Attualità di Platone. Studi sui rapporti fra Platone e Rorty, Heidegger, Gadamer, Derrida, Cassirer, Strauss, Nussbaum e Paci 8834318226, 9788834318225 [PDF]

La filosofia di Platone costituisce un punto di riferimento primario per tutta la storia del pensiero occidentale, e il

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Attualità di Platone. Studi sui rapporti fra Platone e Rorty, Heidegger, Gadamer, Derrida, Cassirer, Strauss, Nussbaum e Paci
 8834318226, 9788834318225 [PDF]

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Zitiervorschau

Franco Trabattoni

ATTUALITÀ DI PLATO NE srUDI SUI RAPPORTI FRA PLATONE E RORTY, HEIDEGGER, GADAM ER, DERRIDA, CASSIRER, ST R A U SS, N U S S B A U M E PACI

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© 2000 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 Milano ISBN 978-88-343-1822-.r>

INTRODUZIONE

Nella mia ormai quasi trentennale attività di ricerca mi sono occu­ pato quasi esclusivamente di storia della filosofia antica. Il lavoro dello storico - ed è questo un titolo che rivendico con piena consapevolezza dell’importanza e dei limiti di tale compito - consiste principalmente nell’interpretazione dei testi, volta a stabilire che cosa l’autore volesse significare scrivendoli (o diffondendoli in altro modo, dato che nel pen­ siero antico non sono infrequenti casi di filosofi che si sono espressi solo oralmente). Mi rendo conto che al giorno d’oggi un obiettivo modesto come questo può essere facilmente considerato ingenuo, riduttivo, o addirittura impraticabile. Nell’epoca della decostruzione e del post-moderno si sente spesso dire che i testi, una volta definitiva­ mente separati dal padre che li ha generati (uso una metafora di matri­ ce derridiana), acquistano una completa autonomia. Per cui lo scopo dell’interprete sarebbe quello di lasciar parlare il testo in quanto tale, facendone emergere i suoi molteplici significati, che vanno molto al di là di quanto l’autore ha inteso consapevolmente esprimere. In tal modo il testo filosofico diviene disponibile per una serie infinita di ritessiture (questa volta prendo il termine da Richard Rorty), che poi costituisco­ no l’ordito di un modo di fare filosofia certo non indipendente dagli autori utilizzati, ma sostanzialmente libero dai vincoli e dalle cautele a cui invece è legato il lavoro propriamente storiografico. Ammetto senza difficoltà non solo che si tratta di un’operazione del tutto legittima, ma anche che essa è alla base di alcune fra le più inte­ ressanti produzioni della filosofia contemporanea. In fondo, se si vuole continuare a fare filosofia anche oggi, rifiutando l’idea che viviamo ormai in una stagione di basso impero in cui ai filosofi non rimane che trasformarsi in commentatori, si tratta di una scelta quasi obbligata. Il panorama filosofico del Novecento contempla sia pensatori estremamente colti sul piano storiografico, sia pensatori che lo erano molto meno (ad esempio Husserl e Wittgenstein), e non è dettto che i più interessanti siano sempre i primi (il detto eracliteo secondo cui il molto sapere non insegna ad avere intelletto conserva tutta la sua attualità). E tuttavia anche i filosofi più creativi, se così vogliamo dire, e meno interessati alla tradizione, non hanno potuto evitare di espor­ re le proprie tesi in costante confronto con i filosofi del passato (o almeno con alcuni di essi, ritenuti particolarmente importanti). Il cita­ tissimo detto di A. N. Whitehead, secondo cui tutta la storia del pen­ siero occidentale non sarebbe altro che una serie di note a pié di pagi­

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na al testo di Platone, in realtà non vuole dire (espungendo l’iperbo­ le) altro che questo: è ben difficile che un pensatore contemporaneo possa esporre tesi filosoficamente rilevanti senza che esse prevedano un confronto, implicito o esplicito, con qualcosa come “la filosofìa di Platone” o “il platonismo”. Se questo è vero, l’idea di svincolare in qualche modo il testo filosofico dal suo autore e dalle supposte inten­ zioni che governavano la sua scrittura sembra essere l’unico modo pra­ ticabile che ci è rimasto per fare filosofia, poiché se è vero che è impos­ sibile filosofare in astratto senza chiamare in causa i grandi autori del passato, è anche vero che non si può pretendere che i filosofi “teoreti­ ci” (uso la terminologia corrente nell’accademia italiana) possiedano le stesse competenze storiografiche che sono invece essenziali per gli storici. Ciò comporterebbe, fra l’altro, un enorme dispendio di ener­ gie nella consultazione e nell’analisi di una letteratura secondaria che ormai è d’obbligo chiamare “sterminata”. Detto questo, è ben chiaro che il lavoro dello storico ha una natura molto diversa. Per il momento mi accontento di far notare che a questo lavoro dovrebbe essere consentita almeno una pari legittimità. E non sarebbe nemmeno il caso di dirlo, se non fosse che tale legittimità viene continuamente messa in discussione: in particolare proprio in Italia, dove fin dagli anni ’50 si è avviata una diatriba noiosa non ancora del tutto sopita. Ancora oggi molti ritengono che lo storico della filosofia sia una sorta di polveroso antiquario, impegnato a leggere testi margi­ nali o a dirimere questioni irrilevanti, del tutto avulso da quella che è la filosofia propriamente detta; ovvero, come ho sentito dire da un colle­ ga qualche anno fa, che il rapporto tra filosofi “teoretici” e storici sia paragonabile a quello che intercorre tra i giocatori di calcio e gli spet­ tatori allo stadio. Corollario di questa disistima è l’idea che il teoreta, poiché provvisto di una naturale capacità di comprensione dei proble­ mi filosofici ignota allo storico, dovrebbe trascurare la letteratura sto­ riografica per pura e semplice igiene mentale, per lasciare la sua mente libera di elaborare le proprie idee in modo creativo (che è poi più o meno quello che diceva Cartesio; ma ovviamente in relazione a un tempo e a una cultura assai diversi dai nostri). La disistima nei confronti della storia della filosofia, di cui ho appe­ na detto, mi è sempre sembrata piuttosto bizzarra. Perché - mi sono chiesto spesso - si ritiene del tutto naturale che esistano, oltre agli arti­ sti, storici dell’arte, oltre ai letterati, storici della letteratura, oltre agli imprenditori, storici dell’economia; e invece si ritiene meno legittimo che esistano, oltre ai filosofi, degli storici della filosofia? Ora mi sono convinto che a questa domanda vi è una risposta ben precisa, che in parte dipende dalle considerazioni che ho fatto sopra. Tra il lavoro del­ l’artista e il lavoro dello storico dell’arte (userò questo esempio come

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indicativo per tutti i casi) in fondo non vi è nessuna interferenza. Non così invece tra il lavoro del filosofo e il lavoro dello storico della filoso­ fìa. Se è vero, come ho detto, che oggi il filosofo difficilmente può esi­ mersi dal confrontarsi con i grandi autori del passato, qui lo storico della filosofia sembra avere una importante voce in capitolo: una voce, intendo dire, che richiama il filosofo all’uso corretto delle sue fonti, e mette continuamente in discussione l’uso teoretico di autori, testi e categorie storiografiche, ove si suppone che questi riferimenti siano liberamente rielaborati a dispetto della reale natura dei testi e dell’evi­ denza storica che vi si manifesta. Credo che buona parte delle critiche mosse dai filosofi agli storici dipenda proprio dall’insofferenza nei con­ fronti di questi richiami. Così si sviluppa una controversia apparente­ mente molto dificile da risolvere: allo storico che accusa il filosofo di scarsa acribia storiografica, il filosofo oppone l’accusa di scarsa sensibi­ lità filosofica. Una soluzione in realtà ci potrebbe essere, ed è di carattere strettamente pratico: filosofi e storici della filosofia svolgano pure separatamente il loro lavoro, senza intralciarsi a vicenda. Ma ciò che è semplice sul piano pratico lo è molto meno sul piano teorico. Da un lato, come detto sopra, è praticamente impossibile fare filosofia disinteressandosi della storia della filosofia. Dall’altro è anche vero che chi fa buona sto­ ria della filosofia non fa solo storia, ma fa anche filosofia. E qui è venu­ to il momento di dire qualcosa anche a proposito della storia della filo­ sofia e delle sue possibili deformazioni. La storia in quanto tale non esi­ ste perché la storia è sempre storia di qualcosa. Per cui, così come nel­ l’espressione “storia dell’arte” il termine qualificante l’impresa che essa descrive non è “storia” ma “arte”, allo stesso modo nella storia della filo­ sofia l’elemento qualificante è che l’oggetto della ricerca sia la filosofia. Ora, di fatto, questo avvertimento non è sempre tenuto ben presente dagli storici della filosofia, e ciò fa sì che la diffidenza dei “teoreti” sia in qualche caso giustificata: lo storico che in realtà non si occpa di filo­ sofia non ha ovviamente alcun titolo per interferire in un modo qual­ siasi nel lavoro del filosofo. Ma questo vuole anche dire che se lo storico della filosofia si occupa davvero di filosofia le interferenze con il filosofo sono inevitabili; e in questo caso l’insofferenza del filosofo non è giustificata. Non lo è pro­ prio per la natura particolare che ha la filosofia al giorno d’oggi (men­ tre Cartesio, per tornare al caso che citavamo sopra, poteva forse avere delle buone ragioni per ritenere che al tempo suo fosse necessaria una specie di epoche radicale). Cercherò spiegarmi con un esempio, relativo a uno dei filosofi protagonisti di questo libro, ossia Martin Heidegger. Come è noto, Heidegger ha elaborato una parte essenziale del suo pen­ siero sulla base della nozione di oblio dell’essere, che sarebbe a suo

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parere il tratto comune della metafisica occidentale; tale oblio dell’es­ sere si regge, a sua volta, sull’occultamento della nozione originaria di verità, che con Platone muta il suo significato di “non-velatezza” nel significato di “correttezza (dello sguardo)”. Ora, è chiaro che Heidegger potrebbe sostenere un particolare tipo di ontologia, e la nozione di verità che le è collegata, senza fare alcun riferimento a indi­ catori storici come “la metafisica occidentale” o “Platone”. Di fatto però non è così. Di fatto il riferimento alla storia della metafisica occidenta­ le e a quello che si è verificato in essa prima e dopo di Platone è un aspetto essenziale e determinante della sua stessa filosofia. Senza queste valutazioni “storiche” non ci sarebbe nemmeno il punto di vista teoreti­ co. Così, quando Heidegger nei suoi ultimi anni ha riconosciuto al filo­ sofo e storico del pensiero antico Paul Friedlànder che già nel lessico omerico il termine greco àÀf|0£ia non possedeva più il supposto signi­ ficato etimologico di “non svelatezza”, solo un osservatore molto condi­ scendente potrebbe ritenere che si tratti di un indifferente aggiusta­ mento storiografico. Un osservatore più attento, o piuttosto più indipendente, dovrebbe invece riconoscere che questo “piccolo aggiusta­ mento” proietta un’ombra pericolosa su tutto il pensiero di Heidegger: se fosse vero che Heidegger ci ha raccontato una storia che non è mai esistita, probabilmente anche le conclusioni filosofiche che ne ha trat­ to sarebbero in pericolo, perché proprio quel particolare tipo di storia costituisce il loro fondamento primario. Insomma - e in generale -, dato che la storia della filosofia è oggi tanto importante in sede di elabora­ zioni teoretiche, credo che sia interesse soprattutto del filosofo in quan­ to filosofo tenere conto delle storie filosofiche della filosofia: un’imma­ gine superficiale della storia della filosofia, o di alcuni suoi aspetti, potrebbe infatti suggerirgli idee filosofiche scarsamente fondate (e dun­ que anche scarsamente interessanti). I saggi raccolti in questo volume nascono soprattutto dall’impressio­ ne che per quanto riguarda Platone (l’autore di cui mi occupo) questo fecondo rapporto tra filosofi e storici della filosofia sia quasi inesisten­ te, al punto che certe ambiziose costruzioni teoriche sembrano sorreg­ gersi in gran parte su una semplicisica e stereotipata nozione di ciò che si pretendono essere “Platone” e il “platonismo”. Questa immagine sem­ plicistica, ormai decisamente messa in crisi da decenni di serie indagini di storiografia filosofica, è alla base dell’antiplatonismo così diffuso nella cultura filosofica contemporanea: un antiplatonismo che si fonda, a mio avviso, su alcuni radicati pregiudizi, circa la reale natura della filo­ sofia di Platone, che sarebbe urgente correggere. Tale urgenza, come ormai dovrebbe essere chiaro, non è dettata soltano da esigenze di pun­ tualizzazione storiografica. Sono infatti persuaso che una rinnovata e più corretta immagine della filosofia di Platone possa costituire un inte-

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ressante punto di partenza e di confronto per il pensiero contempora­ neo. Così come in generale è vero, io credo, che una buona storia della filosofia possa e debba dare il suo contributo alla riflessione speculativa. Qui però il discorso generale e il progetto particolare di questo libro devono essere tenuti distinti. Non è ovviamente compito mio valutare se i miei studi sul pensiero di Platone costituiscono o no un caso di buona storiografia filosofica. Ed è chiaro, d’altra parte, che quanto esposto in queste pagine si regge proprio sulle ricerce storiografiche a cui ho accennato. Per cui mi regolerò in questo modo. In primo luogo faccio notare che l’antiplatonismo “teoretico” di cui ho detto è seriamente messo in forse, nel panorama attuale degli studi platonici, anche da numerosi altri modelli interpretativi diversi dal mio. Per cui il discorso generale che ho condotto fin qui rimane valido anche se non si accetta l’immagine di Platone e del platonismo da me elaborata. In secondo luogo, non potendo riprodurre in questa sede le analisi storiogafiche che mi hanno condotto a proporre tale immagine, premetto come primo capitolo un saggio in cui le linee principali del mio orientamen­ to sono tratteggiate in modo sintetico. Chi volesse invece conoscere queste analisi in dettaglio, può anzitut­ to consultare i testi via via richiamati nelle note. Ma poiché i saggi con­ tenuti in questo libro sono stati scritti in tempi diversi, e poiché ho deci­ so di ripubblicarli nella loro forma originaria (salvo qualche correzione e aggiustamento qua e là), è evidente che molti degli scritti che ritengo importanti in rapporto all’immagine di Platone di cui ho detto non vi compaiono, in quanto non erano ancora stati stampati. Di conseguen­ za ho ritenuto opportuno presentarne qui una lista indicativa, che com­ prende sia scritti già citati in alcune note sia scritti che non vi compaio­ no. Tra i volumi, Platone, Carocci, Roma 1998; Platone, Liside, a c. di Franco Trabattoni, 2 voli., LED, Milano 2004 e La verità nascosta. Oralità e scrittura in Platone e nella Grecia classica, Roma, Carocci Editore 2005. Tra i saggi, comparsi in riviste, atti di convegmi o volumi collettivi, si vedano i seguenti: Alcune considerazioni generali sul Socrate di Platone, «Rivista di storia della filosofia» 51 (1996), pp. 895-906; Il pensiero come dialogo interiore (Theaet. 189e4-190a6), in II Teeteto di Platone: strutture e problematiche, a c. di G. Casertano, Loffredo, Napoli 2002, pp. 175-187; L ’orientamento al bene nella filosofia di Platone, in New Images of Plato. Dialogues on the Idea of the Good, Ed. by G. Reale and S. Scolnicov, Academia Verlag, Sankt Augustin 2002, pp. 294-304; L ’errore di Socrate, in M. Barbanti - F. Romano (a cura di), Il Parmenide di Platone e la sua tra­ dizione, Catania 2002, pp. 143-153; Il sapere del filosofo, in M. Vegetti (a cura di), Platone. La Repubblica, voi. V, libri VI-VII, Bibliopolis, Napoli 2003, pp. 151-186; Il dialogo come “portavoce” dell’opinione di Platone. Il caso del Parmenide, in M. Bonazzi - F. Trabattoni (a c.), Platone e la tradizione

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platonica. Studi di filosofia antica, Cisalpino, Milano 2003, pp. 151-178; Unità della virtù e autopredicazione in Protagora 329e-332a, in II Protagora di Platone: struttura e problematiche, Voi I, a c. di G. Casertano, Loffredo, Napoli 2004, pp. 267-291; Sui caratteri distintivi della “metafisica” di Platone (a partire dal Parmenide), «Methexis» 16 (2003), pp. 43-63; Platone ontoteologo?, «Rivista di Storia della filosofia» 59 (2004), pp. 921-930; Esiste un’ontologia in Platone?, in E. Storace (cur.), La storia dell’ontologia, Albo Versorio, Milano 2005, pp. 9-29; Il “circolo virtuoso” del linguaggio. Sul significato del Cratilo platonico, in G. Casertano (cur.), //Cratilo di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, Napoli 2005, pp. 150-181; Dialettica e persuasione nei dialoghi di Platone, in G. Reggi (cur.) Letteratura e riflessione filosofica nel mondo greco-romano, Sapiens editrice, Lugano 2005, pp. 4159; Aóyoq e 8ói;a: il significato della confutazione della terza definizione di E7itoxr|gT| nel Teeteto, «Rivista di cultura classica e medievale», 48 (2006), pp. 11-27; L ’intuizione intellettuale in Platone. In margine ad alcune recenti pubblicazioni, «Rivista di Storia della filosofìa» 61 (2006), pp. 701719; Plato: Philosophy, Politics and Knowledge. An Overview, in A. BoschV eciana-Josef Monserrat-Molas (eds.), Philosophy and Dialogue. Studies on Plato’s Dialogues, Voi. I, Societat Catalana de Filosofia, Barcelona 2007, pp. 223-246; Esiste, secondo Aristotele, una “dottrina platonica delle idee”?, «Methexis» 20 (2007), pp. 159-180. Ecco ora l’indicazione delle sedi originali in cui sono stati pubblica­ ti i saggi qui ristampati, e delle fonti degli inediti: Capitolo 1: versione leggermente abbreviata di L ’argomentazione pla­ tonica^ flpopÀrniaxa», 1 (2001), pp. 7-38. Capitolo 2: Platone, Rorty e la “violenza” della metafisica, «Pratica Filosofica» 10 (1996), pp. 175-197. Capitolo 3: Platone, Rorty e la consolazione della filosofìa,«Arte Estetica» 5 (1997), pp. 31-52. Capitolo 4: La filosofia è una cosa seria ?,«Rivista di storia della filoso­ fia» 52 (1997), pp. 597-610. Capitolo 5: traduzione italiana di un testo in francese in corso di pubblicazione negli atti del colloquio internazionale “Platon et Heidegger”, Nizza, 5-6 febbraio 2008. Capitolo 6: testo in corso di pubblicazione negli atti de The VII Symposium of the International Plato Society, Dublino, 23-28 luglio 2007. Capitolo 7: facques Derrida e le origini greche del logocentrismo (Platone, Aristotele), «Iride. Filosofia e discussione pubblica», 17 (2004), pp. 547568. Caiptolo 8: Ernst Cassirer e /.’“estetica platonica”», in Ernst Cassirer, Eidos e eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei. dialoghi, di Platone. Postille

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di Mauro Carbone, Renato Pettoello, Franco Trabattoni, Edizioni Libreria Cortina, Milano 1998, pp. 103-134. Capitolo 9: testo in corso dipubblicazione negli atti del convegno Leo Strauss tra antico e moderno, Milano, 10 maggio 2007. Capitolo 10: Platone, Martha Nussbaum, e le passioni, in G. Giardina (cur.), Le emozioni secondo i filosofi antichi, Atti del convegno nazionale, Siracusa 10-11 maggio 2007, CUECM, Catania 2008, pp. 39-61. Capitolo 11: Sulle tracce dell’armonia. Enzo Paci, il telos e il Greci, in E. Renzi-G. Scaramuzza (a cura di), Omaggio a Paci. II. Incontri, Cuem, Milano 2006, pp. 219-237. È doveroso avvertire che non sono un esperto, tanto meno uno spe­ cialista, di nessuno degli autori discussi in questi saggi. Sono dunque ben consapevole che gli addetti ai lavori potrebbero rinvenirvi delle tracce di dilettantismo, e me ne scuso in anticipo. A mia discolpa invo­ co la buona intenzione di cui ho detto sopra, ossia quella di promuove­ re un dialogo reale ed efficace tra filosofi e storici della filosofìa. Infine, qualche ringraziamento. Sono grato in primo luogo ai diret­ tori delle riviste, ai curatori di volumi collettivi e agli organizzatori dei convegni per avermi concesso di ristampare (o di pubblicare) i testi contenuti in questa raccolta. All'amico Mauro Bonazzi devo un prezio­ so aiuto per la correzione delle bozze. Ringrazio di cuore il mio caro amico Roberto Radice per aver accettato di accogliere il libro nella col­ lana di Vita 8c Pensiero da lui diretta. Milano, 18 ottobre 2008.

Capitolo I

L’argomentazione platonica*

1. Se cè una caratteristica che dovrebbe distinguere il discorso filo­ sofico da ogni altro tipo di discorso (ad esempio dal discorso mitico o dal discorso poetico), la prima cosa che viene in mente è che essa con­ siste nell’uso dell’argomentazione. Tuttavia, anche se assumiamo prov­ visoriamente che questa impressione sia fondata, in realtà non abbiamo fatto un grosso passo avanti. Ci resta pur sempre da capire, infatti, che cosa si intende per «argomentazione». Il pensiero antico ci fornisce, a questo proposito, una risposta pressoché univoca, almeno da un punto di vista generale. Aristotele, quando nel I libro della Metafisica consacra Talete, per tutti i secoli a venire, come primo filosofo della storia, giu­ stifica questa tesi nella maniera seguente1. Se muoviamo dal punto di vista dei contenuti, la nota asserzione di Talete secondo cui principio è l’acqua non può considerarsi nuova, né differente nella sostanza dal discorso mitico secondo cui tutte le cose sono nate da Oceano e Teti (che erano due divinità marine). Ciò che differenzia il discorso di Talete da quello mitico consiste piuttosto nel fatto che Talete è arrivato alla sua conclusione mediante un certo genere di argomentazione. Egli avrebbe notato (diciamo «avrebbe» perché lo stesso Aristotele correda la sua esposizione con un «forse»2) che tutte le cose hanno la loro ori­ gine nell’elemento umido; generalizzando queste osservazioni partico­ lari, sarebbe giunto così ad individuare un unico principio attivo in ogni singola cosa, e dunque capace di raccogliere le differenze in una unità universale: sarebbe riuscito, in altre parole, a conquistare un punto di vista in cui le differenze non sono decisive, a patto che si con­ centri l’attenzione sugli elementi comuni. Non senza ragione questo momento della storia della filosofìa è sempre stato descritto come un passaggio dal mito al logos. Infatti la parola greca «logos» è legata al verbo legein, che significa «dire», ma anche “raccogliere”. Talete, insomma, avrebbe raccolto dalle cose dif­ ferenti che si trovava di fronte un elemento comune, e lo avrebbe inte­ so come loro principio. In realtà è questionabile, se non del tutto improbabile, che Talete abbia utilizzato la parola greca arche (princi­ * Versione abbreviata di L'argomentazione platonica,«TlpoPki^iara», 1 (2001), pp. 7-38. 1 983bl8-984a5. 2 983b22.

ATTUALITÀ DI PLATONE

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pio) nel modo voluto da Aristotele. Occorre anche avvertire che nell’o­ perazione attribuita da Aristotele a Talete sono presenti due momenti diversi, che non si implicano affatto a vicenda. Una cosa, infatti, è indi­ viduare un procedimento mediante il quale si istituisce una differenza tra particolare ed universale. Tutt’altra cosa è dire che questo universa­ le è principio di quel particolare. Chi voglia affermare la verità di que­ sta proposizione è costretto, fra le altre cose, a specificare che cosa intende per principio, e a dire in che senso ritiene che l’universale sia principio del particolare. Questo problema giunse ad uno stadio molto avanzato di elaborazione già con Platone e con Aristotele, ma ora lo lasceremo da parte, perché non è rilevante per il nostro scopo presen­ te. Ora ci interessa piuttosto sottolineare il fatto che la prima forma in cui si è storicamente presentata l’argomentazione filosofica, anche sulla base di quanto hanno detto i filosofi che per primi hanno riflettuto cri­ ticamente sulla loro attività (come appunto Aristotele), consiste nell’istituire un rapporto tra universale e particolare. Lo stesso Aristotele, sempre nel libro I della Metafisica, ci fa anche capire che il primo filosofo greco che ebbe chiara consapevolezza della centralità teorica di questo metodo fu Socrate. Socrate, spiega Aristotele, concentrò per primo la sua attenzione sui termini o concet­ ti generali3. Sappiamo infatti che egli soleva chiedere il «che cos’è» di una certa cosa, precisando esplicitamente che non accettava risposte aventi per oggetto cose singole o particolari, ma che era invece interes­ sato a risposte capaci di cogliere più cose insieme in un’unica defini­ zione. Questo procedimento è riccamente documentato dai dialoghi di Platone (vedremo fra poco qualche esempio), in cui la figura di Socrate e il suo metodo occupano una posizione di assoluto rilievo. Tutti cono­ scono anche la differenza che Aristotele rileva, a proposito dell’univer­ sale, tra Socrate e Platone: quest’ultimo avrebbe affermato, distanzian­ dosi in ciò dal suo maestro, che gli universali sono separati dalle cose (cioè che l’universale è separato dal particolare4). «Separato» (o, forse meglio, «separabile») è termine tecnico della filosofia di Aristotele, ed è un indicatore significativo per indagare la difficilissima questione del rapporto fra i due massimi filosofi del mondo antico. Ma anche di questo possiamo al presente non occuparci. Interessante è invece notare che il testo platonico è uno dei luoghi pri­ vilegiati in cui, attraverso il modo socratico di indagare, si fa consape­ vole la posizione secondo cui l’argomentare filosofico consiste nel porre in rapporto dialettico particolare e universale. La prima tesi che intendo sostenere in questo saggio è che in tal modo viene alla luce la 3 987M-4. 4 Metaph. XIII, 1079b30 sgg.

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natura di base di qualunque tipo di argomentazione, attiva sia prima che qualcuno iniziasse a riflettere consapevolmente su di essa, sia dopo che la reazione «post-moderna» contro il logocentrismo ha esplicita­ mente iniziato a polemizzare contro di essa. Quello che intendo dire, più concretamente, è che la utilizzano anche quanti dicono di negarla, ed anzi la utilizzano nell’atto stesso in cui mettono in opera gli stru­ menti con cui la negano. La seconda tesi, più articolata, consiste nel tentativo di mostrare (contro le semplificazioni purtroppo ancora cor­ renti) che la discussione platonica del rapporto universale/particolare è consapevole dell’elevata problematicità del suo oggetto, e che pone l’accento su alcuni motivi intorno ai quali è ancora urgente interrogar­ si. Questo viene a dire, in altre parole, che la prospettiva platonica, se correttamente oltre che latamente intesa, è ancora oggi l’orizzonte in cui non può non muoversi il discorso filosofico, e che i tentativi di costruire percorsi ad esso estranei o sono falliti o sono dovuti a sempli­ ci equivoci. 2. Normalmente si ritiene che definirsi «platonici» sia una cosa assai impegnativa, perché ciò comporterebbe l’accettazione di principi filo­ sofici molto forti, e per di più ormai praticamente privi di corso legale. Esempi di tali principi possono essere l’assunzione che esista un’intui­ zione intellettuale capace di schiudere con trasparenza, all’occhio della mente, la realtà metafisica delle idee; l’assunzione che l’uomo si possa collocare al cospetto della «perentoria presenza dell’essere»5; l’assun­ zione che sia possibile dedurre apoditticamente la struttura del parti­ colare dalla conoscenza dell’universale (ed eventualmente adottare le misure politiche coercitive indicate in questa situazione); l’assunzione secondo cui lo strumento del linguaggio, in cui si riflette il pensiero, sarebbe in grado di definire in maniera compiuta ed ultimativa la natu­ ra di ogni singola idea. In realtà nessuna di queste tesi può essere cor­ rettamente ascritta a Platone. Platone non riteneva disponibile all’uo­ mo, almeno fino a che l’anima si trova incarnata in un corpo, nessun tipo di intuizione intellettuale; neppure credeva, in accordo con quan­ to dirà poi anche Aristotele, che esistesse qualcosa definibile come «l’essere»; non pensava affatto che il particolare fosse ricavabile dall’u­ niversale; aveva, infine, una coscienza ermeneutica del linguaggio e del pensiero (che ha sempre forma linguistica), alla luce della quale il lin­ guaggio si presenta come un ambito infinitamente indagabile e senza fondo, incapace di produrre conclusioni o determinazioni definitive. Tanto meno si potrà dire, di conseguenza, che le assunzioni sopra enunciate costituiscono, tutte o in parte, la struttura portante del modo 5 L'espressione è di ( .. Valliino, Oltre iinterpretazione, Roma-Bari 1994, p. 40.

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platonico di fare filosofia. Per quanto riguarda, invece, il classico prin­ cipio metafisico dei «due mondi», è necessaria qualche cautela in più. Sarebbe infatti difficile, anche alla luce di una lettura non ingenua dei dialoghi, sostenere che Platone non abbia mai affermato nulla di simi­ le. C’è da dire però che tale principio, almeno finché l’indagine si arre­ sta all’ambito ontologico e gnoseologico (senza sconfinare, cioè, nel­ l’ambito etico), può essere anch’esso decostruito in chiave ermeneuti­ ca. Si potrebbe sostenere, in altre parole, che la teoria dei due mondi sia solo una brillante metafora per affermare la vicarietà, la non esau­ stività del mondo in cui l’uomo si trova effettivamente a vivere; e sono indubbiamente pensabili dei quadri di riferimento in cui l’orizzonte mondano appare «secondo» nel senso ora precisato, senza che ciò com­ porti assunzioni realistico/dogmatiche sulla reale esistenza di un altro mondo e sulla conoscibilità della sua natura. Discutere analiticamente gli indicatori (pseudo) platonici che abbia­ mo sopra enunciato ci costringerebbe a compiere un percorso troppo lungo. In questa sede, in particolare, non possiamo nemmeno tentare di dimostrare che il pensiero, per Platone, ha sempre natura dialogicodiscorsiva, perché anche quando viene espresso nel dialogo parlato ha comunque l’aspetto di un dialogo che l’anima compie con se stessa6. Assumeremo perciò questo punto di vista come un’ipotesi di partenza, senza discuterla. Del resto il principio determinante ed essenziale della filosofia di Platone, che ora ci interessa, è in realtà un altro. Esso consi­ ste nel dire che l’analisi del particolare, per quanto venga reiterata in più tempi e da persone diverse, darà alla fine sempre lo stesso risultato, e cioè che il particolare rinvia necessariamente all’universale, come condizione ineludibile del fatto che il particolare possa essere pensato e detto nel modo in cui gli uomini effettivamente lo pensano e lo dico­ no. L’universale, in altri termini, è condizione della parola e del pen­ siero - almeno di quella parola e pensiero che si manifestano come logos. Del resto, se legeinvuole dire davvero «raccogliere», questa affer­ mazione non si discosta molto dalla tautologia. L’asserzione non tauto­ logica consiste nell’affermazione dell’esistenza di qualcosa come il logos e nell’individuazione della sua struttura nel rapporto biunivoco (o rimando pendolare) tra particolare ed universale. 6 Ho già parzialmente trattato questi argomenti in Scrivere nell'anima. Verità, dialettica e persuasione in Platone, Firenze 1994, e in Oralità e scrittura in Platone, Milano 1999. Analisi più specifiche appariranno in altri miei studi, alcuni in corso di pubblicazione ed altri in via di elaborazione. Il riferimento più imme­ diato sono i passi 189e-190a del Teetetoe 263e del Sofista (quest'ultimo passo non a caso è citato da H.-G. Gadamer in Verità e Metodo, pag. 468 della traduzione ita­ liana, Milano 1983), ma anche l'analisi dei libri centrali della Repubblica, dellVxcursus filosofico della VII lettera e di altri passi salienti, dà lo stesso risultato.

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La posizione ora riassunta si differenzia sia da quella di Aristotele sia da quella di Kant. Tratteremo per primo questo secondo punto, sia perché è il più semplice, sia perché meno rilevante per il discorso che intendiamo svolgere. Nel corso del Parmenide il giovane Socrate, per difendere la «dottrina delle idee» dalle incalzanti obiezioni del filoso­ fo eleate, a un certo punto avanza l’ipotesi che le idee siano soltanto pensieri, e cioè che esistano solo nelle anime7 (in termini moderni diremmo «nella mente»). Questa proposta viene però subito confuta­ ta da Parmenide perché contrasta con il principio della partecipazione delle cose alle idee. Una cosa è bianca - così potremmo esemplificare - perché partecipa all’idea del bianco. Ma se l’idea del bianco fosse solo un oggetto del pensiero, si creerebbe una strana commistione tra pensieri e cose, superabile solo con l’ipotesi «idealistica» estrema (e assurda) secondo cui le cose stesse non sarebbero altro che pensieri. Questo argomento spiega assai bene, al di là delle sue sottigliezze, la differenza tra il modo di ragionare di Platone e quello di Kant. Se il pensiero coglie l’unità nelle cose, per quanto la sua comprensione di questa unità possa essere limitata dalla circolarità ermeneutica dell’e­ spressione linguistica (a cui il pensiero è vincolato), l’unità deve esse­ re comunque un dato oggettivo, una caratteristica della realtà, non un prodotto della facoltà unificante propria del pensiero stesso. Le idee, in altre parole, sono pur sempre oggetti colti dal pensiero (nella misu­ ra in cui sono colti), e sono separate sia perché sono altre dalle cose, sia perché sono altre dal pensiero. D’altra parte, la certezza che le idee non esistano solo nel pensiero è dimostrata dal fatto che, in caso con­ trario, il pensiero sarebbe in grado di comprenderle in modo chiaro e distinto, semplicemente lavorando dentro di sé in quanto pensiero. Ma questo è appunto ciò che non si verifica. Uno dei problemi più gravi che Parmenide, nel dialogo omonimo, solleva a carico della teoria delle idee consiste appunto nel pericolo che le idee, se separate, sareb­ bero totalmente inconoscibili all’uomo. Ma in realtà il problema si configura anche nella maniera inversa: le idee devono essere separate, perché altrimenti sarebbero perfettamente conoscibili (cosa che inve­ ce non è). Il confronto con Aristotele ci impegnerà invece più a fondo, perché a mio parere lo Stagirita è colui che ha dato forma articolata a quella che possiamo chiamare la concezione naturale del linguaggio (e a una dottrina dell’argomentazione ad esso adeguata), che ha in qualche modo dominato la cultura filosofica occidentale sino alla nascita della coscienza ermeneutica; e perché questo orientamento, a mio parere, è dovuto in buona parte al fatto che Aristotele ha in qualche modo occul7 132b.

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tato c* messo a tacere tuta prospettiva ermeneutica già ben presente nel­ l’opera di Platone. Platone ed Aristotele sono d'accordo, sia pure in modo diverso, nel dire che attraverso l’esperienza del particolare si manifesta l’universale. Trascurando di indagare se Aristotele ha ragione nel ritenere che per Platone l’universale è separato, e in che senso ciò può essere occasione di critica, c’è tra le due posizioni una differenza più sostanziale. Mentre per Aristotele l’universale si manifesta senza residui nel pensiero e nel linguaggio, per Platone il pensiero e il linguaggio sono il luogo in cui l’universale appare solo in forma di traccia (né sono disponibili fonti di informazione più complete). Questa situazione è resa in Platone dalla dottrina della reminiscenza, secondo la quale conoscere è ricordare: un ricordare, evidentemente, che si sviluppa per tracce, spezzoni e residui, dunque non può mai raggiungere lo stato di esaustività a cui vorrebbe ambire una definizione. «Definizione», infatti, è termine tecnico di Aristotele, e identifica una proposizione che unisce genere prossimo e differenze specifiche8. In Platone, invece, la famiglia lessicale che fa capo al verbo usato da Aristotele nel senso di «definire» ( orìzein) significa piuttosto «circoscri­ vere», «delimitare», «separare»9. Ciò può essere inteso anche nel senso di stabilire un limite tra due ambiti, mediante la duplice operazione di porre qualcosa da un lato e qualcosa dall’altro. In questo modo la defi­ nizione assume in Platone il colore di un procedimento negativo, che consiste nell’accrescere la conoscenza di una idea ponendola sempre al di là di un insieme di negazioni che aumenta indefinitamente. Se voglio indagare, ad esempio, la natura della bellezza, il procedimento corret­ to consiste nel «raccogliere» in insiemi di generalità crescente le cose che possono essere dette belle, dove da un lato la presenza del predica­ to comune della bellezza ha carattere parzialmente ma progressiva­ mente informativo riguardo che cosa la bellezza sia, ma dall’altro la bel­ lezza in sé è esclusa, sia perché non coincide con nessuna delle cose belle, sia perché ogni generalizzazione è sempre provvisoria e perfettibile: cioè al di là e separata da tutto ciò che si può cogliere con i sensi e con il pensiero. Questo procedimento, che assomiglia al metodo con cui la matematica moderna «delimita/definisce» i numeri reali, potreb­ be forse essere il modo corretto di intendere la separazione dell’idea platonica di cui parla Aristotele. Quello che è certo, in ogni caso, è che si tratta di un procedimento molto diverso da quello della definizione 8 Metaph. VII, 1037b24-1038a4. 9 Cfr., in proposito, le osservazioni su come intendere la «definizione» del­ l'idea del bene in Resp. 534b9 in P. Stemmer, Platons Dialektik. Diefrùhen und mittleren Dìaloge, Berlin-New York 1992, p. 194, e M. Vegetti, L'idea del bene nella Repubblica di Platone, «Discipline filosofiche» 1 (1993), pp. 221-223 e n. 7.

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aristotelica, in base alla quale, una volta individuato il genere prossimo e tutte le sue differenze specifiche, l’indagine semplicemente si arresta: e si arresta perché a questo punto il linguaggio, che è lo specchio fede­ le della cosa, è riuscito a catturare la cosa nella sua pienezza, e non c’è più alcun bisogno di proseguire l’indagine. Aristotele, in altre parole, non riconosce al linguaggio nessuna vicarietà, né metafisica (in cui il linguaggio è il riflesso imperfetto di una conoscenza metafisica non proposizionale) né ermeneutica (in cui il linguaggio è semplicemente senza fondo). Questo è il motivo per cui - fra le altre cose - la gnoseo­ logia aristotelica è molto più esposta al rischio del dogmatismo di quel­ la platonica. Ciò che garantisce Platone contro questa deriva dogmatica sarebbe, in questo caso, proprio la separatezza dell’idea tanto criticata da Aristotele. A questo punto qualcuno potrebbe chiedere che il metodo «plato­ nico» sopra enunciato venga mostrato all’opera nei dialoghi. Qui posso solo notare due cose. 1 dialoghi aporetici di definizione, in primo luogo, rispecchiano assai bene questa struttura. Trattandosi di dialoghi senza conclusione positiva, è ovvio che la risposta diretta alla domanda socratica da cui muove l’indagine alla fine non è stata trovata. E tuttavia sarebbe azzardato dire che la ricerca non ha fatto nessun passo avanti. La cosa cercata risulta essere diversa e al di là di tutte le proposte avan­ zate nel corso della discussione, e tuttavia i ricercatori ora possiedono qualche suggerimento orientativo per il loro lavoro: sono indubbia­ mente meno ignoranti di prima. La filosofia, per Platone non è altra cosa che la prosecuzione indefinita di questo lavoro, di questo procedi­ mento «delimitante». Esistono però molti dialoghi che non sono aporetici. Un esempio importante è la Repubblica, in cui sembra addirittura di trovare una defi­ nizione positiva di un oggetto del tipo di quelli sui quali si interrogava­ no invano i dialoghi aporetici (la giustizia). Ed ecco allora il mio secon­ do rilievo. Benché qualcosa del genere nella Repubblica effettivamente accada, non si tratta però di una definizione nel senso aristotelico del termine. La Repubblica potrebbe essere considerata, nel suo complesso, come il dialogo in cui Platone pone e risolve il problema, formulato alla maniera socratica, di dire «che cos’è la giustizia». La soluzione si profi­ la nel IV libro, a partire da, 433a, quando Socrate osserva che la giusti­ zia consiste nel rispetto del principio posto a fondamento di tutto lo stato: e cioè il principio secondo il quale ciascuno, nelle diverse classi, deve svolgere l’unica attività per la quale è naturalmente portato. Traducendo più avanti questo principio in una definizione sintetica (433e), Socrate afferma che la giustizia consiste nel possesso (exis) di ciò che è proprio ( oikeios) , nel senso di specificamente appartenente a cia­ scuno (heautou). Ancora più sinteticamente, poco sotto egli parla anche

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di oikeiopragia, cioè del «fare le cose proprie» (433c8). Possiamo dunque affermare, su questa base, di aver colto in modo completo e definitivo il significato della giustizia? Sarebbe in realtà una affermazione molto azzardata, e fondamentalmente scorretta. Non a caso Socrate dichiara esplicitamente più avanti che si tratta di una defi­ nizione approssimativa10. Non possiamo infatti non chiederci, dopo aver proposto la definizione, che cosa si intende per «proprio» e per «cose proprie». Sappiamo ad esempio che Antistene, un socratico fie­ ramente avverso a Platone, utilizzava la formula oikeios logos per indica­ re un discorso capace di definire la natura intrinseca di una cosa, e in questo senso ad esso proprio (cioè appropriato)11. Ma abbiamo anche buoni motivi per sospettare, sulla base di alcuni passi del Carmide, del Liside e del Simposio12 che Platone considerasse il concetto di «proprio» come di per sé vuoto, almeno fino a che non si sia in grado di precisa­ re in quale relazione il proprio sta con il buono (o il bene). Nel Carmide la formula «fare le cose proprie» (xà èauTOt) Ttpàxxetv) viene proposta dal giovane personaggio che dà il titolo al dialogo come risposta alla domanda socratica «che cos’è la saggezza? (oopa>cruvr|: 161b)». Subito dopo si scopre che si tratta in realtà di un’idea di Crizia, che viene poi coinvolto di persona nella difesa della sua tesi. Socrate infatti ha buon gioco nel mostrare a Carmide che la sua definizione è assolutamente vuota, che assomiglia più a un enigma che a una risposta. L’idea di Crizia consiste nel definire come buone le cose proprie e particolari di ciascuno (xà oikeioi xe kcù xà é(ruxoù:163d). Ma ancora una volta l’inci­ denza informativa di questa definizione è assai modesta. Se la saggezza è un bene, non basta dire che essa comanda di fare le cose proprie, per­ ché il proprio non ha di per sé nessuno riferimento specifico al bene e al male. Lo stesso Crizia, alla fine del dialogo, deve ammettere che la conoscenza offerta all’uomo dalla virtù della saggezza si rivela essere un bene solo se è conoscenza di ciò che è bene e di ciò che è male (l74b). Ma che ne è, allora, del «proprio»? Per citare la domanda su cui si chiu­ de, con un nulla di fatto, il Liside, dovremmo dire che il bene è il pro­ prio ( o ìk eio v ) di ciascuna cosa, o che il male è proprio di ciò che è cat­ tivo, il bene di ciò che è buono, il neutro del neutro (222c)? Detto in altre parole, il proprio è buono in quanto proprio, o si definisce pro­ prio solo ciò che è buono? E se scegliamo l’una o l’altra delle due stra­ de, possiamo con questo eliminare il rischio di circolarità? Se definisco il buono a partire dal proprio, non corro forse il rischio di intendere 10 Cfr. 443c. 11 Su Antistene cfr. A. Brancacci, Oikeios Logos: la filosofia del linguaggio di Antistene, Napoli 1990. 12 Del Carmide e del Liside diremo tra un attimo. Il luogo del Simposio a cui mi riferisco è 205e.

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come proprio ciò che ritengo essere, a priori e senza argomentazione, come buono? Se viceversa definisco il proprio a partire dal buono, non c’è forse il sospetto che io chiami buono semplicemente ciò che desi­ dero, ciò che percepisco come cosa mia e propria? Sarebbe per la verità assai ingenuo ritenere che la Repubblica appar­ tenga a una fase della filosofia di Platone diversa da quella dei dialoghi giovanili - cioè la fase in cui le complesse e confuse aporie dei primi scritti trovano una risposta stabile ed oggettiva -, per cui nel dialogo maggiore il circolo vizioso sarebbe risolto tramite la priorità del bene. Per affermare questo dovremmo poter dire che nella Repubblica Platone formula una definizione esaustiva del bene, e la usa come punto di par­ tenza per un percorso univoco che va dal buono al proprio e mai vice­ versa. Ma nella Repubblica, come tutti sanno, non c’è nessuna definizio­ ne del bene. Né si tratta di una mancanza del tutto contingente. Infatti, anche se prendessimo per buona la definizione del bene che si ricava dalla tradizione indiretta, ossia che il bene è l’uno13, il problema si riproporrebbe identico: possiamo davvero dire che l’unità determina il bene, o non dobbiamo piuttosto dire che il bene appare uno in base a un giudizio anteriore alla sua identificazione con l’unità (ad esempio che il bene è ordine, misura, proporzione)? Ma ancora, questo giudizio come sarà a sua volta fondato? In realtà non esistono vie percorribili per rimuovere in modo defi­ nitivo lo schema circolare che abbiamo ora illustrato. In esso si manife­ sta infatti una caratteristica strutturale ed ineliminabile del pensiero e del linguaggio, ossia la sua infinita declinabilità, la sua sostanziale man­ canza di fondo. Questa caratteristica interessa allo stesso modo, anche se non nella stessa misura, sia i dialoghi aporetici sia quelli conclusivi, tra i quali non vi è dunque nessuna differenza essenziale: ciò è dimo­ strato dal fatto che da un lato i dialoghi aporetici non sono mai del tutto privi di risultati (come abbiamo detto sopra); dall’altro che i dia­ loghi conclusivi non approdano mai a verità o definizioni assolute e definitive. Questo significa, d’altra parte, che la conoscenza umana non è confinata nello scetticismo (così come volevano alcuni sofisti, sulla base di considerazioni sulla natura del linguaggio per certi versi analo­ ghe a quelle di Platone), e che la filosofia può realmente fare qualche progresso. Basta avere l’accortezza di capire che i progressi della filoso­ fia sono legati all’ipotesi che il circolo ermeneutico possa valere anche come circolo virtuoso e non solo come circolo vizioso; all’accettazione 13 Ciò si deduce, secondo Hans Rràmer, dalla testimonianza di Aristotele. Cfr. i passi raccolti dallo stesso Kràmer in Dialettica e definizione del Bene in Platone, Milano 1989, pp. 58-62. Per una limitazione del peso della tradizione indiretta riguardo a questo problema cfr. F. Trabattoni, Scrivere nell'anima, pp. 168-173.

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del fatto che l’aumento di conoscenze può accadere solo nella forma nel progressivo squilibrio di probabilità, in cui la parte minoritaria non può mai essere azzerata. La ricerca, in altre parole, appare come un flusso continuo, che può essere arrestato e cristallizzato in una defini­ zione, in una verità acquisita, solo con una decisione arbitraria. Tali, appunto, sono le caratteristiche tipiche dell’indagare (Èqerd^eiv) di Socrate, il quale non caso nell 'Apologia platonica si prefigura una possi­ bile vita ultraterrena non già come il luogo in cui le domande trovano risposta, ma come il luogo in cui la ricerca può finalmente realizzare la sua natura infinita, senza essere limitata dal vincolo della morte14. Non c’è però solo la morte a porre dei punti fermi. Abbiamo detto sopra che gli arresti della ricerca possono essere prodotti solo con un moto arbitrario. Ma l’arbitrio non è il capriccio. In realtà tali arresti si rendono necessari, nella vita dei singoli e delle comunità, a causa dell’obbligo di agire, e dunque di scegliere. Così ha dovuto fare Socrate davanti ai giudici, che è stato costretto a scegliere senza il conforto di verità indubitabili o di certezze assolute, ma fidandosi del ragiona­ mento che sembrava più persuasivo alla sua ragione. Nella stessa linea il pitagorico Simmia, in un celebre passo del Fedone, ammette che in una questione come l’immortalità dell’anima è impossibile o difficilis­ simo conoscere qualcosa di certo nella vita presente; e che pertanto, sollecitati dall’obbligo di agire, agli uomini non resta che affidarsi al ragionamento meno confutabile (Suoe^eÀeyKÓTaxov), e usarlo come una zattera per attraversare il mare tempestoso della vita (85c-d). Così pure nella Repubblica, dove è in gioco anche la felicità collettiva, l’ana­ lisi individua una serie di buoni argomenti per dire che la giustizia è rotK£i07tpayia, in cui la bontà del «fare le cose proprie» è sostenuta da ragionevoli considerazioni sulle diverse attitudini naturali degli uomi­ ni, sulla preferibilità dell’ordine in rapporto al caos, sulla superiorità dell’intelletto nei confronti degli istinti, ecc.: dove però è chiaro che l’indagine su II’o ìkeio v e sul bene e sui loro rapporti reciproci è affetta dalla natura infinita del logos e dell’esercizio dialettico (StaÀéyeaGat) in cui esso si esprime. Così, l’esigenza pratica di agire sollecita un taglio all’indagine, centrato in modo preciso sui logoi che appaiono fino a questo momento come non confutati, mentre il termine vero della ricerca si sposta nel luogo ideale, ma inesistente, in cui la probabilità diventa certezza, l’inconfutato diventa inconfutabile, e ogni ulteriore possibilità di dubitare è svanita. Va da sé che questo non luogo è anche il luogo dove il logos, il 8ictÀéyea0ai e l’è^cxd^eiv sono definitivamente scomparsi. 14Apolog., 41b.

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3. Riassumiamo brevemente le conclusioni che abbiamo raggiunto. Nel primo paragrafo abbiamo tentato di stabilire che per Platone qua­ lunque forma di ragionamento ha carattere sempre e solo proposizio­ nale, e che si configura come l’atto di raccogliere (legein) e alternativa­ mente dividere l’unità nel molteplice. Nel secondo paragrafo abbiamo voluto mostrare che tale procedimento, pur esprimendosi in modo lin­ guistico, non ha caratteristiche definitorie né scientifico-deduttive, per­ ché connesso a una precoce consapevolezza della natura ermeneutica del linguaggio: una consapevolezza che sposta l’obiettivo della ricerca dalla certezza alla probabilità, dalla dimostrazione alla persuasione. Ora vedremo brevemente i presupposti teorici di questo metodo, come esso si sviluppa e si articola in equidistanza dai due opposti pericoli dello scetticismo - inevitabile per chi muova da una coscienza ermeneutica senza vedere altro che il circolo vizioso - e del dogmatismo - approdo naturale sia di chi confida in una conoscenza proposizionale prelingui­ stica sia di chi nega la circolarità del linguaggio. Torniamo, di conseguenza, ad esaminare la procedura argomenta­ tiva di base, cioè quella che mette in rapporto dialettico universale e particolare, unità e molteplicità. Inizieremo con alcuni passi tratti dal Menane, significativi anche per alcune interessanti particolarità lingui­ stiche. Il dialogo si apre con la domanda, che Menone rivolge a Socrate, circa l’insegnabilità della virtù. Socrate, nella sua riposta, fa notare che non è possibile individuare una qualità della virtù se non si conosce che cosa la virtù sia (7lb). Dopo alcune battute interlocutorie Menone ottempera alla richiesta di Socrate con una risposta di sapore gorgiano, in cui enuncia e brevemente definisce una serie di virtù diverse (la virtù dell’uomo, della donna, del bambino, della femmina, del maschio, del libero e dello schiavo), spiegando che la virtù e il vizio si specificano in varie forme a seconda delle condizioni particolari (71e-72a). Socrate replica, con palese ironia, che il caso è particolarmente fortunato, per­ ché mentre la ricerca verteva su una sola virtù, Menone si trova a pos­ sederne uno «sciame». Poi, sollecitato dall’immagine dello sciame, spie­ ga la vera natura della sua domanda mediante un paragone con le api. La risposta di Menone assomiglia a quella che darebbe uno il quale, interrogato sulla natura dell’ape (peA,vrrri5 7iepi ouoiaq ò ri not' ecstiv), rispondesse che esistono api di vario genere, diverse tra loro (72a-b). Ma, aggiunge Socrate, forse le api sono diverse anche «quanto all’esse­ re api?» (72b4-5). Questa espressione è costruita con il verbo essere, sostantivato e provvisto di articolo, declinato al dativo, ed anticipa in maniera caratteristica la formula che sarà poi utilizzata da Aristotele per indicare l’essenza. Naturalmente Menone risponde che, quanto all’es­ sere api, non c’è tra le diverse api alcuna differenza. Così Socrate può applicare subito dopo l’immagine alla virtù e mostrare, di conseguenza,

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che la definizione di stile gorgiano sopra proposta da Menone evade la natura specifica della domanda. Abbiamo dunque qui un caso classico in cui la somiglianza tra i differenti, isolata in quanto somiglianza, ha l’effetto di individuare un terreno di ricerca unitario ed universale, in cui le differenze specifiche devono essere messe in parentesi. Un esempio più complesso, e filosoficamente più approfondito, lo troviamo in un dialogo cronologicamente e tematicamente assai lonta­ no dal Menone, ossia il Filebo. Il problema su cui il dialogo si interroga è la natura del bene umano. La discussione si apre mettendo a confron­ to la tesi di Protarco, secondo cui il bene umano è il piacere, e la tesi di Socrate, secondo cui il bene umano è la scienza. Socrate osserva, anzi­ tutto, che ci sono piaceri molto diversi fra loro, se non affatto contrari, per cui può sembrare strano sostenere che sono tutti simili tra di loro (12d). Protarco risponde che diverse ed opposte possono essere le cause del piacere, ma i piaceri non possono essere diversi ed opposti tra loro, perché non c’è evidentemente nulla di più simile al piacere che il piacere stesso (12d-e). In questo modo Protarco enuncia una specie di principio di identità, secondo il quale una cosa deve essere in primo luogo identica a se stessa. Ma il problema consiste appunto nella diffi­ coltà di identificare una cosa come il piacere, cioè il motivo che fonda l’unità e l’universalità di quell’«essere piacere» che viene raccolto dai piaceri particolari, mediante l’esclusione delle loro differenze. Per capi­ re che cos’è questo «piacere» in generale non possiamo però, come è ovvio, accontentarci di verificare l’unità dell’espressione che lo indica. Come Socrate spiega poco dopo, infatti, nessuno può mettere in di­ scussione il fatto che le cose piacevoli siano piacevoli (13a-b). Ma in questo modo non abbiamo fatto alcun passo avanti per capire che cos’è il piacere. Ben provvista di valore informativo, al contrario, è l’asserzio­ ne di Protarco secondo cui il piacere è il bene, perché offre un termine di riferimento per capire che cos’è il piacere, diverso dal piacere stesso. Ma per fare questo bisogna anzitutto ritenere che tutti i piaceri siano buoni; ovvero, ciò che è lo stesso, che «l’essere piacere» raccolto dai pia­ ceri particolari sia totalmente inseribile all’intemo dell’«essere buono». Bisogna dunque trovare che cosa c’è di identico in tutti i piaceri, che appunto fa si che tutti siano buoni (13a-b). Così facendo, tuttavia, c’è il rischio di comportarsi come gli sprovveduti e gli inesperti di discorsi: se diciamo che i piaceri, pur essendo tra loro molto diversi, sono simili per il fatto di essere buoni, veniamo a dire che simili sono le cose dissimili, e anzi che ciò che è maggiormente simile è simile a ciò che è maggior­ mente dissimile ( 13d). Del resto, ammette subito Socrate, un discorso del tutto analogo si può fare anche riguardo alla tesi secondo cui il bene è conoscenza. Siamo dunque di fronte a un problema di struttura, che riguarda Par-

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gomentazione in generale, e non maniere particolari di porre i proble­ mi o di definire le cose. Questo problema può anche essere formulato in modo logico-linguistico, cioè come il problema della predicazione. Se dico che il bene è il piacere, mi devo impegnare a individuare la caratteristica comune a tutti i piaceri in base alla quale essi possono essere detti buoni. In questo caso il piacere non può che apparire, di conseguenza, tanto molteplice quanto uno: molteplice in quanto i pia­ ceri sono diversi, uno in quanto tutti i piaceri convergono sotto l’unica predicazione di «buono». La questione che sta alla base di tutto questo discorso, di conseguenza, è la questione del rapporto uno-molti. Essa viene esplicitamente chiamata in causa da Socrate alle righe 14c4-10. E un problema, spiega Socrate, che crea difficoltà a tutti gli uomini, sia che ne siano consapevoli sia che, in alcuni casi e in alcune occasioni, non lo siano. La sua natura è in qualche modo stupefacente di per sé (rccSq 7t£(tn)KÓTa GcrugaaTÓv), e consiste nell’affermazione che i mold sono uno e che l’uno è molti: è infatti assai facile sollevare obiezioni ad ognu­ na di queste due asserzioni. Notiamo subito, in questo passo davvero notevole, due cose su cui dovremo tornare più avanti. La problematicità del rapporto uno-molti, in primo luogo, non è una cosa che riguarda specificamente i filosofi; essa riguarda tutti gli uomini, anche quelli che non ne sono consape­ voli. Il che significa che non basta non riflettere su questo rapporto, e nemmeno decidere programmaticamente di trascurarlo o di porsi al di là di esso, perché è attivo per natura in chiunque faccia uso del logos, cioè in qualsiasi parola argomentativa. Questa parola, in effetti, si con­ figura automaticamente come un raccogliere, per natura e definizione, cosicché il rapporto uno-molti è pienamente coestensivo con la sua esi­ stenza. Bisogna anche dire, in secondo luogo, che esso genera una situazione stupefacente e strana, come la compresenza di qualità oppo­ ste nello stesso soggetto. Questa stranezza è per lo più occultata dal fatto che la relazione uno-molti compare in modo irriflesso in un nume­ ro infinito di discorsi, ma quasi nessuno la tematizza come un problema (si diceva, appunto, che essa è attiva anche laddove non è percepita). Essa emerge pienamente alla luce, viceversa, quando l’attenzione si concentra non già sullo svolgimento dell’argomentazione, ma sulla sua struttura di base. Qui, quello che nelle situazioni ordinarie sembra nor­ male appare al contrario del tutto anomalo. Possiamo addirittura spin­ gerci a dire che una delle strutture portanti della filosofia di Platone consiste proprio nella percezione di anomalie per lo più non rilevate, e nei conseguenti tentativi di trovarne delle spiegazioni. L’anomalia implicita nel rapporto uno-molti non riguarda però, come sembra intendere Protarco (14c-d), il rapporto che esiste tra la molteplicità delle cose e l’unità del concetto («concetto» non è termine

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mentali della fenomenologici, con riferimento al passo della Repubblica a cui abbiamo accennato, Heidegger scrive: La comprensione dell’essere si fonda sul progetto di un èrókeivcx Tnq oùcriaq. Qui Platone s’imbatte in qualcosa che chia­ ma «ciò che s’eleva al di sopra dell’essere». Esso ha la funzio­ ne della luce, dell’illuminazione, in ogni disvelamento del­ l’ente o, in questo caso, nella comprensione dello stesso esse­ re910. Perciò, prosegue Heidegger poche pagine più avanti, «Diviene ... chiaro che lo ÈJtÉKeiva xfjq oùata. 107 (m;i qui Cassirer traduce Platone, Fedone 78 c).

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to»2. L’idea, ancora, è ciò che dà consistenza alla «realtà effettuale come sua misura, come «verità che stia ferma in se stessa, immutabile perché valida incondizionatamente, “essa stessa in se stessa” (...)• «lo costituisca la base per tutti gli enunciati sull’essere relativo, empirico Naturalmente la contrapposizione tra mobile e immobile richiama la contraddizione “ontologica” tra il divenire delle cose materiali e la sia bilità sostanziale dell’essere, ed una delle ragioni che impongono IYm stenza delle idee è appunto l’impossibilità che l’essere si riduca alla mobile materia sensibile. Ma per il Platone di Cassirer il divenire tap presenta il limite della conoscenza20212223,non il limite che individua il gela­ re inferiore delle cose. Oltre il limite segnato dal divenire e dalla sua prigione, c’è il mondo della conoscenza e dei significati. Come ha gai stamente scritto Attilio Zadro (a proposito del libro di Cassirer su Leibniz), «il chorismòs passa così tra la funzione e i suoi argomenti, cioè gli oggetti sui quali si esercita e che, per così dire, la verificano» ’ Funzione è qui quello che altrove Cassirer chiama significato. L’idea platonica è infatti ciò che «conferisce al particolare un determinalo significato universalmente valido, al di là e al di sopra del suo esserci indi viduale, del suo esistere in questo o quel punto della serie spaziale < temporale empirica»24. Questo ennesimo riferimento al significato ci fa capire che cosa dii ferenzi la posizione di Cassirer da quella che tradizionalmente si opp ne al sostanzialismo, ossia la posizione concettualista. E vero clic Cassirer, per designare le idee di Platone, usa spesso il termine “con cetto” (Begrìff). Ma si tratta appunto di un concetto che ha il compito «li significare. Identificare le idee con i significati conferisce loro un cani! tere forzatamente relazionale, perché il significato ha per natura il coni pito di significare qualcosa, di rapportarsi a qualcosa. Per tale motivo non si identifica semplicemente con il concetto, appunto perché il significato vive solo nella sua relazione con ciò che significa, ossia nel l’uso che gli uomini ne fanno quando vogliono significare qualcosa con le parole. Per Cassirer l’intento primario della dottrina platonica delle 20 EE, p. 17. 21 TP, pp. 110-111. 22 G, p. 137. 23 Platone nel Novecento, p. 59. 24 TP, pp. 119-120. Mi è impossibile in questa sede discutere le varie moda lità mediante le quali Cassirer rinviene nell’idea platonica un precedente sigili ficativo di ciò che egli chiamerà di volta in volta "funzione" (con valenza soprai tutto matematica), forma e simbolo. Ma ho l’impressione che sarebbe possibile ripercorrere le tracce del suo numerario speculativo anche prendendo i onie punto di riferimento la maniera in cui egli approfondisce .ir>r>. 26 it . |. ir.o.

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articolata, aliena da rigide fratture e dualismi insuperabili. Questo spi< ga anche perché, come vedremo meglio più avanti, Cassirer abbia pai ticolarmente sottolineato il principio della partecipazione delle idi i alle cose (methexis) ed abbia attribuito particolare importanza al Tut/en. dove la separazione tra mondo ideale e mondo sensibile è attenuala dalla presenza delle figure geometriche nel cuore stesso della materia E spiega anche perché egli abbia potuto paragonare la forma nel scum > di Goethe, che non va al di là del fenomeno, alla forma platonica, non ostante le profonde evidenze in contrario da lui stesso sottolineate. Non è il caso di chiedersi in questa sede fino a che punto la prospettiva ras sireriana rispetti la reale natura del pensiero platonico. Quanto meno r lecito dire che si tratta di una prospettiva interessante, sia pure da assu mere e analizzare più con occhio teoretico che storiografico. Ma anche da questo secondo punto di vista può valere come utile antidoto, come efficace principio regolativo contro le troppo facili schematizzazioni Allo storico sempre assalito dal dubbio che la dottrina delle idee faccia apparire il mondo sensibile privo di valore o significato, Cassirer comi minimo insegna che si può compiere un buon tratto di strada nella direzione contraria, e che esistono modi plausibili di intendere il duali smo platonico non già come una fuga dal mondo, ma come l’unico mezzo possibile per conferire al mondo un significato. 2. Questa esigenza di unità armoniosa ed organica, pur nella dialo ticità delle differenze, è anche il punto di partenza di Eidos und Eidolon. Platone appare a Cassirer il filosofo dialettico per eccellenza, in cui si accordano perfettamente, in feconda unità di contrasti, volere e cono scere, mito e ragione. La vivente armonia dell’insieme è fecondata dalla richiesta incessante di rendere ragione, che tutto sa articolare nelle sue differenze specifiche e poi ricomprendere con uno sguardo complessi vo, in un moto pendolare di analisi e sintesi, finché il tutto e le pani appaiano trasparenti all’occhio della ragione. Scrive Cassirer che pei Platone vale più che per altri quella frase di Goethe, secondo la quale «ogni elemento isolato è da rigettare»27: propria degli spiriti grandi, quali sono Goethe e Platone, è appunto la caratteristica di essere “per­ sone capaci”, in grado di concepire e di sentire la totalità dei problemi del mondo e della vita in modo a loro congeniale28. Sta di fatto però che nel pensiero platonico c’è come un punto di rottura, un contrasto che pare talmente insanabile da non poter essere padroneggiato dalla doppia azione equilibratrice di analisi e sintesi: Platone è riuscito a fondere mediante la dialettica l’etica, la religione e 27 EE, p. 12. 28 G, p. 165.

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la matematica, ma da questa armonia pare irrimediabilmente esclusa l’estetica. Benché Cassirer parli qui dell’ “artista” Platone, rammentan­ do in proposito il famoso aneddoto secondo il quale egli avrebbe bru­ ciato le sue composizioni poetiche, non si tratta affatto di contrappor­ re in modo psicologistico il Platone poeta al Platone filosofo. Ben più importante è il fatto che nella teoria delle idee di Platone non sembra in generale trovar spazio un’estetica come scienza autonoma. Il ripudio dell’arte segnale dell’imperfetta armonia della costruzione platonica, non a caso è posto da Cassirer in collegamento con la dottrina delle idee. Perché se l’unità organica della filosofia di Platone è raggiunta grazie a una concezione dell’idea come strumento funzionale alla com­ prensione significativa del mondo, capace di sanare i dualismi in una sintesi superiore, l’annullamento dell’estetica è a prima vista il segnale che l’operazione non riesce, e che il dualismo di fondo persiste. In effetti l’estetica riguarda l’aspetto sensibile delle cose, e la profonda dif­ fidenza di Platone a riguardo induce il sospetto che per lui le cose sen­ sibili rimangano al fondo inintelligibili. Può essere utile a questo pro­ posito rammentare il significato che ha la parola in Kant (in cui copre anche l’ambito della conoscenza sensibile). Cassirer naturalmente è consapevole di usare il termine in una accezione più ristretta. E tuttavia l’impossibilità dell’estetica non può non costituire ugualmente un osta­ colo alla comprensione del mondo sensibile, quasi che non esista (per usare ancora un termine kantiano) alcuno schematismo efficace per passare dall’intelletto al senso. Insomma, se davvero l’idea è lo stru­ mento che dà significato al mondo della realtà percepibile, c’è il rischio che non sia riuscita ad assolvere la sua funzione. Oppure, al contrario, il ripudio dell’estetica potrebbe essere il sintomo che l’interpretazione funzionale dell’idealismo platonico merita di essere riconsiderata. Naturalmente per Cassirer questa è l’ipotesi da scongiurare. Un importante indizio che così non è è dato dal fatto che da nessun’altra dottrina filosofica come quella platonica, nonostante la sua negazione dell’estetica, «sono derivati effetti estetici più forti e più ampi di quelli scaturiti da questo sistema»29. A suffragio di questa tesi Cassirer abboz­ za una sintetica Wirkungsgeschichte che da Plotino e Agostino, attraverso il platonismo rinascimentale di Marsilio Ficino e Michelangelo, arriva fino a Goethe, Winckelmann e Schelling. Un discorso analogo può essere fatto anche per la storia della scienza, come dimostrano i casi eclatanti di Galilei e Keplero, che hanno adottato il paradigma platoni­ co nella loro interpretazione della natura. Ma nel campo specifico del­ l’arte questa evidente affinità di ispirazione e di metodo è sempre sog­ getta al pericolo di vanificarsi nella massima lontananza, a causa delKK. |. 13.

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ATTTUALITÀ DI PLATC INI-

l’ambiguità caratteristica del concetto platonico di forma. Se infatti sia il grado in cui viene inserita la forma artistica, non è mai suffìcieim per instaurare una vera contraddizione tra estetica e filosofia, perche da un lato rimane aperta la possibilità che l’arte abbia una funzione divci sa ed autonoma da quella conoscitiva e filosofica (questo percorso «• abbozzato nello Zone82), dall’altro la produzione artistica potrebbe seni pre costituire un modus minor per accostare l’anima alla verità filosofica, che a tratti può risultare utile o addirittura necessario. Anche tale moli vo è segnalato più di una volta nell’opera platonica, ed in fondo è dim< > strato dallo stesso saggio cassireriano di cui ci stiamo occupando qui. Come meglio vedremo più avanti, Cassirer tenta di promuovere in Platone un riscatto epistemologico dell’arte, ed ha molte buone ragio ni per farlo. Se infatti consideriamo l’opera platonica nella sua globali tà, comprendendovi in particolare i dialoghi dialettici, il Timeo e le Leggi, l’episodio del libro X della Repubblica perde progressivamenic rilievo, e si dimostra profondamente legato al contesto del dialogo in cui è stato scritto, mentre per converso si fanno strada valutazioni del l’arte assai differenti: si pensi ad esempio alle Leggi, dove l’imitazione non è più svalutata in quanto tale, ma più semplicemente articolata i imitazioni buone e imitazioni cattive (668 B), o dove, addirittura, in un altro luogo si dice che a volte ai poeti è dato di cogliere parti della veri tà (682 A). Ma quando pure siamo riusciti a togliere il conflitto “episie mologico”, rimane intatto il conflitto tra estetica ed etica, che non a caso viene ribadito anche nelle Leggf sia a livello teorico sia a livello di legislazione politica. Come ho detto sopra, Cassirer non era nella posi zione migliore per dare il giusto peso a tale conflitto, perché interpre­ tava l’etica socratico-platonica come un’etica tendente in senso kantia no alla pura forma del volere, e in questa prospettiva in effetti non si vede come possa nascere un contrasto con l’estetica. Muovendo dal principio del volere, Cassirer interpreta l’etica socratico-platonica collu­ se il suo scopo fosse quello kantiano di trovare una norma stabile dcll’agire (la forma) in opposizione alla “molteplicità di singole azioni casuali” (la materia). Per il Platone di Cassirer la forma è regola del morale, perché «vi è un ordine riposante in se stesso del morale, un interno canone dei rapporti volitivi, che si può paragonare secondo la sua condizione e la sua validità ai puri rapporti di misura matematici»81. Così si completa la perfetta armonia tra ordine teoretico e ordine pia fico, perché l’obiettivo di entrambi è quello di raggiungere la pura32 11

32 Cfr. E. Trabattoni, Sul significato dello Jone platonico, "Sandalion", 8-9 (1985-86), pp. 27-57. 33 EE, p. 18.

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forma nei rispettivi ambiti. È appena il caso di notare che tutto ciò non ha molto a che fare con l’etica platonica, e con l’etica antica in gene­ rale. Principio di fondo dell’etica di Socrate e di Platone (ma poi anche di quella di Aristotele) è l’incoercibile tendenza dell’uomo al bene, inteso come la sua felicità. Ora, poiché questo obiettivo è per Platone cogente nella maniera più forte possibile, è necessario dichiarare inuti­ le o dannoso tutto ciò che è indifferente allo scopo o addirittura ad esso contrario. Così, se il bene e la felicità dell’uomo sono il suo obiettivo ultimo, e risiedono nell’esercizio della virtù, allora per Platone è con­ seguentemente necessario proibire l’arte che istiga al vizio. Perciò non è vero che Platone rifiuti per principio un’estetica autonoma o neghi un’idea indipendente di bellezza. E vero che l’estetica entra troppo spesso in conflitto con l’etica, e che in questi casi la scelta deve privile­ giare ciò che conta di più. Quando ciò accade sembra che la conside­ razione della bellezza scompaia semplicemente perché il bello di Platone e dei greci è carico di pregnanza etica, cosicché ciò che non è anche buono non può essere detto davvero bello. 3. Ma ora è venuto il momento di riprendere il filo delle argomen­ tazioni di Cassirer. Per Platone la natura è soggetta all’eterno divenire di cui parlava Eraclito, e perciò non può essere compresa in modo sta­ bile e rigoroso: così a quello che il mobilismo eracliteo rappresenta dal punto di vista ontologico si affianca il relativismo sofistico dal punto di vista della dottrina della conoscenza. Platone è rimasto fedele a questa visione, precisa Cassirer, per lunga parte della sua vita, almeno fino al momento in cui il moto ( kìvt |0 1 senza che la verità della risurrezione la degradi ad apparenza, l'aula'..... opinione. E per certi versi il problema uguale e contrario a quelli...... . efficacemente esposto nel brano del Grande Inquisitore dei Kummn >• non si tratta di trovare il modo in cui la redenzione possa annullali il dolore innocente, dissolvendo la sua cruda e concreta tempoialiia all i luce immateriale dello spirito; si tratta, proprio all’opposto, di salvai■ 1 dignità dell’esperienza e del dolore dell’uomo, che non desideia i ma redenzione (o una armonia) che pregiudichi la verità del tempo c ili i;li eventi che hanno segnato la sua vita. Paci, attento lettore di due gì ai uh tragici dell’epoca moderna come Fèdor Dostoevskij e Thomas Mann a questo problema era particolarmente sensibile. Così l’assunto da i ispi i tare risulta chiaramente delineato: trovare il passaggio verso f a m i o m a salvando la realtà del tragico, dove la difficoltà già di per sé enormi ili raggiungere il primo obiettivo è cospicuamente accresciuta daH’obbligi. di conseguire anche l’altro, che ad esso pare contraddittorio. Inizieremo dal tragico, ripercorrendo a questo fine le pagine i In Paci, nella Storia del pensiero presocratico citata sopra, ha dedicato ai tu grandi protagonisti della tragedia attica. Prima però è necessario dm qualcosa di questo lavoro, che non è certo tra i più noti della prodn zione paciana. Paci lo scrisse in seguito a una serie di trasmissioni radii • foniche il cui argomento era appunto il pensiero presocratico (il che NI

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zione dei personaggi e la negatività delle situazioni unilaterali, rappn sentando le conseguenze dell’assolutizzazione di questa o quella posi zione, libera l’uomo dal dogmatismo e lo purifica dall’errore»25, oricii tandolo appunto verso quella concezione relazionista di cui abbia..... detto. Così incontriamo di nuovo, sia pure tradotta dal livello politico a quello cosmico, la stessa questione che abbiamo sollevato a proposilo della lettura paciana di Eschilo. Parlando di Sofocle Paci nomina in modo esplicito l’alternativa tra bene e male, e la necessità di trovare, nel labirinto dell’esistenza, la strada che conduce al primo e non al secoli do. Questa strada è anche vista, al tempo stesso, come un cammino di purificazione dall’errore, capace dunque di indirizzare l’uomo verso la verità. Nel contesto dell’armonia tra divini ed umani, ossia nel cuore stesso della relazione, si profila perciò una scansione di natura asimme­ trica, in cui non tutti i termini della relazione sono equipollenti. C’è dif­ ferenza, infatti, tra il male ed il falso, da un lato, e il bene ed il vero, dal­ l’altro, e l’armonia che si manifesta nella relazione dovrebbe essere in grado di promuovere questo scarto. Tuttavia, esattamente come acca­ deva nell’accordo tra Zeus e Prometeo che abbiamo visto in Eschilo, a parere di Paci l’origine di questa asimmetria non deve e non può esse­ re cercata in un supposto significato determinante, o direttivo, attribui­ bile al contraente divino. L’accordo fra l’uomo e dio fa comparire il bene ed il vero non a causa di una supposta superiorità normativa del contributo divino che entra in gioco nell’accordo; ma in forza dell’ac­ cordo medesimo, perché in esso divini ed umani si pongono in relazio­ ne su un piano di parità. Paci scrive infatti che l’errore, la negatività (e dunque il male) conseguono non già da una fonte connotata all’origi­ ne in termini di valore, ma dal coerente sviluppo delle procedure rela­ zionali: l’errore deriva dalle «situazioni unilaterali», dall’«assolutizzazione di questa o quella posizione», dal «dogmatismo». Il teatro, luogo pubblico e “democratico” un cui le varie posizioni sono poste a con­ fronto, è pertanto simbolo eccellente di questa armonia realizzata attra­ verso la relativizzazione di qualunque posizione unilaterale (fosse pure quella di un dio). Ed è appunto attraverso questa relativizzazione che dovrebbe essere possibile intravedere la strada verso il vero ed il bene. E lecito chiedersi, tuttavia, in che modo il valore possa sgorgare dal semplice esercizio della relazione, dalla messa in scena di diversi, ma tutti ugualmente leciti, punti di vista. Gli studiosi platonici più radicali nel sostenere il cosiddetto dialogical approach leggono i dialoghi precisamente alla luce di questa dimensione teatrale: l’autore, ossia Platone, nega al lettore la sua valutazione e il suo giudizio, e si accontenta di por25 Ivi, pp. 208-209.

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tare sulla scena il teatro della filosofìa. Nessun 0 1 ii-ni.imrnin "pi.unni co” si può ricavare da questa rappresentazione, porcile la voi e . mi mi a le è assente, e dunque nulla fa pendere l’ago della bilancia in lavoi c ili qualcosa che abbia le apparenze del vero e del buono. E un (callo chimostra, ma non orienta. Tutto ciò è tuttavia chiaramente a mal partito con l’esigenza padana di indicare un telos. Nel “teatro” di Eschilo e Sofocle, così come è ripensato da Paci, la presenza determinante in favore del bene e del vero dovrebbe essere quella di dio, perché l’uomo è condannato alla sua libertà. Ma il dio entra nell’accordo precisamen­ te rinunciando alle sue prerogative divine. E un dio debole e assente, sotto il profilo dell’orientamento al valore, nella stessa misura in cui è debole e assente, nell’interpretazione sopra citata, l’autore del teatro della filosofia, che si cancella dietro a suoi personaggi. Eliminato l’au­ tore, vuoi nella forma del dio che stabilisce a priori il telos dell’armonia a cui dà origine, vuoi del sapiente che modella il dialogo distribuendo, in modo magari implicito, torto e ragione, bene e male, vero e falso, rimane solo la relazione: rimangono gli uomini, con la loro libertà, i loro punti di vista, il loro sentimento drammatico e dubbioso dell’esi­ stenza. Come, una volta scontate tutte queste riduzioni, si potrà ancora parlare di un telasi La debolezza di dio si trasforma in pura e semplice assenza, se non addirittura nella morte di dio, nell’ultimo dei grandi poeti tragici, cioè Euripide. Anche Euripide, come e più di Eschilo e Sofocle, «era estre­ mamente sensibile all’ambiguità esistenziale»26. La sua tragica scoperta è «il legame strettissimo che egli sente tra il divino e il demoniaco, tra la moralità e l’immoralità, tra la luce e le tenebre, tra il “solare” e il “lunare”»27 Infatti questa «ambiguità esistenziale si lega in Euripide con il senso del divenire e la trasmutazione di tutte le cose, con il mutarsi della luce nella tenebra e di ogni forma in ogni altra forma»28. Purtroppo, però, «Zeus non può garantire all’uomo, con un taglio netto, la separazione tra la ragione e la follia, tra il bene e il male, tra il reale e l’irreale, tra la vita e la morte»29. Euripide si trova qui sulla stes­ sa linea di Protagora, a parere del quale «chi decide su ciò che è essere e su ciò che è non essere» ormai non è altri che l’uomo. «E ciò com­ porta la condanna dell’essere parmenideo, di un essere già stabilito e compiuto. Dall’uomo dipende ciò che è e ciò che non è: l’uomo è respon­ sabile dell’essere [corsivo di Paci]»30. Infatti, «Zeus come punto fermo, 26 Ivi, p. 27 Ivi, p. 28 Ivi, p. 29 Ivi, p. 30 Ivi, p.

216. 214. 223. 219. 220.

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Zeus come essere prestabilito non c’è più»31 (la morte di dio?). Di mqui l’ambiguità originaria della condizione umana può essere superata sl stesso che l’uomo «è l’insieme di tutte le facoltà [che sono ambigue mi modo in cui abbiamo detto] e non può rinunciare a nessuna di esse se vuol essere uomo» già di per sé è in grado di delineare un obiettivo: .1

La sua mèta sarà dunque l’organicità e l’armonia delle facol­ tà, mèta ideale consona allo spirito ellenico da Pindaro a Platone, mèta che Sofocle proietta nel futuro e nella sua città celeste, ma mèta che non può essere concepita senza la liber­ tà umana, senza la condizione rischiosa dell’uomo che appa­ re spesso in Euripide posto tra l’ambiguità delle forze telluri­ che dionisiache e il responso sempre duplice dell’oracolo divino, di Apollo33. Sempre e di nuovo (non a caso usiamo Vimmerwiederhusserliano che Paci citava tanto spesso), a dispetto dell’inevitabile eclissi del divino e di tutti suoi succedanei che abbiano l’ambizione di presentarsi come prin­ cipi direttivi ed informatori, dell’immedicabile ambiguità, libertà e responsabilità che domina la vita umana, rispunta indomita la prospoltiva di una meta, di un telos, di un ideale: L’ideale deve essere realizzato nel mondo ed è ideale di orga­ nicità e di armonia, ma lascia aperta ogni possibilità negativa pur indicando la direzione verso un valore positivo, verso la possibilità della giustizia...Alla fine la trascendenza di Zeus, l’i­ deale della giustizia e dell’armonia, e non il preordinato e già concluso essere parmenideo, pur essendo un compito ine­ sauribile, coincide con la gioia immanente nella natura orien­ tata verso il piacere (la terpsis di Sofocle), di cui il senso è que­ sto orientamento anche se esso, nelfambiguità dell’esistenza e della libertà, può sempre trasformarsi in dolore, come l’a­ more può trasformarsi in odio e la vita in morte34. Dunque, nonostante l’intrascendibilità della relazione, ovvero l’ob­ bligo inevitabile di accomodarsi a un mondo in cui esistono solo sog31 Ibid. 32 Ibid. 33 Ivi, p. 221. 34 Ivi, pp. 232-233.

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getti liberi, non garantiti nelle loro scelte - questa stessa relazione in quanto tale produce dal suo seno uno squilibrio, un orientamento verso la giustizia ed il bene: uno squilibrio che deve scontare a sua volta il difficile equilibrio di muoversi come sulla lama di un coltello. Il bene e il male non sono ugualmente possibili. Nell’esistenza degli uomini è iscritto un telos ideale che è possibile in misura maggiore del male; ma non al punto da divenire necessario, perché in tal caso sparirebbe la stessa possibilità del male, che invece deve essere preservata. Solo così, infatti, si salva e conserva l’ambiguità intrascendibile della condizione umana. Le figure che rappresentano tale squilibrio non possono dunque essere, appunto per la precarietà di cui abbiamo detto, né l’essere “pre­ costituito” di Parmenide, né un dio in carne ed ossa che impone dal­ l’alto agli uomini le sue regole, né una verità realizzata o reale. La tra­ scendenza di Zeus coincide con la trascendenza ideale di giustizia e armonia, trascendente appunto solo perché mai reale. Circa dieci anni dopo Paci scriverà a questo proposito: Da un lato diciamo che la verità è sempre un telos, un fine a cui l’uomo tende, per cui vive, per cui lavora, per cui può essere d’accordo, ma anche in disaccordo con gli altri uomi­ ni. Dall’altro diciamo che la verità non è reale o, più precisamente, non è l’oggetto reale. Se fosse un oggetto reale, nel senso con il quale alcuni credono che lo siano le idee plato­ niche, si tratterebbe di una superiore realtà, invece [...] la verità, proprio perché irreale, è quella cui tutti tendiamo [...]. L’irrealtà della verità agisce dunque sulla vita e agisce proprio perché non è reale35. In questo modo Paci ha dunque conseguito la sua “quadratura del cerchio”. Ma quali sono le sue condizioni di possibilità? Egli qui riper­ corre le tracce, ovviamente sulla base delle sue personali rielaborazioni, di Platone, di Anassagora, di Leibniz e infine di Husserl. Platone è anco­ ra quello del libro giovanile sul Parmenide36 con particolare riferimen­ to alla “terza ipotesi” discussa da Socrate nella seconda parte di tale dia­ logo, a cui Paci fa spesso e volentieri riferimento nelle sue opere suc­ cessive. Così anche nel capitolo su Euripide del suo libro sui presocra­ tici. Quivi l’orientamento positivo del telos è colto ad esempio nella 35 L'enciclopedia fenomenologica e il telos dell umanità, in Idee per una enciclope­ dia fenomenologica, Milano 1973 (ma questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel 1968), p. 36. 36 II significato del Parmenide nella filosofia di Platone, Messina-Milano 1938 (ristampa Milano 1988).

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«direzione della vita, ambigua e metamorfotica, ma pur sempre tale da potersi dirigere verso un valore positivo, non garantito, valore presente sia nel sensibile che nell’idea, e che il sensibile congiunge all’idea, così come l’eros congiunge alla possibilità armonica dell’apollineo e della giustizia»37. Platone, insomma, è visto da Paci non già come il filosofo della trascendenza reale delle idee sulla realtà sensibile, ma come il filo­ sofo della mediazione possibile tra reale e ideale: possibile proprio per­ ché l’ideale è solo ideale (nel senso precisato sopra), non un reale sepa­ rato e diverso dalla realtà sensibile, e nemmeno una verità reale che si impone da adesso, come reale, alla doxa, e al libero arbitrio degli uomi­ ni38. Figura di questa mediazione è, poi, il punto di incontro tra apparenza e realtà, tra vita e morte, nel quale la vita attraverso la morte ritorna vita, in una metabolé inarrestabile che è conservazione e rinnovamento, passa­ to che nel presente si fa futuro, legame e liberazione, perma­ nenza e ricreazione, amplesso fecondo dell’elemento femmi­ nile e dell’elemento maschile dell’universo; il centro, infine, reale e possibile, condizionato e libero, storico e ideale, tem­ porale ed eterno come l’istante di cui parla Platone nel Parmenide39. Platone interessa a Paci perché da un lato è il filosofo che ha artico­ lato in modi infiniti l’ambiguo dualismo che caratterizza la realtà40 (e già abbiamo visto come Paci fosse sensibile a questo tema), e dall’altro è anche il filosofo che ha individuato il paradigma di ogni possibile mediazione. L’istante è il luogo in cui reale e ideale si congiungono. Se il reale e l’ideale fossero due realtà diverse, l’una nel tempo e l’altra fuori dal tempo, la mediazione sarebbe impossibile. Le cose strabbero precisamente in questo modo se la qualità del margine estremo della realtà temporale fosse anch’essa univocamente temporale: questa real­ tà sarebbe destinata a rimanere statica, inesorabilmente chiusa in se stessa, priva di meta e di telos. Ma quel margine estremo è temporale ed eterno, reale e ideale al tempo stesso, cosicché l’uomo può trovare all’interno della stessa dimensione finita in cui vive, priva di qualunque garanzia teologica, una fenditura (un anello che non tiene). Attraverso il punto di passaggio dell’istante viene dunque in chiaro, per Paci, che 37 Ivi, p. 233. 38 In questo modo di intendere l’idea platonica si percepisce l’eco dell’in­ terpretazione neokantiana, che Paci aveva conosciuto e apprezzato in gioventù. 39 Storia del pensiero presocratico, p. 233. 40 Cfr. H. Thesleff, Studies in Plato sTwo-Level Model, Helsinky 1999.

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l’orientamento verso un telos ideale ed eterno è già potenzialmente iscritto nella realtà temporale. E appunto attraverso questa fenditura che l’umanità si può mettere in cammino. Tutto questo sta in piedi, come ormai dovrebbe essere chiaro, a patto di ammettere che il reale e temporale non è talmente reale e tem­ porale da impedire un orientamento verso un telos ideale ed eterno, e l’ideale ed eterno non è a tal punto ideale ed eterno da apparire inat­ tingibile da qualsiasi progetto di realizzazione. Alcuni anni dopo Paci scriverà che il programma abbozzato nella terza ipotesi del Parmenide sarà poi realizzato da Husserl, poiché questi «riconduce l’empirismo già precostituito ad una analisi originaria e non pregiudicata della doxa e ritrova Veidos nella doxa così come ritrova la doxa nell’eidos»41. Secondo questa interpretazione la proposta di Platone decade dunque a proget­ to di fronte alla realizzazione compiuta da Husserl. Qui Paci sembra voler dire che la mediazione tra temporale ed eterno (o tra doxa ed eidos) in Platone non poteva essere perfezionata, perché solo una ana­ lisi radicale dell’esperienza come quella compiuta da Husserl (in cui non c’è alcun empirismo precostituito) può mostrare come l’eidos sia già presente nella doxa. I motivi che rendono possibile questa «sintesi fenomenologica» sono offerti dall’intuizione eidetica e dal «fonda­ mento precategoriale spaziale e temporale»42. Da un lato, infatti, «Eidos e percezione sono inesorabilmente congiunti: ogni percezione è nello stesso tempo l’intuizione di un eidos e ogni intuizione è ritorno alla per­ cezione e al precategoriale»43. Dall’altro, l’incontro tra l’eidos, il tempo e lo spazio, come nel Parmenide e nel Timeo, è possibile perché avviene nell’istante (per Husserl nel tempo allargato delle modalità temporali) e nella chora (per Husserl in tutte le modalità spaziali) e avviene in modo tale da ridurre la struttura soggetto-oggetto, intesa come struttura conoscente-conosciuto, a struttura temporale spaziale empirica e precategoriale nella quale il soggetto si costituisce con gli altri soggetti e con il mondo44. Con la fenomenologia di Husserl si produce dunque un incontro tra il reale, determinato in modo spazio-temporale, e l’ideale (che assume qui la figura dell’eidos) non solo rigoroso nella sua fondazione, ma

41 Attualità di Husserl, in Idee per una enciclopedia fenomenologica, (la prima pubblicazione del saggio risale però al 1905), p. 17. 42 Ibid. 43 Ivi, pp. 16-17. 44 Ivi, p. 17.

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anche capace di allargare la sfera ideale al tema cieli’intersoggettività, i inutile aggiungere quanto questo allargamento sia importante per la concezione del telos che Paci elabora nell’ultima parte della sua para boia speculativa. Ed è appunto del telos che dobbiamo ora tornare a parlare. La linea di sviluppo che abbiamo brevemente tratteggiato, dall’istante platonico all’intuizione eidetica e al precategoriale di Husserl, quali progressi ha consentito di fare alla nostra ricerca? Abbiamo visto sopra che parlando di Eschilo e Sofocle Paci non evita di menzionare concetti apertamente etici, come bene e giustizia. Ebbene, il passaggio da reale a ideale reso possibile dall’istante, così come la presenza dell’eidos già nel mondo della percezione evidenziata dall’intuizione eidetica e dal precategoria le, come possono assumere una valenza etica? Che ragioni ci sono per ipotizzare che Veidos inscritto nella realtà percepibile, di per sé assiologicamente non connotato45, prefiguri la meta delParmonia, del bene e della giustizia, ovvero (per dirla con il Paci del suo ultimo corso) un mondo in cui tutti sono soggetti e nessuno oggetto? Per compiere questo passo ulteriore risulta a mio avviso più produt­ tivo abbandonare l’istante, e prendere le mosse dall’intersoggettività: si configura in questo modo una linea teorica che raggiunge Husserl par­ tendo non dalla terza ipotesi del Parmenide platonico, ma da Anassagora, passando attraverso la decisiva mediazione di Leibniz. Per Anassagora, a parere di Paci, l’uomo non riuscirà mai [...] a possedere la piena conoscen­ za della moltitudine delle cose. E tuttavia egli può, sia pur limitatamente, conoscere e può conoscere in virtù di un prin­ cipio che è fondamentale per la filosofia di Anassagora come lo sarà per la filosofia di Leibniz. Espresso con le stesse paro­ le di cui si serve Anassagora il principio è il seguente: “in tutto c’è tutto: nulla può essere isolato e tutto partecipa di tutto”46. Il riferimento diviene chiaro se aggiungiamo che Paci, con una interpretazione del passo anassagoreo che per la verità non oserei defi­ nire inoppugnabile, ritiene che «in base a questo principio, in linea teo­ rica generale, in ogni parte dell’universo, per quanto piccola, è presen­ te tutto l’universo»47. Nel capitolo su Euripide, poi, Paci collega il tema metamorfotico presente nella sua opera alla visione di un universo nel quale ogni forma è legata alle altre 45 Ciò non vale, in realtà, per Platone (vi accenneremo nelle righe finali di questo studio). 46 Storia del pensiero presocratico, p. 107. 47 Ibid.

ENZO PACI, IL

TELOS E I GRECI

2 :«

perché potenzialmente in sé le contiene, proprio come ogni omeomeria di Anassagora porta in sé tutte le altre e può tra­ sformarsi in tutte le altre. Una simpatia cosmica collega le forme del tutto ed ogni forma contiene l’infinità delle altre48. Questa simpatia universale è retta a sua volta da un ordine il quale, esattamente come l’Intelletto di Anassagora, «è nel mondo ma è al di là del mondo» 49. Questo Intelletto è kosmos (con i pitagorici), eidos (con Platone e Husserl) e telos (con Husserl e Pad), ideale immanente nel mondo che «distingue ma non separa»50. Esso prefigura l’armonia (o simpatia universale) per una serie di motivi che Paci vede tra loro stret­ tamente connessi: ogni omeomeria contiene in sé l’intero universo; ogni monade riflette in sé lo stesso mondo, sia pure da un diverso punto di vista; ogni soggetto si costituisce come tale sulla base della rela­ zione intersoggettiva con altri soggetti, che hanno in comune il fonda­ mento precategoriale e la medesima Umwelt. Ma «che cosa vedono in comune gli osservatola e che cosa dovranno vedere sempre in comu­ ne»?51 Detto in greco è 1’“eidos tes aretes” [sic]. Ossia, l’intuizione del­ l’essenza è 1"’eidos” di ciò che c'è di “ar”, radice greca che vuole dire virtuoso nel senso di ciò che è perfetto, ciò che unisce, ciò che si accorda, ciò che è armonico, ciò che c’è di essenziale nelle cose; e la descrizione dell’essenza è ciò che a noi appare quando abbiamo tolto tutti i pregiudizi. Questa frase riporta una delle ultime parole di Paci sul nostro argo­ mento. Il passaggio tra l’essere e il valore, tra la relazione e il bene, è mediato da un concetto straordinariamente ambiguo come la parola greca ante, che accoglie al suo interno un significato morale (nel senso di “virtù”) e un significato non morale (nel senso di “capacità di”). La fatica della mediazione è, ancora in questa frase, tutta lì da vedere: per­ ché mai la visione dell’essenza priva di pregiudizi (concetti assiologicamente neutri) dovrebbe approdare a qualcosa di “armonico” e di “per­ fetto” (concetti assiologicamente connotati)? Non sembra forse, anche questo, un pregiudizio (un pregiudizio ottimista)? Oggi, trent’anni dopo il fugace incrocio tra uno studente al suo primo anno di corso e un professore al suo ultimo anno di insegnamento, questo pregiudizio ottimista mi sembra mollo meno arbitrario di allora: anche perché 48 Ivi, p. 223. 49 Ivi, p. 221. 5(1 Ivi. p. 113. '' Il /m ildem n d ello m om idiìloffiii, |>. 122

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adesso mi è chiaro che lo stesso ottimismo e lo stesso pregiudizio costi­ tuiscono l’ossatura remota di tanta parte della filosofia antica, e di quel­ la di Platone in particolare (come Paci aveva ben visto). Per Platone esi­ ste in natura un dinamismo intrinseco tra particolare e universale, che si manifesta nell’uomo philo-sophos come tensione infinita (come eros) verso la dimensione ideale della sophia. La sophia, a sua volta, è l’idealimite di un sapere che ha per oggetto Veidos. Ma l’obiettivo di questa tensione non è il sapere in quanto tale. Lungo il percorso che porta dal particolare all’universale, dal sensibile all’eidos, si assiste infatti alla nascita del valore. L’eidos non è solo l’universale ontologico e logico che sta a fondamento della realtà; esso rappresenta anche, e soprattutto, un ideale di perfezione non dissimile da quello di cui parla Paci. In Platone, non a caso, in cima al cosmo noetico non ci sono né dio né l’es­ sere, ma il bene (eventualmente rappresentato come Uno-Bene), e gli eide a cui egli rivolge quasi tutta la sua attenzione sono quelli del bene, del bello e del giusto. E non a caso, ancora, l’unica via di cui l’uomo dis­ pone per tradurre in reale l’ideale, nella misura in cui ciò è consentito dalla storicità dell’essere umano e dall’inguaribile pluralità delle doxai, è il progetto politico di una città in cui le differenze individuali si dis­ tribuiscano ordinatamente nell’armonia dell’insieme. Questa città, d ’al­ tra parte, è ciò a cui tutti gli uomini tendono proprio perché irreale.

INDICE DELLA MATERIA TRATTATA

Introduzione

5

Capitolo I L’argomentazione platonica

13

Capitolo II Platone, Rorty e la violenza della metafisica

39

Capitolo III Platone, Rorty e la consolazione della filosofia

63

Capitolo IV La filosofia è una cosa seria?

93

Capitolo V L’interpretazione heideggeriana della dottrina delle idee e le sue premesse. Alcune osservazioni

109

Capitolo VI Dialettica, ontologia ed etica nel Filebo. L’interpretazione di Hans Georg Gadamer

127

Capitolo VII Jacques Derrida e le origini greche del logocentrismo (Platone, Aristotele)

141

Capitolo Vili Ernst Cassirer e l’«estetica platonica». Introduzione alla lettura di Eidos und Eidolon

165

Capitolo IX Leo Strauss e l’“esoterismo” platonico

185

Capitolo X Platone, Martha Nussbanm, e le passioni

199

Capitolo XI Sulle tracce dell’armonia: Enzo Paci, il trios e i Greci

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