tasca del camice un portapillole. «Cos’è che sai?» «Che Anne e Marino sono andati al McLean perché tu vuoi che gli facciano una risonanza. Mi ha spiegato tutto Benton. Come mai non ci sei andata anche tu?» «Non avrei dato alcun contributo. Sarebbe stato inutile, visto che le risonanze non sono propriamente la mia specialità.» A Dover non ci sono apparecchiature per la risonanza magnetica perché la maggior parte dei cadaveri che arrivano lì sono vittime di omicidio o di incidenti e contengono metallo. «Ho pensato fosse più utile restare qui e fare dell’altro. Quando avrò le idee più chiare su quello che devo cercare, comincerò l’autopsia.» «Mi sembra un approccio un po’ singolare, non credi?» mi provoca Lucy guardandomi fissa. «Un tempo facevi l’autopsia per vedere cosa cercare. Adesso cerchi conferma e raccogli prove di ciò che sai già.» «Non è proprio così. Ogni tanto ho qualche sorpresa. Cosa c’è lì dentro?» «Giusto.» Mi passa la scatolina bianca facendola scivolare sul piano ridicolmente sgombro della mia scrivania. «Prendila pure: non serve che ti metti i guanti. Maneggiala con attenzione, però.» Dentro la scatolina c’è un batuffolo di cotone e, sopra, una cosa che sembra un’ala di

insetto, forse una mosca. «Toccala» mi invita Lucy protendendosi verso di me con l’aria eccitata, come se io stessi per aprire un regalo. Sento la rigidità delle nervature di metallo e la membrana trasparente, sottile, di materiale plastico. «Artificiale. Interessante. Che cos’è e come te la sei procurata?» «Conosci il santo Graal dei flybot?» «Ammetto la mia ignoranza.» «Anni e anni di ricerca. Milioni e milioni di dollari per mettere a punto il flybot perfetto.» «Non lo sapevo. In realtà, non so neanche di cosa tu stia parlando.» «Muniti di microtelecamere e trasmettitori, servono per spiare la gente senza farsene accorgere. E anche per individuare la presenza di sostanze chimiche, esplosivi o eventuali rischi biologici. Li hanno studiati a Harvard, all’MIT, a Berkeley e in molti altri centri di ricerca qui e all’estero. Anche prima dei cyborg, in questi “insetti” venivano inseriti impianti microelettromeccanici, interfacce macchina-insetto. Gli studi hanno riguardato anche altri animali, tipo tartarughe e delfini. Non è proprio il massimo che la DARPA abbia fatto, se ti posso dire come la penso.» Rimetto l’ala sul batuffolo di cotone. «Parti dal principio, per favore. Come te la sei procurata?» «Sono preoccupata.» «Anch’io.» «Quando Marino l’ha portato nella sala identificazioni, stamattina, volevo dirgli dell’impianto di registrazione che gli ho trovato nelle cuffie e quindi sono scesa di sotto.» Sta parlando del cadavere di Norton’s Woods. «Lui gli stava prendendo le impronte e ho visto subito l’ala di insetto sul collo del giaccone, vicino ai frammenti di foglie e alla terra che gli erano rimasti addosso quando era caduto per terra.» «Non si è spostata quando i paramedici hanno tentato di rianimarlo» intervengo. «Nonostante gli abbiano aperto il giaccone.» «Evidentemente no. Era nella pelliccia. Nel collo di pelliccia sintetica del giaccone» dice Lucy. «Mi ha colpito. Hai presente quando ti viene un presentimento improvviso? Così ho guardato meglio.» Prendo la lente d’ingrandimento che tengo nel cassetto e accendo una lampada per esaminare l’ala, che a quel punto non sembra più per niente naturale. All’estremità inferiore, nel punto in cui è fissata al corpo, c’è un piccolo giunto di flessione e le venature luccicano come fil di ferro. «Un composto di carbonio, probabilmente. Quindici giunti per ogni ala. Straordinario.» Lucy mi descrive quello che sto guardando. «Una struttura in materiale polimerico elettroattivo che risponde ai segnali elettrici la fa flettere come se fosse un’ala vera, alla stessa velocità. In passato i flybot decollavano in verticale, come un elicottero, e poi volavano come gli angeli. Era il loro principale difetto, oltre al fatto che sono oggetti micromeccanici autonomi ma di piccole dimensioni, che si ispirano alla natura e che

quindi devono avere una potenza tale da potersi muovere liberamente in qualsiasi ambiente li si metta.» «Si ispirano alla natura... Come le invenzioni di Leonardo.» Mi domando se Lucy si ricorda la mostra a cui l’ho portata a Londra e se ha notato il poster nel salotto del morto. Non può esserle sfuggito. Lucy nota tutto. «Il poster sopra il divano» dice. «Sì, l’ho visto.» «È inquadrato nel video quando lui mette il guinzaglio al cane. Non fa impressione?» mi chiede. «Non capisco perché dovrebbe fare impressione.» «Be’, io ho visionato quelle immagini più attentamente di quanto abbia fatto tu.» Ho imparato a riconoscere le sfumature di comportamento di mia nipote; mi sembra di osservarla al microscopio. «È la stessa mostra a cui mi hai portato alla Courtauld. Le date sono le medesime» mi dice, con calma. Ha in mente qualcosa. «Potremmo averla visitata insieme, sempre che lui ci sia andato.» Ecco cos’ha in mente. È questo che pensa. Teme un collegamento fra il morto e noi. «Non è detto che ci sia andato solo perché ha il poster» continua. «Lo so. So benissimo che la mia è un’ipotesi che non reggerebbe in tribunale...» Lo afferma con una punta di ironia, come se stesse lanciando una frecciatina a Jaime Berger, il procuratore con cui sono sempre più convinta abbia troncato la relazione. «Lucy, tu hai un’idea di chi sia quest’uomo?» Non posso non domandarglielo. «Trovo solo bizzarro che forse sia stato alla stessa mostra a cui siamo state anche noi. Non è detto che ci sia andato, lo so.» Non è questo: glielo leggo negli occhi, lo sento dal tono con cui lo dice. Teme fortemente che l’uomo abbia visitato quella mostra mentre c’eravamo anche noi. Come può pensare una cosa del genere di una persona che nemmeno sappiamo chi sia? «Non avrai ripreso a fare l’hacker?» le chiedo in tono brusco, come se fosse un vizio, un’abitudine nociva alla salute tipo bere o fumare. Ho pensato più di una volta che Lucy possa avere rintracciato il server o il PC a cui erano destinate le registrazioni segrete del morto. Per lei firewall e altre misure di sicurezza per la protezione di dati proprietari sono un ostacolo superabilissimo, come un dosso rallentatore lungo la strada. «Non sono un pirata informatico» replica semplicemente. “Non è una risposta” penso. Ma non lo dico. «Trovo solo una coincidenza straordinaria che possa essere andato alla Courtauld Gallery quando c’eravamo noi» insiste. «E penso che, se ha quel poster, deve avere qualche legame con la mostra. Ormai non si possono più comprare: ho controllato. Perché dovresti appenderti in casa il poster di una mostra se non ci sei andato tu stesso o qualcuno vicino a te?» «A meno che non sia molto più vecchio di quello che sembra, all’epoca doveva essere un ragazzino» le faccio notare. «Era l’estate del 2001.»

Mi viene in mente che il suo orologio era cinque ore avanti rispetto al nostro fuso. Segnava l’ora della Gran Bretagna. La mostra era a Londra. Questo non dimostra niente, mi dico. Non è una prova. «Era una mostra che sarebbe potuta interessare moltissimo a un inventore in erba» ribatte Lucy. «Anche a te interessava moltissimo» replico. «Se non erro, hai fatto il giro quattro volte e ti sei comprata il CD delle conferenze.» «Che strano pensare che quel bambino fosse lì quando c’eravamo noi.» «Lo dici come se fosse fuor di dubbio.» Insisto sempre sullo stesso punto. «E dieci anni dopo ci ritroviamo qui tutti e tre, solo che lui è morto. A proposito dei sei gradi di separazione.» Mi colpisce che faccia le stesse considerazioni che già ho fatto io. Prima la mostra di Londra, adesso la rete di rapporti interpersonali, i collegamenti che si creano fra gli abitanti dello stesso pianeta. «Non mi ci sono mai abituata» dice. «Conosci qualcuno e poi questo muore ammazzato. Non che io me lo ricordi alla Courtauld Gallery o che sappia com’era fatto, però potrei essergli passata vicino o addirittura avergli parlato. Quando ci rifletti, ti vengono i brividi al pensiero che, se avessi saputo cosa stava per succedere, avresti potuto cambiare le cose. Per gli altri e per te.» «Te l’ha detto Benton che è stato ammazzato o l’hai saputo per altre vie?» «Ci siamo aggiornati sugli sviluppi della situazione.» «E tu gli hai parlato del flybot.» La mia non è una domanda. Sono certa che Lucy abbia riferito a Benton dell’ala robotica e tutto quello che pensava lui dovesse sapere. In elicottero ha detto chiaro e tondo che in questo momento si fida soltanto di lui, a parte me. Anche se io ho la sensazione che Lucy non si fidi del tutto di me. Credo che mi filtri le informazioni e mi dispiace che mi tenga nascosto qualcosa. Preferirei che non fosse tanto evasiva, che non mi raccontasse bugie. Ma ho imparato che per lei le mie preferenze contano solo fino a un certo punto. Posso esprimergliele più o meno bene, ma mia nipote continua a comportarsi come vuole, a pensare quello che vuole e a fare quello che vuole. Spengo la lampada e le restituisco la scatolina. «Cosa vuol dire che volano “come gli angeli”?» «Be’, nei quadri sembra sempre che gli angeli volino a punto fisso. Hai presente?» Prende il blocco e la penna che sono vicino al telefono. «Sono in posizione eretta, come se avessero un propulsore sulla schiena. Invece gli insetti e gli uccelli volano in orizzontale. I flybot volano in verticale, come gli angeli, e questo è uno dei loro difetti, insieme con le dimensioni. Quando parlavo di santo Graal, mi riferivo al tentativo di trovare la soluzione a questi due problemi. Finora sembrava impossibile.» Mi fa un disegnino di una figura stilizzata che vola. «Se vuoi registrare di nascosto qualcuno usando una microspia che assomiglia a una mosca, bisogna che assomigli davvero a una mosca. Ma se un aggeggio vola in verticale,

ci si accorge subito che non lo è. Se a un colloquio con Ahmadinejad in Iran io vedessi una mosca che vola in verticale e che atterra in verticale come Trilli Campanellino, penso che la noterei e mi insospettirei.» «Se tu fossi a colloquio con Ahmadinejad in Iran, io mi insospettirei anche senza Trilli Campanellino. Per ora non voglio pensare al motivo per cui il morto di Norton’s Woods aveva quest’ala sul giaccone. Ammesso che si tratti di un flybot...» «Non è esattamente un flybot» mi interrompe Lucy. «E neanche una microspia. È proprio qui che volevo arrivare. Secondo me, questo è il santo Graal.» «Qualunque cosa sia, per te a cosa poteva servire?» «A tutto quello che ti viene in mente» mi risponde. «Potrei farti un elenco di possibili utilizzi, ma da un’ala non so darti una risposta certa. Però, posso dirti alcune cose che mi paiono significative. Peccato che non abbia trovato anche il resto.» «Dove l’hai cercato? Sul giaccone? Addosso al cadavere?» «Sulla scena del crimine.» «Sei andata a Norton’s Woods.» «Certo!» mi risponde. «Appena mi sono accorta dell’ala, sono corsa lì.» «Siamo state insieme per ore.» Le ricordo che avrebbe potuto parlarmene prima. «Siamo state sole nella cabina di pilotaggio da Dover a qui.» «Con quell’interfono non si è mai sicuri. Anche quando mi sembra che sia spento, ho sempre il dubbio che invece si senta lo stesso. Non potevo correre il rischio che qualcuno ascoltasse. Marino non deve sapere niente di tutto questo.» Mi indica la scatoletta bianca. «Perché, scusa?» «Credimi, è meglio così. È una parte piccolissima di una cosa molto, ma molto grossa.» Mi spiega che Marino non sa che lei è andata a Norton’s Woods. È all’oscuro del fatto che ha ritrovato quella minuscola ala meccanica. Non sa che è stato anche per questo motivo che Lucy ha voluto farmi tornare prima da Dover e scortarmi in elicottero. Non me l’aveva ancora detto, continua, perché in questo particolare momento non si fida di nessuno. A parte Benton, aggiunge. E me, precisa poi. Sta molto attenta a dove parla di certe cose e pensa che dovremmo essere più cauti anche noi. «Dovremmo parlare solo dove abbiamo la certezza che nessuno ci possa sentire» dice, e capisco che ha controllato il mio ufficio per accertarsi che non ci fossero cimici, altrimenti non mi avrebbe detto niente. «Hai controllato che nel mio ufficio non ci fossero microspie?» le domando. Non sono scandalizzata. Lucy è in grado di fare certi controlli perché è in grado di spiare. Lo scassinatore migliore è il fabbro che fa le serrature. «Pensi che qualcuno possa essere interessato a installare microspie nel mio ufficio? E, se sì, chi?» «Non ne ho la minima idea. Non so neanche perché dovrebbero farlo.» «Marino no» dichiaro. «Sono d’accordo. Sarebbe come le nonne che nascondono la telecamera

nell’orsacchiotto dei nipoti. Non penso proprio che lo farebbe. Non gli voglio dire niente solo perché ho paura che non sia capace di tenerselo per sé» mi spiega. «Almeno con certe persone.» «In elicottero hai parlato del MORT. In quel caso non avevi paura che l’interfono non funzionasse.» «Non è la stessa cosa. Per niente» replica. «Se Marino va a dire a certe persone che nella casa del morto c’era un robot, non importa. Qualcuno lo sa già di sicuro. Ma di questa non posso permettermi che parli.» Guarda la scatolina bianca. «Non lo farebbe per cattiveria, però Marino non si rende conto di com’è fatta certa gente. Specialmente il generale Briggs e il capitano Avallone.» «Non pensavo che conoscessi Sophia Avallone.» Io non gliel’ho mai nominata. «Quando è venuta qui, Jack le ha fatto fare un giro turistico del CFC e Marino l’ha portata a pranzo e le ha leccato il culo tutto il tempo. Non ci arriva, pensa che questa gente, quelli del Pentagono, siano come noi, persone fidate.» Mi fa piacere che se ne renda conto, però non voglio incoraggiarla a diffidare di Marino, neanche un po’. Hanno avuto grossi conflitti, ma ultimamente si sono rappacificati e si vogliono di nuovo bene come quando Lucy era giovanissima e lui le insegnava a guidare il pick-up e a sparare, e lei lo faceva ammattire. Lucy ha preso da me la propensione per la scienza, ma ha imparato da Marino tutto ciò che ha a che fare con polizia e forze dell’ordine. Marino è stato l’uomo d’azione della sua vita, il detective, ed è stato un punto di riferimento importante quando lei era una ragazzina prodigio e tormentata. Lucy e Marino sono legati da un rapporto d’amore e odio molto profondo e adesso lavorano insieme. Bisogna che continuino ad andare d’accordo. Mi raccomando di stare attenta a quello che dico per non scatenare conflitti. «Ne deduco che Briggs non sa nulla.» Indico la scatoletta bianca. «E neanche Sophia Avallone.» «Non vedo come facciano a saperlo.» «Il mio ufficio è sorvegliato, attualmente?» «Nessuno ci può ascoltare» dice lei. Non è una risposta. «E Jack? È possibile che lui sappia del flybot? Immagino che tu non gliene abbia parlato.» «No di certo.» «Allora, a meno che non gli abbia telefonato qualcuno che cercava il flybot o l’ala...» «Ti pare possibile che l’assassino abbia chiamato qui per sapere se per caso avevamo ritrovato una microspia?» domanda Lucy. «E dico microspia per motivi di semplicità, benché si tratti di un congegno ben più sofisticato. Sarebbe un’idiozia: è evidente che se uno telefona per chiedere una cosa del genere è implicato nell’omicidio.» «Non possiamo escludere niente. A volte gli assassini commettono delle idiozie» ribatto. «Specie se sono disperati.»

10 Lucy si alza e va nel mio bagno privato, dove c’è una macchina per l’espresso. Sento che riempie la vaschetta di acqua e apre lo sportello del frigo. È quasi l’una di notte e continua a nevicare. Quando i fiocchi battono contro i vetri, fanno un rumore come di sabbia. «Latte parzialmente scremato o panna?» mi domanda Lucy dal bagno, che ha una doccia e dovrebbe essere il mio spogliatoio personale. «Bryce è una moglie devota: ti ha riempito il frigorifero.» «Lo prendo nero, lo sai.» Apro i cassetti della scrivania senza sapere esattamente cosa sto cercando. Penso alla scarsa pulizia della mia postazione in sala autopsie. Mi infastidisce che la gente usi le mie cose. «Se d’abitudine non macchi il caffè, com’è che hai sia latte sia panna qui dentro?» Lucy parla ad alta voce. «Green Mountain o Black Tiger? C’è anche una miscela alla nocciola. Da quando in qua bevi caffè aromatizzato?» Quella di Lucy è una domanda retorica. Sa perfettamente la risposta. «Mai bevuto» borbotto. Passo in rassegna matite, penne, Post-it, graffette. Nel cassetto più in basso c’è anche un pacchetto di chewing-gum alla menta mezzo pieno. Non mastico gomme. Chi ama i chewing-gum alla menta e li ha messi nella mia scrivania? Non può essere Bryce: è troppo vanesio per masticare gomme. Se lo sorprendessi con un chewing-gum in bocca, peraltro, lo guarderei con disapprovazione, perché considero poco educato ruminare davanti alla gente. E poi Bryce non andrebbe a curiosare nei cassetti della mia scrivania senza permesso. Non oserebbe mai. «Jack beve caffè aromatizzato alla nocciola e alla vaniglia, schifezze del genere» dice Lucy, sempre dal bagno. «E lo prende macchiato con latte parzialmente scremato, in genere. A meno che non segua una delle sue diete iperproteiche ad alto contenuto di grassi. In quei casi lo macchia con la panna. Panna bella pesante, come quella che c’è qui. Immagino che la panna ti serva se viene qualcuno, se offri il caffè ai visitatori.» «Fallo forte, per favore. E non aromatizzato.» «Jack beve molto caffè, come te» insiste Lucy. «Ci sono le sue impronte dappertutto. Insieme alle tue.» Sento l’acqua bollente che scende nel filtro e mi concentro su quel rumore per distrarmi: non voglio pensare che Jack Fielding abbia usato questo ufficio durante la mia assenza e ne abbia disposto come gli pareva e piaceva, facendosi il caffè, masticando chewing-gum e chissà cos’altro. Mi guardo intorno e mi pare impossibile che sia successo davvero. Il mio ufficio non ha un’aria “usata”. Non sembra proprio che qualcuno ci abbia lavorato. Ma allora cosa ci è venuto a fare Jack? «Sono arrivata a Norton’s Woods prima della polizia di Cambridge, sai. Marino li ha fatti tornare lì per via della Glock con il numero di serie cancellato. Ma io c’ero già stata» mi dice Lucy dal bagno, parlando a voce alta. «Purtroppo non sapevo dove fosse

morto esattamente, dove l’avessero pugnalato. Adesso lo sappiamo con esattezza. Senza le foto della scena del crimine, era impossibile capire dov’era caduto, se non con grande approssimazione. Quindi mi è toccato controllare tutti i sentieri del parco.» Arriva con due tazze fumanti in mano. Sono nere, con lo strano stemma dell’AFME, che raffigura quella che viene definita “la mano del morto”, ovvero una doppia coppia di otto e assi. È chiamata così perché sembra che Wild Bill Hickok, quando venne ucciso, avesse in mano proprio quella combinazione. «Il classico ago nel pagliaio» continua Lucy. «Il flybot è probabilmente grosso la metà di una graffetta, le dimensioni di una mosca. Come si fa?» «Il fatto che tu abbia trovato un’ala non vuol dire che ci fosse anche il resto» le ricordo mentre lei mi posa davanti il caffè. «Se è ancora nel parco, è mutilato.» Lucy torna a sedersi al posto di prima. «Senza un’ala, sotto la neve. Non è detto che non funzioni ancora, però. Potrebbe tornare in vita non appena lo esponiamo alla luce.» «In vita?» «Metaforicamente parlando. Immagino abbia un sistema di alimentazione a micropannelli solari e non una batteria, che a questo punto si sarebbe scaricata. Se così fosse, appena lo esponi alla luce si riprende. Ormai si va in quella direzione e il nostro apparecchietto è all’avanguardia. Un piccolo capolavoro tecnologico.» «Come fai a dirlo se ne hai visto solo un pezzettino?» «D’accordo, ho visto solo un’ala. Ma non è un’ala normale. Il giunto di flessione e l’angolazione sono ingegnosi e mi fanno pensare a un tipo di volo diverso da quello tradizionale, “da angelo”. Un volo orizzontale, come quello degli insetti. Qualsiasi cosa sia e qualunque sia la sua funzione, è chiaro che si tratta di un dispositivo estremamente avanzato. Non ho mai visto una roba simile. Non è mai stato pubblicato nulla in proposito. Lo so perché mi tengo aggiornata sulle riviste online del settore e ho anche fatto qualche ricerca, senza trovare nulla. Insomma, tutto fa pensare che sia un progetto top secret, riservatissimo. Spero con tutto il cuore che resti dov’è, sepolto sotto la neve, invisibile.» «Cosa ci faceva a Norton’s Woods, secondo te?» Visualizzo la mano coperta dal guanto nero che entra nell’inquadratura e si muove come se il suo proprietario volesse scacciare un insetto fastidioso. «Bella domanda: era del morto o di qualcun altro?» Lucy soffia sul caffè tenendo la tazza con tutt’e due le mani. «Lo starà cercando qualcuno? Ci sarà qualcuno che pensa che sia qui o che noi sappiamo dove si trova?» domando. «Sei al corrente del fatto che i guanti del morto sono spariti? Te ne sei accorta quando sei scesa giù da Marino, mentre gli prendeva le impronte digitali? Nel video sembra che la vittima si sia messa un paio di guanti neri prima di entrare nel parco. L’ho trovato curioso quando l’ho visto. Presumo sia morto con su i guanti, ma... dove sono finiti?» «Interessante» commenta Lucy.

Non riesco a capire se lo sapeva già. Non ho idea di che cosa sa e cosa non sa, se mi sta mentendo. «Ieri mattina, quando sono andata in perlustrazione nel parco, non li ho visti» mi comunica. «Avrei certamente notato un paio di guanti neri se polizia, soccorritori e tecnici vari li avessero lasciati lì. Naturalmente potrebbe averli presi chiunque nel frattempo.» «Nel video si vede una sagoma con un cappotto nero subito dopo che l’uomo si accascia. È possibile che l’assassino si sia fermato a raccogliere i guanti?» «Pensi che fossero guanti particolari, tipo per la raccolta di dati, o da combattimento, o muniti di sensori per sistemi informatici o per comandare robot?» mi chiede Lucy, come se fosse normale. «Non saprei. Mi domandavo solo se i guanti potessero essere abbastanza importanti perché l’assassino decidesse di portarseli via» replico. «Se avevano dei sensori e l’uomo controllava il flybot con quelli, ammesso che il flybot fosse suo, be’, allora sì che erano importanti.» «E tu non hai chiesto niente a Marino dei guanti quando eri di sotto? Non hai controllato se c’erano sensori nei vestiti della vittima? Hai pensato che potessero essere nei guanti?» «Se avessi avuto i guanti, avrei avuto maggiori probabilità di trovare il flybot nel parco quando sono andata in perlustrazione» mi dice. «Ma non li ho, né so dove siano, se è questo che mi stai domandando.» «Sarebbe un reato se ti fossi impossessata di una prova.» «Non li ho presi io. Non so neanche se si tratti effettivamente di guanti particolari. Avrebbe un senso che lo fossero, dato il contesto. Ti ricordi cosa dice nelle registrazioni appena prima di morire?» aggiunge poi, meditabonda. Mi chiedo se le sia venuto in mente adesso o voglia soltanto farmelo credere. «Ripete un paio di volte: “Ehi, bello”.» «Ho dato per scontato che lo dicesse al cane.» «Non è scontato, però.» «Dice anche altre cose che non ho capito» ricordo. «“Quante ne vuoi” e “Quasi tue”, o qualcosa del genere. I flybot possono ricevere comandi vocali?» «È possibile. Anch’io l’ho sentito. L’audio è disturbato, non si capisce. Però, se fossero effettivamente comandi vocali... “quasi tue” potrebbe essere “quattro due” e “quante ne” “enne” di nord, per esempio. Lo riascolterò, magari cercando di migliorare ulteriormente la qualità dell’audio.» «Ulteriormente?» «Sì, ci ho già lavorato un po’, senza ottenere granché. È possibile che stesse dando al flybot delle coordinate GPS: sarebbe normale per un dispositivo in grado di rispondere a comandi vocali. Gli stava dicendo dove andare.» «Se tu riuscissi a ricostruire le coordinate GPS, potresti trovare il dispositivo.» «Sinceramente, ne dubito. Se era controllato anche solo in parte attraverso i guanti, mediante sensori installati al loro interno, cos’è successo quando la vittima ha agitato la

mano appena prima di morire?» «Cos’è successo?» «Non lo so, ma non ho il flybot e non ho neanche i guanti» mi dice Lucy guardandomi negli occhi. «Non li ho trovati. E me ne rammarico.» «Marino ti ha parlato del fatto che forse io e Benton siamo stati seguiti mentre venivamo qui da Hanscom?» le chiedo. «Abbiamo cercato il SUV con i fari allo xeno e antinebbia. Non vuol dire niente, ma Jack ha un Navigator blu scuro. L’ha comprato in ottobre, di seconda mano. Tu non c’eri, quindi probabilmente non l’hai mai visto.» «Ma perché Jack avrebbe dovuto seguirci, scusa? Comunque no, non sapevo neanche che avesse comprato un Navigator. Credevo avesse una Jeep Cherokee.» «Avrà fatto una permuta, immagino.» Lucy beve un sorso di caffè. «Non dico che fosse lui a seguirvi e che sia stato così stupido da starvi attaccato al paraurti. A parte il fatto che, durante una tempesta di neve o con una nebbia terribile, insomma in condizioni di scarsa visibilità, se chi ti segue non sa dove sei diretto tenderà a starti attaccato, se non è più che esperto. Non vedo che motivo avrebbe avuto Jack per pedinarvi, in ogni caso. Sapeva benissimo che tu saresti venuta qui.» «Chi poteva avere un motivo per pedinarci? Tu lo sai?» «Uno che sapeva che il flybot è andato perduto» risponde. «Di certo si sta dannando per ritrovarlo e farà di tutto perché non finisca nelle mani sbagliate. O in quelle giuste: dipende con chi abbiamo a che fare. Basandomi solo su quell’ala, più di tanto non ti so dire. Se il motivo per cui vi seguivano è questo, vuol dire che l’assassino non ha trovato il flybot. E quindi è ancora in giro, chissà dove. Non c’è bisogno che ti dica che un’invenzione di questo calibro e così segreta può valere una fortuna, specie se uno riesce a rubarti l’idea e pigliarsi il merito. Se chi lo cerca ha motivo di temere che il flybot sia arrivato qui insieme al cadavere, è possibile che ti abbia seguito per vedere dove andavi e cosa avevi in mente di fare. Magari pensa che il flybot sia qui al CFC o che tu l’abbia nascosto da qualche parte. Magari a casa tua.» «Perché avrei dovuto portarmelo a casa? Non sono nemmeno ancora passata da casa!» «Quando uno è disperato, non segue la logica» mi fa notare Lucy. «Se fossi io a cercare il flybot, prenderei in considerazione l’eventualità che tu abbia chiesto a tuo marito, un ex agente dell’FBI, di nascondere il flybot in casa. Prenderei in considerazione qualsiasi eventualità. Lo cercherei ovunque.» Mi ricordo le esclamazioni della vittima, la sua voce. “Che c...? Ehi...!” Forse la sua reazione non era dovuta soltanto all’improvviso dolore alla parte bassa della schiena e alla fortissima pressione al petto. Forse gli era anche volato in faccia qualcosa. Forse aveva davvero guanti muniti di sensori e con quel gesto aveva rotto il flybot. Immagino il minuscolo dispositivo volante colpito dal brusco movimento della mano guantata dell’uomo, che gli finisce sul giaccone e si spezza. «Se chi cercava il flybot avesse avuto i guanti e fosse andato sul posto prima che cominciasse a nevicare, non potrebbe averlo già trovato?» chiedo a mia nipote.

«Sì, certo. Dipende da una serie di fattori. Quanto era danneggiato, per esempio. Quando l’uomo si è accasciato a terra senza vita, sono accorse diverse persone. Se il flybot era per terra, potrebbero averlo calpestato o danneggiato ulteriormente, rendendolo incapace di rispondere ai comandi. Oppure potrebbe essere finito sotto qualcosa, in un albero, in un cespuglio. Potrebbe essere ovunque.» «Immagino che un insetto robotico possa fungere anche da arma» dico. «Visto che non ho idea di cosa possa aver provocato le lesioni interne che hanno ucciso la vittima, non devo tralasciare nessuna ipotesi.» «Infatti» concorda Lucy. «Di questi tempi non si può più tralasciare niente.» «Benton ti ha detto cosa abbiamo riscontrato alla TAC?» «Non vedo come un insetto micromeccanico possa aver causato una roba del genere» risponde Lucy. «A meno che non gli abbiano iniettato un microdispositivo esplosivo.» Mia nipote e le sue fobie. È ossessionata dagli ordigni esplosivi. E non ha nessuna fiducia nel governo. «Spero proprio di no» dice. «Si tratterebbe di nanoesplosivi, nel caso.» Mia nipote e le sue teorie riguardo alla supertermite. Mi ricordo il commento di Jaime Berger l’ultima volta che l’ho vista, il giorno del Ringraziamento, quando ci ha invitati tutti nel suo attico a New York. “L’amore non vince su tutto” ha detto. “Non è possibile.” Aveva bevuto un po’ troppo ed era stata parecchio in cucina a litigare con Lucy a proposito dell’11 settembre, di esplosivi usati per le demolizioni, di applicazioni infrastrutturali dei nanomateriali in grado di provocare danni spaventosi a seguito di un impatto come quello di un grosso aereo carico di carburante. Io ho smesso di discutere con mia nipote, che è fobica, cinica, troppo intelligente e non ascolta. A lei non interessa che non ci siano abbastanza fatti a conferma delle teorie di cui si è convinta, che si basano su illazioni riguardo ai residui trovati fra le macerie delle Torri Gemelle, subito dopo il crollo. A distanza di due settimane, fra le macerie vennero ritrovati analoghi residui di ossido di ferro e alluminio, un nanocomposito ad alto valore energetico usato nella fabbricazione di esplosivi e fuochi d’artificio. Ammetto che se ne è parlato anche su riviste scientifiche attendibili, ma non abbastanza e soprattutto senza dimostrare che il governo americano è stato complice degli attentati per avere la scusa di cominciare una guerra in Medio Oriente. «So come la pensi al riguardo» dice Lucy. «Io e te siamo molto diverse: io ho visto che cosa sono in grado di fare i cosiddetti “buoni”.» Lucy non sa niente del Sudafrica. Se lo sapesse, non direbbe che io e lei siamo diverse. So anch’io cosa sono in grado di fare i cosiddetti “buoni”. Ma riguardo all’11 settembre non sono d’accordo con lei. Mi sembra esagerato. Penso a Jaime Berger e immagino quanto sia stato difficile per un procuratore di Manhattan potente e bene inserito fare coppia con mia nipote. No, l’amore non vince sempre. Ha ragione. Forse le paranoie di Lucy riguardo all’attentato alle Torri Gemelle e agli Stati Uniti l’hanno fatta ripiombare nell’isolamento, da cui nella sua vita è riuscita a tirarsi fuori solo per brevi periodi. Pensavo che Jaime fosse la persona giusta per lei, che con lei sarebbe durata.

Evidentemente mi sono sbagliata: ne sono abbastanza sicura. Vorrei dire a Lucy che mi dispiace, che può contare su di me, che può sfogarsi con me tutte le volte che vuole, su qualsiasi cosa, anche se non mi trova d’accordo. Ma non è questo il momento. «Penso che sarebbe bene tener conto del fatto che potremmo avere a che fare con uno scienziato pazzo. O forse anche più di uno» mi dice Lucy. «È qui che volevo arrivare. Non è una bella cosa, zia Kay. Proprio no.» Mi fa piacere sentire che mi chiama “zia Kay”. Quando mi chiama così, mi sembra che le cose fra noi vadano bene. Lo fa sempre più di rado. Non mi ricordo l’ultima volta che è successo. Quando sono la sua zia Kay, quasi mi dimentico chi sia veramente Lucy Farinelli, un genio con scarse capacità di integrazione sociale. Quando dico che è parzialmente sociopatica, Benton mi sgrida. Sostiene che è una diagnosi assurda, che è come definire una donna parzialmente gravida o parzialmente morta. Voglio bene a mia nipote, tengo a lei più che alla mia stessa vita, ma so benissimo che quando si comporta bene è solo perché si sforza o ha il suo tornaconto e non perché lo trovi moralmente giusto. Per lei, il fine giustifica i mezzi. La osservo con attenzione, anche se non riesco a decifrare la sua espressione, che non lascia mai trapelare ciò che le fa male veramente. «Devo chiederti una cosa» le dico. «Anche più di una» risponde sorridendo. Non sembra capace di fare del male a nessuno, ma basta guardare le mani, calme, agili e forti, e il rapido movimento degli occhi, il lampo che li attraversa quando le vengono certi pensieri. «Tu non sei coinvolta in questa faccenda, vero?» Mi riferisco alla scatolina bianca e al flybot che vi è chiuso dentro, ma anche al morto attualmente al McLean per la risonanza magnetica, che potremmo avere incrociato a una mostra su Leonardo da Vinci a Londra poco prima degli attentati dell’11 settembre, che Lucy incredibilmente ritiene orchestrati dal governo americano. «No.» Lo dice con semplicità, senza il minimo disagio, senza tentennamenti. «Perché adesso sei qui.» Le ricordo che lavora per il CFC, ovvero per me, che rispondo al governatore del Massachusetts, al dipartimento della Difesa e alla Casa Bianca. Rispondo a un sacco di gente, le ricordo. «Non posso permettermi di...» «Lo so. Sta’ tranquilla, non ti metto nei guai.» «Non sei solo tu a...» «Non c’è bisogno che tu me lo dica» mi interrompe di nuovo, con lo sguardo di fuoco. Ha gli occhi talmente verdi che sembrano finti. «E comunque non ha lesioni termiche, giusto? Ustioni?» «Finora non ne ho visto, no» rispondo. «Okay. E se lo avessero colpito con l’asta di un fucile subacqueo a scoppio modificato? Hai presente? Quelli che in genere si usano per gli squali e hanno in cima all’asta una cartuccia. Solo che qui nella cartuccia potrebbero aver messo un nanoesplosivo.» Premo il pulsante sul mio computer per accenderlo. «Non credo che provocherebbe le

lesioni che ho visto. Immagino che sarebbe come una ferita da arma da fuoco a contatto tranne che per l’abrasione causata dalla canna. Anche se, nel caso avessero usato un fucile subacqueo con un nanoesplosivo al posto della cartuccia, hai ragione, ci sarebbero lesioni termiche, ustioni in corrispondenza dell’ingresso e nei tessuti sottostanti. Immagino tu stia pensando che per trasportare nanoesplosivi potrebbe essere stato utilizzato un dispositivo simile a un flybot. È questo che temi stia facendo il presunto scienziato pazzo al quale accennavi?» «Un aggeggio per trasportare e far detonare nanoesplosivi. O anche veleni, sostanze tossiche. Come dicevo prima, un dispositivo del genere potrebbe fare qualsiasi cosa ci viene in mente.» «Bisogna che visioni i filmati dell’impianto di sicurezza in cui si vede il sangue che cola dal sacco mortuario.» Cerco un file nel mio computer. «Non devo per forza rivolgermi a Ron per questo, giusto?» Lucy viene dalla mia parte della scrivania e comincia a digitare sulla tastiera, immettendo la sua password di amministratore di sistema che le dà accesso a tutto il mio regno. «Facile come bere un bicchier d’acqua.» Preme su un tasto per aprire un file. «Nessuno può entrare nei miei file senza che tu te ne accorga, vero?» «Nel cyberspazio, no. Ma se qualcuno entra nel tuo spazio fisico io non posso saperlo, visto che non sono sempre qui. Anzi, non ci sono quasi mai, perché lavoro da remoto se appena posso» mi risponde. Io però non ci credo. Non del tutto. Secondo me, può saperlo eccome. «In ogni caso, non è possibile che qualcuno sia entrato nei tuoi file protetti da password» mi dice. A questo credo. Lucy non lo permetterebbe. «A proposito, puoi monitorare le telecamere di sicurezza da qualsiasi postazione. Anche dal tuo iPhone, se vuoi. Basta che tu abbia accesso a Internet. Questo l’ho trovato poco fa e l’ho salvato come file. Diciassette e quarantadue. L’ora in cui è stato filmato ieri, all’accettazione.» Clicca su PLAY e alza il volume. Vedo due inservienti con il giaccone invernale che spingono lungo il corridoio di piastrelle grigie del piano inferiore una lettiga su cui è posato un sacco mortuario nero. Sento il rumore delle ruote mentre portano la lettiga davanti alla cella frigorifera e poi vedo Janelle, cicciottella, aria da dura, capelli scuri tagliati corti e un numero sorprendente di tatuaggi. L’ha scelta e assunta Jack Fielding. Janelle apre la porta di acciaio inossidabile e sento la corrente d’aria. “Mettetelo lì...” Fa segno con un dito e noto che ha il giaccone scuro con la scritta SCIENTIFICA in giallo sulla schiena. È vestita come se tornasse da un sopralluogo esterno, con tanto di berretto del CFC. O è appena entrata o sta per uscire. “Quell’alloggiamento là?” chiede un inserviente sollevando il sacco insieme con il suo collega. Il sacco si piega e intuisco che il corpo all’interno è flessibile come se fosse ancora vivo. “Cazzo, perde. Porca troia. Speriamo che non avesse l’AIDS o roba del genere. Cazzo, mi è colato sui calzoni, sulle scarpe.”

“Quello là.” Janelle indica uno degli alloggiamenti della cella frigorifera e si fa da parte, incurante del fatto che dal sacco coli sangue sul pavimento. Forse non se n’è accorta. «Janelle la Magnifica» dice Lucy mentre il filmato si interrompe bruscamente. «Abbiamo il suo registro?» Voglio sapere a che ora è entrata e uscita Janelle. «Era lei l’investigatore medico legale di turno ieri pomeriggio, ovviamente.» «Domenica ha fatto il doppio turno: una lavoratrice indefessa» dice Lucy. «Ha coperto Randy, che avrebbe dovuto fare le sere, ma ha telefonato che era malato. Probabilmente si è preso il weekend per guardare il Super Bowl.» «Speriamo di no.» «Oggi non c’è per via del maltempo. Lavora da casa, dice. Non è male prendersi un SUV, tornare a casa e farsi pagare lo stesso.» Sento il disprezzo nella sua voce, glielo leggo negli occhi. «Immagino che ti dimostrerai comprensiva come sempre. Che troverai mille giustificazioni per tutti.» «Non trovo giustificazioni per te.» «Non ne hai bisogno.» Guardo sul video il registro di Janelle relativo alla giornata di ieri: non c’è scritto praticamente niente. «Non vorrei dire un’ovvietà, ma credo che tu non ti renda conto di quello che sta succedendo qui» continua Lucy. «Non hai il polso della situazione. Non puoi.» Torna dall’altra parte della scrivania e prende in mano la tazza, ma non si risiede. «Non ci sei. Non ci sei praticamente mai stata da che abbiamo aperto.» «Tutto qui? Non c’è altro su questo registro?» «No. Janelle è entrata alle quattro, sempre che vogliamo credere a quello che scrive sul registro.» Lucy resta in piedi e beve il caffè guardandomi in tralice. «Frequenta una bella compagnia, te lo dico io. Tecnici della Scientifica, poliziotti, amministrativi, impiegati, gente con cui può farsi bella. Sai che è in una squadra di dodgeball? Chi gioca a dodgeball? mi chiedo. Gente fina.» «Se è entrata alle quattro, perché nel filmato ha il giaccone e il berretto come se fosse appena arrivata da fuori?» «Te l’ho detto: non è che dobbiamo credere a tutto quello che scrive sul registro.» «E David, che era di turno prima di lei? Nemmeno lui ha risposto alle chiamate?» chiedo. «Jack avrebbe potuto mandare lui a Norton’s Woods. Era qui! Perché Jack non gli ha detto di andare sulla scena del crimine? È a un quarto d’ora da qui!» «Non hai il polso della situazione.» Lucy va nel bagno e sciacqua la tazza. «Non sai se David era qui» insiste. Torna e si piazza vicino alla porta. «Non mi piace dover essere io a dirtelo, però...» «Però sei l’unica che me lo dice. Gli altri non mi dicono niente» le faccio notare. «Cosa sta succedendo qui? Possibile che la gente venga a lavorare quando cavolo le pare?» «Possibile, sì. Medici legali e investigatori vanno e vengono come gli fa comodo. Se

chi sta sopra di loro non dà il buon esempio...» «Stai parlando di Jack?» «Questo per quanto riguarda il tuo settore. Nei laboratori è un’altra storia, perché lui non c’entra. A parte la balistica.» Si appoggia alla porta chiusa e si infila le mani nelle tasche del camice. «Dovrebbe fare le mie veci: è il vicedirettore del CFC-Port Mortuary.» Non riesco a dirlo in un tono neutro: sono scandalizzata. «I laboratori non gli interessano e i tecnici di laboratorio non sono interessati a lui. A parte quelli della balistica, come ti dicevo. Sappiamo che Jack Fielding ha la passione per le pistole, i coltelli, gli archi e le balestre. C’è un’arma che non gli piace? Quindi nel laboratorio di balistica bazzica e detta legge. E infatti neanche lì funziona più niente. Morrow è così incazzato che vuole dare le dimissioni. So che si sta cercando un altro lavoro. Non si spiega che non abbiano ancora finito con la Glock del morto. La storia del numero di serie cancellato. Merda. Jack stamattina ha preso e se n’è andato; se n’è fregato altamente di tutto.» «Come sarebbe “ha preso e se n’è andato”?» «L’ho visto che andava via in macchina mentre tornavo da Norton’s Woods, verso le dieci e mezzo.» «E gli hai parlato?» «No. Può darsi che non si sentisse bene. Non so, non capisco perché non si sia accertato che qualcuno portasse avanti le indagini sulla Glock. Basta metterci un po’ di acido, in fondo. Quanto ci vuole? Per lo meno provaci, no? È impossibile che non si sia reso conto che era importante...» «È possibile, invece» rispondo. «Se l’unico che gli ha parlato è stato l’investigatore di Cambridge, perché avrebbe dovuto pensare che la Glock era importante? A quel punto nessuno sospettava che fosse stato un omicidio.» «Sì, questo è vero. Morrow probabilmente non sa nemmeno che siamo venuti a prenderti e che sei tornata da Dover. Fielding è sparito pur sapendo benissimo che avevamo un problema grave e che la maggior parte delle persone dotate di un cervello gli avrebbe dato la colpa. Ha preso lui la telefonata riguardo al morto di Norton’s Woods, ma si è guardato bene dall’andare sul posto o dal mandarci qualcun altro. Il motivo per cui Janelle è vestita da Siberia, secondo me, è che non è entrata alle quattro, come ha scritto sul registro. È arrivata appena in tempo per accogliere quelli del trasporto e registrare l’arrivo del cadavere. Finito quello, ha preso e se n’è andata. Posso accertarlo, comunque, risalendo al momento in cui ha disabilitato l’allarme per entrare. Dipende tutto da te: ne vuoi fare un caso federale oppure no?» «Mi sorprende che Marino non mi abbia fatto partecipe della gravità della situazione.» Non riesco a dire altro. È come se dentro la mia testa si fossero spente tutte le luci. «È la storia di Pierino e il lupo» mi fa notare Lucy. È vero. Marino si lamenta talmente tanto, ha da ridire su talmente tante persone, che non lo sto quasi più a sentire. Siamo di nuovo alle mie responsabilità: non sono stata abbastanza

attenta. Non ho prestato abbastanza ascolto. Forse, se me lo avessero detto, non ci avrei creduto... «Ho delle cose da fare. Sai dove trovarmi se hai bisogno.» Lucy apre la porta, esce e non la richiude. Prendo il telefono e riprovo a chiamare Fielding a tutti i suoi numeri. Stavolta non lascio messaggi. Mi sorprende che al telefono di casa non risponda neanche sua moglie. Eppure dovrebbe vedere il numero sul display e capire che sono io. E se fosse proprio per questo che non risponde? Oppure sono andati fuori città, con tutta la famiglia? Di lunedì sera, sotto una bufera di neve, sapendo che sono tornata da Dover prima del tempo per occuparmi di un pasticcio? Esco, passo il pollice sul sensore per aprire la porta a destra della mia ed entro nell’ufficio del mio vice. Mi guardo in giro attentamente, come se fossi sulla scena di un crimine.

11 Gli ho scelto io l’ufficio, insistendo perché ne avesse uno bello e ampio come il mio, con la sua doccia personale e la vista sul fiume e sulla città. Ma le veneziane sono abbassate, cosa che trovo fastidiosa. Deve averle chiuse quando fuori c’era ancora luce e non capisco per quale motivo. Non un buon motivo, penso. Qualsiasi cosa abbia fatto Jack Fielding, tutto questo mi fa presagire il peggio. Faccio il giro della stanza, apro tutte le veneziane e, attraverso le grandi vetrate riflettenti grigie, intravedo le luci confuse del centro di Boston sotto la neve ghiacciata che scende implacabile, agitata da folate di vento gelido. Le cime dei grattacieli Prudential e Hancock sono nascoste e il vento ulula intorno alla cupola sopra la mia testa. Vedo le auto avanzare nella neve in Memorial Drive, numerose nonostante l’ora, e il fiume Charles nero e informe. Mi domando quanta neve sia scesa finora e quanta ne scenderà ancora prima che la perturbazione si sposti più a sud. Mi domando se Fielding tornerà mai più in questo ufficio, che ho progettato e arredato per lui, e ho la sensazione che no, non ci tornerà, benché non ci siano prove del fatto che se ne sia andato per sempre. La differenza principale tra i nostri due uffici è che il suo è pieno di oggetti personali, lauree, diplomi, certificati, encomi e ricordi di vario genere sugli scaffali: palle e mazze da baseball autografate, coppe e targhe di taekwondo, modellini di aerei da caccia e un pezzo di uno vero, che si è schiantato al suolo. Mi avvicino alla scrivania e osservo i suoi cimeli della Guerra civile: una fibbia, una gamella, una fiaschetta per la polvere da sparo e alcuni proiettili Minié. Ricordo che li collezionava in Virginia, nei primi tempi in cui lavoravamo insieme. Ma non ci sono fotografie, e questo mi mette tristezza. Deve averle tolte: noto gli spazi vuoti, i piccoli fori lasciati dai chiodi che Fielding ha staccato e non si è preoccupato di tappare. Mi fa male vedere che non tiene più appese foto che mi erano familiari, dei tempi del suo apprendistato: io e lui insieme in sala autopsie oppure sul luogo di un delitto anche con Marino, che allora dirigeva la Omicidi di Richmond. Era la fine degli anni Ottanta, i primi anni Novanta, quando io e Fielding eravamo agli esordi, sia pure ciascuno in maniera diversa. Lui era il bel medico all’inizio della carriera e io stavo passando al settore civile, cercando di non guardarmi indietro, neodirettrice dell’Istituto di medicina legale della Virginia. Forse anche Fielding sta cercando di non guardarsi indietro. Non capisco perché: il suo passato non è oscuro come il mio; lui non ha contribuito a insabbiare un crimine, non deve nascondere nulla di paragonabile. In realtà non lo so con certezza. E non posso fare a meno di domandarmi: di quante cose sono all’oscuro, ormai? So poco o niente, ma ho la sensazione che Fielding si sia sbarazzato di me, o forse di tutti quanti. Ha fatto piazza pulita, come mai prima. Ne sono convinta senza saperne esattamente il motivo. Di sicuro i suoi effetti personali sono ancora qui: l’impermeabile di Gore-Tex appeso a una gruccia, i cosciali in Neoprene, la sacca con l’attrezzatura da

sub e la valigetta con tutto l’occorrente per i sopralluoghi nell’armadio. Ha lasciato qui anche la collezione di stemmi ed emblemi militari e della polizia. Mi ricordo quando l’ho aiutato a trasferirsi in questa stanza. Abbiamo sistemato i mobili insieme, lamentandoci, ridendo e brontolando perché ci era toccato spostare più volte la scrivania e il tavolo da riunioni. “Cos’è, una comica di Stanllio e Ollio?” mi chiese. “Hai intenzione di spingere anche un mulo su per le scale?” “Non ci sono scale qui.” “Sto pensando di prendermi un cavallo” mi disse mentre cambiavamo per l’ennesima volta la disposizione delle sedie. “C’è un maneggio a un paio di chilometri da casa. Potrei tenerlo a pensione lì e magari venire a lavorare a cavallo, oppure usarlo per andare a fare i sopralluoghi.” “Lo aggiungerò nel regolamento interno: niente cavalli.” Scherzavamo e ci prendevamo in giro e quel giorno Fielding stava bene: era vitale e ottimista. Era un periodo in cui era in forma e aveva un fisico eccezionale, i muscoli possenti sotto le maniche corte del camice, il bel viso ancora da ragazzino. Quel giorno aveva un accenno di barba, i capelli biondo scuri scompigliati, era sexy e spiritoso. Ricordo i mormorii e le risatine delle impiegate quando passavano davanti alla sua porta aperta e cercavano una scusa per fermarsi a guardarlo. Fielding sembrava così felice di essere al CFC, con me. Ricordo che sistemammo le fotografie rievocando i vecchi tempi. Adesso quelle fotografie non ci sono più. Ce ne sono altre, che non conosco, disposte in grande evidenza sugli scaffali e alle pareti, ritratti formali insieme a politici e militari di alto grado. Ce n’è una con il generale Briggs e una con il capitano Avallone, forse scattata nel corso della sua visita al CFC. Fielding ha l’aria impacciata e annoiata. In una è ritratto con il kimono bianco da taekwondo, a mezz’aria, mentre sferra un calcio a un nemico immaginario con espressione rabbiosa. È rosso in viso e sembra pieno di odio. Osservando i ritratti di famiglia più recenti, decido che non sembra contento nemmeno in quelli, né con le due figlie in braccio né quando cinge la vita alla moglie Laura, una bionda diafana la cui bellezza si sta sgretolando, come se la sua vita non facile le stesse tracciando sul corpo una mappa di rughe e solchi su una topografia che un tempo era liscia e aggraziata. È la sua terza moglie e nella successione cronologica di quegli scatti vedo le tracce del declino del mio vice. Quando l’ha sposata, era energico e non soffriva né di eczema né di alopecia. Mi soffermo ad ammirare quanto era bello: a torso nudo e in pantaloncini da corsa, con un fisico marmoreo, intento a lavare la sua Mustang del ’67 rosso fiammante con le strisce di Le Mans al centro del cofano. Dall’autunno scorso ha messo su pancia, la pelle gli si è riempita di macchie e ha cominciato a lisciarsi i capelli all’indietro con il gel per nascondere l’alopecia. A una gara di arti marziali di nemmeno un mese fa, lo trovo poco allenato e poco equilibrato, nella sua divisa da cintura nera. Non sembra un uomo che trae gioia da una forma o da una tecnica impeccabili, rispettoso del prossimo, dotato di autocontrollo e capace di accettare il mondo. Ha un’aria da dissoluto.

Vagamente squilibrato. Del tutto infelice. “Perché?” chiedo silenziosamente alla foto precedente, quella con la sua amata automobile, in cui sembra vitale e spensierato, un uomo di cui innamorarsi, affidabile, su cui contare. “Che cosa è cambiato? Che cosa ti ha reso così infelice? Che cosa ti è successo?” Jack Fielding odia lavorare per me. Non lo sopportava a Watertown, dove non è rimasto a lungo, e non lo sopporta neanche adesso, al CFC. Anzi, è evidente che ora è peggio di prima. Ha cominciato ad avere quest’aria distrutta l’estate scorsa, quando abbiamo iniziato a lavorare anche sui civili. Io però non c’ero: sono tornata nel Massachusetts soltanto una volta all’inizio di settembre, in occasione del Labour Day. Non può essere colpa mia. È sempre stata colpa mia. Mi sono sempre sentita responsabile dei crolli di Fielding, che sono stati un numero incalcolabile. Io lo aiuto a rialzarsi e lui cade di nuovo, solo che ogni volta è peggiore della precedente, più brutta, più cruenta. Come un bambino che non sa camminare e inciampa di continuo. Ma io non mi rassegnerò finché lui non si farà male in maniera irreparabile. Sempre la stessa recita dall’esito scontato: così lo ha descritto Benton. Fielding non dovrebbe fare l’anatomopatologo e sono stata io a insistere perché lo diventasse. Sarebbe stato meglio che non mi avesse conosciuto, nella primavera del 1988, quando era incerto sul suo futuro e gli dissi che sapevo io cosa doveva fare. “Te lo faccio vedere io, te lo insegno io.” Se non fosse mai venuto a Richmond, se non mi avesse mai incontrato, forse avrebbe vissuto meglio, in maniera più rispondente ai suoi desideri. Avrebbe fatto il lavoro che voleva lui, la vita che voleva lui. Perché in ultima analisi la verità è questa: Jack Fielding cerca di dare il massimo in un ambiente che per lui è assolutamente distruttivo e a un certo punto non regge più e si scompensa, crolla. Allora si ricorda perché è diventato quello che è, e a causa di chi, e mi attribuisce un ruolo esagerato. La sua reazione a queste crisi è sempre la stessa. Scomparire. Di punto in bianco esce dagli schermi radar e a me tocca raccogliere i cocci: casi gestiti male o trascurati, appunti da cui risultano mancanza di controllo e scarsa capacità di giudizio, spiacevoli messaggi sulla segreteria telefonica lasciati lì apposta perché io li senta, e-mail e altre comunicazioni compromettenti che vuole che io trovi. Mi siedo sulla sua poltrona e comincio ad aprire cassetti. Non devo frugare a lungo. Sulla cartellina non c’è titolo. Contiene quattro fogli stampati alle 08.03 di ieri mattina, 8 febbraio, un discorso ufficiale tratto dalla sezione news del sito del Royal United Services Institute, o RUSI, un think-tank britannico con uffici satellite dislocati in maniera strategica in tutto il mondo. Da un centinaio di anni il RUSI si occupa di innovazione nel settore della sicurezza nazionale e internazionale. Non capisco perché interessasse a Fielding. Non riesco a immaginare il motivo per cui si sia stampato quel discorso di Russell Brown, ministro ombra della Difesa inglese, sull’attuale “dibattito sulla difesa”. Do una scorsa veloce ai non particolarmente sorprendenti commenti di questo parlamentare conservatore che sostiene non si debba dare per scontato che il Regno Unito rimarrà per sempre alleato degli Stati Uniti e lamenta che l’impatto economico della guerra è catastrofico. Brown allude ripetutamente a una sistematica

campagna di disinformazione, e detto da questo rispettabile parlamentare suona come un’accusa aperta. In sostanza, Brown imputa agli Stati Uniti di avere orchestrato l’invasione dell’Iraq e di avervi trascinato il Regno Unito. Si tratta di un discorso fortemente politico, e ciò non mi sorprende perché in questo periodo in Gran Bretagna tutto lo è, dato che fra tre mesi si terranno le elezioni. Verranno rinnovati seicentocinquanta seggi in Parlamento e uno dei temi principali della campagna elettorale è quello degli oltre diecimila militari britannici impegnati a combattere contro i talebani in Afghanistan. Fielding non è un militare, non gli è mai importato niente di politica estera né di elezioni, e non so perché debba essere sia pur minimamente interessato a ciò che sta succedendo nel Regno Unito. Non ricordo che ci sia nemmeno mai stato. Non è tipo da curarsi delle elezioni in quel paese, o del RUSI, o di think-tank in generale e, siccome lo conosco, so che voleva che io trovassi questa cartellina dopo l’ennesima delle sue sparizioni. Cosa vuole farmi sapere? Perché gli interessa il RUSI? E questo discorso su Internet, lo ha trovato lui o glielo ha mandato qualcun altro? E se gli è stato mandato, da chi? Prendo in considerazione di chiedere a Lucy di entrare nella posta elettronica di Fielding, ma non me la sento ancora di andarci con la mano così pesante e poi non voglio essere colta in flagrante. Potrei chiudere la porta a chiave, ma quell’opportunista del mio vice entrerebbe lo stesso, perché non credo che Ron, o chi per lui, riuscirebbe a trattenerlo nell’area di sicurezza, se mai si presentasse. Non penso che Ron, che poco fa è stato tutt’altro che gentile e non sembra rispettarmi particolarmente, lo fermerebbe o mi chiamerebbe per chiedermi il permesso di lasciarlo passare. Non mi fido del mio staff, non credo che i miei collaboratori siano leali o si fidino di me o ubbidiscano ai miei ordini, e Fielding potrebbe ripresentarsi in qualsiasi momento. Sarebbe proprio da lui sparire senza dire niente a nessuno e poi ripresentarsi altrettanto inaspettatamente, e non vorrei mai che mi sorprendesse seduta alla sua scrivania a curiosare nelle sue cose. Gli darei un argomento in più da usare contro di me e mi sembra che ne abbia già abbastanza. Che cosa ha combinato alle mie spalle? Decido di vedere che cos’altro riesco a trovare, prima di stabilire una linea di azione. Guardo di nuovo l’ora a cui è stato stampato il file e immagino Fielding seduto su questa stessa poltrona alle 08.03 di ieri mattina che lo stampava mentre Lucy, Marino, Anne, Ollie e chissà quanti altri erano agitatissimi per ciò che era successo nella cella frigorifera giù di sotto. Che strano che nel frattempo Fielding fosse qui, nel suo ufficio! Mi chiedo se lo preoccupasse l’idea che un uomo potesse essere stato chiuso in una cella frigorifera ancora vivo. Certo che lo preoccupava! Come avrebbe potuto restare indifferente? Se tale malaugurata ipotesi si fosse rivelata vera, la colpa sarebbe ricaduta su di lui. Io sarei finita su tutti i giornali e probabilmente avrei perso il posto, ma anche per lui sarebbe stata una tragedia. Eppure era qui nel suo ufficio, al settimo piano, come se ormai non potesse farci più niente. Mi viene il dubbio che la sua scomparsa sia legata a qualcos’altro. Mi appoggio allo schienale, mi guardo intorno e l’occhio mi cade sul

blocchetto e la biro vicino al telefono. Noto alcuni segni rimasti impressi sul primo foglio del taccuino. Accendo una lampada, prendo il blocchetto e lo guardo da diverse angolazioni, cercando di decifrare che cosa era stato scritto sul foglio sopra, poi strappato. Fielding calca molto quando scrive e non ha la mano leggera neanche quando maneggia un bisturi o digita sulla tastiera. Per essere un esperto di arti marziali, è sorprendentemente brutale, facile alla frustrazione e irascibile. Ha un modo infantile di tenere la penna e la matita, appoggiandovi sopra due dita, come se usasse le bacchette cinesi, e gli succede abbastanza spesso di rompere la mina o la punta della penna. Con gli evidenziatori, poi, è un disastro. Non mi servono sofisticate apparecchiature tipo ESDA o Docustat per leggere quei solchi rimasti sulla carta. Li vedo a occhio nudo sotto la luce obliqua e, anche se è a malapena leggibile, riconosco la scrittura di Fielding. Sono due appunti diversi. Uno è un numero di telefono con il prefisso 508 seguito dalle parole: “MVF8/18/UK Agenda Min Dif 2/8”. Il secondo dice: “U di Sheffield, oggi @ Whitehall. Over and out”. Guardo di nuovo, per essere sicura di aver letto bene le ultime tre parole: “Over and out”. “Passo e chiudo.” È la formula con cui si conclude una trasmissione radio, ma sono anche le parole di una canzone di una band heavy metal che Fielding ascoltava sempre in macchina nei primi tempi a Richmond. “Over and out / every dog has its day.” Prima o poi la fortuna gira. Me la cantava quando minacciava di andarsene, quando era stufo o quando, per scherzo, faceva finta di non voler più lavorare con me. Pensava a me quando ha scritto “over and out” su quel foglietto, o a cosa? Prendo un foglio a righe in un cassetto, ricopio gli appunti di Fielding e comincio ad arrovellarmi su che cosa stia cercando di dirmi. Mi conosce: sapeva che, se fossi venuta nel suo ufficio a curiosare, avrei trovato la stampa di quel discorso e l’impronta sul blocchetto. Ci avrà pensato sicuramente, perché sa come ragiono. L’università di Sheffield è uno dei principali istituti di ricerca al mondo e la sede del RUSI è a Whitehall, nell’ex Whitehall Palace, dove un tempo c’era il quartier generale di Scotland Yard. Entro in Intelliquest, un motore di ricerca che Lucy ha creato appositamente per il CFC, e digito “RUSI”, “8 febbraio” e “Whitehall”. Mi compare il titolo di un discorso ufficiale, Collaborazione civile-militare, che dev’essere la conferenza a cui si riferisce Fielding, tenutasi al RUSI alle dieci del mattino di ieri, ora di Londra, che per me erano le cinque. L’oratore era il dottor Liam Saltz, il controverso premio Nobel che, con le sue opinioni catastrofiste sulla tecnologia militare, è naturalmente nemico della DARPA. Non sapevo che insegnasse all’università di Sheffield. Pensavo che fosse a Berkeley. Leggo su Internet che un tempo era a Berkeley e adesso è a Sheffield e penso un po’ turbata alla mostra che io e Lucy abbiamo visitato alla Courtauld Gallery l’estate dell’11 settembre, dove abbiamo ascoltato una conferenza del dottor Saltz. Poco tempo dopo Saltz, come me, si pronunciò apertamente contro il MORT. Rifletto sul titolo della conferenza che ha tenuto meno di ventiquattr’ore fa:

Collaborazione civile-militare. Un titolo decisamente anodino per il polemico dottor Saltz, che è solito lanciare moniti stridenti come allarmi antiaerei sul fatto che gli oltre duecento miliardi di dollari stanziati dal governo americano per mettere a punto nuovi sistemi di combattimento – e in particolare veicoli robotizzati per usi militari – ci ha messo sulla strada dell’annientamento finale. Potrebbe anche sembrare ragionevole pensare di mandare robot sul campo di battaglia, sostiene Saltz con foga, ma che cosa succederà quando torneranno in patria, come le Jeep e gli altri residuati bellici? Prima o poi finiranno nel mondo civile, stupide macchine che ruberanno posti di lavoro agli esseri umani, ma in più saranno dotate di armi, telecamere e dispositivi di registrazione, e quindi saremo tutti più sorvegliati, più controllati. L’ho sentito al telegiornale descrivere scenari terrificanti in cui a intervenire sulla scena di un crimine sono robopoliziotti, e robo-pattuglie senza equipaggio inseguono e multano chi viola il codice stradale o addirittura effettuano arresti, ricevendo persino, attraverso appositi sensori, l’ordine di ricorrere alla forza. Robot capaci di colpire con lo storditore elettrico e di sparare, robot simili a enormi insetti che trascinano i nostri morti e i nostri feriti via dai campi di battaglia... Anche il dottor Saltz ha testimoniato davanti alla mia stessa commissione del Senato, ma in un momento diverso. Abbiamo entrambi messo i bastoni fra le ruote a un’azienda di alta tecnologia che si chiama Otwahl, di cui fino a poche ore fa avevo addirittura dimenticato l’esistenza. L’ho visto di persona solo una volta. Eravamo tutti e due alla CNN e lui mi puntò un dito contro esclamando in tono scherzoso: “Autobotsie!”. “Come, scusi?” dissi togliendomi il microfono mentre uscivo dal set e lui entrava. “Dispositivi robotizzati per autopsie virtuali. Un giorno o l’altro le porteranno via il lavoro, cara dottoressa. Forse più presto di quanto lei pensi. Posso invitarla a bere qualcosa dopo la trasmissione?” Era un uomo dagli occhi vivaci, un po’ hippie, con la lunga coda di cavallo brizzolata e la faccia distrutta, ed emanava energia come un filo elettrico scoperto. Questo è avvenuto due anni fa. Avrei dovuto accettare l’invito e aspettarlo, lì alla CNN. Avrei dovuto bere qualcosa con lui. Avrei dovuto informarmi meglio, perché le sue opinioni non sono del tutto folli. Da allora non l’ho più visto, anche se è impossibile ignorare la sua presenza sui media, e cerco di ricordare se per qualche motivo l’ho mai nominato parlando con Fielding. Mi sembra di no. Non vedo perché avrei dovuto. Qual è il nesso? Faccio ancora qualche ricerca. L’università di Sheffield nel South Yorkshire ha un’ottima facoltà di Medicina, questo già lo so, il cui motto è: “Rerum cognoscere causas”, “scoprire le cause delle cose”. Quanto è azzeccato e ironico: ho bisogno di sapere le cause. Clicco sulla voce “Attività di ricerca”. Riscaldamento globale, erosione globale del suolo, ripensare l’ingegneria con software avanzati, modificazioni del DNA e cellule staminali embrionali umane. Torno agli appunti impressi sul blocchetto delle telefonate. “MVF8/18/UK Agenda Min Dif 2/8.” MVF potrebbe essere l’acronimo che usiamo per indicare gli incidenti stradali mortali,

Motor Vehicle Fatality, e questa intuizione mi induce a fare un’altra ricerca nel database del CFC. Digito “MVF” e la data, “8/18”. Trovo un documento del 18 agosto dell’estate scorsa che si riferisce a un cittadino britannico ventenne, Damien Patten, morto su un taxi in un incidente stradale a Boston. Non fu Fielding a eseguire l’autopsia, ma un altro dei miei anatomopatologi, e nel resoconto dell’incidente noto che Damien Patten era un caporale del 14° reggimento Segnalatori in congedo ed era venuto a Boston per sposarsi, quando è deceduto. Ho una strana sensazione. C’è qualcosa che mi disturba. Lancio un’altra ricerca con le parole chiave “8 febbraio” e “agenda ministero Difesa UK”. Finisco nell’area news del ministero della Difesa britannico, nel bollettino dove sono elencati i militari britannici morti in Afghanistan ieri. Scorro la lista delle vittime per vedere se c’è qualcosa che mi colpisce. Un caporale del 1° battaglione Coldstream Guards. Un sergente del 1° battaglione Granatieri. Un soldato semplice del 2° battaglione del reggimento Duca di Lancaster. Poi c’è un geniere che faceva parte della task force contro gli ordigni esplosivi improvvisati ed è rimasto ucciso in una zona montuosa dell’Afghanistan nordoccidentale. Nella provincia di Badghis. La stessa provincia dove domenica 7 febbraio è stato ucciso il soldato di prima classe Peter Gabriel. Faccio un’altra ricerca, anche se so già, senza bisogno di controllare, quanti militari NATO sono morti in Afghanistan il 7 febbraio. A Dover lo sappiamo sempre. Fa parte della routine esattamente come prepararsi per una tempesta annunciata dai meteorologi; è un’informazione morbosa in modo deprimente, che determina la nostra vita. Nove vittime, di cui quattro americani uccisi dallo stesso ordigno esplosivo che ha trasformato in una fornace l’Humvee del soldato Gabriel. Ma questo è successo il 7, non l’8. Mi viene in mente che il soldato britannico deceduto l’8 febbraio potrebbe essere rimasto ferito il giorno prima. Controllo ed è effettivamente così. Il geniere Geoffrey Miller, ventitré anni, sposato da poco, è rimasto ferito in un’esplosione avvenuta lungo una strada nella provincia di Badghis nelle prime ore di domenica, ma è morto il giorno successivo in un ospedale militare in Germania. Potrebbe trattarsi dello stesso attentato del quale ci siamo occupati a Dover ieri mattina. Anzi, è molto probabile. Mi domando se il geniere Miller e il soldato Gabriel si conoscessero e se avessero qualche rapporto con Damien Patten, il cittadino britannico morto in un incidente stradale a Boston. Patten conosceva Miller e Gabriel? E che cosa c’entrano in tutto questo Jack Fielding, il dottor Saltz, il MORT e l’uomo di Norton’s Woods, sempre che ci sia un legame fra tutti loro? Leggo che il cadavere di Miller verrà rimpatriato giovedì e restituito alla sua famiglia a Oxford, in Inghilterra, ma non trovo altro. Posso sicuramente procurarmi ulteriori informazioni su un soldato britannico ucciso, se necessario. Posso telefonare all’addetto stampa, Rockman. Posso telefonare a Briggs che mi ha chiesto, anzi, mi ha ordinato, di tenerlo aggiornato sul caso di Norton’s Woods e di chiamarlo a qualunque ora, appena so qualcosa. Ma non lo farò, assolutamente no, e soprattutto non adesso. Perché non so di chi mi posso fidare. Mentre rifletto su questo, mi rendo conto della gravità della

situazione in cui mi trovo. Che cosa significa non poter chiedere aiuto alle persone con cui si lavora? Mi sento morire. È come se il terreno mi si spalancasse sotto i piedi e io stessi precipitando verso l’ignoto, in uno spazio freddo, vuoto e senza luce dove sono già stata. Briggs voleva aggirarmi, scavalcarmi e trasferire a Dover il caso di Norton’s Woods. Durante la mia assenza Fielding ha ficcato il naso qua e là e si è immischiato in faccende che non lo riguardano, ha addirittura usato il mio ufficio e adesso mi evita. Spero che si tratti solo di questo, per lo meno. I miei collaboratori si stanno ammutinando e un numero imprecisato di persone a me del tutto estranee sembra essere a conoscenza dei particolari del mio ritorno a casa. Sono quasi le due di notte e sono tentata di provare a fare il numero di telefono che Fielding si è appuntato sul blocchetto e cogliere di sorpresa chi mi risponderà, svegliarlo e magari riuscire a scoprire qualcosa su ciò che sta succedendo. Invece faccio, più educatamente, una ricerca al computer per vedere a chi o a cosa corrisponde quel numero con prefisso 508. Il risultato mi lascia scioccata. Per un attimo resto seduta immobile e tento di calmarmi. Cerco di respingere l’ondata di sgomento e di confusione da cui mi sento assalire. Julia Gabriel, la madre del soldato di prima classe Gabriel. Ho davanti, sullo schermo, il suo indirizzo di casa e del lavoro, il suo stato civile, il reddito di farmacista a Worcester, nel Massachusetts, e il nome e l’età del suo unico figlio, morto diciannovenne in Afghanistan domenica scorsa. Sono stata al telefono con lei quasi un’ora prima di fare l’autopsia al figlio, a cercare di spiegarle in modo gentile che era impossibile prelevare il suo sperma. Lei ha alzato la voce e mi ha accusato fra le lacrime di fare ignobili favoritismi, cosa che io non ho fatto né mai farei. Prelevare liquido seminale dai morti e usarlo per inseminare i vivi non è una procedura che mi susciti un dilemma morale. Non ho opinioni personali su quella che è di fatto una questione medica e legale, non religiosa o etica, una scelta che dovrebbe spettare ai diretti interessati, non agli operatori sanitari. Quello che mi importa è che questa procedura, diventata sempre più comune a causa della guerra, venga eseguita correttamente e secondo la legge. Comunque la pensassi io, la fecondazione post mortem sarebbe stata in ogni caso fuori discussione per il soldato Gabriel. Il suo corpo era gravemente ustionato e ormai in via di decomposizione, il bacino così bruciato che dello scroto e del dotto deferente che contiene il liquido seminale non restava praticamente più nulla. Alla signora Gabriel però ho preferito non dirlo. Sono stata il più comprensiva e delicata possibile e non me la sono presa quando ha sfogato il suo dolore e la sua rabbia contro l’ultimo medico con cui suo figlio abbia avuto a che fare su questa terra. Peter aveva una ragazza che era disposta ad avere un figlio da lui, esattamente come era successo al suo amico. Era un patto che avevano fatto, mi ha spiegato, benché io non avessi idea di chi fosse questo suo amico, o di che cosa stesse parlando. Pare che costui avesse parlato a Peter di un altro amico, morto a Boston il giorno delle nozze l’estate

prima. La signora Gabriel non mi ha fatto il nome di Damien Patten, il cittadino britannico deceduto in un incidente stradale lo scorso 18 agosto. “E adesso sono morti tutti e tre. Tre bei ragazzi giovani, tutti e tre morti” mi ha detto al telefono, e io non avevo idea di chi stesse parlando. Ora però credo di saperlo. Credo che l’amico dell’amico con il quale il soldato Gabriel aveva stretto una sorta di patto fosse Patten e mi domando se il terzo non fosse Geoffrey Miller, il geniere della task force contro gli ordigni esplosivi improvvisati, verso cui sembra avermi condotto Fielding. “Adesso sono morti tutti e tre.” Possibile che Fielding abbia parlato del caso Patten con la signora Gabriel? E lei con chi ha parlato per primo, con Fielding o con me? Mi ha telefonato a Dover verso le otto meno un quarto. Io prendo sempre nota delle chiamate che ricevo e ricordo di essermi scritta l’ora, seduta nel mio piccolo ufficio al Port Mortuary di Dover, mentre guardavo le TAC con le coordinate che mi avrebbero aiutato a individuare con la precisione di un GPS i frammenti penetrati nel corpo gravemente ustionato di suo figlio. In base a quello che la signora mi ha detto e che ora cerco di ricostruire, mi sembra probabile che abbia parlato prima con Fielding e poi con me. Questo potrebbe spiegare perché ha fatto più volte riferimento ad “altri casi”. Qualcuno le aveva messo in testa delle idee. La signora Gabriel aveva la netta sensazione che preleviamo di routine liquido seminale ai morti e addirittura incoraggiamo questa pratica. Io mi sono stupita, perché invece è una procedura complicata dal punto di vista legale, che richiede varie autorizzazioni. Non riuscivo a immaginare chi potesse averle messo in testa un’idea simile e gliel’avrei anche chiesto se me ne avesse dato l’opportunità. Purtroppo, invece, mi ha investito di critiche e insulti, senza darmi modo di parlare. Bisognava essere dei mostri di perfidia per impedire alla fidanzata di un povero ragazzo morto in guerra di avere un figlio da lui e alla sua povera madre di diventare nonna... “Perché tutti gli altri sì e lui no?” mi ha chiesto fra le lacrime. “Non mi resta più nessuno” ha detto piangendo. “Questa è una burocrazia di merda, lo ammetta” ha gridato. “Tutte balle per mascherare l’ennesima discriminazione razziale!” «C’è qualcuno?» Sulla soglia c’è Benton. La signora Gabriel mi ha definito una “militare intollerante”. “Fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi, ma solo se sono bianchi” mi ha detto. “Lei non segue la regola aurea, ma la regola dei bianchi” ha aggiunto. “Non avete fatto storie per quell’altro ragazzo morto a Boston, che non era nemmeno un soldato americano, ma per mio figlio, che pure è morto per il suo paese, sì. Solo perché mio figlio era del colore sbagliato” ha continuato. Io non capivo che cosa intendesse o su cosa basasse questa sua accusa e non mi sono neanche sforzata di capirlo perché mi sembrava in preda a una crisi isterica e l’ho perdonata subito. Anche se la cosa mi ha fatto soffrire e non sono riuscita a smettere di pensarci. «Posso?» Benton sta entrando nella stanza. “È l’ennesimo caso di discriminazione razziale, ma questa volta verrà fuori, e quelli

come lei non meritano nulla.” La signora Gabriel non mi ha spiegato che cosa intendeva quando ha detto una cosa così terribile. Ma io non le ho fatto domande in proposito e non ho dato molto credito alle sue invettive perché sono abituata a sentirmene dire di tutti i colori, a sentirmi insultare, maledire, minacciare e a essere aggredita da persone che normalmente sono civilissime e sane di mente. Se negli istituti di medicina legale ci sono i vetri antiproiettile, non è certo per paura che i morti diano in escandescenze. «Kay?» I miei occhi mettono a fuoco Benton con due tazze di caffè in mano, che cerca di non rovesciarle. Perché Julia Gabriel avrebbe dovuto telefonare qui prima di chiamare me a Dover? O è stato Fielding a contattarla? E, in un caso o nell’altro, perché le avrebbe parlato? Poi mi viene in mente che Marino mi ha detto che il soldato Gabriel è stato il primo caduto in guerra di Worcester e che i media hanno telefonato al CFC come se il cadavere dovesse essere qui invece che a Dover. Secondo lui, sono arrivate molte chiamate al CFC per il morto del Massachusetts. Forse è così che Fielding lo è venuto a sapere. Ma perché avrebbe dovuto parlare al telefono con la signora Gabriel, supposto che lei avesse chiamato qui per sbaglio, ignorando che il figlio era a Dover? Ma come poteva non sapere che suo figlio era stato rimpatriato? Non vedo alcun motivo legittimo per cui Fielding avrebbe dovuto parlare con la signora Gabriel, né ho idea di che cosa possa averle detto di utile e non mi capacito di come abbia osato fare una cosa simile. Fielding non è un militare, non è neppure un consulente dell’AFME. È un civile e non ha alcun diritto di immischiarsi in faccende che riguardano vittime di guerra o sicurezza nazionale, o di affrontare questioni altamente riservate. L’intelligence militare e medica non lo riguarda, come non lo riguardano il RUSI e le elezioni in Gran Bretagna. Le uniche cose che gli dovrebbero interessare sono proprio quelle che ha palesemente trascurato, ovvero la sua posizione di grande responsabilità qui al CFC e la sua lealtà nei miei confronti. «Che gentile» dico a Benton in tono distaccato. «Avevo proprio voglia di un caffè.» «Dov’eri un attimo fa? Sembravi impegnata in un litigio immaginario. Hai una faccia! Sembra che tu stia per uccidere qualcuno.» Benton si avvicina alla scrivania e mi guarda come fa sempre quando cerca di leggermi nel pensiero perché non si fida di quello che gli dico. O forse sa che quello che sto per dirgli è solo l’inizio e che non ho idea di cosa verrà dopo. «Tutto bene?» Posa i caffè sulla scrivania e avvicina una sedia. «No, non sto bene.» «Cosa c’è che non va?» «Credo di avere appena capito che cosa significa raggiungere la massa critica.» «Quel è il problema?» domanda lui. «Tutto.»

12 «Chiudi la porta, per piacere.» Mi rendo conto che sto cominciando a comportarmi come Lucy. «Non so da che parte iniziare. Ci sono talmente tanti problemi!» Mentre Benton chiude la porta, guardo la semplice vera di platino che porta all’anulare sinistro. A volte mi sorprendo ancora del fatto che ci siamo sposati: tanta parte della nostra vita è stata assorbita l’uno dall’altra, sia quando eravamo insieme sia quando eravamo lontani, e siamo sempre stati d’accordo sul fatto che non c’era bisogno di ufficializzare la nostra unione, di renderla formale, perché noi non siamo come gli altri. Poi però l’abbiamo fatto comunque. La cerimonia è stata breve, semplice, più una promessa che una celebrazione, perché quando abbiamo detto “finché morte non ci separi” lo intendevamo veramente. Dopo tutto quello che avevamo passato, per noi non erano solo parole, ma qualcosa di molto simile a un solenne giuramento, un’ordinazione, o forse una sintesi di ciò che avevamo già vissuto. Mi chiedo se Benton non abbia mai rimpianti. Per esempio, in questo momento non preferirebbe tornare com’era prima? Non potrei biasimarlo se gli pesassero le rinunce che ha fatto e le complicazioni che gli causo io... Ha venduto la vecchia casa di famiglia, un elegante palazzo in arenaria di fine Ottocento con vista sul Boston Common, e non possono essergli piaciuti alcuni posti in cui abbiamo vissuto o soggiornato a causa della mia professione e dei miei impegni inconsueti, questa vita caotica e dispendiosa malgrado le mie migliori intenzioni. Mentre la sua attività di psicologo forense è rimasta stabile, la mia carriera in questi ultimi anni è stata molto movimentata, con la chiusura prima della mia attività privata a Charleston, nel South Carolina, poi dell’ufficio di Watertown a causa della crisi economica, e poi New York, Washington, Dover, fino al CFC. «Che cosa diavolo sta succedendo in questo centro?» gli chiedo come se lui lo sapesse. Non capisco perché dovrebbe, eppure ho la sensazione che lo sappia davvero, o forse me lo auguro, visto che sto cominciando a sentirmi disperata, a provare una sensazione di panico come se stessi cadendo nel vuoto e mi sbracciassi in cerca di un appiglio. «Nero ed extraforte.» Benton si siede e spinge verso di me la tazza di caffè. «Non alla nocciola. Anche se ne hai un bel po’ di capsule, a quanto so.» «Jack non si è ancora fatto vivo. Nessuno ha sue notizie, presumo.» «Be’, qui non c’è. Penso che tu possa stare tranquillamente nel suo ufficio quanto lui è stato nel tuo.» Lo dice in tono allusivo, come se le sue parole avessero più di un significato. Noto com’è vestito. Prima aveva il cappotto pesante e nella sala radiografie un camice usa e getta, che si è tolto prima di salire nel laboratorio di Lucy. Non mi ero accorta di che cosa avesse sotto tutti quegli strati. Stivali tattici neri, pantaloni tattici neri, camicia di flanella bordeaux, orologio subacqueo di plastica con il quadrante fosforescente. Come se prevedesse di dover stare all’aperto con il brutto tempo o di andare da qualche parte dove gli si possano rovinare i vestiti.

«Allora Lucy ti ha detto che sembra che Jack abbia usato il mio ufficio?» domando. «Non so a quale scopo. Ma forse tu lo sai.» «Non c’è bisogno che qualcuno mi dica che c’è una mentalità da sciacalli in questo posto che Marino chiama... CentCom? O vale soltanto per il sancta sanctorum, o quello che è considerato tale, ovvero il tuo ufficio? Quando una nave è senza capitano, sai benissimo cosa succede: i topi ballano, i matti dirigono il manicomio, gli ubriaconi servono da bere e... Spero di essere stato chiaro, pur avendo mescolato varie metafore.» «Perché non mi hai detto niente?» «Io non lavoro al CFC, o per il CFC. Sono soltanto un ospite che viene invitato occasionalmente.» «Questa non è una risposta e lo sai benissimo. Perché non mi hai protetto?» «Intendi dire che non ti ho protetto come secondo te avrei dovuto?» ribatte, perché è una sciocchezza insinuare che non mi abbia voluto proteggere. «Che cosa è successo qui dentro mentre io non c’ero? Forse, se me lo dici, capisco che cosa devo fare» dico allora. «So che Lucy ti ha aggiornato. Sarebbe carino se qualcuno aggiornasse anche me. Fin nei minimi dettagli e con sincerità, in piena trasparenza.» «Mi dispiace che tu sia arrabbiata. Mi dispiace che al tuo ritorno tu abbia trovato una situazione così sgradevole. Il tuo rientro avrebbe dovuto essere gioioso.» «Gioioso? Cosa diavolo significa “gioioso”?» «È una parola, un concetto teorico, come quello di piena trasparenza. Posso riferirti episodi a cui ho assistito di persona, cose successe quando sono venuto qui per qualche riunione di lavoro. Ci sono stati due casi a cui ho lavorato anch’io.» Guarda nel vuoto. «Il primo è stato quello del giocatore di football del Boston College, l’autunno scorso, poco dopo che il CFC ha cominciato a occuparsi di casi civili.» Wally Jamison, vent’anni, bravissimo quarterback del Boston College, trovato morto nelle acque del porto di Boston il 1° novembre all’alba. Causa del decesso: dissanguamento dovuto a lesioni da corpo contundente e ferite da taglio multiple. Un caso di Tom Booker, uno dei miei anatomopatologi. «Non è stato Jack a occuparsene» gli ricordo. «Be’, se lo chiedi a lui, potresti ricavarne un’impressione diversa» mi informa Benton. «Jack ha rivisto il caso Wally Jamison come se fosse suo. Il dottor Booker non c’era. Questo è successo la settimana scorsa.» «Perché la settimana scorsa? Io non ne so niente.» «Nuove informazioni, e noi volevamo parlarne con Jack, che sembrava molto desideroso di collaborare, di fornirci un sacco di informazioni.» «“Noi”?» Benton prende in mano la tazza del caffè, poi cambia idea e la posa di nuovo sulla scrivania disordinata, ingombra degli oggetti di cui si circonda Fielding. «L’atteggiamento di Jack è stato: “Okay, l’autopsia non l’ho fatta io, ma solo per una formalità”. Un giocatore della NFL era l’ideale per quel fanatico dello sport del tuo vice.»

«“Fanatico dello sport”?» «Per sua sfortuna, era fuori città quando Wally Jamison è stato massacrato di botte e preso a coltellate. Ma Wally è stato ancora più sfortunato.» Presumibilmente è stato sequestrato e ucciso la sera di Halloween. Non si sa dove, non si sa da chi e non si sa perché. Si è parlato di una presunta iniziazione a una setta satanica ai danni di uno sportivo famoso, tenuto in ostaggio in un luogo segreto e ucciso brutalmente. Sono solo chiacchiere apparse su Internet e sui media. Pettegolezzi che con il tempo diventano vangelo. «Non me ne frega un tubo di quello che pensa Jack o di quanto sarebbe stato contento di fare l’autopsia a un campione» dice una parte di me, indurita ed esasperata, stufa e arcistufa di Jack Fielding. Mi rendo conto di essere arrabbiatissima con lui. Tutto a un tratto mi accorgo che al cuore del mio malsano rapporto con Jack c’è un’ira incontenibile. «E poi Mark Bishop. Anche questo la settimana scorsa» dice Benton. «Mercoledì il giocatore di football, giovedì il bambino.» «Anche nel suo caso si è parlato di un rito di iniziazione. Di una banda, o una setta» intervengo. «Si è ipotizzato uno scenario molto simile.» «“Ipotizzare” è il verbo giusto. Ma chi è che l’ha ipotizzato?» «Io no.» Penso con rabbia a Fielding. «Io non faccio ipotesi, se non a porte chiuse e con persone di mia fiducia. So che non bisogna esprimere eventualità che poi la polizia magari prende sul serio, finiscono su tutti i giornali e influenzano le giurie.» «Ci sono analogie e parallelismi.» «Stai collegando Mark Bishop e Wally Jamison.» Mi sembra incredibile. «Non vedo che cosa abbiano in comune, di concreto.» «La settimana scorsa sono stato qui per consulenze su entrambi i casi.» Lo sguardo di Benton è fisso su di me. «Dov’era Jack lo scorso Halloween? Tu lo sai? Lo sai con certezza?» «Con certezza so solo dov’ero io. Ero a Dover e non ero tenuta a sapere altro. Non ho assunto Jack per fargli da baby-sitter, giusto? Non ho idea di dove fosse il giorno di Halloween. Immagino che ora mi dirai che non ha accompagnato le figlie in giro per il vicinato per il classico “dolcetto o scherzetto”.» «Era a Salem, ma non con le figlie.» «Non lo sapevo e non capisco come mai tu lo sappia né perché sia importante.» «Fino a pochissimo tempo fa non lo era» replica Benton. Gli guardo di nuovo gli stivali, poi i calzoni scuri foderati di flanella con tasche laterali e sul retro per caricatori e torce elettriche, pantaloni da lavoro sul campo che Benton usa per i sopralluoghi oppure per andare al poligono di tiro o al centro artificieri, quando lavora con polizia o FBI. «Dove sei stato prima di venirmi a prendere a Hanscom?» gli chiedo. «Che cosa hai fatto?» «Abbiamo un sacco di roba per le mani, Kay. Più di quanto pensassi, temo.»

«Eri già vestito così quando sei venuto a prendermi all’aeroporto?» Mi viene in mente che forse si è cambiato dopo, per fare qualcosa, per andare da qualche parte. «Tengo una borsa con un cambio di vestiti in macchina, lo sai» dice Benton. «Perché non so mai quando mi possono chiamare.» «Per andare dove? Ti hanno chiamato per andare da qualche parte?» Mi guarda, poi guarda fuori dalla finestra lo skyline di Boston nella notte nevosa. «Lucy ha detto che eri al telefono.» Continuo a sondarlo per avere informazioni che chiaramente non otterrò adesso. «Sono molto preoccupato. Temo che ci sia più di quanto pensassi» ripete, ma poi non continua. Non penso che dirà altro. Sta per andare da qualche parte; ha un impegno. Non dev’essere una bella cosa. Ha parlato con qualcuno di qualcosa di brutto e per il momento non ha intenzione di aggiornarmi. Piena trasparenza e gioia. Quando succede così, è solo un accenno, un assaggio di quello che potrebbe essere fra noi, ma non è. «Vi siete visti mercoledì e anche giovedì per parlare delle indagini su Wally Jamison e Mark Bishop. Qui al CFC.» Torno sull’argomento. «E immagino che Jack abbia presenziato anche alla riunione sul caso Bishop. Ha partecipato a entrambi gli incontri. E tu non mi hai detto niente, poco fa, quando parlavamo in macchina.» «Non proprio poco fa. Sono passate più di cinque ore, in cui sono successe un sacco di cose. Ci sono stati degli sviluppi da quando eravamo in macchina, come sai. Non ultimo, quello che adesso sappiamo per certo essere un altro omicidio. Il terzo.» «Stai dicendo che c’è un collegamento fra il morto di Norton’s Woods, Mark Bishop e Wally Jamison.» «Sì, è possibilissimo che ci sia un collegamento fra le tre morti.» «E le riunioni della settimana scorsa? Con Jack? C’era anche lui» insisto. «Sì. Mercoledì e giovedì scorso. Nel tuo ufficio.» «Come sarebbe a dire nel mio ufficio? Qui al CFC? A questo stesso piano?» «Nel tuo ufficio.» Benton indica la stanza accanto a quella dove ci troviamo. «Nel mio ufficio. Jack ha indetto riunioni nel mio ufficio. Ho capito.» «Ha indetto entrambe le riunioni nel tuo ufficio. Ci siamo seduti al tuo tavolo riunioni.» «Ne ha uno anche lui.» Guardo il tavolo ovale nero laccato con sei poltroncine ergonomiche che ho comprato a un’asta pubblica. Benton non reagisce. Anche lui sa benissimo che la poco corretta decisione di Fielding di usare il mio ufficio non ha nulla a che fare con l’arredamento. Penso a Lucy, a quando ha detto di aver controllato che nel mio ufficio non ci fossero dispositivi di intercettazione nascosti, senza dire apertamente che forse qualcuno mi stava spiando né chi poteva essere. Se c’è qualcuno che può mettere microspie nel mio ufficio senza farsene accorgere, è proprio mia nipote. Magari ce le ha messe perché Fielding si stava appropriando di cose non sue. Mi domando se ciò che è successo nel mio spazio privato durante la mia assenza è stato registrato di nascosto. «E tu non mi hai detto niente» continuo. «Avresti potuto dirmelo quando è successo.

Avresti potuto informarmi che Jack stava usando il mio ufficio, come se fosse lui il capo e il direttore di questo posto, cazzo!» «L’ho saputo soltanto la settimana scorsa, quando ho partecipato alla riunione. Non che non avessi sentito delle voci.» «Sarebbe stato utile che anch’io venissi informata di queste voci.» «Voci di corridoio. Pettegolezzi. Non ero ancora sicuro.» «Allora avresti dovuto dirmelo la settimana scorsa, quando ne hai avuto la certezza. Mercoledì sei venuto qui e hai scoperto che la riunione si teneva nel mio ufficio, in un ufficio che Jack non aveva il permesso di usare. Che cos’altro non mi hai detto? Quali sono questi nuovi sviluppi?» «Ti sto dicendo tutto quello che posso, appena posso. So che capisci.» «No, non capisco. Avresti dovuto parlarmene subito. Questo vale anche per Lucy e per Marino.» «Non è così semplice.» «Tradire, invece, è semplicissimo.» «Non ti abbiamo tradito né io, né Marino, né Lucy.» «Ma qualcun altro sì. È questo che mi stai dicendo?» Benton tace. «Io e te ci sentiamo tutti i giorni, Benton. Avresti dovuto dirmelo» insisto. «Vediamo un po’: quand’è che avrei potuto darti questa brutta notizia, o altre brutte notizie, mentre eri a Dover? Quando telefonavi alle cinque del mattino prima di andare a occuparti dei nostri eroi caduti in guerra? O a mezzanotte, quando finalmente spegnevi il computer o smettevi di studiare?» Non lo dice in tono sgarbato o difensivo, ma capisco cosa intende. Non ha tutti i torti. Sono ingiusta. Sono ipocrita. In fondo sono io a non voler parlare di lavoro o di piccolezze domestiche quando abbiamo poco tempo da dedicare l’uno all’altra, perché altrimenti finiamo per non parlare del resto. È un cancro. Avanzo prontamente analogie mediche e intuizioni brillanti quando lo psicologo è lui: è lui che dirigeva l’unità di analisi comportamentale dell’FBI a Quantico, è lui che insegna al dipartimento di Psichiatria di Harvard. Ma sono io la saggia, quella che fa gli esempi illuminanti, che paragona il lavoro, i dettagli insignificanti della vita domestica e le ferite emotive ai tumori, alle cicatrici, alla necrosi, e sono io a pronosticare che, se non stiamo attenti, un giorno o l’altro non rimarrà più abbastanza tessuto sano e seguirà la morte. Mi vergogno. Mi sento superficiale. «No, non ho affrontato certi argomenti in macchina venendo qui. Ma adesso ti sto dicendo di più. Ti sto dicendo tutto quello che posso.» Benton parla con calmo stoicismo, come se io fossi una sua paziente, come se da un momento all’altro stesse per annunciarmi che la seduta è terminata. Ma io non ho intenzione di terminare niente finché non saprò quello che c’è da sapere. Ci sono cose che Benton mi deve dire, non solo perché è giusto che io le sappia, ma perché è una questione di sopravvivenza. Mi rendo conto di dubitare di Benton come se

non lo conoscessi più. È mio marito, ma mi viene il dubbio che sia cambiato qualcosa, che alla specialità della casa sia stato aggiunto un ingrediente nuovo. Che cos’è? Mi concentro su questa mia intuizione, come se potessi riconoscere dal sapore che cosa è cambiato. «Ho accennato al mio timore che l’interpretazione che Jack ha dato delle ferite di Mark Bishop presenti dei problemi» continua Benton, cauto. Soppesa ogni parola come se dovesse riferire la nostra conversazione a qualcun altro, o se qualcuno ci stesse ascoltando. «Insomma, in base alle tue considerazioni sui segni presenti sulla testa del bambino, l’interpretazione di Jack è completamente sbagliata. Lo sospettavo già quando ha rivisto il caso con noi. Ho avuto il dubbio che mentisse.» «“Con noi”?» «Te l’ho detto che mi sono arrivate delle voci, ma sinceramente non ho visto spesso Jack.» «Perché dici “sinceramente”? Perché tutto il resto lo dici insinceramente?» «Io sono sempre sincero con te, Kay.» «No, invece. Ma non è il momento di parlare di questo.» «Infatti. So che mi capisci.» Regge il mio sguardo a lungo. Mi sta chiedendo di lasciar perdere, per favore. «D’accordo, scusa.» Lascio perdere, ma a malincuore. «Non lo vedevo da mesi e sono rimasto un po’... Insomma, durante quelle riunioni la settimana scorsa era evidente che c’era qualcosa che non andava, che stava male» riprende Benton. «Aveva una brutta cera, divagava, era logorroico, megalomane, ipomaniacale, aggressivo, paonazzo, come se stesse per esplodere. Ho avuto la netta sensazione che mentisse, che ci stesse deliberatamente fuorviando.» «Perché parli al plurale? A chi ti riferisci?» E comincio a capire i segnali che sto captando. «È mai stato ricoverato in un ospedale psichiatrico, è mai stato in terapia? Gli è mai stato diagnosticato un disturbo dell’umore? Te lo ha mai accennato?» Benton mi interroga in un modo che trovo sorprendente e fastidioso e provo di nuovo la stessa sensazione che ho avvertito prima in macchina, solo che adesso è più netta, più riconoscibile. Benton si sta comportando come quando era all’FBI, quando il suo compito era far rispettare la legge per conto del governo federale. Percepisco in lui un’autorevolezza e una baldanza che non manifestava da anni, una determinazione che gli mancava da quando è tornato, dopo essere sparito dalla circolazione per motivi di sicurezza. Da allora, si è lamentato spesso di sentirsi perduto, debole, ridotto a un semplice accademico. “Mi sento evirato” diceva. “L’FBI divora i suoi piccoli e ha divorato anche me. Bella ricompensa per il mio impegno contro la criminalità organizzata. Ora che mi è stata restituita la mia vita, scopro che la mia vita non esiste più. È solo un guscio vuoto. Anch’io sono un guscio vuoto. Ti amo, ma ti prego di capire che non sono più quello

che ero.” «Ha mai delirato? È mai stato violento?» mi domanda, ed è il clinico in lui a parlare. Mi sento sotto interrogatorio. «Non poteva non immaginare che me lo avresti detto. O che in qualche modo avrei scoperto che usava il mio ufficio come se fosse il suo.» Penso di nuovo a Lucy, a microspie e telecamere nascoste. «So che ha un caratteraccio» dice Benton. «Ma sto parlando di violenza fisica, eventualmente accompagnata da fuga dissociativa, sparizioni di ore, giorni, settimane, con incapacità totale o parziale di ricordare il passato. Sono i sintomi che osserviamo in molti di quelli che tornano dalla guerra: improvvise sparizioni e amnesie scatenate da un grave trauma, che spesso vengono scambiate per finzione deliberata. Lo stesso disturbo di cui sembra soffrire Johnny Donahue, che però non so quanto sia stato influenzato. Mi domando da dove gli sia venuta l’idea, se gliel’abbia suggerita qualcuno.» Lo dice come se invece conoscesse già la risposta. «Sicuramente Jack è famoso per sembrare uno che finge, che si dà malato per evitare le proprie responsabilità. Lo fa da sempre» aggiunge. Fielding è una mia creatura. «Mi hai taciuto qualcosa di lui?» continua Benton. Ho creato un mostro. «Precedenti psichiatrici?» incalza Benton. «Inaccessibili persino a me, persino all’FBI? Potrei scoprirlo, ma non voglio violare quel limite.» Benton e l’FBI sono di nuovo la stessa cosa. Non è tornato a fare l’agente sul campo – questo mi sembra impensabile –, ma l’analista investigativo sì, l’analista di intelligence criminale, del rischio. Il dipartimento della Giustizia ha tantissimi analisti, agenti che sono una via di mezzo tra accademici e tattici. Se devi finire in prigione o farti sparare, tanto vale che sia per mano di un poliziotto con tanto di dottorato. «Che cosa sai del tuo protetto che io non so?» mi chiede Benton. «A parte il fatto che è un cazzone malato di mente. Perché lo è, Kay. E in fondo in fondo lo sai anche tu.» Io sono il mostro creato da Briggs e Fielding è il mostro creato da me. È sempre stato così. «So che ha subito abusi sessuali» dice Benton in tono neutro, come se quello che è successo a Fielding da ragazzino non gli interessasse, come se non gliene fregasse niente. Non è lo psicologo che parla, ma un’altra parte di lui, e a questo punto sono davvero sicura. Poliziotti, agenti federali, procuratori e in genere coloro che hanno il compito di punire i colpevoli non sentono giustificazioni e giudicano le persone in base a ciò che hanno fatto, senza tenere conto di ciò che è stato fatto a loro. Quelli nella posizione di Benton non stanno a chiedersi se o perché un determinato atto era inevitabile, pur essendo abili e acuti nel dare definizioni, analizzare, fare previsioni. In fondo Benton non prova alcuna compassione per i soggetti pericolosi e pieni di odio e ha sofferto a fare il medico e il terapeuta perché lo trovava un lavoro poco gratificante e fasullo. Me lo ha confessato più di una volta.

«È una cosa di pubblico dominio, fu celebrato un processo.» Benton sente di dovermi chiarire fatti di cui non ho mai parlato con Fielding. Non ricordo come e quando sono venuta a sapere che Fielding aveva frequentato una scuola speciale vicino ad Atlanta. In qualche modo ne sono al corrente, però ricordo solo alcune sue vaghe allusioni a un certo “episodio” del passato, a certe esperienze vissute con una “terapeuta” che gli rendono estremamente difficile occuparsi di bambini, soprattutto se vittime di abusi. Sono sicura di non avere mai insistito perché mi raccontasse i particolari. Soprattutto all’inizio non glieli avrei mai chiesti. «Era il 1978 e Jack aveva quindici anni» dice Benton. «Ma la cosa andava avanti da quando ne aveva dodici. Li sorpresero durante un rapporto sessuale sulla station wagon di lei parcheggiata vicino al campo da calcio. Forse lei voleva farsi cogliere in flagrante. Era incinta. L’ennesima storia di abusi in un collegio, questa volta, grazie a Dio, non cattolico, ma specializzato in adolescenti difficili. Era uno di quei college barra comunità di recupero che hanno invariabilmente la parola “ranch” nel nome. Ciò che fece quella terapeuta per essere condannata per dieci capi d’accusa relativi a violenza sessuale ai danni di un minorenne non è quello che mi hai taciuto riguardo a Jack.» «Non conosco i particolari» rispondo dopo un po’. «Né in toto né in parte. Non ricordo come si chiamava lei, ammesso che lo abbia mai saputo, e non sapevo che fosse rimasta incinta. Di lui? E portò a termine la gravidanza?» «Ho cercato gli atti del processo e la risposta è sì, portò a termine la gravidanza.» «Non avevo motivo di consultare gli atti del processo.» Non gli domando che motivo riteneva di avere lui, perché tanto non me lo dirà. Adesso no di certo, ma non me lo dirà mai. «Mi dispiace che Jack abbia avuto e trascurato un altro figlio. O forse non lo ha nemmeno conosciuto» aggiungo. «Che tristezza.» «Nemmeno Kathleen Lawler ha fatto una bella vita» comincia Benton. «Che tristezza» ripeto. «La donna condannata per avere molestato Jack» spiega lui. «Della figlia, nata in carcere e poi data in adozione, non so niente. Se ha preso dalla madre, probabilmente sarà in prigione anche lei, o al cimitero. Kathleen Lawler si è ficcata in un pasticcio dopo l’altro e attualmente si trova nel carcere femminile di Savannah, in Georgia, a scontare una condanna a vent’anni per omicidio colposo e guida in stato di ebbrezza. Jack è in contatto con lei e le scrive con uno pseudonimo. Non è neanche questo che mi hai taciuto, perché dubito che ne fossi al corrente. Anzi, non riesco a immaginare che tu lo sapessi.» «Chi altri ha partecipato alle riunioni della settimana scorsa?» Ho le mani blu per il freddo e rimpiango di non essermi portata qui la giacca. Noto un camice appeso dietro la porta di Fielding. «Mi è venuto in mente mentre eravamo nel tuo ufficio» dice Benton, campione di segretezza, ex agente dell’FBI ed ex testimone sotto protezione. O forse non più ex. In effetti si comporta come se stesse indagando su un caso e non da semplice consulente. Sono convinta che i miei sospetti siano fondati e che lavori di nuovo per i

federali. Le cose finiscono dove cominciano e cominciano dove finiscono. «Un disturbo affettivo. Ci ho pensato tanto e ho cercato di ricordare com’era ai vecchi tempi. Ho riflettuto molto su com’era ai vecchi tempi.» Benton parla in tono indifferente, come se ciò che mi sta rivelando e di cui mi sta accusando non gli suscitasse alcuna emozione. «Non è mai stato normale: è questo che sto cercando di dire. Ha una grave patologia di fondo. Per questo fu mandato in collegio, per imparare a gestire la rabbia. A sei anni conficcò una biro nel petto di un altro bambino. A undici diede una botta in testa a sua madre con un rastrello. Poi fu mandato al Ranch vicino ad Atlanta, dove la sua rabbia crebbe ancora di più.» «Non so niente del suo passato» replico. «Non è prassi abituale fare controlli così approfonditi prima di assumere un medico. Anzi, quando ho cominciato a lavorare io, e anche all’epoca in cui ha iniziato lui, non ne se parlava proprio. Io non sono un agente dell’FBI» aggiungo, pungente. «Non vado a scavare nel passato delle persone, a fare domande a vicini di casa, insegnanti o amici di penna.» Mi alzo dalla scrivania di Fielding. «Anche se probabilmente avrei dovuto farlo. E d’ora in poi lo farò. Ma non l’ho mai coperto» continuo. «Non l’ho mai protetto, in questo senso. Ammetto di essere stata molto comprensiva, ammetto di aver rimediato o cercato di rimediare ai suoi disastri, ma non ho mai tenuto nascosto niente, se è di questo che mi stai accusando. Non andrei mai contro i miei principi morali, né per lui né per nessuno.» “Non più” aggiungo dentro di me. L’ho fatto una volta e mai più. E non l’ho fatto per Jack Fielding. Neanche per me. Solo per il mio paese. Attraverso la stanza, infreddolita, esausta e piena di vergogna, per prendere il camice di Fielding dal gancio dietro la porta chiusa. «Non so che cosa pensi che io ti abbia taciuto, Benton. Non ho idea delle cose in cui Jack è coinvolto, delle persone con cui ha a che fare, dei suoi deliri, dei suoi stati dissociativi o delle sue amnesie. Io non ho mai visto niente, e lui non me ne ha mai parlato, sempre che queste cose siano vere.» Mi infilo il camice, che è enorme, e sento un leggero odore pungente di eucalipto, simile a quello del Vicks o della pomata Bengay. «Un disturbo dell’umore, forse, con un po’ di narcisismo e scoppi episodici di rabbia» continua Benton, come se io non avessi detto niente. «Potrebbero anche essere i farmaci che prende per migliorare le sue prestazioni, quel disgraziato. Non fa fare una bella figura al CFC, mi duole dirlo. E sto minimizzando, te l’assicuro. Purtroppo Douglas e David se ne sono accorti. Così il CFC è partito con il piede sbagliato già all’inizio di novembre, con la storia del sequestro e dell’omicidio di Wally Jamison. Puoi immaginare che discorsi sono giunti alle orecchie di Briggs e di altri. Jack è a un passo dal rovinare tutto e questo apre la strada agli opportunisti. Come ho detto, crea una mentalità da sciacallaggio.» Mi fermo davanti alla finestra e guardo la strada buia e innevata, come se potessi trovarvi qualcosa che mi aiuti a ricordare chi sono, mi dia forza e mi conforti.

«Ha causato molti danni.» La voce di Benton è alle mie spalle. «Non so se l’abbia fatto apposta o no, ma ho il sospetto che in parte sia stato a causa del rapporto complicato che ha con te.» C’è vento e la neve cade obliqua e batte sui vetri quasi in orizzontale, con un rapido ticchettio che mi fa pensare a un tamburellare di unghie, a qualcosa di irrequieto e disturbato. Guardare la neve che batte sul vetro mi dà le vertigini, mi fa girare la testa. «È di questo che stiamo parlando, Benton? Del mio rapporto complicato con Jack Fielding?» «Ho bisogno di capire. È meglio che te lo chieda io, piuttosto che qualcun altro.» «Stai dicendo che è andato tutto in malora per questo. Stai dicendo che nasce tutto da qui.» Non mi giro. Continuo a guardare fuori e in basso, finché non ce la faccio più a fissare i fiocchi ghiacciati che volano, la strada, il fiume nero e la notte invernale e ventosa. «Tu pensi questo.» Voglio che Benton me lo confermi. Voglio sapere se fra le cose che sono andate in malora durante la mia assenza ci siamo anche io e lui. «Ho solo bisogno di sapere se mi hai taciuto qualcosa» mi risponde. «Non ne hai bisogno solo tu.» Lo dico in tono tutt’altro che gentile, con il cuore che mi batte forte. «Capisco che le cose del passato non si risolvono facilmente. Capisco le complicazioni.» Mi volto, incontro il suo sguardo e gli leggo negli occhi che non si tratta solo dei casi irrisolti, del CFC che si sta ammutinando o del mio vice squilibrato. Vedo la sua sfiducia nei miei confronti, nei confronti del mio passato. Lo vedo dubitare di me e di chi sono per lui. «Non sono mai andata a letto con Jack» gli dico. «Se è questo che stai cercando di scoprire. Così risparmiamo a qualcun altro l’imbarazzo di dovermelo chiedere. Oppure è il mio imbarazzo che temi? Non sono mai stata con Jack. Non verrà fuori niente perché non è mai successo niente. Se è questo che mi stai chiedendo, ti ho appena dato la risposta. Puoi riferirla a Briggs, all’FBI, al procuratore generale, a chi diavolo vuoi.» «Lo capirei. Quando eravate tutti e due all’inizio, a Richmond, quando lui faceva l’apprendistato...» «Evito di andare a letto con i miei sottoposti» dico con sorprendente irritabilità. «Mi pregio di essere un po’ diversa da quella Lawler, la ex terapeuta in galera in Georgia.» «Jack non aveva dodici anni quando l’hai conosciuto.» «Non c’è mai stato niente fra noi. Non mi porto a letto quelli a cui faccio da mentore.» «E quando sono gli altri a fare da mentore a te?» Benton mi fissa, in piedi davanti alla finestra. «Non è per questo che io e John Briggs abbiamo dei problemi» rispondo con rabbia.

13 Torno alla scrivania di Fielding e mi siedo di nuovo sulla sua poltrona. Dentro una delle tasche del camice sento una cosa liscia e sottile, di plastica. La tiro fuori: è un rettangolo trasparente, sottile come carta. «Sarebbe stato meglio se il CFC non avesse fatto una cattiva impressione ai federali proprio all’inizio, ma sono certo che tu gli farai cambiare opinione.» Benton lo dice come se gli dispiacesse avermi appena chiesto quelle cose, come se fosse pentito per quello che mi ha appena detto per dovere professionale. Annuso il foglietto di plastica che Fielding deve aver staccato da un cerotto antidolorifico all’eucalipto e penso amaramente: “Già, i federali. Sai che soddisfazione essere in grado di far cambiare agli stramaledetti federali l’opinione che hanno di me”. «Non voglio che ti sembri tutto negativo qui» continua Benton. «Sarebbe poco costruttivo. C’è da rimboccarsi le maniche, certo, ma ce la faremo. Ne sono sicuro. Mi dispiace aver dovuto sollevare certi argomenti. Mi dispiace moltissimo che abbiamo dovuto fare questi discorsi.» «Parliamo di Douglas e David.» Gli ripeto i nomi che ha fatto lui stesso poco fa. «Chi sono?» «Non ho dubbi sul fatto che riuscirai a importi e a far funzionare benissimo questo posto. Sono certo che farai diventare il CFC quello che deve diventare, e cioè migliore dei centri che hanno in Australia e in Svizzera e migliore di tutti i posti che hanno cominciato per primi a occuparsi di queste cose, compreso Dover. Ho piena fiducia in te, Kay. Non dimenticarlo mai.» Più Benton mi assicura che ho tutta la sua fiducia, meno ci credo. «Le forze dell’ordine ti rispettano, i militari anche» aggiunge. Non credo nemmeno a questo. Se fosse vero, non avrebbe bisogno di dirmelo. “E allora?” mi chiedo, con un’animosità che non so da dove venga. Non ho bisogno di piacere alla gente o di essere rispettata. Questo non è il concorso di Miss Simpatia. Non è così che dice sempre Briggs? “Questo non è il concorso di Miss Simpatia, colonnello” oppure, se è in vena di cordialità: “Questo non è il concorso di Miss Simpatia, Kay” e sorride sarcastico, con un lampo di malizia negli occhi. A Briggs non interessa piacere o non piacere agli altri. Anzi, gode del fatto di non piacere. Anch’io sto cominciando a prenderci gusto. Che vadano tutti al diavolo. So che cosa devo fare, ed è già qualcosa. Farò qualcosa, oh, sì, certo che lo farò. Pensavate che tornando a casa e trovando questa situazione l’avrei accettata come se niente fosse? No. Assolutamente no. Non è così che andrà a finire. Se qualcuno lo ha pensato, non mi conosce bene. «Chi sono Douglas e David?» domando di nuovo, in tono bisbetico. «Douglas Burke e David McMaster» risponde Benton. «Non li conosco. Chi sono?» Adesso sono io a condurre l’interrogatorio. «FBI, sede di Boston, Sicurezza interna della zona metropolitana di Boston. Non hai

ancora avuto modo di conoscere le autorità locali, i personaggi più importanti, compresa la Guardia costiera, ma li conoscerai. Ti presenterò tutti, se vuoi. Per una volta, potrei esserti utile. Ho nostalgia dei tempi in cui ti ero utile. So che sei arrabbiata.» «Non sono arrabbiata.» «Sei tutta rossa e hai l’aria furente. Io non voglio irritarti e mi dispiace se l’ho fatto. Ma era una cosa che dovevo sapere. Per vari motivi.» «Sei soddisfatto adesso?» «È indispensabile sapere in che posizione sei, che ruolo hai in tutto questo» dice mentre io tengo in mano il sottile rettangolo di plastica, grosso all’incirca come un pacchetto di sigarette. Lo sollevo alla luce e vedo le grosse impronte di Fielding e altre più piccole che devono essere mie. Fielding si procura continuamente degli stiramenti muscolari e soffre di dolori, soprattutto quando prende troppi steroidi anabolizzanti. Quando ricade in quel suo vecchio vizio, odora di mentolo, di sciroppo per la tosse. «Che cosa c’entrano la Sicurezza interna e la Guardia costiera con le cose di cui stiamo parlando?» Apro i cassetti della scrivania in cerca di Nuprin, Motrin, cerotti antidolorifici Bengay, balsamo di tigre o qualsiasi altra cosa che possa confermare i miei sospetti. «Il cadavere di Wally Jamison è stato trovato nel porto vicino all’ISC, il Comando di supporto integrato della Guardia costiera, e credo non per caso» replica Benton osservandomi. «Forse è stato trovato lì perché lì c’è uno dei pochi moli della zona che si possono raggiungere in macchina e di notte è deserto. È una zona che conosco benissimo e tu anche. La conosciamo perché ci siamo stati a passeggiare così tante volte che alcune persone che lavorano da quelle parti probabilmente ci riconoscerebbero. È vicinissimo al posto dove andiamo una volta ogni morte di papa per stare in pace, da soli, e comportarci da persone civili l’uno con l’altra.» Il mio tono è sarcastico e cattivo. «Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori. Posso chiederti che cosa stai cercando? Sono sicuro che è qualcosa in piena vista.» «Questo ufficio è mio. Tutto questo palazzo è mio. Cerco quel che diavolo mi pare, in piena vista o no.» Ho il polso a mille e mi sento agitata. «Il molo non è aperto al pubblico, non tutti ci possono arrivare in macchina» mi fa notare Benton osservandomi attentamente, preoccupato. «Non volevo farti arrabbiare così tanto.» «Noi ci andiamo spesso e nessuno ci ha mai chiesto i documenti. Non stanno lì di guardia con la mitragliatrice. È una zona turistica.» Sono polemica e combattiva, eppure non vorrei. «L’ISC della Guardia costiera non è una zona turistica. Per arrivare sul molo bisogna oltrepassare un cancello, ci sono le guardie...» dice Benton con molta calma, ragionevole. E continua a guardare il suo iPhone. Guarda quello, poi guarda me, avanti e indietro, incessantemente.

«Ci tornerei volentieri. Andiamo a passarci qualche giorno appena possiamo?» Cerco di parlare in tono pacato perché mi sto comportando in modo terribile. «Noi due da soli.» «Sì, volentieri» dice Benton. «Così parliamo e ci chiariamo.» Immagino con sorprendente vividezza la nostra suite preferita all’hotel Fairmont di Battery Wharf, che si affaccia sul mare come la punta di un dito accanto all’ISC della Guardia costiera. Vedo l’acqua verde scura e increspata del porto e la sento sciabordare contro i pilastri come se mi trovassi lì. Sento i pontili cigolare, le sartie sbattere contro gli alberi delle barche e i toni bassi delle sirene delle grosse navi come se arrivassero davvero fin dentro l’ufficio di Fielding. «E non risponderemo al telefono. Andremo a fare delle belle passeggiate, ci faremo servire i pasti in camera e guarderemo dalla finestra i velieri, i rimorchiatori e le petroliere. Mi piacerebbe moltissimo. Non piacerebbe anche a te?» Ma non lo dico in tono gentile: lo dico con prepotenza, con rabbia. «Andiamoci il prossimo weekend, se vuoi. Se possiamo» propone Benton mentre legge qualcosa sul suo iPhone facendo scorrere il testo con il pollice. Sposto la tazza del caffè e lo spigolo della scrivania mi sembra arrotondato, smusso. Troppa caffeina. Ho la tachicardia, mi sento tesissima e mi gira anche un po’ la testa. «Mi dà fastidio che guardi continuamente il telefono.» Non riesco a trattenermi. «Sai quanto lo detesto mentre parliamo.» «Non posso evitarlo, in questo momento» mi spiega, senza guardarmi. «Esci dalla 93, prendi Commercial Street e ci sei» riprendo, litigiosa. «È un modo molto comodo per sbarazzarsi di un cadavere. Vai fin lì e lo butti giù. Nudo, in modo che si perdano in acqua tutte le eventuali tracce che possono essergli rimaste addosso, per esempio durante il trasporto nel bagagliaio della macchina.» Chiudo uno degli ultimi cassetti e mi rendo conto io stessa di sembrare strana quando borbotto distrattamente: «Cerotti antalgici non ce ne sono. Nemmeno nei cassetti della mia scrivania. Soltanto chewing-gum. Io non ho mai masticato chewing-gum, a parte quando ero piccola. I Dubble Bubble a Halloween, confezionati a caramella, con la carta gialla». Li vedo. Ne sento l’odore. Mi viene l’acquolina in bocca. «Ti confiderò un segreto che non ho mai raccontato a nessuno. Li riciclavo. Li masticavo un po’, poi li riavvolgevo nella carta. Andavo avanti così per giorni e giorni, finché non sapevano più di niente.» Ho l’acquolina in bocca. Deglutisco varie volte. «Ho smesso di masticare chewing-gum quando ho smesso di andare a bussare alle porte dei vicini a Halloween. Vedi, mi hai fatto tornare in mente Halloween, quando si andava di casa in casa a chiedere: “Dolcetto o scherzetto?”. È una cosa a cui non pensavo da così tanti anni che non riesco a credere che mi sia tornata in mente proprio adesso. A volte mi dimentico di essere mai stata bambina. Giovane, stupida e fiduciosa.» Mi tremano le mani. «Meglio che non ti abitui a quello che non ti puoi permettere. Così non presi

l’abitudine di masticare chewing-gum.» Tremo. «Meglio non sembrare poveri, soprattutto se si è nati poveri. Mi hai mai visto masticare una gomma? Guai! È volgare.» «Tu non hai niente di volgare.» Benton mi osserva con attenzione, circospetto. Leggo nei suoi occhi che gli sto facendo paura. Ma non riesco a trattenermi. «Mi sono fatta il mazzo per tutta la vita per non sembrare una poveraccia. Tu non mi conoscevi quando ero agli inizi e non avevo idea di come sono davvero le persone. Quelle che hanno un potere assoluto su di te e che tu adori. Non avevo idea delle porcate in cui ti possono trascinare con le loro lusinghe. Dopo, non ti sentirai più quella di prima. Potrai far finta di niente, nascondere tutto sotto le assi del pavimento, ma è come il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe, sempre presente. Non puoi parlarne con nessuno, nemmeno se ti tiene sveglio di notte. Non puoi dirlo nemmeno alla persona che ti è più cara, che hai quel cuore freddo e morto nascosto sotto il pavimento, e che è colpa tua se sta là sotto.» «Cristo, Kay!» «È strano che tutto ciò che amiamo sia così vicino a quello che odiamo, alla morte» mi viene in mente poi. «Be’, non proprio tutto.» «Stai bene?» «Sto bene. Sono solo stressata, ma chi non lo sarebbe? Casa nostra è a due passi da Norton’s Woods, dove ieri è stato ucciso uno che forse era alla Courtauld Gallery quando c’eravamo anche io e Lucy, l’estate dell’attentato contro le Torri Gemelle. Attentato che secondo lei è stato orchestrato dal governo americano, tra parentesi. C’era anche Liam Saltz alla Courtauld, teneva una conferenza lì. All’epoca non lo conoscevo, ma Lucy ha il CD del suo intervento. Non ricordo di che cosa avesse parlato.» «Mi incuriosisce che tu lo nomini.» «C’è un link su un sito web che Jack ha visitato. Non ho idea del perché.» Benton non dice nulla e continua a guardarmi. «Io e te andiamo al Biscuit quando sono a casa nel fine settimana. Magari ci siamo stati quando c’erano anche Johnny Donahue e la sua amica dell’MIT» continuo. Non riesco a stare al passo con i miei pensieri. «Ci piace Salem, ci piacciono gli oli essenziali e le candele che vendono nei negozi, gli stessi negozi dove si trovano anche chiodi di ferro e ossi del demonio. Il nostro hotel preferito a Boston è vicino a dove è stato trovato il cadavere di Wally Jamison la mattina dopo Halloween. C’è qualcuno che ci spia? Che sa tutto quello che facciamo? Perché Jack era a Salem il giorno di Halloween?» «Il cadavere di Wally è stato portato in barca, non passando per il molo» replica Benton. Non so dove abbia avuto questa informazione. «Tutte queste cose in comune. Sembra che viviamo in un paesino.» «Hai un’aria strana, Kay.» «Sei sicuro che sia stato portato lì in barca. Mi sento come se avessi una caldana.» Mi tocco una guancia, ci appoggio sopra una mano. «Oh, Signore, ci mancava solo questa.

Bella prospettiva.» «Mi sembra più interessante che abbiano deliberatamente buttato il cadavere vicino a un molo dove sono ormeggiate barche a vela da trenta metri con tanto di guardiani a bordo.» Benton osserva ogni mia mossa. «Verso l’alba arrivano quelli della Guardia costiera e altri lavoratori vari e il molo si trasforma in un parcheggio. La gente scende dalla macchina e vede un cadavere mutilato galleggiare nel porto. Bisogna essere spudorati. Anche per ammazzare un bambino nel giardino di casa, con i genitori dentro, bisogna essere spudorati. E per uccidere un uomo la domenica del Super Bowl a Norton’s Woods durante un matrimonio di VIP. E tutto questo nel quartiere dove abitiamo noi. Sì, abbiamo a che fare con uno spudorato.» «Sai che hanno usato una barca e sai che era un matrimonio di VIP, non semplicemente un matrimonio.» Le mie non sono domande, bensì affermazioni. Benton non direbbe queste cose se non le sapesse con certezza. «Perché Jack era a Salem? Cosa ci faceva là? È impossibile trovare una camera d’albergo a Salem nel periodo di Halloween. Non si riesce nemmeno a girarci in macchina, da tanta gente che c’è.» «Sei sicura di stare bene?» «Pensi che ce l’abbiano con noi?» domando mentre rifletto su com’è piccolo il mondo. «Torno a casa e questa è l’accoglienza che trovo. Brutture, morti, inganni e tradimenti sotto il naso!» «Per certi versi, sì» dice Benton. «Grazie tante.» «Ho detto “per certi versi”. Non del tutto.» «Però pensi che ce l’abbiano con noi. Perché?» «Cerca di calmarti. Respira lentamente.» Benton fa per prendermi la mano, ma io non mi lascio toccare. «Piano, Kay, piano.» Mi ritraggo e Benton si posa di nuovo la mano in grembo per prendere l’iPhone, che lampeggia un secondo sì e uno no: gli stanno arrivando un sacco di messaggi. Non voglio che mi tocchi. È come se fossi senza pelle. «C’è qualcosa da mangiare in questo posto? Vuoi che ordini qualcosa?» propone Benton. «Forse è l’ipoglicemia. Da quanto è che non mangi?» «No, adesso non potrei. Va bene così. Perché hai detto VIP?» mi ritrovo a chiedere. Benton guarda di nuovo il cellulare, la spia rossa che lampeggia. «Anne» mi dice leggendo il messaggio che ha appena ricevuto. «Sta arrivando. Dovrebbe essere qui a minuti.» «C’è altro? Posso scaricare le immagini qui e cominciare a darci un’occhiata.» «Non le ha mandate. Ha provato a telefonarti, ma ovviamente non sei alla tua scrivania. C’erano agenti in borghese al matrimonio, per proteggere un VIP, ma evidentemente non era lui ad aver bisogno di protezione» continua Benton. «Nessuno ha cercato la persona che ne avrebbe avuto bisogno. Non sapevamo che sarebbe stato lì.» Prendo un bel respiro e cerco di capire se sta per venirmi un attacco di cuore. «E questi agenti hanno visto che cosa è successo?» L’ospedale più vicino sarebbe il

Mount Auburn. Non voglio andare all’ospedale. «Quelli appostati fuori dalle porte non stavano guardando da quella parte e quindi non hanno visto niente, solo le persone che correvano verso di lui quando è crollato a terra. Non avendo motivo di intervenire, sono rimasti al loro posto. Era loro preciso dovere: poteva trattarsi di una manovra diversiva. Si rimane sempre al proprio posto quando si è in servizio per proteggere qualcuno, tranne rare eccezioni.» Mi concentro sul fastidio che ho al centro del petto. Ho l’affanno, sto sudando e mi gira la testa, ma non ho dolori alle braccia, alla schiena o alla mandibola. No, gli attacchi di cuore e il dolore che se ne irradia non impediscono di ragionare lucidamente. Mi guardo le mani. Me le tengo davanti e le osservo come se potessi leggerci chissà che cosa. «Quando hai visto Jack, la settimana scorsa, odorava di mentolo?» domando, poi aggiungo: «Dov’è adesso? Che cos’ha fatto?». «Perché avrebbe dovuto odorare di mentolo?» «Cerotti medicati, antidolorifici, cose così.» Mi alzo da dietro la scrivania di Fielding. «Quando li mette spesso e odora di eucalipto o di mentolo, è perché sta esagerando in palestra o ai tornei di taekwondo e ha dolori articolari e muscolari acuti e cronici. Vuol dire che prende steroidi. E quando Jack prende gli steroidi... be’, è sempre stato preludio di altre cose.» «A giudicare da come l’ho visto la settimana scorsa, sta prendendo qualcosa.» Mi tolgo il camice di Fielding, lo piego ordinatamente e lo poso sulla scrivania. «C’è un posto dove ti puoi sdraiare?» chiede Benton. «Secondo me dovresti sdraiarti un po’. Giù di sotto, nella stanza del medico di turno, c’è un letto. Non posso portarti a casa. Non puoi andare a casa adesso. Non voglio che tu esca di qui senza di me.» «Non ho bisogno di sdraiarmi. Non servirà a niente. Anzi, se mi sdraio è ancora peggio.» Vado nel bagno di Fielding e prendo un sacchetto della spazzatura nuovo da una scatola che sta sotto il lavabo. Benton si alza a guardare che cosa faccio e mi osserva mentre infilo il camice ripiegato nel sacchetto e torno nel bagno. Mi lavo le mani e la faccia con il sapone e l’acqua calda, mi lavo tutte le parti che possono essere state a contatto con la pellicola di plastica che ho trovato nella tasca del camice. «È qualche sostanza» annuncio mentre torno a sedermi. Anche Benton torna alla sua sedia, ma è teso, come se stesse per rialzarsi di colpo. «Qualcosa di transdermico che sicuramente non è ibuprofene. Non so che cosa sia, ma lo scoprirò» gli spiego. «Il foglietto di plastica che avevi in mano.» «A meno che tu non mi abbia messo del veleno nel caffè.» «Magari era un cerotto alla nicotina.» «Non mi avveleneresti, vero? Se sei stufo di essere sposato con me, ci sono soluzioni più semplici.» «Non vedo perché dovrebbe mettersi cerotti alla nicotina. La usa come stimolante? È

possibile, sì.» «Non credo. Un tempo vivevo di cerotti alla nicotina, eppure non mi sono mai sentita così. Nemmeno quando mi veniva ancora voglia di accendermi una sigaretta pur avendo un cerotto da ventun milligrammi addosso. Ero veramente dipendente. Sono fatta così. Ma non questa roba, qualunque cosa sia. Come si è ridotto?» Benton guarda la tazza del caffè e segue con le dita il contorno dello stemma dell’AFME sulla ceramica nera. Il suo silenzio conferma i miei sospetti. In qualunque cosa Fielding sia coinvolto, ha a che fare con tutto il resto: con me, con Benton, con Briggs, con il giocatore di football morto, con il bambino morto, con il morto di Norton’s Woods e con i soldati caduti, i due inglesi e quello di Worcester. Come gli aeroplani con le luci accese di notte, che sono collegati a una torre di controllo e fanno parte di un disegno ben preciso, anche se in certi momenti sembrano immobili nel buio pur venendo da qualche parte e andando da qualche altra parte, sento che sono in gioco forze individuali che fanno parte di qualcosa di più grosso, di qualcosa di inconcepibilmente grande. «Devi fidarti di me» dice lui a bassa voce. «Briggs ti ha contattato?» «Certe cose sono in moto da tempo. Stai bene? Non me ne vado se non sono sicuro che tu stia bene.» «È per questo che ho fatto il corso, che ho fatto tanti sacrifici.» Decido di accettare la situazione. E, accettandola, diventa più facile capire che cosa devo fare. «Sei mesi di lontananza da te, di lontananza da tutti, sei mesi di rinunce per poter tornare a casa e trovare qualcosa che è in moto da tempo. Un piano ben preciso.» Sono tentata di aggiungere “proprio come all’inizio”, quando ero una anatomopatologa alle prime armi, troppo ingenua per capire che cosa stava succedendo. All’epoca ero disposta a ossequiare e a riverire l’autorità e, soprattutto, a fidarmene e – peggio ancora – a rispettarla e ammirarla. Ma il peggio del peggio era che ammiravo John Briggs al punto di fare qualunque cosa lui mi chiedesse. Qualunque cosa. In un modo o nell’altro, ho finito per ritrovarmi nella stessa situazione. Sono di nuovo parte di un piano ben preciso, fatto di bugie su bugie e di persone innocenti trattate come materiali a perdere, di reati commessi con una freddezza inaudita. Rivedo Joanne Rule e Noonie Pieste come se le avessi davanti agli occhi. Le vedo su due barelle ammaccate, con le saldature arrugginite e le ruote che girano male, e ricordo che mi si appiccicavano le suole al vecchio pavimento di marmo bianco da tanto era sporco. C’era sempre del sangue per terra all’Istituto di medicina legale di Città del Capo e i cadaveri venivano parcheggiati dappertutto. Nella settimana che vi trascorsi, vidi casi di una bizzarria estrema, quanto può essere estrema la grandiosa bellezza del continente africano. Persone investite da un treno, travolte da vetture in autostrada, morti per incidenti domestici e per droga nelle baraccopoli, sbranati dagli squali nella False Bay e anche un turista precipitato dalla Table Mountain. Mi passa per la testa un pensiero irrazionale: se scenderò di sotto ed entrerò nella cella frigorifera, troverò ad aspettarmi i cadaveri delle due ragazze uccise, come quella

mattina di dicembre quando arrivai dopo diciannove ore di volo in classe economica. Solo che qualcuno le aveva già esaminate, e questo sarebbe successo anche se avessi preso il Concorde e avessi volato a Mach II o se mi fossi trovata dietro l’angolo nel momento in cui erano state assassinate. Non sarei potuta arrivare in tempo. Sembrava di essere su un set cinematografico, tanto artatamente erano stati sistemati i due cadaveri. Due giovani donne innocenti, assassinate per fare notizia, per questioni di potere, di influenza e di voti. Io non potevo fermare ciò che era stato messo in moto. Non solo non potevo farci nulla, ma ero parte in causa, perché avevo contribuito a farlo succedere, l’avevo reso possibile. Ripenso a quando la madre del soldato Gabriel ha parlato di discriminazione razziale e ha detto che non meritavo nulla. Il mio ufficio a Dover è vicino a quello di Briggs. Ricordo che qualcuno è passato avanti e indietro oltre la mia porta chiusa mentre le parlavo e si è fermato almeno due volte. Ho pensato che fosse qualcuno che aveva bisogno di entrare ma, sentendo che ero al telefono, non voleva interrompermi. La spiegazione più plausibile, invece, è che stesse origliando. Briggs, o un suo alleato, ha messo in moto qualcosa, e Benton ha ragione: qualsiasi cosa sia, è già avviata da tempo. «Quindi questi ultimi sei mesi non sono stati altro che un intrigo politico. Che tristezza. Che squallore. Che delusione.» Ho la voce ferma, sembro calmissima, come mi succede sempre quando sto per reagire. «Tutto bene? Perché dovremmo scendere di sotto, se stai bene. È arrivata Anne. Dovremmo parlare con lei e poi io devo andare.» Benton si è alzato e mi aspetta vicino alla porta con l’iPhone in mano. «Scommetto che Briggs ha fatto in modo che io avessi questo posto per poterlo tenere a disposizione della persona che gli interessa veramente mettere alla guida del CFC.» Vado avanti. Il cuore mi batte più lentamente e sento i nervi più saldi, come se avessero ricominciato a funzionare normalmente. «Voleva che io gli tenessi in caldo il posto per qualcun altro. Oppure io sono stata il pretesto per mettere su questo centro, per coinvolgere l’MIT, Harvard e tutti quanti, per giustificare una trentina di milioni di finanziamenti?» Benton legge l’ennesimo messaggio che si è materializzato sul suo telefono. «Si sarebbe potuto risparmiare un sacco di fatica» dico alzandomi dalla scrivania. «Non vorrai tirarti indietro» dice Benton leggendo il messaggio che qualcuno gli ha appena mandato. «Non dare loro questa soddisfazione.» «“Loro”? Allora è più di una persona.» Benton non risponde e digita qualcosa con i pollici. «Be’, è sempre stata più di una persona. Scegli tu» dico mentre usciamo dalla stanza insieme. «Se dai le dimissioni, fai esattamente quello che vogliono.» E intanto legge e scorre i messaggi sul telefono. «Le persone così non sanno cosa vogliono.» Giro la chiave nella serratura e controllo che la porta dell’ufficio di Fielding sia davvero ben chiusa. «Pensano solo di saperlo.»

Cominciamo la discesa all’interno del CFC, un edificio a forma di proiettile che nelle notti buie e nelle giornate nuvolose è color piombo. Racconto a Benton della scritta che ho trovato impressa sul blocchetto degli appunti telefonici di Fielding, mentre scivoliamo giù su un ascensore che ho scelto perché riduce i consumi energetici del cinquanta per cento. Non può essere una coincidenza che Fielding fosse interessato a un discorso ufficiale tenuto dal dottor Liam Saltz a Whitehall, dico mentre sul display digitale i numeri cambiano e lentamente scendiamo da un piano all’altro nella luce soffusa dei LED del mio ascensore ecologico che nessuna delle persone che lavorano qui apprezza minimamente, a quanto ho sentito. Per lo più si lamentano della sua lentezza. «Lui rappresenta un estremo e la DARPA l’estremo opposto. Né l’uno né l’altra hanno tutte le ragioni, questo è garantito.» Descrivo il dottor Saltz dicendo che è un esperto di computer, un ingegnere, un filosofo, un teologo, che detesta le guerre e coloro che le fanno. «So tutto di lui.» Benton non lo dice in modo positivo, mentre l’ascensore si ferma delicatamente e le porte di acciaio si aprono senza quasi fare rumore. «Ricordo molto bene quella volta che io e te abbiamo bisticciato per causa sua, alla CNN.» «Io non ricordo nessun bisticcio.» Siamo di nuovo nell’atrio, dove Ron è sveglio e severo dietro il vetro della reception, esattamente come lo abbiamo lasciato molte ore fa. Sui monitor vedo auto ferme nel posteggio dietro il palazzo, SUV liberi dalla neve e con i fari accesi. Agenti in borghese. Ripenso alla finestre illuminate nei palazzi dell’MIT che si vedono oltre la recinzione del CFC, ricordo di averle notate quando siamo arrivati in macchina e adesso capisco perché: il CFC è sorvegliato e l’FBI e la polizia non si danno la pena di nascondere la propria presenza. Mi sembra che il CFC sia sotto assedio. Da quando sono uscita dal Port Mortuary a Dover, sono sempre stata accompagnata, oppure chiusa dentro edifici ben protetti, e non per il motivo che mi è stato detto, o per lo meno non solo. Non sono stata riportata a casa in fretta e furia per via del cadavere che aveva sanguinato nella cella frigorifera. Un’emergenza, certo, ma non l’unica. E forse nemmeno la principale. Certe persone – come mia nipote, che era armata e giocava a fare la bodyguard – ne hanno approfittato per scortarmi. Non posso credere che Benton non abbia contribuito a questa decisione, a prescindere da quello che sapeva o non sapeva al momento. «E che ti ha fatto delle avance te lo ricordi?» dice Benton mentre percorriamo il corridoio grigio. «Sembri convinto che io vada a letto con tutti quelli che incontro.» «Non proprio con tutti» ribatte. Sorrido. Mi scappa quasi da ridere. «Ti senti meglio» dice toccandomi affettuosamente un braccio mentre cammina al mio fianco. Il malessere che mi aveva preso è passato e vorrei che non fosse un’ora così assurda

della notte. Vorrei che ci fosse qualcuno nel laboratorio delle prove materiali per far analizzare il foglietto di plastica che ho tenuto in mano, prima di tutto con il microscopio elettronico a scansione e poi con lo spettrometro a trasformata di Fourier a infrarossi, o con lo strumento più adatto per capire che cosa contengano i cerotti antidolorifici di Fielding. Non ho mai preso steroidi anabolizzanti e non so per esperienza personale che effetto facciano, ma non riesco a immaginare che diano i sintomi che ho provato poco fa. Non in tempi così rapidi, per lo meno. Cocaina, cristalli di metamfetamina, LSD o altre sostanze che entrino in circolo così velocemente per via transdermica... Speriamo che non sia niente del genere, ma cosa ne so io degli effetti che provocano? Non può essere un oppiaceo come il fentanil, che è il narcotico più comunemente somministrato tramite cerotti. Un antidolorifico potente come il fentanil non mi avrebbe provocato le reazioni che ho avuto, ma anche di questo non sono sicura. Non l’ho mai preso. Ognuno reagisce in maniera diversa ai farmaci e le sostanze illegali possono essere più o meno pure, più o meno tagliate. «Davvero. Sembri tornata in te.» Benton mi tocca di nuovo. «Come ti senti? Stai davvero bene?» «Mi è passato. Non so cosa fosse, ma mi è passato. Non farei l’autopsia se anche solo vagamente non mi sentissi in grado» rispondo. «Vieni anche tu in sala autopsie, mi sembra.» Perché è là che stiamo andando. «Già... “Beviamo qualcosa insieme.”» È tornato a Liam Saltz. «Ti incontra per caso alla CNN e ti invita a bere qualcosa con lui a mezzanotte. Non è proprio normale.» «Non so come prenderla, ma non ne sono certo lusingata.» «La sua fama di donnaiolo è pari a quella di certi politici di cui nessuno osa fare il nome. Com’è che la chiamano adesso? Dipendenza sessuale.» «Be’, se proprio bisogna avere una dipendenza...» Passiamo davanti alla sala radiografie. La porta è chiusa e la luce rossa è spenta perché la macchina non è in funzione. Tutto il piano è vuoto e silenzioso. Mi chiedo dove sia Marino. Forse è con Anne. «Ti ha mai più contattato da allora? Quando è stato? Due anni fa?» chiede Benton. «O ha avuto contatti con qualcuno dei tuoi colleghi al Walter Reed o a Dover?» «Con me no. Con altri non lo so, ma non ha grandi sostenitori nelle Forze armate. Lo considerano molto poco patriottico, anche se non è giusto, visto le cose che dice.» «Il problema è che nessuno capisce più cosa dicono gli altri. Non li stanno manco a sentire. Saltz non è comunista, non è un terrorista e non è reo di alto tradimento. È solo che non sa trattenere l’entusiasmo, non sa stare zitto. Ma non è di alcun interesse per il governo. O per lo meno non lo era.» «E adesso di colpo lo è diventato.» Immagino che sia questo che Benton sta per dirmi. «Non era a Whitehall ieri. Non era nemmeno a Londra.» Benton ha aspettato finora per dirmelo, ha aspettato che ci fermassimo davanti alla porta di acciaio chiusa a chiave della sala settoria. «Non credo che tu l’abbia letto su Internet, mentre cercavi di decifrare gli appunti di Jack» aggiunge in un tono di velata ostilità, rivolta non a me ma a

Fielding. «Come fai a sapere dov’era o non era Liam Saltz?» chiedo e nello stesso tempo ripenso a quello che ha detto prima, quando ha definito quello di Norton’s Woods un matrimonio di VIP e ha accennato alla presenza di guardie del corpo, di agenti in borghese. In quel momento non ero lucidissima. «Il discorso è stato trasmesso via satellite su un maxischermo. Lo hanno ascoltato in molti a Whitehall» dice Benton come se fosse stato presente anche lui. «Saltz ha avuto un contrattempo, una faccenda di famiglia, ed è dovuto partire.» Penso al cadavere che si trova dietro la porta di acciaio, al giovane che portava al polso un orologio impostato sul fuso orario della Gran Bretagna e aveva in casa un vecchio robot che si chiama MORT, lo stesso contro il quale ci siamo battuti io e Liam Saltz, convincendo le autorità a vietarne l’uso. «È per questo che Jack lo ha cercato su Internet ieri mattina presto? Lui e il RUSI e cos’altro ancora?» domando mentre faccio scattare la serratura biometrica della sala autopsie. «Mi piacerebbe sapere com’è andata, se ha ricevuto una telefonata e poi l’ha cercato su Internet, o se per qualche motivo sapeva che Saltz si trovava a Cambridge» risponde Benton. «Mi piacerebbe sapere un sacco di cose, a cui spero troveremo presto una risposta. Quello che so è che il dottor Saltz era qui per il matrimonio. A sposarsi era la figlia della sua attuale moglie. Avrebbe dovuto accompagnarla all’altare il padre biologico, ma gli è venuta l’influenza suina.» «Ti ho mandato un SMS» mi dice Anne, bardata di azzurro dalla testa ai piedi. Sta scrivendo su un computer collocato in una cabina di acciaio impermeabilizzata, la tastiera a chiusura ermetica montata all’altezza giusta per poterla utilizzare stando in piedi. Dietro di lei, sulla postazione numero uno, pulita e sterilizzata, è steso il cadavere dell’uomo morto a Norton’s Woods. «Scusa» le rispondo distrattamente, pensando a Liam Saltz e a quale legame può avere con lui questo cadavere, a parte i robot e, in particolare, il MORT. «Il telefono è nel mio ufficio e io ero fuori» le rispondo. Quindi chiedo a Benton: «Ha altri figli?». «È sceso all’hotel Charles» replica Benton. «Qualcuno sta andando a parlargli. Ma per rispondere alla tua domanda, sì, ha molti figli e figliastri, da vari matrimoni.» «Volevo avvisarti che non mi sono fidata a mandarti le immagini della risonanza per posta elettronica» mi dice Anne. «Non capisco di che cosa si tratta e ho pensato che fosse meglio essere superprudenti. Se hai intenzione di fermarti, ti devi vestire» dice rivolta a Benton. «Non ho idea di cosa gli abbiano fatto, ma non sono scattati allarmi. Se non altro, non è radioattivo. La roba che ha dentro non è radioattiva, grazie a Dio.» «Immagino che in ospedale sia andato tutto liscio, senza problemi» le dice Benton. «Non mi fermo.» «La sicurezza ci ha scortato all’andata e al ritorno e non abbiamo visto nessuno. Né pazienti né personale ospedaliero.» «Gli avete trovato dentro qualcosa?» le domando.

«Tracce di metallo.» Le mani di Anne, protette dai guanti, si muovono sulla tastiera del computer e cliccano sul mouse, entrambi appena ricoperti da uno strato di silicone industriale. Il disordine di Fielding è decisamente sparito, almeno da qui. Vedo acqua nel lavabo della postazione numero uno – la mia –, una grossa spugna e gli strumenti chirurgici lucidi, puliti e ben allineati. Noto uno straccio per il pavimento che prima non c’era e una cote sul bancone. «Non credo ai miei occhi» dico guardandomi intorno. «Merito di Ollie» replica lei cliccando con il mouse. «Gli ho telefonato ed è tornato indietro a mettere in ordine.» «Sul serio?» «Non che non ci provassimo quando tu non c’eri. Ma Jack usava questa postazione e abbiamo imparato a starne alla larga.» «Come può esserci del metallo se alla TAC non si vedeva?» Benton la guarda scorrere i file che ha creato nel laboratorio di neuroimaging in cerca delle immagini che le servono. «Se sono solo piccole tracce, è possibile che alla TAC non si vedano» gli spiego. «Al di sotto della soglia di zero virgola cinque millimetri, alla TAC il metallo non risulta. Per questo abbiamo voluto fare anche la risonanza. E abbiamo fatto bene.» «Con i vivi non si può fare» spiega Anne cliccando su un file. «Se c’è qualcosa di ferromagnetico, durante l’esame si può spostare. Come la limatura di metallo negli occhi di persone che vi sono esposte per motivi professionali. Magari non sanno nemmeno di avercela finché non fanno una risonanza. E allora lo scoprono, oh, se lo scoprono... Oppure quelli che non ci dicono di avere dei piercing, come spesso succede» spiega Anne a Benton. «O, che Dio ce ne scampi, un pacemaker. Il metallo si torce sul suo asse e si scalda.» «Tu come lo spieghi?» le chiedo perché non riesco a immaginare quale evento o arma possa aver provocato quel che è appena comparso sul video. «Non me lo spiego» risponde Anne. Osserviamo le immagini ad alta risoluzione delle lesioni interne del morto e l’area scura di vuoto e distorsione del segnale che comincia subito dopo la piccola lesione sulla schiena e si fa sempre meno pronunciata in profondità, dentro gli organi e i tessuti molli del torace. «A causa del campo magnetico, anche con particelle che devono essere estremamente piccole, si ha un artefatto. Come qui.» Indico a Benton un punto. «Queste zone molto scure e distorte dove non c’è penetrazione del segnale. Questo artefatto raggiato lungo la traccia lesiva, o quello che ne resta, è dovuto al fatto che il segnale è assente perché ci sono corpi estranei ferromagnetici di qualche tipo.» «Cosa potrebbe avere provocato questo scempio?» chiede Benton. «Dovrei prelevarne un campione e analizzarlo.» Penso a quello che ha detto Lucy a proposito della termite. Sarebbe ferromagnetica quanto i proiettili, perché entrambi sono composti metallici contenenti ossido di ferro. «Zero virgola cinque millimetri? Quindi delle dimensioni di un granello di polvere?»

Dallo sguardo si vede che Benton è distratto da altri pensieri. «Un po’ più grossi» risponde Anne. «Più o meno delle dimensioni dei residui di polvere da sparo, dei granelli di polvere da sparo non combusta» aggiungo. «Anche un proiettile si può ridurre in frammenti delle dimensioni dei granelli di polvere da sparo» riflette Benton, e mi accorgo che sta mettendo ciò che io dico in correlazione con qualcos’altro. Poi penso a mia nipote e mi domando che cosa si siano detti esattamente prima, nel laboratorio. Penso ai fucili subacquei modificati e ai nanoesplosivi, ma non ci sono lesioni termiche né ustioni. È assurdo. «Non ho mai visto un proiettile così» dice Anne, e io sono d’accordo con lei. «Abbiamo scoperto chi è?» Si riferisce al cadavere sul tavolo. «Non volevo origliare.» «Speriamo di scoprirlo presto» risponde Benton. «Da come lo dici, sembra che tu abbia un’idea» replica Anne. «Il primo indizio è stato che era a Norton’s Woods quando c’era anche il dottor Saltz, e ci è parso valesse la pena di approfondire, per via di certi interessi che queste due persone avevano in comune.» Ho il sospetto che alluda ai robot. «Non so chi sia il dottor Saltz» dice Anne. «Uno scienziato che ha vinto il Nobel ed è espatriato» spiega Benton. Osservandolo insieme ad Anne, mi torna in mente che sono colleghi e amici e che lui la tratta con una familiarità disinvolta, con una fiducia che riserva a pochi. «E se lui» Benton indica il morto «sapeva che il dottor Saltz aveva in programma di venire a Cambridge, bisogna capire come faceva a saperlo.» «È sicuro che lo sapesse?» domando. «Al momento no, non è sicuro.» «Saltz era al matrimonio, ma lui non era vestito da cerimonia.» Anne indica il cadavere nudo sul tavolo. «Era con il cane e aveva una pistola.» «Per ora ho scoperto che la sposa è figlia di un altro» dice Benton come se questo fosse un particolare che è stato controllato con cura. «Il padre, che avrebbe dovuto accompagnarla all’altare, si è ammalato, e lei all’ultimo momento l’ha chiesto al patrigno, il dottor Saltz. Non avendo il dono dell’ubiquità, Saltz ha preso un aereo per Boston sabato e ha tenuto il discorso a Whitehall via satellite. Per lui è stato un sacrificio. Scommetto che l’ultima cosa che aveva voglia di fare era tornare negli Stati Uniti e farsi vedere a Cambridge.» «Gli agenti in borghese erano per lui?» domando. «Come mai? So che ha dei nemici, ma perché l’FBI avrebbe dovuto offrire protezione a uno scienziato civile venuto dalla Gran Bretagna?» «Il paradosso è proprio questo» dice Benton. «Il servizio di sicurezza al matrimonio non era per lui, ma per gli invitati, che venivano quasi tutti dal Regno Unito. Infatti lo sposo, David, è il figlio di Russell Brown. Sia la figliastra di Liam Saltz, Ruth, sia David frequentano giurisprudenza a Harvard, motivo per cui il matrimonio si è tenuto qui.» Russell Brown, il ministro ombra della Difesa, di cui ho appena letto il discorso sul

sito web del RUSI. «E costui si presenta a un evento del genere armato?» Mi avvicino al tavolo di acciaio. «Con una pistola senza il numero di matricola?» «Esatto. Perché?» chiede Benton. «Per difendersi o per attaccare? O aveva paura per motivi che non hanno nulla a che vedere con il matrimonio e con le persone che ho appena nominato?» «Magari legati a tecnologie top secret» suggerisco. «Tecnologie che valgono un sacco di soldi e per cui c’è gente capace di uccidere.» «E magari ha ucciso davvero» continua Anne guardando il cadavere del giovane. «Speriamo di scoprirlo presto» dice Benton. Osservo il morto, steso rigido sulla schiena con le dita flesse, la posizione delle braccia, delle gambe, delle mani, della testa. È esattamente la stessa di prima, nonostante sia stato spostato per la risonanza. Il rigor mortis è completo, ma non mi opporrà una resistenza strenua quando lo esaminerò, perché è magro e non c’è molta fibra muscolare in cui possano essere rimasti intrappolati gli ioni calcio quando i neurotrasmettitori hanno smesso di funzionare. Lo potrò domare facilmente. Lo potrò piegare alla mia volontà. «Devo andare» mi dice Benton. «So che vuoi cominciare, qua. Poi, quando avrai finito, avrò bisogno del tuo aiuto per una cosa. Ah, non voglio che tu vada via da sola.» Rivolgendosi ad Anne, intenta a etichettare provette e contenitori per campioni, aggiunge: «Assicurati che mi telefoni. O a me o a Marino. Dateci un’ora di preavviso». «Marino sarà con te...?» comincio a chiedere. «Stiamo facendo un lavoro insieme. Lui è già sul posto.» Non ho più dubbi su che cosa intende Benton quando parla al plurale. Mi guarda ancora una volta – i nostri occhi si incontrano con l’intimità di un’ultima carezza – ed esce. Sento il rumore dei suoi passi veloci che si allontanano nel corridoio piastrellato, poi la sua voce e un’altra, forse quella di Ron. Non distinguo nemmeno una parola di quello che dicono, ma il tono è serio e veemente. Dopodiché di colpo torna il silenzio. Immagino che Benton sia uscito dall’accettazione e trasalisco vedendolo su uno degli schermi, inquadrato dalle telecamere dell’impianto di sorveglianza, mentre attraversa l’area di carico e scarico tirandosi su la cerniera del cappotto di montone che gli ho regalato io un sacco di tempo fa. Non ricordo nemmeno più che anno fosse, ricordo solo che eravamo ad Aspen, dove lui aveva una casa. Lo guardo sul monitor mentre apre la porta laterale che è accanto alla grande saracinesca, poi un’altra telecamera lo riprende quando passa accanto al suo SUV verde parcheggiato nel posto riservato a me e sale su un altro SUV scuro, con i fari accesi, nel fascio di luce dei quali si vede cadere la neve. Il tergicristallo è in funzione e non riesco a distinguere chi è al volante. Osservo il SUV fare retromarcia nello spiazzo innevato, poi partire, fermarsi in attesa che il grande cancello si apra e infine sparire nella notte deserta a quest’ora, le quattro del mattino, con mio marito al posto del passeggero e al volante qualcuno che forse è il suo amico Douglas dell’FBI, entrambi diretti verso una

destinazione che per qualche motivo mi è stata tenuta nascosta.

14 Nell’anticamera mi preparo alla battaglia come faccio sempre, indossando un’armatura fatta di plastica e carta. Non mi sento mai un medico, e nemmeno un chirurgo, quando mi appresto a eseguire un esame autoptico, e ho il sospetto che solo chi si occupa per professione dei morti possa capire che cosa intendo. Durante gli internati alla facoltà di Medicina, non ero diversa dagli altri medici: mi occupavo dei malati e dei feriti nei reparti e al pronto soccorso e assistevo agli interventi chirurgici in sala operatoria. Quindi so che cosa vuol dire praticare un’incisione in un corpo caldo, che ha una pressione sanguigna e può perdere parametri vitali. Ciò che mi accingo a fare adesso è molto diverso e la prima volta che ho inciso con la lama di un bisturi un corpo freddo e insensibile e ho praticato la mia prima incisione a Y sul mio primo cadavere ho rinunciato a qualcosa che non ho mai più ritrovato. Ho abbandonato l’idea di essere un eroe, un dio, di essere dotata di capacità superiori a quelle degli altri mortali. Ho rinunciato alla fantasia di poter guarire qualunque creatura, me compresa. Nessun medico ha la capacità di far coagulare il sangue, di rigenerare tessuti e ossa, o di far regredire tumori. Noi non creiamo nulla, ci limitiamo a incoraggiare apparati biologici a funzionare o non funzionare come si deve per conto proprio e, da questo punto di vista, i medici sono più limitati dei meccanici o degli ingegneri, che costruiscono qualcosa dal nulla. La specialità medica che ho scelto, e che mia madre e mia sorella continuano a considerare morbosa e anormale, probabilmente mi ha reso più onesta della maggior parte dei miei colleghi. Sono consapevole che il mio atto terapeutico lascia i morti indifferenti a me e al mio modo di occuparmi di loro. Restano morti esattamente come prima. Non mi ringraziano, non mi mandano biglietti di auguri, non battezzano i figli con il mio nome. Naturalmente ero consapevole di tutto questo già quando ho scelto anatomia patologica, ma è come dire che uno sa che cosa vuol dire combattere quando si arruola nei marines e viene inviato fra i monti dell’Afghanistan. Non si può sapere che cos’è veramente una determinata cosa finché non la si sperimenta sulla propria pelle. Ogni volta che sento l’odore acre, oleoso e pungente della formalina non tamponata ripenso a quanto sono stata ingenua a pensare che la dissezione di un cadavere donato alla scienza a scopo didattico potesse essere simile all’autopsia di un cadavere non imbalsamato, la cui causa di morte è ancora da chiarire. La mia prima volta fu all’ospedale Hopkins, in un luogo primitivo rispetto alla sala accanto alla stanza dove in questo momento sto ripiegando la mia uniforme dell’AFME, posandola su una panca senza tanti complimenti. Non sono andata nello spogliatoio, data l’ora. La donna, di cui ricordo ancora il nome, aveva solo trentatré anni ed era morta in seguito alle complicanze di un’appendicectomia, lasciando il marito e due bambini piccoli. Ancora oggi mi rincresce che questa donna fosse un progetto di ricerca per me, inconsapevole oggetto della mia tesi di specializzazione, e ricordo di aver pensato che

era assurdo che un essere umano così giovane e sano fosse morto di un’infezione dovuta all’asportazione di un’appendice vermiforme e praticamente inutile dell’intestino crasso. Avrei voluto guarirla. Lavorando su di lei, esercitandomi su di lei, avrei voluto che rinvenisse, che si alzasse da quel tavolo di acciaio pieno di graffi al centro di un pavimento incrostato di sporcizia, in una squallida stanza sotterranea che odorava di morte. L’avrei voluta viva e sana e avrei voluto sentire che era anche merito mio. Ma io non faccio il chirurgo: mi procuro argomenti per fare la guerra agli assassini oppure, in casi meno drammatici ma più tipici, agli avvocati. Anne è stata premurosa e mi ha fatto trovare un camice e un paio di pantaloni freschi di bucato, di taglia media e del verde istituzionale a cui sono abituata. Me li infilo, poi indosso un sopracamice usa e getta che mi lego stretto sulla schiena prima di mettere le soprascarpe, che prendo da un apposito distributore, per coprire un paio di zoccoli di gomma che Anne ha recuperato da qualche parte. Poi indosso le maniche protettive, la cuffia, la maschera, la visiera e infine un doppio paio di guanti. «Forse potresti farmi da stenografa» le dico tornando in sala autopsie, uno spazio grande e vuoto, tutto bianco lucido e acciaio levigato. Siamo solo in tre, se conto anche il mio paziente disteso sul tavolo. «Nel caso io non facessi in tempo a dettare il referto subito dopo, visto che sembra che debba andarmene.» «Non da sola, però» mi ricorda lei. «Benton si è preso le chiavi della macchina» le ricordo. «Questo non ti impedirebbe di andartene, visto che abbiamo anche altri mezzi. Non barare. Quando sarà l’ora, gli telefonerò, e non si discute.» Anne è in grado di dire praticamente qualsiasi cosa senza sembrare irriverente o maleducata. Scatta fotografie mentre io prelevo tamponi dalla minuscola ferita d’ingresso sulla schiena. Faccio lo stesso dagli orifizi, nell’improbabile eventualità che ci sia stata anche un’aggressione sessuale benché, stando a quanto mi è stato descritto, io non veda come potrebbe essere successo. «È tutto così strano...» Chiudo i tamponi orali e anali in buste di carta su cui metto un’etichetta e appongo la mia sigla. «Questo caso non ha nulla di prevedibile e non ho intenzione di credere a niente, non essendo stata sulla scena del crimine.» «Be’, non c’è stato nessuno di noi» commenta Anne. «Purtroppo.» «Anche se ci fosse andato qualcuno, lo considererei comunque un caso anomalo.» «Mi sembra giusto. Non mi fiderei di nessuno se fossi nei tuoi panni.» «Nei miei panni.» Inserisco una lama nuova nel bisturi mentre Anne riempie di formalina un barattolo di plastica con l’etichetta. «Di nessuno, a parte me» continua Anne, senza guardarmi. «Io non mentirei, non imbroglierei e non mi approprierei di cose non mie. Non tratterei mai questo posto come se mi appartenesse. Ma lasciamo perdere, non dovrei fare questi discorsi.» Non le lascerò fare questi discorsi. Non voglio metterla in condizione di tradire le persone che hanno tradito me. So come ci si sente a trovarsi in una posizione del genere. È una delle sensazioni peggiori che esistano. Si è portati a mentire, direttamente o per

omissione, e anche questo fa star male, lo so. Una menzogna che si fissa, intatta, al centro del tuo essere è un po’ come i chicchi di cereali non digeriti che si trovano dentro le mummie egizie. È impossibile liberarsene se non andandola a cercare e io non sono sicura di averne il coraggio. Penso ai gradini di legno consunto che portano nella cantina della mia casa di Cambridge. Penso ai muri di pietra grezza del seminterrato e alla cassaforte da seicentottanta chili con la porta in composito spessa cinque centimetri con tripla serratura. «Immagino che tu non sappia dove sono gli altri» dico poi. «O hai sentito qualcosa quando eri con Marino al McLean?» Comincio l’incisione a Y, praticando un taglio da una clavicola all’altra e poi un altro in verticale, lungo e profondo, con una leggera deviazione intorno all’ombelico, giù fino all’osso pubico. «Hai idea di chi ci sia nel nostro parcheggio e di cosa stia succedendo? Perché sembra che io sia agli arresti domiciliari, per motivi che nessuno mi ha voluto spiegare.» «L’FBI.» Anne non mi dice nulla che io non sappia già. Va verso la parete dove sono appesi ad alcuni ganci i portablocco rigidi, vicino agli scaffali di plastica dove si trovano i moduli e i diagrammi. «Almeno due agenti nel parcheggio, e uno ci ha seguito. Cioè, non so chi ci abbia seguito.» Prende i fogli di cui ha bisogno e li fissa alla molla del portablocco, dopo aver controllato che la biro che vi è appesa scriva. «Poteva essere un investigatore come un agente. Ci ha seguito fino all’ospedale e chiaramente ha avvertito quelli della sicurezza prima che noi arrivassimo.» Torna al tavolo. «Quando ci siamo presentati al laboratorio di neuroimaging, c’erano tre uomini della sicurezza del McLean. Dovevano essere anni che non si agitavano così. E poi c’era un tipo su un SUV, un Explorer o un Expedition Ford, blu scuro.» Potrebbe essere lo stesso veicolo su cui è salito Benton poco fa, così chiedo ad Anne: «E questa persona è scesa? Le hai parlato?». Ripiego i tessuti molli. L’uomo è così magro che ha uno strato di grasso giallo sottilissimo sopra i tessuti sottostanti, rossi come carne di manzo. «Non si vedeva bene e non sono voluta andare fin là a guardare. L’agente era ancora sul SUV quando siamo ripartiti e ci ha seguito fin qui.» Anne prende dal carrello il costotomo e mi aiuta a rimuovere il piastrone sternale in modo da esporre gli organi interni e un’emorragia imponente. Riconosco dall’odore che le cellule stanno cominciando a decomporsi, un lievissimo accenno di quel che poi diventerà putrido e schifoso. Gli odori prodotti dal corpo umano in decomposizione sono inconfondibilmente sgradevoli. Non sono come quelli di un uccello, un opossum o un mammifero anche molto grande. Nella morte siamo diversi dalle altre creature tanto quanto nella vita. Riconoscerei ovunque il tanfo della carne umana in decomposizione. «Come vuoi procedere? In blocco? Penseremo al metallo quando avremo gli organi sul tagliere?» chiede Anne. «Dobbiamo sincronizzare quello che facciamo centimetro per centimetro, passo per passo. Aiutarci con le immagini della risonanza, perché non credo di riuscire a vedere questi corpi estranei ferromagnetici se non con la lente d’ingrandimento.» Mi pulisco in

un asciugamano i guanti sporchi di sangue e mi avvicino allo schermo, che Anne ha diviso in quadranti per permettermi di scegliere fra diverse immagini. «La distribuzione ricorda molto quella dei residui di polvere da sparo» suggerisce. «Anche se non si vedono, perché il segnale è distorto.» «È vero. C’è un artefatto raggiato con più vuoti all’inizio che alla fine, in massima parte vicino al foro di ingresso.» Indico lo schermo con un dito sporco di sangue. «Ma in superficie non ci sono residui di alcun genere» dice. «Come invece accade nelle ferite da arma da fuoco o a contatto.» «Questa non è una ferita da arma da fuoco» replico. «Queste particelle, qualunque cosa siano, cominciano qui.» Anne indica la ferita di ingresso nella zona lombare. «Ma non in superficie, sono subito sotto. Circa un centimetro sottopelle. E questo è veramente strano. Cerco di immaginare che cosa possa essere e non ci riesco. Se premi un’arma contro la schiena e spari, restano residui sui vestiti e sulla ferita di ingresso, non li trovi soltanto a un centimetro di profondità e oltre.» «Ho esaminato i vestiti.» «E non ci sono bruciature, né fuliggine, né residui di polvere da sparo» dice Anne. «Non evidenti» puntualizzo, perché il fatto di non vedere residui non significa che non ce ne siano. «Esatto. Nulla di visibile.» «E Morrow? Immagino che non sia venuto giù ieri mentre Marino prendeva le impronte al cadavere nella sala identificazione e metteva a posto gli effetti personali. Immagino che nessuno abbia pensato di chiedere a Morrow di fare un test orientativo per individuare la presenza di nitriti sugli abiti, dal momento che non sapevamo che ci potessero essere residui di polvere da sparo o che ci fosse una ferita di ingresso corrispondente a un taglio nei vestiti.» «Che io sappia no. Se n’è andato presto.» «Ho sentito. Be’, possiamo farlo adesso, anche se dubito che troveremo qualcosa. Appena arrivano Morrow o Phillip, facciamogli fare prima di tutto un test di Griess, per togliermi la curiosità. Scommetto che sarà negativo, ma è un test non invasivo, quindi non si perde niente.» È una procedura semplice e rapida, che prevede l’uso di carta fotografica desensibilizzata e trattata con una soluzione di acido solfanilico, acqua distillata e alfanaftolo in metanolo. Si preme la carta sul tessuto da esaminare e poi la si espone al vapore e gli eventuali residui di nitriti assumono una colorazione arancione. «Naturalmente faremo una spettroscopia EDX» aggiungo. «Ma di questi tempi è bene fare più di un esame, dal momento che il piombo sta sparendo dalle munizioni perché è tossico per l’ambiente e la maggior parte di questi test si basa sulla ricerca del piombo. Dobbiamo cominciare a cercare leghe di zinco e alluminio, più vari stabilizzatori e plastificanti, che vengono aggiunti alla polvere da sparo durante la lavorazione, almeno qui negli Stati Uniti. Non tanto nelle zone di guerra, dove inquinare l’ambiente con

metalli pesanti non è un problema, perché l’obiettivo è produrre bombe sporche, e più sporche sono meglio è.» «Non il nostro obiettivo, spero.» «No, noi non facciamo queste cose.» «Non so mai che cosa credere.» «Io invece sì, almeno su certi argomenti. So che cosa ci torna indietro quando i nostri militari arrivano a Dover» rispondo. «So cosa gli troviamo dentro e cosa no. So cosa è prodotto da noi e cosa è prodotto da altri, dai ribelli iracheni, dai talebani, dagli iraniani. È importante: facciamo l’analisi dei materiali per capire chi produce cosa e chi fornisce cosa.» «Allora quando sento questi discorsi sulle armi, sulle bombe costruite in Iran...» «È perché facciamo questo tipo di ricerche. È così che gli Stati Uniti lo vengono a sapere: sono informazioni ricavate dai nostri caduti. Sono loro che ce lo dicono.» Chiudiamo lì il discorso sulla guerra e ci concentriamo su quest’uomo, troppo giovane per morire in chissà quale altra guerra. È uscito a portare a spasso un vecchio levriero nella civilissima Cambridge ed è finito all’obitorio. «Nel Texas hanno messo a punto una tecnologia molto interessante che vorrei prendere in considerazione.» Torno ai residui di polvere da sparo perché è un argomento più tranquillo. «Una microestrazione in fase solida con gascromatografia, combinata con un rivelatore di azoto e fosforo.» «È giusto che il Texas si occupi di queste cose, visto che laggiù girano tutti armati e vorrebbero che le armi da fuoco fossero detraibili dalle tasse, come da noi l’agricoltura e l’allevamento...» «Be’, non è proprio così» replico. «Ma bisognerà valutare la possibilità di utilizzare una tecnologia analoga qui al CFC, perché presumo che da noi si diffonderanno parecchio le munizioni “verdi”.» «Naturale. Così non inquiniamo l’ambiente neanche durante le sparatorie.» «Il sistema messo a punto dai ricercatori della Sam Houston State University permette di individuare anche una singola particella di polvere da sparo. Nel caso specifico questo a noi non interessa, dal momento che quest’uomo ha parecchio metallo in corpo. Marino avrebbe dovuto usare un kit per i residui di sparo almeno sulle mani, comunque, visto che quest’uomo era armato.» «Lo ha fatto, prima di prendergli le impronte» dice Anne. «Proprio per via della pistola, anche se non sembrava che fosse stata usata. Ho visto che gli faceva lo stub quando a un certo punto sono entrata nella sala ID.» «Non sulla ferita, però, perché l’avete scoperta dopo. Su quella non è stato fatto nessuno stub.» «Io non ho fatto niente. Non è di mia competenza.» «Bene, ci penserò io. Quando lo giriamo, lo faccio» decido. «Procediamo all’asportazione in blocco, così tampono le superfici esposte del tragitto della ferita. Userò la risonanza per orientarmi e cercherò di prelevare tutto il materiale metallico che

posso, anche se non lo vedo, nella speranza che una parte venga via. Che è metallo lo sappiamo. Dobbiamo capire che metallo è e da dove viene.» Prendo una scatola di carta assorbente in uno degli armadietti di acciaio con le ante di vetro, mentre Anne estrae dal cadavere il blocco degli organi e lo sistema sul tagliere. «Ormai è normale trovare metallo nei cadaveri» commenta e intanto raccoglie frammenti di organi dalla cavità toracica, che è aperta e vuota come una coppa di porcellana, con le costole che luccicano in mezzo al tessuto rosso. «A cominciare dai vecchi proiettili “non ecologici”. Da quando l’ospedale ha chiesto volontari, ci arrivano parecchi soggetti per la ricerca, e mi riferisco a gente normale, okay? Gente apparentemente normalissima, senza nulla di particolare. Solo che poi scopri che ha dentro un vecchio proiettile.» Ricolloca sul blocco di organi frammenti del rene sinistro, del polmone sinistro e del cuore, come se stesse facendo un puzzle. «Succede più spesso di quanto pensi» dice. «E non mi riferisco a te, che di cose così ne vedi continuamente. Per non parlare di quelli che dicono che le pallottole sono di piombo e il piombo non è magnetico, quindi si può fare la risonanza. Di solito a fare questi discorsi sono gli psichiatri, che non capiscono niente e da una volta all’altra non si ricordano. Piombo, ferro, nichel, cobalto. Tutte le pallottole sono ferromagnetiche, non mi interessa se sono “ecologiche”. Quindi per effetto del campo magnetico si spostano. E può essere un problema se sono vicino a un grosso vaso o a un organo. Non parliamo del rischio che corre un poveraccio a cui hanno sparato in testa in una vita precedente. Non ci sono Paxil o Neurontin o psicofarmaci che tengano se il vecchio proiettile finisce nel posto sbagliato.» Sciacqua un frammento di rene e lo posa sul tagliere. «Bisognerà misurare la quantità di sangue nel peritoneo.» Guardo il foro nel diaframma che ho visto prima, durante la TAC. «A occhio direi che saranno almeno trecento millilitri, che vengono dalla lacerazione del diaframma, e almeno cinquanta millilitri nel pericardio. Normalmente un sanguinamento così forte mi farebbe pensare che sia passato un po’ prima che morisse. Ma queste sono ferite gravi, simili a quelle provocate da un’esplosione. Non può essere sopravvissuto a lungo. Giusto il tempo che si fermassero il cuore e il respiro. Se non fossi contraria all’espressione “morte istantanea”, qui la userei.» «Questo è strano.» Anne mi porge un pezzettino di rene, che è duro e di colore brunastro, con chiazze più chiare e i margini retratti. «Voglio dire, cos’è successo? Sembra cotto o fissato in formalina.» Avvicino una lampada per esaminare il blocco di organi e noto che ci sono frammenti duri e secchi anche nel lobo inferiore del polmone sinistro e nel ventricolo sinistro del cuore. Con un becher d’acciaio raccolgo il sangue e l’ematoma accumulato nel mediastino, cioè nella parte centrale della cavità toracica, e trovo altri frammenti e piccoli coaguli duri e irregolari. Osservando attentamente il rene sinistro distrutto, noto un’emorragia perirenale ed enfisema interstiziale e altre tracce delle stesse anomalie

tissutali nelle zone più vicine al tragitto della ferita, cioè quelle che più facilmente possono essere state danneggiate da un’esplosione. Ma quale esplosione? «Sembra tessuto congelato o quasi liofilizzato» dico scrivendo sulle etichette dei fogli di carta assorbente le sigle che corrispondono al sito di prelievo del campione. LIS, lobo inferiore sinistro. RS, rene sinistro. VS, ventricolo sinistro. Alla luce forte di una lampada chirurgica, con l’ausilio di una lente di ingrandimento, distinguo appena macchioline color argento di ciò che è esploso nel corpo di quest’uomo quando è stato pugnalato alla schiena. Vedo fibre e altri residui che non posso riconoscere senza un microscopio e mi sento speranzosa. Nel cadavere si è depositato qualcosa che probabilmente il colpevole non ha previsto. Ci sono tracce inorganiche da cui forse ricaverò informazioni sull’arma e su chi l’ha usata. Accendo la cappa d’aspirazione dei fumi regolandola al minimo, in modo da assicurare semplicemente il ricambio d’aria, e comincio ad applicare con delicatezza la carta assorbente sterile. Tampono le superfici di tessuto frammentato e i margini delle ferite e, a uno a uno, poso i fogli nella cappa, dove l’aria che circola lentamente faciliterà l’evaporazione facendo essiccare il sangue senza spostare ciò che eventualmente vi aderisce. Raccolgo campioni del tessuto che sembra liofilizzato e li ripongo in cartoni plastificati e in piccoli barattoli di formalina. Dico ad Anne che dobbiamo fare molte foto e che chiederò a qualche collega di visionare le immagini delle lesioni interne e di questi tessuti duri e scuriti. Chiederò se qualcuno ha mai visto niente di simile e mentre lo dico mi domando a chi mi riferisco. Non a Briggs, a cui non oso mandare niente. Sicuramente non a Fielding né agli altri che lavorano qui. Non mi viene in mente nessuno, tranne Benton e Lucy, l’opinione dei quali conta solo fino a un certo punto e non mi servirà. Dipende tutto da me, che mi piaccia o no. «Giriamolo» dico. Svuotato degli organi, il cadavere è leggero nel torace e ha la testa più pesante. Misuro la ferita di ingresso, ne descrivo l’aspetto e la posizione esatta, poi esamino il tragitto della ferita nel blocco di organi individuando tutte le zone che sono state trapassate da quella che ormai sono certa essere una lama sottile inizialmente a doppio taglio e poi a uno. «Se guardi la ferita, si vedono chiaramente le due estremità molto nette, gli angoli dell’asola prodotta da due bordi taglienti» spiego ad Anne. Il suo sguardo è dubbioso. «Ma guarda qui, dove finisce la traccia lesiva, in corrispondenza del cuore. Vedi che le due estremità della ferita sono identiche, entrambe molto nette?» Avvicino la lampada e le porgo una lente di ingrandimento. «Mi sembra un po’ diversa rispetto alla ferita di ingresso sulla schiena» dice Anne. «Sì. Perché quando la lama ha incontrato il muscolo cardiaco, non è penetrata in profondità, è entrata solo la punta. A differenza di quello che è successo altrove.» Le faccio vedere. «La punta è penetrata e il resto della lama l’ha seguita e ha attraversato i tessuti. Come vedi, un’estremità della ferita è distesa e un po’ smussa. Si vede specialmente qui, dove la lama è penetrata nel rene sinistro e ha proseguito.»

«Credo di capire che cosa stai cercando di dirmi.» «Non è quello che ci aspetteremmo di trovare nel caso di un coltello a farfalla, uno scortichino oppure un pugnale, che hanno tutti una lama a doppio taglio per l’intera lunghezza. Questa mi sembra piuttosto una lancia, con una punta affilata su entrambi i lati e la lama su un lato solo, come certi coltelli da caccia, o come le baionette, che hanno la punta della lama affilata da entrambi i lati per facilitare la penetrazione. E così abbiamo un foro di ingresso che è per un centimetro lineare, con le due estremità della ferita molto nette, anche se una lievemente meno dell’altra. Poi la sezione aumenta fino a un centimetro e mezzo.» Io misuro e Anne prende nota. «Quindi la lama dovrebbe essere un centimetro sulla punta e un centimetro e mezzo nel punto più largo. Piuttosto sottile, dunque. Una specie di stiletto» dice Anne. «Ma uno stiletto a doppio filo per tutta la lunghezza.» «Non potrebbe essere stata fatta appositamente? Una lama che inietta una sostanza esplosiva?» «Senza provocare lesioni termiche o ustioni. Anzi, quelle che osserviamo se mai sembrano provocate dal freddo, che indurisce i tessuti e ne cambia il colore.» Misuro la distanza dalla ferita sulla schiena dell’uomo al vertice del cranio. «Sessantasei centimetri, e cinque virgola due centimetri a sinistra della linea mediana. Direzione anterosuperiore, con notevole enfisema sottocutaneo lungo il percorso, perforazione del processo trasverso della dodicesima costa sinistra in sede paravertebrale, perforazione dei muscoli paraspinali, del grasso perirenale, del surrene sinistro, del rene sinistro, del diaframma, del polmone sinistro e del pericardio, fino al cuore.» «E quanto era lunga la lama, per perforare tutte queste strutture?» «Almeno dodici o tredici centimetri.» Anne accende la sega. Giriamo di nuovo il cadavere sul dorso. Gli metto un poggiatesta sotto il collo e incido il cuoio capelluto da un orecchio all’altro, seguendo il margine dei capelli, in modo che dopo non si vedano i punti di sutura. La sommità del cranio è bianca come un uovo. Rovescio il cuoio capelluto sulla faccia, come un calzino, e i lineamenti dell’uomo crollano tristemente. Sembra che si sia messo a piangere.

15 Mi rendo conto che il fronte artico si è spostato e che a sud brilla il sole soltanto quando apro la porta dell’ufficio e vengo accolta da un cielo limpido e azzurro dietro le finestre. Guardo di là del vetro e, sette piani più in basso, vedo poche macchine che avanzano lentamente sulla strada ghiacciata. Nella direzione opposta c’è lo spazzaneve con la lama gialla sollevata come una chela di granchio, che cerca il punto giusto per abbassarla con un clangore metallico che non sento, ma immagino. Non riesco a sentire nemmeno la lama che gratta sul ghiaccio che ricopre l’asfalto e non se ne andrà del tutto finché non si alzerà la temperatura. La sponda del fiume è bianca e il Charles, increspato dalla corrente, è azzurro come il vetro delle vecchie bottiglie. Lo skyline di Boston riflette la prima luce del mattino e la John Hancock Tower sovrasta tutti gli altri grattacieli, solida e imponente come una colonna solitaria, unica testimonianza rimasta di un antico tempio ormai in rovina. Mi viene voglia di caffè, vado nel bagno e guardo la mia macchina per l’espresso sul bancone e le varie capsule, fra cui alcune aromatizzate alla nocciola. Sono in quello stato in cui gli stimolanti non servono più e penso che un altro caffè mi bucherebbe lo stomaco. Ogni tanto mi viene un po’ di nausea, poi mi sembra di aver fame, poi mi passa tutto e sento solo il torpore dovuto alla mancanza di sonno e un vago accenno di mal di testa, come l’eco di un’emicrania lontana. Mi bruciano gli occhi e ho i pensieri rallentati, che si frangono come marosi sempre contro le stesse domande, a cui non riesco a dare risposta. Ci sono molte cose da fare. Non voglio aspettare, se solo è possibile: non ci riesco. Ma non è possibile. Oltrepasserò qualche limite, se necessario. Perché non dovrei, in fondo? Mi sembra di essere l’unica a rispettarli, qui dentro. Farò da me, farò le cose che so fare. Mi sento sola più di prima, perché nel frattempo sono cambiata. Dover mi ha cambiata. Farò quel che è necessario, a costo di scontentare qualcuno. Sono le sette e mezzo e sono stata di sotto tutto questo tempo perché mi sono occupata insieme con Anne di altri casi, dopo il morto di Norton’s Woods, che non siamo ancora riusciti a identificare. O, se qualcuno ci è riuscito, non me lo ha detto. Conosco particolari molto intimi di quell’uomo, che pure non mi riguardano, ma non so le cose più importanti: chi è, che cosa faceva, chi sperava di diventare, quali erano i suoi sogni, amori e odi. Mi siedo alla mia scrivania e controllo gli appunti che ha preso Anne in sala autopsie. Aggiungo le ultime cose, per essere sicura di non dimenticarmene. Scrivo, per esempio, che il morto aveva mangiato qualcosa con semi di papavero e formaggio giallo poco prima di morire, che la quantità complessiva di sangue e coaguli nell’emitorace sinistro era milletrecento millilitri e che il cuore era spezzato in cinque frammenti irregolari ancora attaccati in corrispondenza delle valvole. Voglio che un domani la pubblica accusa lo sappia. Mi rendo conto che sto già pensando al processo. Per me, da un punto di vista professionale, finisce tutto lì.

Immagino i toni accorati del pubblico ministero, che a me sono preclusi, nell’informare la giuria che la vittima aveva mangiato un bagel con semi di papavero e formaggio stagionato e poi aveva portato a passeggio il cane, ma il suo cuore si era rotto in cinque pezzi, causando nel giro di pochi minuti un’emorragia massiva pari a quasi tre unità di sangue, più di un terzo della quantità totale. L’autopsia non mi ha rivelato perché sia morto, anche se la causa del decesso, almeno provvisoriamente, è chiara. Continuo a scrivere, a meditare, a riflettere e fare piani. “Pugnalata/iniezione atipica sul lato sinistro della schiena.” È una diagnosi patologica banale, dopo quello che ho visto, e se la leggessi da qualche parte mi lascerebbe perplessa. La troverei criptica e un po’ strafottente, come una barzelletta di cattivo gusto che sai già come va a finire. Le lesioni interne erano gravissime, la morte crudele e calcolata. Ripenso all’orlo del lungo cappotto nero svolazzante e a cosa deve essere successo pochi secondi prima, quando la persona che lo indossava ha conficcato una lama nella parte bassa della schiena della vittima. Una sensazione istantanea, di shock e dolore, quando ha esclamato: “Che c...? Ehi...!”, poi l’uomo si è portato le mani al petto e si è accasciato a terra, sbattendo la faccia sul vialetto di ardesia. Immagino che la persona con il cappotto nero si sia chinata velocemente per togliergli i guanti neri e se ne sia andata di corsa, nascondendo l’arma del delitto nella manica, in un giornale, o chissà dove. Immagino che sia l’assassino, ripreso dalla telecamera nascosta nelle cuffie del morto. Mi chiedo per l’ennesima volta chi fosse a spiare e cosa spiasse. Che l’assassino avesse installato un minuscolo congegno nelle cuffie della vittima per poterla seguire? Lo immagino, avvolto nel lungo cappotto nero, che procede a grandi passi fra gli alberi, in ombra, e si avvicina alla vittima, che non lo sente perché sta ascoltando la musica e, dopo essere stata pugnalata, cade a terra senza avere il tempo di voltarsi a guardarlo in faccia. Mi chiedo se abbia perso la vita senza sapere chi gliel’aveva tolta. E poi? Come diceva Lucy, forse la persona con il lungo cappotto nero ha controllato le registrazioni e ha deciso che non era il caso di cancellarle, anzi, poteva addirittura essere meglio lasciarle dov’erano. “C’è un motivo per tutto” mi dico. So che è vero, anche se in questo momento non mi sembra. Tuttavia le risposte ci sono e le troverò. E, se adesso come adesso mi pare impossibile arrivare a capire cosa possa aver causato quelle lesioni fatali, mi dico anche che l’assassino non può non aver lasciato tracce. Ne ho raccolto qualcuna sui miei fogli di carta assorbente: sono orme che seguirò e che mi condurranno fino a lui. “Non la farai franca” penso rivolgendomi alla persona con il cappotto nero. “Spero che tu non abbia nulla a che fare con me, chiunque tu sia. Mi auguro con tutto il cuore che tu non sia una persona a cui ho insegnato a essere meticolosa e a usare il cervello.” Ho deciso che Jack Fielding è fuggito, oppure è stato arrestato. Non escludo nemmeno che sia morto. Ma sono esausta, non ho dormito e i miei pensieri non sono disciplinati come dovrebbero. Fielding non può essere morto. Perché mai? Ho visto i morti, giù di sotto, e lui non era fra loro.

Gli altri miei pazienti di stamattina erano piuttosto semplici e non mi hanno richiesto molte energie. Un uomo vittima di un incidente stradale che puzzava di alcol e aveva la vescica piena, come se avesse bevuto finché non è uscito dal bar e si è messo in macchina sotto una tempesta di neve, finendo contro un albero; un uomo ucciso a colpi di pistola in un motel fatiscente, coperto di cicatrici in corrispondenza delle vene del braccio e di tatuaggi da carcerato, l’ennesimo individuo che muore come ha vissuto; una vedova asfissiata, la testa dentro un sacchetto di plastica di una lavanderia legato al collo con un vecchio nastro di raso rosso, forse un ricordo di tempi migliori, lo stomaco pieno di residui di pasticche bianche e una boccetta di benzodiazepine sul comodino, prescrittele contro l’insonnia e l’ansia. Non ho messaggi sul cellulare né sulla segreteria telefonica del mio ufficio e non ho email che mi interessino, in questo momento e in queste circostanze. Quando ho controllato, Lucy non era nel suo laboratorio. Sono andata dalla guardia di turno e ho scoperto che anche Ron è andato via; al suo posto c’è uno che non conosco, un certo Phil, allampanato e con le orecchie come Ichabod Crane. Mi comunica che l’auto di Lucy non è nel parcheggio e che ha l’ordine di non lasciar entrare nessuno senza il mio permesso, né dal piano inferiore né dall’ingresso principale. Non è possibile, gli dico. Fra poco comincerà ad arrivare il personale: non può chiedermi il permesso per ciascuno. Gli dico di lasciar passare tutti quelli che hanno il diritto di entrare. A parte il dottor Fielding, aggiungo. E mi accorgo che non ce n’era bisogno. Phil sa benissimo che Fielding non può presentarsi come se niente fosse, non lo farà o forse non è in grado di farlo. Nel parcheggio ci sono diversi agenti dell’FBI. Vedo i loro SUV sul monitor del mio ufficio. Ruoto sulla poltroncina girevole verso il piano di granito su cui tengo il mio arsenale di microscopi e accessori vari. Prendo un paio di guanti e apro una delle buste bianche che ho chiuso con il nastro adesivo appena prima di salire. Poi prendo un foglietto di carta assorbente con un campione di sangue prelevato dal rene sinistro del morto, dove alla risonanza magnetica risultava un’alta concentrazione di materiale metallico. Accendo la lampada del microscopio Leica che uso da anni, tolgo con cura la carta dal tavolino portaoggetti, sposto gli oculari in maniera da non dover allungare troppo il collo e mi accorgo subito che è stato regolato per qualcuno molto più alto di me e non mancino. Sospetto che si tratti della stessa persona che macchia il caffè con la panna e mastica gomme alla menta. Anche la messa a fuoco e la distanza fra gli oculari sono diverse da quelle che uso io. Regolo il microscopio per poterlo utilizzare con la mano sinistra, lo sistemo alla mia altezza e comincio con un ingrandimento 50 ×, girando il pomello della messa a fuoco con una mano e spostando il campione di sangue sul tavolino portaoggetti con l’altra finché trovo quello che cerco, ovvero frammenti e scaglie di un bianco brillante in una costellazione di altre particelle talmente minuscole che non riesco a vederne le caratteristiche neppure con un ingrandimento 100 ×. Vedo solo bordi ruvidi, graffi e striature sulle particelle più grosse, che sembrano scaglie di metallo non bruciate e

limatura proveniente da qualche utensile o macchinario. Non noto niente che mi faccia pensare a residui di polvere da sparo, che assomigli anche solo lontanamente alle scaglie, ai dischetti e alle palline che associo alla polvere da sparo, al particolato o ai frammenti dentellati di un proiettile o di un bossolo. Ancora più curiose sono le scorie miste a sangue, coriandoli colorati di quei detriti che costituiscono la normalissima polvere, vicino a globuli rossi impilati come monete e leucociti che fanno pensare ad amebe che nuotano e saltellano insieme con una piattola e una pulce. Questo spettacolo mi fa riflettere sul panico che scatenò nella Londra del diciassettesimo secolo la pubblicazione da parte di Robert Hooke di Micrographia, che rivelava le fauci e gli artigli affilati dei parassiti che infestano gatti e materassi. Riconosco funghi e spore che sembrano spugne e frutti, pezzetti spinosi di zampe di insetto e gusci di uova di insetto che sembrano gusci delicati di noci o scatoline sferiche intagliate in un legno poroso. Sposto il foglietto di carta assorbente e vedo altre appendici pelose di mostri da tempo defunti, come acari e moscerini, e gli occhi grandi e compositi di una formica decapitata, l’antenna piumata di quella che forse era una zanzara, scaglie sovrapposte di pelo di animale, cavallo, cane o ratto, e fiocchetti di un rosso arancione che potrebbero essere ruggine. Prendo il telefono e chiamo Benton. Quando mi risponde, sento voci in sottofondo. La linea è disturbata. «Penso che la lama sia stata affilata o sagomata al tornio, probabilmente un tornio arrugginito, in una cantina, un laboratorio o un seminterrato dove ci sono muffa, insetti, resti vegetali marci e forse una moquette umida» gli comunico subito e intanto avvio una ricerca su Internet digitando “coltello” e “gas esplodenti”. «Che cosa è stato affilato?» mi domanda Benton. Poi dice qualcosa a qualcun altro, tipo “servono le chiavi” o “servono dei bravi”. «Non sono in un buon posto, mi sto muovendo.» «L’arma con cui lo hanno pugnalato. Doveva essere un tornio arrugginito, probabilmente vecchio o in cattivo stato. Lo dico perché vedo limatura di metallo e particolato molto fine. Penso che la lama sia stata lavorata, probabilmente per farla diventare più sottile o per affilarne la punta sui due lati, per renderla simile a una fiocina. Con uno strumento adatto per affilare e levigare, come una lima o una raspa.» «Dici che hanno adoperato utensili elettrici, ma vecchi e arrugginiti. C’è tanta ruggine?» «Utensili per lavorare il metallo, non necessariamente elettrici. Ma non sono in grado di entrare così nei dettagli. Non sono un’esperta e non so giudicare se la ruggine sia tanta o poca. Posso dirti solo che ho trovato frammenti che mi sembrano di ruggine.» “Esplosione dell’intestino.” “Come pulire le candele della vostra macchina.” “Gas comuni associati alla lavorazione dei metalli e ai coltelli forgiati a mano.” Leggo quello che appare sullo schermo del mio computer e intanto dico: «Non sono un’analista di prove materiali, ma non ho mai visto una cosa del genere al microscopio. Non ho mai trovato nulla di simile dentro un cadavere. Per la verità, non l’ho mai neanche cercato,

ma perché non ne avevo motivo. Non è consueto prelevare tamponi su carta assorbente dagli organi interni di chi è morto accoltellato. Forse nei cadaveri di persone morte per ferite d’arma da fuoco, da taglio, o impalate, ci sono sempre particolato e fibre che non si vedono a occhio nudo. Forse è la norma.» Seguo un’intuizione e digito “coltello ad aria compressa” nella stringa del motore di ricerca. Penso a dardi telecomandati, armi a CO2 per sparare proiettili narcotizzanti dotati di una piccola carica esplosiva e aghi ipodermici. Mi chiedo se non si possa fare lo stesso con un coltello, ammesso che lo si riesca a caricare e a fornire di una sottile canaletta all’interno della lama e di un piccolo foro di uscita in punta. «Adesso sono fuori e sto per prendere la macchina» mi informa Benton. «Traffico permettendo, sarò lì fra tre quarti d’ora, un’ora al massimo. Le strade sono percorribili. La Route 128 è abbastanza sgombra.» «Be’, non è stato difficile.» Sono sgomenta: un’arma così pericolosa non dovrebbe essere tanto facile da trovare. «Cosa?» mi chiede Benton mentre io guardo scioccata l’immagine di un coltello da combattimento in acciaio con manico in Neoprene e un forellino di uscita per il gas sulla punta, in una custodia di plastica imbottita di gommapiuma. «Si avvita la bomboletta di CO2 nel manico...» leggo ad alta voce. «Si conficca la lama in acciaio inox da dodici centimetri nella vittima e con il dito pollice si aziona il pulsante di rilascio, mimetizzato nella guardia...» «Kay? Con chi sei?» «Inietta una sfera di gas refrigerante delle dimensioni di un pallone da basket, oltre seicento centimetri cubici, a cinquemilacinquecento kilo pascal di pressione» continuo scorrendo le immagini di un sito piuttosto elaborato e chiedendomi quante persone tengono un’arma del genere a casa, in macchina, fra l’attrezzatura da campeggio. Chissà se qualcuno se la porta sempre dietro quando va a camminare. Ammetto che è un’arma ingegnosa, una delle più spaventose che io abbia mai visto. «Uccide un grosso mammifero al primo colpo...» «Kay, sei da sola o con qualcuno?» «Congela all’istante i tessuti in cui penetra, ritardando il sanguinamento onde evitare di attirare altri predatori: se lo usi contro uno squalo bianco, per esempio, è utilissimo perché avrai tutto il tempo di scappare prima che il sangue ne attragga altri.» Continuo a leggere e mi sento sempre peggio. «Si chiama WASP e puoi aggiungerlo al carrello per meno di quattrocento dollari.» «Ne parliamo quando ci vediamo, okay?» dice Benton al telefono. «Non l’avevo mai sentito.» A mano a mano che leggo la descrizione di questo coltello munito di una bomboletta di gas compresso, che potrei ordinare in questo stesso momento, avendo più di diciott’anni. «Viene pubblicizzato per incursori, SWAT, piloti in mare aperto, subacquei. Sembra che in origine sia stato sviluppato come coltello “anti-squali”, per difendersi da grossi predatori marini, balene e magari altri sub...» «Kay?»

«O per difendersi dai grizzly durante le passeggiate in montagna.» Non mi sforzo neanche di non sembrare sarcastica, di nascondere la rabbia che provo. «Naturalmente è ottimo per scopi militari, anche se non ho mai visto nessun militare con lesioni simili a quelle che...» Benton mi interrompe. «Sono al cellulare. Preferirei che non dicessi niente a nessuno, per ora. O forse ne hai già parlato con qualcuno?» «No.» «Sei da sola?» mi chiede di nuovo. “Perché non dovrei esserlo?” Rispondo di sì. «Senti: cancellalo dalla cronologia e svuota la memoria cache, caso mai qualcuno decidesse di controllare le tue ricerche.» «Non posso impedire a Lucy di controllarmi il computer.» «Finché lo fa Lucy, non importa.» «Non è qui. Non so dove sia.» «Lo so io» mi dice lui. «Va bene.» Benton non ha intenzione di dirmi dove sono Lucy e gli altri. «Finisco due o tre cose e quando arrivi qui scendo. Ci vediamo sul retro.» Riaggancio e mi sforzo di razionalizzare. Cerco di non offendermi, di riflettere obiettivamente su quello che è appena successo. Benton non mi è sembrato né sorpreso né preoccupato. Non si è mostrato allarmato tanto da quello che ho scoperto, quanto dal fatto che lo avessi scoperto e potessi averlo detto a qualcuno. Questo con ogni probabilità significa che ciò che ho cominciato a sospettare tornando da Dover è giusto: non sono io a scoprire le cose, sono l’ultima a saperle. Nessuno vuole che io sappia la verità. È una situazione molto fastidiosa, anche se non è la prima volta che mi ci trovo. Mentre faccio queste riflessioni, svuoto la memoria cache e cancello la cronologia, come mi ha raccomandato Benton. In questo modo, rendo più complicato a un eventuale ficcanaso ricostruire le mie ricerche su Internet. Mi chiedo se è stato mio marito a raccomandarmelo o l’FBI. Con chi ho appena parlato? Chi mi ha suggerito cosa fare e non fare? Sono quasi le nove e ormai il personale è già arrivato praticamente tutto. Chi non è ancora in ufficio ha approfittato del maltempo per restarsene a casa o per fare dell’altro, tipo andare a sciare nel Vermont. Sul monitor dell’impianto di sicurezza vedo le auto che si immettono nel parcheggio e la gente che entra dalla porta sul retro, ma so che la maggioranza dei dipendenti preferisce evitare il cupo regno dei morti al piano inferiore e usa l’ingresso principale, passa nell’atrio pavimentato di marmo con le bandiere e i bassorilievi. I tecnici non hanno bisogno di entrare a contatto con i cadaveri di cui analizzano liquidi corporei, effetti personali e prove materiali. Sento che Bryce, il mio segretario, apre la porta del suo ufficio, adiacente al mio. Ripongo il campione in una busta pulita e apro un cassetto per prendere le altre cose che ho tenuto sottochiave imponendomi di non precipitare nella depressione, di non lasciarmi travolgere dai brutti pensieri riguardo a quello che ho appena visto in rete. Mi

addolora che l’essere umano si ingegni tanto per inventare armi sempre più creative e micidiali. Forse fa parte dell’istinto di sopravvivenza, ma ormai non ha quasi più nulla a che fare con il bisogno di restare vivi: adesso il desiderio è spesso quello di impedire agli altri di restarlo, è una questione di potere, di sopraffazione. L’uomo si sente potente quando può uccidere o mutilare il prossimo. È terribile, spaventoso. Ormai non ho più dubbi sulla dinamica dell’omicidio dell’uomo a Norton’s Woods: qualcuno gli si è avvicinato da dietro e lo ha trafitto con un coltello WASP, sparandogli una palla di gas compresso negli organi vitali. Se il gas era CO2, non c’è esame che lo dimostrerà. L’anidride carbonica è ovunque, è nell’aria che respiriamo. Ripenso a quanto ho visto alla TAC, le scure sacche di aria che la vittima aveva nel petto, e mi chiedo che cosa può aver sentito mentre gliele sparavano. Mi faccio la stessa domanda di sempre. Ha sofferto? La verità è che nessuno lo sa, a parte il morto. In questo caso, però, direi che no, non ha sofferto. Ha certamente sentito qualcosa di strano e probabilmente ha immaginato che stava per succedere qualcosa di catastrofico, ma non può essere rimasto cosciente abbastanza a lungo da provare molto dolore. Penso che abbia percepito una fitta alla parte bassa della schiena e poi una pressione terribile nel petto, quando si sono lesionati gli organi interni, tutti insieme. Non deve aver sentito altro, eccetto forse un flash, un barlume di panico, la consapevolezza di essere sul punto di morire. Smetto di pensarci, perché assecondare le ossessioni non serve a niente, anzi, è controproducente. Ti paralizza. E comunque, ormai, non c’è più niente da fare. È inutile lasciarsi travolgere da certe emozioni. Ho imparato a tenerle nascoste quando curavo mio padre e a volte i sentimenti mi assalivano come creature disperate in cerca di una via di scampo. “Mi preoccupa che tu abbia già vissuto certe cose, mia piccola Katie” mi diceva mio padre. Avevo dodici anni e lui era uno scheletro disteso nel letto, in una stanza in cui faceva sempre troppo caldo, l’aria odorava di malattia e la luce filtrava appena tra le fessure delle persiane che negli ultimi mesi erano perennemente chiuse. “Certe cose non vanno vissute alla tua età, piccola mia” mormorava mentre gli rifacevo il letto senza farlo alzare, dopo avere imparato a lavarlo religiosamente in maniera che non soffrisse anche per le piaghe da decubito. Gli cambiavo le lenzuola che sporcava spostandolo prima da una parte e poi dall’altra e il suo corpo mi pareva svuotato, già morto, a parte il calore della febbre. Alla fine, quando non era più in grado di mettersi in piedi e neppure di sedersi, lo aiutavo a girarsi su un fianco e lasciavo che si appoggiasse a me. Era inerte, troppo debole per collaborare. Era nella fase che il medico chiamava la “fase acuta” della sua leucemia mieloide cronica. A volte, quando sono di fronte al mio tavolo di acciaio, con il camice e gli occhiali protettivi, mi torna in mente ancora adesso e mi pare di sentire il peso del suo corpo contro il mio. Riempio i moduli per la richiesta delle analisi di laboratorio che devono essere controfirmati dai vari tecnici e li allego ai campioni corrispondenti, per poter poi ricostruire i vari passaggi. Solo a quel punto mi alzo dalla mia scrivania.

16 Busso e apro la porta dell’ufficio di Bryce. Abbiamo un ingresso comune, davanti alla porta del mio bagno, che ho imparato a lasciare socchiusa. Quando tutt’e due le porte grigie sono chiuse, tendo a confondermi: entro nell’ufficio di Bryce se ho voglia di un caffè o devo lavarmi le mani e nel bagno se devo portare dei documenti al mio segretario. Lo trovo alla scrivania con la poltroncina spostata all’indietro. Si è già tolto il cappotto, che ha appeso allo schienale, ma ha ancora indosso gli occhiali da sole, che sono grandi, firmati e ridicolmente pesanti. Sembra che glieli abbiano disegnati sulla faccia con un pastello marrone scuro. Sta bisticciando con un paio di scarponcini da neve L.L. Bean, che non si accordano granché con il resto del suo abbigliamento. Ha una giacca di cachemire, jeans aderentissimi neri, dolcevita nera e una cintura di pelle con una fibbia a forma di drago. «Devo fare una telefonata per cui preferirei non essere disturbata» gli dico, come se fossi stata sempre qui negli ultimi sei mesi, come se non me ne fossi mai andata. «Poi devo uscire.» «Vorrei tanto sapere cosa diavolo sta succedendo qui dentro. A proposito, bentornata.» Mi guarda, con gli occhiali ancora sul naso. «Immagino che le auto civetta nel parcheggio non siano qui per una festa a sorpresa, visto che non ho in programma nessuna festa a sorpresa. Anche se fosse, comunque, non credo che quella gente sia qui per me. Mi sono avvicinato e ho chiesto gentilmente spiegazioni, pregando lorsignori di spostarsi dal mio parcheggio, per cortesia, ma mi sono parsi un tantino nervosetti.» «Sono qui per il morto di ieri mattina» incomincio. «Ah, be’, certo. Non mi meraviglia.» Si illumina, come se gli avessi dato chissà quale buona notizia. «Sapevo che era una faccenda grave, me lo sentivo. Comunque non è morto qui, vero? Ti prego, dimmi che non hai trovato niente che confermi una cosa tanto orrenda. Altrimenti ti avverto: mi cerco subito un altro lavoro, a costo di non comprare quel bungalow che ho visto con Ethan. Hai scoperto com’è successo? Immagino di sì. L’avrai capito nel giro di cinque minuti, conoscendoti.» Si toglie anche il secondo scarponcino e li mette da una parte. Mi accorgo che dall’ultima volta che l’ho visto ha cambiato taglio di capelli e si è rasato i baffi e la barba. Bryce non è molto alto ed è di corporatura piuttosto minuta, ma è tonico e ha un bel viso. Sembra un cherubino, e il mio non è un cliché. Non si piace con barba e baffi e probabilmente quando se li fa crescere è per assomigliare a qualcun altro, per sentirsi maschio come James Brolin o maturo come Wolf Blitzer, i suoi eroi. Il mio fido segretario considera suoi amici molti personaggi famosi, di cui parla spesso come se fossero vicini di casa. È molto capace dal punto di vista professionale, è laureato, ha studiato criminologia e scienza della pubblica amministrazione, ma a prima vista sembra fuori posto, come se fosse appena arrivato da E! Da quando lavora con me, sfrutto questo suo vezzo a mio vantaggio. La maggioranza della gente che viene da fuori ma anche molti fra il

personale del CFC non si rendono conto che Bryce Clark, mormone loquace e sempre all’ultima moda, è un tipo tosto. Non va sottovalutato, specie perché vede tutto e mi riferisce tutto. È bravissimo a carpire informazioni e a riportarle al nido, come una gazza. Se prende qualcuno in antipatia, povero lui. Da questo punto di vista, Bryce è pericoloso perché non si fa accorgere di niente, si nasconde dietro le chiacchiere e un’ostentata cordialità. In questo mi ricorda la mia segretaria storica, Rose. Chi commetteva l’errore di trattarla come un’inutile vecchietta prima o poi la pagava cara. «FBI? Sicurezza interna? Non ho riconosciuto nessuno.» Bryce si china sulla sedia per aprire la cerniera lampo della sua sacca da ginnastica in nylon. Ai piedi ha soltanto i calzini. «Penso che siano dell’FBI...» comincio, ma Bryce non mi lascia finire. «Be’, quello con cui ho parlato di certo lo sembrava, elegante com’era, in abito grigio e cappotto di cammello. Secondo me, all’FBI se ingrassi ti licenziano. Si ritroveranno senza personale, considerato il tasso di obesità che abbiamo negli USA. Bel tipo, lo devo ammettere. Tu l’hai visto? Sappiamo come si chiama? Da che ufficio viene? Non mi sembra di Boston, ma magari è appena arrivato.» «Di chi parli, Bryce?» Non sto capendo niente. «Sei stanca, eh? Parlo dell’agente sul Ford Expedition nero, che assomiglia al calciatore di Glee. Ma già, figuriamoci se tu guardi Glee. Eppure è la migliore serie TV da un po’ di tempo a questa parte. A proposito, non posso credere che non ti piaccia Jane Lynch. Sai chi è, vero? Ma forse no, perché non avrai visto nemmeno The L Word. Hai presente quella di Campioni di razza e Ricky Bobby: la storia di un uomo che sapeva contare fino a uno? Mi fa morire dal ridere. Comunque, l’agente federale sul Ford nero è sputato Finn...» «Bryce.» «Va bene. Io l’ho visto, il sangue del morto di Norton’s Woods. Ne ha perso tantissimo dentro il sacco. Una cosa tremenda, davvero! Mi sono detto: “Ecco, ci siamo. È la fine”. Con Marino che sbuffava e imprecava come se dovesse venire giù il mondo. Era agitatissimo. Ci credo, poveraccio. Pensare che fosse arrivato qui vivo e fosse morto nella cella frigorifera! Ho detto a Ethan che d’ora in avanti dovremo stare attenti anche ai centesimi, perché potrei perdere il lavoro e in questo momento, con la crisi... Disoccupazione al dieci percento. Un incubo. Dubito che mi prenderebbero al Doctor G, perché tutti quelli che lavorano in un Istituto di medicina legale vorrebbero partecipare allo show e quindi la concorrenza è spietata. Tu, però, potresti raccomandarmi, se qui va tutto in malora. Oppure potresti fare anche tu un reality. Cosa ne dici? Sul serio. Qualche anno fa eri di casa alla CNN, no? Perché non potremmo fare qualcosa anche noi?» «Bryce, ti devo parlare.» Ma è inutile quando fa così. «Sono contento che tu sia tornata, anche se mi spiace che abbia dovuto anticipare la partenza per una cosa così terribile. Non ho chiuso occhio stanotte: pensavo a cosa dire ai giornalisti. Adesso arrivo qui e vedo tutti quei SUV. Lì per lì ho pensato che fossero giornalisti, mi aspettavo di vedere TV, radio...»

«Bryce, per favore, datti una calmata. E togliti gli occhiali scuri.» «Invece, giornalisti niente. Non uno che abbia chiamato, o abbia lasciato un messaggio, o qualcosa...» «Per piacere. Ti devo parlare, Bryce» lo interrompo. «Sì, va bene.» Si toglie gli occhiali scuri e si infila una scarpa da basket nera. «È che sono teso come una corda di violino. Sai che quando mi agito non riesco a stare zitto.» «Hai sentito Jack Fielding?» «Dov’è la Bocca della Verità? Mi serve!» Si allaccia le scarpe. «Ti prego, non mi chiedere di mentire. E digli, per cortesia, che a lui io non rispondo più. Meno male che sei tornata. Davvero.» «Perché dici così?» «Perché Fielding mi dà ordini come se fossi un cameriere di un drive-in. Sbraita e strepita e perde pure i capelli. Un giorno o l’altro prenderà a calci qualcuno, te lo dico io. Magari me. Oppure mi mette le mani al collo e mi strozza. È cintura nera miliardesimo dan, no? Mi fa secco all’istante se gli gira. Cazzo. Scusa. È peggiorato, sai? Ma non potevamo disturbarti a Dover. L’ho detto a tutti quanti, abbiamo fatto passare la voce: non si disturba la dottoressa Scarpetta, finché è a Dover. Di’, non sei andata a dormire ieri notte, vero? Me ne accorgo solo adesso: hai la faccia stanca.» Mi squadra con i suoi occhi azzurri e controlla come sono vestita. Ho ancora i pantaloni beige e la maglia nera con lo stemma dell’AFME che mi sono messa a Dover. «Sono venuta direttamente qui e non avevo cambi.» Finalmente Bryce mi lascia parlare. «Non capisco perché ti sei tolto gli L.L. Bean per metterti le vecchie Converse di quando giocavi a basket.» «So benissimo che certe cose non ti sfuggono. Sai perfettamente che non ho mai giocato a basket. Quando ero ragazzo, d’estate andavo ai campeggi dove si faceva musica, non pallacanestro. Hugo Boss, metà prezzo su Endless punto com, spedizione gratuita» mi spiega alzandosi in piedi. «Faccio il caffè. Ti va? Comunque, per rispondere alla tua domanda: non ho sentito il dottor Fielding. Non mi dire che ci sono problemi e che gli agenti federali nel nostro parcheggio sono qui per questo. Potrebbero anche fare uno sforzo, già che ci sono, però: almeno un briciolo di educazione! Se andassi in giro con la pistola e fossi autorizzato ad arrestare la gente, io avrei il sorriso sempre stampato sulla faccia e sarei gentile con tutti. Cosa ti costa?» Si infila nel mio bagno. «Posso passare a casa tua a prenderti dei vestiti, se ti fa piacere. Dimmi tu. Preferisci un tailleur o qualcosa di più casual?» «Nel caso dovessi rimanere qui ancora a lungo...» Sono tentata di accettare la sua proposta. «Dobbiamo organizzare un piccolo guardaroba di emergenza. Alta moda!» esclama mentre prepara il caffè. «Be’, se partiamo con il reality ci vuole senz’altro. E poi truccatori, parrucchieri... Non ti capiterebbe più di rimetterti gli stessi vestiti puzzolenti. Cioè, non voglio dire che... Insomma, ci siamo capiti. La cosa migliore, comunque, sarebbe che te ne andassi a casa e ti facessi una bella dormita.» Sento il borbottio della

macchina dell’espresso. «Vuoi mica che scenda un attimino a prenderti qualcosa da mangiare? Io, quando sono stanco e non dormo, poi...» Esce dal bagno con due caffè. «Qualcosa ad alto contenuto di grassi. Ci sono un tempo e un luogo per tutto. Uno di quei panini con uova e salsiccia che fanno da Dunkin’ Donuts? Cosa ne dici? Te ne prendo due. Mi sembri dimagrita. La vita militare non ti si addice, eh?» «Bryce, sai se ha chiamato una certa Erica Donahue?» gli chiedo tornando verso la mia scrivania con un caffè che non sono sicura di voler bere. Apro un cassetto e cerco un Advil, sperando di averne una boccetta da qualche parte. «Sì che ha chiamato. Diverse volte.» Bryce beve un sorso di caffè, cauto, appoggiandosi allo stipite della porta comunicante. Visto che non aggiunge altro, gli domando: «Quando?». «Appena la storia del figlio è uscita sui giornali. Una settimana fa, all’incirca, quando lui ha confessato di aver ucciso Mark Bishop.» «Le hai parlato tu?» «Be’, parlato... Non ho fatto altro che passarle di nuovo Fielding, quando in realtà la signora Donahue cercava te.» «Di nuovo?» «Fattelo spiegare da lui, per favore. Io non ne so niente» ribatte Bryce. Non è da lui fare questo genere di cerimonie. La sua circospezione mi insospettisce. «E Fielding le ha parlato.» «Mi pare che fosse...» Bryce ha l’abitudine di guardare la cupola come se contenesse una risposta a tutte le sue domande. È una tattica per prendere tempo, più che altro. «Giovedì scorso.» «Le hai parlato prima tu e poi l’hai passata a Fielding.» «Ho ascoltato, più che parlato.» «Cosa ti ha detto? Com’era?» «Educatissima, da brava signora intelligente e colta delle classi alte qual è. Insomma, la famiglia Donahue... Dicono che sembri un po’ la storia di Johnny Hinckley Junior. Tristemente famoso come lui, o quasi. Ma forse tu non leggi ’ste porcate sui siti horror tipo Macabre Trivialità, Wicked-pedia, Cripta-to eccetera eccetera. Io devo, fa parte del mio lavoro raccogliere informazioni su quello che viene detto nelle nicchie del cyberspazio più appassionate a crimini e misfatti.» È di nuovo a suo agio. Si agita solo quando gli chiedo di Fielding. «La madre un tempo era una pianista quasi famosa e suonava in un’orchestra sinfonica. A San Francisco, mi pare» continua. «Mi sembra di aver letto che fosse allieva di Yundi Li, ma dubito che Yundi Li dia lezioni di piano, a parte il fatto che ha solo ventotto anni. Una palla, di sicuro. Possiamo immaginarci come si sente in questo momento, con tutti che sostengono che suo figlio soffre della sindrome del savant e ha capacità eccezionali, come riconoscere i segni degli pneumatici. Lo diceva l’ispettore di Salem, Saint Hilaire, che è un uomo tutt’altro che eccezionale... ma tu non lo hai ancora conosciuto, dico bene? Sembra che Johnny Donahue sia in grado di guardare uno sterrato e dire: “Pneumatico anteriore di motocicletta, Bridgestone Battle

Wing”. Ho citato le Battle Wing perché Ethan le ha montate sulla sua BMW, a cui purtroppo è affezionatissimo. Tu sai che paura ho io delle moto: quanti donatori di organi sono ex motociclisti? Comunque, pare che Johnny Donahue sia anche in grado di fare calcoli astrusi a mente. Non quanto costano sei banane se il prezzo di ognuna è ottantanove centesimi. No, roba molto più complicata, tipo quanto fa centotré radice di sette per nove. Ma tu lo sai già. Sono sicuro che hai studiato il caso a fondo.» «Che cosa voleva da me la signora Donahue? Te l’ha detto, Bryce?» Conosco il mio segretario e so che non si è lasciato sfuggire l’occasione di parlare con Erica Donahue. Probabilmente l’ha sfinita, curioso e chiacchierone com’è. «Be’, ovviamente la signora sostiene che il figlio è innocente. Dice che se si esaminano i fatti con la mente sgombra da pregiudizi si vedono tutte le contraddizioni. I conflitti» mi risponde Bryce, soffiando sul caffè. Evita il mio sguardo. «Quali conflitti?» «Dice di avergli parlato il giorno dell’omicidio verso le nove del mattino, prima che lui andasse a Cambridge in quel caffè, che fra parentesi è vicino a casa tua. Adesso è diventato famoso, sai?» continua. «Il Biscuit. C’è sempre la coda, ormai, con tutta la pubblicità che gli hanno fatto. Incredibile come gli assassini richiamino l’attenzione. Comunque, secondo sua madre quel giorno Johnny non stava bene. Aveva un’allergia terrificante e si lamentava che le pillole, le iniezioni o qualunque cosa facesse non gli servivano più a niente. Pare avesse aumentato le dosi e si sentisse sempre peggio. “Marcio” mi sembra sia il termine che ha usato. La sua idea è che, se hai gli occhi che ti bruciano e il naso che cola, non vai in giro ad ammazzare la gente. Non ho voluto farle presente che questa argomentazione non avrebbe convinto una giuria...» «Devo fare una telefonata e poi portare le prove ai laboratori» lo interrompo. «Controlli per favore se Evelyn è arrivata e le dici che ho delle prove materiali urgenti da analizzare? Vorrei che se ne occupasse per prima. Dopo le passiamo a quelli delle impronte digitali e del DNA e infine facciamo il tossicologico. Un campione in particolare, poi, deve tornare al laboratorio di Lucy. Ho provato, poco fa, ma non c’era ancora nessuno. Shane viene a lavorare oggi? Avrei bisogno di consultarlo per un documento.» «Be’, non siamo una squadra di rugby isolata sulle Ande sotto una tempesta di neve, che prima o poi per sopravvivere dovrà ricorrere alla pratica del cannibalismo.» «Ha nevicato tutta la notte.» «Sei stata troppo tempo al Sud. Per due dita di neve non si ferma il mondo. D’accordo, c’è un po’ di ghiaccio, ma qui ci siamo abituati» ribatte Bryce. «Senti, di’ a Evelyn se può salire subito. Falla accomodare nell’ufficio di Jack Fielding.» Decido di non aspettare. Mi viene in mente il camice piegato nel sacchetto della spazzatura. Spiego a Bryce che cosa c’era nelle tasche e gli dico che voglio che venga analizzato con il microscopio elettronico a scansione. Voglio anche un’analisi chimica non distruttiva.

«Sta’ attento a non aprire il sacchetto e a non toccare niente» gli raccomando. «E di’ a Evelyn che ci sono impronte digitali sulla pellicola plastificata e quindi ci sarà anche DNA.» Ormai Bryce è oltre la porta chiusa, ma decido di aspettare un momento prima di chiamare Erica Donahue. Ho bisogno di riflettere, di chiarirmi le idee. Voglio rileggere la sua lettera e pensare bene a come procedere e, mentre medito su tutto quello che è successo da quando sono partita da Dover e guardo il cielo azzurro del nuovo giorno, mi rendo conto di soffrire ancora degli strascichi del mio ultimo colloquio con una madre. Il ricordo della mia conversazione telefonica con Julia Gabriel e l’idea che qualcuno indugiasse dietro la porta del mio ufficio del Port Mortuary mi ammorbano. La signora Gabriel mi ha rivolto insulti e accuse aspre e antipatiche, ma io non mi sono lasciata ferire dalle sue parole finché non ho scoperto quel che ho scoperto nell’ufficio di Fielding. Da allora in poi i miei pensieri sono offuscati da una nube gelida e cupa come il lato buio della luna. Non so cosa si sia detto di me, cosa si sia deciso dietro le mie spalle, quale creatura a sangue freddo si sia improvvisamente riscossa da un torpore che non è mai stato di morte. Quali pratiche sono state esumate? Quali documenti sono stati consultati? Che cosa ha riportato in vita paure ormai quasi dimenticate? So che la verità è sempre stata lì in agguato, invisibile eppure presente; non l’ho mai cercata ma so che non se n’è mai andata, perché non è mai stata gettata via, restituita al proprietario. Non è roba mia. No, questa brutta cosa non mi appartiene, mi è stata solo buttata addosso. Finché ciò che era avvenuto in Sudafrica fosse rimasto nascosto nel mio armadio, invece che nel posto in cui avrebbe dovuto essere, sarei potuta stare tranquilla. Questo è il messaggio che mi venne dato quando tornai al Walter Reed dopo aver lavorato su quelle due morti. Insieme con i ringraziamenti per il servizio svolto all’AFIP, all’Aeronautica militare, e con la possibilità di un congedo anticipato. I debiti vennero pagati per intero. Mi fu offerto un posto all’Istituto di medicina legale della Virginia, dove avrei potuto avere una carriera ricca di soddisfazioni, purché restassi leale e lavassi i panni sporchi in famiglia. Possibile che sia successo di nuovo? Possibile che Briggs mi abbia fatto ancora lo stesso scherzo? Dove mi manderà adesso? Potrei andare in prepensionamento. Stavolta è ancora peggio. Decido che è insopportabile, perché non so cos’altro pensare. Briggs ha parlato con qualcuno e qualcuno ha parlato con Julia Gabriel, che mi ha accusato di essere falsa, spietata e intollerante. Devo essere consapevole del fatto che questi miasmi tossici influenzeranno ogni mia decisione, almeno in questo momento. E poi c’è la stanchezza. Devo ricordarmi di stare molto attenta, di non lasciarmi prendere troppo dalle emozioni. Devo razionalizzare, guardare le cose con lucidità. Penso alle parole di Lucy riguardo ai filmati delle telecamere di sicurezza e chiamo Bryce. «Dimmi, capo» mi risponde allegro, come se fossero giorni che non ci parliamo. «I filmati delle telecamere a circuito chiuso di quando è venuta da Dover Sophia Avallone?» dico. «So che Fielding le ha fatto fare un giro.»

«Oh, Signore! È passato un bel po’ di tempo. Mi pare fosse novembre.» «Se ben ricordo, è andata dai suoi nel Maine la settimana della festa del Ringraziamento» gli dico. «So che non era a Dover perché io invece ci sono dovuta restare a causa della scarsità di personale.» «Sì, hai ragione. Credo che sia venuta quel venerdì.» «Tu li hai accompagnati nel giro turistico?» «No. Non mi hanno invitato. So che hanno passato parecchio tempo nel tuo ufficio, con la porta chiusa. E hanno mangiato qui, sulla tua scrivania.» «Senti, adesso dovresti fare questo» gli dico. «Cerca Lucy, mandale un SMS o fai come credi, ma dille che voglio una copia delle riprese di tutte le telecamere di sorveglianza in cui appaiono Jack Fielding e Sophia Avallone, comprese quelle nel mio ufficio.» «Nel tuo ufficio?» «Da quanto tempo è che Jack usa il mio ufficio?» «Be’...» «Bryce, per favore: da quanto tempo è?» «Be’, praticamente da quando te ne sei andata. Lo usa per fare colpo sugli altri. Nel senso che non lo usa normalmente, ma solo nelle occasioni “solenni”.» «Di’ a Lucy che voglio le riprese nel mio ufficio: lei capirà. Voglio scoprire di cosa hanno parlato Fielding e il capitano.» «Che bellezza! Lo faccio subito.» «Sto per fare una telefonata importante, quindi ti pregherei di non interrompermi» gli raccomando. Mentre chiudo la comunicazione, rifletto che Benton sta per arrivare. Resisto alla tentazione di fare in fretta, però. È meglio che mi prenda il mio tempo, che dia modo a pensieri e percezioni di trovare la giusta collocazione, ridandomi lucidità. “Sei stanca. Quando sei così stanca, devi stare attenta. Cerca di essere razionale.” C’è un solo modo per fare bene questa cosa. Tutti gli altri sono sbagliati. E io non posso sapere qual è il modo giusto finché non mi ci trovo e, se sono tesa e confusa, ho paura di non riconoscerlo. Prendo la tazza, ma poi cambio idea: meglio che lasci perdere il caffè. A questo punto mi renderebbe soltanto più nervosa e mi causerebbe il bruciore di stomaco. Prendo dalla scatola sul piano di granito dietro la scrivania un altro paio di guanti e sfilo dalla busta di plastica in cui li ho riposti i due fogli di carta spessa della lettera che ho aperto sul SUV di Benton mentre viaggiavamo sotto la bufera di neve. Mi sembra passata un’eternità, invece è stato meno di dodici ore fa. Alla luce del mattino e dopo tutto quello che è successo, mi pare ancora più strano che questa pianista che Bryce mi ha descritto come intelligente e posata abbia usato del vile nastro adesivo metallizzato sulla sua bella carta da lettere. Perché non ha usato dello scotch trasparente, se mai? Perché non ha semplicemente scritto le proprie iniziali sulla busta chiusa, come faccio io per i messaggi personali? Che cosa temeva? Aveva forse paura che l’autista leggesse il suo messaggio a una persona chiamata Scarpetta, di cui evidentemente costui non aveva mai sentito parlare?

Liscio i fogli con la mano protetta dal guanto di cotone e cerco di immedesimarmi in questa donna, il cui giovane figlio ha confessato un omicidio; mi sforzo di capire che cosa voleva esprimere attraverso i tasti della sua macchina per scrivere, che cosa provava e cosa si aspettava da me, come se qualcosa di lei potesse passare a me attraverso la carta. Forse è un’idea che deriva da quello che mi è successo con la pellicola di plastica che ho trovato nel camice di Fielding. Sono trascorse diverse ore da quell’esperienza allucinante e mi rendo conto di quanto è stata brutta. Non ero io. Dev’essere stata dura, per Benton. Forse è per questo che mi tiene all’oscuro e mi raccomanda continuamente di non dire niente a nessuno, come se fossi una che non sa tenere un segreto. Forse non si fida delle mie capacità di giudizio o di autocontrollo. Forse teme che gli orrori della guerra mi abbiano cambiato e dubita che la donna tornata da Dover sia quella che lui conosceva. “Non sono più quella che conoscevi tu” penso fugacemente. “Se mai mi hai conosciuto veramente.” Ma è solo un bisbiglio nella mia mente. Leggo il testo interlinea uno e mi stupisco del fatto che non ci sia un solo errore di battitura nei due fogli. Non ci sono cancellature né correzioni con il bianchetto. Non un errore di ortografia o di grammatica. Penso all’ultima macchina per scrivere che ho usato, la IBM Selectric rosa antico che adoperavo i primi anni a Richmond, e mi torna in mente quanto mi faceva arrabbiare: si strappava sempre il nastro, bisognava sostituire la pallina ogni volta che si voleva cambiare font e il foglio si macchiava continuamente. Per non parlare del fatto che le mie dita battevano sempre sul tasto sbagliato. Inoltre, per quanto io conosca grammatica e ortografia, non sono certo infallibile. Come diceva sempre la mia segretaria Rose quando entrava nel mio ufficio con l’ultima lettera che avevo provato a scrivere da sola: “Non mi risulta che questa cosa sia sul manuale di stile. Non sono riuscita a trovarla io o non c’è proprio? Possibile che ogni volta che prova a battersi qualcosa da sola poi io lo debba riscrivere da capo, dottoressa?”. E scrollava il foglio con quel suo gesto caratteristico che voleva dire “perché non lasci perdere?”. Ma scaccio questi pensieri, perché mi rattrista ricordarla. Mi manca tantissimo e a volte ho la sensazione che, se fosse ancora viva, se lavorasse ancora con me, certe cose non succederebbero. O, per lo meno, mi sembrerebbero meno gravi. Rose mi dava chiarezza, lucidità. Io ero la sua vita. Le persone come Rose non dovrebbero morire mai e non riesco ancora a capacitarmi che non ci sia più. Ma non devo pensare che preferirei avere lei seduta di là, al posto del giovanotto biondo con le scarpe da basket nere. Bisogna che mi concentri sul presente, su Erica Donahue. Cosa devo fare con questa donna? Le devo parlare, e devo farlo bene. Immagino abbia scritto e riscritto la lettera che mi ha mandato fino a ottenere un risultato impeccabile. Mi ricordo che l’autista della Bentley non sembrava essere a conoscenza del fatto che era indirizzata a una donna e ha pensato di dover consegnare la busta chiusa con il nastro metallizzato al signore con i capelli grigi che era con me. Mi dico che la mamma di Johnny Donahue non sembra sapere che lo psicologo forense che ha in cura il figlio, il signore con i capelli grigi che era con me, è mio marito. Pare

all’oscuro del fatto che, contrariamente a quanto scrive nella lettera, al McLean non esiste un reparto riservato agli “psicopatici criminali”, espressione che appartiene al linguaggio giuridico più che medico, o che suo figlio non è mai stato dichiarato tale. Secondo Benton, non sono le uniche inesattezze che la signora Donahue ha scritto. Fa confusione su particolari che potrebbero nuocere moltissimo al figlio, mettendo in dubbio quello che potrebbe essere il suo alibi. Sostenere che è andato via dal Biscuit a Cambridge all’una anziché alle due, come Johnny ha sempre sostenuto, rende più credibile l’ipotesi che sia riuscito ad arrivare a Salem in tempo per uccidere Mark Bishop alle quattro di quel pomeriggio. Poi fa riferimento alla passione del figlio per i romanzi del terrore, i film violenti e horror, e anche a Jack Fielding, alla pistola sparachiodi e ai culti satanici. Niente di tutto questo è vero o dimostrato. Dove ha appreso questi pericolosi dettagli? Da chi? Immagino che possa essere stato Fielding a metterle certe idee in testa quando le ha parlato per telefono, ammesso che sia stato davvero lui a diffondere certe voci e che menta. Benton ne pare convinto. Indipendentemente da quello che Fielding ha o non fatto, dalle verità e dalle menzogne che ha raccontato e dalle sue motivazioni per raccontarle, mi chiedo cos’abbia nella testa la madre di Johnny Donahue. Non riesco a capire la sua logica. È strano che mi abbia fatto recapitare questa lettera. C’è qualcosa che non quadra, qualcosa di profondamente stonato. Una donna così meticolosa da redigere una missiva perfetta, una pianista attenta e misurata, come fa a non prestare attenzione a certi particolari della confessione del figlio riguardo a un crimine tanto orrendo? In un caso come il suo, anche i minimi dettagli sono importantissimi. Come fa una donna colta e intelligente, che ha la possibilità di rivolgersi agli avvocati migliori sulla piazza, a non badarci? Perché si è presa la briga di raccontare certe cose a me, una perfetta sconosciuta, e per giunta per iscritto? Non si rende conto che suo figlio rischia di passare il resto dei suoi giorni in un manicomio criminale, o addirittura in carcere, con il marchio di assassino di bambini? Non capisce che in un posto simile Johnny, con la sindrome del savant e di Asperger, capace di risolvere a mente astrusi problemi matematici, ma incapace di relazionarsi con il prossimo, rischia di non sopravvivere a lungo? Rifletto su queste e altre cose e mi rendo conto che lo faccio con un sentimento e un coinvolgimento spropositati. Non mi riguardano personalmente: dovrei cercare di essere più obiettiva. Nel mio lavoro non bisogna prendere le parti di nessuno, ma mantenersi freddi e distaccati. Il destino di Johnny Donahue o di sua madre non deve interessarmi più di tanto. “Non sei un detective, un agente federale, né tantomeno l’avvocato di Johnny Donahue o il suo psicoterapeuta. Non devi lasciarti coinvolgere.” Continuo a ripetermelo perché non riesco a convincermi. Il mio istinto, straordinariamente forte, mi sta dando del filo da torcere. Ma non saprei nemmeno come metterlo a tacere. Da un certo punto di vista, non credo nemmeno di doverlo fare. Anzi, sono sicura di non volerlo fare. Alcune cose a cui mi sono abituata, non solo a Dover, ma anche avendo a che fare con

questioni non strettamente legate alla guerra ma di competenza dell’AFME, sono fin troppo compatibili con la mia vera natura e non voglio tornare ad agire alla vecchia maniera. Sono anche un militare. Sono anche un civile. Ho vissuto in una base dell’Aeronautica facendo la spola con Washington, ho partecipato a missioni di soccorso sul luogo di incidenti aerei, campi di addestramento, installazioni militari, mi sono occupata di morti che facevano parte delle forze speciali, del servizio segreto, di un giudice federale e persino di un astronauta. Ho gestito emergenze delicatissime, top secret. E adesso sento che mi manca qualcosa, che non voglio limiti, che non posso non occuparmi di cose importanti solo perché esulano dai miei compiti istituzionali. Faccio parte della medical intelligence ed è normale che indaghi su aspetti della vita e della morte che vanno oltre le conclusioni cliniche consuete. I materiali che estraggo dai cadaveri, le ferite provocate da armi di ogni genere, i punti deboli e di forza delle armature protettive, infezioni, malattie, lesioni da parassiti, pulci, calore, disidratazione, noia, depressione, abuso di sostanze sono questioni di difesa e sicurezza nazionali. Non raccolgo dati solo a beneficio delle famiglie e in genere le informazioni che metto insieme non vanno alla procura, ma vengono utilizzate dal dipartimento della Difesa per mettere a punto nuove strategie di guerra e di pace. È normale che io mi ponga degli interrogativi, che segua delle piste e che poi passi tutto quello che trovo al ministro della Sanità e della Difesa, perché ne facciano buon uso. “Adesso sei a casa” mi dico. “Non vuoi fare la figura del colonnello, del comandante, della prima donna. Non vuoi il non luogo a procedere, l’annullamento del processo. Non vuoi causare altri problemi. Non sei già abbastanza nei pasticci? Vuoi sprofondare ancora di più nelle sabbie mobili? Briggs non ti vuole a capo del CFC: stai attenta a non dargli il destro di cacciarti via. Non godi di molta popolarità fra il personale, al momento. Non rendere le cose più facili a chi ti vuole mandare a casa. Hai un unico motivo legittimo per contattare Erica Donahue: chiederle gentilmente di non chiamare più il CFC, nell’interesse suo e di suo figlio.” Decido di esprimermi esattamente così. Mi sono quasi convinta quando compongo il numero indicato in fondo alla lettera.

17 La persona che mi risponde sembra non capire quello che dico e mi tocca ripetere due volte che sono la dottoressa Kay Scarpetta, chiamo perché ho ricevuto una lettera della signora Erica Donahue e, per favore, desidero parlare con lei. «Mi scusi» dice la voce, ben modulata. «Chi ha detto di essere?» È una donna, ne sono quasi certa, benché il timbro sia basso, tenorile. Potrebbe anche essere un ragazzo. Sento le note di un pianoforte in sottofondo. «Parlo con la signora Donahue?» Sono già a disagio. «Per favore, mi ripete chi è lei e perché chiama?» Il tono è più duro, secco. Lo ripeto e riconosco la melodia di uno studio di Chopin, che mi fa tornare in mente un concerto alla Carnegie Hall. Mikhail Pletnev, che eseguì in maniera magistrale un brano difficilissimo. È un pezzo per musicisti precisi, per virtuosi, per gente che sta molto attenta a non sbagliare e che non imbratterebbe mai carta da lettere raffinata con un pezzo di nastro adesivo metallizzato. Gente controllata, tutt’altro che impulsiva. «Non la conosco» replica la voce e adesso sono abbastanza sicura che si tratti della signora Donahue, gelida e tesa, diffidente e addolorata. «Non so come abbia avuto questo numero, dal momento che non compare in nessun elenco. Se il suo vuole essere uno scherzo, sappia che lo trovo di pessimo gusto. Dovrebbe vergognarsi!» «Non è uno scherzo» la interrompo, prima che mi sbatta giù il telefono. Mi viene in mente che forse quella musica la consola. Forse ascolta Chopin, Beethoven, Schumann per cercare conforto dal pensiero di un figlio che deve averla fatta disperare sin dalla nascita. «Sono la direttrice del Cambridge Forensic Center» le spiego, nel tono calmo ma autorevole che uso con i familiari dei miei pazienti morti quando sento che stanno per perdere il controllo. Tratto la signora Donahue come se fosse Julia Gabriel sul punto di urlarmi di tutto. «Ero fuori città e quando ieri sera sono atterrata all’aeroporto il suo autista mi ha consegnato la lettera che lei mi ha scritto, che ho letto con attenzione.» «Impossibile. Io non ho autisti e non le ho scritto nessuna lettera. Non ho scritto a nessun medico legale e non so di cosa sta parlando. Vuole dirmi per favore chi è lei e che cosa vuole da me, per cortesia?» «Ho la lettera qui davanti a me, signora.» È sulla scrivania e la liscio con cura, facendo attenzione. Mi viene l’impulso di chiederle di Fielding, perché l’ha chiamato, che cosa le ha detto. Non voglio farmi odiare da lei, non voglio che pensi che sono insensibile. La sto chiamando per far luce sulla verità. È possibile che Fielding le abbia parlato male di me, come sospetto abbia fatto con Julia Gabriel. Sono lì lì per chiederglielo, ma mi trattengo. Avrei voglia di scoprire cosa si sono detti e a cosa lei ha creduto, ma non è il momento. “Controllati” mi dico. La signora Donahue mi domanda, indignata: «E che cosa le avrei scritto, di grazia?». «La carta da lettere è beige, con uno stemma in filigrana.» Sollevo il primo foglio verso la lampada da tavolo e la oriento in maniera che la lampadina sia direttamente

dietro il marchio, che appare come l’interno di un mollusco attraverso il sottile guscio madreperlaceo. «Un libro aperto con tre corone» dico. Rimango scioccata, anche se cerco di non farmene accorgere. Non voglio che la signora Donahue intuisca quello che mi sta passando per la testa. Le descrivo ciò che vedo, quella specie di ologramma sulla carta da lettere che tengo controluce: un libro aperto fra due corone, una terza corona sotto e tre fiori a cinque petali sopra. Sono questi, sui quali Marino ha sorvolato, che fanno chiaramente escludere lo stemma di Oxford e quello della City University di San Francisco, l’università online. Sotto i miei occhi non c’è l’immagine che ha trovato Benton stamattina su Internet, mentre eravamo nella sala radiografie, bensì quella che ho visto incisa sull’anello d’oro che ho preso dallo stipetto in cui erano conservati gli effetti personali del morto di Norton’s Woods. Apro la busta di carta marrone e mi faccio cadere l’anello sul palmo della mano. Alla luce della lampada l’oro brilla lucidissimo sul cotone bianco del mio guanto. Lo giro per guardarlo bene e noto che è tutto graffiato e che la fascia posteriore è consumata. È un anello molto vecchio, antico. «Sembrano proprio il mio stemma e la mia carta da lettere, lo ammetto» dice la signora Donahue al telefono. Le leggo l’indirizzo di Beacon Hill stampato sulla busta e sull’intestazione e mi conferma che corrispondono. «Com’è possibile? La mia carta da lettere!» È arrabbiata, impaurita. «Mi parla dello stemma, per piacere? Mi spiega che cosa rappresenta, se non le dispiace?» chiedo. Guardo con la lente d’ingrandimento lo stemma con le tre corone e il libro aperto sull’anello di oro giallo e mi accorgo che l’incisione è consumata, a tratti quasi invisibile. I fiori sono solo un’ombra, un fantasma di quelli originariamente incisi nell’oro, cancellati dal tempo. L’anello è chiaramente antico e probabilmente è stato portato da diverse persone, l’ultima delle quali ha trovato la morte nel parco di Norton’s Woods mentre lo aveva al mignolo della mano sinistra. Non ci sono dubbi sul fatto che lo avesse al dito, che l’anello sia arrivato al CFC insieme al cadavere. Non si tratta di un errore. Polizia, soccorritori, inservienti e tecnici vari non hanno fatto confusione. L’anello era al dito dell’uomo quando Marino ha raccolto i suoi effetti personali ieri mattina, li ha chiusi in uno stipetto e ha tenuto la chiave finché l’ha consegnata a me. «Il mio cognome da nubile è Fraser» mi spiega la signora Donahue. «E quello è lo stemma della mia famiglia, creato per Jackson Fraser, il mio bisnonno, il quale volle inserire l’azzurro alla base, l’oro sui contorni e una terza corona rossa. Evidentemente occorre avere una riproduzione a colori per vederli. Io ne ho una nella sala da musica. Dunque lei sostiene di aver ricevuto una missiva scritta sulla mia carta da lettere e consegnatale a mano da un presunto autista. Non capisco proprio. Non vedo perché qualcuno dovrebbe fare una cosa del genere. Che automobile guidava costui? Noi non abbiamo nessun autista, come le dicevo. Io ho una vecchia Mercedes e mio marito ha una SAAB. In questo momento, non è neppure negli Stati Uniti. Non abbiamo autisti a libro paga, le ripeto. Talvolta ne assumiamo uno temporaneamente, per i viaggi lunghi.»

«Mi chiedo se il suo stemma appaia anche altrove, oltre che incorniciato nella sua sala da musica. Magari ricamato, o inciso... Se è uno stemma noto e presente su qualche pubblicazione, qualcuno potrebbe averlo riprodotto...» Comunque gliela formuli, è inevitabile che le paia una domanda assurda. «E a che scopo qualcuno avrebbe dovuto riprodurlo, scusi?» «Pensi alla sua carta da lettere, signora. A che scopo qualcuno potrebbe aver voluto impossessarsene?» «In quella che ha lei lo stemma è stampato?» mi chiede. «Lo si capisce esaminando il foglio?» “Non sai chi sia l’uomo che è morto con l’anello al dito, se sia un suo parente, un membro della stessa famiglia” mi dico. Mi viene in mente che Benton ha detto che Johnny Donahue ha un fratello maggiore che lavora a Langley. E se ieri fosse venuto a Cambridge, magari ospite di qualcuno che abita vicino a Harvard, tiene un vecchio packbot in casa ed è padrone di un cane? E magari lavora in un laboratorio di robotica... Che il figlio maggiore della signora Donahue o qualche altro membro della sua famiglia sia tornato dalla Gran Bretagna prima del tempo, senza dirglielo, e nel frattempo sia morto? La signora Donahue non saprebbe nulla. Com’è fatto fisicamente il fratello di Johnny Donahue? “Non chiederglielo.” «In filigrana» rispondo. Intanto mi domando se la sua famiglia non sia per caso legata a Liam Saltz o a qualcuno che potrebbe aver presenziato alle nozze di sua figlia domenica. Non potrebbero i Donahue avere qualche legame con un parlamentare britannico che si chiama Brown? “Lascia perdere, Kay!” «Be’, non possono essersi fatti fare una carta da lettere identica alla mia dall’oggi al domani» osserva la signora Donahue. Guardo la busta, il nastro adesivo metallizzato che ho avuto cura di conservare intatto. «Specie se non hanno i cliché» aggiunge. Nel nostro lavoro usiamo molto il nastro adesivo, per raccogliere prove materiali da tappeti, moquette e rivestimenti e per prelevare fibre, scaglie di vernice, frammenti di vetro, residui di polvere da sparo, minerali e persino DNA da tutti i tipi di superfici, compresa la pelle. Lo sanno tutti: basta guardare la televisione o cercare su Google. «E se qualcuno si fosse impossessato dei miei cliché? Sì, ma chi? Chi può essere stato?» protesta la signora Donahue. «Senza cliché ci vogliono settimane, per non parlare delle prove di stampa, che io faccio sempre. Non ha senso.» La signora Donahue non chiuderebbe mai una busta elegante, che ha richiesto settimane di preparazione, con un pezzo di nastro adesivo metallizzato. Lo deduco dal fatto che è precisa, orgogliosa e ascolta gli studi di Chopin. Dev’essere stato qualcun altro e credo di avere un’idea del perché l’abbia fatto. Specie se questa persona mi conosce e conosce il mio modo di pensare.

«Lo stemma appare su diversi oggetti di famiglia» aggiunge la signora, perché ha voglia di parlare. Evidentemente non ne può più di tenersi tutto dentro. “Lasciala parlare” mi dico. «Siamo di origini scozzesi, come avrà intuito» continua. «Oltre che incorniciato nella mia sala da musica, lo stemma appare anche sull’argenteria di famiglia, parte della quale ci venne sottratta diversi anni fa da una domestica che licenziammo ma che non fu perseguita, perché la polizia di Boston ritenne che non ci fossero prove sufficienti a suo carico. Immagino dunque che alcuni pezzi possano essere finiti in qualche negozio di antichità o di robivecchi. Non vedo cosa c’entri con la mia carta da lettere, però. Ho l’impressione che lei sia convinta che qualcuno si sia fatto fare della carta da lettere identica alla mia allo scopo di farsi passare per me. O che me l’abbia sottratta. Pensa a un furto di identità, dottoressa?» “Che cosa le posso rispondere? Fino a che punto mi posso spingere?” «È sicura che non le sia stato sottratto altro, ultimamente, con lo stemma di famiglia?» Non voglio nominare per prima l’anello d’oro. «Perché me lo chiede? Cos’altro è successo?» «Ho in mano una lettera che ha tutta l’apparenza di essere stata scritta da lei» insisto, invece di risponderle. «A macchina.» «Effettivamente io uso ancora la macchina per scrivere» replica la signora Donahue, stupefatta. «Non per le lettere personali, però.» «Posso chiederle come scrive le sue lettere personali?» «A penna, naturalmente. Con la stilografica.» «E che carattere ha la sua macchina per scrivere? Se lo sa. Non tutti fanno caso ai font.» «È una Olivetti portatile, che ho da una vita. In genere uso il carattere corsivo, che sembra scritto a mano.» «Una Olivetti manuale, piuttosto vecchiotta.» Guardo la lettera, scritta con il carattere corsivo. «Era di mia madre.» «Signora Donahue, lei sa dov’è la sua macchina per scrivere?» «La tengo nell’armadio della biblioteca quando non la uso. Vado a vedere se c’è.» La sento camminare, poi ho l’impressione che posi il cordless su una superficie dura e sento una serie di sportelli che si aprono e si chiudono. Un attimo dopo la signora Donahue ritorna al telefono. Mi dice, con un filo di voce: «Non c’è». «Ricorda quando l’ha vista l’ultima volta?» «No. Saranno passate settimane... Durante le feste di Natale, forse. Non lo so proprio.» «Non potrebbe essere da qualche altra parte, signora? È sicura di non averla spostata? L’ha per caso prestata a qualcuno?» «No. È terribile! Me l’ha presa qualcuno, che molto probabilmente mi ha preso anche la carta da lettere, per scrivere a lei facendosi passare per me. Perché io non le ho scritto nessuna lettera, dottoressa, glielo assicuro.»

La prima persona che mi viene in mente è Johnny, il quale però è ricoverato al McLean e non può aver preso macchina per scrivere, penna stilografica e carta da lettere a sua madre e poi avere trovato un autista e una Bentley per farmi recapitare a mano una missiva. Ammesso e non concesso che sapesse del mio arrivo ieri sera a bordo dell’elicottero di Lucy. Non voglio chiedere lumi alla signora, a questo proposito. Più domande le faccio, più informazioni le comunico. «Cosa dice la lettera?» insiste la signora Donahue. «Che cosa le hanno scritto, fingendo che venisse da me? Chi può avermi preso la macchina per scrivere? Non dovremmo chiamare la polizia? Mi scusi, straparlo, lei è la polizia.» «Io sono un medico legale» preciso mentre il tempo della musica accelera. È un altro studio, sempre di Chopin. «Non sono della polizia.» «È come se lo fosse, però. I medici legali indagano, al pari della polizia, e hanno un potere del quale a volte abusano, proprio come la polizia. Ho parlato con il suo assistente, il dottor Fielding, delle accuse che sono state mosse a mio figlio. Lei ne è al corrente, lo so bene. Lei sa che ho chiamato il suo ufficio e sa anche perché. E non può non rendersi conto che è tutto sbagliato. Mi sembra una persona equanime, dottoressa. So che era assente, ma devo dirle che non capisco come possa lasciar passare tutto sotto silenzio.» Ruoto sulla poltrona e guardo la vetrata curva dietro la scrivania. La pianta del mio ufficio ha la stessa forma, arrotondata da un lato, del CFC. Il cielo del mattino è azzurro, terso. Lucy definisce questo tipo di tempo “limpido grave”. Noto un movimento sul monitor dell’impianto di sicurezza: nel parcheggio è arrivato un SUV nero. «Ho saputo che lo ha chiamato» rispondo, non potendo esprimere quello che mi sta ribollendo dentro. Cos’avrei lasciato passare sotto silenzio? Come fa a sapere che ero assente? «Capisco le sue preoccupazioni, però...» «Non sono un’ignorante» mi interrompe la signora Donahue. «Mi rendo conto di come vanno queste cose, benché non sia mai stata coinvolta in avvenimenti così tremendi, prima di adesso. Il dottor Fielding non aveva motivo di essere tanto maleducato con me. Era mio preciso diritto fargli le domande che gli ho fatto. Non capisco come lei possa tollerare questa cosa, metterla a tacere. O forse non è così. Forse mi sbaglio e lei non è al corrente di quanto è successo. Ma no: com’è possibile che ne sia all’oscuro? Comanda lei, dico bene? Già che siamo al telefono, potrebbe spiegarmi se le sembra giusto, corretto, legittimo, che uno nella posizione del dottor Fielding possa essere coinvolto in questa faccenda e avere lo stesso tutto questo potere.» Mi raccomando di stare attentissima. È come se nella mia testa fossero scattati diversi allarmi rossi. «Mi dispiace se si è sentita maltrattata, signora Donahue.» Procedo con i piedi di piombo. «Lei comprende che non possiamo discutere dei casi con...» «Dottoressa Scarpetta.» Le note sono più nitide, quasi la musica seguisse le parole della signora. «La prego di credere che non sono stata importuna.» Lo dice con emozione. «Mi scusi un istante: abbasso la musica. Forse lei non conosce Valentina

Lisitsa. Se solo potessi ascoltarla senza avere tutti questi pensieri angosciosi per la testa, con la mente libera da preoccupazioni! La mia carta da lettere, la mia macchina per scrivere, mio figlio! Oh, Signore Iddio!» La musica cessa. «Le domande che ho rivolto al dottor Fielding non erano indiscrete. Non volevo sapere particolari che non ho alcun diritto di conoscere riguardo una vittima di omicidio, meno che mai un bambino. Se le ha riferito questo, le ha detto una cosa non vera. Anzi, siamo schietti: ha mentito. Le ha mentito, dottoressa. E non me ne stupisco minimamente.» «Lei ha chiamato in ufficio chiedendo di me?» le domando, anche se è l’unica cosa che so per certo, a parte quello che mi ha riferito Bryce a proposito delle allergie del figlio Johnny. Evidentemente la signora Donahue non sa che non ho parlato con Fielding. Non gli ha parlato nessuno, rifletto. Se cercherò di minimizzare, di far finta di niente, la signora si irriterà ed entrerà maggiormente nei dettagli. «Verso la fine della settimana scorsa» dice, energica. «Perché volevo parlare con il direttore, visto che con il dottor Fielding non sono arrivata da nessuna parte. Lei capirà certamente la mia preoccupazione. Questa cosa è inaccettabile, se non addirittura criminale. Volevo protestare e mi dispiace se appena lei è tornata le è stato scaricato tutto addosso. Quando ho capito che non era uno scherzo telefonico, ma era lei davvero, il mio primo pensiero è stato di sporgere reclamo. Non ufficialmente, come può sembrare dalle mie parole, almeno in un primo tempo, benché io abbia avvertito il nostro avvocato e anche il vostro ufficio legale sia al corrente, immagino. Adesso però mi rendo conto che forse non ce ne sarà bisogno. Dipende dall’accordo che riusciremo a raggiungere io e lei.» “Accordo?” Non faccio domande. La signora sapeva che stavo per rientrare: questo è in contraddizione con ciò che è scritto nella lettera, anche se quadra con il fatto che la lettera mi è stata consegnata a Hanscom Field. «Cosa c’è scritto nella lettera? Me la può leggere? Perché non dovrebbe farlo?» «È possibile che l’abbia scritta qualcuno della sua famiglia usando la sua carta da lettere e la sua macchina per scrivere?» le chiedo. «Con la mia firma?» Non rispondo. «Immagino che la missiva sia firmata, altrimenti non avrebbe motivo di pensare che sia stata io a scrivergliela, a parte il fatto che sulla carta da lettere c’è il mio indirizzo. Avrebbe potuto benissimo essere stato mio marito, che però è in Giappone da venerdì scorso, per lavoro. Il momento peggiore per una trasferta, devo dire. Mio marito non scriverebbe mai una lettera così, comunque. Mai e poi mai.» «La lettera si presenta in tutto e per tutto come se arrivasse da lei, signora» replico, senza dire che è firmata “Erica” sopra il nome battuto a macchina con il carattere corsivo e che l’indirizzo sulla busta è scritto a mano, in un’elegante grafia piuttosto barocca, a penna stilografica. «Questa cosa mi mette in agitazione. Non capisco perché non vuole leggermela. Ho il diritto di sapere che cosa scrive questa persona che si spaccia per me, ritengo. Altrimenti

vorrà dire che parlerà con il mio avvocato, l’avvocato che difenderà Johnny. Suppongo che parli di mio figlio, questa lettera fasulla. Sarà opera dei delinquenti che stanno dietro tutta questa storia. Johnny stava benissimo finché non è andato là. Da allora, è diventato Mister Hyde. Non è una bella cosa da dire del proprio figlio, ma è l’unico modo per esprimere il suo cambiamento. Secondo me, è colpa di qualche droga, anche se secondo il nostro avvocato i test sono negativi e Johnny è contrario alle droghe. È consapevole del fatto che è meglio non giocare con il fuoco, date le sue condizioni già precarie. Non so cos’altro possa essere stato a farlo cambiare così, a parte qualche droga. Magari gliel’hanno fatta prendere senza che lui se ne accorgesse, per distruggergli la vita, per rovinarlo, incastrandolo in questa faccenda...» Continua a parlare senza fermarsi, sempre più agitata. Bussano alla porta, vedo muovere la maniglia e contemporaneamente Bryce fa capolino dall’altra porta. Gli faccio segno che non è il momento e lui mi sussurra che è arrivato Benton: voglio farlo entrare? Annuisco e lui scompare, mentre si apre l’altra porta. Schiaccio il pulsante del vivavoce. Benton chiude la porta alle proprie spalle e io gli mostro la lettera per fargli capire con chi sono al telefono. Benton avvicina una sedia alla scrivania mentre la signora Donahue continua a parlare. Prendo un foglietto e annoto in fretta: “Non l’ha scritta lei, dice. L’autista e la Bentley non erano suoi”. «... in quel postaccio.» La voce della signora Donahue risuona nel mio ufficio come se fosse qui anche lei. Benton si siede e non reagisce. È pallido, tirato, stanco morto. Non ha una bella cera e odora di fumo di legna. «Io non ci sono mai stata, perché non ammettono visite a meno che non ci sia qualche evento speciale per lo staff...» continua la signora. Benton prende una penna e scrive sullo stesso foglietto: “Otwahl?”. Ma ho la sensazione che sia una farsa: non sembra particolarmente curioso. «Hanno un servizio di sicurezza che sembra quello della Casa Bianca. Anzi, peggio» racconta la signora Donahue. «Io non l’ho mai visto, me l’ha detto mio figlio, che era impaurito, teso come una corda di violino, gli ultimi mesi che c’è stato. Da quest’estate.» «Mi scusi, ma non ho capito bene a cosa si riferisce.» Mentre le faccio la domanda, scrivo a Benton: “Macchina per scrivere sparita da casa”. Benton legge e annuisce, come se sapesse già che la Olivetti manuale della signora Donahue è stata rubata. Ammesso che sia vero. O forse Benton sa che la signora mi ha detto che non c’è più. Che il mio ufficio sia pieno di microspie? Il fatto che Lucy abbia detto di aver controllato se ce ne fossero probabilmente significa che ne ha piazzato qualcuna lei stessa. Mi guardo in giro, come se avessi il potere di vedere minuscole telecamere e microfoni nascosti fra i libri, le penne, i fermacarte o addirittura nel telefono che sto usando. È ridicolo: non ho modo di scoprire se Lucy mi sta sorvegliando. Però, se non lo so io, non lo sa neanche Fielding. E quindi è possibile che

io scopra che cos’ha detto al capitano Sophia Avallone, ignaro di essere spiato. Lo spero proprio. Spero di trovare le prove del complotto che hanno ordito contro di me per farmi cacciare dal CFC. «... dove ha fatto lo stage, in quella ditta che progetta robot e altri aggeggi supersegreti...» mi sta dicendo la signora Donahue. Guardo Benton che si mette le mani in grembo e incrocia le dita come se fosse placido, quando invece è tutt’altro che rilassato. Conosco il suo linguaggio non verbale, capisco le sue emozioni dal modo in cui si siede o muove gli occhi. Nell’immobilità di questo momento leggo inquietudine. È stressato, esausto, ma non solo. Dev’essere successo qualcosa. «... Johnny ha dovuto firmare dei contratti, delle impegnative, ha dovuto giurare che non avrebbe detto niente della Otwahl, nemmeno cosa significa il nome. Se lo immagina? Nemmeno il significato della ragione sociale. Non che io mi stupisca, naturalmente. Con quello che fanno! Contratti segreti con il governo, un’avidità senza pari. C’è da stupirsi, quindi, se poi ti portano via la tua roba, fanno finta di essere te, ti rubano l’identità?» Non ho idea di cosa significhi il nome “Otwahl”. Davo per scontato che fosse il cognome del fondatore, che esistesse un signor Otwahl. Lancio un’occhiata a Benton, che ascolta la signora Donahue con sguardo vacuo. «... Non mi stupisco più di niente, con quello che succede. Ciò che ha fatto Johnny appartiene a loro e a loro resta.» La signora Donahue parla rapidamente, con voce stridula, di gola. «Ho una paura terribile. Chi sono queste persone? Cos’hanno fatto a mio figlio?» «Che cosa le fa pensare che abbiano fatto qualcosa a suo figlio?» le domando, mentre Benton scrive con calma sul foglietto, con le labbra serrate. Fa sempre così quando è di questo umore. «Perché non può essere una coincidenza» mi risponde la signora, con una voce che mi ricorda il corsivo della sua vecchia Olivetti, elegante ma deteriorato, sbiadito, poco nitido, sbavato. «Stava bene, ha cominciato a stare male e adesso è rinchiuso in un ospedale psichiatrico e ha confessato un reato che non ha commesso. Ci mancava solo questa...» aggiunge, rauca. Si schiarisce la voce. «Una lettera sulla mia carta intestata o presunta tale che non ho scritto io e che non ho la più pallida idea di chi possa averle mandato. La mia macchina per scrivere sparita...» Benton mi passa il foglietto e leggo cos’ha scritto con la sua grafia chiara: “Lo sappiamo”. Lo guardo e aggrotto la fronte. Non capisco. «... Perché vogliono che venga accusato di una cosa che non ha fatto? E come sono riusciti a fargli il lavaggio del cervello, a convincerlo di aver ucciso lui quel bambino?» La signora Donahue ribadisce: «Lo hanno drogato. Io non trovo nessun’altra spiegazione. Lo avrà ucciso uno di loro e avrà pensato di usare Johnny come capro espiatorio perché è suggestionabile e non afferra le situazioni come noi. È la persona

ideale, visto che soffre della sindrome di Asperger e...». Guardo le parole scritte da Benton: “Lo sappiamo”. Come se rileggendole potessi capire cosa vogliano dire. Cosa sanno Benton e i suoi invisibili collaboratori, quelli a cui si riferisce quando parla al plurale. Ma, mentre rimango lì a sentire la signora Donahue e mi sforzo di decifrare il significato profondo delle sue parole e di strapparle più informazioni possibile, ho la sensazione che Benton non ascolti. Sembra disinteressato, non è attento come al solito. Intuisco che vuole che concluda la telefonata e vada via con lui, come se fosse finito qualcosa e si trattasse soltanto di chiudere quello che resta da chiudere, chiarire gli ultimi dettagli, ripulire e metterci una pietra sopra. È così che fa quando risolve un caso su cui si è dannato per mesi, o per anni, quando la vicenda si conclude, la giuria raggiunge il verdetto e di colpo è tutto finito, e lui si sente esaurito, depresso. «Quando si è accorta che suo figlio stava cambiando?» Non voglio mollare, nonostante Benton sostenga di sapere, nonostante sia stanco. «Luglio, agosto. A settembre ne ho avuto l’assoluta certezza. Ha iniziato lo stage alla Otwahl il maggio scorso.» «Mark Bishop è stato ucciso il 30 gennaio.» Non voglio essere più esplicita e alludo soltanto al fatto che è assurdo sostenere che suo figlio è stato incastrato, data la tempistica. Se ha cominciato a cambiare personalità l’estate scorsa, mentre lavorava alla Otwahl, ma Mark Bishop è stato ucciso il 30 gennaio, bisognerebbe che qualcuno avesse pianificato di convincere Johnny ad attribuirsi la colpa dell’omicidio con mesi e mesi di anticipo. Eppure l’omicidio di Mark Bishop non sembra un crimine premeditato con cura. Sembra piuttosto un raptus di violenza, insensato e immotivato, contro un bambino che stava giocando nel giardino di casa sua, alla fine di un pomeriggio d’inverno, mentre nessuno guardava. Io ho l’impressione che Mark Bishop fosse semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato e che l’assassino, forse disturbato e con tendenze pedofile, abbia approfittato dell’occasione propizia per sfogare i propri istinti sadici. Non è stata opera di un killer o di un terrorista, non credo che l’assassino avesse deciso in precedenza di uccidere Mark Bishop per raggiungere uno scopo, politico, economico o militare che fosse. «... La gente che non sa niente della sindrome di Asperger dà per scontato che chi ne soffre sia violento e disumano e non provi gli stessi identici sentimenti che proviamo noi. Crede che siano insensibili. La gente si mette in testa queste assurdità solo perché si comportano in maniera eccentrica, insolita. È un handicap.» La signora Donahue parla veloce, in maniera sconclusionata. «Tu noti dei cambiamenti nel comportamento che trovi allarmanti e gli altri ti dicono che fa sempre così. Perché Johnny è atipico e questo si rivela un handicap, per lui. Ci mancava solo questa. Comunque, come le dicevo, non era la sua solita atipicità: ha iniziato a comportarsi in maniera davvero diversa da quando ha cominciato a lavorare alla Otwahl, nel maggio scorso...» Mi viene in mente una cosa che ha detto Benton prima, ovvero che la morte di Mark

Bishop potrebbe essere collegata ad altri omicidi, come quello del campione di football del Boston College ritrovato nel porto di Boston lo scorso novembre e quello dell’uomo ucciso a Norton’s Woods. Se Benton avesse ragione, allora Johnny Donahue dovrebbe fare da capro espiatorio per tutti e tre i delitti. Come potrebbe? Quando è morto il ragazzo a Norton’s Woods, lui era in ospedale, per esempio. So per certo che non può essere stato lui a commettere quell’omicidio e non capisco come qualcuno possa aver pensato di incastrarlo anche per quello. A meno che, invece che all’ospedale, Johnny Donahue fosse in giro per conto suo e con un coltello WASP. Benton scrive sul foglietto: “Dobbiamo andare” e lo sottolinea. «Signora Donahue, suo figlio prende dei farmaci?» domando. «Non proprio.» «Segue una terapia? Assume farmaci da banco?» Non voglio essere pressante, ma mi costa fatica perché sto per perdere la pazienza. «Sa dirmi che cosa potrebbe aver preso prima di essere ricoverato, o se soffre di altri disturbi?» Mi trattengo a stento dall’usare il passato, neanche fosse morto. «Usa uno spray nasale, ultimamente.» Benton alza le mani come a dire: “Lo sappiamo già”. È al corrente dei farmaci assunti da Johnny. Anche lui sta per perdere la pazienza: lo noto dal fatto che si incaponisce a volermi far chiudere la telefonata. Vuole a tutti i costi che vada via con lui. «Solo ultimamente? Come mai? Ha problemi respiratori? Allergie? Asma?» domando prendendo un paio di guanti e passandoli a Benton prima di dargli la busta di carta marrone contenente l’anello. «Pelo di animale, pollini, polvere, glutine... Chi più ne ha più ne metta. È allergico a tutto, da sempre. Fino alla scorsa estate se l’è cavata, ma da allora in poi le cure non hanno più funzionato. È stata una stagione terribile, per i pollini, e lo stress peggiora queste cose. Johnny era stressatissimo» mi spiega la signora Donahue. «Ha ricominciato a usare uno spray a base di cortisone, di cui in questo momento mi sfugge il nome.» «Un corticosteroide?» «Sì, esatto. Mi sono chiesta se non fosse quello a fargli cambiare umore, atteggiamento. Se non fosse la causa dell’insonnia, degli sbalzi di umore, dell’irritabilità crescente che a un certo punto ha superato ogni limite, con i blackout, le allucinazioni, finché non lo abbiamo fatto ricoverare.» «Lei ha detto che suo figlio aveva ricominciato a usarlo. Vuol dire che aveva già usato uno spray corticosteroide in precedenza?» «Sì, certo, in passato. Ma da quando seguiva la nuova terapia e non faceva più le iniezioni, no. Per un anno sembrava che avessimo trovato la cura magica, poi invece è peggiorato di nuovo e così ha ripreso lo spray.» «Mi parli di questa nuova cura.» «Gocce sublinguali. Ha presente?» Non pensavo che l’immunoterapia sublinguale fosse stata approvata dalla FDA, l’agenzia che regolamenta la distribuzione dei prodotti farmaceutici, e quindi chiedo:

«Suo figlio ha aderito a un programma di sperimentazione?». E scrivo un altro appunto per Benton. “Analizzare spray e gocce, subito.” E sottolineo “subito”. «Esatto. Tramite il suo allergologo.» Scruto Benton per capire se sa già anche questo. Lui legge il mio appunto infilandosi i guanti e poi guarda l’ora. Controllerà l’anello soltanto perché gliel’ho chiesto io. Sembra che lo abbia già visto, che sappia già che non è importante, che abbia già deciso. È finito qualcosa, lo sento. È successo qualcosa di grave. «... La cosiddetta “prescrizione off-label”. Sotto la supervisione del medico, ma senza bisogno di andare in studio a farsi fare le iniezioni ogni settimana» dice la signora Donahue e per un attimo pare più serena, come se parlare delle allergie del figlio invece che del resto la facesse stare meglio. Non durerà, lo so. Un’eventuale manomissione della terapia seguita da Johnny spiegherebbe il peggioramento delle sue allergie. Le gocce sublinguali o lo spray nasale potrebbero essere stati alterati chimicamente in maniera da renderli inefficaci, se non addirittura nocivi. Guardo Benton, che osserva imperturbabile l’anello d’oro con lo stemma. Sollevo la lettera perché veda il marchio in filigrana, ma non reagisce. Mi accorgo che ha una ragnatela fra i capelli e gliela tolgo. Lui rimette l’anello nella busta, cerca il mio sguardo e spalanca gli occhi come fa alle feste e alle cene quando mi vuole dire: “Ce ne andiamo, adesso?”. «Johnny prende diverse gocce al giorno. Per un po’ i risultati sono stati ottimi. Poi hanno smesso di funzionare e a tratti lui è stato malissimo. Nell’agosto scorso ha ripreso a usare lo spray, ma sembrava che lo facesse stare peggio. Nel frattempo sono cominciate le alterazioni della personalità. Non sono stata l’unica a notarle. È anche finito nei guai diverse volte; l’hanno persino cacciato dal corso. Ma non avrebbe mai fatto del male a quel bambino. Johnny non lo conosceva neanche, non vedo come...» Benton si toglie i guanti e li butta nel cestino della spazzatura. Gli indico la busta, ma lui fa di no con la testa: “Non dire niente dell’anello alla signora Donahue”. Non vuole che gliene parli, oppure lo ritiene inutile perché è a conoscenza di fatti che io ignoro. Mi accorgo che ha gli scarponi tattici neri impolverati. Non avevano quelle macchie grigie quando parlavamo nell’ufficio di Fielding, prima. Anche i calzoni neri tattici sono impolverati e le maniche del cappotto di montone sono sporche, come se avesse strisciato contro qualcosa. «... Era quello che gli volevo chiedere, la cosa principale, capisce? Una domanda personale, perché lui insegna arti marziali e dovrebbe seguire un certo codice d’onore» dice la signora Donahue, attirando di nuovo la mia attenzione. Mi chiedo se non ho frainteso. Possibile che abbia capito giusto? «È andata così, dottoressa, non come pensa lei o come le ha raccontato lui. Ha mentito se le ha detto che gli ho telefonato per farmi raccontare i particolari della morte di quel bambino. È una bugia, glielo assicuro, dottoressa. Non gli ho fatto domande riguardo a Mark Bishop, che, per l’appunto, non conoscevamo. Lo abbiamo visto lì un paio di volte soltanto. Io non ho telefonato per

chiedere del bambino...» «Mi scusi, signora Donahue, ma la linea va e viene.» Non è vero, ma ho bisogno che mi ripeta quello che ha detto: devo essere sicura di aver capito bene. «Questi cordless sono un disastro. Adesso mi sente? Mi scusi, ma mentre parlo passeggio per casa.» «Grazie. Può ripetere quello che stava dicendo quando l’ho interrotta... a proposito delle arti marziali?» Ascolto stupefatta le sue parole. La signora Donahue dà per scontato che io sapessi già che Johnny conosce Jack Fielding per via del taekwondo. Per questo ha telefonato qui chiedendo prima di lui e poi di me: per protestare. Fielding era l’istruttore di Johnny al Taekwondo Club di Cambridge e anche l’istruttore di Mark Bishop, perché insegnava a un gruppo di Tigrotti. Ma Johnny non conosceva Mark, ovviamente: non erano nella stessa classe e non facevano allenamento insieme. La signora Donahue ne è certa. Le chiedo quando ha iniziato i corsi suo figlio Johnny, spiegandole che non sono al corrente dei particolari e preferisco farmi un quadro preciso della situazione per poterla gestire al meglio, per capire come comportarmi di fronte al suo reclamo nei confronti del mio vice. «Ha cominciato a maggio» mi risponde, mentre i miei pensieri si sparpagliano e rimbalzano l’uno contro l’altro come palle su un tavolo da biliardo. «Lei capisce che mio figlio, che non ha mai avuto amici, subisce molto l’influenza delle persone che rispetta e a cui si affeziona...» «Vuol dire che si era affezionato al dottor Fielding?» «No di certo» risponde lei, acida. Evidentemente detesta Jack. «La sua amica lo praticava già da parecchio tempo. Pare che ci siano molte donne interessate al taekwondo. Quando lei e Johnny si sono conosciuti e sono diventati amici, lo ha spinto a provare. Quanto vorrei che non le avesse dato retta! Riguardo a quello e naturalmente riguardo alla Otwahl, quel postaccio tremendo dove fanno chissà che cosa. Vede com’è andata a finire? Ma lei capisce che per Johnny era bellissimo pensare di poter diventare forte e potente, in grado di difendersi, di sentirsi meno vulnerabile e solo. Eppure ormai l’aveva superata, a Harvard non lo prendeva più di mira nessuno...» Continua a parlare, sempre più confusa e sconclusionata, sempre meno autorevole. La sua disperazione è palpabile, la sento nell’aria. Mi alzo dalla scrivania. «... Come ha potuto? Sono sicurissima che è una violazione, che va contro il giuramento di Ippocrate. Non può occuparsi lui del caso Bishop, alla luce di quella che tutti sappiamo essere la verità» insiste la signora Donahue. «A quale verità si riferisce, signora? Può essere più specifica?» Guardo fuori della finestra: la luce del mattino è abbagliante, il riverbero del sole sulla neve è talmente forte che mi vengono le lacrime agli occhi. «C’è pregiudizio» afferma la voce della signora Donahue alle mie spalle. «Non ha mai provato sentimenti benevoli nei confronti di Johnny, non l’ha mai trattato particolarmente bene e, anzi, ha fatto commenti molto poco garbati sul suo conto, anche

di fronte a lui. Cose tipo: “Quando ti parlo, devi guardare me, non l’interruttore della luce”. Be’, come lei certamente sa, una delle eccentricità di Johnny è che si fissa su particolari che gli altri considerano irrilevanti, fa fatica a guardare in faccia il prossimo. A volte la gente si offende, non capisce che il suo cervello funziona così. Lei cosa sa della sindrome di Asperger? Suo marito le ha parlato di...» «Non molto.» Non voglio parlare di cosa Benton mi ha detto o non mi ha detto. «Be’, Johnny si fissa su particolari che per il resto del mondo sono del tutto irrilevanti e guarda quelli mentre tu gli parli. Io magari gli dico una cosa importante e lui guarda la mia spilla, o il mio braccialetto, fa commenti a sproposito, ridacchia. Il dottor Fielding lo sgridava quando si metteva a ridere senza motivo. Lo umiliava davanti alla gente. Alla fine Johnny gli ha dato un calcio. Ha dato un calcio a uno che è cintura nera e ha tutti i dan che esistono al mondo. Tenga presente che mio figlio sarà settanta chili. E così è stato sbattuto fuori dalla scuola. Fielding lo ha diffidato dal tornare in quella palestra e gli ha detto che avrebbe fatto in modo che non lo accettassero in nessun’altra struttura.» «Quando è successo tutto questo?» Glielo chiedo senza pensare. «La seconda settimana di dicembre. Ho la data esatta, se vuole. Ho preso nota di tutto.» “Sei settimane prima dell’omicidio di Mark Bishop” penso sgomenta, come se avessero appena preso a calci me. «E lei pensa che il dottor Fielding...» comincio a dire al telefono sulla mia scrivania, come se fosse la signora Donahue, come se potesse vedermi. «Sì, è proprio quello che penso» mi risponde lei, in tono di sfida. «Quando Johnny ha cominciato a delirare di aver avuto un blackout e di avere ucciso lui quel bambino e poi ho saputo che era Fielding a fare l’autopsia, il loro istruttore di taekwondo... Be’, si immagina come ho reagito?» Il loro istruttore di taekwondo. Di Johnny e chi altro? La sua amica dell’MIT o qualcun altro? A chi altri insegnava Fielding? Cosa potrebbe avere indotto Johnny Donahue a confessare un delitto che, secondo Benton, non ha commesso? Perché Johnny dovrebbe pensare di aver compiuto un’azione tanto terribile durante quello che definisce un “blackout”? Chi può averlo influenzato al punto di fargli ammettere un reato così grave, corredato di particolari come quello della pistola sparachiodi, che io peraltro escludo assolutamente sia l’arma del delitto? Ma non farò altre domande alla signora Donahue. Mi sono già spinta troppo in là: abbiamo superato tutti i limiti. Le ho chiesto più di quello che avrei dovuto e comunque Benton conosce già la risposta a tutti i miei interrogativi. Lo capisco dal modo in cui sta seduto sulla sedia, gli occhi bassi, la faccia dura e cupa, grigia, come il rivestimento della sede del CFC.

18 Riaggancio e, in piedi davanti alla vetrata curva del mio ufficio, guardo il patchwork di tetti d’ardesia e neve che si estende davanti a me, punteggiato da qualche campanile qua e là. Aspetto che il battito del cuore rallenti e che le emozioni si plachino, cerco di ingoiare il dolore e la rabbia e di distrarmi guardando l’MIT e, poco oltre, Harvard. Da dietro le numerose finestre del mio regno osservo gli istituti con cui dovrei coordinare la mia attività quando alla gente succede il peggio e, di colpo, capisco. Capisco perché Benton si comporta nel modo in cui si sta comportando e capisco che cosa è finito. Jack Fielding. Mi torna in mente che, poco dopo essersi trasferito qui da Chicago, mi disse di essersi offerto di tenere qualche corso di taekwondo e che pertanto non sarebbe stato sempre disponibile dopo l’orario di lavoro e nel weekend. Era contento di insegnare quella che definiva la sua arte, la sua passione. Mi avvertì che avrebbe partecipato a gare e tornei e mi chiese una certa “flessibilità”. Gli era necessaria anche durante le mie assenze, mi disse con una certa pedanteria. Riteneva di avere diritto alla stessa flessibilità che avrei avuto io se fossi stata qui, diceva, come se io avessi chissà quali orari flessibili. Ricordo che le sue richieste mi innervosirono, tanto più che era stato lui a domandarmi di venire a lavorare al CFC e che la carica che avevo acconsentito a concedergli era la più alta che avesse mai ricoperto. A Chicago, Jack occupava una posizione molto inferiore, essendo uno dei sei medici legali dell’istituto e senza speranze di promozione. Me lo disse il suo capo quando ci parlammo all’epoca del suo trasferimento. Era convinto che per Jack venire a Cambridge sarebbe stato importante da un punto di vista professionale, oltre che personale, in quanto gli avrebbe consentito di stare vicino alle persone che più amava. Ricordo che mi commosse apprendere che Fielding tenesse tanto a me. Ero contenta che sentisse la mia mancanza e che volesse tornare nel Massachusetts a lavorare per me come ai vecchi tempi. Quello che mi innervosì – e avrei dovuto dirglielo, invece di assecondarlo come al solito – fu l’idea che sembrava avere della flessibilità, come se io fossi andata e venuta a mio piacimento, mi fossi presa tutti i giorni di permesso che volevo e fossi scomparsa interi weekend ogni mese per seguire “la mia arte”, “la mia passione”. Io non ho passioni al di fuori del mio lavoro e la mia arte è quella che pratico quotidianamente, prendendomi cura dei morti e dei loro cari, che cerco di aiutare ad andare avanti. Mi accorgo di aver espresso questi pensieri ad alta voce. Sento che Benton mi ha posato le mani sulle spalle e mi conforta, mentre mi asciugo le lacrime. Poi mi appoggia il mento sulla testa e mi abbraccia, da dietro. «Che cosa ho fatto?» domando. «Hai tollerato troppe cose, ma non hai fatto niente di male. Assumeva sostanze, forse le spacciava anche. Be’, te ne sei accorta a tue spese poco fa, no?» Si riferisce alle sostanze con cui Fielding probabilmente impregnava i suoi cerotti antidolorifici e che

forse vendeva. «L’hai rintracciato?» «Sì.» «Dov’è? È agli arresti? O l’hanno solo fermato e lo stanno interrogando?» «Lo abbiamo trovato, Kay.» «Meglio così.» Non so cos’altro dire, a parte domandare come sta. Benton non mi risponde. Mi chiedo se l’abbiano rinchiuso in una stanza insonorizzata, magari con la camicia di forza. Non riesco a immaginarlo. Non mi capacito che sia in prigione. Non resisterà, penso. Si ammazzerà a testate contro il muro, come una falena in preda al panico. A meno che non lo uccida qualcun altro prima. Mi sorge il dubbio che sia già morto. Poi il dubbio diventa una certezza. È una sensazione strana, che mi dà torpore e pesantezza, come se fossi sotto anestesia. «Dobbiamo andare. Ti spiego tutto quello che so mentre ci muoviamo. È molto complicato. Ci sono un sacco di cose che ti devo dire.» Benton si allontana e senza di lui a sostenermi ho l’impressione di galleggiare a mezz’aria, di cadere fuori dalla finestra. Al tempo stesso, però, mi sento bloccata da una pesantezza terribile, come se mi fossi trasformata in una statua di pietra, senza più vita né umanità. «Non potevo dirti niente, prima che la situazione si chiarisse. Non che adesso sia molto più chiara» dice Benton. «Mi dispiace quando devo tenerti all’oscuro, Kay.» «Ma perché Fielding... perché chiunque avrebbe fatto...?» Mi rendo conto che non c’è risposta ai miei interrogativi, che sono gli stessi di sempre. Perché l’uomo è crudele? Perché uccide? Perché prova piacere nel distruggere il prossimo? «Perché ne ha avuto la possibilità.» Benton mi dà la stessa risposta di sempre. «Ma perché?» Fielding non è così. Non è mai stato diabolico. Sarà anche immaturo, egoista, disfunzionale, ma non è cattivo. Non è il tipo da uccidere un bambino di sei anni per il puro gusto di farlo e poi far ricadere la colpa su un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger. Fielding non sarebbe neanche in grado di orchestrare una cosa del genere a sangue freddo. «Denaro, ansia di controllo, dipendenze, bisogno di compensare abusi subiti in passato. Ha decompensato, è precipitato verso l’autodistruzione. Perché nel distruggere gli altri alla fine ha distrutto se stesso.» Benton sembra aver capito tutto. Tutti hanno capito fuorché io. «Non lo so» ribatto e mi dico che devo essere forte. Devo gestire la situazione. Non posso aiutare Fielding né nessun altro se non riesco a essere forte. «Non ha nascosto adeguatamente le sue tracce» dice Benton mentre mi allontano dalla finestra. «Quando abbiamo capito dove bisognava cercare, è diventato tutto più chiaro.» C’è stata una strumentalizzazione, una manipolazione, rifletto. Ecco perché le tracce non erano adeguatamente nascoste: per spingerci a ritenere vere cose che invece forse vere non sono. Non riesco a capacitarmi che sia stato Fielding a orchestrare tutto. Devo

vederlo con i miei occhi, devo toccarlo con mano. “Cerca di essere forte. Devi gestire la situazione. Non piangere. Non te lo puoi permettere.” «Cosa mi devo portare?» Prendo dalla sedia la giacca tattica che ho messo a Dover e che non è abbastanza pesante per il clima di qui. «Abbiamo già tutto il necessario» mi risponde Benton. «Prendi solo le tue credenziali, nel caso qualcuno te le chieda.» Certo che c’è già tutto il necessario. L’unica che è rimasta indietro sono io. Prendo la tracolla che ho appeso dietro la porta. «Quando hai capito come stavano le cose?» domando. «Quando hai raccolto abbastanza informazioni da poterlo fermare? Com’è successo?» «Quando tu hai scoperto che il morto di Norton’s Woods era stato ucciso, la situazione è cambiata radicalmente. Fielding risultava implicato in un altro omicidio.» «Non vedo come» replico mentre andiamo via insieme. Non avverto Bryce che sto uscendo. In questo momento, non me la sento di vedere nessuno. Non sono dell’umore di parlare, di essere cordiale e forse nemmeno educata. «Perché la Glock era sparita dal laboratorio. So che non ne sei al corrente. Siamo in pochissimi a saperlo» mi spiega Benton. Mi torna in mente che Lucy mi ha detto di aver visto Morrow nel parcheggio sul retro alle dieci e mezzo di ieri mattina, mezz’ora dopo che la pistola era stata recapitata nel suo laboratorio. Secondo Lucy, Morrow se n’è fregato. Forse sapeva anche lei che la Glock era sparita, ma me l’ha taciuto. Eppure è una cosa importantissima. Chiedo a Benton se Lucy mi ha mentito per omissione. In fondo sono il suo capo, risponde a me del suo lavoro. «Lucy lavora qui» sottolineo mentre aspettiamo l’ascensore. Sembra fermo al piano inferiore, come se qualcuno lo stesse tenendo aperto. A volte i dipendenti lo fanno quando devono caricare o scaricare della roba. «Lavora per me e non può tenermi nascoste informazioni di questa importanza. Non può mentirmi.» «Non lo sapeva ancora quando ti ha parlato. Lo sapevamo solo io e Marino e non glielo avevamo ancora detto.» «Sapevate di Jack, di Johnny Donahue e di Mark Bishop. Del fatto che facevano taekwondo.» Sono certa che Benton lo sapeva. Probabilmente anche Marino. «Tenevamo Jack sotto controllo, indagavamo su di lui, sì. Da quando è morto Mark Bishop, la settimana scorsa, e io ho scoperto che Jack era il suo istruttore. E che insegnava arti marziali anche a Johnny Donahue.» Penso alle fotografie che mancavano nell’ufficio di Fielding, i buchi nel muro lasciati dai chiodi a cui erano appese. «Ho capito come mai voleva occuparsi lui di certi casi. Di Mark Bishop, per esempio, benché si fosse sempre rifiutato di fare l’autopsia ai bambini.» Benton si guarda in giro per accertarsi che nessuno ci possa sentire. «Era un’occasione unica per poter nascondere le proprie responsabilità negli omicidi.» “O quelle di qualcun altro?” Non riesco a fare a meno di chiedermelo. Fielding sarebbe

capace di coprire un assassino. Ha un bisogno disperato di sentirsi potente, di sentirsi un eroe. Mi rendo conto che lo sto difendendo e so che non dovrei. “Finché non hai le prove, non lo difendere.” Mi impongo di accettare la verità, qualunque essa sia. Mi viene in mente che le fotografie che non sono più nel suo ufficio forse erano foto di gruppo. Mi sembra di ricordare proprio che lo fossero. Forse erano i suoi allievi di taekwondo. Forse in quelle fotografie comparivano anche Mark Bishop e Johnny Donahue. Mi chiedo se sia stato Benton a prendere le foto dal suo ufficio, oppure Marino, ma non dico niente. Benton continua a spiegarmi che Fielding ha manipolato tutti quanti per farci credere che fosse stato Johnny Donahue a uccidere Mark Bishop. Ha usato come capro espiatorio un giovane malato e vulnerabile e poi ha dovuto continuare a mentire e manipolare quando ha tirato fuori il cadavere di Norton’s Woods. Usa proprio quest’espressione: “tirato fuori”. Fielding ha tirato fuori il cadavere, ha saputo che gli era stata ritrovata addosso la Glock e si è reso conto di avere commesso un errore gravissimo. La messinscena che aveva architettato stava per crollargli addosso, travolgendolo. E così ha perso la testa, come Ted Bundy quando fu catturato. Questo mi dice Benton. «L’errore fatale di Jack è stato andare nel laboratorio di balistica ieri mattina e chiedere a Morrow della Glock» continua. «Poco dopo sono spariti sia lui sia la pistola. È stato un gesto impulsivo, incosciente. Una stupidaggine, insomma. Sarebbe stato meglio lasciare che si scoprisse che la pistola era sua e dire che l’aveva persa, che qualcuno gliel’aveva rubata. Qualsiasi cosa. Il fatto che invece l’abbia sottratta ai laboratori dimostra che aveva perso completamente il controllo.» «Stai dicendo che la Glock ritrovata addosso al morto di Norton’s Woods è quella di Jack?» «Sì.» «È davvero quella di Jack» ripeto. L’ascensore sta salendo, ma si ferma quasi a ogni piano. Mi rendo conto che è ora di pranzo e i dipendenti del CFC stanno andando in mensa o a mangiare fuori. «Sì. Una volta che il numero di serie abraso è stato trattato con l’acido, si è scoperto che la pistola del morto appartiene a Jack» conferma Benton. Mi è chiaro che sa chi è il morto di Norton’s Woods. «È stata trattata, dunque. Ma non qui.» Non voglio pensare che qui dentro sia successa un’altra cosa tanto importante a mia insaputa. «Diverse ore fa, sulla scena del crimine. Abbiamo provveduto all’identificazione in loco.» «L’FBI, intendi?» «Era importante stabilire il prima possibile a chi era intestata la pistola, per confermare i sospetti che già avevamo. La Glock è arrivata al CFC solo in un secondo tempo e attualmente è al sicuro nel laboratorio di balistica, in attesa di ulteriori analisi.» «Se fosse stato Jack a ucciderlo, avrebbe dovuto rendersi conto che la Glock era un problema sin da subito, quando è stato avvertito del caso, domenica pomeriggio» ribatto.

«Invece ha cominciato a preoccuparsene soltanto lunedì mattina? Di una pistola che risultava sua?» «Non voleva attirare i sospetti su di sé. Se avesse cominciato a chiedere della pistola alla polizia prima ancora che il cadavere arrivasse al CFC, o se avesse preteso che la pistola venisse recapitata a lui immediatamente, quando i laboratori erano chiusi, avrebbe suscitato qualche dubbio. Sarebbe stato troppo strano. Così ha aspettato, si è agitato e lunedì mattina ha pensato di fare qualcosa appena l’arma fosse arrivata qui. Ha deciso di prenderla e scappare. Non dimenticarti che è tutt’altro che lucido. L’abuso di sostanze lo ha certamente danneggiato da un punto di vista mentale.» Analizzo la tempistica. Ricostruisco i passi di Fielding ieri mattina, basandomi su quello che ho trovato nel cassetto della sua scrivania e sulle scritte rimaste impresse sul blocchetto vicino al telefono. Alle sette appena passate deve aver parlato con Julia Gabriel, che poi ha chiamato me a Dover, e mezz’ora dopo dev’essere andato a ritirare il cadavere dalla cella frigorifera e quindi ad avvertire Anne e Ollie che il sacco mortuario era inspiegabilmente pieno di sangue. Sembra più logico pensare che solo in quel momento si sia reso conto di chi era il morto e che la pistola di cui gli aveva parlato la polizia sarebbe risultata sua. Faccio notare a Benton che, se Fielding aveva davvero scoperto chi era il morto solo lunedì mattina, chiaramente non poteva averlo ucciso lui. Benton mi risponde che Fielding aveva un movente, di cui io sono all’oscuro. Il morto è il figliastro di Liam Saltz, mi dice. Ne ha avuto conferma poco fa, quando un agente dell’FBI è andato all’hotel Charles per parlare con il dottor Saltz e per mostrargli una delle foto scattate da Marino al morto di Norton’s Woods. Si chiamava Eli Goldman, aveva ventidue anni, era laureato all’MIT e lavorava a progetti speciali di micromeccanica per la Otwahl Technologies. Le riprese effettuate dalla telecamera nascosta nelle cuffie di Goldman erano sul server della Otwahl, mi dice Benton, che però non mi spiega chi le abbia trovate. Potrebbe essere stata Lucy oppure no. «Si è installato lui stesso la telecamera nelle cuffie?» chiedo mentre finalmente l’ascensore arriva al nostro piano. «Sembra di sì. Era un appassionato di queste cose.» «E il MORT? Dove se lo è procurato? E per quale motivo? Sempre per passione?» Mi rendo conto di avere un tono molto cinico. Capisco quando gli altri hanno preso una decisione e sono inamovibili e non sono pronta a fare lo stesso. Non mi sembra corretto stabilire certe cose così in fretta. «È un facsimile, un modello che ha costruito lui qualche anno fa» spiega Benton. «Basandosi sulle foto scattate dal patrigno all’epoca in cui organizzò la sua campagna di lobbying contro il MORT, otto o nove anni fa, quando tu e Saltz ne parlaste alla commissione del Senato. Pare che Eli Goldman facesse robot ed escogitasse invenzioni varie da quando era in fasce.» Scendiamo lentamente di piano in piano e io gli chiedo come mai la Otwahl aveva assunto il figliastro di un suo detrattore come Liam Saltz. Gli chiedo anche cosa vuol dire Otwahl, perché la signora Donahue ha accennato al significato di quel nome.

«O.T. Wahl» mi risponde Benton. «Un gioco di parole, perché il fondatore della società di cognome faceva Wahl. Suona un po’ come On The Wall» mi spiega. «Eli di cognome non fa Saltz» continua Benton, come se non lo avessi sentito quando mi ha detto che si chiamava Eli Goldman. La Otwahl non può non aver preso informazioni su di lui prima di assumerlo, insisto. Non potevano non sapere che era il figliastro di Saltz, anche se il cognome era diverso. «È passato tanto tempo dalla storia del MORT» mi fa notare Benton mentre le porte dell’ascensore si aprono. «Non so se alla Otwahl sapessero che Eli Goldman e Liam Saltz erano filosoficamente affini.» «Da quanto tempo lavorava lì Goldman?» «Da tre anni.» «Forse tre anni fa non facevano niente che preoccupasse Goldman o il suo patrigno» ipotizzo mentre usciamo sotto lo sguardo attento della guardia del servizio di sicurezza, Phil. Non lo saluto. Non sono dell’umore. «Be’, da mesi Eli Goldman era preoccupato eccome» dice Benton. «Voleva consegnare al patrigno un esemplare di tecnologia che non approvava, una minuscola microspia a forma di insetto in grado di monitorare l’ambiente, di rilevare la presenza di esplosivo e di trasportare veleni, sostanze tossiche e chissà cos’altro.» “Un dispositivo delle dimensioni di una mosca capace di trasportare sostanze pericolose e nanoesplosivi” penso passando davanti a impiegati che non vedo da mesi e che non saluto nemmeno. Evito il loro sguardo: non ho voglia di chiacchierare. «Ma, prima di consegnare al patrigno queste informazioni, muore improvvisamente» osservo. «Esatto. È il movente di cui ti parlavo» dice Benton. «Sostanze» ripete. Continua a raccontarmi quello che l’FBI ha scoperto da Liam Saltz, entrando nei particolari. Mi intristisco e mi agito mentre Benton mi parla di un ragazzo che adorava il suo patrigno al punto che, ogni volta che avevano appuntamento per vedersi, cambiava l’ora sul cronografo per sintonizzarsi sul suo stesso fuso orario. Eli Goldman ha avuto un’infanzia difficile; gli è mancato un modello maschile. Ricordo le riprese della sua passeggiata nel parco insieme al cane e immagino il dottor Saltz che esce dal palazzo dopo una festa di nozze a cui Eli non è stato invitato. Lo immagino che si guarda in giro nel crepuscolo chiedendosi dove si sia cacciato il figliastro, senza presentire la terribile verità. Il premio Nobel non poteva sospettare che il ragazzo era morto, chiuso in un sacco in attesa di essere identificato. Un ragazzo così giovane! Chissà se io e Lucy eravamo davvero alla mostra di Londra nello stesso momento in cui c’era lui, nell’estate del 2001. «Chi l’ha ucciso? E perché?» domando mentre passiamo davanti alla zona di carico e scarico vuota. Il furgone del CFC non c’è. «Non capisco perché i fatti che mi hai appena spiegato ti portino a concludere che sia stato Jack a uccidere Goldman.» «Mi dispiace, ma i fatti puntano tutti nella stessa direzione.» «Io non capisco perché avrebbe dovuto ucciderlo.» Apro la porta che conduce

all’esterno. È troppo bello e soleggiato per fare così freddo. «So che è difficile da accettare.» «Un paio di guanti dotati di sensori?» dico mentre ci incamminiamo sulla neve ghiacciata e scivolosa. «Una microspia a forma di insetto? Chi lo ha ucciso con un coltello WASP e perché?» «Droga» insiste Benton. «Eli Goldman ha avuto la sfortuna di farsi coinvolgere da Jack in qualche traffico. O viceversa. Sostanze pericolose per aumentare la potenza fisica. Forse Jack ne faceva uso e le vendeva. Forse gliele procurava Goldman o qualcuno della Otwahl. Non sappiamo. Ma che Eli Goldman sia stato ucciso mentre era in giro con un flybot in attesa di incontrare il suo patrigno non è una coincidenza. È il movente, piuttosto.» «Cosa importava a Jack se Goldman aveva un flybot e stava per incontrare Saltz?» chiedo mentre procediamo lentamente, rischiando di scivolare a ogni passo. «Sembra una pista di pattinaggio» protesto, perché mi irrita che nessuno abbia spalato la neve dal parcheggio e sparso del sale. La manutenzione di questo posto lascia molto a desiderare. «Mi dispiace, siamo laggiù.» Ci incamminiamo lentamente verso la recinzione posteriore. «Una faccenda di droga: tutto qui» dice Benton. «Non le droghe classiche, da strada. Qui ci sono di mezzo la Otwahl e un sacco di quattrini. C’è di mezzo la guerra, un potenziale di violenza su scala massiccia, internazionale.» «Se le cose che dici sono vere, allora forse Jack spiava Eli Goldman. Gli ha nascosto una minitelecamera nelle cuffie e lo ha seguito dentro Norton’s Woods. Se lo scopo era impedirgli di consegnare il flybot al patrigno, avrebbe un senso. Come avrebbe fatto altrimenti Jack a conoscere le sue intenzioni? Doveva per forza sorvegliarlo, spiarlo.» «Dubito che Jack c’entri qualcosa con le cuffie di Goldman.» «Appunto. Jack non ha nessun interesse per quel tipo di tecnologia, non sarebbe stato capace di usarla. Non gliene frega niente della Otwahl. Sempre che stiamo parlando dello stesso Jack Fielding che conosco io. Troppo impaziente, impulsivo, troppo semplice per ordire un piano come quello che mi hai appena descritto.» Sono tentata di definirlo “troppo primitivo”, perché così lo vedo io. E mi sembra che questo faccia parte del suo fascino. È un edonista, attento alla fisicità, ragiona in maniera lineare. «Le cuffie non quadrano» insisto. «Le cuffie mi fanno pensare che sia coinvolto qualcun altro.» «Ti capisco. Capisco perché dici questo.» «Il dottor Saltz sapeva che il figliastro faceva uso di sostanze e aveva un’arma illegale?» domando. «Ha accennato alle cuffie? Alle persone che Eli Goldman frequentava?» «Delle cuffie non sapeva niente e della vita privata del figliastro poco. Sapeva solo che ultimamente era preoccupato e spaventato. Erano mesi che temeva per la propria vita. So che è doloroso per te, Kay.» «Che cosa lo preoccupava?» domando mentre cammino con grande cautela e penso che prima o poi qualcuno qui si romperà una gamba e farà causa al CFC. Ci manca solo questa.

«Era coinvolto in progetti molto pericolosi, era circondato da mascalzoni. Così dice Saltz» risponde Benton. «C’è molto da spiegare. Non puoi immaginare.» «Saltz sapeva che il figliastro aveva un’arma? E che era illegale?» ripeto. «No. Suppongo che Goldman glielo abbia taciuto.» «Supponiamo tutti troppe cose, mi pare.» Mi fermo e lo guardo, con il fiato che ci si condensa davanti alla bocca. Siamo in fondo al parcheggio, vicino alla recinzione sul retro, in quello che chiamo “l’hinterland”. «Goldman non poteva non conoscere la posizione di Saltz riguardo alle armi» dice Benton. «Deve aver preso in prestito o acquistato la Glock da Jack.» «O da qualcun altro» mi incaponisco. «Da cui magari ha preso anche l’anello d’oro con lo stemma di famiglia della signora Donahue. Forse faceva anche lui taekwondo?» Lancio uno sguardo ai SUV che non sono del CFC, ma non agli agenti FBI a bordo. Non guardo nessuno e mi riparo gli occhi dal riverbero del sole. «No» dice Benton. «Neanche il giocatore di football, Wally Jamison, che però frequentava la stessa palestra. Si allenava dove Jack teneva le sue lezioni. Forse anche Goldman ci andava.» «Non mi è sembrato un tipo da palestra. Non era affatto muscoloso» commento mentre Benton punta la chiave verso un Ford Explorer non suo, aprendo le portiere con un ronzio. «Ammesso che sia stato Jack, per quale motivo l’ha ucciso?» chiedo di nuovo, perché non capisco. Forse sono troppo stanca. Non ho dormito, ho avuto troppe emozioni, sono così esausta che non ci arrivo. «O forse il collegamento è con la Otwahl e Johnny Donahue e altre attività illecite in cui Jack era coinvolto e che scoprirai fra poco. Quello che faceva al CFC in tua assenza, il modo in cui si arricchiva.» Benton ha un tono duro molto eloquente. Mi apre la portiera. «Non so tutti i particolari, ma conosco il quadro generale. Avevi ragione a chiederti cosa faceva Mark Bishop in giardino il pomeriggio in cui l’hanno ucciso, a cosa stava giocando. A momenti non ci credevo quando me l’hai chiesto. Ma non potevo dirti niente, prima. Mark Bishop era iscritto a uno dei corsi di taekwondo tenuti da Jack, come ha detto la signora Donahue. Un corso per bambini dai tre ai sei anni, iniziato a dicembre. Stava facendo proprio taekwondo, in giardino, quando è comparsa la persona che poi lo ha ammazzato, e a questo punto sappiamo chi è. Penso che tu abbia ragione sulle modalità dell’omicidio.» Fa il giro della macchina per salire al posto di guida e io cerco gli occhiali da sole in borsa. Sono talmente impaziente e frustrata che faccio cadere sul tappetino un lucidalabbra e un tubetto di crema per le mani. Chissà dove ho lasciato gli occhiali: forse nel mio ufficio di Dover, che mi pare appartenere a una vita fa. Mi sembra che sia passato un sacco di tempo, sto malissimo e non mi fa nessun piacere sentirmi dire che avevo ragione. Non me ne frega niente di chi ha ragione e chi ha torto. Mi pare che abbiamo tutti torto. Non ci credo. «Una persona di cui Mark Bishop non aveva motivo di diffidare, come il suo istruttore di taekwondo, l’ha attirato in una trappola mortale» continua Benton mettendo in moto il

SUV. «E poi ha cercato di far ricadere la colpa su Johnny Donahue.» «Questo non l’ho detto io.» Rimetto le mie cose nella borsa, afferro la cintura di sicurezza e la allaccio. Poi la sgancio per togliermi il cappotto. «Questo cosa?» Benton inserisce la destinazione nel GPS. «Che Jack ha cercato di far ricadere la colpa su Johnny Donahue convincendolo di essere stato lui a piantare dei chiodi nel cranio di quel bambino» replico. Il SUV è ancora caldo dopo il viaggio di Benton, e il sole batte sui vetri. Mi tolgo il cappotto e lo lancio sul sedile posteriore, dove c’è uno scatolone con l’etichetta della FedEx. Non so per chi sia e neanche mi interessa. Sarà di qualche agente che Benton conosce, magari il suo amico Douglas. Lo scoprirò presto, penso. Mi riallaccio la cintura, talmente di fretta che mi viene il fiatone. Ho il batticuore. «Non l’ho attribuito a te» replica Benton. «Ci sono ancora parecchi interrogativi a cui dobbiamo dare risposta. Abbiamo bisogno che tu ci dia una mano, in questo.» Parte in retromarcia e aspetta che la sbarra si alzi per uscire dal parcheggio. Mi sento manovrata, trattata con sufficienza. Non ricordo di essermi mai sentita tanto inutile in un’indagine. Sembra quasi che sia d’ostacolo, un’importuna che va trattata con educazione per la carica che ricopre, ma non viene presa sul serio. Anzi, se non ci fossi sarebbe meglio. «Credevo di averle già viste tutte. Ti avverto, Kay, è tremendo.» Il tono di Benton è stanco, fiacco. Sembra svuotato.

19 La vecchia casa di legno grigia con le fondamenta in pietra e la ghiacciaia sul retro furono costruite da un comandante della marina mercantile nei secoli passati. Il terreno è spoglio, eroso dalle intemperie, esposto al vento di mare. È l’ultima proprietà in fondo a una strada stretta e gelata, che è stata cosparsa di sabbia dalle squadre di emergenza della città. Nei punti in cui si sono spezzati dei rami, il ghiaccio si è frantumato e scintilla come vetro sotto il sole, che è forte ma non scalda affatto: abbaglia soltanto. La sabbia schizza sotto il SUV mentre Benton procede molto lentamente in cerca di un parcheggio e io guardo fuori, verso la strada e l’azzurro intenso del mare mosso e quello più chiaro del cielo limpido. Non sento più il bisogno di dormire e mi sembra che, anche se ci provassi, non ci riuscirei. Essendomi alzata ieri mattina alle cinque meno un quarto nel Delaware, ormai sono in piedi da circa trenta ore. Non è una cosa inaudita per me: capita abbastanza spesso in questa professione, visto che la gente non ha l’accortezza di uccidere o di morire solo in orario lavorativo. Ma quella che provo ora è un’insonnia diversa dal solito; nasce da un’agitazione che rasenta l’isteria, causata dal fatto che mi sono sentita dire, più o meno esplicitamente, che ho vissuto gran parte della mia vita a fianco di un pericolo mortale, divenuto tale per causa mia. Nessuno lo dice esattamente in questi termini, ma so che è così. Benton è diplomatico, ma io lo so. Non ha detto che è colpa mia se alcune persone sono morte brutalmente e innumerevoli altre sono state seviziate e profanate, per non parlare di quelle che sono state intossicate da sostanze, persone di cui non sapremo mai nulla, cavie o “topi di laboratorio”, come dice Benton, coinvolte in un nefasto progetto scientifico che riguarda una forma molto potente di steroide anabolizzante o testosterone mescolata a un allucinogeno per aumentare la forza e la massa muscolare e accrescere l’aggressività e il coraggio. Una sostanza concepita per creare macchine per uccidere, per trasformare esseri umani in mostri privi di corteccia frontale, incapaci di valutare le conseguenze delle proprie azioni, robot umani che uccidono selvaggiamente senza provare rimorso o emozione alcuna, compreso il dolore. Benton ha riferito ciò che il povero Liam Saltz, distrutto dalla perdita e terrorizzato, ha raccontato all’FBI stamattina. Il dottor Saltz sospetta che, alla Otwahl, Eli lavorasse su una tecnologia infida e illegale, che si sia trovato coinvolto in una ricerca della DARPA andata male, spaventosamente male, e che stesse per avvertire il patrigno, premio Nobel e spirito umanitario, per fornirgli le prove di ciò che stava accadendo e implorarlo di porvi fine. Fielding l’ha fermato perché faceva uso di questa sostanza pericolosa e forse aiutava anche a spacciarla. Ma, soprattutto, il mio vice – che ha sempre inseguito disperatamente il mito della forza e della bellezza fisica, che ha sempre sofferto di dolori e indolenzimenti cronici – ne era dipendente. Questa teoria spiegherebbe i suoi efferati delitti, ma io non credo che sia così semplice. Non credo che sia vero. Credo però ad altre considerazioni che Benton ha fatto. Sono stata troppo buona con Jack Fielding. Sono sempre stata troppo buona con lui. Non l’ho mai voluto vedere per quello che è

veramente, non ho mai ammesso la sua pericolosità e, in questo modo, gli ho permesso di commettere tutti questi crimini. Vicino al mare, che fa alzare leggermente la temperatura, la neve si è trasformata in pioggia ghiacciata e manca ancora l’elettricità a causa delle linee abbattute in questa parte della penisola di Salem Neck che si chiama Winter Island, dove Jack Fielding ha comprato un edificio storico di cui io non sapevo nulla. Per arrivarci, si passa davanti alla Plummer Home for Boys, un bel collegio maschile color verde muschio in mezzo a un magnifico prato con vista sul mare e, in lontananza, sull’esclusiva località di villeggiatura di Marblehead. Non posso fare a meno di pensare a come le cose cominciano e finiscono, a come le persone tendono a correre sul posto, a girare a vuoto, a non superare mai il punto di partenza dove tutto è cominciato. La vita di Fielding si è fermata là dove era precipitosamente decollata, in una bella comunità per ragazzi problematici che non possono più vivere con la loro famiglia. Mi chiedo se l’ha fatto apposta a scegliere un luogo a un tiro di schioppo da un collegio maschile, se inconsciamente anche questo è entrato nei suoi calcoli quando ha comprato una casa in cui, mi dicono, voleva andare a vivere negli anni della pensione, o che forse voleva vendere per realizzare un utile quando il mercato immobiliare si fosse ripreso e lui avesse finito i lavori di ristrutturazione. Ha fatto con le proprie mani qualche piccola miglioria alla casa e alla ghiacciaia trasformata in dépendance, con scarsi risultati. Benton mi avverte che sto per vedere una manifestazione della sua mente disorganizzata e caotica, l’opera di una persona profondamente squilibrata. Sto per vedere come si è ridotto il mio protetto, che ho lasciato imperversare. «Mi segui? So che sei stanca» dice Benton toccandomi un braccio. «Sto bene.» Mi accorgo che stava parlando e io non lo ascoltavo. «Non hai una bella cera. Stai ancora piangendo.» «Non piango. È il sole. Non riesco a credere di aver dimenticato gli occhiali da sole.» «Ti ho detto che puoi prendere i miei.» I suoi occhiali scuri si voltano verso di me mentre l’auto procede lentissima sulla strada cosparsa di sabbia, che scricchiola come ghiaia, sotto il sole abbagliante. «No, grazie.» «Perché non mi racconti come stai, dal momento che non avremo occasione di parlare per un po’?» mi dice. «Sei arrabbiata con me.» «Stai solo facendo il tuo lavoro, qualunque esso sia.» «Sei arrabbiata con me perché sei arrabbiata con Jack e questo ti fa paura.» «Non ho paura di quello che provo per lui. Ho paura di tutti voi» ribatto. «Cosa intendi dire esattamente?» «È soltanto una sensazione e tu non la condividi, quindi è meglio che lasci perdere» rispondo guardando fuori del finestrino il mare azzurro e freddo e l’orizzonte lontano, dove distinguo case sulla riva. «Forse potresti essere un po’ più precisa. Che sensazione hai? È un’idea nuova?» «No. È una cosa che nessuno vuole sentire» rispondo continuando a guardare fuori il

pomeriggio di sole mentre avanziamo lentamente in cerca di un parcheggio. Non lo sto aiutando veramente a trovare un posto. Più che altro sto lì a fissare fuori del finestrino mentre la mia mente vaga come un animaletto che salta di qua e di là in cerca di un rifugio sicuro. Benton probabilmente pensa che io sia inutile. Ma si è reso complice della mia inutilità aspettando così tanto a venirmi a prendere per una cosa che è in moto da ore. Sto per arrivare in medias res, come se questo fosse un musical o un’opera e io potessi tranquillamente entrare in scena a metà o verso la fine, a seconda dell’atto in cui siamo. «Cristo, è ridicolo. Potevano anche lasciarci un posto! Avrei dovuto farmene tenere uno da Marino.» Benton sfoga la sua rabbia contro le macchine parcheggiate lungo la strada stretta, poi mi dice: «Mi interessa comunque, che sia un’idea nuova o no. Adesso che abbiamo un minuto da soli». È inutile raccontargli il resto, ripetergli che secondo me c’è una logica crudele e calcolatrice dietro quello che è stato fatto a Wally Jamison, Mark Bishop ed Eli Goldman, dietro ciò che è successo a Fielding, dietro tutto, un piano formulato con cura, che poi non si è svolto come previsto. Non che io conosca questo piano, nella totalità o in parte, ma ho la netta sensazione che ci sia e non mi lascerò dissuadere. “Fidati dell’istinto, non fidarti di nient’altro. È una questione di potere. Potere sugli altri, potere di dare loro benessere, di spaventarli o di farli soffrire in maniera intollerabile. Potere di vita e di morte.” Non ho intenzione di ripetere cose che sicuramente suonano irrazionali. Non ho intenzione di dire ancora una volta a Benton che intuisco un insaziabile desiderio di potere, che sento la presenza di un’entità omicida che ci guarda da un luogo buio, in agguato. Certe cose sono finite, ma non tutto. Evito di dirglielo. «La metto qui, e al diavolo tutti quanti.» Benton non parla con me, bensì tra sé, mentre si avvicina il più possibile al muro di pietra in modo che la macchina non sporga troppo nella strada scivolosa. «Speriamo che non mi venga addosso nessuno. Se mai, peggio per lui.» Immagino voglia dire che non è piacevole scoprire di aver ammaccato la portiera o graffiato il paraurti o la fiancata di un mezzo dell’FBI. Il SUV è il veicolo tipico delle forze dell’ordine: nero, con i vetri scuri, i sedili rivestiti di stoffa e luci di emergenza nascoste sotto la griglia del radiatore. Dietro, sul tappetino, ci sono due bicchieri di carta ordinatamente riposti nel vassoio di cartone in cui sono stati comprati, insieme con un sacchetto di carta appallottolato. Il mezzo da battaglia di un agente molto indaffarato, che sarebbe una persona ordinata, ma non sempre trova il posto adatto per buttare via la spazzatura. Ho scoperto che l’agente Douglas è una donna solo poco fa, quando Benton, riferendosi alla persona a cui è stata assegnata questa macchina, ne ha parlato al femminile. Mi ha raccontato che “lei” ha controllato la targa della Bentley che ci è venuta ad aspettare a Hanscom ieri sera, una Flying Spur del 2003, nera, quattro porte, intestata all’amministratore delegato di una società bostoniana di servizi di nicchia che fornisce “autisti estremamente discreti e attenti”, i quali guidano qualunque veicolo, e questo spiega perché la Bentley non aveva una targa da autonoleggio.

La prenotazione è stata fatta online da un indirizzo e-mail di Johnny Donahue, il quale però ieri era ricoverato al McLean e non aveva accesso a Internet. Il messaggio risulta spedito da un indirizzo IP che corrisponde a un Internet café nei pressi del Salem State College, molto vicino a qui. La carta di credito che è stata usata appartiene a Erica Donahue, la quale non sembra saper nemmeno usare il computer e non opera online. Inutile dire che l’FBI e la polizia non credono che sia stata lei, o il figlio, a prenotare la Bentley e l’autista. L’FBI e la polizia credono che sia stato Fielding, il quale probabilmente si è impadronito dei dati della carta di credito della signora Donahue grazie ai pagamenti fatti da quest’ultima al club di taekwondo che il figlio ha frequentato finché non gli è stato detto di non farsi più vedere perché aveva preso a calci il suo istruttore, ovvero il mio vice, cintura nera settimo dan. Non è chiaro come possa avere fatto Fielding ad accedere all’account di posta elettronica di Johnny, a meno che non abbia in qualche modo manipolato questo adolescente vulnerabile e ingenuo facendosi dare la password, oppure scoprendola con qualche altro mezzo. L’autista, la cui unica colpa sembra essere l’aver trascurato di controllare se il “dr Scarpetta” a cui doveva consegnare una busta era maschio o femmina, ha ricevuto l’incarico dal responsabile dell’esclusiva società di servizi, secondo il quale nessun dipendente ha mai incontrato o parlato per telefono con la sedicente signora Donahue. Nelle note allegate alla prenotazione online si parla di un’“auto di lusso straniera” richiesta per consegnare una lettera di cui si preannuncia il recapito presso la sede della società, insieme con ulteriori istruzioni. Verso le sei del pomeriggio la busta è stata lasciata nella cassetta della posta e circa quattro ore dopo l’autista l’ha portata come richiesto a Hanscom Field e l’ha consegnata a Benton, scambiandolo per me. Scendiamo dal SUV. L’aria è fredda e limpida e c’è ghiaccio dappertutto. Con questo sole, sembra di essere dentro un lampadario di cristallo. Riparandomi gli occhi con la mano, guardo le onde che si alzano e si abbassano come un muscolo che si contrae e il mare azzurro che ribolle contro gli scogli. La vista non dev’essere cambiata molto dai tempi in cui il vecchio comandante decise di costruire qui la sua casa: la costa frastagliata, la spiaggia, i boschi di conifere, intatti e inabitabili perché fanno parte di un parco marino dotato di uno scalo di alaggio. Poco più in là, oltre il campeggio, dove la penisola di Salem Neck si piega verso il porto di Salem, c’è la rimessa per barche dove stamattina è stato trovato il Mako di venti piedi di Fielding, avvolto nella pellicola termoretraibile e posato su una sella. Sapevo che Fielding aveva una barca per le immersioni perché gliene ho sentito parlare, ma non avevo idea di dove la tenesse. Ventiquattr’ore fa non avrei mai immaginato che quella barca potesse trovarsi al centro di un’indagine per omicidio, insieme con il suo SUV Navigator blu senza targa davanti, la sua Glock con il numero di serie abraso nonché tutto ciò che Fielding possiede e che ha fatto in vita sua. Sopra le nostre teste vola un elicottero arancione Dauphin, un HH-65A, detto anche “Dolphin”. Il rotore di coda Fenestron a dieci pale emette un caratteristico rumore

modulato che viene descritto come “basso”, ma che io trovo abbia un tono molto alto, sinistramente lamentoso, che ricorda un po’ un C-17. Gli uomini della Sicurezza interna stanno svolgendo operazioni di sorveglianza aerea, mi è stato detto. Non so perché stiano perlustrando aria, terra e mare, a meno che non temano per la sicurezza del porto di Salem, che è un nodo importante, con una grande centrale elettrica. Ho sentito sussurrare la parola “terrorismo”, anche da Benton e da Marino, quando gli ho parlato al telefono pochi minuti fa, ma di questi tempi è una parola che sento spesso. Anzi, continuamente. Bioterrorismo. Terrorismo chimico. Terrorismo interno. Terrorismo industriale. Nanoterrorismo. Tecnoterrorismo. Tutto è terrorismo, se mi soffermo a pensarci, così come ogni atto di violenza nasce dall’intolleranza e dalla discriminazione. Continuo a pensare alla Otwahl. Tutto mi riporta alla Otwahl. I miei pensieri sono trasportati sulle ali di un flybot. Anzi, come dice Lucy, non un flybot qualsiasi, ma il santo Graal dei flybot. Poi mi torna in mente la mia vecchia nemesi, il MORT. Un modello a dimensioni naturali, simile a un gigantesco insetto meccanico, è stato rinvenuto nell’appartamento di Cambridge preso in affitto da Eli Goldman. Mi preoccupo per uno scienziato, il dottor Liam Saltz, che deve avere il cuore irrimediabilmente infranto. Forse è semplicemente incappato in una di quelle terribili coincidenze che si verificano nella vita e la sua tragica sfortuna è stata essere il patrigno di un giovane molto brillante caduto in un giro di cattiva scienza, cattive sostanze e armi illegali. Un ragazzo troppo brillante, come dice Benton, assassinato mentre aveva indosso un anello antico con uno stemma, scomparso dalla casa di Erica Donahue insieme alla sua carta da lettere, la sua macchina per scrivere, la sua penna stilografica, di cui in qualche modo Fielding si è impadronito. Deve aver messo le mani su molte cose del ricco studente di Harvard che prendeva crudelmente in giro, Johnny Donahue. Io non ne sono convinta, ma non importa. Non posso dimostrare che Fielding non ha barattato quell’anello d’oro e la Glock con sostanze illegali. Non posso affermare che non è per questo che erano in possesso di Eli Goldman, non posso dire che il motivo è ancora più pericoloso e scellerato di quello che Benton e altri ipotizzano. Posso dire, e ho detto, che a mio parere Eli Goldman rappresentava un ostacolo all’avanzata mercenaria di un’azienda venale come la Otwahl, e che la Otwahl è il denominatore comune di tutta questa faccenda, molto più del taekwondo e di Fielding. Per quanto mi riguarda, se davvero Fielding è l’unico diretto responsabile, come tutti dicono, allora dobbiamo guardare con occhi diversi e severi la Otwahl e chiederci che cosa aveva a che fare con essa Fielding, a parte esserne un cliente, o un soggetto sperimentale, o forse uno che aiutava a distribuire le sostanze sperimentali che alla fine lo hanno distrutto. “La Otwahl e Jack Fielding” ho detto a Benton poco fa. Se Fielding è colpevole e ha ucciso, manomesso prove importanti e ostacolato il corso della giustizia, nonché mentito e complottato in varie forme, allora è strettamente legato alla Otwahl e forse è proprio lì che si è nascosto ieri notte il Navigator, sotto la tempesta di neve. “Bisogna chiarire in

che rapporti erano” ho ribadito a Benton mentre venivamo in macchina in questo posto desolato che è bellissimo ma fatiscente, come una brutta macchia sulla tela di un raffinatissimo paesaggio marino. “La Otwahl Technologies e la casa di un comandante del Settecento a Salem Neck” ho detto a mio marito, e gli ho chiesto un parere sincero e obiettivo. In fondo dovrebbe avere un’opinione bene informata e del tutto obiettiva, visto che collabora con persone bene informate e del tutto obiettive, quelle a cui si riferisce quando parla al plurale, i suoi anonimi colleghi, misteriosi agenti di un FBI al quale dice di non appartenere più. Io ne dubito fortemente. Sono convinta che Benton, reticente e determinato come un tempo, sia tornato nell’FBI. Forse potrei rassegnarmici, se non mi sentissi così spaventosamente sola. Non mi ascolta neppure più. Era distratto quando pochi minuti fa ho osservato che Fielding deve avere un legame con la Otwahl che va al di là del fatto che insegnava arti marziali ad alcuni studenti cervelloni che facevano uno stage presso questo colosso dell’alta tecnologia. Tale legame deve consistere in qualcosa di più di farmaci legali o illegali, ho detto. I cerotti antidolorifici impregnati di sostanze stupefacenti non possono essere l’unica spiegazione dello scempio che sto per trovare in una piccola costruzione di pietra che Fielding voleva trasformare in dépendance per gli ospiti e che poi ha usato per scopi molto peggiori. “Il cottage degli orrori” penso tristemente, amaramente. “La casetta dello sperma” penso cinicamente. Destinata a diventare l’ultima novità fra le attrazioni di Salem nel periodo di Halloween, che dura tutto ottobre e attira un milione di persone provenienti da ogni parte del paese, l’ennesimo luogo reso famoso da atrocità che dopo un po’ non paiono più realmente accadute, ma sembrano avventure immaginarie. La tragedia diventa caricatura, come nel caso della strega a cavallo di una scopa raffigurata nel logo di Salem, che si trova riprodotto sugli stemmi della polizia e addirittura sulle portiere delle autopattuglie. Attento a quello che odi e a chi uccidi, perché un giorno avrà il controllo su di te. “La città delle streghe”: così è stato soprannominato questo posto, dove uomini e donne venivano mandati in massa verso quello che oggi si chiama Gallows Hill Park, il parco del patibolo, che assomiglia molto al luogo dove Fielding ha comprato casa. Questi sono luoghi che non cambiano molto. Sono parchi, sono protetti. Gallows Hill Park però è brutto, com’è giusto che sia. È una pietraia aperta, battuta dal vento, esposta, dove non cresce quasi nulla, a parte qualche erbaccia. Questi pensieri sono come macchie solari, vanno e vengono con tempi che io non sono in grado di controllare. Poi Benton mi sfiora un gomito, lo afferra e mi accompagna dall’altra parte della strada senza uscita che si è trasformata in un parcheggio di autopattuglie e auto civetta. Alcune hanno il logo di Salem, la sagoma di una strega a cavallo di una scopa. Subito dietro la casa c’è il furgone bianco del CFC che usiamo per il trasporto dei cadaveri. Marino l’ha portato qui diverse ore fa, mentre io ero nella sala autoptica e poi su nel mio ufficio, ignara di quello che stava succedendo qui, a una

cinquantina di chilometri di distanza. Il portellone posteriore è aperto e dentro il furgone c’è Marino con indosso stivali di gomma verdi, un casco giallo e una tuta protettiva gialla livello A, del tipo che usiamo quando dobbiamo proteggerci dai rischi biologici e chimici. Sul fondo di acciaio zigrinato del furgone ci sono cavi che escono dal portellone aperto, serpeggiano sullo sterrato ghiacciato e scompaiono dentro il cottage di pietra, che doveva essere una graziosa dépendance prima che Fielding lo trasformasse in un cantiere. Sul terreno coperto di ghiaccio grigiastro sono ammucchiati blocchi di calcestruzzo. Ci sono cemento sparso qua e là, mucchi di legname e mattoni, attrezzi arrugginiti, tegole, isolante per infissi e chiodi dappertutto. C’è una carriola coperta da un telone nero che sbatte rumorosamente e tutto il perimetro è circondato da nastro giallo che freme e ondeggia al vento. «Abbiamo energia soltanto per le luci. Ci restano solo centoventi minuti di autonomia» mi informa Marino guardando dentro un contenitore incassato nel furgone. Sta controllando il generatore ausiliario che fa funzionare l’impianto elettrico del furgone anche a motore spento e che in caso di emergenza può alimentare impianti esterni. «Speriamo che torni la corrente. Ho sentito dire che dovrebbero ripristinare il servizio da un momento all’altro. Il problema principale sono i pali abbattuti dagli alberi sradicati dal vento. Forse li avete visti venendo, in Derby Street. Ma, anche se torna la corrente, là dentro servirà a poco.» Si riferisce al cottage. «Non c’è riscaldamento e fa un freddo cane. Dopo un po’ ti entra nelle ossa» aggiunge da dentro il furgone. Io e Benton siamo fuori, al vento. Mi alzo il bavero della giacca. «Sembra di stare nella cella frigorifera del CFC. Immagina di lavorarci dentro per ore.» Come se io non avessi mai fatto sopralluoghi con un tempo da lupi e non sapessi com’è la cella frigorifera del CFC. «Certo, ci sono vantaggi a non avere il riscaldamento, nel caso manchi la corrente. E da queste parti succede spesso quando c’è un temporale. Il nostro amico non aveva un generatore ausiliario» continua Marino, riferendosi a Fielding. «Se ti si scioglie la roba nel congelatore, butti via tutto. Per questo deve aver acceso la stufetta al massimo: voleva rovinare il DNA in modo che non riuscissimo a risalire ai legittimi proprietari. Tu pensi che sia possibile?» mi domanda. «Non capisco cosa mi stai...» comincio. «Pensi che riusciremo a identificarli o no?» Marino parla in continuazione, come se da quando l’ho visto l’ultima volta non avesse fatto altro che bere caffè. Ha gli occhi vitrei e iniettati di sangue. «Penso che ci riusciremo» rispondo. «Sì, credo che lo scopriremo.» «Quindi secondo te non è rovinato. Sembra tapioca andata a male.» «Cristo!» esclama Benton. «Questa potevi risparmiartela. Non puoi smetterla di fare queste analogie gastronomiche del cazzo?» «Esistono i test su campioni a basso numero di copie.» Ricordo a Marino che è

possibile ricavare un profilo DNA anche da tre cellule umane soltanto, a meno che non siano tutte quante danneggiate. Ci riusciremo, gli assicuro. «Be’, comunque ci proviamo.» Marino mi parla come se Benton non ci fosse, come se fosse lui a comandare e non volesse fra i piedi mio marito, agente o ex agente dell’FBI. «Voglio dire, se fosse tuo figlio?» «Sono d’accordo che dobbiamo identificarli e informare le famiglie» rispondo. «Sì. Così ci denunciano. Non ci pensavo... Forse è meglio non dire niente a nessuno. Risaliamo ai poveracci a cui è stato prelevato, ma non diciamo niente a nessuno. Che bisogno c’è di avvertire le famiglie e sollevare un vespaio?» «Piena trasparenza» commenta Benton ironico. Da che pulpito... Sta guardando l’iPhone, legge un messaggio e aggiunge: «Molte famiglie probabilmente lo sanno già. Riteniamo che Fielding si mettesse d’accordo in precedenza per farsi pagare. Non possiamo non dire niente a nessuno». «Va bene. Non nasconderemo nulla» replico. «Sai, stavo pensando che davvero dovremmo installare delle telecamere nella cella frigorifera, non soltanto nel corridoio, nella zona di carico e scarico e in certe stanze: proprio dentro il frigo» mi dice Marino come se me lo avesse già proposto altre volte. In verità non me ne ha mai parlato. «Il problema è se funzionano, a quella temperatura.» «Se funzionano all’aperto... D’inverno da queste parti fa più freddo che in una cella frigorifera» risponde Benton in tono neutro. Presta poca attenzione a Marino, che è pieno di sé, contento del ruolo che gli è toccato nel dramma in corso. Fielding non gli è mai stato simpatico. È come se stesse gridando a gran voce: “Te l’avevo detto io”. «Be’, allora facciamolo» prosegue Marino. «Installiamo un bel po’ di telecamere e la facciamo finita con le stronzate e con la gente che fa stronzate e pensa di poterla passare liscia.» Guardo, dietro di noi, le scarpe e gli stivali allineati fuori dal cottage che alcuni poliziotti hanno già soprannominato “la piccola bottega degli orrori”. «Telecamere» sento ripetere a Marino mentre osservo la piccola costruzione di pietra. «Se le avessimo già installate anche nella cella frigorifera, avremmo registrato tutto. Mah, forse è meglio così. Ti immagini se una roba del genere finisce su YouTube? Fielding che fa ’ste cose a un cadavere... Scommetto che a Dover ci sono le telecamere, però.» Ci porge due tute gialle come la sua. «A Dover ci sono telecamere anche nelle celle frigorifere, giusto?» insiste. «Sono sicuro che il dipartimento della Difesa direbbe subito di sì. Questo è il momento migliore per chiederle, no? Date le circostanze penso che, pur di aumentare la sicurezza del nostro centro...» Mi rendo conto che Marino sta ancora parlando con me, ma non gli rispondo perché sono preoccupata. Guardo la cabina del furgone e mi sento di colpo sopraffatta dalla pietà, in piedi fuori al freddo e al vento, nella luce accecante. Io ho la tuta gialla ancora ripiegata sottobraccio; Benton se la sta già infilando.

Intanto Marino continua allegramente a parlare, come se questa fosse una fiera. «... come dicevo, è un bene che faccia freddo. Non oso immaginare come sarebbe lavorare a un caso come questo con trenta gradi all’ombra, come succedeva a Richmond quando c’era un’umidità da schiattare e non un filo di vento. Quell’uomo era un maiale. Ti consiglio di non guardare il gabinetto. L’ultima volta che ha tirato lo sciacquone, da queste parti bruciavano ancora le streghe.» «Le impiccavano» mi ritrovo a puntualizzare. Marino mi guarda con un’espressione vacua. Ha le orecchie e il naso rossi; il casco posato sulla testa pelata sembra il coperchio di un idrante giallo. «Come sta?» chiedo indicando la cabina del furgone. «Anne è meglio del dottor Dolittle. Lo sapevi che voleva studiare veterinaria, prima di decidere di diventare Madame Curie?» Pronunciato “carri”. Non so quante volte gli ho detto che si pronuncia con la “u”, come “curio”, l’elemento chimico che ha preso nome da lei. «Ti dirò» continua. «È un bene che il riscaldamento in casa fosse spento da non più di cinque o sei ore quando siamo arrivati. I cani come quello non hanno molto più pelo di me. Si era infilato sotto le coperte, in quella topaia di letto in cui dormiva Fielding, e tremava che sembrava epilettico. Era anche terrorizzato, naturalmente. Fra poliziotti e agenti dell’FBI con tutta l’attrezzatura tattica... A parte il fatto che mi hanno detto che ai levrieri non piace essere lasciati soli, soffrono di... come si chiama? Ansia da separazione.» Apre un altro contenitore e mi porge un paio di stivali senza bisogno di chiedermi che numero porto. «Come fai a sapere in che letto dormiva Jack?» «C’è roba sua tutto intorno. Di chi altro potrebbe essere?» «Dobbiamo verificare ogni particolare.» Ho intenzione di continuare a ripeterlo. «Era qui, in questo posto isolatissimo, senza vicini di casa, nessuno che vedesse o sentisse, perché il parco in questo periodo dell’anno è deserto. Come fai a sapere con certezza che era solo? Come puoi essere assolutamente sicuro che non lo ha aiutato qualcuno?» «E chi? Chi diavolo potrebbe averlo aiutato a fare una cosa del genere?» Marino mi guarda e gli leggo in faccia quello che pensa. È convinto che io non riesca a essere obiettiva quando c’è di mezzo Fielding. E probabilmente non è il solo. «Dobbiamo mantenere la mente aperta a tutte le possibilità» ribatto, poi indico di nuovo la cabina del furgone e chiedo notizie del cane. «Sta bene» risponde Marino. «Anne gli ha dato da mangiare, pollo e riso del diner greco di Belmont, gli ha preparato una bella cuccia comoda e ha regolato il riscaldamento al massimo. Sembra di essere in un forno. Probabilmente stiamo consumando di più per tenere al caldo quel cane pelle e ossa che per il cottage. Lo vuoi conoscere?» Ci porge pesanti guanti di gomma nera e altri di nitrile, monouso. Benton si alita sulle mani per scaldarsele e intanto continua a scrivere SMS e a leggere i messaggi che gli

arrivano sul telefono. Non sembra interessato a quello che io e Marino stiamo dicendo. «Prima vorrei sistemare le cose» dico a Marino, perché non me la sento, in questo momento, di vedere un povero cane che è stato lasciato solo al buio in una casa senza riscaldamento dalla persona che se lo è portato via dopo avergli ammazzato il padrone. Perché così dicono sia successo. «La procedura di decontaminazione è questa» dice poi Marino porgendoci due caschi gialli. «Laggiù, dove ci sono quelle vasche di plastica» spiega indicando un piccolo spiazzo terroso vicino alla tavola di compensato che funge da porta del cottage. «Non bisogna portar niente fuori dal perimetro. Tute e stivali si mettono e si levano laggiù.» Allineate accanto a tre vasche di plastica piene d’acqua, ci sono una bottiglia di sapone per piatti Dawn e le scarpe delle persone che sono dentro il cottage. Noto un paio di stivali militari marroni, da uomo. Faccio un rapido calcolo e decido che devono esserci almeno otto persone al lavoro nel cottage, fra cui un militare che potrebbe essere Briggs. Marino si china a controllare l’indicatore di livello del generatore di emergenza nel furgone, poi scende pesantemente i gradini di acciaio zigrinato. Il sole scintilla sul ghiaccio che copre gli alberi spogli, che sembrano vetrificati. Dappertutto ci sono lunghi ghiaccioli appuntiti che mi ricordano chiodi e aculei. «Quindi quello che potete fare adesso è cambiarvi» dice Marino. Ma Benton non ascolta: si sta allontanando, tutto preso dal suo telefono. Io e Marino ci incamminiamo verso il cottage stando attenti a non scivolare sul ghiaccio che si è formato sul terreno, sul fango e sui detriti che Fielding non ha mai portato via. «Lascia le scarpe qui» mi dice Marino. «E se hai bisogno dei servizi, o di uscire per prendere una boccata d’aria, ricordati di pulirti gli stivali prima di tornare dentro. Ci sono un sacco di schifezze che non conviene portare in giro. Non sappiamo nemmeno esattamente che cosa siano. Potrebbe essere qualcosa che non conosciamo, voglio dire. E quello che conosciamo non è roba da portare in giro. Lo so che dicono che il virus dell’AIDS non sopravvive a lungo eccetera, ma preferirei non verificarlo di persona, grazie.» «Che cosa è stato fatto finora?» Apro la tuta e il vento quasi me la fa volare via di mano. «Cose che tu non vuoi fare e che non dovrebbero riguardarti.» Marino infila le grosse mani in un paio di guanti viola. «Io faccio quello che bisogna fare» ribatto. «Ti ci vorranno i guanti di gomma pesante se devi toccare quello che c’è là dentro.» Marino si infila il secondo paio di guanti. Avrei voglia di dirgli che non sono qui per fare della semplice supervisione, che è normale che tocchi quello che c’è, ma non mi va di ammettere che sono venuta sulla scena del crimine come uno dei suoi sottoposti. Non è che io non capisca che cosa stanno facendo lui, Benton e tutti gli altri. Cercano di evitare che io venga considerata colpevole di ciò di cui la signora Donahue ha accusato Fielding. Neanch’io voglio

conflitti di interesse, peraltro, e capisco benissimo che non dovrei indagare su un uomo che ha lavorato per me e che si mormora sia stato mio amante. Non riesco a spiegarmi come mai non sono furibonda. Mi sento solo triste per un cane di nome Sock, che dorme su alcuni asciugamani nella cabina del furgone. Ho paura di crollare se lo vedo. Mi viene in mente di continuo. Dove finirà? Non in un canile. Non lo permetterò. La cosa migliore sarebbe che se lo prendesse Liam Saltz, che però vive in Inghilterra e dovrebbe farlo viaggiare nella stiva di un aereo. Non intendo permettere nemmeno questo: la povera bestia ha già sofferto abbastanza. «Stai attenta.» Marino continua a darmi istruzioni, come se io non sapessi da che parte cominciare. «Sappi che il furgoncino sta andando avanti e indietro regolarmente.» Sì, lo so. L’ho deciso io. Guardo Benton che parla al telefono con qualcuno e mi sento dimenticata, fuori posto, inutile e priva di interesse. «Ha già fatto un sacco di viaggi. Ci sono trenta o quaranta campioni di DNA in lavorazione, alcuni non del tutto scongelati, quindi forse hai ragione, ce la faremo.» Il furgoncino fa la spola fra qui e il CFC con le prove raccolte. In questo momento è sulla via del ritorno. Mi chino e mi slaccio una scarpa. «Anne guida come un razzo. Non lo sapevo. Immaginavo che guidasse come una vecchia signora, invece va avanti e indietro che è uno spettacolo» dice Marino con apprezzamento. «Si stanno dando tutti da fare. Sembrano gli aiutanti di Babbo Natale. Il generale dice che può far venire degli specialisti di rinforzo da Dover. Sei sicura?» In questo momento non sono sicura di niente. L’unica cosa che voglio è valutare la situazione per conto mio e mi pare di averlo fatto capire chiaramente. «Non spetta a te decidere» rispondo slacciandomi l’altra scarpa. «Ci penso io.» «Mi sembra che sarebbe utile avere l’AFDIL» dice Marino in un modo che mi insospettisce. Guardo di nuovo di sottecchi gli stivali militari marroni vicino alle vasche. È già abbastanza imbarazzante che Briggs sia qui e mi viene in mente che forse non è l’unico a essere venuto da Dover. «Chi altro c’è?» chiedo a Marino appoggiandomi ad alcuni blocchi di cemento per non perdere l’equilibrio. «Rockman o Pruitt?» «Be’, il colonnello Pruitt.» Anche lui militare, Pruitt è il direttore dell’AFDIL, il Laboratorio di identificazione genetica delle Forze armate. «Lui e il generale sono arrivati con lo stesso aereo» aggiunge Marino. Non ho chiesto di venire né all’uno né all’altro, ma non avevano bisogno del mio invito. Tanto più che li ha invitati Marino, il quale ha ammesso di avere chiesto a Briggs di venire. Me lo ha raccontato al telefono mentre ero in macchina. Ha detto, fra l’altro, che sperava non mi dispiacesse che si fosse preso questa libertà, tanto più che pareva che il generale mi avesse cercato, ma che io non avessi risposto, motivo per cui Briggs aveva chiamato Marino. Voleva notizie di Eli Goldman, il morto di Norton’s Woods, e Marino gli ha raccontato quello che sapeva e poi “tutto il resto”, sperando che a me non

dispiacesse. Ho risposto che mi dispiaceva, eccome, ma quel che è fatto è fatto. Mi ritrovo a dirlo spesso e gliel’ho fatto notare, durante la telefonata. Ho sottolineato le sue responsabilità, gli ho spiegato che non posso dirigere un centro in questo modo, anche se era implicito che Briggs è venuto proprio per questo. Si è mosso perché io non sono in grado di gestire il CFC, non così. Non mi è proprio possibile. Se fossi capace di farlo, ai livelli che l’MIT, Harvard e tutti gli altri si aspettano da me, adesso su questa scena del crimine non ci sarebbe nessuno. Anzi, questa scena del crimine non esisterebbe proprio. La tuta gialla è rigida e mi dà fastidio sul mento quando mi chino per infilarmi gli stivali di gomma. Marino sposta la porta improvvisata di compensato. Dietro di essa c’è un grande foglio di plastica pesante, trasparente, inchiodato al telaio in alto, che pende come una tenda. «Tanto per essere chiari, intendo rispettare la consueta procedura di repertamento.» Lo ripeto anche se gliel’ho già detto. «Procederemo come sempre.» «Se lo dici tu.» «Lo dico io.» Ne ho tutti i diritti. Briggs non è al di sopra della legge. Deve rispettare la giurisdizione del Massachusetts, dove sono stati commessi i reati. «Penso semplicemente che abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile» dice Marino. «So che cosa pensi.» «Senti, non è che ci sarà un processo» replica. «Fielding ha fatto risparmiare allo Stato del Massachusetts un sacco di soldi.»

20 Nell’aria c’è un forte odore di fumo di legna e noto che il caminetto è pieno di ceppi non del tutto bruciati, coperti da morbidi mucchi di cenere sottilissima, di un grigio biancastro, che sembra quasi fatta di strati di ragnatele. È il prodotto di qualcosa che brucia bene, lasciando pochi residui, come la tela di cotone e la carta di buona qualità, a basso contenuto di pasta di legno. Chi ha acceso il fuoco lo ha fatto con la canna fumaria chiusa. Si suppone che sia stato Fielding, ma nessuno riesce a capire esattamente il motivo, a meno che non fosse impazzito o sperasse in tal modo di distruggere con un incendio la sua piccola bottega degli orrori. Se l’intenzione era quella, però, non ha scelto il modo migliore. Noto in un angolo una tanica di benzina, alcune latte di diluenti per vernici, stracci e pile di legna da ardere. Ovunque io guardi, vedo materiali più idonei ad appiccare un incendio e il caminetto quindi mi sembra un’assurdità, a meno che Fielding non fosse talmente sconvolto, alla fine, da non riuscire a ragionare lucidamente, o stesse cercando non di bruciare il cottage, ma di sbarazzarsi di qualcosa, di distruggere prove. O lui o qualcun altro. Mi guardo intorno alla luce forte ma irregolare delle lampade portatili a basso voltaggio appese a ganci o montate su aste. Sparsi su un vecchio bancone da lavoro pieno di graffi e macchie di vernice, ci sono vari utensili manuali – punte per trapano, pennelli, contenitori di plastica pieni di chiodi a L per parquet e di viti – ed elettrici, quali un trapano con avvitatore, una sega circolare, una smerigliatrice e anche un tornio, su un supporto metallico. Ci sono trucioli di metallo, alcuni luccicanti, e segatura sia sul bancone sia sul pavimento di cemento. È tutto sporco e pieno di ruggine, e non c’è nulla che protegga il cottage in fase di ristrutturazione dall’aria di mare e dalle intemperie, a parte teli di plastica pesante e assi di compensato inchiodate alle finestre. Dall’altra parte della stanza c’è un varco da cui sento arrivare dei rumori: provengono dalla scala che scende nella cantina. «Che cos’avete raccolto qui?» chiedo a Marino mentre mi guardo intorno e ripenso a ciò che ho visto al microscopio. Se potessi ingrandire quello che c’è qui dentro, ho il sospetto che troverei una grande quantità di ruggine, fibre, muffe, terriccio, polvere e frammenti di insetti. «Be’, si vede a occhio nudo che alcuni di questi trucioli di metallo sono recenti, perché non sono ancora arrugginiti e sono molto lucidi» risponde Marino. «Abbiamo preso dei campioni e li abbiamo mandati ai laboratori per capire se al microscopio assomigliano alla roba che hai trovato nel cadavere di Eli Saltz.» «Non si chiama Saltz» gli ricordo per l’ennesima volta. «E anche per confrontare le impronte lasciate dagli utensili» aggiunge Marino. «Non che ci siano motivi di dubitare di quello che ha fatto Fielding. Abbiamo trovato la scatola.» La scatola in cui è arrivato il coltello WASP.

«Due bombolette di CO2 vuote, un paio di manici di ricambio e anche il libretto delle istruzioni» continua Marino. «Tutto quanto. Secondo il fornitore, è roba che Jack aveva ordinato due anni fa. Forse per le immersioni.» Si stringe nelle spalle sotto l’ingombrante tuta gialla. «Certo che non l’avrà ordinato due anni fa per ammazzare Eli. E poi due anni fa Jack era a Chicago. Mi chiedo a cosa gli servisse un coltello WASP.» Marino si aggira nella stanza con gli stivaloni verdi e continua a guardare l’accesso alla scala che porta nella cantina come se fosse curioso di sapere ciò che dicono e fanno quelli al piano di sotto. «L’unica cosa che ti può ammazzare, nei Grandi Laghi, che io sappia, è tutto il mercurio che c’è nei pesci.» «Spetta a noi. Dobbiamo prendere noi la scatola e le due bombolette di CO2. Tutto.» Voglio sapere a quale laboratorio li hanno inviati. Voglio essere sicura che Briggs non stia mandando i miei reperti ai laboratori dell’AFME a Dover. «Sì. Abbiamo preso tutto, tranne il coltello che era nella scatola. Il coltello WASP non è ancora saltato fuori. Secondo me l’ha buttato via, giù da un ponte o chissà dove, dopo aver pugnalato il tipo. Non mi sorprende che non abbia mandato nessuno a fare un sopralluogo a Norton’s Woods.» Marino mi fissa con gli occhi iniettati di sangue e poi si guarda intorno distrattamente, come si fa quando non si ha niente di nuovo da vedere. È già stato qui molte ore prima che arrivassi io. «E di questo cosa mi dici?» Mi accuccio davanti al caminetto, che è aperto, di vecchi mattoni, probabilmente originale dell’epoca in cui fu costruita la casa. «Che cosa è stato fatto qui?» Il casco continua a scivolarmi sugli occhi; me lo tolgo e lo poso per terra. «In che senso?» Marino resta dov’è e mi guarda. Con un dito protetto dal guanto indico la cenere biancastra, che è leggerissima e si solleva e si muove al minimo spostamento d’aria. Sembra che la sposti io con la forza del pensiero. Rifletto sul modo migliore per conservare questa cenere, troppo sottile per prelevarla tutta insieme, e sono praticamente certa di aver capito che cosa è stato bruciato nel caminetto, almeno in parte. Ho già visto cenere così, ma non di recente. Probabilmente non mi capita da almeno dieci anni. Oggigiorno, quando si bruciano dei documenti, di solito si tratta di fogli stampati, non scritti a macchina, e su carta per fotocopiatrici, da pochi soldi, con un alto contenuto di pasta di legno, che non brucia mai completamente e lascia un sacco di cenere nera e fuligginosa. La carta con un alto contenuto di pasta di stracci, invece, brucia in modo del tutto diverso, e la prima cosa che mi viene in mente è la lettera che Erica Donahue sostiene di non avere mai scritto. «Secondo me» dico a Marino «dobbiamo coprire il caminetto in modo da preservare la cenere. Dobbiamo fotografarla in situ, prima di smuoverla. Facciamolo subito, poi la raccogliamo, la mettiamo nei barattoli da vernice e la mandiamo al laboratorio documenti.» Vedo i grossi piedi di Marino che si avvicinano. «Per farne cosa?» mi chiede. In realtà vuole sapere perché sto facendo l’investigatore sulla scena del crimine. Se gli rispondessi, ma non lo farò, direi: “Perché qualcuno lo deve fare”. «Finiamo questa cosa come si deve, come sappiamo fare e come abbiamo sempre

fatto.» Incrocio il suo sguardo vitreo. Gli sto dicendo che non è ancora finita. Non mi interessa che tutti diano per scontato che lo sia. Finché non si finisce, non si deve dare per scontato niente. «Vediamo cos’hai trovato.» Si china accanto a me. Le nostre tute gialle frusciano al minimo movimento ed emanano un lieve odore di plastica che mi ricorda quello di una tenda della doccia nuova. «Caratteri dattiloscritti nella cenere.» Punto un dito e di nuovo la cenere si muove leggermente. «Se riesci a leggere la cenere, vuol dire che sei una veggente e dovresti farti assumere in uno dei negozi di magia da queste parti.» «Si legge perché la carta di buona qualità brucia bene, diventa bianca, e i caratteri battuti con una macchina per scrivere a inchiostro restano visibili. Ci è capitato altre volte, Marino, anche se tanto tempo fa. Vedi che cosa sto guardando?» Indico con il dito, l’aria si muove e la cenere anche. «Si vede persino l’intestazione, almeno in parte. Si legge “Boston” e alcune cifre del codice postale. È lo stesso codice postale della lettera che ho ricevuto dalla signora Donahue, la quale sostiene di non avermi scritto e di non trovare più la macchina per scrivere.» «Be’, in casa ce n’è una. Verde. Una vecchia portatile. Sul tavolo della sala da pranzo.» Marino si alza e flette le gambe, come se gli facessero male le ginocchia. «C’è una macchina per scrivere verde nella casa qui accanto?» «Pensavo che Benton te l’avesse detto.» «Immagino che in un’ora non potesse raccontarmi tutto.» «Non ti arrabbiare. Un’ora non basta per tutta la robaccia che c’è nella casa. Non ne hai idea. Sembra che Fielding non abbia mai finito il trasloco. Ci sono scatoloni dappertutto. È un vero casino.» «Dubito che avesse una macchina per scrivere portatile. Dubito che sia la sua.» «A meno che non fosse in combutta con Johnny Donahue. Spiegherebbe come mai aveva questa roba.» «Secondo la madre, a Johnny Jack non piaceva per niente. Come mai allora Jack ha la macchina per scrivere della donna?» «Ammesso che sia veramente la sua. Non ne siamo sicuri. E poi ci sono le sostanze» obietta Marino. «Johnny ne faceva uso da quando aveva cominciato a prendere lezioni di taekwondo da Fielding. Torna tutto.» «Scopriremo che cosa torna e che cosa no. Carta da lettere?» «Non ne ho vista.» «A parte quella che sembra essere qui.» Gli ricordo che la carta da lettere di Erica Donahue potrebbe essere stata bruciata, in toto o in parte. Forse tutti i fogli avanzati sono stati distrutti da chi mi ha scritto spacciandosi per lei. «Ascolta...» Marino non finisce la frase. Non ce n’è bisogno. So che cosa mi vuole dire. Mi vuole ricordare che non riesco a essere obiettiva dal momento che c’è di mezzo Fielding. Marino ne è convinto perché mi

conosce da tantissimo tempo e si ricorda di quando Fielding faceva l’apprendistato a Richmond e io ero il suo mentore e, secondo alcuni, anche qualcosa di più. «Questo era qui così com’è adesso?» chiedo indicando un rotolo di nastro adesivo metallizzato sul bancone da lavoro. «Okay. Certo» dice Marino chinandosi a prendere da una valigetta per terra un sacchetto in cui sigillarlo, perché è possibile verificare se lo strappo del rotolo corrisponde a quello di un determinato pezzo di nastro. «Allora spiegami come diavolo avrebbe fatto a prenderla, e perché.» Intende Fielding. Come ha fatto Jack Fielding a prendere la macchina per scrivere di Erica Donahue e a che scopo ha scritto una lettera spacciandosi per lei e me l’ha fatta consegnare a mano da un autista che di solito viene chiamato per Bar mitzvah e matrimoni? È stato Johnny Donahue a dare a Fielding la macchina per scrivere e la carta da lettere? E, se sì, perché? Forse Fielding ha semplicemente manipolato Johnny, l’ha fatto cadere in trappola. «Potrebbe essere stato un estremo tentativo di incastrare Donahue» si risponde da solo Marino, esprimendo una possibilità che ho preso in considerazione anch’io, ma che non mi convince. «Sarebbe una domanda da fare a Benton.» Ma Benton si è allontanato, è da qualche parte a parlare al telefono o a consultare i suoi colleghi dell’FBI, magari l’agente Douglas. Il pensiero di questa donna mi disturba e spero che la mia sia solo paranoia, spero non ci sia motivo di preoccuparmi veramente della natura dei rapporti fra Benton e l’agente speciale Douglas. Spero che la seconda tazza di caffè che ho visto sul tappetino del suo SUV non fosse di Benton, che Benton non sia andato in giro con lei e non abbia passato troppo tempo in sua compagnia quando io ero a Dover e magari anche prima, quando andavo e venivo da Washington. Non soltanto sono stata troppo permissiva e un pessimo mentore per Fielding, ma adesso sono anche una cattiva moglie. Ho la sensazione che sia tutto finito, come se fossi morta, come se la mia vita non avesse retto alla mia assenza e adesso stessi investigando per cercare di capire le cause della mia rovina. «Ecco che cosa dobbiamo fare ora» dico a Marino. «Immagino che nessuno abbia toccato la macchina per scrivere e che sia un’Olivetti. Ti risulta?» «Siamo stati tutti molto impegnati.» Mi sta dicendo che la polizia ha cose più importanti a cui pensare che non una vecchia macchina per scrivere manuale. «Nella casa abbiamo trovato il cane, come ti ho detto, e la camera da letto dove sembra che dormisse Fielding, e si capisce che ci stava saltuariamente, ma il fattaccio è successo qui.» Indica il cottage in cui ci troviamo. «La macchina per scrivere è nella custodia, sul tavolo della sala da pranzo. L’ho aperta per vedere che cosa c’era dentro e basta.» «Fai i tamponi per il DNA sui tasti, poi la sigilli e la mandi in laboratorio. E i tamponi devono partire con il prossimo viaggio. Sono la prima cosa da analizzare, perché potrebbero dirci chi è stato a scrivermi quella lettera.» «Credo che lo sappiamo già.» «La macchina per scrivere invece va mandata al laboratorio documenti per confrontare

il carattere tipografico con quello della lettera che ho ricevuto, un carattere corsivo. Analizzeremo anche il pezzo di nastro adesivo sulla busta confrontandolo con quello del rotolo che abbiamo appena trovato. Ci saranno anche tracce inorganiche, DNA e chissà cos’altro, e non mi sorprenderei se ci portassero verso i Donahue. Scommetto che sarà tutta roba che viene da casa loro, compresi DNA e impronte digitali.» «Perché?» «Per incastrare Johnny Donahue.» «Non credevo che Jack fosse così astuto» commenta Marino. «Non ho detto che Jack ha incastrato Donahue. Non l’ho ancora processato e condannato, né lui né altri» ribatto con voce spenta. «Abbiamo il suo profilo DNA e le sue impronte a scopo di esclusione, come per tutti gli altri, quindi non dovrebbe essere difficile escluderlo o includerlo. E gli eventuali altri profili, se ce ne sono? Se troviamo DNA da più di una fonte, come prevedibile? Controlleremo immediatamente i profili sul CODIS.» «Certo. Se vuoi fare così.» «Li controlliamo subito, Marino. Perché dov’è Jack lo sappiamo, ma se è coinvolto qualcun altro, compresi i Donahue, non possiamo perdere tempo.» «Certo, capo. Come vuoi tu» dice Marino. Gli leggo nel pensiero. “Siamo in casa di Jack Fielding, nella sua cantina degli omicidi, nella sua piccola bottega degli orrori. Perché ci diamo tanto da fare?” Marino lo pensa, ma non me lo dirà. È convinto che io stia negando l’evidenza, che mi stia aggrappando alla speranza remota e irrazionale che Fielding non abbia ucciso nessuno, che sia stato qualcun altro, come per magia, a usare la sua casa e le sue cose e fare tutto questo e che Fielding sia una vittima e non il mostro che tutti pensano. «Non sappiamo se la sua famiglia è stata qui» ricordo a Marino con pazienza, sottovoce, ma in un tono che vuole invitarlo a riflettere. «Sua moglie, le due figlie. Non sappiamo chi è stato in casa e può aver toccato in giro.» «Mi sembra difficile che venissero a trovarlo da Chicago per stare in questo tugurio.» «Quando se ne sono andate da Concord esattamente?» È a Concord che Fielding abitava con la famiglia in una casa in affitto che l’avevo aiutato a trovare. «L’autunno scorso. Quadra con tutto il resto.» Marino fa l’ennesima supposizione. «Il giocatore di football e tutto quello che è successo dopo che la moglie di Fielding è tornata a Chicago con le figlie e lui è venuto qui, si è messo a ristrutturare questo posto e intanto ci viveva come un barbone. Avrebbe potuto mandarti un’e-mail per dirti che era in crisi, che la moglie e le figlie se n’erano andate.» «Non mi ha detto niente. E mi dispiace che non l’abbia fatto.» «Sì, be’, non dire che avrei dovuto avvertirti io.» Marino chiude il rotolo di nastro adesivo in un sacchetto di plastica. «Non erano fatti miei. Non volevo inaugurare la mia carriera qui facendo la spia, venendoti a dire che Fielding aveva ricominciato a fare il cazzone e che te lo saresti dovuto aspettare quando ti è venuta la bella idea di

riprenderlo.» «Mi sarei dovuta aspettare questo?» Reggo lo sguardo dei suoi occhi rossi e pieni di risentimento. «Rimettiti il casco, prima di scendere. Di sotto c’è un sacco di roba che pende dal soffitto, tutte queste maledette luci appese che sembra Natale. Io devo tornare sul furgone e so che hai bisogno di un po’ di tempo.» Regolo il sottogola del casco, stringendolo un po’. Il motivo per cui Marino non scende nella cantina con me non è perché io ho bisogno di un po’ di tempo. Non è così sensibile da lasciarmi l’agio di affrontare ciò che mi aspetta al piano di sotto senza lui accanto, senza il suo fiato sul collo. Può darsi che se la racconti, ma mentre lo sento sciacquare gli stivali nelle vasche penso che per lui una scena di questo genere dev’essere terribilmente disgustosa. Non credo sia a causa dei liquidi corporei che si stanno scongelando e decomponendo, né perché teme l’epatite, l’HIV o altri virus, ma per il modo in cui quello sperma è arrivato qui. Le ripetute abluzioni di Marino nelle vasche piene d’acqua e di sapone per piatti sono un tentativo di purificarsi dal senso di colpa che sicuramente prova. Non ha mai visto Fielding fare le cose che ha fatto e questo per lui è un problema. Sicuramente pensa che se ne sarebbe dovuto accorgere. Inoltre, come ho spiegato a Benton mentre venivamo qui in macchina, e poi al telefono anche allo stesso Marino, il prelievo dello sperma è una procedura non molto diversa da una vasectomia, a parte il fatto che quando la si esegue su un morto è più veloce e semplice, per ovvi motivi. Non c’è bisogno di anestesia locale e il medico non deve preoccuparsi che il paziente senta dolore, possa avere ripensamenti o altre reazioni emotive. A Fielding bastava fare una piccola iniezione su un lato dello scroto, introdurre l’ago nel dotto deferente e aspirare lo sperma. Un’operazione che richiede pochi minuti e che probabilmente Jack non faceva durante l’autopsia ma prima, entrando nella cella frigorifera quando non c’era nessuno, in modo da non lasciar trascorrere troppo tempo dal decesso. Questo potrebbe spiegare come mai è stato il primo ad accorgersi dello strano sanguinamento del ragazzo di Norton’s Woods. Probabilmente lo ha ritirato dalla cella frigorifera lunedì mattina appena arrivato al CFC per prelevargli lo sperma, ha notato del sangue sotto il sacco mortuario ed è corso ad avvertire Anne e Ollie. Se qualcuno poteva scoprire le attività criminose di Fielding nei sei mesi in cui io ero a Dover, quel qualcuno è Anne, ho detto a Marino. Eppure Anne non ha visto niente e non ha mai avuto il minimo sospetto. Sappiamo che Fielding ha prelevato sperma da almeno un centinaio di cadaveri, stando al numero di provette che sono state trovate rotte sul pavimento della cantina, per un valore di centomila dollari, ma forse anche di più, se lui applicava tariffe proporzionali alle disponibilità economiche degli interessati. I poliziotti chiamano “oro liquido” la merce che Fielding vendeva su un mercato nero che aveva inventato lui stesso. Non riesco a smettere di pensare al fatto che abbia scelto come donatore involontario Eli, sempre che fosse questa la sua intenzione. Non lo sapremo mai. Quando Fielding ha aperto la cella frigorifera ieri mattina, c’era un solo cadavere

da cui poteva prelevare liquido seminale: quello di Eli Goldman. L’altro uomo era anziano ed è molto improbabile che avesse dei familiari o dei cari interessati a comprare i suoi spermatozoi, mentre il terzo cadavere era di una donna. Se aveva ucciso lui Eli Goldman con il coltello WASP, è possibile che sia stato così spudorato e sconsiderato da cercare di prelevargli lo sperma? E a chi pensava di poterlo vendere senza compromettersi? Cercare di concludere una transazione del genere equivaleva a confessare di aver commesso l’omicidio. Non riesco a togliermi dalla testa che Fielding non sapesse chi era il giovane morto non identificato quando è stato avvertito del fatto domenica pomeriggio. Non si è preso la briga di andare a fare un sopralluogo, non era interessato e non aveva motivo di esserlo. Continuo a sospettare che non subodorasse assolutamente nulla, finché non ha aperto la cella frigorifera. A quel punto ha riconosciuto Eli Goldman, con il quale aveva un qualche legame. Forse il legame erano le sostanze, ed è per questo che Goldman aveva una delle pistole di Fielding. Oppure Fielding gli aveva dato o venduto la Glock. Sicuramente da qualcuno Goldman l’aveva avuta. Le sostanze, la pistola, forse anche qualcos’altro. Se sapessi cos’è passato nella testa di Fielding quando ha aperto la cella frigorifera alle sette di ieri mattina... allora saprei. Saprei tutto. Sposto una delle luci appese perché non mi batta sul casco mentre scendo i gradini di pietra, ingoffata dalla tuta gialla e dagli stivaloni di gomma. Sento colarmi lungo i fianchi gocce di sudore freddo e sono preoccupata al pensiero di dover affrontare Briggs. Sono preoccupata anche per il levriero di nome Sock. Sono preoccupata per tutto ciò di cui potrei mai preoccuparmi, perché non sopporto quello che sto per vedere, ma è meglio così e, per quanto io mi lamenti di Marino, stavolta ha fatto la cosa più giusta. Non avrei voluto che il cadavere di Fielding venisse trasportato al CFC. Non vorrei vederlo per la prima volta dentro un sacco mortuario, su una barella o su un tavolo di acciaio. Marino mi conosce abbastanza bene da sapere che voglio vedere Fielding lì dov’è morto, per accertarmi che è andata proprio come sembra e che le considerazioni di Briggs coincidano con le mie, perché è importante che Briggs e io siamo d’accordo su come e perché è morto Jack Fielding. La cantina ha i muri di pietra imbiancati, il soffitto a volta e nessuna finestra, ed è troppo piccola per così tante persone tutte insieme. Siamo vestiti uguali, in giallo vivace, con grossi guanti di gomma neri, stivali verdi e il casco giallo sulla testa. Alcuni hanno anche la visiera o la mascherina da chirurgo. Riconosco tre tecnici del laboratorio del DNA che stanno prelevando campioni da una zona del pavimento cosparsa di cocci di provette e tappini di plastica nera. Poco lontano ci sono la stufa a cui ha accennato Marino e un impianto di crioconservazione in acciaio inossidabile della stessa marca e modello di quello che usiamo al CFC per mantenere i materiali biologici a temperature bassissime. Ha lo sportello spalancato e tutti i ripiani vuoti perché qualcuno, presumibilmente Fielding, ha tirato fuori le provette che conservava al suo interno e le ha buttate per terra, rompendole, dopodiché ha acceso la stufa. Su alcuni frammenti c’è ancora l’etichetta. A parte i cocci, il pavimento sembra pulito e le pareti sono rivestite di

una vernice bianca opaca. Sembra la cantina di un viticoltore trasformata in laboratorio, con un lavello e un piano di lavoro in acciaio, vassoi per provette, grosse bombole di azoto liquido e un lungo tavolo di metallo che probabilmente Fielding usava per preparare le spedizioni. Ci sono anche varie sedie, una leggermente scostata dal tavolo, come se ci fosse stato seduto qualcuno. Guardo prima la sedia, controllo se c’è del sangue, ma non ne vedo. Il tavolo è ricoperto di carta bianca da macellaio. Vi sono posati guanti criogenici azzurri lunghi fino al gomito, fiale, carrelli per vasi dewar, penne a inchiostro indelebile, lunghi tappi di sughero e aste di misurazione del livello di azoto. Sotto il tavolo sono impilate scatole di cartone bianco, di quelle che usiamo abitualmente per spedire materiali biologici congelati chiusi in recipienti di alluminio, che mantengono una temperatura di –150 gradi centigradi fino a cinque giorni. Vanno bene anche per spedire spermatozoi congelati e sono molto usate dagli allevatori. Non posso fare a meno di pensare che le attrezzature e i materiali che Fielding usava per questa sua attività scandalosa e illegale siano stati sottratti al CFC. Probabilmente Jack portava via dai laboratori quello che gli serviva di notte o dopo l’orario di chiusura, senza che quelli della sicurezza si accorgessero di nulla. Oppure ordinava ciò di cui aveva bisogno a spese del CFC e se lo faceva recapitare direttamente qui, a casa sua. Mentre io cerco di ricostruire le sue mosse, Fielding è qui, vicinissimo, disteso per terra sotto un telo azzurro. Sul pavimento rivestito di primer bianco c’è una macchia di sangue che fa parte della pozza che gli si è formata sotto la testa. Dal punto in cui mi trovo vedo che il sangue ha cominciato a dividersi e a coagulare; è nelle prime fasi di decomposizione, processo che deve essere stato drasticamente rallentato dalla temperatura della cantina. Fa un freddo tale che il fiato si condensa. Sembra di essere in una cella frigorifera. Scatta il flash di una macchina fotografica, una volta, poi un’altra, e una persona dalle spalle robuste vestita di giallo immortala l’unica zona del muro imbiancato che è annerita e sporca. C’è una stazione totale montata su un treppiede giallo e immagino che il distanziometro elettro-ottico abbia già mappato la scena, registrando le coordinate di ogni singolo elemento, compreso ciò che il colonnello Pruitt sta fotografando in questo momento. Il colonnello si accorge che lo sto osservando e abbassa la macchina fotografica, mentre io vado verso un muro che esala puzza di morte, l’odore pungente e stantio del sangue che si è decomposto ed è seccato per mesi in un ambiente freddo e senza luce. Sento odore di muffa e di polvere e noto brandelli di moquette sporca e pezzi di compensato appoggiati a un’altra parete. Deduco, dall’aspetto della polvere e della sporcizia sul pavimento bianco, che sono stati spostati lì da poco. Imbullonati al muro di pietra, all’altezza della mia testa, c’è una serie di grilli con perno a vite, di quelli che normalmente si usano per reggere le imbracature con cui sollevare grossi pesi. Dato che sono vicini a rotoli di corda, pistole per ingrassaggio, morsetti, un carrello e ganci accorciatori e anelli girevoli al soffitto, immagino che Fielding avesse ideato un ingegnoso sistema per sostituire le pesanti bombole di azoto

liquido, che a un certo punto deve essere stato utilizzato per scopi perversi che Fielding non aveva preso in considerazione quando ha cominciato a fare commercio di spermatozoi. «Da quanto sono riuscito a capire finora, è stata usata soprattutto una mazzascure, che spiega sia le lesioni da corpo contundente sia quelle da taglio» comincia Pruitt senza dirmi nemmeno “buongiorno”, come se non ci fosse niente di strano nell’incontrarsi qui, come se fosse la naturale continuazione del periodo passato insieme a Dover. «Un attrezzo dal manico lungo, a forma di mazza da una parte e con una lama tipo ascia dall’altra, che era nascosto sotto la moquette e le tavole di compensato, insieme a un giubbotto con il logo del Boston College, un paio di scarpe da ginnastica e altri indumenti che riteniamo appartenessero a Wally Jamison. Tutta questa zona era coperta da quella roba laggiù.» Indica la moquette e le assi che sono state spostate e che immagino fossero state utilizzate per occultare la scena del crimine. «Tutto quanto, compresa la mazzascure, naturalmente, è stato sigillato e mandato ai vostri laboratori. Hai già visto l’arma?» dice Pruitt scuotendo la testa. «No.» «Non oso immaginare cosa si provi a essere aggrediti con un affare del genere. Gesù. Mi fa venire in mente Lizzie Borden. E lì ci sono i pezzi di corda insanguinata con cui era legato.» Indica alcuni grilli e anelli fissati al muro, incrostato di sangue vecchio e scuro, e immagino quasi di sentire l’odore della paura qui sotto, il terrore inimmaginabile del giocatore di football torturato e ucciso la notte di Halloween. «Perché ha lasciato tutto così, senza pulire?» È la prima domanda che mi viene in mente di fare guardando gli strumenti utilizzati per il brutale e sadico omicidio di Wally Jamison, che sembra non siano più stati toccati. «Immagino che abbia scelto la soluzione meno faticosa e abbia semplicemente coperto tutto con compensato e pezzi di moquette» replica Pruitt. «Ecco perché ci sono un sacco di sporcizia e fibre ovunque. Sembra che dopo l’omicidio non si sia preso la briga di lavare niente. Ci ha soltanto messo sopra dei vecchi pezzi di moquette e ha appoggiato queste assi contro il muro.» Indica di nuovo i brandelli di moquette di diversi colori e i grandi fogli di compensato impilati sul pavimento bianco vicino alla porta chiusa che si affaccia all’esterno. «Non capisco perché non abbia pulito» ripeto. «È successo tre mesi fa. Ha lasciato la scena del crimine praticamente intatta per i posteri? Ci ha soltanto buttato sopra dei pezzi di moquette e di compensato?» «Una teoria è che ci godesse. Come quelli che fotografano o filmano l’omicidio per poi rivederselo. Ogni volta che scendeva, sapeva che cosa era nascosto dietro le assi e la moquette e ci godeva.» “Forse era qualcun altro a goderci” penso io. A Jack Fielding non è mai piaciuto il sangue. Per essere un anatomopatologo, era piuttosto schizzinoso. Benton dirà che è colpa delle sostanze. Lo diranno tutti e forse è anche vero. Fielding era alterato, su questo non ho dubbi.

«Possiamo aiutarti se hai bisogno» mi dice poi Pruitt guardandomi da dietro la visiera di plastica che si appanna con il respiro nella cantina gelida. Mi guarda con affetto, ma è turbato. Chi non lo sarebbe? Mi domando se avverte quello che avverto io, se anche lui ha la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra in tutto questo. Se si sta chiedendo quello che mi chiedo io in questo momento, guardando la parete annerita con quei ferri arrugginiti conficcati dentro. “Perché Jack Fielding avrebbe dovuto fare una cosa simile?” Che prelevasse spermatozoi da vendere alle famiglie dei morti è comprensibile, per certi versi: lo si può spiegare con l’avidità di denaro, con il desiderio di gratificazione, con il senso di potere che deve aver provato nel restituire la vita là dove era stata tolta. Ma se ripenso alle foto, ai video e alle TAC del corpo mutilato di Wally Jamison, mi torna in mente quello che ho pensato quando li ho visti per la prima volta. Sembrava un omicidio a sfondo sessuale, passionale, commesso da qualcuno che provava sentimenti profondi nei confronti della vittima, in preda a una rabbia che si è placata solo quando Wally, martoriato e irriconoscibile per le lacerazioni, i tagli e le contusioni, è morto dissanguato. Il cadavere è stato poi trasportato, probabilmente su una barca, forse la barca di Fielding, nel porto di Boston, dove è stato buttato in mare vicino alla sede della Guardia costiera. Benton l’ha definito un gesto spudorato, una provocazione. Neanche questo mi sembra nel carattere di Fielding che, per essere un maestro di arti marziali, forte e muscoloso, era abbastanza codardo. «Grazie. Vediamo che cosa ci serve» rispondo a Pruitt. «Be’, servono i test del DNA. Ci sono centinaia di campioni. Non soltanto il liquido seminale da attribuire ai vari donatori, ma anche tutti i tamponi che sono stati fatti.» «Lo so, è un lavoro enorme e richiederà parecchio tempo, perché non sappiamo tutto quello che è successo qui dentro. Solo una parte. Quello che c’era nel frigorifero e varie altre cose, fra cui immagino l’omicidio dello studente del Boston College, Wally Jamison.» Nel pronunciarne il nome lo immagino da vivo, con la mandibola squadrata, i ricci neri, gli occhi azzurri e il fisico possente. Poi ricordo com’era ridotto. «A che ora siete arrivati?» «Io e John abbiamo preso un volo presto. Siamo arrivati circa sette ore fa.» Non gli chiedo dove si trova adesso Briggs. «John ha fatto l’esame esterno e ne rivedrà i particolari con te, appena puoi» aggiunge Pruitt. «Non lo aveva toccato nessuno, prima?» Il cadavere di Fielding è stato trovato poco dopo le tre del mattino, o almeno così mi è stato detto. «Quando siamo arrivati noi, il cadavere era già coperto, com’è adesso. La Glock non è qui. Dopo che l’FBI ha identificato il numero di serie abraso, l’ha mandata ai vostri laboratori.» È la stessa cosa che mi ha detto Benton. «L’ho saputo solo poco fa, mentre venivo qui in macchina.» «Senti, se stamattina alle tre fossi stato qui io e fosse dipeso da me...» Vuole dirmi che lui mi avrebbe avvertito subito. «Ma l’FBI ha voluto contenere la cosa, dal momento che

non è certo che abbia agito da solo.» Si riferisce a Fielding. «Per tutti gli altri fattori, come il dottor Saltz, il parlamentare e compagnia bella. La paura del terrorismo.» «Sì, solo che non è il tipo di terrorismo di cui si preoccupa di solito il Bureau. Questo è terrorismo di un tipo diverso» commento. «Ha qualcosa di personale. Non ti sembra che ci sia qualcosa di molto personale? Che cosa ne pensi tu?» «Nessuno aveva ancora toccato il cadavere quando sono arrivati la polizia e l’FBI.» Pruitt non vuole dirmi che cosa pensa. «So che a quell’ora era a temperatura ambiente, quindi doveva essere qui da un po’. Però dovresti parlarne con John.» «Alle cinque del mattino il cadavere era a temperatura ambiente?» «Quattro gradi, forse qualcuno di più per via di tutta la gente che c’è qui sotto, ma devi farti dare i dettagli da John.» Pruitt fissa la sagoma dell’uomo coperto dal telo dall’altra parte della cantina, vicino al frigo e allo sperma che si sta scongelando sul pavimento di pietra da cui gli investigatori, protetti dalle ginocchiere, raccolgono una per una le schegge di vetro, prelevano tamponi e chiudono tutto in apposite buste di carta su cui scrivono con il pennarello indelebile. Non voglio fare calcoli finché non avrò visto il cadavere, ma da quello che ho sentito finora il risultato va già nella direzione che sospetto. C’è qualcosa che non quadra.

21 La macchia sul muro imbiancato, a poco più di un metro e ottanta centimetri dal pavimento di pietra, è brutta e scura. Probabilmente è lì che Wally Jamison aveva il collo e la testa quando è stato incatenato per essere poi massacrato di botte. Dalla macchia più grande si diparte una costellazione di schizzi e puntini che a un esame più attento risultano angolati e allungati. Sono gocce di sangue partite dall’arma del delitto mentre veniva brandita per aria, prima e dopo aver colpito la vittima. Immagino la mazzascure di cui parlava Pruitt e sono convinta che abbia ragione. Che morte orribile! Penso al coltello WASP e decido che l’assassino è un sadico. «Doveva avere un sistema per tenere traccia dei campioni» dico a Pruitt mentre guardo i tecnici vestiti di giallo in ginocchio per terra. Non li conosco tutti. Forse ci sono anche Saint Hilaire, di Salem, e Lester Law, di Cambridge. Non sono sicura di chi ci sia. So solo che l’FBI collabora con la task force costituita appositamente con investigatori dei vari dipartimenti del NEMLEC, che coordina le forze dell’ordine del Massachusetts nordorientale. «Se davvero vendeva spermatozoi, doveva avere un sistema di registrazione e di archiviazione dei campioni.» Gli indico frammenti di etichette ancora appiccicate a cocci di vetro per terra. «Se lo trovassimo, forse ci sarebbe utile per un’identificazione preliminare, in attesa della conferma del DNA. Se i campioni venivano tutti da cadaveri passati per il CFC, dovremmo avere il DNA dai campioni di sangue nel nostro archivio.» «So che Marino sta indagando proprio su questo. Mi sembra che abbia dato a qualcuno l’incarico di compilare un elenco di tutti gli individui di sesso maschile e di giovane età a cui potrebbero essere stati prelevati gli spermatozoi. Specie se a effettuare la loro autopsia è stato Fielding.» «Con tutto il rispetto, questa è una cosa di cui mi sarei dovuta occupare io, non Marino» obietto. Sono sulle difensive e mi dispiace, ma non ne posso più dell’invadenza di Marino: si comporta come se a dirigere il CFC fosse lui, non io. «Non abbiamo ancora trovato archivi né registri» dice Pruitt. «Ma la Farinelli sta controllando il laptop di Fielding, che quando siamo arrivati noi sembrava morto come il suo proprietario. Può darsi che troviamo qualcosa lì.» Mi fa impressione sentire chiamare mia nipote per cognome. Lucy dev’essere nella casa, dove non ci sono né luci né riscaldamento, a meno che non sia tornata la corrente. Forse hanno ripristinato il servizio e io non me ne sono accorta, perché qui sotto stiamo usando le lampade di emergenza. Mi avvicino a una valigetta Pelican in fondo alla scala e cerco una torcia elettrica. La trovo e torno verso la parete per illuminare le macchie di sangue e vedere se hanno ancora qualcosa da dirmi, prima di rivolgere la mia attenzione alla persona che sembra responsabile di tutto questo, il mio vice. “Il mio vice, che agiva da solo nella sua cantina degli orrori, senza l’aiuto di nessuno...” penso. Sono scettica e arrabbiata con la polizia, l’FBI e tutti quelli che hanno cominciato il sopralluogo senza di me.

Sotto la macchia più scura sul muro imbiancato c’è una macchia corrispondente sul pavimento imbiancato, una miriade di gocce confluite a formare una chiazza nerastra, dove il sangue ha intriso la pietra porosa. Sta cominciando a sfaldarsi. Alcune gocce sui bordi sono perfettamente rotonde, appena frastagliate lungo il contorno a causa della ruvidezza della pietra. Sono gocce di sangue colato dalle ferite della vittima. Altre macchie sono state calpestate da qualcuno, forse l’assassino, che ci è passato sopra con i piedi o ci ha trascinato su qualcosa prima che seccassero. Forse i pezzi di moquette o le assi. Le uniche macchie di sangue che indicano una direzione di impatto sono quelle sul muro e sul soffitto, nere e allungate, oppure a forma di goccia. Penso che siano state proiettate lì dall’arma, sferrata ripetutamente a mezz’aria. La vittima era in posizione eretta quando ha cominciato a sanguinare, probabilmente incatenata al muro. Impossibile sapere quando le è stato inferto il colpo fatale. È stato uno dei primi o uno degli ultimi? “Prima sei morto, meglio è” penso immaginando la scena e ricostruendo il dolore, l’angoscia, il terrore che deve aver provato Wally Jamison. Spero che non abbia dovuto subire questa tortura per troppo tempo prima che gli sia stata recisa l’arteria che ha provocato la morte, forse la carotide sul lato sinistro del collo. Gli schizzi sulla parete sono chiaramente di sangue spruzzato con forte pressione da un’arteria, a ritmo con il battito cardiaco. Ricordo le ferite profonde sul collo della vittima. Wally Jamison deve aver vissuto solo pochi minuti dopo quella ferita, e mi chiedo per quanto tempo ancora l’assassino abbia infierito sul suo corpo senza vita. Mi domando il perché di tanto accanimento. Che cos’era successo fra Wally Jamison e Jack Fielding per scatenare così tanta rabbia? Non potevano essere semplicemente frequentatori della stessa palestra. Jamison non praticava arti marziali, a quanto ci risulta, e non conosceva Johnny Donahue, Eli Goldman o Mark Bishop. Non lavorava alla Otwahl, non aveva niente a che fare con la robotica e l’alta tecnologia. Di Wally Jamison io so soltanto che era nato in Florida e studiava storia al Boston College, dove era molto conosciuto grazie al football, partecipava a un sacco di feste e aveva un sacco di donne. Non riesco a capire come facesse Fielding a conoscerlo, a meno che non si fossero incontrati per caso, magari in palestra, e facessero uso tutti e due di sostanze, assumessero i cocktail di ormoni a cui accennava prima Benton. L’esame tossicologico di Wally Jamison era negativo: niente stupefacenti, niente farmaci, niente alcol. Il test che facciamo di routine, tuttavia, non comprende gli steroidi, che vengono controllati solo quando si ha motivo di credere che la morte possa essere legata al loro uso. Ma sulle cause del decesso di Wally Jamison non ci sono mai stati dubbi: era evidente che non erano stati gli steroidi a ucciderlo, per lo meno non direttamente. Adesso, forse, è troppo tardi. Non abbiamo più urine da analizzare, anche se potremmo provare con i capelli, nel fusto dei quali è possibile che si siano accumulate le molecole degli steroidi di cui forse faceva uso. Non sarà facile, e comunque un test del genere non ci dirà se gli eventuali steroidi che Jamison assumeva provenivano da Fielding, se i due si conoscevano, se è stato Fielding a ucciderlo. Sono disposta a

provarci comunque, però, perché guardando questa cantina e la sagoma di Jack sotto il lenzuolo, per terra, mi rendo conto che devo assolutamente capire perché è successo. Non posso accettare che fosse impazzito, che avesse perso la testa. Non mi basta. Torno verso la valigetta Pelican e cerco un paio di ginocchiere, che indosso prima di accucciarmi accanto al telo azzurro. Lo abbasso per guardare Jack in faccia e la sua espressione mi coglie alla sprovvista. È così presente! È questa la parola che mi viene in mente, “presente”. È come se fosse qui, come se dormisse ma non stesse bene, perché non ha nulla di vitale o di vibrante. Passo in rassegna tutti i particolari: i capelli irrigiditi dal gel che usava per mascherare l’alopecia, le macchie rosse sul viso gonfio e pallido. Scosto il lenzuolo, facendolo frusciare, mi siedo sui talloni e lo guardo. Osservo i capelli chiari pieni di gel, sempre più radi, il sangue secco intorno all’orecchio, che si è raccolto sotto la testa. Lo immagino con la Glock in mano, puntata all’orecchio sinistro, un istante prima di premere il grilletto. Cerco di entrare nella sua mente, di capire cosa possa essergli passato per la testa. Perché si è ucciso? Perché si è infilato la pistola proprio nell’orecchio? In genere la si punta contro la tempia, non la si infila nell’orecchio. E perché a sinistra e non a destra? Fielding era destro, non mancino. Lo prendevo sempre in giro perché con la sinistra non era in grado di fare niente, era maldestro e impreciso. Non può essersi sparato con la mano destra nell’orecchio sinistro, a meno che durante la mia assenza non avesse fatto un corso di contorsionismo. Chissà, forse tireranno fuori anche questa. Devo controllare l’angolazione. Mi punto l’indice della destra nell’orecchio sinistro fingendo che sia la canna di una Glock. «Non siamo a questo punto» dice una voce profonda. «Non siamo arrivati a tanto, vero?» È il generale John Briggs. Alzo gli occhi e lo vedo lì, con le gambe divaricate e le mani dietro la schiena, grande e grosso, con la tuta gialla ma senza visiera, guanti né casco. Ha un viso gradevole, nella sua rudezza, con il naso aquilino e un’ombra di barba sul mento. Ha i capelli corvini e, indipendentemente da quante volte si rasa, sembra sempre che debba farsi la barba. Ha gli occhi dello stesso grigio del titanio e pochi fili d’argento fra i capelli. Molto pochi, tenuto conto che ha sessant’anni. «Colonnello» dice accucciandosi vicino a me. Raccoglie la torcia che ho messo in piedi per terra. «Immagino si faccia le stesse domande che mi faccio io.» Accende la torcia. «Ne dubito» rispondo. Il generale punta la torcia nell’orecchio sinistro di Fielding. «Io mi chiedo dove si trovasse» dice. «Se fosse stato qui, dovrebbero esserci schizzi di sangue. Lei li vede? Mi sembra strano che si sia sparato in testa davanti al suo impianto criogenico.» Mi faccio dare la torcia per dirigerla dove voglio io e guardo dentro l’orecchio di Fielding. Vedo soprattutto sangue scuro, secco, incrostato. Poi mi avvicino e trovo il piccolo foro d’entrata, nero, allungato. È una ferita a contatto. Sotto la testa si è raccolto parecchio sangue, una pozza che adesso si è seccata, ma resta spessa e appiccicosa

perché la cantina è umida. Riconosco il tipico odore di sangue vecchio, già in fase di decomposizione, una puzza dolciastra e nauseabonda. Sento anche odore di alcol. Non mi sorprenderebbe se Fielding si fosse messo a bere, verso la fine. Che si sia sparato da solo o gli abbia sparato qualcun altro, è probabile che fosse irrimediabilmente compromesso. Mi torna in mente il grosso SUV con le luci allo xeno che ci seguiva sedici ore fa, mentre andavamo al CFC sotto una tempesta di neve. Al momento pensiamo che su quel SUV ci fosse Fielding e che avesse rimosso la targa anteriore del suo Navigator perché non lo riconoscessimo. Nessuno sa spiegare perché ci stesse seguendo e come abbia fatto a scomparire tanto in fretta quando Benton si è fermato in mezzo alla strada coperta di neve per farlo passare. Sembra che sia io l’unica insospettita dal fatto che la Otwahl Technologies sia vicina al punto in cui il SUV è svanito come per incanto. Se la persona a bordo di quel SUV con le luci allo xeno e i fari antinebbia avesse avuto il codice per aprire i cancelli, un telecomando, o avesse conosciuto i guardiani, si sarebbe potuta rifugiare lì. Mi sembra l’ipotesi più plausibile, ma Benton non ha battuto ciglio quando gliel’ho espressa. “Perché Jack Fielding dovrebbe avere accesso alla Otwahl?” gli ho chiesto mentre eravamo in macchina. “Anche se conoscesse qualcuno che ci lavora, perché dovrebbe avere accesso al parcheggio? Come avrebbe fatto a entrarci tanto velocemente, sicuro che le guardie non avrebbero fatto storie?” «Con tutte queste superfici bianche, si dovrebbe poter risalire facilmente al punto in cui si è sparato» dice Briggs. Guardo le mani di Fielding, rigide e fredde come marmo. Muscoloso com’è, sembra inamovibile come una statua. Gli illumino le mani, grosse e forti, le osservo e noto che ha le unghie curate, pulite. La cosa mi sorprende: mi aspettavo che fossero sporche, visto che tutti dicono che aveva perso completamente il controllo della sua vita. Guardo i calli, che ha sempre avuto per via dei pesi che sollevava in palestra e delle riparazioni che faceva alla macchina. Sembra sia morto con la pistola nella mano sinistra, o così l’assassino ha fatto in modo che sembrasse: le dita sono strette intorno al calcio antiscivolo della Glock, che ha lasciato la sua impronta ruvida sul palmo. Non vedo le gocce minuscole che gli sarebbero dovute schizzare sulla pelle quando ha premuto il grilletto, tuttavia. Non è un particolare facile da riprodurre, da falsificare. «Dobbiamo controllare se ha residui di polvere da sparo sulle mani» dico, notando che Fielding non ha la fede all’anulare. L’ultima volta che l’ho visto l’aveva. Ma era in agosto, quando viveva ancora con la famiglia. «Sulla volata della pistola c’è sangue» dice Briggs. «Anche all’interno, risucchiato da dentro la ferita.» Accade a causa dei gas esplosivi, quando la canna è appoggiata alla pelle al momento dello sparo. «Il bossolo?» chiedo. «È là.» Mi indica il pavimento, a poco più di un metro e mezzo dal ginocchio destro di Fielding.

«E la pistola? In che posizione era?» Faccio scivolare le mani sotto la testa di Fielding e sento una protuberanza dura sotto il cuoio capelluto, in prossimità dell’orecchio destro, dove il proiettile ha perforato la scatola cranica, ma non il cuoio capelluto. «Ancora nella sinistra. Avrà notato che le dita sono piegate e che il rivestimento antiscivolo ha lasciato l’impronta sul palmo della mano. Abbiamo fatto fatica a estrarla, tanto la teneva stretta.» «Capisco. Quindi si è sparato con la sinistra, nonostante fosse destro. Non è impossibile, ma certamente insolito. Inoltre, si è sparato da sdraiato, oppure è caduto con la pistola in pugno e la mano gli si è stretta intorno a causa di uno spasmo cadaverico. È caduto lungo disteso per terra, perfettamente supino. Strano, no? E poi lei sa come la penso riguardo agli spasmi cadaverici, John.» «Esistono, però. Non possiamo negarlo.» «Certo. È come vincere alla lotteria» replico. «Capita. Ma a me non è mai successo.» Palpo delicatamente la testa di Fielding e sento le ossa fratturate. La traiettoria del proiettile va dal basso verso l’alto e da dietro leggermente in avanti. Il proiettile è a circa sette centimetri dall’angolo mandibolare destro. «Si è sparato a questo modo?» Mi punto l’indice della sinistra, coperta dal guanto di nitrile, contro l’orecchio sinistro, a un’angolazione a dir poco sospetta. «Ammesso e non concesso che abbia deciso di spararsi con la sinistra pur non essendo mancino, non trova che sia un po’ scomodo arretrare il gomito e tenerlo così basso? Peraltro, del sangue dovrebbe essere spruzzato sulla mano. Certo, questa non è una scienza esatta, però...» Le mie parole rimbombano nella cantina bianca. «Spararsi nell’orecchio è raro» osservo. «Perché in genere la gente ha paura del rumore. È irrazionale, visto che si è sul punto di morire, ma è istintivo. Un po’ come spararsi in un occhio. Non lo fa praticamente nessuno.» «Io e lei dobbiamo parlare, Kay» dice Briggs. «Ma la cosa che mi insospettisce di più sono i tempi. L’ora in cui è stato aperto il congelatore criogenico, l’accensione della stufa, la roba bruciata al piano di sopra, che probabilmente è la carta da lettere della signora Donahue...» dico. «Se Jack ha fatto tutto questo prima di togliersi la vita, come mai sotto di lui non ci sono cocci di provetta né liquido seminale?» Sto toccando il corpo massiccio di Fielding, che è un peso morto, completamente rigido e per nulla collaborativo. Lo sposto appena per guardare il pavimento sotto di lui, che è bianco e pulito. «Se fosse sceso in cantina e avesse spaccato tutto prima di spararsi in un orecchio, sotto il cadavere ci sarebbero cocci e sperma, che invece sono tutto intorno a lui e basta. Ecco, ha un frammento di vetro nei capelli.» Lo raccolgo e lo osservo. «A spaccare tutto è stato qualcun altro, quando lui era già morto, lungo disteso sul pavimento.» «Potrebbe essergli volato un vetro fra i capelli mentre rompeva furiosamente le provette in un accesso d’ira» ribatte Briggs in tono paziente, gentile. Sembra quasi che mi compatisca. Mi sento di nuovo insicura. «Ha già deciso come sono andate le cose, John? Avete già stabilito tutto quanto senza

ombra di dubbio?» Lo guardo negli occhi. «Sa bene che non è così, Kay» mi risponde. «Dobbiamo parlare e preferirei non farlo davanti agli altri. Quando è pronta, mi raggiunga nella casa.» A Salem Neck la corrente è tornata verso le due e mezzo, quando io stavo ormai finendo l’esame di Jack Fielding, in ginocchio accanto a lui sul freddo pavimento di pietra, con i piedi intorpiditi e le gambe che mi facevano male, nonostante le ginocchiere. I faretti a incasso nella vecchia cucina sono accesi e l’ambiente è ancora freddo, ma si sta riscaldando grazie all’aria che arriva dagli sfiati sul pavimento. Cammino per la casa con i miei scarponi tattici, in tuta da lavoro, con la giacca. Mi sono tolta la visiera e le altre protezioni, a parte i guanti. Il lavandino di porcellana è pieno di piatti sporchi immersi in acqua e detersivo. Sulla superficie galleggiano grumi di grasso giallastro. La tenda alla finestra dietro il lavandino è sporca e macchiata. Ovunque io guardi, mi cade l’occhio su avanzi di cibo, spazzatura, rifiuti, bottiglie e bicchieri. Mi tornano in mente tante altre case di suicidi, piene di sporcizia e di schifezze puzzolenti, e rifletto che spesso il loro ultimo pezzo di vita è stato più brutto della loro morte. Sicuramente per Fielding gli ultimi mesi su questa terra sono stati più angoscianti di quanto meritasse. Non posso credere che si fosse ridotto così volontariamente. Non è questo che voleva dalla vita, ciò per cui era nato. Non riesco a fare a meno di pensare a una sua frase ricorrente: Fielding diceva spesso che non era nato per fare questo o quello, quando trovava un compito particolarmente noioso o ostico. Mi fermo davanti a un tavolo di legno con due sedie di legno sotto una finestra che dà sulla strada gelata e sul mare scuro e mosso al di là. Il piano è ingombro di vecchi giornali e riviste, che sparpaglio con la mano protetta dal guanto. “The Wall Street Journal”, “The Boston Globe”, “The Salem News”. Il più recente è di sabato scorso. Ricordo di aver visto diversi giornali coperti di ghiaccio sul marciapiede, davanti a casa, come se il postino li avesse buttati lì e nessuno si fosse premurato di portarli dentro, nemmeno quando è iniziato a nevicare. Ci sono cinque o sei numeri di “Men’s Health”, spediti all’indirizzo di Concord. Quelli di gennaio e febbraio sono stati inoltrati qui, così come altre buste nella pila che esamino. Mi viene in mente che Fielding ha preso in affitto la casa di Concord quasi un anno fa. Sulla base del disordine e dei mobili che riconosco come suoi, oltre che di quello che mi è stato raccontato a proposito dei suoi problemi familiari, mi sembra abbastanza normale che non abbia rinnovato il contratto e si sia trasferito in questa vecchia casa piena di spifferi e priva di qualsiasi fascino perché in pessime condizioni. Posso immaginare però che Fielding se ne sia innamorato, all’inizio, prima che la situazione cambiasse. “Che cosa ti è successo poi?” Guardo in giro, osservando lo squallore che si è lasciato intorno. “Com’eri, alla fine?” Ripenso alle sue mani fredde e rigide, a come mi sono sembrate pesanti poco fa, quando le ho toccate. Erano pulite, le unghie curate. È un dettaglio che non quadra con tutto quello che sto vedendo. “Chi è stato a fare tutto questo disordine? Tu o qualcun altro? Non sarà stato qualcun altro a ridurti così la

casa?” Ma so che è sbagliato cercare la coerenza a tutti i costi, e che Ralph Waldo Emerson aveva ragione quando diceva che è difficile spiegare o definire le persone, che spesso siamo contraddittori. Forse Fielding era a pezzi, colava a picco, ma continuava a badare alle apparenze, si lavava e si curava. Non posso escluderlo. Non saprò mai la verità. Non ci sono TAC o autopsie che possano rivelarmi certi dettagli. Un sacco di cose rimarranno un mistero, compreso il motivo per cui non mi ha mai accennato a questa casa. Benton sostiene che l’ha comprata subito dopo essersi trasferito nel Massachusetts, ovvero un anno fa. Fielding, tuttavia, non me ne ha mai parlato. Non credo che volesse tenermi nascosto qualcosa di illecito che stava facendo o che intendeva fare. Penso piuttosto che volesse tenerselo per sé, non farmene partecipe perché non mi riguardava. Non voleva che esprimessi opinioni in proposito, che cercassi di intromettermi nelle sue scelte, nelle sue decisioni. Non voleva che io gli facessi da mentore anche in questo. Voleva trasformare questa casetta sul mare del diciottesimo secolo in qualcosa che fosse soltanto suo, senza che io ci mettessi il becco. Che tristezza, se è andata davvero così! Guardo il mare color dello zaffiro, le onde che si frangono sugli scogli oltre la strada gelata. Varco una porta inesistente ed entro in una sala da pranzo con travi a vista e un soffitto intonacato pieno di macchie di umidità. Noto che la lanterna di ottone brunito dovrebbe stare nell’ingresso, anziché appesa sopra il tavolo di noce, che è polveroso e circondato di sedie scompagnate, dal rivestimento logoro e da cambiare. Non posso biasimare Fielding se non voleva che venissi qui. Sono troppo critica, troppo sicura del mio buongusto e delle mie idee: non mi meraviglia che mi trovasse eccessiva, invadente, una madre cattiva, che non aveva neanche diritto di considerarsi tale. Non avrei dovuto farmi gli affari suoi. Ero il suo capo e basta. Se fosse qui, gli chiederei scusa per la mia invadenza. Anche se l’ho fatto a fin di bene, gli domanderei perdono, perché a cosa è servito? Quale risultato ho ottenuto? Mi concentro su un angolo del tavolo in cui non c’è polvere, dove immagino qualcuno si sia seduto a mangiare o a lavorare, dove forse è stata appoggiata la Olivetti. La sedia sistemata lì davanti è la migliore. Il cuscino di velluto rosso è logoro e sbiadito ma senza strappi e probabilmente ci si può sedere sopra tranquillamente. Immagino Fielding seduto lì a battere a macchina. Cerco di visualizzarlo a quel tavolo, davanti alla finestra con vista sulla strada sterrata, ma non riesco a vederlo lì, chino sulla macchina per scrivere sotto una lanterna appesa al soffitto a battere e ribattere due fogli di elegante carta da lettere fino a ottenere un messaggio privo di errori. Fielding, con le sue mani grosse e impazienti, che non ha mai saputo battere a macchina bene, che non aveva mai fatto corsi di dattilografia e impiegava un sacco di tempo a cercare i tasti, non può avere scritto la lettera firmata “Erica Donahue”. Va contro ogni logica. Tenuto conto dello stato in cui Benton dice che fosse l’ultima volta che l’ha visto, la settimana scorsa, non mi pare plausibile che possa essersi dato tanto da fare per incastrare uno studente di Harvard, per far ricadere su di lui la responsabilità dell’omicidio di Mark Bishop. E poi perché Fielding avrebbe dovuto uccidere quel bambino di sei anni? Non credo a quello che dice Benton, ovvero che Fielding, quando

ha piantato quei chiodi nella testa di Mark Bishop, volesse uccidere se stesso bambino. Non mi convince la teoria di Benton per cui Fielding in questo modo avrebbe cercato di porre fine alla propria infanzia segnata dagli abusi. Tuttavia a volte cose che a noi paiono totalmente illogiche per altri hanno un senso che, anche quando ci viene spiegato, non riusciamo a far rientrare in nessuna categoria razionale. Mi fermo davanti alla finestra perché non sono ancora pronta ad andare via da questa stanza e passare alla prossima, dove Briggs cammina con i suoi stivali pesanti parlando al telefono. Prendo il cellulare per vedere se ho dei messaggi, se Bryce ha cercato di contattarmi. “Chiama Evelyn.” La cerco nel laboratorio delle prove materiali, ma mi risponde un altro tecnico, un giovane che si chiama Matthew. «Ha un computer a portata di mano?» mi chiede, emozionato. «Evelyn è andata un attimo in bagno, ma abbiamo una cosa molto strana da spedirle. Continuo a pensare che sia un errore, la contaminazione più assurda che ci sia mai capitata. Lei sa che un capello è circa ottantamila nanometri, giusto? S’immagini una roba di quattro nanometri: un capello è ventimila volte il diametro di questa cosa qua, che peraltro non è nemmeno organica, anche se è a base carbonio. Ci sono anche residui di fenciclidina...» «PCP?» Lo interrompo. «PCP, polvere d’angelo. In quantità minime. L’abbiamo vista con la spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier. A una semplice analisi al microscopio, ingrandimento cento, si vedono i granuli e un sacco di altre particelle microscopiche, soprattutto fibre di cotone, sulla parte posteriore del cerotto antidolorifico. Probabilmente alcune di queste strutture granulari sono PCP e forse anche Nuprin o Motrin, le sostanze di cui era impregnato il cerotto. Forse ci sono altre sostanze chimiche.» «Rallenta, Matthew, per favore.» «Dunque, dottoressa: a 150.000 × con il microscopio elettronico a scansione, la roba di cui parlo è grossa come un cestino del pane. È questa l’immagine che le vogliamo mandare.» «Va bene, mandamela. Se mai esco e mi collego dal furgone. Se mi mandi un PDF, però, provo con l’iPhone. A cosa ti riferisci esattamente?» «Tipo buckminster-fullerene, una specie di manubrio con due sfere al posto dei pesi e alcune gambette. Decisamente artificiale, delle dimensioni di un filamento di DNA. Come le dicevo: quattro nanometri di carbonio puro, a parte la sostanza che avrebbe dovuto veicolare. Ci sono anche tracce di glicole polietilenico che ipotizziamo fosse il rivestimento esterno del farmaco che avrebbe dovuto veicolare.» «Perché dici “avrebbe dovuto”? Sostieni che si tratta di un dispositivo atto a veicolare quantità minime di PCP?» «Non è il mio campo, come lei ben sa, e qui purtroppo non abbiamo microscopi a forza atomica. A buon intenditor poche parole. Perché secondo me siamo entrati in un’era in

cui è giusto che cominciamo a cercare roba così, da ingrandire milioni di volte. E, a mio modesto parere, per assemblare questa cosa hanno per forza usato un microscopio a forza atomica, date le dimensioni: per manipolare i nanotubi, le nanoparticelle, le nanosonde per farle aderire. Insomma, con il microscopio elettronico a scansione qualcosina si può fare, ma se ne avessimo uno a forza atomica sarebbe meglio, specie se è a questa roba che andremo incontro in futuro.» «Non sapete precisamente di cosa si tratta, ma presumete che sia una sorta di nanobot per il rilascio di un farmaco. Ed era nel supporto del cerotto che ho trovato nella tasca del camice?» Evito di specificare a chi appartenesse quel camice. «Misto a particolato, fibre e altre particelle. Perché non abbiamo analizzato il pezzo intero, solo il campione che abbiamo montato sullo stub. Il resto è nel laboratorio di dattiloscopia e poi passerà a quello del DNA e quindi alla gascromatografia/spettrografia di massa» spiega Matthew. «È rotto, comunque. Rovinato.» «Cosa?» «Il nanobot. O per lo meno lo sembra. Forse si sta deteriorando. Pare che in origine avesse otto gambe, ma adesso ne vedo quattro su un lato e due sull’altro. Le sto mandando le foto in questo momento, così può guardare lei stessa.» Riesco a riceverle sull’iPhone e provo una sensazione inspiegabile nel vedere la strana simmetria, nel constatare che il nanobot sembra una versione molecolare di un insetto micromeccanico. Non posso sapere se il santo Graal dei flybot a cui si riferiva Lucy assomigli a questo nanobot ingrandito migliaia di volte, ma la struttura artificiale nelle foto è simile a quella di un insetto, con un corpo allungato, grigio, di buckminsterfullerene. Le minuscole zampette ancora intatte sono piegate ad angolo retto, con appendici a pinza alle estremità, forse per aggrapparsi alle pareti delle cellule, per insinuarsi all’interno di organi e vasi sanguigni: per trovare il bersaglio, insomma, e aderirvi al fine di rilasciare la sostanza, lecita o illecita, destinata a determinati recettori cerebrali. Non mi sorprende che l’esame tossicologico di Johnny Donahue risultasse negativo: se ai farmaci che prendeva contro l’allergia erano stati aggiunti nanobot, gocce sublinguali o spray nasali che fossero, la quantità di sostanze potrebbe essere stata minima e quindi non rilevata dal test. O forse le sostanze non passavano neppure attraverso la barriera ematoencefalica, ma erano programmate per legarsi ai recettori nella corteccia frontale. Se non entravano in circolo attraverso il sangue, non venivano escrete con le urine e non finivano neppure nel capello: è proprio per questo che viene usata la nanotecnologia in medicina, per il trattamento di malattie e disturbi mediante farmaci non sistemici e quindi meno dannosi. Come qualsiasi altra cosa, ciò che può essere usato a fin di bene può anche essere usato per scopi malefici. Il soggiorno di Fielding ha il pavimento e le pareti spogli ed è pieno fin quasi al soffitto di scatole marroni e impolverate, tutte delle stesse dimensioni, con il logo della ditta di traslochi Gentle Giant su un lato. Sono decine e decine, impilate l’una sopra l’altra come se non fossero mai state toccate da che sono arrivate qui.

Briggs è al centro di quel bunker di cartone e mi fa venire in mente una foto di Matthew Brady che ritrae un generale della Guerra civile, con gli scarponi pesanti e la tuta verdone. Briggs ha un Mac notebook in grembo e la schiena dritta appoggiata alla spalliera della sedia. È proprio da lui stare seduto e lasciare me in piedi, rifletto. Probabilmente lo fa apposta perché io mi senta piccola piccola, sottomessa. Mi sbaglio, però: Briggs si alza e mi offre il posto. Rifiuto. Restiamo in piedi tutti e due e ci spostiamo verso la finestra. Il generale posa il computer sul davanzale. «Trovo interessante che avesse una rete wireless qui dentro» dice guardando il mare e gli scogli al di là della strada ghiacciata. «La casa è in uno stato pietoso, ma ha una connessione wireless.» «Forse non era l’unico ad abitarci.» «Già.» «Per lo meno lei ammette questa possibilità. Gli altri non la prendono nemmeno in considerazione.» Poso l’iPhone sul davanzale in maniera che Briggs veda il display. Lo guarda, poi si volta da una parte. «Immagini due tipi di nanobot» comincia. Sembra rivolgersi a qualcuno al di là del vetro, perché fissa il sole e il mare, non me. Mi sento giovane e insicura quando sono insieme a lui, indipendentemente dal fatto che sono passati tanti anni e ho fatto molta strada. «Un nanobot biodegradabile che svanisce dopo aver rilasciato una dose minuscola di sostanza psicoattiva e un altro nanobot in grado di autoreplicarsi.» Mi sento sempre un’altra quando sono con Briggs, come se mi perdessi. Sono lì, di fianco a lui, talmente vicina che le nostre maniche si sfiorano e sento il suo calore, e penso all’impatto che ha avuto sulla mia vita, allo stesso tempo straordinario e terribile. «Quello che ci preoccupa maggiormente è il tipo che si autoreplica. Immagini di averne uno nell’organismo» dice. Avverto la sua forza, il suo potere, e capisco come doveva sentirsi Fielding con me, quanto deve avermi adorato e detestato. Capisco quanto è bello e al tempo stesso terribile subire così il fascino di una persona. È come una droga, rifletto. Una sorta di dipendenza di cui ci si vuole liberare eppure non si riesce a fare a meno. Briggs avrà sempre questo effetto su di me, penso. Non riuscirò a liberarmene in questa vita. «Il nanobot che si autoreplica permette il rilascio costante di qualcosa come il testosterone» continua Briggs e io percepisco la sua energia, la sua intensità e mi rendo conto di quanto siamo vicini, entrambi vittime di un’attrazione irresistibile, che esiste da sempre anche se non dovrebbe. «Una sostanza come il PCP non si può replicare, naturalmente, e quindi l’effetto ogni volta finisce lì, per così dire. Occorre che il soggetto utilizzi nuovamente lo spray nasale, faccia un’altra iniezione o si applichi un altro cerotto transdermico impregnato di nanobot biodegradabili. Ma se si tratta di qualcosa che l’organismo produce naturalmente, allora si può programmare l’autoreplicazione. Dunque il nanobot si replica, circola liberamente nei vasi sanguigni, si attacca alle aree bersaglio, come la corteccia frontale, senza bisogno di batterie.

Viaggia autonomamente e si replica autonomamente.» Mi fissa. Il suo sguardo è duro, ma nei suoi occhi c’è qualcosa per me che c’è sempre stato, un attaccamento che perdura nonostante i conflitti. Mi ricordo come eravamo al Walter Reed, quando il futuro era ancora tutto da scoprire e pieno di possibilità, quando lui era più grande ed esperto di me e io ero una ragazza prodigio. Mi chiamava “Maggiore Prodigio”, all’epoca. Poi, quando tornai dal Sudafrica e andai a Richmond, non mi cercò più, per anni. Ciò che c’era fra noi era complesso e incomprensibile: ogni volta che sono con lui, questa verità mi colpisce. «Non avremmo più bisogno di fare guerre» dice. «Per lo meno non del tipo che conosciamo io e lei, Kay. Siamo alle soglie di una nuova era, in cui le guerre del passato sembreranno facili e umane.» «Jack Fielding non era uno scienziato di questo livello» replico. «Non può essere stato lui a produrre quei cerotti e probabilmente avrebbe avuto paura se qualcuno gli avesse proposto di sperimentare la somministrazione di farmaci mediante nanobot. Si sarebbe rifiutato. Mi sembra anche strano che sapesse cosa sono i nanobot, per la verità. Non credo fosse consapevole di ciò che assumeva. Probabilmente era convinto di prendere un nuovo tipo di steroidi, qualcosa che lo aiutasse a scolpire meglio il suo fisico, a diventare più forte e muscoloso, ad alleviare i dolori cronici dovuti ad anni di abuso di sostanze, oppure a combattere l’invecchiamento. Fielding non sopportava l’idea di diventare vecchio. Invecchiare era inconcepibile, per lui.» «Be’, almeno adesso ha risolto il problema.» “Se vogliamo metterla così...” «Non penso proprio che si sia suicidato per non invecchiare» dico invece. «Non penso nemmeno che si sia suicidato, per la verità.» «Ho saputo che ha toccato uno dei suoi cerotti ed è stata poco bene» replica Briggs. «Mi dispiace. Al tempo stesso, però, se non le fosse capitato non avrebbe capito. Non riesco a immaginarla in uno stato alterato di coscienza. Kay Scarpetta sotto l’effetto di sostanze stupefacenti? Avrei voluto vederla.» Benton deve avergli raccontato tutto. «È questo il nemico che fronteggiamo adesso» continua Briggs. «Neuroterrorismo. Così lo chiama il Pentagono. È il nostro timore per il futuro: il nemico ci fa impazzire e vince. Ci altera la coscienza e noi ci suicidiamo, risparmiandogli la fatica di ucciderci. In Afghanistan, dai alle nostre truppe oppio, benzodiazepine, allucinogeni, un bel rimedio contro la noia, e vedi cosa succede quando salgono in elicottero, sui caccia, sui carri armati o gli Humvee. Vedi cosa succede quando non ne possono più fare a meno e tornano a casa tossicodipendenti.» «La Otwahl» osservo. «Sono queste le armi che stanno mettendo a punto per noi?» «Noi non c’entriamo niente. Non è questa la ricerca che finanzia la DARPA, per l’amor del cielo. Ma c’è qualcuno alla Otwahl che studia queste cose. Più di uno, immagino. Un manipolo di cervelloni che fa esperimenti non autorizzati e non approvati. Molto pericolosi.» «E lei sa chi sono.»

«Sono dei ragazzini» mi risponde guardando il pomeriggio limpido. «Diciassette, diciott’anni, con un QI superiore alla norma, una grande passione e poco sale in zucca» Si tocca la fronte. «Non è nemmeno il caso di dire che sono quasi tutti maschi, con il lobo frontale sottosviluppato fino ai venti o venticinque anni, eppure chiusi in un laboratorio di nanotecnologia a giocare con superconduttori, robotica e biologia sintetica. Già è difficile quando li armiamo e li lanciamo su bombardieri stealth, ma almeno lì ci sono regole ben precise» continua in tono sempre più duro. «Abbiamo strutture, regimi, gerarchia, supervisione. Pensi cosa succede invece in un posto come la Otwahl, dove l’obiettivo sono non la sicurezza nazionale e la disciplina, ma i soldi e l’ambizione. Geniacci come Johnny Donahue e compagnia bella non sanno un tubo di Afghanistan, Pakistan o Iraq, non hanno mai messo piede in una base militare, perdio.» «Non vedo il collegamento con Jack Fielding. A parte il fatto che insegnava arti marziali a qualcuno di loro.» Il cielo è di un turchese scuro, immacolato. Sotto, il mare si gonfia e si sgonfia, azzurrissimo. «Secondo me, si è lasciato invischiare ed è diventato una cavia. Sa benissimo come funzionano le cose nei progetti di ricerca e nei trial clinici, Kay. A parte il fatto che quelli che conosciamo noi sono controllati e monitorati rigidamente da apposite commissioni. Dove prendi i volontari se sei un diciottenne di Harvard o dell’MIT che fa uno stage alla Otwahl? Possiamo solo ipotizzare che Jack avesse dei contatti là dentro, forse attraverso la palestra in cui insegnava taekwondo. Sappiamo che aveva dei problemi, che abusava di sostanze, specialmente steroidi. Se gli avessero promesso l’elisir di lunga vita, la fonte dell’eterna giovinezza, sotto forma di cerotti antidolorifici? Sicuramente, comunque, non ha avuto quello che credeva. Come Wally Jamison, Mark Bishop ed Eli Goldman.» «Wally Jamison non lavorava alla Otwahl.» «Per un po’, però, è uscito con una che ci lavora, Dawn Kincaid. Una dei neuroterroristi.» «La migliore amica di Johnny Donahue» osservo. «Dov’è adesso?» domando. «Le persone che ha appena elencato sono tutte morte a parte lei.» Mi sento suonare un allarme nella testa. «Ha disertato» risponde Briggs. «Non si è presentata alla Otwahl né ieri né oggi. Pare sia in vacanza.» «Figuriamoci.» «Infatti. Be’, la troveremo e ci faremo raccontare il resto della storia, perché senza dubbio lei lo conosce, visto che lavora specificamente nel campo della nanoingegneria e della sintesi chimica su nanoscala. Sulla base dei dati che abbiamo raccolto, sembra sia lei ad avere sviluppato i malefici nanobot che hanno trasformato il dottor Fielding in Mister Hyde.» «Anche Erica Donahue ha citato Mister Hyde a proposito di suo figlio» dico. «Dubito che Johnny Donahue abbia ucciso qualcuno, però.» «Non il bambino.»

«Lei pensa che sia stato Fielding.» «Ha perso il controllo, ha cominciato a fare pasticci.» «E poi ha ucciso Eli Goldman.» Il mio commento rimane sospeso e mi chiedo se anche a Briggs suoni vuoto come a me, se si sia accorto che io non ci credo per niente. «Tutto per colpa dell’influenza suina.» Briggs continua a guardare fuori dalla finestra. «Se il padre biologico della figliastra non si fosse ammalato, Liam Saltz non sarebbe stato invitato ad accompagnarla all’altare e non sarebbe venuto negli Stati Uniti, a Cambridge, a Norton’s Woods. E così Jack Fielding non sarebbe stato costretto a uccidere Eli Goldman con un coltello WASP.» «Per impedirgli di dire a Saltz quello che lei sta dicendo a me.» «Purtroppo non possiamo chiederlo a Jack Fielding.» «Capirei se Eli Goldman avesse voluto dire a Saltz che Jack vendeva spermatozoi prelevati dai cadaveri. Quello sarebbe stato un movente valido.» «Non abbiamo idea di cosa sapesse Eli Goldman. Probabilmente era al corrente del fatto che Jack assumeva sostanze e ovviamente lo conosceva bene, visto che aveva una delle sue pistole. Chissà come si è sentito Fielding quando ha saputo dalla polizia di Cambridge che il morto di Norton’s Woods aveva con sé una Glock con il numero di serie abraso.» «Marino l’ha tenuta aggiornata, vedo. Le ha raccontato tutto questo come se fosse stato accertato senza ombra di dubbio. Peccato che non sia così, però: queste sono solo teorie. Non ci sono prove inconfutabili del fatto che Jack Fielding sia un assassino.» «Sapeva di essere nei guai fino al collo. Almeno questo possiamo asserirlo con sicurezza» replica Briggs. «Per quanto si possa asserire qualcosa con sicurezza. Sono d’accordo sul fatto che non avrebbe portato via la Glock dal laboratorio se non avesse temuto problemi. Quello che ancora non sappiamo è se volesse coprire se stesso o qualcun altro.» «Era consapevole che noi saremmo riusciti a recuperare il numero di serie di quell’arma e saremmo risaliti a lui.» «Vedo che anche lei usa il plurale, generale. “Noi.”» «So come si sente, Kay» dice Briggs appoggiandosi al davanzale, come per stirarsi la schiena dolorante. «Lei pensa che io stia cercando di portarle via qualcosa, vero? Ne è convintissima.» Fa un sorriso amaro. «Il capitano Avallone è stata qui in autunno.» «Un ufficiale di grado così basso per non attirare l’attenzione?» «Infatti ha finto di passare di qui per caso. In realtà c’erano alcuni elementi che ci facevano temere che il suo vice non stesse gestendo il CFC come avremmo voluto. Non c’è bisogno che le dica che la cosa ci stava a cuore. È importante per l’AFME, per il dipartimento della Difesa, e non solo. Non è roba sua, Kay, che può rovinare quando e come vuole.» «Non è roba mia, punto e basta» rispondo. «È chiaro che ho fatto un cattivo lavoro da prima ancora di...» «Non ha fatto un cattivo lavoro, Kay. La responsabilità è mia tanto quanto sua. Lei ha

assunto Jack Fielding; anzi, ha accolto la sua richiesta di assunzione, e io non l’ho fermata, anche se avrei dovuto. Non volevo intromettermi, ma avrei dovuto farlo. Ho pensato che nel giro di quattro mesi sarebbe tornata a dirigere lei il CFC e sinceramente non immaginavo che quell’uomo potesse combinare tanti guai in così poco tempo. Il problema è che era coinvolto con la Otwahl, assumeva sostanze e stava perdendo il controllo.» «Per questo ha rimandato la mia partenza da Dover? Per poter trovare qualcuno con cui sostituirmi? Per trovare un altro direttore?» domando coraggiosamente. «Al contrario, Kay. Volevo tenerla lontana da tutto. Non volevo che questa cosa infangasse la sua reputazione. Ho rimandato la sua partenza il più possibile senza arrivare al sequestro di persona, ma purtroppo il padre della sposa si è beccato la suina a Londra, il cadavere ha sanguinato e per finire sua nipote si è presentata a Dover con il suo elicottero privato. Io ho cercato di temporeggiare, offrendomi di trasportare il corpo a Dover, ma lei si è rifiutata, Kay. Ecco come mai è finita così. Ecco perché ci ritroviamo di nuovo qui.» «Infatti: di nuovo.» «Non è la prima volta che siamo nei pasticci e non sarà l’ultima.» «Non è stato lei a farmi venire a prendere da Lucy in elicottero.» «No. Non penso che sua nipote prenderebbe ordini da me. Ringrazio il cielo che non le sia mai venuto in mente di arruolarsi: finirebbe nel penitenziario federale di Leavenworth.» «Non le ha chiesto di mettermi sotto controllo l’ufficio.» «Ho accennato al fatto che sarebbe potuto tornare utile per capire cosa faceva Fielding.» «I suoi accenni suonano come gli inviti a cena di un cannibale.» «Che analogia!» «Voglio dire che quando lei accenna a qualcosa, tendenzialmente gli altri eseguono. Lo sa benissimo.» «Lucy Farinelli esegue soltanto se è d’accordo.» «E il capitano Avallone? Ha cospirato con Jack contro di me?» «No. Le ho detto come mai si è presentata il novembre scorso per fare un giretto al CFC. È una donna leale. Sta dalla sua parte, Kay.» «Tant’è che ha raccontato a Jack quello che successe a Città del Capo» mi sorprendo a rispondere. «Non è vero. Sophia Avallone non sa niente di Città del Capo.» «E allora come mai Julia Gabriel lo sapeva?» «Glielo ha detto quando l’ha aggredita al telefono? Capisco» replica, come se avessi appena dato una risposta a una sua domanda inespressa. «Mi sono fermato fuori della porta per parlare con lei, Kay, e ho sentito che era al telefono. Ho capito che non era una chiamata facile. Julia Gabriel ha parlato anche con me. Ha parlato con un certo numero di persone dopo aver sentito dire che a Dover noi preleviamo di routine gli spermatozoi

ai cadaveri. Non è vero, ovviamente. Non faremmo mai una cosa del genere senza l’approvazione di chi di dovere. La signora Gabriel lo ha dedotto perché lo faceva Fielding al CFC. Fielding aveva prelevato liquido seminale da un uomo morto a Boston in un incidente stradale il giorno delle nozze, che il figlio della signora Gabriel conosceva. E credo che lei possa capire come mai le sia venuta l’idea di richiedere il medesimo trattamento per il figlio Peter.» «Quindi la signora Gabriel non sapeva niente. Non era una questione personale. Lei ne è certo.» «Perché dovrebbe essere personale? Cosa glielo fa pensare?» domanda Briggs. «Lo sa benissimo, John.» «La signora Gabriel non si riferiva a niente di specifico. È una militante arrabbiata e aveva solo bisogno di sfogarsi. Ha insultato lei, come ha insultato me e parecchia altra gente, a Dover. Ci ha dato degli intolleranti, dei razzisti, dei fascisti. Ne ha dette di tutti i colori a diversi di noi quella mattina.» Briggs si allontana dalla finestra e prende il computer che aveva posato sul davanzale: è il suo modo per dirmi che deve andare. Le sue conversazioni durano al massimo venti minuti. Abbiamo già parlato fin troppo per i suoi gusti. È impaziente. Abbiamo toccato troppi argomenti scabrosi. «Potrebbe farmi un favore, Kay? Gliene sarei molto grato» dice. «Vorrei che smettesse di dire in giro che ritenevo il MORT una splendida invenzione.» Di nuovo Benton, penso. Evidentemente Briggs e Benton si scambiano parecchie confidenze. «Non l’ho mai ritenuto tale, ma mi pare di capire che lei invece abbia questa impressione. Mi dispiace che ci siamo scontrati su quella faccenda» continua. «Perché fra usare un robot per recuperare un cadavere su un campo di battaglia e mandarci una persona, con il rischio che perda un arto o addirittura la vita... be’, è quella che io chiamo “la scelta di Sophie”, una scelta fra due mali. Non aveva ragione lei, Kay, e non avevo ragione nemmeno io.» «Va bene. Non parliamone più» rispondo. «Abbiamo fatto scelte sbagliate tutti e due.» «Come già era successo» borbotta. Lo accompagno fuori passando per stanze in cui sono già stata. Mi sembrano tutti ambienti vuoti e deprimenti, come se nessuno li avesse mai abitati. Ho la sensazione che questo posto non sia mai stato una casa per Fielding. Lo voleva ristrutturare e lo usava per trafficare di nascosto in cantina. Non capisco perché. Forse lo faceva per soldi. Ha sempre desiderato diventare ricco e con il nostro mestiere non è possibile. Forse ce l’aveva con me anche per questo motivo. Io sto bene economicamente. Più dei miei colleghi. Sono una donna previdente e Benton è ricco di famiglia. Lucy, poi, è ricchissima, con tutti i quattrini che ricava dalla tecnologia informatica che vende da quando aveva l’età dei neuroterroristi di cui parlava Briggs poco fa. Grazie a Dio le sue invenzioni sono legali. Per quanto ne so, almeno. È sul furgone del CFC insieme con Marino e Benton, tutti senza tuta gialla e senza

casco. Sembrano stanchissimi. Anne è andata un’altra volta a portare campioni ai laboratori e nuove prove la aspettano qui, custodite in sacchetti di carta bianca riposti in scatole bianche. «C’è una cosa per lei sulla sua macchina» mi dice Briggs, davanti a tutti. «Il più avanzato e spettacolare giubbotto antiproiettile di livello 4A, specificamente progettato per le donne nei teatri di guerra. Sarebbe perfetto se usaste le piastre balistiche come si deve.» «Se il giubbotto non è comodo...» comincio. «A me lo sembra, ma ho un fisico diverso dal suo. Il fatto è che va chiuso completamente sui lati. Quante volte è successo che il proiettile entrasse proprio nell’unico punto scoperto?» «Posso provarlo io» si offre Lucy. «Brava» le fa Marino. «Mettitelo e io ti sparo, così vediamo se funziona.» «Oppure traumi da impatto, di cui spesso ci dimentichiamo» faccio notare a Briggs. «Il proiettile non penetra, ma l’impatto supera i quarantaquattro millimetri di profondità e porta alla morte comunque.» «È un po’ che non vado al poligono di tiro» dice Lucy a Marino. «Potremmo fare un giro a Watertown. Sei già stato in quello nuovo?» «Gioco a bowling con il direttore.» «Ah, già, che sei in quella squadra di imbecilli. Com’è che vi chiamate? Le Palle Quadrate?» «Gli Assi Pigliatutto. Dovrebbe venire anche lei, una volta» dice Marino a Briggs. «Cosa direbbe, colonnello, se l’AFDIL mandasse alcuni tecnici a darvi manforte al CFC?» mi chiede Briggs. «Vista la quantità di prove da analizzare.» «Sarebbe molto utile» rispondo. «Proverò il giubbotto antiproiettile e le farò sapere.» «Vada a riposare, prima» dice Briggs. Pare un ordine. «Sembra a pezzi.»

22 Il Massachusetts Veterinary Referral Hospital ha un servizio di emergenza aperto ventiquattr’ore su ventiquattro e, sebbene Sock non sembri sofferente mentre russa acciambellato come un chihuahua o un barboncino che sta in una borsa, io ho bisogno di farlo vedere da un veterinario. È quasi buio e ho il cane in braccio sul sedile posteriore del SUV che abbiamo preso in prestito. Stiamo percorrendo la I-95 in direzione nord. Ora che ho identificato l’uomo ucciso mentre passeggiava con lui, ho bisogno di capire da dove venga questo levriero, di cui nessuno sembra sapere niente. Liam Saltz ne ignorava l’esistenza, non sapeva che il suo figliastro Eli avesse animali domestici. L’amministratore del condominio vicino a Harvard Square ha detto a Marino che è vietato tenere animali negli appartamenti. Sembra che, quando ha firmato il contratto di affitto la primavera scorsa, Goldman non avesse cani. «Non dobbiamo per forza farlo stasera» dice Benton, al volante. Io accarezzo il muso serico di Sock e provo una gran pena per lui. Sto attenta a non toccargli le orecchie, perché non gli piace. Ho notato che ha alcune vecchie cicatrici sul muso appuntito. Sta bravissimo, sembra muto. “Se solo tu potessi parlare!” penso. «Il dottor Kessel ha detto che non è nessun disturbo. Già che siamo fuori, tanto vale andarci adesso» rispondo. «Non mi preoccupavo di disturbare il veterinario.» «Lo so.» Continuo ad accarezzare Sock e già sento che vorrei tenerlo. «Sto cercando di farmi venire in mente come si chiama la dog-sitter di Lucy.» «Per favore...» «Lucy non è mai in casa, ma Jet Ranger esce con Annette, o forse Lanette, non mi ricordo più. Potrei chiederle se può passare da noi la mattina presto, portare Sock a casa di Lucy, così lui e Jet Ranger si tengono compagnia, e poi riportarcelo a casa la sera. Non sarebbe un problema, ti pare?» «Troveremo una casa per Sock quando sarà il momento.» Benton imbocca l’uscita per Woburn. Il cartello, illuminato dai fari, è di un verde iridescente. Scendiamo lentamente giù per la rampa. «Vedrai che starai bene nella tua nuova casa» dico al cane. «Hai sentito cos’ha detto l’agente Wesley? Ti puoi fidare.» «Non puoi tenerlo perché avere un cane non fa bene» dice Benton. «Ti si abbassa automaticamente il quoziente intellettivo di almeno cinquanta punti.» «Se così fosse, diventerebbe un QI negativo. Meno dieci o giù di lì.» «Ti prego di non iniziare a parlargli come se fossi deficiente.» «Sto pensando a dove potremmo fermarci a comprargli da mangiare.» «Mentre siete dal veterinario, io potrei cercare un supermercato per prendergli qualcosa» propone Benton. «Scatolette no. Prima devo informarmi bene, capire quali sono le marche migliori. Per cani adulti, perché non mi sembra giovanissimo. Potrei fargli un petto di pollo con del

riso bollito. Oppure del pesce, tipo merluzzo, e cereali, quinoa. È meglio se vai in un negozio di alimentari, invece che in un supermercato. Mi pare che ci sia una bottega di prodotti biologici da queste parti.» Nella clinica veterinaria mi indicano un lungo corridoio bene illuminato su cui si affacciano diverse sale visite. L’uomo che ci accompagna è molto gentile con Sock, che cammina lentamente. Mi chiedo se abbia mai gareggiato: mi sembra impossibile. «Credo che sia spaventato» dico. «No, sono dei pigroni.» «Non l’avrei detto, visto che sono capaci di correre a sessanta, settanta chilometri l’ora» ribatto. «Li costringono: loro non vorrebbero. Preferiscono poltrire sul divano.» «Non voglio forzarlo. Ha la coda fra le zampe.» «Poverino!» Si ferma ad accarezzarlo ogni due passi. Immagino che Kessel abbia avvertito il suo staff delle tristi circostanze in cui abbiamo trovato Sock, perché ci trattano tutti con grande considerazione e compassione, come se avessero a che fare con un cane famoso. Spero proprio che non lo diventi, invece: se si sparge la notizia sui giornali o in rete, la gente spettegolerà e farà battutacce. Mi porterò il cane in sala autopsie? Lo addestreremo a trovare i cadaveri? Che cosa farà, povera bestia, se quando torno a casa puzzo ancora di morte? Non ha la febbre e gengive e denti sono a posto, il battito e il respiro sono normali, non pare abbia soffio al cuore e sembra bene idratato. Non permetto al dottor Kessel di fargli prelievi di sangue o urina: faremo i debiti controlli in seguito, perché adesso Sock è già abbastanza traumatizzato. «Preferisco che impari a conoscermi, prima, e non mi associ a dolore e sofferenza» dico al veterinario, che è magro e sembra così giovane che mi viene il dubbio che non sia ancora laureato. Con un piccolo scanner, gli cerca il microchip nel collo ossuto, mentre Sock è seduto sul lettino e io lo accarezzo. «Sì, ce l’ha, giusto dove deve essere» dichiara Kessel guardando il piccolo display dello scanner. «Ora mi segno il numero identificativo e chiamo il registro nazionale, così scopriamo chi è il proprietario.» Il dottor Kessel telefona e prende appunti, poi mi passa un foglietto con un numero di telefono e un nome: Lost Sock. «“Calzino smarrito”: bel nome per un cane da corsa, eh?» dice rivolgendosi a Sock. «Magari è proprio per questo che non l’hanno fatto correre. Il prefisso è sette-sette-zero. Le dice qualcosa?» «No.» Va a controllare al computer: digita il numero nella stringa di un motore di ricerca. «Douglasville, in Georgia. Probabilmente uno studio veterinario. Vuole provare a chiamare da qui e vedere se sono aperti?» Poi si rivolge a Lost Sock. «Sei molto lontano da casa.» Fra me e me, penso che gli cambierò nome. «Non ti perderai più» gli dico mentre torniamo alla macchina. Non ho voluto

telefonare davanti a tutti. La voce femminile che risponde al telefono dice semplicemente “pronto?”, come se fosse un numero di casa. Le spiego che chiamo per un cane dal microchip del quale sono risalita al suo numero telefonico. «Vuol dire che è uno dei cani che abbiamo salvato noi» mi dice. Ha l’accento del Sud. «Sarà uno dei cani da corsa di Birmingham. Come si chiama?» Glielo dico. «Bianco e nero, di cinque anni.» «Esattamente» rispondo. «Sta bene? Non è ferito, spero. Non ha subito maltrattamenti, vero?» «No, no: sta benissimo. Ce l’ho qui in braccio.» «È un tesoro. Lo sono tutti, alla fine, ma lui, in particolare. Va d’accordo sia con i gatti sia con i cani di piccola taglia e sta bene con i bambini, purché non gli tirino le orecchie. Se aspetta un secondo, guardo sul computer dove dovrebbe essere e con chi. Mi ricordo che lo ha preso una studentessa, ma il nome adesso mi sfugge. Del Nord, se non erro. Era da solo? Da dove chiama? So che ha fatto l’addestramento e ha superato tutti i test a pieni voti: ha un gran bel cane, sa? Chissà com’è disperata la padrona. Lo starà cercando dappertutto.» «Che genere di addestramento gli è stato fatto?» domando e intanto penso alla studentessa che potrebbe aver preso quel cane. «La vostra associazione affida i levrieri che hanno smesso di correre a comunità o ospedali dove imparano a socializzare con l’uomo?» «Noi ci appoggiamo alle carceri, veramente» risponde la donna. «Ha smesso di correre il luglio scorso ed è stato addestrato per nove settimane dai detenuti del carcere di Savannah, in Georgia.» Mi viene in mente che Benton mi ha parlato del fatto che la terapeuta che abusò di Jack Fielding quando era un ragazzino problematico ed era stato affidato a una comunità vicino ad Atlanta è detenuta nel carcere di Savannah. «Ci appoggiamo a loro perché erano già impegnati nell’addestramento di cani antibomba e abbiamo pensato che potessero gradire anche questo compito, più facile e gratificante» mi spiega la donna. Attivo il vivavoce e alzo il volume. «I detenuti imparano a coltivare pazienza e senso di responsabilità e sperimentano l’amore incondizionato dei levrieri, che a loro volta imparano a ubbidire. Il suo cane, signora, è stato addestrato da una donna del carcere di Chatham, che ha dichiarato di volerlo prendere una volta finito di scontare la pena. Temo che ci vorrà ancora un bel po’, però. Nel frattempo, Lost Sock è stato affidato a una persona raccomandata dalla stessa detenuta, una ragazza del Massachusetts. Ha da scrivere?» Mi detta un nome, Dawn Kincaid, e una serie di numeri di telefono. L’indirizzo è quello della casa di Jack Fielding a Salem, dove siamo appena stati. Dubito che Dawn Kincaid fosse residente lì, ma forse ci andava spesso. Dubito anche che vivesse con Eli Goldman, ma forse il ragazzo ogni tanto le teneva il cane. È chiaro che la conosceva,

visto che erano tutti e due alla Otwahl. Mi viene in mente che Briggs ha detto che Dawn Kincaid si occupava di sintesi chimica e nanoingegneria. Rifletto che uno che si occupa di nanoingegneria non ha certo difficoltà a nascondere un piccolo impianto di registrazione audiovideo in un paio di cuffie. Dawn Kincaid aveva accesso alle cuffie di Eli Goldman e alla sua radio satellitare, dato che lavorava con lui e che lui le teneva il cane. Probabilmente la ragazza andava a trovarlo spesso a casa e forse si fermava anche a dormire. Chissà che non avesse addirittura le chiavi. Bryce è ancora al CFC quando provo a chiamarlo. Gli dico che ho fotocopiato la lettera di Erica Donahue prima di consegnarla ai laboratori e che vorrei che la cercasse e mi dettasse i numeri di telefono. Li annoto su un pezzo di carta e gli chiedo se ha notizie dai laboratori del DNA. «Lavorano senza posa» mi risponde Bryce. «Non tornerai in ufficio anche stasera, vero? Ti devi riposare...» «Il colonnello Pruitt è tornato a Dover o è in laboratorio?» «L’ho visto poco fa. Direi che è qui con il generale Briggs, in attesa dei rinforzi da Dover. Ma questo lo sai anche tu.» «Per favore, cercami il colonnello Pruitt e chiedigli di controllare sul CODIS i profili ricavati dalla macchina per scrivere appena può. Magari lo hanno già fatto. Lui capirà. L’importante è che svolgano una ricerca familiare e che facciano un confronto con il DNA di Fielding, quello depositato a fini di esclusione, e con quello di una detenuta nel carcere di Chatham, a Savannah, in Georgia, che si chiama Kathleen Lawler. Dovrebbe essere nel CODIS.» Gli faccio lo spelling. «Rea recidiva di...» «Dove hai detto che è?» «Istituto di detenzione Chatham. A Savannah, in Georgia. Il suo DNA dovrebbe essere nel database del CODIS...» «E cosa c’entra con...?» «Lei e Jack hanno fatto una figlia insieme. Mi serve una ricerca familiare per vedere se troviamo una corrispondenza con i profili che abbiamo raccolto sul...» «Che cosa? Con chi avrebbe fatto una figlia Jack Fielding?» «Anche le impronte latenti sul supporto di plastica del...» «D’accordo. Mi hai mandato nel pallone.» «Bryce, per cortesia, datti una calmata. Prendi appunti: è meglio.» «Agli ordini, capo.» «Voglio un confronto fra le impronte rilevate sul cerotto e le mie e quelle di Fielding, e voglio anche il DNA. Il prima possibile. Voglio capire chi altri può aver toccato quel cerotto. Probabilmente chi lo ha manomesso. Sono quasi sicura che alla Otwahl prendano le impronte digitali di tutti i dipendenti, che abbiano un database, visti i problemi di sicurezza che devono avere. È importante che stabiliamo chi ha fornito quei cerotti drogati. Il colonnello Pruitt e il generale Briggs capiranno.» Chiamo Erica Donahue mentre Benton guida lungo le stesse strade di Cambridge che ha percorso Eli Goldman domenica, quando è uscito con il cane per andare a un

appuntamento con il suo patrigno a cui intendeva rivelare i segreti della Otwahl Technologies, sperando che potesse fare qualcosa. «Con che frequenza era vostra ospite?» chiedo alla signora Donahue quando mi racconta al vivavoce che Dawn Kincaid andava spesso a casa loro, a Beacon Hill, ed era ospite gradita, simpatica a tutta la famiglia. «Veniva a cena, oppure passava semplicemente a salutarci, soprattutto durante il weekend. Come lei sa, ha avuto una vita difficile e ha dovuto faticare per ottenere tutto ciò che ha, avendo perso prima la madre in un incidente stradale e poi il padre, morto in circostanze tragiche che in questo momento non ricordo. È una ragazza adorabile, sempre tanto cara con Johnny. Si sono conosciuti la primavera scorsa alla Otwahl, ma lei è più grande, sta facendo il dottorato di ricerca all’MIT. Prima ha studiato a Berkeley, o almeno così mi pare. È una ragazza molto intelligente e molto carina. Come fa a conoscerla, dottoressa?» «Non la conosco, purtroppo.» «È l’unica amica di Johnny, questo è certo. La più cara che abbia mai avuto. Non c’è nulla fra loro, a parte l’amicizia. Un po’ ci speravo, ma ormai mi sono messa il cuore in pace. Ho l’impressione che abbia un fidanzato, uno scienziato che lavora alla Otwahl anche lui.» «Sa come si chiama?» «Non credo di averlo mai saputo, a dire il vero. Oppure l’ho scordato. Mi sembra che venga da Berkeley anche lui, che sia finito qui per via dell’MIT e della Otwahl. Sudafricano. Johnny lo chiama maleducatamente “il nerd afrikaans di Dawn”, oltre a numerosi altri epiteti che non le sto a riferire. Prima di lui c’era quello che mio figlio definiva: “Grande, grosso e cazzone”. Penso che sia un po’ geloso...» «Grande, grosso e cazzone?» «È veramente di cattivo gusto definirlo così, povero ragazzo, con la fine che ha fatto. Ma Johnny è totalmente privo di tatto. Fa parte dei suoi problemi.» «Sa come si chiamava questo ragazzo?» «Non me lo ricordo. È quel giocatore di football che è stato ritrovato morto nel porto.» «Johnny le ha parlato delle circostanze della sua morte?» «Non vorrà insinuare che mio figlio sia coinvolto in questa...» Le assicuro che non insinuavo niente e chiudo la comunicazione, mentre il SUV si ferma sul vialetto ghiacciato di casa nostra. In fondo, sotto i rami spogli di una grande quercia, c’è il garage, ricavato dalla vecchia rimessa per le carrozze. I fari del SUV ne illuminano la porta di legno. «Hai sentito?» chiedo a Benton. «Non vuol dire che non sia stato Jack. Non significa che non sia stato lui a uccidere Wally Jamison, Mark Bishop ed Eli Goldman» osserva. «Dobbiamo stare attenti.» «Certo che dobbiamo stare attenti. Stiamo sempre attenti. Tu lo sapevi già?» «Non ti posso riferire quello che mi dicono i miei pazienti. Mettiamola così: quello che ti ha raccontato la signora Donahue è interessante. Non sono convinto di Fielding, non

del tutto. Raccomando prudenza perché al momento molti elementi non sono ancora stati accertati. Prima o poi lo saranno, però, te lo prometto. Stiamo cercando Dawn Kincaid. Riferirò queste ultime informazioni a chi di dovere» dice Benton. In realtà sta dicendo che non possiamo fare niente, non dobbiamo fare niente. Ha ragione. Non possiamo andare a cercare Dawn Kincaid noi due, adesso. Chissà dov’è. Benton punta il telecomando verso il garage. La porta di legno si alza e si accende una luce all’interno, che illumina la sua Porsche nera decappottabile e altri tre posti vuoti. Benton parcheggia vicino alla sua auto e io metto il guinzaglio al collo lungo e magro di Sock e lo aiuto a scendere. Nel garage fa un freddo bestiale, perché la finestra sul retro è rotta. Faccio camminare Sock sul pavimento in gomma e vado a guardare dal vetro infranto il giardino coperto di neve. È buio, ma vedo alcune impronte sulla neve: evidentemente i bambini dei vicini continuano a usare il nostro giardino come scorciatoia. Non va bene. Ora che abbiamo un cane, faremo recintare la proprietà. Ho intenzione di diventare la vicina acida e scorbutica che non lascia entrare nessuno nel suo giardino. «Neanche a farlo apposta» dico a Benton mentre usciamo dal garage e ci incamminiamo sul vialetto ghiacciato, nella notte fredda, bianca e immobile, verso la porta di servizio di casa nostra. «Appena decidi di mettere l’allarme al garage, si rompe la finestra. Così adesso abbiamo l’allarme che non funziona e libero accesso a chiunque voglia entrare. Quando facciamo venire un vetraio a ripararla?» Avanziamo lentamente sulla neve, che a Sock non piace per niente. Trema per il freddo e cammina come se fosse sui carboni ardenti. Gli alberi scuri dondolano nel vento e il cielo è punteggiato di stelle. La luna, piccola e bianca come un osso, brilla sui tetti di Cambridge. «Hai ragione» dice Benton spostando la borsa della spesa nell’altra mano e cercando la chiave. «Chiamerò qualcuno domani. È che io non sono mai in casa...» «Converrà recintare il giardino per Sock, non credi? Così possiamo farlo uscire senza paura che corra via.» «Non dicevi che detesta correre?» Benton apre la porta. Dietro di noi ci sono gli alberi neri di Norton’s Woods. La costruzione con il tetto di metallo a tre falde che ospita l’American Academy of Arts and Sciences si staglia buia nella notte. Mi intristisco nel vederla, pensando a Liam Saltz e al suo figliastro. Mi chiedo se il resto del flybot è rimasto nel parco, sepolto sotto la neve, spezzato, senza più vita in assenza di luce solare. Ho la sensazione che lo abbia preso qualcuno. Forse quelli dell’FBI, della DARPA, oppure del Pentagono. O forse Dawn Kincaid. «Dovremmo prendergli delle scarpine» dico. «Esistono stivaletti per cani. Gli serviranno se continua questo tempaccio.» «Non è che deve scarpinare se fa tanto freddo.» Appena Benton apre la porta, scatta l’allarme. «Fidati: si rifiuterà di uscire di casa. Speriamo che non sia abituato a fare i suoi bisogni sul tappeto.» «Dovrò prendergli anche qualche cappottino. Mi sorprende che Eli Goldman e Dawn

Kincaid non avessero niente da mettergli. I levrieri vanno coperti, a queste temperature. Non sono animali abituati a climi rigidi. Ti devi adattare, mio caro Sock. E comunque d’ora in poi starai al calduccio e sarai ben nutrito: ti troverai bene, vedrai.» Benton digita il codice e riattiva l’allarme appena chiude la porta. Sock mi sta attaccato alle gambe. «Ti va di accendere il fuoco? Io preparo qualcosa da bere» propongo. «Poi cucino un po’ di pollo con il riso, o forse il pesce e la quinoa. Non subito, però: è tutto il giorno che mangia pollo e riso e non vorrei che si sentisse male. Tu di cosa hai voglia? O farei meglio a chiedere cosa abbiamo nel frigo?» «Nel congelatore c’è della pizza fatta da te.» Accendo le luci e guardo le finestre con i vetri colorati lungo la scala, che dall’interno sono buie ma da fuori, con le luci accese, sono stupende. Quando uscirò con Sock la sera, me le godrò. Sarà bello portare fuori un cane, giocare con lui in giardino con il bel tempo, quando fa caldo, e vedere le mie artistiche finestre colorate quando usciamo al buio. Pregusto già la mia vita da adesso in poi: tornare a casa, vicino a Harvard, e trovare il mio cane. Decido che pianterò delle rose in giardino. Mi sento felice. «Io non ho fame» dice Benton togliendosi il cappotto. «Piuttosto, berrei qualcosa di forte.» Va in salotto. Le unghie di Sock ticchettano sul parquet e non fanno rumore sui tappeti. Passiamo di stanza in stanza, fino alla cucina, dove me lo sento strusciare contro le gambe mentre apro gli sportelli di ciliegio sopra gli elettrodomestici di acciaio inossidabile. Ovunque io vada, Sock mi segue e si strofina contro le mie gambe. Prendo i bicchieri, il ghiaccio e la migliore bottiglia di scotch che abbiamo, un Glenmorangie single malt di venticinque anni che ci ha regalato Jaime Berger a Natale. Mentre lo verso nei bicchieri, penso a Jaime e a Lucy, al fatto che non stanno più insieme, e poi a tutti quelli che sono morti negli ultimi giorni, a come si era ridotto Fielding, al fatto che non c’è più. Cercava la morte e qualcuno gli ha dato una mano a farla finita, infilandogli una Glock nell’orecchio sinistro e premendo il grilletto mentre lui era davanti all’impianto criogenico in cui conservava spermatozoi estratti con il dolo per rivenderli a mogli, madri e amanti di uomini scomparsi prematuramente. Di chi poteva fidarsi al punto di lasciare che entrasse nella cantina in cui custodiva un segreto tanto terribile, che usasse la sua casa e tutto ciò che possedeva? Mi ricordo quello che mi ha detto il suo ex capo di Chicago, che Jack voleva trasferirsi nel Massachusetts per stare vicino alle persone che più amava, solo che non si riferiva a Lucy, Marino e me, e neanche alla moglie e alle due figlie. Ho la netta sensazione che intendesse qualcun altro, qualcuno di cui ignoravo l’esistenza, e penso che se fossi stata un po’ meno egoista ed egocentrica forse mi sarebbe venuto in mente prima. È tipico che io abbia dato per scontato di essere tanto importante per Fielding e che non mi sia neanche passato per l’anticamera del cervello che, quando lui disse al suo ex capo che voleva stare vicino alle persone che più amava, non stesse pensando a me. Quasi sicuramente si riferiva alla figlia del suo primo amore, la prima donna con cui

aveva fatto sesso, la terapeuta della comunità vicino ad Atlanta che partorì una bambina e poi abbandonò sia lei sia lui. “Se ha preso dalla madre, probabilmente sarà in prigione anche lei, o al cimitero” ha detto Benton. L’anno scorso si è trasferita qui da Berkeley e Fielding ha chiesto il trasferimento da Chicago. «Millenovecentosettantotto» dico entrando nel salotto con travi a vista sul soffitto e librerie a tutte le pareti. Le lampade sono spente e l’unica luce viene dal fuoco che scoppietta nel camino. Benton sposta un ciocco di legno facendo sprigionare scintille. «Deve avere l’età di Lucy, più o meno. Trentun anni.» Gli porgo un bicchiere di scotch con poco ghiaccio. Alla luce del camino, il liquore è del colore del rame. «Pensi sia lei? Pensi che Dawn Kincaid sia la figlia biologica di Fielding? Io ne sono convinta. Spero che tu non sapessi già tutto.» «Te lo giuro: non sapevo niente. Ammesso che sia vero.» «Non hai pensato a Dawn Kincaid o alla figlia che Fielding aveva avuto da quella donna in carcere.» «Non ci ho dato peso. È successo tutto molto in fretta, Kay.» Ci sediamo vicini sul sofà e Sock mi viene in braccio. «Abbiamo cominciato a sospettare di Fielding solo la settimana scorsa, almeno per quanto riguarda fatti criminosi, atti di violenza. Non avrei dovuto trascurare il particolare della figlia data in adozione, però» rimugina Benton. Sembra arrabbiato con se stesso. «Prima o poi lo avrei fatto. Non mi sembrava così importante.» «Nel quadro generale, all’epoca non lo era. La mia non era una critica.» «Dalle pratiche che ho visionato, risulta che la bambina venne data in adozione quando la madre fu condannata la prima volta. Tramite un’agenzia di Atlanta» mi spiega. «Forse, come tanti ragazzi, a un certo punto anche lei si è messa a cercare i suoi genitori biologici.» «E, intelligente com’è, non ha fatto fatica a trovarli.» «Cristo!» Benton assaggia lo scotch. «È sempre quel particolare che lasci da parte, quello che ti sembra meno urgente...» «Lo so. È sempre così. La soluzione sta nel dettaglio a cui dai meno importanza.» Siamo seduti sul divano a guardare il fuoco, con Sock acciambellato in braccio a me. Si è affezionato, mi sta sempre appresso. Ha bisogno di contatto fisico, quasi temesse che, se mi perde di vista un attimo, io sparisca e lo abbandoni in una catapecchia in cui accadono le cose più tremende. «Penso che ci siano buone probabilità che il test del DNA confermi la nostra ipotesi» continua Benton in tono piatto. «Mi spiace non esserci arrivato prima, ma davvero non mi pareva il caso di approfondire.» «Smettila di incolparti. Perché avresti dovuto indagare su un dettaglio apparentemente tanto marginale? Come potevi pensare che la figlia generata da Fielding quando era un adolescente potesse avere a che fare con quello che era successo?» «Be’, dal momento che è così, avrebbe potuto anche venirmi il dubbio.» «Del senno di poi son piene le fosse.»

«So che Fielding scriveva a Kathleen Lawler, che le mandava delle e-mail, ma non è un reato e non c’era niente che potesse destare sospetti. Peraltro, non nominavano mai Dawn, parlavano solo di interessi comuni. Mi ricordo bene questi accenni a un presunto interesse condiviso. Io credevo facessero riferimento alla relazione che avevano avuto, a come quel crimine avesse cambiato radicalmente la loro vita.» Lo dice con amarezza, cercando di ricostruire i fatti. «Adesso invece penso che si riferissero alla figlia che avevano fatto insieme, che potrebbe essere proprio Dawn Kincaid. È un peccato che Jack non abbia mai superato il trauma, che sia rimasto così legato a Kathleen Lawler, che fra altro era molto attaccata a lui. E la figlia ha ereditato la sua intelligenza, le sue parti buone e le sue parti cattive. E anche pregi e difetti della madre. Chissà poi che non sia passata da una famiglia all’altra. Scommetto che del padre non ha saputo nulla fino a un’età relativamente avanzata. Queste sono mie supposizioni, ovviamente.» «Mi sembra piuttosto un’autopsia spirituale» lo correggo. «In fase di autopsia, spesso trovo conferma a ciò che già sospettavo.» «Sì, forse hai ragione. Il fatto è che questi nostri sospetti sono terribili: un film dell’orrore. Altro che colpe dei padri che ricadono sui figli...» «Qui parlerei piuttosto di colpe della madre.» «Devo fare un paio di telefonate» dice Benton. Ma continua a sorseggiare lo scotch e a guardare il fuoco. È arrabbiato con se stesso. Si rimprovera di non aver dato peso a quel dettaglio, come lo chiama. Pensa che avrebbe dovuto considerare prioritario ricostruire la storia di una bambina nata in carcere oltre trent’anni fa. È irragionevole. Come poteva sapere che era importante? «Jack non mi ha mai parlato di Dawn Kincaid o di una figlia data in adozione. Mai. Non ne avevo la più pallida idea.» Il whisky mi ha scaldato e accarezzo Sock, sentendogli le costole sporgenti, in preda a una tristezza incontenibile. «Dubito che abbia mai vissuto con lui fino a poco tempo fa. Non vedo come sia possibile. A Richmond assolutamente no. E non credo proprio che le sue mogli avrebbero tollerato in casa il frutto di quella relazione criminosa, sempre che ne fossero al corrente. Penso che Fielding non abbia mai detto niente alle sue compagne. A parte alludere alla sua difficoltà a fare l’autopsia ai bambini... Ma forse a loro non ha mai detto neanche questo.» «A te, però, sì.» «Io ero il suo capo.» «Non solo.» «Ti prego, Benton, non ricominciare. Sei ridicolo. Sei di cattivo umore, siamo stanchi...» «Mi secca che tu non mi dica la verità, tutto qui. Non mi importa quello che hai fatto allora. Non ho nessun diritto di interessarmi a ciò che è successo quando noi due non stavamo ancora insieme.» «Invece ti importa e hai tutti i diritti di interessarti. Ma quante volte te lo devo dire che

non c’è stato niente?» «Mi ricordo la prima volta che siamo usciti insieme.» «Un secolo fa...» Gli prendo la mano. «Era il 1988, in quel ristorante italiano di Richmond, da Joe. Te lo ricordi?» «Ogni volta che uscivo con quelli della polizia, finivamo a mangiare là. Non c’è niente di meglio di un bel piatto di spaghetti dopo un sopralluogo sulla scena di un crimine.» «Dirigevi l’Istituto di medicina legale da poco tempo.» Benton parla guardando il fuoco, ma mi accarezza la mano, sulla schiena di Sock. «Ti chiesi di Jack perché eri premurosa nei suoi confronti, materna, attenta, e mi sembrava strano. Più domande ti facevo, più evasiva diventavi. Non me lo scorderò mai.» «Non lo facevo per lui» rispondo. «Ma per me.» «Per via di Briggs. Non dev’essere facile stare sotto un uomo così. Okay, l’ho detto male: non intendevo questo. Anche perché tu non staresti sotto, ma sopra.» «Per favore!» «Ti prendo un po’ in giro, Kay! Ma forse siamo troppo stanchi e nervosi per fare dell’ironia. Scusa.» «Comunque è stata colpa mia. Non do la colpa né a lui né a nessun altro» continuo. «All’epoca era un dio, per una come me. Ero cresciuta sotto una campana di vetro, per certi versi. Andavo a scuola, studiavo, facevo internati a destra e a manca, lavoravo come un’ossessa e dormivo pochissimo. È normale che facessi quello che mi dicevano i miei superiori. All’inizio non lo mettevo in discussione. Anche perché sentivo di non meritare la posizione che avevo, mi sembrava impossibile fare il medico. Ero convinta che avrei dovuto stare nel negozio di alimentari dei miei genitori, sposarmi, fare dei figli e vivere semplicemente come tutto il resto della mia famiglia.» «John Briggs era l’uomo più potente che tu avessi mai incontrato, capisco» osserva Benton. Ho la sensazione che conosca Briggs meglio di quanto immaginassi. Mi domando se si siano parlati spesso in questi ultimi sei mesi, non soltanto a proposito di Fielding, ma di tutto il resto. «Non sentirti minacciato» dico chiedendomi che cosa sappia Benton di Briggs e, soprattutto, di me. «Il mio passato non interessa più a nessuno. Era una percezione tutta mia, comunque. Avevo bisogno che Briggs fosse potente, mi serviva.» «Perché tuo padre era tutt’altro che potente. Nella sua lunga malattia, quando ti prendevi cura di lui e di tutti gli altri, sentivi il bisogno che qualcuno si prendesse cura di te.» «E, quando finalmente ottieni quello che desideri, guarda cosa succede. John si prendeva cura di me. O forse ero io che mi prendevo cura di me stessa. Al punto di andare contro la mia coscienza e lasciarmi convincere a fare qualcosa di sbagliato.» «È la politica» dice Benton, come se sapesse a cosa mi riferisco. «Cosa sai di quello che mi succedeva a quei tempi?» gli domando e vedo le ombre che si muovono sul suo viso illuminato dal fuoco. «L’esercito pretende due anni di servizio per ogni anno di retta pagata, se non sbaglio.

Quindi immagino che a rigore tu dovessi prestare otto anni di servizio. Con l’Aeronautica militare, l’AFIP, l’AFME.» «Sei. Ho finito la Hopkins in tre anni.» «Giusto. Invece ne hai prestato uno. E, ogni volta che ti chiedo lumi al riguardo, tu mi propini sempre la stessa storia a proposito del fatto che l’AFIP voleva organizzare un programma di formazione in Virginia e ti mise a capo dell’istituto.» «Dove fu effettivamente organizzato un programma di formazione. A quei tempi non c’erano molte possibilità per quelli dell’AFIP che volessero specializzarsi in scienze forensi. E quindi venne aggiunto Richmond. E poi il CFC. Ci prepareremo presto per fare della formazione anche qui. Bisogna che mi metta al lavoro.» «È la politica» ripete Benton bevendo un sorso di scotch. «Ti sei sempre sentita in colpa per qualcosa e per molto tempo io ho creduto che fosse a causa di Jack. Pensavo che avessi avuto una relazione con lui reiterando il suo trauma originario. Una donna di potere che, invece di proteggerlo, lo sfrutta e lo seduce riportandolo sulla scena del crimine originario. Sarebbe stato imperdonabile che tu avessi fatto una cosa del genere.» «Tant’è che non l’ho fatto.» «Giuri?» «Giuro.» «Be’, qualcosa devi aver fatto.» Non demorde. «Sì, ma prima che arrivasse Jack» rispondo. «Hai eseguito ordini superiori, Kay. Devi smetterla di pensarci» dice, perché evidentemente è al corrente di tutto. «Non ho mai detto nulla ai familiari» ribatto. Benton tace. «Ai genitori delle due donne assassinate a Città del Capo. Non potevo telefonare alle famiglie e avvertirle di quello che era successo. Sono ancora tutti convinti che sia stato un crimine razziale, commesso da membri di qualche gang durante l’apartheid. Ai tempi per certi politici era conveniente che il numero di delitti commessi da neri ai danni dei bianchi fosse elevato. Lo volevano veramente: più omicidi c’erano, meglio era.» «Quei politici ormai non esistono più, Kay.» «Perché non fai quelle telefonate che dicevi, Benton? Chiama Douglas o chi per lei e racconta di Dawn Kincaid, dei test che abbiamo ordinato e dei nostri sospetti.» «L’amministrazione Reagan è finita da un pezzo, Kay.» Benton vuole che gliene parli, ma io ho l’impressione che qualcuno glielo abbia già detto. Probabilmente Briggs, che sa quanto questa cosa mi tormenta. «Non è passato poi tanto tempo da quando ho fatto quello che ho fatto.» «Non hai fatto niente di male, Kay. Non c’entri nulla con la morte di quelle due donne. Non mi serve conoscere tutti i particolari per dirlo» ribatte Benton intrecciando le dita alle mie. Le nostre mani si alzano e si abbassano dolcemente al ritmo del respiro del cane. «A me invece sembra di sì» insisto. «Non c’entri, Kay» ribadisce. «La colpa non è tua, ma di altri. Tu sei stata solo

costretta al silenzio. Sai quante volte capita a me di dover tacere quello che so? Da tutta la vita. L’alternativa è peggiorare le cose. È questo il nocciolo della faccenda: parlare farebbe precipitare la situazione, farebbe finire qualcuno in galera o al cimitero. Primum non nocere, giusto? È questo il problema che mi pongo tutte le volte. E so che per te è lo stesso.» Non ho voglia di sentirmi fare prediche in questo momento. «Pensi che sia stata lei?» domando a Benton mentre Sock se ne sta tranquillo e beato in braccio a me, come se fosse a casa sua. «Che abbia ucciso tutti lei?» «Me lo sto chiedendo seriamente.» Guarda il bicchiere e fa ruotare il liquore ambrato alla luce del caminetto. «Lo ha fatto per mettere fine alle sofferenze di Jack?» «Forse lo detestava» mi fa notare Benton. «Voleva conoscerlo ed era attirata da lui perché lo odiava. Sempre che sia andata così.» «Io non credo che Fielding abbia incatenato Wally Jamison in cantina per ammazzarlo ad accettate. Se Jamison è andato a Salem Neck volontariamente, è probabile che lo abbia fatto su invito di Dawn, per stare con lei. Forse lei gli ha fatto credere che fosse un giochetto piccante, un macabro rituale per Halloween. Può darsi che abbia fatto così anche con Mark Bishop, che li inganni tutti quanti, li affascini al punto di riuscire a fargli fare quello che vuole lei. A quel punto, li annienta. Dev’essere molto eccitante per una personalità diabolica come la sua.» «La seconda moglie di Liam Saltz, la madre di Eli Goldman, è sudafricana» mi dice Benton. «E anche il suo primo marito, il padre biologico. Eli Goldman aveva al dito un anello che molto probabilmente viene dalla casa dei Donahue, rubato da Dawn Kincaid insieme alla macchina per scrivere e alla carta da lettere. Chissà che non abbia usato il nastro metallizzato per raccogliere fibre e altre prove materiali, magari addirittura DNA, da casa Donahue, in maniera da convincerci senza ombra di dubbio che la lettera fosse della signora e da indebolire così l’alibi già traballante di Johnny.» «Sei poco obiettivo, come me» lo prendo in giro. «È quello che ho sempre pensato io.» «Un gioco» dice Benton in tono disgustato, sprezzante. «Giochetti su giochetti, scenari complessi, elaboratissimi. Non vedo l’ora di conoscerla, quest’assassina. Sul serio.» «Forse hai bevuto troppo.» «Tutt’altro. Chi meglio di lei poteva manipolare Johnny Donahue? Bella, intelligente, più grande di lui... Gli ha inculcato nella testa questa cosa, lo ha persuaso di aver ammazzato lui quel bambino di sei anni approfittando del fatto che soffriva di allucinazioni e vuoti di memoria dovuti alle sostanze che lei gli aggiungeva di nascosto alla terapia. Cosa che faceva anche con Fielding e con chissà quante altre persone. Un’avvelenatrice determinata a rovinare le persone apparentemente a lei più care, vendicandosi per i torti subiti. Mettici una predisposizione genetica e magari gli stessi cocktail di Fielding...» «E ottieni la tempesta perfetta.» «Una donna che sfida se stessa ad ammazzare più persone che può senza farsi

beccare.» Benton ha di nuovo il tono disgustato. Gli leggo disprezzo negli occhi. «Alla fine, resta soltanto lei. Una strategia a prova di bomba.» «Penso tu abbia ragione.» Mi viene in mente la scatola che ho lasciato in macchina. «Non vuoi fare quelle telefonate adesso?» «Borderline, sadica, manipolatrice, narcisista.» «Certa gente le ha proprio tutte.» Poso il bicchiere sul tavolino basso e faccio scendere Sock sul tappeto. «Sì, è vero.» «Mi sono dimenticata in macchina la scatola di Briggs» dico alzandomi. «Porto fuori Sock, intanto. Usciamo?» gli chiedo. «Poi scaldo la pizza. Immagino che non ci sia niente per fare un’insalata. Cos’hai mangiato mentre io non c’ero? Scommetto che andavi da Chang An a prenderti un take-away e te lo facevi durare tre giorni.» «Ora mi piacerebbe una bella cenetta cinese.» «Scommetto che ci andavi almeno una volta alla settimana.» «Preferisco la tua pizza, Kay.» «Non cercare di addolcirmi con le lusinghe.» Vado in cucina a prendere il guinzaglio e lo metto a Sock, poi prelevo la torcia dal cassetto, una vecchia Maglite che mi ha regalato Marino un sacco di anni fa, lunga, di alluminio, nera, con delle belle batterie D. Mi ricorda le torce grosse quanto un manganello che usavano i poliziotti in passato. Adesso sono tutte piccolissime, come le SureFire che piacciono tanto a Lucy e che Benton tiene nel vano portaoggetti della macchina. Disattivo l’allarme e penso che Sock avrà freddo. Mentre scendiamo i gradini sul retro mi rendo conto di non essermi messa il cappotto. La luce a sensori di movimento del garage non si accende. Cerco di ricordarmi se non si è accesa neanche un’ora fa, quando siamo tornati a casa, ma non ne sono sicura. Ci sono un sacco di cose da riparare, da fare, da cambiare. Da dove comincerò domani? Benton non ha chiuso a chiave la porta del garage, perché non ha senso, visto che la finestra, grande come un televisore con megaschermo, ha il vetro rotto. Nella rimessa, che è staccata dalla casa, fa un freddo boia ed è buio pesto. Dalla finestra, che scorgo a malapena, entra una corrente gelata. Accendo la Maglite, che però non funziona. Devono essersi scaricate le pile. Sono stata stupida a non controllarla prima di uscire di casa. Punto la chiave verso il SUV e sento il clic delle portiere che si aprono, ma la luce interna non si accende. “Maledette automobili del Bureau” penso. Le luci interne della macchina dell’agente speciale Douglas non funzionano. Cerco la scatola sul sedile posteriore e mi rendo conto che non sarà facile trasportarla in casa, con il cane al guinzaglio. Anzi, è proprio impossibile. «Scusami, Sock» dico al levriero sentendolo tremare vicino alle mie gambe. «Lo so, hai freddo. Dammi soltanto un minuto, per favore. Mi dispiace ma, come stai scoprendo, sono un po’ stupida.» Con la chiave taglio lo scotch con cui è chiusa la scatola e tiro fuori il giubbotto antiproiettile, di un tipo che conosco, anche se non ne ho ancora provati di quella marca.

Sento il nylon robusto e ruvido e la rigidità delle piastre in ceramica balistica che Briggs o chi per lui ha inserito nelle tasche interne. Apro i cinturini con il velcro sui lati per indossarlo. Appesantita dal giubbotto, chiudo la portiera. Sock si allontana da me con un salto e mi strappa il guinzaglio di mano. «Ho solo sbattuto la portiera, Sock. Vieni qui...» Lo chiamo e mi rendo conto che c’è qualcosa che si muove nel garage, vicino alla finestra. Mi volto per vedere, ma non ci riesco perché è troppo buio. «Sock? Sei tu?» Avverto una corrente d’aria fredda e poi un colpo alla schiena, come se mi avessero dato una martellata fra le scapole, e un sibilo come se ad aggredirmi fosse stato un drago. Perdo l’equilibrio. Sento un urlo stridulo e un altro sibilo fortissimo, quindi mi arriva sulla faccia una pioggerellina sottile. Cado contro il SUV e reagisco, cercando di colpire il mio aggressore misterioso. La torcia sbatte contro qualcosa di duro che cede in reazione al mio colpo e si muove. Riprovo a colpire e urto qualcosa di diverso. Sento un odore ferroso: sangue. Ne percepisco il sapore sulle labbra, in bocca. Continuo a sferrare colpi alla cieca, poi all’improvviso si accendono le luci, che mi abbagliano. Sono coperta da minuscole goccioline di sangue, come se me lo avessero spruzzato addosso con uno spray. C’è Benton. Sta puntando una pistola contro una donna con un lungo cappotto nero, che giace lunga distesa per terra. Vedo che si sta allargando una chiazza di sangue sotto la sua mano destra e, poco distante, noto un dito reciso, con la French manicure. Accanto c’è un coltello con una sottilissima lama di acciaio e un manico spesso, nero, dotato di un pulsantino. «Kay? Stai bene? Kay, ti sei fatta male?» Mi rendo conto che Benton mi sta parlando, mentre sono china sulla donna e le tasto il collo cercandole il battito. Lo trovo e mi accerto che respiri, poi la volto per controllarle le pupille. Non sono fisse. Ha la faccia insanguinata: devo averla colpita sul volto con la Maglite. Mi impressiona la somiglianza: i capelli biondi tagliati corti, i lineamenti marcati, il labbro inferiore carnoso sono quelli di Fielding. Anche le orecchie, piccole e attaccate alla testa, sono le stesse del mio vice. Sento la sua forza fisica, le sue spalle muscolose. È piuttosto piccola, sarà un metro e sessantacinque, ed è snella, ma ha l’ossatura grossa come il suo defunto padre. Mentre tutti questi particolari mi colpiscono profondamente, dico a Benton di correre in casa a chiamare il 911 e di tornare subito con un contenitore di ghiaccio.

23 Durante la notte è arrivato un fronte caldo che ha portato ancora neve e adesso i fiocchi scendono silenziosi coprendo tutte le brutture, ammorbidendo gli spigoli e tutto ciò che è duro. Mi tiro su a sedere nel letto di camera mia, al primo piano della nostra casa di Cambridge, e guardo la neve che scende e si posa sui rami spogli della quercia fuori della finestra. Un momento fa ho visto uno scoiattolo grigio e paffuto, in equilibrio perfetto su un rametto sottile, che mi guardava mentre io guardavo lui e muoveva le guance fissando dentro. Ho fogli e fotografie in grembo. Sento odore di carta vecchia, di polvere e di medicinale. Ho pulito le orecchie a Sock con alcune salviette disinfettanti perché mi sembrava che nessuno glielo facesse da un pezzo, sempre che gliele avessero mai pulite. All’inizio non gradiva, ma io l’ho calmato con paroline dolci e un biscotto. Lucy me ne ha portato una scatola insieme con le salviette che usa per il suo bulldog. Miconazolo e clorexidina sono molto efficaci contro la pachidermia, ho detto a mia nipote quando è passata stamattina per vedere come stavo. Non l’avessi mai fatto. Mi ha risposto che Jet Ranger non ama essere definito un pachiderma: non è un elefante o un ippopotamo. Se tende a ingrassare, non è mica colpa sua! Gli sta facendo seguire una dieta per cani di età avanzata, ma il problema è che Jet Ranger si muove poco perché ha le anche malconce e poi la neve gli irrita le zampe, non si sa perché. Inoltre i bulldog hanno le zampe troppo corte per camminare nella neve. Per tutti questi motivi, in inverno non esce nemmeno a fare brevi passeggiate. Lucy mi ha descritto tutti i problemi del suo cane nei minimi particolari, offesissima. Fa così quando è preoccupata, quando ha paura. E poi è arrabbiata perché non era presente ieri sera. Avrebbe preferito esserci quando Dawn Kincaid mi ha aggredito. Io, invece, sono contenta che non ci fosse. Non posso dire di essere orgogliosa di averle procurato una frattura lineare al cranio con relativa commozione cerebrale, ma so che se al mio posto ci fosse stata Lucy, Dawn Kincaid a quest’ora sarebbe all’obitorio. Mia nipote l’avrebbe certamente ammazzata, magari a colpi di pistola, e ci sono già stati abbastanza morti. Non è detto che Lucy ne sarebbe uscita viva, peraltro, checché lei nei dica. Sarebbe dipeso da due particolari, grazie ai quali io sono ancora qui e Dawn Kincaid invece è piantonata in una stanza d’ospedale. Non credo che lei si aspettasse che io entrassi nel garage. Ho l’impressione che fosse appostata vicino alla finestra rotta in attesa che io portassi Sock nel giardino sul retro. Invece l’ho colta alla sprovvista entrando nel garage a prendere la scatola che avevo lasciato in macchina e, quando lei ha scavalcato la finestra, mi ero già messa sulle spalle il giubbotto antiproiettile livello 4A. Così, quando ha cercato di conficcarmi nella schiena il suo coltello WASP, la lama è rimbalzata contro la piastra di Kevlar e ceramica e le ha tagliato tre dita e reciso di netto la punta del mignolo. Nel frattempo però lei aveva premuto il pulsante, rilasciando l’anidride carbonica contenuta nella bomboletta, il cui getto mi ha spruzzato in faccia il suo sangue.

Se Lucy non avesse colto di sorpresa Dawn Kincaid e non avesse avuto il giubbotto antiproiettile, probabilmente avrebbe avuto la peggio. Vorrei perciò che la finisse di recriminare, di dire che se ci fosse stata lei ieri sera avrebbe sistemato tutto, come se io invece non avessi fatto niente. Sono stata molto fortunata, è vero, ma sono stata anche pronta. Mi sembra di essermi comportata egregiamente, tutto sommato. Spero di riuscire a essere altrettanto brava a gestire anche l’altro problema, molto più importante, che non mi ha ancora ucciso ma a volte ho temuto che lo facesse. «Mi raccontava che la prendevano in giro, che la insultavano» dice la signora Pieste al telefono, mentre le parlo di sua figlia. «La chiamavano “boera”, dicevano che i boeri dovevano andarsene a casa. Come lei sa, in origine quel termine voleva dire “contadino”, ma con il tempo ha assunto connotazioni negative e viene usato per definire i sudafricani bianchi. Io all’uomo del Pentagono l’ho detto e ripetuto: non mi interessano le motivazioni. Non me ne frega niente se è stato perché Noonie e Joanne erano bianche o americane o perché quelli pensavano che fossero sudafricane. Non lo erano, naturalmente. A me il perché non interessa. Non voglio credere che abbiano sofferto quanto diceva quell’uomo.» «Lei ricorda come si chiamava questo signore del Pentagono?» «So che è un avvocato.» «Non un colonnello, quindi.» Lo spero vivamente. «Un giovane avvocato del Pentagono, che lavorava per il ministro della Difesa. Non ricordo il nome.» Quindi non era Briggs. «Parlava velocissimo» aggiunge la signora Pieste, sprezzante. «Mi è stato antipatico fin da subito. Anche se devo dire che chiunque mi avesse detto le cose che mi disse lui non sarebbe potuto risultarmi simpatico.» «L’unico conforto che posso offrirle è assicurarle che Noonie e Joanne non soffrirono quanto le è stato fatto credere. Non ne sono certa, ma è possibile che non si siano accorte nemmeno di morire soffocate, visto che erano state drogate.» «Dagli esami sarebbe venuto fuori» dice la signora Pieste, che ha l’accento del Massachusetts. Non sapevo fosse di Andover, all’inizio. Dopo la morte di Noonie, la famiglia Pieste si trasferì nel New Hampshire. L’ho appena scoperto. «Credevo avessimo chiarito che gli esami non furono condotti come avrebbero dovuto» rispondo. «E perché?» «Perché il medico legale di Città del Capo...» «È stata lei a firmare il certificato di morte, dottoressa Scarpetta. E anche il referto dell’autopsia. Ne ho copia: me li ha mandati l’avvocato del Pentagono.» «No, signora. Non li ho firmati io.» Mi sono rifiutata di firmare documenti che sapevo essere falsi, ma sono colpevole lo stesso, perché ero consapevole che erano fasulli. «Io non ne ho copia, invece, anche se lei non ci crederà» replico. «Non li ho mai ricevuti. Ho solo i miei appunti, le cose che scrissi e quelle che spedii negli Stati Uniti prima di

partire. E feci bene, perché mi furono aperte tutte le valigie.» «Le copie che ho io sono firmate da lei.» «Le giuro che non ho firmato io referto e certificato» ribadisco in tono pacato ma fermo. «Immagino che alcune persone abbiano pensato di apporre una firma falsa su quei documenti nell’eventualità io decidessi di fare quello che sto facendo.» «Ovvero dire la verità?» È difficile sentirselo dire con tanta crudezza. La verità. Come se quello che ho detto e non detto in tutti questi anni fosse una menzogna. «Mi dispiace» ripeto. «Lei aveva diritto di sapere la verità subito, dopo la morte di sua figlia e della sua amica.» «Capisco perché lei non disse niente, però» replica la signora Pieste in tono solo moderatamente alterato. Sembra più che altro interessata e sollevata di poter parlare di una cosa tanto importante nella sua vita. «Quando la gente comincia a fare certe cose, non si sa mai dove si fermerà. Per certi versi, non c’è limite. Ne avrebbero patito le conseguenze troppe persone. Compresa lei, dottoressa.» «Non volevo altra sofferenza» rispondo. Mi fa male sentire che pensa che sono stata zitta per paura di andarci di mezzo. In realtà temevo molte cose e molte persone, temevo morisse altra gente, temevo accuse ingiuste. «Spero che lei comprenda che quando ho letto il certificato di morte e il referto dell’autopsia... non che io capisca la terminologia medica... be’, ho pensato che avesse scoperto lei quelle cose» dice la signora Pieste. «Invece no. E i dati non sono veri. Non vi fu reazione tissutale alle lesioni, che erano tutte post mortem. Le ferite furono inferte ore dopo il decesso. Tutto ciò che venne fatto a Noonie e Joanne venne fatto quando erano già morte da diverse ore.» «Se non avete fatto i test della droga, come fate a sapere che erano state drogate?» continua la signora Pieste. Sento un clic e deduco che qualcuno ha tirato su un altro telefono. «Buongiorno. Sono Edward Pieste» dice una voce maschile. «Il padre di Noonie. La sto ascoltando anch’io.» «Condoglianze vivissime.» Le mie parole suonano deboli, insipide. «Non so come dirvi quello che provo. Mi dispiace moltissimo che vi sia stata data una versione falsa dell’accaduto e di aver permesso che ciò succedesse. Non voglio giustificarmi, ma...» «Comprendiamo perché non ha potuto dire quello che era accaduto veramente» replica l’uomo. «L’atmosfera di quegli anni, il nostro governo segretamente colluso con chi voleva mantenere vivo l’apartheid... Per questo Noonie stava girando quel documentario. Non volevano lasciar entrare la troupe in Sudafrica. Dovettero entrare nel paese come turiste. Un segreto grosso e sporco. Quello che le nostre autorità facevano a sostegno delle atrocità perpetrate laggiù.» «Non era un gran segreto, Eddie» rimarca la signora Pieste. «Be’, la Casa Bianca faceva finta di niente.» «Lei sapeva del documentario che stava girando Noonie, vero? Aveva un futuro così

brillante davanti a sé...» rimpiange la signora Pieste mentre io guardo una foto di sua figlia che spero lei non vedrà mai. «Sui figli dell’apartheid» rispondo. «L’ho visto quando è stato trasmesso qui.» «I mali della supremazia bianca» dice la signora. «Di qualsiasi supremazia.» «Mi sono perso la prima parte della vostra conversazione» dice il signor Pieste. «Ero fuori a spalare la neve davanti a casa.» «Non mi ascolta» protesta la signora. «Alla sua età non dovrebbe fare lavori tanto pesanti, ma ha una testa...» Lo dice con affetto. «La dottoressa Scarpetta diceva che Noonie e Joanne erano state drogate.» «Davvero? Questa sì che è una novità.» Lo dice in un tono spento, privo di energia. «Andai nell’appartamento diversi giorni dopo la loro morte, per un sopralluogo. Era tutta una messinscena: la scena del crimine era stata predisposta appositamente» spiego. «Ma nel bidone della spazzatura c’erano lattine di birra, bicchieri di carta e una bottiglia di vino bianco di Stellenbosch. Presi tutto e lo spedii in America per farlo analizzare. Trovammo livelli elevatissimi di GHB nella bottiglia e in due dei bicchieri. Gammaidrossibutirrato, la “droga dello stupro”.» «Ci dissero che erano state stuprate» replica il signor Pieste nello stesso tono piatto di prima. «Non so se lo furono: non vi erano segni di violenza carnale. Non vi erano lesioni, a parte quelle inflitte quando le due ragazze erano già morte. I tamponi che feci analizzare privatamente qui negli Stati Uniti erano negativi: non c’era traccia di liquido seminale» replico guardando le foto dei cadaveri, nudi e legati alle sedie. So che le due ragazze non erano sedute quando furono uccise. Osservo gli ingrandimenti nei quali si vedono macchie ipostatiche da cui si deduce che le ragazze rimasero distese su un letto, sopra lenzuola stropicciate, per almeno dodici ore dopo la morte. Osservo foto che scattai io stessa delle ferite da arma da taglio e delle lesioni da corpo contundente, con scarsissimo sanguinamento: anche i legacci lasciarono segni a malapena visibili sulla pelle. I bruti che fecero tutto questo erano troppo ignoranti per sapere quello che facevano. Dovevano essere mercenari inviati del governo o personale operativo militare, con l’incarico di comprare una bottiglia di vino locale e berla insieme alle due donne. Probabilmente si trattava di una persona amica, o che le due donne ritenevano tale, sbagliando di grosso. Dico ai signori Pieste che i test sierologici fatti da me indicavano la presenza di un individuo di sesso maschile. In seguito, quando effettuai il test del DNA, ottenni il profilo di un maschio bianco, europeo, mai identificato. Non posso asserire con certezza che sia lui l’assassino, ma quella sera costui bevve birra nell’appartamento dove le ragazze furono uccise. Per quanto sia possibile ricostruire la dinamica dei fatti, racconto ai Pieste come andò a mio parere: quando Noonie e Joanne cominciarono a perdere i sensi a causa della droga che avevano inconsapevolmente assunto, il loro aggressore le aiutò a mettersi a letto e quindi le soffocò con un cuscino. Lo si deduceva dalle ecchimosi puntiformi e da altre lesioni, spiego. Poi l’assassino se ne andò, non si sa per quale motivo, forse con

l’intenzione di tornare in un secondo tempo insieme con i mandanti dell’omicidio o altre persone coinvolte nel complotto. Forse invece attese nell’appartamento l’arrivo dei suoi compari. Quel che è certo è che, quando le due ragazze furono legate, tagliate e selvaggiamente mutilate, erano già morte. Quando finalmente ebbi modo di esaminare i corpi, ciò mi fu evidente sin dal primo istante. «Qui ne sono già caduti quindici centimetri» constata il signor Pieste dopo un po’. Non vuole più sapere niente. «E sotto c’è ghiaccio. Anche da voi è ghiacciato?» «Immagino dovremmo sporgere denuncia» dice la signora Pieste. «O dopo un po’ non si può più?» «Non importa quanto tempo passa, signora» rispondo. «L’omicidio è un reato che non cade in prescrizione.» «Spero solo che non abbiano messo in galera qualcuno che non c’entrava niente» replica il signor Pieste. «Non è mai stato condannato nessuno in relazione ai fatti. Si accusò una gang di neri, ma non vennero spiccati arresti.» «E invece furono dei bianchi» dice la signora Pieste. «Un uomo bianco bevve birra in quell’appartamento: di questo ho ragionevole certezza.» «Lei sa chi è stato?» chiede la signora «Perché vorremmo che venissero condannati» spiega il marito. «Io posso solo dire che tipo di persone sono state, con buona probabilità. Vigliacchi, interessati solo alla politica e al potere. Fate quello che vi sentite di fare.» «Tu cosa dici, Eddie?» «Scriverò al senatore Chappel.» «Sai a cosa servirà...» «Allora a Obama, a Hillary Clinton, a Joe Biden. Scriverò a tutti quanti» dichiara lui. «Cosa possono fare, ormai?» dice la signora. «Io non voglio rivivere quell’incubo, Eddie.» «Senti, io vado a spalare di nuovo il vialetto. Viene giù come Dio la manda e, se non ci sto dietro, rimaniamo isolati. Grazie del disturbo, dottoressa. È stata gentile a dircelo. So che non dev’essere stato facile e sono certo che mia figlia apprezzerebbe il suo gesto. Se fosse qui, le direbbe grazie.» Dopo aver chiuso la comunicazione, rimango ancora un po’ a letto e rimetto documenti e foto nella cartellina a fisarmonica in cui li conservo da più di vent’anni. La riporterò nella cassaforte del seminterrato, ma non ora. In questo momento non mi sento di scendere e aprire quella cassaforte. Mi sembra che sia arrivato qualcuno: sento dei passi sul vialetto ghiacciato. Non ho voglia di vedere chi è. Ho intenzione di starmene qui ancora un po’, magari a buttare giù la lista della spesa, organizzare le commissioni che devo fare, o semplicemente accarezzare Sock. «Non ti posso portare fuori» gli dico. È accoccolato vicino a me, con il muso sulla mia coscia, indifferente alla triste conversazione che ho appena fatto al telefono, ignaro del suo significato rispetto alla

qualità del mondo in cui vive. Eppure anche lui conosce la crudeltà, forse meglio di tanti di noi. «Senza cappottino, non esci» gli dico accarezzandolo. Sock sbadiglia e mi lecca la mano. Sento il trillo che fa l’allarme quando viene disinnescato e poi la porta di casa che si chiude. «Cercheremo anche degli stivaletti» continuo udendo le voci di Benton e Marino. «Probabilmente lì per lì non ti piaceranno e mi odierai, ma poi ti accorgerai che sono utili. Di’, abbiamo compagnia.» Riconosco i passi pesanti di Marino sulle scale. «Lo conosci: l’hai visto ieri, sul furgone. L’omone vestito di giallo che mi fa sempre arrabbiare. Non devi aver paura di lui, però. Non è una cattiva persona e, come forse tu sai, tendiamo tutti a essere più sgarbati con quelli che conosciamo meglio.» «C’è nessuno?» dice Marino girando la maniglia. Socchiude la porta e bussa prima di entrare. «Benton mi ha assicurato che sei presentabile. Con chi parlavi? Eri al telefono?» «È chiaroveggente se ti ha detto così» rispondo, da sotto le coperte. Sono in pigiama. «Non sono al telefono. Non stavo parlando con nessuno.» «Ciao, Sock! Come te la passi?» dice Marino, prima che io gli spieghi. «Puzza un po’, non trovi? Gli hai messo l’antipulci? Di questa stagione? Ti trovo bene. Come ti senti?» «Gli ho pulito le orecchie.» «Come stai, capo?» Incombe su di me con la sua stazza gigantesca. Sembra ancora più grosso perché ha una giacca a vento pesante, un berretto da baseball e un paio di scarponi. Io invece ho solo il pigiama di flanella e sono sotto la trapunta. Ha in mano una custodia nera: mi sembra l’iPad di Lucy, a meno che non se ne sia procurato uno anche lui. Ne dubito. «Non mi sono fatta niente. Sto bene. Ho deciso semplicemente di restare a casa per mettere a posto un po’ di cose» gli dico. «Immagino che Dawn Kincaid non stia troppo male. L’ultima volta che ho avuto notizie, mi hanno detto che era stabile.» «Io la definirei parecchio instabile, veramente.» «Stavo parlando delle sue condizioni fisiche. Ho saputo che le hanno riattaccato il dito e messo a posto le altre tre che si è tagliata. Le è andata bene che nel nostro garage fa un freddo cane. E che abbiamo messo subito il dito nel ghiaccio. Spero che sia servito. Sai qualcosa? A me non hanno più detto niente. Cosa le succederà adesso? Non ho sentito più niente da ieri sera, quando l’hanno ricoverata.» «Stai scherzando, vero?» Marino mi guarda. Ha gli occhi rossi come ieri a Salem. «No, non sto scherzando. Nessuno mi ha detto niente. Benton mi ha promesso di informarsi, ma forse non lo ha ancora fatto.» «È stato al telefono con noi tutta la mattina.» «Saresti così gentile da chiamare in ospedale e controllare, per favore?» «Sai cosa cazzo me ne frega se quella stronza ha perso un dito o tutta la mano?» ribatte Marino. «Perché ti preoccupi? Hai paura che ti faccia causa? Sarebbe il colmo, te lo dico io. Ma probabilmente lo farà. Ti denuncerà per procurate lesioni e ti chiederà i danni, visto che non sarà più in grado di costruire i suoi nanobot o cosa cazzo sono. Pazza com’è... Immagino che gli psicopatici siano stabilmente fuori di testa. Si può essere

pazzi e psicopatici e riuscire lo stesso a lavorare in un posto come la Otwahl? Sarà un processo difficile, vedrai. Non voglio pensare a cosa succederà se riuscirà a farsi assolvere...» «Come può farsi assolvere, scusa?» «Ti dico che non sarà una passeggiata. Se quella esce, tu sei in pericolo. Lo siamo tutti.» Si siede in fondo al letto facendo abbassare il materasso con il suo peso. Mi sembra di essere stata catapultata più in alto da quando si è messo comodo. Accarezzando Sock, Marino mi informa che la polizia e l’FBI hanno trovato la “topaia” che Dawn Kincaid aveva preso in affitto a Revere, appena fuori Boston: un appartamento con una camera da letto in cui abitava quando non stava da Eli Goldman o dal padre biologico, Jack Fielding, o dagli altri poveracci che aveva irretito. Tira fuori dalla custodia l’iPad e lo accende, spiegandomi che lui e Lucy, insieme a un congruo numero di altri investigatori, hanno perquisito la topaia di Dawn Kincaid per ore, controllando il computer e tutto quanto, compresa la roba che aveva rubato in giro. «Qualcuno ha parlato con la madre?» gli domando. «Madre e figlia erano in contatto da diversi anni. Pare che Dawn Kincaid andasse a trovarla in prigione, giù in Georgia. Si erano riavvicinate. Anche con Fielding. Questo la dice lunga su quanto è manipolatrice e sfruttatrice.» «E la madre è al corrente di quello che è successo?» «Cosa pensi che gliene freghi? È una molestatrice di minori, non te lo scordare.» «I suoi rapporti con Jack non erano così semplici. Non li riassumi nella definizione che ne hai appena dato tu. Non vorrei che lo venisse a sapere dalla televisione.» «Ma chissenefrega!» «Non auguro a nessuno di venire a sapere una cosa così dalla TV» insisto. «A nessuno. E comunque, ripeto: i rapporti fra lei e Fielding erano molto complessi. Come sempre succede, in questi casi.» «A me sembrano chiarissimi, invece.» «Se lo viene a sapere dal telegiornale...» Mi rendo conto di quanto sono insistente. «È sempre brutto, disumano. Io la penso così.» «È anche cleptomane» dice Marino, perché gli interessano solo il caso e le scoperte fatte durante il sopralluogo a casa di Dawn Kincaid. Marino mi spiega che Dawn Kincaid sembra essere davvero cleptomane. Pare che avesse una bella collezione di oggetti rubati a diverse persone, spesso ignare, fra cui parecchi preziosi: gli investigatori hanno trovato gioielli e monete appartenenti ai Donahue e anche alcuni rari spartiti autografati che la signora non si era nemmeno accorta di non avere più. In un baule chiuso a chiave dentro un armadio sono state rinvenute anche armi da fuoco, che probabilmente facevano parte della collezione di Fielding, e la sua fede nuziale. Sempre nello stesso baule c’era una sacca contenente una cintura di raso nera, un kimono bianco, attrezzatura da arti marziali, un cestino della merenda pieno di chiodi

a L da parquet arrugginiti, un martello e un paio di piccole Adidas da taekwondo, che probabilmente Mark Bishop indossava in giardino il pomeriggio in cui è stato ucciso. Nessuno sa, tuttavia, come abbia fatto Dawn Kincaid a convincerlo a mettersi a faccia in giù e a lasciarla “fingere” di piantargli chiodi nel cranio. Anzi, un chiodo nel cranio: il primo. «Quello che è penetrato qui» dice Marino indicandomi la nuca, vicino al collo. «Perché con quello è morto all’istante, no?» «Se proprio vogliamo dire così.» «Insomma, molto probabilmente dava una mano a Fielding con i Tigrotti» continua. «Quindi Mark Bishop la conosceva. E poi è un gran pezzo di figliola, bella davvero. Immagino gli abbia raccontato che gli voleva insegnare una nuova mossa per cui lui doveva sdraiarsi per terra. Un bambino ubbidisce se il suo istruttore gli dice di mettersi lungo disteso a faccia in giù. È quasi buio, lei gli pianta un chiodo in testa e... fine.» «È impossibile che venga assolta» replico. «Se mai dovesse uscire, riprenderebbe a uccidere. Farebbe ancora più danni, ammesso che sia possibile.» «Se negasse tutto, potrebbe cavarsela. Tant’è che tace. Dice solo che ha fatto tutto Fielding e che lei è innocente.» «Non è vero.» «Sono d’accordo con te.» «Non le sarà facile spiegare come mai aveva certe cose in casa» puntualizzo continuando a guardare le foto. Marino deve averne scattate centinaia. «È bella, affascinante, intelligente. E Fielding non si può più difendere.» «È roba molto compromettente.» L’ho già detto, ma lo ripeto. Continuo a guardare le foto sull’iPad. «L’accusa si baserà anche su questo. Non capisco perché tu preveda un processo difficile.» «Lo sarà. La difesa incolperà Fielding. La stronza si prenderà i migliori avvocati, che convinceranno la giuria che ha fatto tutto Fielding.» Marino si protende verso di me e il materasso cambia inclinazione. Sock russa beato, totalmente disinteressato alla sua ex padrona e alla topaia in cui abitava. Marino mi mostra che c’era anche una cuccia. Mi si avvicina cliccando su diverse foto di un plaid e di giocattoli per cani. Gli faccio capire che preferisco far scorrere le foto da me. Ho addosso sia lui sia Sock, e mi danno fastidio. «Pensavo fosse meglio se te le facevo vedere io, dal momento che sono stato io a scattarle» dice. «Grazie, ma me la cavo da sola. Hai fatto un ottimo lavoro, comunque.» «Il punto è che il cane stava qui.» Intende che abitava nella topaia di Dawn Kincaid. «E anche da Goldman e da Fielding. Penso che gli volesse bene, comunque. Al cane, intendo.» «Ma se l’ha lasciato da solo a casa di Fielding senza riscaldamento!» Clicco sulle fotografie, che trovo molto compromettenti. «Finché ne aveva voglia, tutto okay. Quando non ne aveva voglia, lo sbolognava di

qua e di là. Probabilmente gli voleva bene solo quando pareva a lei.» «Infatti.» Sono d’accordo. Guardo le foto del letto sfatto, a due piazze, e della camera minuscola, piena zeppa di cianfrusaglie. Dawn Kincaid deve avere dei problemi a buttare via la roba. «L’ha lasciato là per un motivo» continua Marino. «Per farci credere che era stato Fielding a uccidere tutti quanti e poi a suicidarsi. Se noi a casa di Fielding troviamo il cane, il guinzaglio, la barca che presumibilmente è stata usata per gettare in mare il cadavere di Wally Jamison, i vestiti di Wally Jamison e l’arma del delitto, è normale che pensiamo che sia stato lui. Anche il Navigator senza la targa davanti, così vi convincete che era Fielding a seguirvi, lungo la strada da Hanscom. È normale concludere che Fielding è impazzito, vi pedina, vi tiene d’occhio, vi vuole far paura, spiare, magari addirittura uccidere.» «Quando quella macchina ci seguiva, Fielding era già morto. Per quanto non possa essere precisa riguardo l’ora del decesso, ho calcolato che dev’essere morto lunedì pomeriggio. Probabilmente l’ha fatto fuori subito dopo che è tornato a Salem dal CFC con la Glock sottratta ai laboratori. Su quel Navigator, dietro la nostra macchina, c’era Dawn Kincaid, lunedì sera. È lei che è pazza. Ci ha tallonato per assicurarsi che ci accorgessimo di essere seguiti e poi è sparita, probabilmente nascondendosi nel parcheggio della Otwahl. Voleva farci credere che fosse Jack, che invece aveva già ammazzato con una pistola che poi ha dato al suo ragazzo, Eli Goldman, prima di ammazzare anche lui. Hai ragione, comunque. È verosimile che abbia cercato di dare la colpa di tutto a Jack, che ormai non può più difendersi. Ha incastrato lui e ha fatto in modo che tutti pensassero che Fielding volesse incastrare Johnny Donahue. Diabolico.» «Bisogna che la giuria si convinca che è andata così.» «Bisogna sempre convincere la giuria.» «È un peccato che il cane fosse a casa di Fielding» ripete Marino. «È un elemento che lo lega all’omicidio di Eli Goldman. Nel video si vede che era con il cane quando è stato ucciso.» «Dal microchip, però, si risale a Dawn Kincaid, non a Jack» gli faccio presente. «Non vuol dire. Fielding ammazza Eli Goldman e si porta via il cane. Il cane lo conosce, no?» dice, come se Sock non fosse lì con noi, con il muso sulle mie gambe. «Sicuramente il cane conosceva Fielding, perché Dawn se lo portava appresso quando stava da lui a Salem. Quindi Fielding ammazza Eli Goldman, piglia il cane e se ne va. Questo è quello che Dawn Kincaid vuole farci credere.» «Ma non quello che è successo. Jack non ha ammazzato nessuno.» Concludo che la casa di Dawn Kincaid è squallida come quella di Fielding a Salem. C’è qualcosa in quello squallore che li accomuna. Cianfrusaglie ovunque. Scatoloni. Mucchi di vestiti sparsi qua e là. Piatti sporchi nel lavandino. Spazzatura dappertutto. Montagne di giornali, stampe da computer, riviste. Sul tavolo della sala da pranzo, oggetti di vario genere etichettati dalla polizia, fra cui un cronografo con GPS dello stesso modello di quello che comprai per il compleanno di

Fielding qualche anno fa e un set di strumenti per la dissezione usati dall’esercito durante la Guerra civile, in una custodia di legno di rosa, uguale identico a quello che gli regalai a Richmond quando lavorava per me. Vedo un primo piano di un paio di guanti neri, uno dei quali ha una specie di scatoletta nera sul polso. Marino mi spiega che sono guanti per l’acquisizione di dati wireless, leggeri e flessibili, con accelerometro incorporato, trentasei sensori e ricetrasmettitore integrato a profilo ultrabasso. O per lo meno io estrapolo queste informazioni dalla sua descrizione confusionaria. Quei guanti, che sono stati esaminati con attenzione sia da Briggs sia da Lucy, sono chiaramente progettati per inviare comandi gestuali a un robot. Nel caso specifico, servivano per controllare il flybot che Goldman aveva con sé quando è stato ucciso dalla donna che gli aveva dato l’anello d’oro con lo stemma che aveva ancora al dito nel momento in cui è arrivato, cadavere, al CFC. «Dunque il flybot era nella “topaia”.» Tiro a indovinare. «Benton ti ha offerto un caffè?» «Ne ho già bevuto troppi. Non mi sono manco coricato, stanotte. Io.» «Be’, io sono a letto, ma sto lavorando. E mi sono coricata, sì, ma non ho dormito.» «Mica male starsene a casa e lavorare dal letto.» Prende l’iPad e cerca un file. «Dovrebbero concederti di lavorare da casa un certo numero di giorni all’anno, a seconda di quanto sei vecchio e decrepito. Anzi, dal letto. A insindacabile giudizio di una commissione da me presieduta.» «E chi valuterebbe quanti giorni puoi lavorare da casa tu?» Marino trova la foto che mi vuole far vedere. «Io non ho bisogno di nessuna valutazione.» Mi mostra un primo piano del flybot. È difficile capire di cosa si tratti: sembra un oggetto in fil di ferro, lucido, posato su un foglietto di carta bianca sul tavolo di Dawn Kincaid. Potrebbe essere un orecchino, invece che un dispositivo micromeccanico. Un orecchino d’argento che è stato inavvertitamente calpestato. Che è stato calpestato è vero, mi conferma Marino. Lucy pensa che sia successo mentre i soccorritori cercavano di rianimare Goldman. Dawn Kincaid l’ha ritrovato quando è tornata a Norton’s Woods, forse con lo stesso lungo cappotto nero che indossava anche quando mi ha aggredito nel garage e che ritengo fosse di Fielding. Un testimone sostiene di aver visto una persona giovane, non sa dire se maschio o femmina, con un lungo cappotto nero, che girava per Norton’s Woods con una torcia elettrica alcune ore dopo la morte di Goldman. Una persona sola, e il teste ha trovato strano che fosse nel parco senza un cane. Sembrava cercasse qualcosa e gesticolava in maniera inconsueta. «Quel cappotto era troppo grande per lei, toccava per terra» dice Marino alzandosi. «Non so se volesse passare per un maschio, ma con i capelli corti, il cappottone, un cappello e un paio di occhiali, ci si poteva anche cascare. A meno che non le si vedesse il davanzale. Che roba, eh? Ha preso dal padre.» «Non mi pare che Fielding avesse il seno grosso.» «Volevo dire che sono tutti e due muscolosi.»

«Quindi è tornata nel parco appena ha pensato di non correre più rischi e, nonostante fosse danneggiato, il flybot ha risposto ai segnali radio inviati dai guanti.» Spengo l’iPad e lo restituisco a Marino. «Penso che l’abbia visto per terra, che magari brillasse alla luce della torcia, che l’abbia trovato così. Lucy dice che non funziona più. Kaput.» «Sappiamo a cosa serviva?» Marino si stringe nelle spalle. Torreggia sopra di me, ancora con la giacca a vento, che non si è nemmeno slacciato. Forse intendeva restare due minuti soltanto. «Non è il mio campo, lo sai. Non ho capito un tubo di quello che dicevano Lucy e il generale. So solo che il potenziale di questi aggeggi è enorme, che bisogna starci attenti. Il dipartimento della Difesa intende andare a fare una specie di ispezione alla Otwahl, per vedere cosa fanno veramente. Non credo che siano proprio all’oscuro di tutto, ti dirò.» «In che senso?» Marino infila l’iPad nella custodia. «Nel senso che a mio parere il governo sa perfettamente che qualcuno sta facendo questo tipo di ricerche, ma non vuole che si sparga la voce. Poi uno di questi scienziati impazzisce e scoppia un puttanaio. Ci siamo capiti? Quando pensi di tornare a lavorare?» «Oggi non credo» rispondo. «Be’, c’è un sacco da fare e disfare» mi dice. «Grazie. Lo sapevo già.» «Se hai bisogno, chiama. Adesso telefono in ospedale e mi faccio dire come sta la psicopatica.» «Grazie di essere passato a trovarmi.» Aspetto di sentire che è arrivato in fondo alle scale e poi che il portone si richiuda. Sento Benton che riattiva l’allarme e poi i suoi passi, molto più leggeri di quelli di Marino, che vanno verso il suo studio. «Alziamoci» dico a Sock, che apre gli occhi, mi guarda e sbadiglia. «Sai cosa vuol dire “bye-bye”? Non credo. Non penso proprio che ti abbiano insegnato anche questo, in carcere. Tu vuoi dormire e basta, vero? Be’, io ho delle cose da fare. Sei un bel pigrone, sai? Sicuro di aver corso? Hai mai vinto una gara? Non ci credo!» Lo sposto e scendo dal letto. Sono sicura che nei paraggi ci sia un negozio di animali che vende abbigliamento invernale per un levriero. «Forza, scendiamo!» Mi infilo le pantofole e la vestaglia. «Andiamo a vedere cosa sta facendo l’agente segreto Wesley. Sarà nel suo studio a telefonare. Scommettiamo? Lo so, è sempre al telefono. Dà fastidio anche a me. Magari ci porta a fare un po’ di spesa e poi io preparo la pasta, pappardelle al ragù, tutto rigorosamente fatto in casa. Vitello macinato, vino rosso, aglio e un po’ di funghi. Ti avverto, Sock: tu mangerai solo la tua pappa. Niente pasticci. Oggi mi sa che il tuo menu prevede quinoa e merluzzo.» Continuo a parlare con Sock mentre scendo le scale. «Vedrai che ti piacerà, dopo tutto quel riso e pollo che ti hanno propinato.»

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Autopsia virtuale di Patricia Cornwell © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Copyright © 2010 by CEI Enterprises, Inc. Titolo dell’opera originale Port Mortuary Ebook ISBN 9788852019371 COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: GIUSEPPE SARTORIO | IMMAGINE DI GIUSEPPE SARTORIO «L’AUTORE» || FOTO DI DEBRA GINGRICH © COPYRIGHT 2008 CEI