Americana 8806189875, 9788806189877 [PDF]

Ventotto anni, bello, manager di una grande rete televisiva: David Bell è il sogno americano diventato realtà. Cinico yu

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Italian Pages 400 [260] Year 2008

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Americana
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Zitiervorschau

Don DeLillo

Americana

NOTA DI COPERTINA. E’ la fine degli anni sessanta: a ventotto anni, David Bell è il sogno americano diventato realtà. Ce l’ha fatta, è arrivato in cima. Giovane, bello e top manager di una grande rete televisiva newyorkese, Dave è abilmente sopravvissuto a faide e purghe aziendali di ogni genere, e può godere di una posizione e di un successo invidiabili. Il suo mondo è fatto delle immagini che balenano sugli schermi d’America, delle fantasie che nutrono la chimera della nazione più potente del pianeta. Ma da quella vetta, la sensazione di vuoto per Dave si fa insostenibile, urgente il bisogno di confrontarsi e di sporcarsi le mani con quel paese che i suoi programmi televisivi non riescono e non vogliono raccontare davvero. Il sogno ha perso il suo incanto e si è smascherato come l’incubo americano. La ricerca di una realtà sfuggente si trasforma allora in un pellegrinaggio per le strade degli Stati Uniti a bordo di un camper scassato. Con tre improbabili compagni di viaggio e la cinepresa in spalla, Dave cattura volti, voci, pensieri, storie, la crisi rabbiosa di una cultura che deve fare i conti con se stessa e con i suoi conflitti, da quello in Vietnam a quello sociale e razziale. E’ il film della sua vita, il suo film, il tentativo frenetico e folle di scrivere un pezzo di storia dell’America di sempre, con l’arma di un umorismo raggelante e i materiali di scarto della cultura di massa. Don DeLillo è nato a New York nel 1936 da genitori italiani. Considerato uno dei più importanti narratori americani di questo secolo, ha scritto numerosi romanzi, tra cui ricordiamo: “Rumore bianco”, “Libra”, “I nomi”, “Cane che corre”, “Giocatori”, “Mao II”, “Underworld” e “Great Jones Street”, pubblicato dal Saggiatore (1997).

AMERICANA

“a Barbara Bennett”

PRIMA PARTE

1. E così arrivammo alla fine di un altro stupido e lurido anno. Le luminarie sormontavano scintillanti le porte dei negozi. I venditori di caldarroste spingevano i carretti fumanti. Di sera, la folla in strada era immensa e il fragore del traffico saliva a trasformarsi in un’ondata di piena. i Babbi Natale della Quinta Avenue scampanellavano con una delicatezza strana e quasi dolente, come a spargere sale su un taglio di carne guasta. In tutti i negozi risuonavano musichette, canti e osanna natalizi, e le trombe dell’Esercito della Salvezza diffondevano i lamenti marziali di antiche legioni cristiane. L’effetto sonoro in quel luogo e in quel momento era bizzarro, fragore di piatti e rullare di tamburi, come un rimprovero impartito a dei bambini per un peccato imperdonabile, e la gente era infastidita. Ma le ragazze erano adorabili e spensierate, entravano nei negozi più stravaganti a fare acquisti, attraversavano i tanti tramonti magnetici della sera come majorettes, alte e rosee, stringendo ai morbidi seni pacchetti avvolti in carta colorata. Il pastore tedesco del cieco continuava a dormire senza accorgersi di nulla. Finalmente arrivammo a casa di Quincy. Ci aprì sua moglie. Io le presentai la ragazza che mi accompagnava, B.G. Haines, dopo di che contai i presenti. Nel farlo mi ritrovai, quasi senza accorgermi, a chiacchierare con lei dell’India. Quella di contare i presenti nelle case altrui era una mia vecchia abitudine. Mi era sempre sembrato importante sapere esattamente quante persone avevo intorno, forse perché le notizie ricorrenti di disastri aerei e offensive militari ponevano sempre grande enfasi sul conteggio dei morti e dei dispersi, precisione utile a pungolare anche i cervelli più intorpiditi come una scossettina elettrica. Contati i presenti, il secondo imperativo in ordine di importanza era accertarsi del loro grado di ostilità. Relativamente semplice. Bastava vedere chi si voltava a fissare il nuovo arrivato appena varcava la soglia. In genere bastava un’occhiata attenta per farsi un’idea quasi esatta. Quella sera nel soggiorno c’erano trentun persone. Ostili, più o meno tre su quattro. La moglie di Quincy e la mia accompagnatrice si scambiarono un sorriso nel notare che portavano gli stessi orecchini con il simbolo della pace. Restammo ad aspettare che qualcuno si avvicinasse per fare conversazione. Era una festa e non avevamo nessuna voglia di intrattenerci fra noi due. Eravamo lì per incontrare gente interessante con cui chiacchierare, quindi rivederci alla fine della serata e dirci quanto ci eravamo annoiati e com’era bello ritrovarsi. E’ questa l’essenza della civiltà occidentale. Solo che in realtà non aveva poi grande importanza, visto che un’ora dopo ci annoiavamo tutti indistintamente. Era una di quelle feste talmente noiose che ben presto la noia diventa argomento principale di conversazione. Dove ci si sposta da un gruppetto di convitati all’altro e si sente la stessa frase almeno dieci volte: «Sembra di stare in un film di Antonioni». Con la differenza che le facce non sono altrettanto interessanti.

Decisi di andare in bagno per guardarmi allo specchio. Alle pareti erano appesi sei graffiti incorniciati. Lettere enormi in grassetto, corpo 60 circa, su carta patinata, stampate in corsivo per dare un’impressione di maggiore realismo. Tre dei graffiti erano blasfemi, gli altri tre osceni. Le cornici avevano l’aria di costare un sacco. Mi accorsi che avevo un po’ di forfora sulle spalle della giacca. Stavo per spazzolarla via, quando entrò nel bagno una ragazza che si chiamava Pru Morrison. Veniva da un paesino non meglio specificato della contea di Bucks, e cominciava appena a lasciarsi travolgere dal vortice della monotonia metropolitana. Rimase immobile a guardarmi, con la schiena contro la porta chiusa. Aveva solo diciotto anni, e io ero al tempo stesso troppo vecchio e troppo giovane per interessarmi a lei. Ciò detto, non volevo farle scoprire che avevo la forfora. «Ho pensato di fare un salto a lavarmi le mani.» «Chi è quella negra?» «Pru, questa settimana da Peck and Peck c’è una grande svendita di frustini. Perché non fai una scappata?» «Non sapevo che uscissi con le negre, David.» Io cominciai a lavarmi le mani. Pru si mise a sedere sul bordo della vasca da bagno e aprì il rubinetto giusto quel tanto per far scorrere un filo d’acqua. Mi domandai se il gesto sottendesse messaggi sessuali di sorta. A volte è difficile capirle certe cose. «Mi è arrivata una lettera da mio fratello» disse lei. «Lo hanno messo al comando di un lanciagranate M-79. Sta in una delle zone di guerra più pericolose. Scrive che per ogni centimetro quadrato di terra ci si batte con le unghie e i denti. Dovresti, proprio leggere le sue lettere, David. Sono micidiali.» Tutte le sere si sentiva parlare della guerra in televisione, ma noi preferivamo andare al cinema. Ben presto i film erano cominciati a sembrarci tutti uguali, e così avevamo traslocato in massa in camerette immerse nella penombra dove ci riunivamo a eccitarci o ammosciarci, oppure a guardare gli altri che si eccitavano o ammosciavano, o a bruciare bastoncini d’incenso e ascoltare cassette praticamente mute. Io portavo sempre con me la cinepresa da 16 millimetri. Era un giocattolino proprio spiritoso, e ogni volta tutti ne rimanevano deliziati. «Dice che non si riescono a distinguere gli amici dai nemici.» «Chi?» domandai. «Mi fai vomitare» rispose Pru. «Quincy mi ha detto che hai un ragazzo nuovo, Pru. Dell’Istituto di Meccanica Agricola del Texas. Una specie di giovane cadetto. Mi ha detto anche che l’hai conosciuto tramite una banca dati per cuori solitari.» «Porco schifoso e bugiardo.» «E’ tuo cugino, Pru.» «Hai la forfora» gridò lei. «Te la vedo sulla giacca. Hai la forfora!» Quincy era in forma come raramente l’avevo visto. Raccontava una sfilza di barzellette su portinai polacchi, sacerdoti negri, ebrei chiusi in campo di concentramento

e italiane con le gambe pelose. Rovesciava sul suo pubblico un fiume di insulti e provocazioni, sfidandolo a reagire. Naturalmente tutti noi eravamo piegati in due dal ridere nello sforzo di mostrarci ciascuno più illuminato degli altri. Almeno nelle intenzioni, doveva servirci da esperienza etnicamente liberatoria. Se qualcuno si sentiva offeso da simili barzellette in generale, o risultava sensibile a osservazioni caustiche nei riguardi della propria razza o ascendenza, non era degno di essere accettato nel gruppo. B.G. Haines, che era modella professionista nonché una delle donne più belle che abbia mai conosciuto, pareva apprezzare molto la performance di Quincy. Era l’unica americana delle quattro persone di colore presenti alla serata, ed evidentemente riteneva suo preciso dovere diplomatico ridere più forte degli altri alle venefiche barzellette di Quincy sui negri. Per poco non si buttava a terra, e mi pareva di sentire al culmine di ogni suo scoppio di risa una specie di singhiozzo spezzato e convulso. Mi sa che aveva bisogno di più esercizio. Addirittura, per tutta la serata l’avevo vista sorridere a chiunque le si avvicinasse e annuire solenne ogni volta che qualcuno degli intellettuali presenti la metteva a parte di questa o quell’altra acuta intuizione sociologica. Alla fine mi vidi costretto a ricordarle che dovevamo essere noi educati con lei, non viceversa. Quindi la resi rapidamente edotta sulle responsabilità che aveva nei riguardi della sua gente. Lei agguantò un “hors d’oeuvre” di passaggio e riacquistò immediatamente un’eleganza suprema. Era quasi finita. Qualcuno degli ospiti se n’era già andato. Era solo un aperitivo e si stavano già formando gruppetti per la cena. In un angolo c’era la moglie di Quincy che si esibiva in una versione riveduta e corretta a uso cocktail party di quello che noi definivamo lo ‘spogliarello karate’, un ballo che lei diceva di aver imparato durante un viaggio in Oriente. Entro breve avrei chiesto a B.G. dove voleva cenare. Lei mi avrebbe sicuramente risposto che potevo decidere io. Dopo di che saremmo andati in un ristorantino francese molto lontano, nel West Side, ai confini della terra di nessuno, dove il vento soffia gelido dal fiume e i caseggiati bassi e squallidi esalano rovina e putrefazione, dove in quel periodo dell’anno si prova un senso di vuoto quasi totale, come di un luogo abbandonato di fronte all’incalzare di truppe nemiche. Un luogo in cui nessuno può vivere a parte gatti spelacchiati e bambini con le pance gonfie, dove le luci crepitanti su Times Square, in lontananza, appartengono a un’altra città di un’altra epoca. E sicuramente B.G. avrebbe ordinato cosce di rana. Io avrei cercato di fare colpo su di lei parlando in francese al cameriere, con tutto il calore e l’intimità di un eroe della Resistenza che ritrova un vecchio compagno d’armi, e il cameriere mi avrebbe guardato con disprezzo e B.G. Haines si sarebbe accorta che bluffavo. Dopo di che non sarebbe rimasto altro da fare se non concludere la serata con una di quelle conversazioni sulla morte, la gioventù e l’ansia di vivere in cui si fuma una sigaretta dietro l’altra. Mi tornò in mente di colpo che avevo smesso di fumare. «Dove vuoi andare per cena?» le domandai. Ma lei non mi ascoltava. Stava parlando con un uomo di nome Carter Hemmings. Per

quanto Carter avesse trent’anni, due più di me, al network prendeva ordini dal sottoscritto. Prestavo sempre moltissima attenzione all’età dei miei colleghi. Quelli che temevo di più sul lavoro erano gli uomini più giovani di me capaci di raggiungere una posizione superiore alla mia. Non bastava essere i migliori: bisognava anche essere i più giovani. La mia segretaria, tramite accorte operazioni di spionaggio, era riuscita a scoprire l’età esatta di tutti gli uomini dell’azienda a un livello di responsabilità pari al mio. Quando alla fine mi aveva comunicato che ero il più giovane in assoluto di un anno e tre mesi, le avevo offerto una cena da Lutèce e le avevo fatto avere un aumento di quindici dollari al mese. Carter Hemmings aveva paura di me. Per questo, e per una sorta di generosità natalizia (eravamo in periodo di indulti e tregue militari) non interruppi la sua conversazione con B.G. Decisi invece di andare a farmi un altro drink. Restavano giusto una decina di persone. Sullivan era appoggiata a un muro, con il suo trench zingaro addosso. Ero stato stupido a invitarla. Mi pareva a disagio. Di fronte a lei c’era un funzionario delle Nazioni Unite, un pakistano, con un bicchiere in una mano e un portacenere nell’altra. Sullivan sembrava più propensa a gettare la cenere per terra. Mi misi proprio alle spalle del pakistano e cercai di divertirla esibendomi in tutta una serie di smorfie suine. Lei sfilò il piede destro dalla scarpa e con squisita noncuranza piegò la gamba appoggiandola al muro, facendola svanire a mo’ di cicogna sotto la falda del trench. E così rimase, in piedi su una gamba sola lasciando la scarpa ormeggiata a terra, vuota ed enigmatica. Sullivan riusciva sempre a farmi sentire spaventosamente inadeguato, non so se di proposito o meno. Mi attraeva da morire. «Essendo musulmano» stava dicendo il pakistano «io non bevo. E ciò nonostante, mi sento obbligato a tenere un bicchiere in mano, altrimenti chi mi sta intorno finirà per considerarmi troppo rigido e privo di vizi. Noi musulmani abbiamo regole severissime in fatto di alcol, abbigliamento e relazioni carnali. Forse è stanca di stare qui e vorrebbe tornare a casa. Mi permette di accompagnarla? Ho parcheggiato la mia Plymouth Fury proprio qui di fronte. Lei dove abita?» «Nel cuore degli uomini» rispose Sullivan. Mi avvicinai. In quel momento, il pendolo cominciò a battere le ore. Guardai il pakistano e mossi le labbra senza parlare, per dare l’impressione che la mia voce fosse sovrastata dal rumore. Dopo otto lunghi rintocchi l’orologio tacque, e allora ripresi a metà della frase un tediosissimo racconto di viaggio in Svizzera recuperato di colpo dalla memoria, proseguendo a voce alta. Il funzionario guardò il bicchiere che teneva in mano e poi il portacenere, nel tentativo di decidere quale dei due sarebbe stato meno rischioso posare sopra l’altro. Era in territorio sconosciuto e voleva tenersi libera almeno una mano. A quel punto arrivò Quincy, che cominciò a raccontarci di una nuovissima megadroga che aveva provato la settimana prima. E l’intero consesso si disperse prima ancora che fossimo riusciti a capire di che cosa si trattava. Uscii sul terrazzo. Oltre Central Park sfrecciavano le automobili, fanalini di coda rossi e lampeggianti che si inseguivano verso nord e verso ovest in direzione delle tenebre e del fiume, fari di un arancione chiaro che si avvicinavano, i fischi dei portieri.

I lampioni del parco brillavano fissi di un color argento opaco e gelido. Stavo sprecando la mia vita. Tutti la chiamavano per cognome. Era scultrice, trentasette anni, non sposata, una donna alta che grazie ai modi, al portamento o forse alla pura e semplice presenza sembrava in grado di trasformare in modo impercettibile qualsiasi ambiente in cui si trovasse, incutendo una certa soggezione. Sullivan aveva un viso e un corpo di quelli che ispirano infinite similitudini, per cui cercherò di limitarle al minimo indispensabile. Alle feste, quando compariva con i suoi vestiti comodi e anonimi, i tacchi bassi, struccata, i lunghi capelli smorti e spettinati, risultava sempre il tipo di donna che nei salotti buoni viene considerata bizzarra, curiosa, insolita. A quelle feste, quando Sullivan si ritrovava ad ascoltare questo o quell’altro relitto umano raccontarle i terrori rituali della sua vita o magari seduta da sola ad accarezzare le curve tornite di una chitarra, sentivo gli altri chiedersi di che etnia fosse. Molti pensavano potesse essere indiana. Altri erano convinti che fosse di origini catalane, o polinesiane, o del Mar Morto. Una volta avevo sentito una donna descrivere ammirata il suo viso come precolombiano. Per me, in fondo, non era niente di speciale. (La vendetta, è noto, usa metodi meschini.) Aveva mani sottili, con nocche inquietanti. Occhi scuri che parevano addestrati all’impassibilità qualsiasi cosa vedessero. Naso sottile, con narici che tendevano sempre a dilatarsi all’improvviso, come a fiutare la catastrofe imminente nelle più innocue osservazioni altrui. In sostanza, era una donna snella, forte e un po’ troppo ossuta. Gli uomini non facevano altro che dirle quanto avrebbero voluto portarsela a letto. Tornai in casa. La moglie di Quincy era seduta sul divano a mescolare il suo aperitivo con uno spazzolino da denti. A quanto pareva, Pru Morrison se n’era andata. Quincy e altre due donne si erano seduti per terra davanti alla televisione accesa. Le due donne lavoravano al network, come Quincy peraltro. Una di loro prendeva appunti su quello che lui diceva del programma. Mi guardai intorno a cercare la mia accompagnatrice. Sullivan, sempre appollaiata su una gamba sola, conversava con un uomo che assomigliava a un prefabbricato in lamiera. Cominciai ad agitare le braccia a mo’ di scimpanzé e a saltellare goffo e pesante, spingendo la lingua sopra i denti davanti a gonfiare lo spazio fra le gengive e il naso. Mi curvai, lasciando penzolare le mani fin sotto le ginocchia. Sullivan mi lanciò un’occhiata rapida. Poi l’uomo che era con lei le prese il bicchiere e si diresse verso la cucina. Io mi raddrizzai e la raggiunsi. «Che è successo al tuo portacenere?» «E’ dovuto tornare in ufficio» rispose lei. «Crisi politica improvvisa nel subcontinente.» «Dovrei essere in ufficio anch’io. Sono tutti là che scalpitano per prendere il mio posto. E’ come un torneo per vedere chi esce dall’ufficio per ultimo. Un tipo che si chiama Reeves Chubb dorme in ufficio più o meno tre notti la settimana. Ha i cassetti della scrivania pieni di camicie sporche. Non andiamo mai in riunione nel suo ufficio se prima la segretaria non ci ha spruzzato il deodorante. Ma me la sto cavando bene. Forse un giorno o l’altro riuscirò perfino a prendermi una vacanza.»

«Per andare a sciare? In mezzo a quelle ninfette con i maglioni tettuti.» «Non so» risposi. «Mi piacerebbe qualcosa di più sacrale. Esplorare l’America nella notte ruggente. Sai cosa intendo. Lo yin e lo yang nel Kansas. Ambienti del genere.» «Forse vengo con te» disse Sullivan. «Davvero?» «Mi piacerebbe, David. Sul serio.» «Tanto devo partire per l’Ovest comunque nel giro di qualche mese, per girare un documentario sui Navajo. Pensavo di prendermi le ferie un paio di settimane prima e girare in macchina per la zona.» «Potremmo portare con noi Pike.» «Come no» dissi io. «Troverà senz’altro qualcuno per mandare avanti la baracca in sua assenza.» «La rotta la lasciamo decidere a lui. Gli daremo carta bianca sul campo di battaglia. Si divertirà.» Ero contento. Mi sembrava una buona idea. L’uomo ritornò dalla cucina con i drink. Ci presentammo, dopo di che andai a cercare B.G. Haines. In bagno non c’era nessuno. Andai in camera da letto ed esaminai il mucchio di cappotti stesi sulla coperta. Il suo non c’era più. Guardai negli armadi, e non c’era neanche lì. Poi passai in cucina. Nessuno. Rimasi dov’ero per qualche istante. Poi spalancai il frigorifero e tolsi dal congelatore la vaschetta del ghiaccio. Ne restavano quattro cubetti. Scatarrai un po’ di muco e sputai su ciascuno dei cubetti, uno alla volta. Poi rimisi la vaschetta nel congelatore e richiusi il frigo. Tornai in soggiorno. Sullivan stava ancora chiacchierando con l’ometto tondo e grigio. Non riuscivo a staccare gli occhi da quella scarpa abbandonata per terra.

2. Ero un giovane decisamente bello. L’obiettività che il tempo edifica pezzo su pezzo, e il modo in cui questa cancella ogni ritegno, mi permettevano di dichiararlo apertamente senza ricorrere alla consueta modestia con cui si attribuisce la propria bellezza ai genitori o ai nonni, come nei romanzi cavallereschi. Forse era vero che avevo ereditato da mia madre la carnagione chiara e delicata e da mio padre il fisico atletico, ma a sfogliare l’album di famiglia non si riusciva a intuire da chi avessi preso i lineamenti, curiosamente ellenici. A ventotto anni, per me l’identità fisica significava molto. Con lo specchio avevo più o meno la stessa relazione che molti miei coetanei intrattenevano con l’analista. Quando cominciavo a dubitare di chi fossi, mi bastava insaponarmi la faccia e radermi. E tutto diventava cristallino e miracoloso. Ero David Bell, con i suoi occhi azzurri. Naturale che da questo dipendesse l’intera mia esistenza. Ero alto esattamente un metro e ottantanove. Peso variabile fra gli ottantaquattro e gli ottantasei chili. Nonostante la carnagione chiara, mi abbronzavo con una certa facilità.

Avevo i capelli più biondi di oggi, più folti e lucenti; ottantadue di giro vita, battito cardiaco nella norma. Avevo un ginocchio malconcio, ma nessuno mai mi aveva fratturato il naso, avevo piedi nient’affatto brutti e dentatura più che in salute. Colorito eccellente. Un giorno la mia segretaria mi aveva raccontato di avere sentito Strobe Botway, uno dei miei superiori, definirmi di una ‘bellezza convenzionale’. Ci avevamo riso sopra. Strobe era un piccoletto, a malapena umanoide, con l’abitudine di ruotare lentamente la sigaretta fra pollice, indice e medio, come Bogart nei suoi primi film. Strobe non mi sopportava, perché ero più alto e più giovane di lui, nonché in certo senso meno extraterrestre. Parlava spesso della mistica bogartiana, citando termini filosofici in tedesco che nessuno capiva, e aveva sovvertito più di un party con lunghe citazioni di dialoghi dai film minori dell’attore. Aveva anche un suo gruppo di caratteristi preferiti, uomini il cui nome nessuno era in grado di collegare a un volto, uomini che per sette film consecutivi avevano interpretato il ruolo di guardia carceraria, o di soldati che assaltavano postazioni di mitraglieria giapponese con una granata per mano, di ubriaconi, assassini psicopatici, avvocati truffaldini o collaudatori di aerei che avevano perso il sangue freddo. Strobe sembrava ammirare profondamente le imperfezioni fisiche altrui: i difetti di pronuncia, le cicatrici, i denti scheggiati, tutti particolari che per lui indicavano carattere, una sorta di logoro magnetismo. Il suo mondo non era il mio. Humphrey Bogart lo ammiravo, ma mi innervosiva. Mi infastidiva la sua fronte, una fronte da eterno debitore. L’istinto mi spingeva verso Kirk Douglas e Burt Lancaster. Erano loro le Grandi Piramidi americane, non avevano bisogno di ambiguità per diffondere la propria fama. Erano monumenti. Facce che tagliavano in due lo schermo. Quando ridevano, o piangevano, era sempre in modo incontrollabile. Sorrisi cromati, privi di qualsiasi ambiguità. E non avevano tempo da perdere per sedersi a scambiare battutine ciniche con signore dell’alta società o piedipiatti ritardati. Erano uomini d’azione: saltavano, correvano, amavano senza risparmiarsi. Da ragazzo avevo visto Burt in “Da qui all’eternità”. Sdraiato insieme a Deborah Kerr sulla spiaggia hawaiana. In quel momento, per la prima volta nella vita, mi ero reso conto del vero potere dell’immagine. Burt era come una città in cui noi tutti abitiamo. Tanto era grande. Nel confluire dell’ombra e del tempo c’era spazio in abbondanza per tutti, e nel pensarlo capii che dovevo estendermi di più, fino a separare ogni molecola e fondermi all’interno di quell’immagine. Burt, illuminato dalla luna, era un crescendo di perfezione virile, senza per questo perdere in umanità. Burt è vivo e lotta insieme a noi! Ancora oggi mi porto dentro quell’immagine, e come me credo milioni di altre persone, uomini e donne, ognuno per motivi suoi. Burt illuminato dalla luna. Era un concetto in sé, l’icona di una religione nuova. Quella sera, dopo aver visto il film, percorrendo le stradine di campagna al volante della macchina di mio padre, mi ero domandato quanto reale fosse veramente il paesaggio, e quanto del sogno sia veramente sogno. Strobe morì nel mezzo di una riunione. Gli prese un infarto alla scrivania. E adesso è

cadavere, di una cadavericità convenzionale. Ma sarebbe stato senz’altro lieto di scoprire che la sua opinione riguardo alle mie caratteristiche fisiognomiche era condivisa da molti altri in ufficio. Nell’aria spiravano energie nascoste, correnti leggere e segrete, come del resto succede in qualsiasi azienda che viva del fervore delle immagini. C’era il culto dei non attraenti, dei furbi. Punti premio per ogni dimostrazione concreta di crudeltà. Ritorsioni contro gli attraenti. Bisognava cercare di eludere qualsiasi categoria, in modo da ingannare i giudici. Perché non essere attraenti né poco attraenti, né spietati né furbi, significava vedersi considerare eroe dalle masse anonime, simpatico da chi era brillante e attraente, egregio nessuno dai furbi, omosessuale dai più radicali fra i poco attraenti, giovane che farà strada dagli spietati, mina vagante dai nevrotici più pericolosi e amico intimo e fedele dagli alienati e dai condannati. Io facevo del mio meglio per tenere basso il profilo. Mi muovevo silenzioso rasente i muri e lungo le scale. Fu un evento insignificante a confermarmi la validità di quella tattica. Un giorno, dopo pranzo, stavo attraversando Madison Avenue a fianco di Tom Maples, un giovane assunto al network più o meno quando era stato assunto io. Ci stavamo scambiando i soliti cauti convenevoli. Raggiunto il marciapiede, mi si era avvicinata un’adolescente deliziosa, con le ciglia rosa, a chiedermi un autografo. «Non ti ho mai visto prima» aveva detto «ma senz’altro sei qualcuno di importante.» Sorrideva quasi trionfale nel dirlo, e così avevo firmato con entusiasmo la sua cartina della metropolitana, convinto che Maples si sarebbe molto divertito. Maples mi aveva evitato per i sei mesi successivi. In seguito avevo fatto del mio meglio per mostrarmi umile e riservato quasi all’eccesso. Mi pareva essenziale all’altrui benessere. E’ arrivato il momento di proiettare il film da capo. E lo dico proprio in senso letterale, visto che ho ancora in mio possesso un film che ho girato in quegli anni e anche diverse cassette. Su un’isola remota come questa in cui mi trovo non è che ci sia molto da fare, per cui posso ingannare (o meglio, ridistribuire) un bel po’ di tempo riascoltando la colonna sonora e riguardando per l’ennesima volta le riprese. Mi diressi nel mio ufficio in fondo al corridoio. La mia segretaria era alla scrivania e mangiava una ciambella alla marmellata mentre batteva una lettera. Si chiamava Binky Lister. Una ragazza allegra, un po’ sovrappeso ma in modo gradevole. Aveva una relazione con il mio diretto superiore, Weede Denney, ma rimaneva una collaboratrice fedele, vale a dire, mentiva per coprirmi le spalle e mi difendeva a oltranza contro le accuse delle segretarie di quei dirigenti che mi odiavano e temevano. Mi seguì in ufficio. «Il signor Denney ti vuole da lui alle dieci in punto.» «Per cosa?» «Cristo santo, mica mi spiega tutto.» «Non inalberarti, Binky. Era una domanda come un’altra.» Immobile dov’era, Binky incrociò le caviglie con una certa goffaggine, un gesto che aveva tutta la valenza di un broncio. Mi misi a sedere dietro la scrivania mastodontica e immediatamente mi immaginai nudo. Spostai leggermente indietro la sedia e la feci

ruotare di centottanta gradi per contemplare i miei possedimenti. Alle pareti erano appesi ingrandimenti di fotogrammi delle trasmissioni che avevo scritto e coordinato. Le mensole della libreria traboccavano di copioni rilegati. In due angoli dell’ufficio c’erano piante in vaso e sul tavolino, in bell’ordine, una decina di periodici specializzati. I portacenere erano tutti di Jensen. Avevo un divano di pelle nera e la porta dell’ufficio era gialla. Weede Denney aveva un divano rosso fuoco e la porta nera. «Altro?» domandai. «Ha chiamato una donna. Non ha lasciato detto il nome, ma solo che le cosce di rana non erano gustose come al solito.» «La mia vita» dissi «è una serie di messaggi telefonici che nessuno è in grado di capire tranne me. Tutte le donne che incontro si credono oracoli di Delfi. Suona il telefono alle tre del mattino ed è una bloccata all’aeroporto che chiama per dirmi che i salatini a forma di animaletti sono scappati dallo zoo. L’altro giorno mi è arrivato un telegramma uno schizogramma da una ragazza della Costa, e diceva soltanto: LE MIE TONSILLE SONO ANDATE A UN FUNERALE. Ma tu li spedisci mai messaggi del genere, Bink? La mia vita è un telex dell’Interpol.» «Se ti scoccia tanto, perché sorridevi quando ti ho detto delle cosce di rana?» «Perché era una buona notizia» risposi. Feci un salto nell’ufficio di Weede. Era seduto sulla sua poltrona da barbiere rimessa a nuovo. Per scrivania usava un tavolino basso e rotondo in tek. In fondo all’ufficio teneva la consolle a tre schermi. La poltrona da barbiere, tocco di eccentricità che uno nella posizione di Weede poteva permettersi, non mi infastidiva in modo particolare, mentre il tavolino in tek mi turbava, perché pareva sottintendere quanto la mia monumentale scrivania fosse superflua. Weede era maestro della diplomazia lavorativa, specialista in tattiche di rappresaglia. Qualche tempo dopo la mia assunzione al network, uno dei suoi, un tale di nome Rob Claven, aveva deciso di adornare le pareti del suo ufficio con, per l’esattezza, quattordici dipinti di sua moglie. Uno spettacolo oserei dire terrificante. Weede non aveva aperto bocca. Ma una settimana più tardi ci aveva convocato tutti nel suo ufficio, compreso Rob Claven. Eravamo rimasti sbigottiti. Dall’ufficio erano scomparsi tutti i quadri e le vecchie stampe navali, e al loro posto c’era soltanto una riproduzione 20 x 30 di un dettaglio della Cappella Sistina. Per Rob Claven quelle pareti quasi completamente nude erano la condanna a morte, e il piccolo Michelangelo l’ascia del boia. Alla fine Weede mi fece cenno di entrare, indicandomi la sedia blu. Lo fece con un gesto della mano, o forse dell’occhio, talmente impercettibile che nel momento stesso in cui sedevo mi resi conto che non avevo idea di come facessi a sapere che dovevo accomodarmi proprio sulla sedia blu. C’era anche Reeves Chubb, che fumava uno dei suoi sigari al mentolo. Weede ci raccontò una storiella sul golf e l’adulterio. Nel giro di pochi minuti arrivarono altre persone, fra cui una donna, Isabel Mayer, e iniziò la riunione. Guardai fuori dalla finestra. Carpentieri con il casco giallo in testa al lavoro in un

edificio in costruzione dall’altra parte della strada. Entravano e uscivano dallo scheletro d’acciaio sparando acetilene e avanzando sulle travi malferme come a una sfilata di moda. Strano a dirsi, non parevano muoversi con particolare cautela. Forse avevano sconfitto l’acrofobia. Forse avevano visto altri cadere dalle impalcature e avevano disprezzato la loro morte per il sollievo che era seguito al trauma, un’ondata di sollievo senz’altro risalita con il vento da un piano all’altro del grattacielo in costruzione, lungo i pilastri affusolati. In situazioni del genere, cos’altro si poteva fare se non correre in un bar con le luci soffuse e buttare giù d’un fiato tre whisky brucianti? Su uno dei piani c’erano due uomini in ginocchio a rivettare le travi, e un altro, al piano superiore, saltava di putrella in putrella a braccia leggermente divaricate, le mani all’altezza dei fianchi. A metà di un salto, quando si trovò a una certa angolatura rispetto al fianco del grattacielo in costruzione, spiccò sullo sfondo del cielo, un cielo azzurro e profondissimo, e uomo e cielo parvero incorniciati dall’impalcatura d’acciaio in un attimo totalmente surreale. Io vedevo i rivettatori e l’operaio che balzava sulle putrelle, ma loro non erano in grado di vedersi l’un l’altro. Rimasi a fissarli a lungo, cercando intanto di rilevare le voci nell’ufficio e dar loro un significato. Poi da dietro una putrella comparve un altro uomo, alto, con l’orlo dei pantaloni che non arrivava neppure agli stivali. Rimase immobile per un secondo, con la mano contro il casco a farsi schermo dal sole. Sembrava guardasse proprio noi. Poi alzò la mano per salutarci. Fissava proprio me e continuava ad agitare la mano. Non sapevo che fare. Intorno, le voci pacate, ponderavano, facevano compromessi, devastavano, incalzavano. Mi parve necessario dare un riconoscimento a quell’uomo. Non sapevo perché, ma mi sembrava doveroso. Era essenziale: bisognava assolutamente dare un segno. «Guardate» dissi allora. «Guardate quel tipo laggiù. Ci sta salutando.» «Guardate» disse Isabel. «Ci saluta. Quel carpentiere là. Lo vedi, Weede?» E subito dopo ci ritrovammo tutti e otto in piedi davanti alla finestra a restituirgli il saluto. Eravamo euforici. Lo salutammo tutti con la mano, fra grandi risate. Weede cominciò a urlare: «‘Ti abbiamo visto! Ti abbiamo visto!». Cominciammo a spintonarci per rubarci il posto. Isabel cercò di salire sul ripiano sopra il termosifone che sporgeva da sotto la finestra. Io la aiutai, e allora lei si mise in ginocchio a fare ciao ciao al carpentiere con tutte e due le mani. Neanche una nuvola in cielo. Non riuscivamo a frenare le risate. Uscimmo dalla riunione di ottimo umore. Weede propose di andare a pranzo insieme. Reeves Chubb declinò spiegando che aveva un sacco di lavoro da finire, e io sapevo bene che prima o poi Weede gli avrebbe fatto pagare cara quella piccola defezione. Andammo al Gut Bucket, uno speakeasy molto “nouveau” con tanto di sputacchiere e segatura a terra, dove un hamburger costava quattro dollari e mezzo. Il locale era sempre gremito di gente del network, attori e modelle. Alle pareti erano appese centinaia di foto di George Raft. Andammo a sederci a un tavolo rotondo di quercia. Per tre minuti buoni nessuno aprì bocca. Poi arrivò il cameriere a prendere le ordinazioni. In fondo alla sala era seduta a bere una bella coppia, un uomo e una donna con le

gambe che si sfioravano sotto il tavolo. Mi misi a fissare la ragazza nel tentativo di attirarne lo sguardo. Mi bastava un breve sorriso, nient’altro. Mi avrebbe fatto molto piacere. Avevo un’energia dentro che chiedeva di essere liberata tramite piccolezze del genere. Rubare un sorriso alla giornata di quell’uomo che le sedeva accanto. Attimi di egocentrismo che tesaurizzavo con cura e serbavo nei ricordi uno per uno. Il cenno del capo. Il sorriso delicato. Lo sguardo profondo sopra la punta accesa della sigaretta. Più di questo sarebbe stato troppo. Non volevo far soffrire nessuno. «Ottima riunione» disse Weede. «Non pare anche a voi?» Il cameriere portò da mangiare prima che fossimo riusciti a finire il secondo aperitivo. Il locale traboccava di donne incredibili. Weede ci raccontò del suo safari fotografico in Kenya. Ci ave va passato un mese in autunno con la moglie Kitty. Diceva che dovevamo assolutamente fare un salto da loro prima o poi per vedere le diapositive. Al network tutti facevano inviti che poi cadevano nel vuoto. Ogni tanto sulla porta dell’ufficio si materializzava qualcuno che non si faceva vedere da mesi, serafico miraggio sullo sfondo del primo caffè della mattina. Diceva: «Uno di questi giorni pranziamo insieme», dopo di che non si faceva più vedere né sentire. Oppure uno dei dirigenti alzava la faccia insaponata dal lavello nel bagno, a occhi socchiusi, e borbottava: «Quand’è che vieni a mangiare qualcosa da me e Ginny (o Billie, o Ellie, o Sandy)?». In genere gli inviti veri erano rivolti in segreto, tramite comunicazioni strettamente personali o dietro porte chiuse. Weede si congedò prima del dessert, con noi chiusi in un ostinato silenzio. Sapevamo tutti benissimo dove andava: al PennMar Hotel sulla Nona Avenue, dove c’era Binky ad aspettarlo. Si trovavano ogni giovedì per un’ora. Dopo che si fu allontanato, Isabel decise di ordinare un brandy e noi facemmo altrettanto. Isabel era una donna bassa e robusta, sui quarantacinque anni. Quattro mesi prima, a una festa su una chiatta che circumnavigava la Statua della Libertà, si era messa a girare fra gli invitati dicendo a tutti che aveva buttato uno dei suoi peli pubici nello scotch and soda di Mastoff Panofsky. Avevano tutti paura di lei. In realtà non era logico averne: al network si occupava, in una maniera oscuramente determinata, del coordinamento dei servizi sulla moda e non era mai competitiva con gli altri. Nonostante ciò, tutti noi toccavamo estremi quasi vergognosi pur di mostrarle amicizia e lealtà. Forse percepivamo in lei una forma quasi felina di perversione. Competitiva o meno, sembrava una capace di colpire a sorpresa senza la minima concessione all’etichetta bellica fra colleghi. Isabel cominciò a parlare delle scritte che aveva letto sui muri dei gabinetti delle signore in vari ristoranti della città. Dopo averne recitata una, batteva il pugno sul tavolo. A quel punto arrivarono i brandy, e allora cominciammo a discutere del palinsesto invernale, dichiarandoci tutti d’accordo nel ritenerlo di altissima qualità. Passò una ragazza altissima con pantaloni a strisce colorate. Le sue gambe sembravano non finire mai. E poi arrivò Reeves Chubb. Ci vide seduti al tavolo e ci salutò con la mano. Si gettò sulla sedia lasciata libera da Weede con un respiro di sollievo degno di un momento di grande rilevanza storica, come se avesse trascorso mesi interi nella foresta tropicale in cerca di

noi, del battaglione perduto. «Weede se n’è già andato?» domandò. «Cristo, mi sa che l’ho mancato di poco. Ho deciso di fare un salto qui per un boccone veloce prima di mettermi al lavoro su quella storia della Cina. Cosa state bevendo? Ho appena sentito che hanno silurato Phelps. Lui non lo sa ancora, per cui non fatevi sfuggire niente. Mi sa che aspetteranno l’anno nuovo. Paul Joyner è convinto che dopo toccherà a lui. Ha tenuto la porta chiusa tutta la mattina. Hallie dice che l’ha passata a telefonare a tutti i suoi conoscenti dai tempi del liceo. Ma sono otto anni che dice la stessa cosa. Dev’essere convinto che se continua a ripeterlo non succederà affatto. Scaramanzia. Le ultime settimane sono state un inferno. Nell’ultimo mese ho passato tutti i fine settimana in ufficio. Se le cose non si aggiustano un po’, la mia sposa bambina dice che torna da mammà. Avete letto che la M.B.O. usa dati di seconda mano per la programmazione? Mentre scendevo ho incrociato Jones Perkins, Mi ha detto che Warburton ha una malattia del sangue di quelle rarissime e incurabili. Mi piacerebbe fare un salto ad Aspen per le ferie, ma mi sa che non ci riesco. In compenso ci va la mia segretaria. E’ un mistero come ci riesca, gente così. Questa primavera Hallie torna in Europa. Avete sentito cos’ha combinato quel coglione di Merrill? A proposito, Blaisdell mi ha raccontato di avere visto la moglie di Chandler Bates a San Juan il weekend scorso. In giro per El Convento in compagnia di uno di quei tipi che fanno pesca subacquea. Di pessimo gusto. Isabel, lo sai che quei guanti sono la fine del mondo? Se non mi prendo una vacanza al più presto, un giorno entrerete nel mio ufficio e al mio posto troverete solo un mucchietto di cenere. Cos’è che state bevendo?» Tornammo tutti in ufficio. Nei primo pomeriggio era sempre tranquillo: il palazzo si cullava placido in un riposo tropicale, come sospeso per miracolo su un’amaca: dopo di che si affievoliva il torpore del cibo e degli alcolici e di colpo ci tornava in mente il motivo per cui eravamo lì, cioè per telefonare e parlare a macchinetta, e allora ciascuno si chinava sul proprio tavolo. Ma aveva qualcosa di straordinario, quel breve periodo, quell’ora precedente il risveglio dei ricordi. Era il momento in cui ci si sedeva sul divano invece che dietro la scrivania, in cui si chiamava la segretaria e si chiacchierava a bassa voce di nulla in particolare: di film, libri, sport acquatici, viaggi, di nulla. In quei momenti si consolidava un tipo particolare di affetto, simile a quello che si genera in una famiglia in cui si condividono tante cose che non affezionarsi sarebbe inumano. E anche l’ufficio stesso pareva trasformarsi in un luogo speciale, perfino con quella sua luce giallognola e disperata tanto simile al colore dei giornali vecchi: subentrava la convinzione di essere emotivamente al sicuro, di trovarsi in territorio conosciuto. Per chi aveva un’anima, e sentiva il bisogno di farsela accarezzare dal conforto delle radici, delle stagioni e della familiarità, era impossibile passare in mezzo a quelle scrivanie per duemila mattine di fila e ascoltare il ticchettio piroettante delle macchine da scrivere senza convincersi alla fine di essere al sicuro. Si sapeva dov’erano esattamente gli uffici legali, come far arrivare un pacco all’ufficio consegne senza troppi ritardi, si sapeva da chi andare per le detrazioni fiscali e cosa fare se il distributore d’acqua perdeva. Si conoscevano alla perfezione tutte le piccole cose di cui si sarebbe stati all’oscuro in un

altro ufficio di un altro palazzo di un’altra parte del mondo; al confronto quanto si poteva dire di sapere, o quanto sicuri ci si credeva nei riguardi, per esempio, della propria moglie? Ed era proprio allora, prima che tornasse in mente il motivo per cui ci trovavamo là, che l’ufficio restituiva ai suoi occupanti un certo senso di appartenenza. Ci mettevamo a sedere nella quiete del primo pomeriggio, dondolandoci piano, nella consapevolezza di avere fatto ritorno alla nave madre. In corridoio squillava un telefono. Nessuno si prese la briga di rispondere. Poco dopo cominciò a squillarne un altro. Feci lentamente il giro del mio ufficio, stirandomi. Cercai di ricordare se avevo mai visto Burt o Kirk recitare in un film ambientato in un ufficio, magari una di quelle operette morali con tanto di giochi di potere e pavidi adulteri. Mi accorsi che c’era un promemoria sulla scrivania. Dalla concisione del messaggio capii subito che era uno dei tanti strani promemoria che ormai da oltre un anno facevano la loro comparsa sulle scrivanie. Lo raccolsi e cominciai a leggerlo. A: Divisione Tecnica B Da: S. Agostino Mai uomo sarà più morto di disastrosa morte di quando la morte stessa sarà immortale. Nessuno era mai riuscito a scoprire chi spediva quei promemoria. C’erano state indagini e interrogatori, ma senza risultato. Chiunque li mandasse, doveva superare due ostacoli: introdursi nella sala ciclostili e stamparne copie a sufficienza per l’intera divisione senza farsi scoprire, poi distribuirli uno per uno in tutti gli uffici e su tutte le scrivanie. Nessuno ricordava di averli mai visti consegnare effettivamente da qualcuno: comparivano dal nulla, di mattina o nel primo pomeriggio. Quello era il primo Sant’Agostino. I precedenti promemoria riportavano messaggi di Zwingli, Lévi-Strauss, Rilke, Cechov, Tillich, William Blake, Charles Olson e un capo guerriero Kiowa di nome Satanta. Ovviamente l’estensore di quei messaggi anonimi era stato ribattezzato il Memo Matto. Io non amavo quel nomignolo: mi sembrava troppo scontato. Lo chiamavo Trockij, invece. Non avevo motivi particolari per scegliere Trockij: mi pareva adeguato, niente più. Mi domandavo se fosse qualcuno che conoscevo. Erano tutti convinti che fosse un ometto cupo e grottesco, senz’altro deluso dalla vita, livido di disprezzo per un’azienda tanto elefantiaca e impersonale, sicuramente addetto al reparto spedizioni, tradizionale ghetto per maniaci sessuali, mutanti e vegetariani. L’opinione condivisa era che si trattasse di un forestiero che abitava da un affittacamere a Red Hook e passava le serate a leggere un trattato in otto volumi sulle psicosi in un carattere quasi illeggibile, raccontando poi al droghiere di fiducia di essere stato uno studioso del Talmud, al paese natio. Era questa l’idea comune, e forse a suo modo era logica. Ma io provavo più gusto a pensare che in realtà Trockij fosse un dirigente ai massimi livelli, uno da ottantamila dollari l’anno che rubava di nascosto le graffette dagli uffici.

Andai a sedermi alla scrivania e seguii con una biro il contorno della mia mano sinistra su un foglio bianco. Poi telefonai a Sullivan, ma lei non rispose. Girai per l’ufficio ancora un po’, diedi un’occhiata in corridoio. Gran parte delle ragazze erano già tornate al lavoro: scoperchiavano le macchine da scrivere e infilavano squallidi Kleenex usati nei cassetti in fondo alla scrivania insieme alle vecchie lettere d’amore, alle bambole di pezza e ai libri porno regalati dai superiori in onore allo spirito del nuovo liberalismo, nonché alla speranza di veder finalmente succedere qualcosa. Chiusi la porta. Poi abbassai la lampo dei pantaloni e tirai fuori l’uccello. Girai un po’ per l’ufficio con l’uccello di fuori. Una bella sensazione. Me lo rimisi dentro e archiviai il promemoria di Trockij nella cartella in cui avevo riposto tutto il suo materiale, alcune poesie che scrivevo in ufficio di tanto in tanto e vari schizogrammi spediti da ragazze di mia conoscenza. (SALUTI DALLE COSTE PANORAMICHE DEL NEBRASKA.) Aprii la porta. Binky era seduta alla sua scrivania. La vidi tirare fuori da un sacchetto bianco un tramezzino e un bicchiere di plastica. Il tramezzino, una volta scartato, pareva umidiccio e gommoso. Fu un attimo a suo modo commovente. «Bentornata alle montagne di zucchero filato.» «Ciao» disse lei. «Ho passato due ore in quel cesso di Saks senza comprare niente. E adesso sono qui a mangiarmi un tramezzino alla Coca-Cola. Buon Natale.» «Trockij ha colpito ancora.» «Ho visto» rispose lei. «Io resto dell’idea che sei tu.» Sapeva bene che per me era un complimento. Diceva spesso cose con lo scopo apparente di lusingarmi. Non capivo perché. Per molti versi consideravo Binky una buona amica e mi domandavo spesso cosa sarebbe successo se avessi cercato, per dirla nel gergo dell’epoca, di dare una svolta al nostro rapporto. Una volta ci eravamo trovati a lavorare fino a tardi, e mentre le dettavo una lettera lei si era tolta le scarpe. Vedere una donna che si sfila le scarpe mi emoziona da sempre, e così l’avevo baciata. Niente di più, solo un bacio fra un paragrafo e l’altro, ma forse a spingermi non era stata pura e semplice tenerezza, e neanche il desiderio di movimentare il sostanziale grigiore della nostra frequentazione. Forse si era trattato solo di uno dei miei rigurgiti di egocentrismo. Era successo solo qualche giorno prima che venissi a sapere di lei e Weede. «Vieni dentro» le dissi. Entrò nel mio ufficio portandosi il tramezzino e ci sedemmo sul divano. «Hanno appena silurato Phelps Lawrence» disse lei. «Sì, l’ho sentito.» «Gira voce che il prossimo sarà Joyner.» «E’ una voce partita proprio da Joyner» dissi io. «Sono le sue strategie di sopravvivenza. Se non sta in campana, un giorno o l’altro gli si ritorceranno contro.» «Jody dice che secondo lei è l’inizio di una grande purga. C’è stato un diluvio di comunicazioni strettamente personali. Secondo lei costringeranno Stennis a dimettersi. Acqua in bocca, però. Mi ha fatto promettere di non dire una parola.» «E’ da un po’ che noto le porte chiuse. Certe volte penso che le chiudano al solo

scopo di metterci paura. Lo sanno tutti che porta chiusa vuol dire discussione riservatissima in corso, e discussione riservata vuol dire guai in vista. Ma forse vogliono solo guardarsi in pace le lezioni di chitarra su Channel 31.» «Grove Palmer divorzia» disse Binky. Mi resi conto all’improvviso di non essermi lavato i denti dopo pranzo. In ufficio tenevo spazzolino e dentifricio, e mi lavavo sempre i denti dopo un pranzo innaffiato. A quell’ora, il bagno era sempre gremito di uomini che si lavavano i denti e facevano gargarismi con il collutorio. A volte mi veniva da pensare che tutti noi del network esistessimo solo su videotape. Le nostre azioni, le nostre parole avevano un che di già trascorso. Tutte cose dette e fatte già da tempo, che poi venivano congelate e immagazzinate in attesa di essere trasmesse e ritrasmesse non appena disponibile uno spazio nel palinsesto. La sensazione diffusa era che da un momento all’altro qualche mignolo omicida potesse premere un bottone e cancellarci per l’eternità. Quegli istanti nel bagno in compagnia di dieci uomini intenti a lustrarsi i denti erano forse i peggiori in assoluto. Era come se fossimo segnali radio, e attraversavamo tempo e spazio a intermittenza, come in uno spot pubblicitario di cui è impossibile occultare la follia. «Come va con il tuo progetto sui Navajo?» domandò Binky. «Quincy continua a impantanare tutto. Voglio parlare con Weede e vedere se riesco a trovare un modo di lavorarci da solo. Ma non farne parola con nessuno.» «David» disse lei. «Che c’è?» «Forse cancellano “Soliloquio”.» «Sei sicura?» «Secondo la persona che me l’ha detto, a quello stronzo dello sponsor non interessa rinnovare il contratto.» «E perché?» «Non me l’ha detto.» «Restano sempre i Navajo» ribattei. «David, ma quello è il terzo o quarto miglior programma che danno in t.v.» “Soliloquio” era una serie televisiva ideata e realizzata da me personalmente, la prima di una certa importanza da quando ero entrato nella divisione di cui Weede era supervisore, un gruppo ristretto, sperimentale e d’élite creato allo scopo di sviluppare idee e tecniche nuove. Gli altri al network ci disprezzavano per la relativa libertà di cui godevamo e per i riconoscimenti ottenuti con i nostri servizi dal fronte, realizzati in completa indipendenza dalla divisione notiziari. “Soliloquio” non aveva mai vinto nulla. Il formato della trasmissione consisteva molto semplicemente nel mettere una persona davanti alla telecamera per un’ora e fargli raccontare la storia della sua vita. Volevo chiedere a Binky cos’altro aveva detto Weede riguardo la serie, ma non sarebbe stato bello da parte mia. Binky correva già un rischio a riferirmi quello che sapeva. Proprio in quel momento Weede passò davanti alla porta dell’ufficio, velocissimo, a testa bassa e proteso in avanti come sugli sci. Il giovedì pomeriggio tornava sempre in ufficio almeno

mezz’ora dopo Binky, evidentemente per sviare i sospetti. Mi divertiva l’idea che quella mezz’ora la passasse a fare cinque volte il giro dell’isolato o forse in una cabina telefonica nell’atrio fingendo di parlare con qualcuno, oppure parlando davvero, una conversazione di lavoro in piena regola con il segnale telefonico. E passava sempre davanti al mio ufficio in gran fretta, dopo di che cercava di evitarmi per il resto della giornata. Credo possedesse un senso di colpa particolarmente complesso. Secondo me in quei giovedì mi temeva. Ma il venerdì mattina veniva a cercarmi soffiando fuoco e fiamme, come se fossi io il demiurgo di quel senso di colpa. Binky ritornò alla sua scrivania. Io allentai la cravatta e mi rimboccai le maniche. Mi ero creato l’illusione che la gente si sarebbe convinta che se uno si mostrava sciatto in un ambiente di eleganza tanto metodica, era senz’altro perché lavorava come un pazzo. Squillò il telefono. Era Wendy Judd, una mia ex fidanzata del college. Aveva traslocato a New York dopo un anno intero di vagabondaggi seguiti al divorzio da un megaproduttore della Paramount, o forse della Metro. «Sto morendo, David.» «Questo tutti, dimmi di te piuttosto, Wendy.» «New York è un inferno. Senti, prima che mi dimentichi, vuoi venire a una festa domani sera? Da solo però. Sei l’unico che può salvarmi.» «Wendy, lo sai benissimo che il venerdì sera vado al bowling con gli amici.» «Ti prego, David. Non è il momento di scherzare.» «Gli Steamrollers: così abbiamo chiamato la nostra squadra. Domani sera c’è la finale per il titolo nazionale contro i Silver Jets. Per i vincitori c’è una coppa con un grande campione greco di bowling nudo in bassorilievo.» «Vieni presto» disse lei. «Così mi aiuti a condire l’insalata e chiacchieriamo un po’ dei vecchi tempi.» «Non ci sono più vecchi tempi di cui chiacchierare, Wendy. Le registrazioni sono andate accidentalmente distrutte.» «Verso le otto» replicò lei e riattaccò. Fuori dall’ufficio, le ragazze battevano sui tastini ovali. Uscii a fare quattro passi. Erano tutti occupatissimi. Sembrava che tutti i telefoni squillassero insieme. Certe ragazze parlavano da sole mentre battevano a macchina, borbottando “merda” a ogni errore. Feci un salto nel reparto cancelleria. Gli armadietti erano del colore delle truppe in prima linea. C’era Hallie Lewin, china su un cassetto. Non esiste luogo al mondo più eccitante sessualmente di un grande ufficio. E’ come sognare un gineceo intricatissimo e labirintico: dovunque si vada, a ogni angolo, ogni cubicolo, ogni rampa di scale, si presenta allo sguardo uno spettacolo quasi lascivo. Donne in piedi, sedute, in ginocchio, accovacciate, tutte in pose che sembrano studiate per colpire lo sguardo. Come giardini arcadici in cui ogni albero nasconde una candida ninfetta. Hallie mi vide arrivare e sorrise. «Pare che abbiano silurato Reeves Chubb» dissi. «Davvero? Non avevo idea che gli andassero male le cose.» «Acqua in bocca.»

«Ma certo.» «Hallie, hai il culetto più delizioso che abbia mai visto.» «Oh, grazie.» «Non una parola su Reeves.» «Giuro» disse lei. Feci il giro e mi diressi all’ufficio di Weede Denney. Lungo il percorso vidi Dickie Slater, il portalettere aziendale sessantacinquenne, che si grattava le palle dietro la scrivania di Jody Moore. Lui mi vide e mi rivolse un gran sorriso, da uomo a uomo, continuando a grattarsele. Tody era al telefono e per qualche strano motivo parlava in portoghese. Voltai l’angolo e vidi James T. Rice attraversare un corridoio a tutta velocità. Non sapevo che cosa avrei detto a Weede. Mi sconvolgeva l’idea che chiudesse la mia serie, ero fuori di me. In situazioni del genere tendevo a reagire come un bambino rifiutato o deluso, con la stessa genialità meschina nell’escogitare rappresaglie. Cominciavo a raccontare bugie bizzarre e insensate. Spaccavo la macchina da scrivere. Rubavo oggetti vari dall’ufficio. Spedivo promemoria venefici a tutti quelli sotto di me. Una volta, quando Livingston, uno dei vicepresidenti, aveva criticato una mia idea, ero tornato in ufficio, mi ero soffiato il naso a lungo e quella sera ero entrato di nascosto da Livingston a infilargli il fazzoletto sporco nel primo cassetto della scrivania. Weede era in piedi al centro dell’ufficio, profondamente assorto, a pettinarsi la pelata con una mano. Mi guardò fisso. «Adesso non ho tempo di parlare, Dave, i telefoni scottano. Ci vediamo domani di prima mattina.» Mentre tornavo nel mio ufficio passai dalla scrivania di Binky per chiacchierare ancora un po’, ma pareva molto impegnata. Tornai alla scrivania e richiamai Sullivan. Stavolta rispose. «Utah» le dissi. «Ciao, David.» «Montana, Wyoming, Nevada, Arizona.» «Ieri sera non ti ho più visto. Mi hai lasciata sola in mezzo a prefiche e necrofili.» «Steamboat Springs, le Sawtooth Mountains, Big Timber, Aztec, Durango, Spanish Fork, la Monument Valley.» «Sento cantare l’America» disse lei, ma non con il tono di una che ci crede davvero. «Conosco un tipo che ha un camper. Abita da qualche parte nel Maine. Possiamo fare un salto a prenderlo e poi ce ne andiamo tutti a ovest sul suo camper.» «Mi basta un’ora di preavviso.» «A tutto gas per il New Mexico nell’aurora vellutata.» «Faccio tardi a un appuntamento» disse Sullivan. Cercai di concludere un po’ di lavoro. Ormai era buio. Andai alla finestra. Guardando verso sud, dall’altezza a cui mi trovavo, vedevo le luci accatastate una sull’altra per quasi tutta la lunghezza di Manhattan e il reticolo traforato delle strade. Aprii di uno spiraglio la finestra. L’intera città ruggiva. D’inverno, quando il buio cala prima del previsto e dalla nebbia stantia iniziano a occhieggiare le luci della città, New York

diventa come una gigantesca torta di nozze. Si entra nell’ascensore con musichetta e si scende di duecento metri in dieci secondi netti, con un ronzio iperbarico nelle orecchie. E’ un processo spaventosamente impersonale, eppure in qualche modo necessario per passare dall’immagine a ciò che è effettivamente infilzato su quella graziosa forchetta. Mi feci quattro passi fino all’ufficio di Carter Hemmings. Lui era alla scrivania che si annusava le dita odorose di nicotina. Quando mi vide cercò in fretta di mimetizzare il panico scattando in piedi in un gesto assurdo e allargando le braccia come un barone degli allevatori argentini che accoglie nella sua villa un generalissimo golpista. «Ehi, Dave» disse. «Che succede, amico?» «Mi dicono che hanno licenziato Mars Tyler.» «Davvero. Sul serio. Cristo santo.» «E’ iniziato il grande pogrom. Si sente per le strade lo sferragliare dei carretti per i condannati.» «Siediti. Dico a Penny di portare un caffè.» «Non ho tempo, Carter. Tutti i circuiti sono in sovraccarico. Come va il progetto del laser? Stanno cominciando a farmi pressioni.» «Sto cercando di ridurlo a forza a proporzioni gestibili, Dave.» «Ti sei divertito con B.G., ieri sera?» «Non sapevo la conoscessi, Dave.» «Di vista» risposi. «Ragazza splendida. Ma non se n’è fatto niente. Cena insieme, poi l’ho riportata a casa.» «Oggi Weede ha parlato di te, a pranzo. Uomo strano, Weede. Con un debole per i giudizi affrettati. Ti conviene darti da fare con il progetto del laser. Sarò qui domani mattina presto per dargli un’occhiata. Sarà in ufficio presto anche Weede, domani mattina. Verremo tutti in ufficio prestissimo, domani mattina. Buona serata, Carter. Salutami tua moglie.» «Dave, guarda che non sono sposato.» Tornai nel mio ufficio. Binky stava cercando di rimettere in ordine i miei schedari. Era quasi ora di andarsene. Riaggiustai la cravatta e mi riabbottonai i polsini. Nel corridoio i telefoni squillavano tutti contemporaneamente. Mi domandavo chi fosse veramente Trockij. 3. La gente si infilava nel traffico a caccia di un taxi. Migliaia di uomini in corsa verso la Grand Central, a grandi falcate interrotte, zigzagando tra la folla, marciavano per corridoi sotterranei e si riversavano nei saloni, treni caldi in attesa, lunga oscurità, dita macchiate di inchiostro, la battaglia contro il sonno. Mi piaceva molto tornare a casa dall’ufficio a piedi, perché mi sentivo un virtuoso. La calca iniziò a diradarsi solo quando mi trovai a sud della Quarantaduesima, e per

tutto il percorso il traffico non diede tregua. A sud della Quarantaduesima la gente aveva più libertà di decidere il passo, eppure i volti parevano grigi e afflitti, i corpi intabarrati davano un’impressione di clandestinità, e allora pensai che forse in quella metropoli la folla era davvero essenziale all’individuo, perché senza di essa non c’era nulla contro cui rivolgere la propria rabbia, mancava l’eco del proprio dolore, si dissolveva ogni prova concreta dell’esistenza di persone ancora più sole al mondo. Pensieri fuggevoli. Me ne tornai a casa, accesi la t.v., mi spogliai ed entrai nella doccia. Abitavo in un appartamento con vista su Gramercy Park. Nello stesso condominio abitava la mia ex moglie. L’accordo non era poi così bizzarro; anzi, non era nemmeno un accordo. Quando eravamo ancora sposati, abitavamo in un appartamento più spazioso dal lato opposto del parco. Da un amico avevo saputo che era disponibile un appartamento dall’altra parte, e mi era parso logico traslocare, visto che mia moglie mi aveva lasciato, non avevo bisogno di una casa tanto grande e non aveva senso pagare un affitto così alto. Mia moglie si era stabilita al Village per un po’, passando le sue giornate tra lezioni di danza, seminari alla New School e corsi di alimentazione macrobiotica; inoltre, si era iscritta a un’associazione cinefila ed era entrata in analisi. Una sera mi aveva invitato a cena e alla fine, al momento del caffè, mi aveva detto che la vita non le andava molto bene. Le sue varie attività non erano poi così coinvolgenti e i suoi amici maschi sembravano capaci di discutere solo di abbonamenti stagionali al campionato di hockey o di football e della Filarmonica. Mi aveva detto che le mancava molto Gramercy Park, perché era uno dei pochi avamposti di civiltà in una metropoli in progressiva decadenza. Qualche tempo dopo si era liberato un appartamento nel condominio in cui stavo. Gliel’avevo detto e lei l’aveva preso in affitto a scatola chiusa. Era una ragazza graziosa, bionda, con i seni piccoli e il passo saltellante da majorette. Si chiamava Meredith Walker. Ci eravamo conosciuti a una festa danzante al country club di Old Holly, il paese della contea di Westchester in cui ero cresciuto. Allora avevo diciannove anni ed ero a casa dal college per le vacanze estive. Merry si era trasferita solo da pochi mesi. Suo padre era un maggiore dell’aeronautica assegnato al comando di un distaccamento del Centro Addestramento della Riserva, in un piccolo college dei dintorni. Merry mi aveva raccontato che da quando era nata, la sua famiglia non faceva che traslocare continuamente da un posto all’altro. Aveva diciotto anni e non sapeva cosa volesse dire avere una vera casa. Ricordo benissimo quella sera, una sera perfetta di agosto con il vento caldo che raschiava le cime delle querce, tra il sibilo degli irrigatori sui prati e le coppiette d’argento ferme accanto agli alberi, uomini in giacca bianca da sera e ragazze in seta e chiffon, e ciascuna delle coppiette appariva come scolpita dalla penombra, quasi statuaria. Le distanze erano perfette e la scenografia pareva obbedire ad astrazioni algoritmiche di tono e prospettiva, come già predisposta ad accogliere l’estro della macchina fotografica. Una ragazza attraversò il prato, e di colpo uno spruzzo d’acqua le colpì il braccio, al che lei si voltò di scatto cacciando uno strillo. Lo scoppio di risa dei suoi amici nella notte calda assomigliava al tintinnio di una lama contro il cristallo, e sembrò impiegare un’eternità prima di giungere alle nostre orecchie. Io e

Merry eravamo sulla veranda. Di fronte a noi, lucciole e musica: una samba placida, un foxtrot. Merry era bellissima. Parlavamo a bassa voce, tenendoci per mano. Di nuovo, come in molte altre occasioni della mia vita, ero commosso dalla potenza di un’immagine. Salimmo in macchina per dirigerci al luna park di Rye. Giunti a destinazione, in smoking e abito da sera, facemmo quattro volte il giro sull’ottovolante, poi tornammo al country club. Ballammo un po’. Provavo una gradevolissima sensazione di autoconsapevolezza, a nome di entrambi. Eravamo sotto gli occhi delle coppie più anziane, la generazione dei nostri genitori, ed era evidente dagli sguardi e dai commenti sommessi con cui si scambiavano impressioni, che ci consideravano speciali. Più tardi conoscemmo i rispettivi genitori, e poi i genitori di lei conobbero i miei dando vita a uno di quei balletti comici di approcci fuori sincrono, strette di mano tardive e lunghi silenzi con gli occhi rivolti altrove. Fu mia madre a porre termine a uno di quei silenzi, mettendosi a raccontare dei balli a cui andava da ragazzina in Virginia. Tutti noi sorridemmo rivolgendo lo sguardo oltre di lei, verso il Rappahannock. Presi dalla zuppiera due bicchieri di punch e riaccompagnai Merry fuori sulla veranda. Lei mi raccontò dei posti in cui aveva vissuto e della vita surreale in una base militare: una vita, diceva, senza frasi al futuro, sempre con la sensazione di risvegliarsi un giorno e scoprire che nella base erano rimaste solo donne e bambini. Era contenta che suo padre fosse stato assegnato a un college, e sperava di poter rimanere a Old Holly almeno per qualche anno. Cominciavo ad annoiarmi. Lei raccontava che in passato, più abitavano vicino alla base militare e più a sua madre riusciva difficile smettere di bere. Però le cose erano migliorate e a Merry Westchester piaceva. Emanava solidità, per lei. Me ne tornai a scuola, nel Sud della California. Dopo Natale, Merry partì per una lunga permanenza a Londra. Andò a stare da una cugina, Edwina, che abitava con Charles, il marito inglese. Londra le piaceva con il sole o con la pioggia: adorava i suoi parchi, i teatri, i pub, i copricapi dei poliziotti. Spediva lettere brillanti e dettagliatissime, traboccanti nomi, cifre e date. Gli americani non sono assolutamente capaci di tenere traccia dei secoli. Quelli erano i giorni in cui mi capitava di domandarmi chi mai fossero i preraffaelliti, in che secolo era vissuto Galileo e se era Keats o Shelley quello che era morto affogato. Le lettere di Meredith mi davano quantomeno qualche riferimento riguardo all’Inghilterra, e me le studiavo con grande diligenza, memorizzando nomi di re, durata dei regni e grandi battaglie, come se mi aspettasse un quiz a premi nella lettera successiva. Un’attenzione del genere rientrava nei doveri di un innamorato giovane e fervido; inoltre le sue lettere erano affascinanti, a loro modo, nella loro secchezza statistica, in fondo non dissimili dagli epitaffi dell’Abbazia di Westminster. Le lettere che scrivevo io erano sempre lunghe, poetiche, senza punteggiatura, ben corredate di metafore sessuali. Mi sembrava che i diecimila chilometri che ci separavano permettessero una certa libertà. Mi piaceva moltissimo scrivere le parole VIA AEREA a grandi lettere con la mia matita da disegno Venus 4 B. Il campus si trovava al limitare del deserto. C’era un laghetto artificiale dove andavo

a nuotare quasi tutte le sere, spesso in compagnia di Wendy Judd. La mattina mi dedicavo alle flessioni, prima delle lezioni. Non c’erano molti corsi. Il Leighton Gage era un college umanistico molto piccolo, costosissimo e moderno. (I corsi di teologia della disperazione si tenevano in un palmeto.) Di pomeriggio bevevo Coca-Cola e scrivevo poesie. Pensavo spessissimo a Meredith, a quel suo naso impeccabile, ai denti perfetti. Feci recitare un gruppo di compagni in un cortometraggio di mezz’ora che presentai come tesina di metà corso. Il protagonista era un uomo che si addentra nel deserto e si seppellisce nella sabbia fino al collo. Dopo di che arriva un gruppetto di messicani che gli siede attorno in cerchio. Simmons Saint Jean, il mio docente di cinematografia, lo giudicò il film più pretenzioso che avesse mai visto, precisando che non necessariamente la pretenziosità è un male. In aprile morì mia madre, e quell’estate io e Merry ci sposammo nella chiesa episcopale di Old Holly. Cercai di smettere di fumare. Tornammo insieme alla Leighton Gage per il mio ultimo anno di corso. Io volevo soltanto rilassarmi e imparare a leggere i pensieri e il corpo della mia compagna, tenendomi lontano da Wendy Judd, sempre ossessionata dalla mia ombra, dalla mia immagine, dalla mia automobile potente e pericolosa. Volevo liberarmi da quel montaggio alla moviola di velocità, armi, torture, stupri, orge e confezioni regalo che rappresenta la visione americana del sesso. Il corpicino rigido di Merry si schiudeva e io mi ci tuffavo per riemergerne con gioia. Le serate al Sugar Bowl. Il profumo leggero e sottile di petali di rosa alla Pasadena Rose Parade. Passavamo insieme un sacco di tempo. Per l’ultimo anno alla Leighton Gage bastava pagare la retta e iscriversi. Volendo, si poteva frequentare qualche lezione durante la settimana, e il resto del tempo lo si passava a svolgere ricerche sull’argomento che più interessava. Io andavo con Merry a esplorare il deserto e filmavo di continuo. All’epoca usavo una Beaulieu 8 millimetri, la S. 2008 per la precisione, con impugnatura a calcio fisso, esposimetro automatico e zoom Angenieux: un bell’esemplare di ottica di precisione che a mio padre era costato quasi settecento dollari. Le potenzialità della pellicola sembravano infinite. Dall’obiettivo della cinepresa filtrava tutta la luce di un corpo femminile. Mi sembrava di poter fare cose che non avevo mai fatto prima. La sagoma di un falco spiccava contro il sole, e io la coglievo a mezz’aria per conferirle un posto nella nuova era, senza storia né morte. Girai un mediometraggio di quarantacinque minuti sulla biancheria intima. La facoltà permetteva a tutti gli studenti dell’ultimo anno di utilizzare le apparecchiature per il suono, e quello fu il mio primo sonoro. Ci recitava Merry. Insieme ad altri cinque miei amici, maschi e femmine, si sedevano in camera mia, con addosso solo la biancheria, e discorrevano dei vari tipi di biancheria intima che avevano portato dall’infanzia in poi. Simmons Saint Jean lo giudicò originale ma stupido. Dopo la laurea tornammo insieme a Old Holly e ci trasferimmo temporaneamente da mio padre. Fu quello il momento in cui realizzai che mi restavano altri cinquant’anni di vita e non avevo la benché minima idea di come impiegarli. Del problema si prese carico mio padre. Mi concesse una settimana di tregua, per riprendermi almeno in teoria dalle

dure fatiche di quattro anni di studio universitario, dopo di che cominciò a chiamare i suoi soci in affari. Lui era account supervisor in una grande agenzia pubblicitaria. Gestiva ventidue milioni di dollari di budget. Il mercoledì seguente aveva già le risposte. Quel giorno tornò a casa con tre possibili alternative: due in agenzie pubblicitarie, in cui potevo cominciare o dal corso di formazione o in qualità di microassistente nella divisione programmazione, e il terzo in un network televisivo, dove avrei cominciato smistando la posta. Decisi per il network. Mi pareva importante non seguire le sue orme troppo da vicino. Merry era d’accordo. Secondo lei l’indipendenza era tutto, specie all’inizio della carriera. Mi trasferii con Merry nel grande appartamento a Gramercy Park. Lo stipendio era bassissimo e dovevo farmi prestare soldi da mio padre. Ma poco per volta cominciai a cavarmela, e in soli quattro mesi mi lasciai alle spalle l’ufficio smistamento posta. Dicevano tutti che era quasi un record. Quel primo anno a New York ci divertimmo parecchio. Conoscemmo un sacco di gente, eravamo una coppia molto richiesta. Merry trovò un posto da segretaria: tutte le mattine uscivamo di casa per andare al lavoro e tutte le sere ci ritrovavamo all’ingresso del palazzo in cui lei lavorava per tornare a casa insieme. Ci raccontavamo quel poco che c’era da raccontare delle nostre giornate. La domenica pomeriggio passavano da noi gli amici, e allora preparavamo una zuppiera gigantesca del cocktail-dessert di nostra creazione, l’Aborto Spontaneo: gin, vodka, whisky di malto, whisky di segale, brandy e due chili di gelato alla vaniglia variegato all’amarena. Merry ritagliava ricette dalle riviste femminili e la sera cucinavamo insieme: quando il risultato era carbonizzato e immangiabile, cosa che capitava spesso, uscivamo ridendo a prenderei un hamburger e un frappé al cioccolato dietro l’angolo. Dentro di me, in un anfratto profondo e indefinibile, cominciava a ticchettare un oscuro congegno. Con i soldi di suo padre, Merry si comprava vestiti stupefacenti. Aveva il fisico giusto per portare quel genere di abbigliamento attillato che andava all’epoca. Facevamo sempre molta attenzione a come ci vestivamo e non c’erano regole di cui preoccuparsi. Per un verso o per l’altro, qualunque cosa mettessimo faceva un figurone. Andavamo a tutti i film in prima visione e a un sacco di feste, convinti che qualsiasi cosa facessimo fosse la più straordinaria. Per vedere determinati film, ci vestivamo in un determinato modo. In grigio per i film in bianco e nero. Stivali, pelle, pantaloni sportivi, camicie colorate e simili (la nostra “mise” preacido) per i film in technicolor. Vestendoci accostavamo con la massima cura capi non intonati, e spendevamo un po’ del nostro tempo a rassicurarci a vicenda sul fatto che fossimo pronti per andarci a mettere in coda davanti al Cinema I. Qualsiasi film vedessimo era invariabilmente un grande capolavoro. Merry ne parlava per due giorni, poi lo dimenticava per il resto della vita. Non avevamo tempo per ricordare niente, perché c’era sempre qualcosa di nuovo e straordinario in arrivo: un altro film, un altro bar o ristorante, un negozio di abbigliamento per uomo, una boutique, una stazione sciistica, una casa in riva al mare, un gruppo rock. Andai alla visita di leva e riuscii a cavarmela per un pelo grazie al ginocchio malandato e a una ciste cronica all’osso sacro. A quell’epoca la festa era

appena iniziata e l’esercito era ancora alquanto selettivo nella scelta dei baldi giovani da destinare all’immortalità. Ben presto non mi bastò più fare l’amore con mia moglie. Prima dovevo sedurla. Spesso le mie imprese erano ispirate al cinema. Mi piaceva fare il duro con lei. Rimanere silenzioso a lungo. Tutti i film che avevo visto iniziavano a complicare il significato dei momenti privati della mia vita. Meredith era assai influenzata dal cinema inglese di quel periodo. Coltivava una sorta di imprevedibilità di categoria. Quando passeggiavamo insieme per strada, staccava di colpo la mano dalla mia e partiva per una delle sue sequenze oniriche. Quando uscivamo a far spese, rubava nei negozi uno o due oggettini insignificanti, che poi nascondeva nel maglione dicendo per scherzo che sembrava incinta. Al Metropolitan Museum andò da un sorvegliante a dirgli che avevo cercato di molestarla nel Salone Egizio, e quella fu solo la prima di numerose vessazioni, peraltro pittoresche, ai danni di persone in posizioni di minima autorità. Una volta, a Central Park, incrociammo una vecchietta che vendeva fiori. Merry mi chiese di regalarle due dozzine di crisantemi, dopo di che mi portò al ponticello all’estremità sudorientale del parco. Ci fermammo sul ponte e gettammo i fiori nel laghetto, uno dopo l’altro, con le anatre che nuotavano in cerchio nella foschia purpurea. C’era tutto: mancava solo la colonna sonora, e mi sembrava quasi di vedere la serie di stacchi e dissolvenze lentissime che Merry stava immaginando. Sul lavoro mi vestivo come comandava l’establishment, pur senza farmi mancare, a onor del vero, un tocco di colore, avendo l’establishment compreso da tempo che qualsiasi colore valeva sostanzialmente come il grigio purché lo portassero tutti. Per cui non ci pensavo due volte a presentarmi in ufficio con una cravatta arancione, ma mai più arancione dell’arancione che indossavano gli altri. Lasciato alle spalle lo smistamento della posta, cominciai a imparare qualcosa di più sulla paura. Non appena la paura inizia la sua ascesa anatomica dal fondo dello stomaco alla gola e poi al cervello, a partire dalla paura di subire violenza fino a quella più innominabile, ci si sente come cavie in un crudele esperimento scientifico. Con il tempo imparai a non fidarmi di quei superiori che incoraggiavano l’indipendenza di pensiero: ogni volta che gliene si dava prova, erano i primi a rispedirla al mittente sotto forma di terrore, perché i dirigenti sapevano benissimo che proprio le idee, e le idee soltanto, acceleravano la loro obsolescenza. Non facevano altro che esigere di continuo idee nuove: arrivavano promemoria in cui si richiedeva di presentare intuizioni originali e provocatorie. Ma con il tempo avevo imparato che le idee nuove sono letali, a meno di non recapitarle ben chiuse in un sacchetto di plastica. Mi ero reso conto che quasi tutte le segretarie erano di gran lunga più sveglie della maggioranza dei dirigenti, e che le segretarie dei dirigenti erano le più temibili di tutte. Avevo imparato il significato di una porta chiusa, che l’amicizia era una moneta fuori corso e che era importante mentire anche quando non ce n’era bisogno. Parole e significati erano sempre in contrasto. Le parole non dicevano mai quello che dicevano, e neppure il contrario. Avevo imparato

una lingua nuova, e ben presto ne dominai le regole più essenziali. Sembrerà curioso ma il lavoro mi piaceva, almeno all’inizio. Mi spingeva a ragionare e vedere le cose come mai prima. In quel primo periodo immaginavo la mia mente come una camera oscura con tante porte. Io davo il meglio quando ne tenevo aperte molte. Ogni tanto ne aprivo altre e lasciavo filtrare ancora più luce, rischiavo la verità. Se mi pareva che qualcuno percepisse le mie osservazioni o i miei gesti come una vaga minaccia, chiudevo tutte le porte tranne una. Era quella la posizione più sicura. Ma in genere ne tenevo aperte almeno tre o quattro. Quell’immagine della stanza buia era una compagna assidua. Quando parlavo a una riunione, mi sembrava di vedere le mie porte mentali aprirsi e richiudersi, e ben presto arrivai al punto di saper regolare il flusso della luce in entrata con precisione millimetrica. Mi diedero un aumento, poi un altro. Cominciai ad avere un ruolo concreto nella produzione degli spettacoli televisivi. Nel frattempo la mia vita con Merry procedeva nella stessa direzione, una mescolanza di stacchi violenti e tenerezze in soft focus. Ma con il tempo cominciò a farsi strada qualcos’altro, come un sussurro disperato. Mi capitava di tornare a casa tardi dal lavoro e trovarla seduta per terra con un sombrero in testa che cercava di scrivere un haiku. Mi addolorò molto scoprire che faceva cose del genere anche quand’era sola. In quel periodo Merry comprava tanti cappelli strani e li portava dovunque andasse: sombreros, cap da fantino, cappelli di paglia, berretti di lana da marinaio, mata-hari a tesa larga, fez, cappellini da baseball. Il congegno oscuro continuava a ticchettare. «Stasera facciamo qualcosa di folle» diceva Merry. Solo che non restava più niente da fare. Cercavamo di ritrovare l’entusiasmo di quel primo giro sull’ottovolante. Una sera ci tornammo addirittura, come una coppia di veterani che torna sul le spiagge della Normandia, ma pioveva, e così ce ne restammo in macchina a guardare le luci bianche e altissime spegnersi poco a poco. Convinti che fosse il momento adatto ai gesti definitivi, alle estreme circonvoluzioni, facemmo l’amore sul sedile davanti con una certa goffaggine. La macchina accesa, i tergicristalli in funzione, la radio ammutolita nel ronzio fra una stazione e l’altra, attraversammo a balzi quella distesa di suoni come una breccia interstellare spalancata sulle profondità dello spazio. La prima fu Jennifer Fine. Mi rendo conto che niente è più noioso al mondo dell’ennesima cronaca delle infedeltà di un uomo come mille altri, e per molti versi la mia prima relazione extraconiugale fu il sogno di qualsiasi pantofolaio. Era diversa dalle altre unicamente nel senso che non ero un pendolare, per cui non ero obbligato a commisurare i miei orgasmi alla disciplina di un orario ferroviario. Eppure vale la pena di spendere qualche parola sul conto di Jennifer in questa sede, non fosse altro per mostrare cosa succede alla gente come me nell’istante in cui si vede gratificare di qualcosa che assomiglia all’amore senza sentirsi chiedere nulla in cambio, se non il riconoscimento dell’altrui necessità di una forma primordiale di tenerezza. Era una ragazza dalla pelle scura, con enormi occhi castani. Lavorava al network nel reparto

documentazione. Ci eravamo conosciuti quando smistavo la posta, e mi era parsa solitaria e interessante. Non appena mi resi conto che io e Merry non ricordavamo più le battute del copione, cercai il numero di Jennifer sull’elenco interno aziendale. Decisi che sarebbe stata lei a farmi da guida nel vortice dei luoghi comuni. Ci eravamo trovati a bere un aperitivo in uno di quei pub tutto velluti color sangue di bue dell’East Side in cui le risate e il cicaleccio cristallino sembrano quasi inscatolati, soggetti a precisi limiti di volume. Cominciai subito a stabilire un precedente arrivando con cinque minuti di ritardo, sapendo benissimo che Jennifer sarebbe stata puntuale: era quel tipo di ragazza. Ordinammo da bere e chiacchierammo per qualche minuto, sostanzialmente dei colleghi del network che non potevamo soffrire. Dopo di che fra noi calò un silenzio di piombo, come se ci fossimo resi conto che ogni possibile forma di comunicazione si era esaurita nello spazio di dieci banalità. Capii che Jennifer mi sarebbe piaciuta molto. Mi piaceva il suo modo di aggrapparsi al proprio mutismo. In quell’atmosfera da set cinematografico, sembrava quasi una bibliotecaria mistica. Aveva un volto sottile, non proprio grazioso, ma allo stesso tempo quasi bello, nascosto in parte dai capelli lunghi; e la cosa mi pareva intenzionale, come a suggerire che quel volto aveva bisogno di trovare rifugio ogni tanto. Non riusciva a tenere ferme le mani, e notai che si mangiava le unghie. Teneva lo sguardo fisso sul portacenere vuoto. Le presi il mento con la mano e le sollevai la testa: occhi morbidi, che vagavano da un punto all’altro, due cucchiaiate di tè. Non ci volle molto prima che mi ritrovassi a spiegarle quanto era importante prendere determinate precauzioni. In fondo ero sposato e poteva benissimo vederci qualcuno dell’ufficio. Le elencai in dettaglio tutta una serie di regole procedurali riguardanti pranzi, aperitivi, cene, telefonate da ufficio a ufficio e così via. Non che mi preoccupasse davvero essere scoperto, ma le sensazioni forti e la suspense sono fattori essenziali alla felice prosecuzione di un adulterio ben riuscito. La sera dopo, sempre arrivando separati, ci trovammo a cena in un ristorante indiano sulla Quarantanovesima Ovest. Una donna in sari di bellezza spettacolare prese le nostre ordinazioni. Parlammo a lungo. Scoprii che aveva paura di tutto: della metropolitana, degli sconosciuti, degli edifici troppo alti, del numero nove, della plastica, del fumo, degli aerei, della neve, dei piccioni, degli insetti, dei party, dei taxisti, dei sobborghi, dei film di Bergman, della cucina spagnola, degli uomini in mocassini di Gucci. Dopo cena andammo a passeggiare per Central Park, riemergendo sull’Ottantesima Ovest, per poi dirigerci a casa sua, in quella sera d’estate fra uomini calvi seduti su cassette di arance con un fazzoletto in testa. A metà isolato erano parcheggiate due volanti della polizia e un’ambulanza. C’era ancora luce. Bambini che giocavano, un cane che si muoveva all’ombra del bastone del vecchio proprietario. Raggiungemmo casa sua e salimmo senza una parola, assaporando entrambi la tensione creata dal rumore dei nostri passi sulla scala buia. L’appartamento era piccolo e ordinato. Nel bagno c’era odore di menta e limone. Quando uscii, lei scappò verso l’angolo cottura a versare da bere. Io andai a sedermi sul divano letto, e cominciammo a chiacchierare dai capi opposti della stanza, discutendo dei famigerati pericoli del West Side in contrapposizione al vantaggio degli

affitti bassi. Allora è questa la vita dell’adultero, pensai. «Ti preparo un gin tonic. Troppo tardi per protestare.» «Bell’appartamento» dissi. «Non ti sembra un po’ troppo normale?» «E’ talmente normale che trascende ogni convenzione. Una forma d’arte preistorica. Come una sala di un museo fra cent’anni. L’Ala Americana.» «Sarebbe veramente ora che mi prendessi un condizionatore.» «Costano un sacco, no? Il nostro l’abbiamo pagato una piccola fortuna.» «Terribile, vero?» «Ti spiace se mi tolgo la giacca?» «Certo che no» rispose lei. «Così va meglio. Che dici se apro un po’ di più quella finestra?» «E’ incastrata. Da quando ho traslocato qui.» «Da quant’è che abiti qui, Jennifer?» «Due anni a ottobre.» «Equo canone?» «David, prima di far l’amore giurami che mi richiamerai.» Al mondo ci sono donne come Jennifer che vivono come se portassero sempre con sé un recipiente vuoto, chiedendo a ciascun uomo di riversarvi la propria volontà di mostrarsi responsabile. E non chiedono altro, solo di essere prese sul serio. Uscii da casa sua alle due del mattino e ci ritornai tre giorni dopo. Dopo qualche mese cominciai a rendermi conto di quanto significassi per lei. Ovviamente, come tutti i bravi cinefili e i dilettanti dell’adulterio, assidui esegeti di luoghi comuni, avevamo discusso di quanto fosse importante mantenere basso il livello emotivo della relazione. Detto ciò, per tutta la sua durata avevo cercato quasi disperatamente di far innamorare Jennifer di me. Non appena accertato che era successo esattamente quello, diedi inizio alla ritirata. Cominciammo a vederci sempre meno, e quando ci vedevamo ero evasivo e di malumore. Jennifer capì subito ciò che stava accadendo e ne rimase profondamente ferita: non era una di quelle bambocce nevrotiche tipicamente newyorkesi che si nutrono dell’essere respinte come del capezzolo materno. A letto ero infido, praticavo giochi egoistici al limite del feticismo e della violenza. Una notte, la penultima, mi staccai da lei, scesi dal letto, accesi la radio, mi allungai a prendere il pacchetto di sigarette e me ne accesi subito una: tutte cose a cui in apparenza non avevo visto l’ora di dedicarmi mentre facevamo l’amore. Dopo di che mi infilai i boxer e sedetti su una poltrona. «Devi proprio andartene subito?» mi chiese. Non in tono melodrammatico, né supplichevole. Voleva solo saperlo, avere conferma. «Si lamenta che torno a casa tardi. Dice che mi fanno lavorare troppo.» «Prima che me ne dimentichi, David, guarda che martedì prossimo non possiamo vederci. Mia sorella si sposa, e dobbiamo fare le prove del matrimonio. Ormai vado a Brooklyn solo per i matrimoni e i funerali. Ti va bene mercoledì?» «Vediamo. Ti faccio sapere. Oggi ti ho vista in Park Avenue.»

«Quando?» «A pranzo. Ci siamo passati accanto.» «Perché non mi hai chiamata?» «Non eri sola» risposi. «David, quello era il mio futuro cognato. Ed è la terza o la quarta volta che tiri fuori storie del genere. Lo sai benissimo che non vedo nessun altro.» Spensi la luce. Poi alzai il volume della radio. La camera da letto si riempì di suoni, un rumore fortissimo: basso e batteria che esplodevano dagli altoparlanti, ritmici e raschianti, poi una tromba violenta e pungente, acuminata. Al buio, il suono di quella tromba aveva una bellezza ancora più profonda: colmava lo spazio, si lasciava il tempo alle spalle, un suono intricato che partiva e ritornava, e nell’ascoltarla non mi sentivo più chiuso in una stanza fra quattro mura. Una delle note mi si arrestò fissa davanti agli occhi, come un punto all’orizzonte di un binario ferroviario, poi svanì in un lungo silenzio ombreggiato dall’incedere progressivo del basso. Tornai a letto e mi misi a sedere con la sigaretta accesa, posandole sul ventre le gambe incrociate e appoggiando la schiena alla parete. Un fidanzato per Jennifer. Per me sarebbe stato un colpo di fortuna in carta regalo. Quel po’ di senso di colpa che provavo dipendeva dall’immagine di Jennifer sola e umiliata, non dal banale tradimento di Meredith. Per Jennifer io rimanevo un enigma. Rifiutavo di concederle la minima percezione di me, e la ragione posso solo immaginarla: avevo un bisogno disperato di ogni minima briciola del mio ego per vincere la paura di svanire io stesso. Dire che avevo approfittato del suo amore era un’accusa fin troppo clemente. Avevo fatto di peggio. Non ne avevo approfittato, dal momento che non ne avevo mai neppure riconosciuto l’esistenza. Fingevo di credermi nient’altro che una delle numerose stagioni della sua vita, nient’affatto eccezionale. Fingevo che avesse già avuto mille uomini e sicuramente ne avrebbe avuti altri mille non appena me ne fossi andato per la mia strada. Poi il suo corpo sotto di me si spostò leggermente e di colpo mi ritrovai ancora stretto fra quattro mura. Il giorno dopo avevo una riunione di prima mattina. «E’ ora» dissi. «David.» «E’ ora di andare. Amici e amiche, è tempo di fare i bagagli. Ci rivediamo domani sera grazie alla Bell System, impianti di telecomunicazione per la casa, per l’industria e per quattro quinti dell’universo conosciuto! A domani, con un’altra puntata di questa cosa che abbiamo fatto stasera, qualunque cosa fosse, per gentile concessione dell’azienda leader nella telefonia e nell’elettronica fin dal principio dei tempi e fin dal giorno in cui la prima creatura è emersa dall’acqua per avanzare sulla terraferma, dove peraltro è rimasta da allora fatta eccezione per una piccola nota a pie’ di pagina dovuta alle grandi glaciazioni. Che ore sono? Saranno le due passate.» «Fascista» sussurrò lei, una volta e poi due e poi ancora, con voce calmissima percorsa da un’ira limpida e scintillante. In seguito la rividi solo un’altra volta. Avrei voluto fare l’amore con lei, l’amore più

perfetto del mondo. Ma non mi lasciò neanche entrare in casa. Voleva solo farsi restituire un libro che mi aveva prestato. Durante la mia relazione con Jennifer ci furono molte altre donne, e molte altre dopo. Con loro le cose erano più semplici, e ogni tanto mi comportavo ancora più da fascista, ma loro me la davano vinta, o perché non avevano alternative o perché gli andava bene così. Jennifer mi piaceva molto. Lei è l’unica che nel tempo sia rimasta più di un ricordo vago di letti lasciati, separazioni all’alba nella più completa indifferenza e della sensazione spaventosa ogni volta di aver dimenticato qualcosa di importante in quelle camere da letto. Ovviamente Meredith lo scoprì. Certe cose le donne le scoprono sempre. Servì a riavvicinarci. Una notte tornai a casa molto tardi. Lei era seduta sul nostro letto giallo, dritta e sveglia come una margheritina. «Ne ho parlato con mia madre» mi disse. «Ti lascio.» «Vuoi tornare a Old Holly?» «Hanno trasferito papà. Devono partire per la Germania. Per un po’ ho pensato di andare con loro. Poi invece ho deciso di rimanere a New York.» «Magari ci vado io, con loro» dissi. Nelle intenzioni, la frase doveva significare che i suoi genitori mi erano simpatici e che ero pronto a fuggire in un altro paese pur di nascondere la vergogna. Che non avevo perso il senso dell’umorismo. «In frigo c’è ancora un po’ di agnello avanzato.» (Tosta la ragazza, pensai.) «No, grazie. Verso le dieci mi sono concesso una pausa insieme a Quincy. Siamo andati a cena all’Asia Minor, quel posto di cui ti parlavo, dove Walter Faye ha preso a pugni un cameriere. Walter Faye è quello con la moglie brasiliana che ci ha invitati a Greenwich quel fine settimana che non potevamo andare.» «E poi siete tornati a lavorare fino a mezz’ora fa. Tu e Quincy. Tutti soli soletti in quel bel palazzone luccicante. Ti ricordi quando mi dicevi come ci si sente strani a stare là dentro fino al le due del mattino? Soli in tutto l’edificio. Dicevi che ci si sente come astronauti pronti al decollo. Perché prendersi la briga di raccontarmi tante balle?» «E’ difficile ammettere le cose con te, Merry» risposi. «Non vorrei fare il paternalista, ma è come cercare di spiegare la morte a un bambino.» «Grazie tante» disse. «Hai l’aria proprio fresca e pulita. Davvero. Sei uno schianto.» «Adesso vorrei proprio dormire.» «Possiamo restare amici?» le domandai. Lei andò a divorziare in Messico. La accompagnai all’aeroporto, e quando ritornò andai a prenderla. Avevo ventitré anni e lei ventidue. Uscii dalla doccia. In t.v. c’era il meteo e io ripensai a Warren Beasley, un amico che di professione leggeva le previsioni del tempo. Mi asciugai, annodai l’asciugamano intorno ai fianchi e andai al telefono, ma mi accorsi che non ricordavo più chi volevo

chiamare. Per un istante guardai lo schermo acceso, poi mi ritrovai a fissarlo seduto a neanche mezzo metro di distanza. Non riuscivo a capire cosa succedesse sullo schermo, né mi pareva importante. Seduto così vicino, non riuscivo a cogliere altro che la trama intricata delle immagini, come un turbinio di pulviscolo atmosferico, eppure ero inchiodato alla sedia come se in quel momento fossi diventato parte integrante del televisore, come se le molecole del mio corpo e quei milioni e milioni di puntini luminosi si fondessero. Rimasi così per mezz’ora. Poi arrivò uno spot pubblicitario che avevo già visto e sentito decine di volte, per cui mi alzai in fretta e cominciai a girare per il soggiorno con addosso una sensazione di torpore e inconsistenza, un po’ come quando ci si risveglia e ci si accorge di essersi addormentati sbronzi marci sul divano del padrone di casa dopo una festa. Andai al tavolino in soggiorno a dare un’occhiata alla posta. Qualche bolletta, cinque o sei biglietti d’auguri natalizi. Uno me lo spediva una ragazza di Denver. Diceva: QUANDO LA PAURA E’ TALE DA SPINGERTI A RICACCIARE INDIETRO L’ORRIDA BESTIA. Un altro era di mia sorella Jane, che abitava a Jacksonville con il marito Big Bob Davidson e i tre figli. Non era un vero e proprio biglietto d’auguri, ma una specie di bollettino familiare: Jane li spediva sempre, in quel periodo dell’anno. Era ciclostilato su un normale foglio di carta, in cima al quale era incollato il disegno di un rametto di agrifoglio ritagliato da una rivista. «Buon Natale dalla Florida. Seduta qui per mettervi al corrente di un altro anno frenetico di vita in casa Davidson, non riesco a togliermi dalla mente il sospetto che qualcuno ci abbia imbrogliati di brutto. Non è umanamente possibile che in quest’anno ci siano stati 365 giorni. Per cominciare, vi dirò che adoro la Florida. Facciamo del nostro meglio per approfittare al massimo del sole, delle spiagge e del clima mite. Uno stile di vita sportivo e informale che a noi nordici calza come un guanto. Con questo sole che splende benevolo sulla nostra ridente cittadina, i nostri piccoli (Vaughn, 6 anni; Blair, 4; Sue Ann, 2) sono immuni per tutto l’anno da raffreddori e mal di gola. In aprile siamo partiti per un viaggio rocambolesco diretti verso l’adorata Philadelphia del nostro Big Bob, dove abbiamo passato una giornata folle in compagnia del clan dei Davidson al completo per accogliere l’amato cavaliere errante. Giorno memorabile, quello della grande rimpatriata, soprattutto per Bob. Forse è il caso di puntualizzare che Bob aveva portato con sé una considerevole scorta di generi di conforto liquidi. Poi siamo decollati alla volta di Old Holly, a fare visita a papà, che continua a ‘fare strage’ in Madison Avenue, e al caro ‘fratellino’ David. E’ stata un’occasione piacevolissima, ma anche triste, con il ricordo di mamma sospeso a mezz’aria in quella grande vecchia casa come un’eco di flauti in lontananza. Ma David ci ha risollevato il morale facendoci da guida turistica per la grande giornata campale nella metropoli, con tanto di visita al suo ufficio di Manhattan. Abbiamo conosciuto molti suoi colleghi, e perfino un paio di divi della t.v.. Bob è rimasto colpito, eccome! A Jacksonville l’estate è divertente, ma anche faticosa. Abbiamo organizzato un bel po’ di

cene all’aperto nel modesto patio di casa nostra, e ho portato i ‘tre moschettieri’ in spiaggia quasi tutti i giorni. A settembre è arrivato un uragano che ha fatto parecchie vittime. E poi Vaughn ha cominciato le elementari. Per l’occasione, il nostro piccolo ‘studente’ si è pettinato per bene e si è messo un vestitino nuovo di zecca. Però solo la settimana scorsa Bob ha dovuto portarlo di corsa all’ospedale per far correggere chirurgicamente un difetto congenito. Spero che l’anno prossimo, in questo periodo, potrò inviare notizie più rassicuranti al riguardo. Bob e i bambini si associano nell’augurare a tutti felice Natale e un prospero anno nuovo.» In fondo c’era la sua firma, QJane Davidson”. A Old Holly, a casa di mio padre, dove erano rimasti per quasi tutta la durata della visita, non si erano tolti neanche per un attimo le scarpe da tennis e i bermuda. Quella che scriveva era una Jane a me sconosciuta, un errante essere androgino d’America. Quando abitavamo tutti a Old Holly, le mie due sorelle (l’altra era Mary) mi erano sempre parse genuinamente femminili. E invece ora ritrovavo Jane in veste di capitano in seconda di una squadra di roller. Mangiavano solo ed esclusivamente hamburger, hot dog e patatine. Big Bob sembrava passare l’intera giornata steso per terra a giocare con i bambini e il cane, mentre Jane correva su e giù per le scale come Babe Didrikson Zaharias, due gradini alla volta, stringendo un pannolino smerdato. Mio padre, per cui la vita ideale (almeno così sospettavo) consisteva in un curioso mélange di splendori polverosi da vecchia aristocrazia e impeccabile educazione da duchi inglesi, osservava con disdegno glaciale, con addosso la sua giacca di camoscio, il gomito appoggiato sull’orlo del caminetto e la consueta posa da nobile nel maniero, stringendo fra i denti un fetente mozzicone di sigaro. Sembrava Charles Bickford impegnato in una disputa territoriale con un ranchero confinante. Ma era riuscito comunque a mantenere la calma, e un’ora dopo la loro partenza mi aveva confidato di sentirsi un po’ solo. Era un uomo complicato, ruvido nei modi e nelle parole, a volte involontariamente comico, eppure dotato di grande intuito: io lo consideravo un brav’uomo, sotto quella scorza burbera. Nessuno tranne me sembrava cogliere i particolari rivelatori della sua vita onirica, percepibili sostanzialmente nel suo modo di vestire e nei libri che teneva sulle mensole, ma è possibile che cercassi soltanto di diluire la forza della sua realtà, l’effetto dirompente su di me della sua sola presenza, aggiungendo ogni tanto alla sua immagine qualche frivolo sogno a occhi aperti. Mio padre aveva combattuto nel Pacifico, durante la Seconda guerra mondiale. Era tornato a casa con schegge di shrapnel nel torace e un po’ di medaglie. Le medaglie le teneva nascoste e dello shrapnel non parlava mai, ma io sapevo bene che c’erano entrambi. Una volta ci eravamo fatti una lunga chiacchierata sul sesso e sulla morte, ed ero tornato in città pigiando sull’acceleratore più del solito. Mi tornò in mente di colpo a chi volevo telefonare. Pike. Gli dissi che dovevamo discutere di una cosa importante e ci demmo appuntamento al Zack’s Bad News, un piccolo bar dell’East Village in cui lui passava giornate intere. Mi feci la barba, mi

spruzzai un po’ di deodorante, tolsi dai denti qualche briciola sparsa con il filo interdentale, smerigliai il tutto con lo spazzolino elettrico e gargarizzai con il collutorio. Infilai un paio di calzoni verdi, la camicia alla coreana color dell’oppio e gli stivali Tobruk. Poi infilai il giaccone di cuoio borchiato da caccia all’orso nel Montana che avevo appena comprato da Abercrombie’s. Decisi di andare a piedi. Faceva freddo, e il vento soffiava dagli angoli di strada portando odore di neve e vaghi sentori di sempreverde dalle bancarelle degli alberi di Natale. Nella Terza Avenue, gli autobus sfrecciavano via in branco, illuminati a festa come sale operatorie, con ciascun finestrino che conteneva più teste moribonde. Qualche metro più avanti a me c’era un uomo con una radiolina. Attraversò la strada stringendosela all’orecchio, senza prestare la minima attenzione al traffico. Gli tenni dietro per cinque isolati, e lui non abbassò la radio neppure una volta. Lo affiancai. Ascoltava le previsioni del tempo mormorando fra sé, o forse dialogava con la radio. Era molto più giovane di quanto immaginassi, un ragazzino sui quindici anni, tondo e chiazzato, con uno sguardo enigmatico offuscato dalla ciccia infantile, e aveva quell’aspetto da lieve ritardo mentale tipico del genio in erba: la stessa astuzia rapace e grifagna dei collezionisti metropolitani di stracci e bottiglie vuote, grandi campioni evolutivi dell’arte della sopravvivenza. Il ragazzo mi guardò. «Il bollettino della neve» disse. Non mi era mai piaciuto avvicinarmi troppo a gente del genere. Attraversai la Terza Avenue in fretta. Avevo percorso meno di un isolato che lo sentii gridarmi dietro qualcosa. Era fermo dall’altra parte della strada, vicino a un lampione, con le mani a imbuto sulla bocca a chiamarmi e la radio sotto l’ascella, la sagoma corpulenta che scompariva e riappariva tra le macchine e gli autobus che sfrecciavano fra noi, come una successione di diapositive. «Arriva!» urlò. «L’hanno appena annunciato. Scenderà da un momento all’altro. Otto centimetri entro mezzanotte. Bisogna lasciar libere le corsie di emergenza. Il sindaco consiglia di non usare l’automobile se non in caso di necessità. Da un momento all’altro. Otto-dieci centimetri. La neve! La neve! La neve!» Zack’s era un posto diverso dagli altri. Solo di rado vi si facevano vedere le curiosità locali: zoroastriani, cowboy zen, aruspici e simili, o magari bambini sperduti che cercavano disperatamente Ames, nell’Iowa, e comunque non si fermavano mai a lungo. Il bar non calamitava nessuno dei gruppi etnici o sottoculturali della città, e di certo non echeggiava di risate e discussioni politiche, della classica atmosfera di gioviale intimità da specializzazione postuniversitaria. Zack’s era uno dei posti più tranquilli di New York. La maggioranza dei clienti abituali sembrava fuori di testa. Si sedevano e cominciavano a bere, mormorando fra sé. Ogni tanto uno attaccava a cantare una di quelle canzoni assolutamente incoerenti, miscugli del tutto personali di ninnenanne e “talking blues”, il tipo di canzone che si sente solo in metropolitana alle tre del mattino. Quel locale mi inquietava sempre un po’. Pike era seduto al tavolo che ufficiosamente gli era riservato, in compagnia di una ragazza che non avevo mai visto prima. Pike aveva quasi sessant’anni. Il suo nome

completo era Jack Wilson Pike, e chiamava Jack chiunque gli parlasse. Begli occhi azzurri, un torace sempre più incassato, il ventre prominente tipico di un uomo della sua età. Lo avevo conosciuto tramite Sullivan, che una volta lo aveva definito americano quanto una fetta di torta di mele su cui si posa una mosca a defecare. Aveva poi aggiunto che a Pike doveva la vita, senza spiegare perché. La ragazza portava un vecchio giaccone di cuoio screpolato che sapevo appartenere a Pike, la sua uniforme da aviatore. «Che te ne pare della mia trovatella?» mi disse. La ragazza gli tirò un pugno sulla spalla. «Dice a tutti che sono la sua trovatella. Che lui è un colonnello dell’aviazione e io la bambina in fuga che ha salvato da un palazzo in fiamme. Proprio dal palazzo che il suo squadrone ha bombardato. Non siamo ancora arrivati a parlare del perché si trovasse in strada mentre il suo squadrone scaricava bombe.» «Perché ero una spia» rispose Pike. «In avanscoperta. Mi sono paracadutato all’alba per trasmettere le coordinate del bombardamento. Mi hanno buttato giù con addosso solo una radio a onde corte e un coltello da caccia. Mi hanno detto: niente pistole. Basta sparare un colpo per vedere la campagna riempirsi di truppe nemiche. Se devi ammazzare qualcuno, usa il coltello. Rapido e silenzioso.» Lei gli assestò un colpetto nelle costole. Pike mi chiese che cosa bevevo. Sembrava già ubriaco, o perlomeno sulla buona strada, e in un’ora scarsa la testa avrebbe cominciato a ciondolargli. Presto sarebbe ricaduto con tutto il busto sul tavolo, nella maestà dolente e ponderosa di una montagna bombardata. Ritornò dal banco portando due bicchieri. «Ho novità» dissi. «La signora me ne ha già parlato.» «E che ne dici?» «Lasciatemi pure a Miami Beach.» «A ovest, Pike. Nelle grandi fauci.» «Nelle grandi fauci di mia nonna. In questo periodo dell’anno, da quelle parti si fa presto ad ammazzarsi. Chiedilo a Boccuccia, qui. Viene dal Wyoming, stato del suffragio universale. Bimba, raccontagli dei branchi d’alci, buu-buu. Spiegagli che fa troppo freddo perfino per gli alci. Per me è quello il limite. Quando fa troppo freddo perfino per gli animali a pelo lungo, non contate su di me.» «Mi piacerebbe vivere in una grande serra umida» disse la ragazza. «Le bufere di neve» rispose Pike. «Sono molto gettonate» ribattei. «Al network vogliono le bufere di neve. Vogliamo far vedere quanto sono progrediti i Navajo, e se poi arriva una bufera, tanto di guadagnato per il programma. Ponti aerei via elicottero. Ospedali improvvisati.» «Sono certo che otterrai i riconoscimenti più prestigiosi del settore. Ma non contare su di me.» «Senti, non ha nessuna importanza. Partiamo e andiamo lì, niente più, per il puro gusto di farlo. Non ci andremo prima di qualche mese, per cui il tempo sarà molto

migliorato anche laggiù. Secondo me potremo recuperare un camper nel Maine. E poi si parte. Puoi scegliere tu le strade. Non spenderemo molto. Solo per mangiare e fare il pieno. E la benzina la pago io.» «Chiedi a Jack se ha mai guidato sulle sterrate. Chiedigli se si rende conto di quanto può essere noioso, nel senso più profondo e contiguo della parola. Io l’ho fatto mille volte, e mi sembrava di sentirmi picchiare i tergicristalli fin nel cervello.» «Senti, negli ultimi due anni di college salivo sulla mia T-Bird, partivo e tornavo di continuo. Era fantastico. Mi fermavo solo per dormire e mangiare. Stavolta andiamo con calma. Niente autostrade. Alla scoperta delle strade perdute d’America. Mi porto la cinepresa. Filmiamo tutto. Il tuo padre spirituale, Pike. Hai sempre detto di voler incontrare un coguaro. Be’, il tuo coguaro c’è, e sta proprio laggiù su un pietrone scuro ad agitare la coda.» La ragazza non beveva. Non riuscivo a capire che tipo di rapporto avevano quei due. Lei aveva un terzo dell’età di Pike e gli sembrava molto attaccata, in che modo non lo capivo bene. La sua inespressività mi affascinava. Con addosso il giaccone di Pike era quasi seducente: piccola, ebete, insicura. Sentii di colpo il bisogno di saperne di più sul suo conto, di riempire in qualche modo la sua immagine. Solo così avrei capito se avevo davvero il bisogno ulteriore di esigerne un piccolo riconoscimento al mio elettrizzante potenziale virile. Mi tornò in mente la bella coppia che avevo visto a pranzo al ristorante quello stesso giorno, quando si erano sfiorati con le gambe sotto il tavolo. Ormai Pike cominciava a perdersi. «Perché vuoi guidare, quando puoi prendere un aereo?» domandò la ragazza. «Non ti piace l’aereo? A me mi fa impazzire. La cosa più sexy del mondo.» «Il mio è un viaggio religioso» ribattei. «Gli aeroplani non sono ancora sacrali. Le macchine sì. Forse dopo le macchine toccherà agli aerei.» «Sono sexy, gli aerei.» «Vero, proprio come le macchine una volta. Ma ora come ora le macchine sono un culto, e il mio è un viaggio religioso.» Qualcosa parve scuotersi nell’aria. «Tu dici che è laggiù che agita la coda. Ho sempre voluto trovarmi faccia a faccia con un coguaro senza sbarre di mezzo. Forse succederebbe qualcosa. Forse scopriremmo che fra noi passa qualcosa, una corrente. E’ difficile capire, per un profano come te. Trovarsi faccia a faccia con un animale straordinario come quello, con le fauci fumanti. E’ un’esperienza mistica, caro il mio Jack. Il coguaro. Il leone di montagna. Il grande felino. Il puma. L’ho visto per la prima volta in vita mia in uno zoo, dovevo avere dieci anni. Già allora ho sentito che fra noi c’era un legame. Mi piacerebbe proprio trovarmi faccia a faccia con lui. Niente sbarre. Potrebbe succedere qualcosa.» «Andremo sulle Montagne Rocciose» dissi. «Mi piacerebbe proprio vederlo prima di morire.» «Andremo sulle Montagne Rocciose. E’ lì che sta, nascosto fra le ombre, e forse aspetta anche lui la sua epifania. Avrai carta bianca sul campo di battaglia. L’ha detto anche Sully. E hai libertà di scegliere la rotta.»

«Devo fare pipì» disse la ragazza. «Il cesso è là.» Restammo in silenzio fino al suo ritorno. Sedendosi, lei tirò a Pike un pugno nella schiena. Poi Pike mi disse: «Quale dei due corre più veloce, il levriero o il ghepardo?». «Non saprei. Non ho idea.» «Pensaci. Senza fretta. Rifletti con calma. Levriero o ghepardo?»» «Devo tirare a indovinare» risposi. «Se non sai fare di meglio.» «Secondo me corre più veloce il levriero.» Pike tirò un pugno sul tavolo e spostò lo sguardo verso i due lati del locale, con un’espressione di ineffabile disgusto in viso. «Diglielo tu, pulce.» «Il ghepardo» disse lei. «Come fai a saperlo?» «Il ghepardo fa i centodieci» disse Pike. «Come fai a sapere a quanto va un levriero?» «Non c’è essere vivente al mondo, uomo o animale, capace di andare a più di centodieci. L’unico è il ghepardo. Il ghepardo corre come il vento.» «Li hanno mai cronometrati?» «Il levriero non ha mai superato i sessanta all’ora. Perdio, perfino una gazzella riuscirebbe a battere un levriero. Ti posso elencare quanti animali vuoi in grado di stracciare il levriero. La gazzella. L’antilocapra. La lepre. Praticamente qualunque altro animale. Cristo, quanto sei stupido.» Pike era affascinato dagli animali. Gli piaceva organizzare competizioni teoriche, scontri e, prove di forza fra le varie specie. Spesso le sue conoscenze scientifiche sull’argomento erano limitate, ma le convinzioni erano sempre profonde e incrollabili. Nessuno poteva mettere in discussione i risultati delle sue epocali gare immaginarie o delle sue battaglie furibonde fra animali sperando di arrivare lontano. Quando succedeva, Pike sciorinava un elenco di quelle che secondo lui erano verità scientifiche e documentabili. Cercava di dimostrare al suo avversario la plateale evidenza dei fatti, con i lineamenti stravolti di rabbia e sofferenza. Non ho idea di che cosa trovasse nel mondo animale in grado di toccarlo così nel profondo: forse semplicemente l’innocenza, o l’incanto del bambino o del vecchio nel pensare a una vita senza macchia, a una morte purissima. Pike era uno schizogramma fatto persona, proprio come Sullivan o Bobby Brand, che non vi ho ancora presentato, o come mio padre e la mia defunta madre, o forse proprio come me. Ormai se n’era quasi andato del tutto. La voce gli si era ispessita e sembrava quasi rincorrere se stessa, con le parole incollate alla lingua. Accese una sigaretta senza accorgersi che ne aveva lasciata una a consumarsi nel portacenere. Presto avrei scoperto lo scopribile sul conto della sua reginetta adolescente, quel fumetto astratto che lui aveva salvato dal passo di marcia del nemico e dalle piogge.

«Ma perché tieni sempre le mani sotto il tavolo?» domandai. «Le tiri fuori solo per dare buffetti a Pike. Poi di nuovo sotto. Che c’è di tanto interessante lì sotto il tavolo?» «Dorothy Lamour e gli uomini piovra.» Pike aspirò con il naso e crollò sul tavolo senza un rumore. Io andai al banco e ordinai di nuovo da bere. Zack posò il giornale che stava leggendo e si tolse gli occhiali spessi. Mi versò da bere, prese la banconota umidiccia da cinque dollari, pulì il banco con la spugna, mi diede il resto e andò ad accomodarsi su una sedia pieghevole sotto la foto sovraesposta di un novello sposo con testimone di nozze fuori dal Saint George Hotel di Brooklyn. «Che è quello?» domandò la ragazza. «Scotch.» «E’ proprio bello da guardare. Il ghiaccio brilla tutto, e ci sono un sacco di cosine lì in mezzo. Sembrano piccole esplosioni.» «Perché vuoi andare a vivere in una serra?» «Voglio andare a vivere in una bella serra grande e umida dove si coltivano peli. Una serra piena di capelli di bambola e peli di cane che spuntano dai vasi. Non sarebbe male. E potrebbe venire chi vuole. Ci sarebbero John e Paul e Mick e i Doors e gli Airplane e Bobby e Buffy. Un posto dove ci si fa le canne e con un sacco di apparecchi audiovisivi. Dove ci si mangia un sacco di affogati caramellati. La cosa più bella del mondo intero.» «Com’è che hai conosciuto Pike?» «Ero all’Elephantiasis con un ragazzo dell’Università di New York. Pessime vibrazioni. Ero fatta di hashish e pesavo tipo una tonnellata. Mi sentivo nel buco del culo del mondo. E a quel punto è arrivato papino e ha offerto al ragazzo in questione qualcosa come diecimila drink, e allora il ragazzo è andato al gabinetto e non ne è più uscito. Dopo di che papino mi ha portata a casa sua e ci siamo mangiati una torta al cioccolato intera con un’autocisterna di latte. Bestiale.» «A proposito, non mi chiamo affatto Jack. Non che mi dispiaccia. Anzi. Mi fa sentire come in una di quelle incredibili cosmogonie orientali in cui le divinità minori hanno lo stesso nome del grande capo. Mi fai sentire in colpa perché bevo. A proposito, dov’è che abiti?» «Sto con Lee, Jemmy e Kit.» Mi allungai in avanti e le abbassai la lampo della giacca. Le toccai un seno freddo. Mi accorsi di sfuggita che qualcosa si era mosso dietro il bancone del bar, per cui capii che Zack aveva alzato dal giornale l’occhio da barista esperto. Mi avvicinai, imprigionando il suo ginocchio fra le mie gambe. Feci salire la mano dal seno al collo, poi al volto, e quando la baciai sentii giungermi in risposta da quella bocca umida e meccanica una sorta di messaggio: qualunque cosa potessimo fare in quel momento o più tardi, lì o altrove, era all’insegna della più totale insignificanza. Non mi presi la briga di richiuderle il giaccone, né lei si prese la briga di accorgersene. «Usciamo da qui» dissi. «Andiamo da me.» «Dobbiamo riportarlo a casa.»

«Può cavarsela da solo. Gli capita tutti i giorni. Ho uno stereo da mille dollari.» «Quando sono proprio stonata sento perfettamente gli spazi fra i suoni.» «Vieni» dissi. «Se vuoi prendiamo qualcosa da mangiare, poi andiamo a casa mia.» «Può venire anche lui?» «Se la caverà benissimo da solo.» «Abbiamo disegnato un cerchio al centro del soggiorno. Quando fumiamo ci sediamo tutti lì in mezzo. E’ fantastico.» «Che altro fate?» «Tutto quello che ci pare» rispose. «Ma cosa in particolare?» «Possiamo fare tutto quello che ci pare.» «Non puoi essere più precisa? Voglio capire cosa intendi esattamente.» «E’ semplice. Talmente semplice. Se vuoi, puoi venirci con me. Abbiamo del fumo. Ma prima devi riportare lui a casa.» Mi ritrassi da lei e finii il mio drink. Quel pezzo indigesto di carne di coguaro. Magari mi sarebbe toccato aiutarla a spogliarlo? Sfilargli con dita schifiltose i calzini sudati e rimboccargli le coperte della brandina militare ascoltandolo russare? Poche cose al mondo sono più deprimenti che vedere un amico sbronzo marcio con il doppio dei tuoi anni; è la resa dei conti di tante illusioni. Pike emise un gorgoglio, poi un altro, come se avesse in gola un branco di cagnolini rabbiosi. Lasciò ricadere la testa sull’avambraccio sinistro. I capelli sulla nuca erano castano chiaro e grigi. Gli circondai la spalla con il braccio, «Di che colore è il vostro cerchio?» domandai. «Rosso. Un grande cerchio rosso, e noi ci sediamo tutti dentro. Se vuoi, puoi venire. Può venire chiunque. Tu, io, lui. Possiamo entrarci tutti.» Mi allungai a richiuderle la lampo del giaccone. Mi piaceva la ragazza. Non provavo desiderio di farle del male. Era tenera e fiduciosa, carina nonostante l’inespressività, e non riuscivo a raggiungere con le parole gli interstizi che lei sosteneva di percepire fra un suono e l’altro. Ma non bastavano quei fatti concreti a darmi il diritto di ferirla. Da teorico delle comunicazioni e imperatore della stereofonia qual ero, le offrii quindici dollari, per il mangiare le dissi. «No, non posso» rispose. «Lo portiamo a casa e dichiariamo chiusa la serata.» Allora le rivolsi un sorriso imbecille, e lei rispose con lo sguardo scolorito di una gracile suorina che ha mendicato con successo qualche soldo senza trovare però una mano disposta a sfiorare la sua. Si può capire qualcosa di una donna semplicemente ascoltando il rumore dei suoi passi mentre sale una scala. Nel sentirla raggiungere il pianerottolo, oltrepassare la porta e imboccare la rampa successiva, si può già intuire con una certa sicurezza se ha un bel corpo, se è impulsiva, volgare, leziosa, stanca, simpatica o non amata. E’ interessante speculare sul profilo delle sue caviglie, sul genere di mobili che ha in casa, chiedersi se

creda o meno all’esistenza di un’entità suprema. I passi che sentii quella notte, quella prima mattina, erano della mia ex moglie, Meredith, che abitava al piano sopra il mio dall’altro capo del corridoio. Quando passò davanti alla mia porta, mi parve di cogliere una certa esitazione nel suo passo. Non mi mossi dalla poltrona, né posai il libro che stavo leggendo. Meredith salì lentamente la rampa successiva, e nel silenzio assoluto che regnava nel condominio a quell’ora di notte, il rumore della chiave nella toppa era sufficiente a spezzare un’atmosfera e crearne subito una nuova, mentre il suono della porta che si richiudeva piano assomigliava molto al respiro di sensualità che si sente fra i silenzi delle notti insonni e piovose, nelle voci per strada, nell’oscurità che vibra in risonanza con il minimo rumore. Aspettai un quarto d’ora e salii di sopra. Meredith mi scrutò dallo spioncino, poi aprì. Portava la vestaglia color pappagallo che le avevano mandato i suoi dalla Turchia, dove il padre al momento era di stanza per accudire un numero imprecisato di bei missili turgidi. Aveva un’abbronzatura fantastica. «Com’era Portorico?» «Mi sono divertita un mondo, David. Dovresti veramente farci un salto anche tu per una settimana o due. Siediti. Ti preparo qualcosa.» «Ti ho sentita passare davanti alla mia porta. Non riuscivo a dormire, per cui ho pensato di salire un minuto.» «Stasera sono uscita con l’uomo più orribile del mondo. Ha parlato solo del suo stereo a otto casse e della sua Jaguar E.» Venne a sedersi accanto a me sul divano, portando i bicchieri. Nonostante l’avessi frequentata spesso in quegli anni, rimanevo continuamente sorpreso dai cambiamenti nel suo modo di vedere il mondo e nella sua personalità dal giorno del divorzio. Era molto più la classica newyorkese, adesso, al corrente di tutto, decisa, smaliziata. Ormai se n’erano andati i teneri entusiasmi della sposa bambina, quei suoi salti improvvisi nello spazio cosmico che parevano, almeno a me, semplici ipostasi di un’infanzia vagabonda. Ma insieme a quella nuova disinvoltura si avvertiva anche qualcosa di minaccioso e indefinibile. Meredith non era poi così sicura della propria maturità da non soffrire i tipici momenti di sconforto e dubbio che sembrano attraversare immancabilmente la vita di ogni donna emancipata. Aveva trovato lavoro come segretaria del caposervizio per l’arte e la cultura di una rivista. Era un lavoro semplice, in cui si richiedevano competenze da stenodattilografa e intelligenza rudimentale, e tuttavia l’aveva stimolata a esplorare i musei e le gallerie d’arte della città, nonché a investire gran parte delle vacanze e dei suoi risparmi vagando per le abbazie e i castelli d’Europa, le grandi discariche turistiche pattugliate da guardie con facce da defloratori delle proprie figlie. Un’estate io e Merry ci eravamo dati appuntamento in una piazzetta scampanante di Firenze, e ci eravamo seduti a sorseggiare aperitivi all’arancia che ricordavano tanto quelli di Nedick’s sull’Ottava Avenue, mentre le piccole utilitarie invertebrate sfrecciavano di fronte al nostro tavolino, ogni autista smanioso di vincere un Grand Prix personale. Meredith aveva gli occhi splendenti: abbracciava con larghi gesti il panorama di guerrieri di pietra, filosofi,

aristocratici e comparse. «Che eloquenza! » esclamava. «Che straordinaria eloquenza!» «Notizie dai tuoi? E’ incredibile pensare che abbiano vissuto quattro anni interi in Germania. Il tempo è volato.» «Stanno benissimo tutti e due» rispose lei. «Mi hanno chiesto di andarli a trovare in primavera e mi piacerebbe un sacco, se riuscissi a farcela. Pensa a tutte quelle moschee.» «La Turchia dev’essere un crogiolo di culture.» «Sì, lo dice anche mamma. Ah, per tua informazione, ieri notte ti ho sognato, David.» «Davvero? Sul serio?» «Eravamo seduti nel soggiorno della casa di Londra dove un tempo stavo con mia cugina Edwina.» «Di cosa parlavamo, nel sogno? Ti ricordi cosa diceva?» «Non parlavamo di niente, credo.» «Mi pare di capire che eravamo vestitissimi. Altrimenti avresti accennato qualcosa.» «Sì.» «Che vestiti portavamo?» domandai. «Non ricordo.» «Ed eravamo seduti, non in piedi o a camminare.» «Sono sicura che eravamo seduti. Io stavo vicino alla finestra. Guardavo fuori, i Lennox Gardens. E tu eri al capo opposto della stanza.» «E cosa facevo?» «Stavi seduto e basta» rispose. «Ma di sicuro facevamo qualcosa. Senz’altro ci dicevamo qualcosa.» «Non me lo ricordo, David.» «Provaci. E’ importante.» «Perché mai?» «Perché forse in quel sogno c’è qualche indizio. Intendo dire che non è come vagare in un labirinto. Fa tutto parte di un disegno. Tu mi hai inserito nel sogno e per me è importante capire quale missione mi fosse stata assegnata esattamente. Riuscire a entrare nei sogni altrui è un po’ come la sospensione di un’esecuzione. Come se quel sogno dicesse che in fondo non sei colpevole. Una seconda occasione. Da qualche parte nel tuo sogno c’è un indizio essenziale. Cerca di farti tornare in mente cosa facevamo, oltre a stare seduti. Cerca di ricordarti cosa ci dicevamo. E’ importante.» «Ti ho detto tutto. Se c’era dell’altro, mi sa che l’ho dimenticato purtroppo.» «Forse la sto facendo più grande di quello che è» dissi. «Okay, raccontami un po’ di Portorico e degli uomini fascinosi che hai incontrato.» Lei si portò il bicchiere alle labbra, guardandomi di sottecchi. Poi decise di dirmelo. «Ce n’era uno in particolare. Era lì per lavoro. Molto, molto carino. Sarebbe piaciuto anche a te, David. Grande senso dell’umorismo. Molto atletico. Fotografo. Inviato di “Venture”. Nato in Germania, cosa che ci ha garantito subito argomenti di conversazione, con il fatto che ci sono stati i miei e tutto il resto. Abita in una fattoria

ristrutturata vicino a Darien. Molto sposato. Tre figli. Ovvio che uno come Kurt dovesse avere tutti figli maschi. E’ un tipo così. Atletico. Di quelli che stanno sempre all’aria aperta. Tweed e cuoio. Ma molto sposato. Ci siamo goduti la compagnia reciproca. Nient’altro. Impossibile che ne venga fuori qualcosa.» Quel resoconto da verbale di polizia, inteso a nascondere le sue emozioni nei riguardi di lui, ottenne su di me l’effetto esattamente opposto: anzi, talmente opposto che mi domandai se non l’avesse studiato in anticipo. A volte gli stratagemmi del matrimonio appaiono grossolani e quasi rassicuranti a confronto con quelli dell’ex matrimonio. Meredith preparò altri due bicchieri e per un po’ continuammo a chiacchierare di Kurt. A Meredith piaceva confidarsi con me. Dopo qualche esitazione, per pura formalità, finiva per raccontarmi tutte le sue relazioni, una dopo l’altra, con quella che a me pareva sincerità assoluta. Mi piacevano le conversazioni con lei. Sembravano accendere fra noi un calore vero, un tepore confortevole, antico e pacato come un bicchiere di brandy davanti al focolare. Io le offrivo la più sincera comprensione e qualche buon consiglio, e quando toccava a me, come sempre, mettermi di fronte al fuoco allegro e scoppiettante e alzare il calice per narrare la mia storia personale, raccontavo bugie e nient’altro. Era molto divertente. Avevo cominciato presto a riconoscere l’attrazione esercitata dalla menzogna patologica. Costruirsi una realtà propria e deformarla fino al limite dell’implausibilità era un’avventura più emozionante perfino dei discorsi in caduta libera che si facevano al network. Mi sembrava di cavarmela più che bene, per essere un principiante. Avevo imparato che in un’atmosfera di isolamento, intimità motelconfessionale, non esiste bugia troppo plateale né luogo comune troppo abusato né volo pindarico troppo melodrammatico. Al di là del puro e semplice divertimento, c’erano esattamente dieci ragioni per mentire a Meredith. 1) La maniacalità delle mie storie controbilanciava efficacemente la convenzionalità delle narrazioni di Merry, tutte gonadi e palpiti del cuore. 2) La notte brulicava di giovani troppo seri che si raccontavano a vicenda i propri guai, e io volevo prendere le distanze da quel mare di empatia e melassa sentimentale. 3) Raccontare menzogne gratuite a una persona amata, o un tempo amata, stimola sempre nel bugiardo una complessa miscela di rimorsi, sensi di colpa, deliri di onnipotenza, compassione, tenerezza e potere assoluto: miscela che in seguito mi sarei portato a casa e avrei analizzato con cura, come una fialetta di strabilianti composti alchemici. 4) L’affabulatore in me, sempre in agguato a filo d’acqua, adorava la sfida di superarsi sempre con la bugia successiva, in attesa di trovare il nesso perfetto, l’unione superiore di tutte le menzogne in un’unica finzione radiosa e trascendentale. 5) Direttamente correlata alla 4: la graduale tensione amebica della razza umana verso l’onnipotenza creatrice del dio. 6) Il desiderio di superare i vincoli gravitazionali e fluttuare in un sogno assemblato pezzo per pezzo con le proprie mani. 7) L’eccitazione sessuale che il farlo generava in entrambi. 8) La noia. 9) Mettevo qualcosa di me stesso in ciascuna di quelle bugie, nella speranza - in seguito rivelatasi vanadi giungere a una definizione precisa, ovviamente mistificata dalle assurdità che la contornavano, una definizione di me stesso scevra dalle solite angosce insite in tali forme di autoanalisi. 10)

Il fatto che sostanzialmente non avevo proprio nulla da raccontarle in fatto di guai personali, amorosi o di altra specie. L’unico mio problema era che tutta la mia vita era una lezione sugli effetti dell’eco, che io vivevo in terza persona. Era difficile spiegarlo. «Il sogno, David. Mi è appena venuta in mente una cosa. Forse l’indizio che cercavi sta nel fatto che eravamo seduti e basta.» «Proprio come siamo qui seduti adesso.» «Forse è proprio quello il punto. Forse reprimevo qualcosa.» «Forse è proprio quello» dissi io. Poi, con tempismo perfetto, Merry si fermò davanti alla finestra, come Olivia de Havilland tanto graziosamente malata. «Nevica ancora» disse. La comunicazione fra noi era di una precisione estrema. Per un attimo ripensai a tutte le pose tipiche burtiane e kirkiane: il pugno serrato con enfasi, la dentatura maestosa, la mano rabbiosa tra i capelli, il sorriso gigantesco e sorprendente, ricco e forte come un campo di grano del Kansas tagliato dal sole e seguito da un tocco di tristezza appassionata, una debole fiamma negli occhi. Kirk come Van Gogh. Burt come l’uomo di Alcatraz. Era una bella sensazione tornare alla semplicità del passato. Vidi che c’erano due stampe nuove appese alla parete. Non mi riuscì di identificare gli artisti, ma il soggetto dei dipinti era lo stesso: la Germania dell’espressionismo, peste nera e senso di colpa, e in quel momento avrei scommesso che Merry si era appassionata alla pittura tedesca solo per via del suo amico fotografo, il super maschio amante della vita all’aria aperta. Mi avvicinai a lei e quando la mia mano sfiorò il suo fianco rilassato, morbido e indolente, avvolto nella vestaglia, pensai alla ragazza che avevo salutato solo qualche ora prima e al cerchio a cui si sarebbe unita con le sue sorelle o i suoi amanti fraterni, quel cerchio in cui avevo avuto paura di entrare. Meredith, nuda davanti alla finestra, era invece una variabile nota. Mi tolsi la camicia. Qualche minuto più tardi eravamo già a letto, con la sensazione di partecipare a una strana cospirazione. C’era gratitudine fra noi, comunicazione, volontà reciproca di onorare la nostra cospirazione. E alla fine, nel fondersi dei nostri respiri febbrili, la sensazione più forte era quella di aver fatto ritorno a una casa vecchia e familiare. Era la ventunesima volta che facevamo l’amore, nei cinque anni passati dal giorno del divorzio. Andai a prendere la t.v. portatile e per una mezz’ora ci guardammo un film insieme. Era uno di quei vecchi film inglesi in cui i personaggi non fanno altro che darsi appuntamento alla Victoria Station per il giorno in cui la guerra sarà finita. Poi lei si addormentò, stesa sulla pancia, posandomi una gamba sulla coscia, con il suo classico culo da brava ragazza americana, degno come sempre di rappresentare il meglio del campus universitario. Lasciai ricadere la testa di lato e stavo proprio per andare al nero, come si dice al network, quando sentii un rumore di passi venire dal corridoio al piano di sotto e un frusciare di carta. Il giornalista che divideva con me il secondo piano stava attraversando di soppiatto il corridoio per depositare uno dei suoi sacchetti

dell’immondizia davanti alla mia porta, per il consueto passaggio mattutino del portiere. Quando ne aveva solo uno, lo lasciava davanti alla porta del suo appartamento; se ne aveva di più, l’eccedenza toccava a me. Mi immaginai il profilo secco e asciutto dell’uomo, con il suo pigiama da pulcinella e le pantofole marrone screpolate, che avanzava curvo rasente il muro, denti stretti e faccia contratta. Ci sono cose al mondo che nessuno può capire. In ultima analisi, è il portiere invisibile a dominarci tutti. Scivolai via da sotto la gamba di Merry e spensi la t.v.. Scesi le scale nudo, con scarpe e vestiti sottobraccio. Volevo risvegliarmi solo: era una mia fisima che nel corso degli anni molte donne avevano finito per detestare. Il mio appartamento mi accolse silenzioso e ombroso, con le sue tonalità color vino rosso di quadri e tappeti, il caminetto, i pannelli di quercia, i divani rivestiti di cuoio nero vecchio e piacevolmente screpolato, i boccali di rame ossidato sopra il caminetto e la luce dorata della lampada da lettura sulla scrivania, oggetti che effondevano familiarità e calore senza bisogno di riconoscenza in cambio, il tutto a rammentarmi che la solitudine non richiede impegno a nessuno. Mi feci una doccia e andai a letto. 4. Nel profilo del cranio di Weede Denney, calvo anzitempo e brunito di lentiggini, si rispecchiava la nudità curvilinea e soave del tavolino che gli serviva da scrivania. Era come se l’arredatore avesse progettato entrambi simultaneamente, a trionfante dimostrazione di armonia ideale fra dirigente e habitat lavorativo. Weede si alzò in piedi per un secondo e piegò leggermente le ginocchia - come faceva sempre mio padre quando le mutande gli si incagliavano in qualche anfratto delle regioni inguinali, spiegando a me bambino che quel gesto era l’unica alternativa civile al disincagliamento manuale, sport preferito di emarginati e pazzi -, dopo di che tornò a sedersi sulla poltrona da barbiere nera e avorio, l’aspetto fresco, senza giacca, con le grinze della camicia azzurro chiaro spianate sul petto possente. Erano le nove in punto, ora del consueto rapporto del venerdì, e c’eravamo tutti, con matite e bloc notes: Richter Jones, Mars Tyfer, Walter Faye, Jones Perkins, Grove Palmer, Paul Joyner, Quincy Willet, Ted Warburton e Reeves Chubb, che indossava la stessa camicia, la stessa cravatta e lo stesso completo del giorno prima. La segretaria di Weede entrò a prendere le ordinazioni per i caffè, procedura che richiese cinque minuti buoni, necessari in gran parte a chiarire i dettagli della richiesta di Reeves Chubb, che consisteva in un caffè nero doppio con una sola zolletta di zucchero, una pasta alla crema ma senza la glassa al cioccolato, una coppettina di frutta senza le ciliegie e un pacchetto di sigari al mentolo con bocchino. Nel corso di questa lunga spiegazione, Weede si incupì alquanto in viso, e quando toccò a me ordinare ringraziai dicendo che non volevo niente, avendo già fatto colazione. Per la mia menzogna venni ricompensato da un cenno di assenso papale weediano. «Cominciamo» disse. «Grove, direi che possiamo partire da te. L’audience dei servizi dal fronte è molto calata.»

«Ero a Tripoli» disse Grove Palmer. «Certamente. Lungi da me qualsiasi illazione. Ma il problema esiste e dobbiamo affrontarlo. Ci stanno facendo pressioni.» «Io sono per le trasmissioni in diretta via satellite. Sono sempre stato a favore delle trasmissioni in diretta via satellite già da prima di Tripoli.» «Non ci daranno mai il permesso» disse Quincy. «Non ci giurerei.» «E’ macabro» disse Warburton. «Come dice Weede, il problema esiste e dobbiamo affrontarlo. Stanno facendo pressioni. Io suggerisco di esercitare pressioni a nostra volta. Hepworth si è comprato tutte le mezz’ore per avere più frequenza d’impatto. Propongo di affidarlo a lui. Secondo me possiamo ottenere l’autorizzazione per determinate zone di guerra. Ovvio che non è il caso di fare riprese ravvicinate, se si può evitarlo. E assolutamente, in qualsiasi diretta, meglio rinunciare al rock duro di sottofondo delle altre volte. Ma nel breve periodo dopo il ritorno da Tripoli, ho svolto qualche esplorazione preliminare e secondo me possiamo ottenere l’autorizzazione per le zone in cui il vento soffia a nostro favore.» «E’ macabro oltre l’immaginabile» disse Warburton. Warburton era il più anziano fra i presenti e in ragione di ciò aveva assunto con la tacita approvazione di tutti il ruolo della coscienza tribale. Era il più anziano, il più colto, il più alto e ingrigito, il meno temuto in termini di potenziale carrieristico, procacciamento di idee e tradimento fine a se stesso, nonché, come senz’altro erano venuti a sapere tutti nelle venti ore e rotte trascorse da quando Jones Perkins aveva passato l’informazione a Reeves Chubb, affetto da una rarissima malattia del sangue. Nessuno prestava mai la benché minima attenzione agli appelli di Warburton in nome della dignità umana e del buon gusto, ma credo che tutti sentissimo quanto lui fosse indispensabile. Sapeva sempre elevare ad altezze cosmologiche le nostre meschine diatribe, e così facendo ci rendeva più facile ignorare l’intera faccenda per il fatto che non eravamo qualificati per occuparci di questioni morali di tale rilevanza. Era piacevole averlo intorno. Talmente alto, canuto e dignitoso. Era come se Warburton lavorasse di ritocco alla nostra foto di gruppo per migliorarne l’effetto. Senza di lui, avremmo potuto essere una delegazione di assicuratori ad Atlantic City per il raduno annuale di categoria: professionisti di prim’ordine, naturalmente, miliardari dal primo all’ultimo, ma pur sempre assicuratori. Con Warburton (al centro in terza fila), invece, diventavamo la missione diplomatica degli Stati Uniti alla Corte di San Giacomo. Weede Denney lo definiva in pubblico e in privato il suo segretario di stato, osservazione invariabilmente accompagnata da una delle risatine singhiozzanti di Warburton con la quale mostrava di capire perfettamente che la battuta era a sue spese. Mentre le voci dei presenti alla riunione cominciavano a confondermisi nell’orecchio (la riunione del venerdì l’avevo sempre definita ‘la fiera del brusio’), cominciai a scarabocchiare la mia versione del comunicato che Weede avrebbe inviato ai dipendenti il giorno della morte del povero Warburton.

«OGGETTO: THEODORE FRANCIS WARBURTON Perdere un dipendente fidato e di antica data è sempre occasione di grande tristezza. Ma Theodore Francis (Ted) Warburton era molto di più. Era un amico leale, un consulente insostituibile, uno strenuo difensore della dignità umana. Tutte qualità rare al giorno d’oggi. Per me prima di tutti gli altri la sua scomparsa è una perdita terribile. Non capita spesso di incontrare uomini capaci dello stesso approccio umanistico di Ted ai problemi del nostro tempo. La sua morte prematura ci colpisce tutti. So che siete con me nel porgere alla sua vedova le più sentite condoglianze. Nessun uomo è un’isola. Siamo in debito di una morte con Dio. Il testimone è passato di mano. “Ave atque vale”.» «Permettete una domanda» disse Mars Tyler. «Cos’ha Grace Tully che non va?» «Immagine datata» rispose Walter Faye. «Esattamente quello che intendevo. Proprio quello che ci serve.» «Ha il fascino del vegetale. Il regno vegetale la adora. E’ la regina dei vegetali. Pensateci. Un uomo e una donna seduti in mezzo a un mare di copie del “Times” domenicale sparse per terra. Lui è sui quarantasette anni, con gli occhiali, non compra mai un libro tascabile che costi meno di due dollari e venticinque. Sfoglia le pagine dello speciale moda maschile e fantastica su una giacca da sera di mohair color oro. Lei se ne sta seduta a leggere riviste e a domandarsi perché cazzo non ci sia mai nessuno che telefoni per invitarli a bere un whisky sour, perché è di una noia mortale girare per casa leggendo di ghetti e di sviluppo urbano incontrollato. Ecco, è quello il regno vegetale.» «A proposito di niente» si intromise Paul Joyner «pare che Grace Tully se la faccia con chiunque. Uomini, donne o bestie dei campi.» «Permettete una domanda» continuò Mars. «Primo: rispetto a cosa il regno vegetale si differenzia dagli altri segmenti di audience? Secondo: continuo a non capire per quale motivo Grace Tully e la sua immagine datata, come la definite voi, non siano esattamente quello che ci serve in questo settore specifico che voi avete appena descritto. Terzo sul terzo punto torneremo più avanti.» «Il regno vegetale sta seduto a guardare» rispose Walter. «Il regno animale si gratta e basta. Sostanzialmente, è così.» «Questa discussione è in qualche modo controproducente» disse Quincy. «Osservazione opportuna» assentì Weede. «Qual è il terzo punto?» domandò Walter. «Hai detto che ce n’erano tre.» «Ci torneremo più avanti» disse Weede. «Voglio smuovere un po’ le acque sulla questione Morgenthau.» «La questione Morgenthau va assolutamente a meraviglia» disse Jones Perkins. «E Morgenthau, lui che dice?» «Che dice Morgenthau»» rispose Jones. «Be’, si è sostanzialmente deciso a farlo e vederlo finito, e all’inferno le teste impomatate, per quanto lo riguarda.» «Ma si è impegnato senza riserve?»

«Direi proprio che si è sostanzialmente impegnato senza riserve.» «In altre parole, abbiamo doppiato la boa.» «Weede, io andrei anche oltre. Direi proprio che si è sostanzialmente impegnato senza riserve.» «Secondo la tua personale opinione, le teste impomatate avranno o no parte nella faccenda?» «Per quanto mi è dato sapere, non hanno la benché minima parte nella faccenda, salvo diverse disposizioni di Morgenthau al suo ritorno dalle isole.» «Quali isole?» «Quali isole» rispose Jones. «Ci arrivo subito.» «Passiamo alla Terza guerra mondiale» disse Weede. «A proposito di Grace Tully» si intromise Joyner. «So da fonti autorevoli che ai bei tempi se la faceva con alcuni dei nomi più importanti della Costa. Anzi, di tutte e due le Coste.» «Vediamo di ragionarci insieme» disse Weede. «In questo frangente, mi interessa capire se l’idea della Terza guerra mondiale è più praticabile di quanto non fosse la settimana scorsa, alla luce dei recenti sviluppi internazionali.» «In questo frangente» rispose Richter Janes «l’idea della Terza guerra mondiale risulta meno praticabile del quaranta percento circa rispetto alla settimana scorsa.» «Questo volevo capire.» «Quello che voglio capire io invece» disse Walter Faye «è per quale motivo non possiamo mostrare la tazza del cesso nel programma sugli effetti dell’isolamento nelle carceri. Possiamo far vedere i gabinetti in prime time. Perché non al pomeriggio? Questo mi chiedo.» «Potrebbero vederlo i bambini» rispose Weede. «E oltretutto l’argomento non mi pare rilevante, ora come ora. Non vedo idea concepita da questa équipe tecnica che necessiti della ripresa di un gabinetto. Oltretutto, se non possiamo mostrarlo in fase di effettivo utilizzo, tanto vale non mostrarlo del tutto. Mi pare sia stato uno dei Sitwell a dire che se nel primo atto si vede un fucile appeso sopra il caminetto, prima che cali il sipario sarà meglio che da quel fucile parta un colpo. O una frase del genere.» «Ma perché non possiamo mostrarlo in funzione?» domandò Walter Faye. «Per una volta nella vita mi piacerebbe proprio vedere in televisione qualcuno che si fa una bella pisciata fumante. Potremmo benissimo trovare una giustificazione narrativa. Potremmo inventarci un motivo per rendere necessaria una scena in cui il protagonista deve pisciare. Magari deve espellere un veleno dall’organismo. O magari, in un documentario sulle malattie del fegato o della vescica, potremmo addirittura suscitare la simpatia del pubblico per il nostro protagonista mostrando quanta sofferenza gli costa una semplice pisciatina. Non avrebbe importanza dove inquadra la telecamera. Possiamo mantenere il primo piano sul viso. L’importante è il sonoro. Se riuscissimo a mandare in onda quel suono anche solo una volta, sono sinceramente convinto che ci guadagneremmo il merito di aver arricchito almeno in piccola parte la consapevolezza della nazione.»

«Vero» ribatté Weede Denney. «Sarebbe ottimo, quasi come la ripresa di Ruby che spara a Oswald.» L’atmosfera della riunione si rilassò, in approvazione di un commento tanto arguto, e mentalmente attribuimmo tutti a Weede un’altra tacca sulla pistola, l’ultima di un curriculum peraltro già rispettabile. Weede abbassò di un paio di scatti la poltrona da barbiere sul pistone idraulico e si allungò a prendere il pacchetto di sigarette sul tavolino. A quel punto entrò la sua segretaria, la signora Kling, reggendo un grande vassoio, e cominciò a distribuire i caffè. Io fissai gli operai al lavoro nell’edificio dall’altro lato della strada. Richter Janes, seduto accanto a me, aspettava il suo caffè. «Quasi tutti quelli che lavorano ai grattacieli sono Mohawk, qui» disse. «Abitano tutti a Brooklyn. C’è un’intera colonia. Specializzati per i piani alti, quelli più pericolosi. Se vedi un palazzo con più di trenta piani, puoi stare sicuro che quelli lassù in cima a lavorare sono tutti Mohawk.» «Evidentemente c’entra con la loro innata agilità felina e il loro straordinario senso dell’equilibrio» dissi. Senza un motivo particolare, stavamo sussurrando. «Al college, nel mio gruppo, c’era anche un indiano. Il ragazzo più simpatico e tranquillo del mondo.» «In quanti secondi faceva i cento metri?» «Ceniamo insieme, un giorno» disse Richter. «Mi piacerebbe avere la tua opinione su un mio progetto. Ho sentito parlare molto bene di te.» «Da chi?» domandai. «Le voci corrono» sussurrò lui con tono di grande mistero. La signora Kling se ne andò e la riunione riprese. Al network tutti dicevano sempre a tutti di aver sentito parlare molto bene di loro. Faceva parte del programma ufficioso aziendale, che imponeva cordialità a oltranza. E dal momento che per sua stessa natura il nostro settore era sottoposto alla logica assai flessibile delle tendenze, prima o poi veniva sempre il momento in cui il latore di buone nuove ne diventava destinatario. Prima o poi, ciascuno di noi faceva tendenza: a ciascuno era assicurata la sua settimana di gloria. Le parole di Richter Janes lasciavano supporre che fosse arrivato il momento dell’ondata ‘David Bell’. Solo qualche mese prima era stato il momento di Richter, durato una settimana circa, durante la quale in più occasioni vari colleghi si erano presentati nel mio ufficio o mi avevano affiancato in corridoio per raccontarmi quanto stava lavorando bene Richter Janes, quanto avevano sentito parlare bene di lui e come proprio quella mattina avessero avuto occasione di riferirgli alcuni commenti favorevoli. Non ero mai riuscito a capire come nascevano queste tendenze, da chi partivano e in che modo si propagassero. Sembrava un fenomeno spontaneo e mi riusciva difficile sospettare che fosse la dirigenza a tirare le fila dell’operazione, che fossero loro a scegliere la persona di tendenza del mese, qualcuno che avesse bisogno di vedersi risollevare il morale, istruendo poi un certo numero di opinionisti pagati per fare osservazioni e commenti in apparenza casuali riguardo a quanto si sentiva parlare bene della persona in questione.

Fino a quel momento io non avevo mai fatto tendenza, né ne avevo sentito particolarmente il bisogno. Quasi tutti i presenti alla riunione avevano avuto il loro momento, chi prima e chi poi, ma per quanto mi era dato sapere, mai più di una volta nella carriera. In genere, in un anno emergevano nove o dieci persone di tendenza. E le tendenze finivano nello stesso modo in cui erano iniziate, a velocità sorprendente. Il detendenziato di turno aveva sempre l’aria un po’ derelitta quando arrivava la fine, quando sparivano i lustrini e le luci dei riflettori, le cifre venivano archiviate, gli schermi televisivi si annebbiavano e le onde radio venivano disturbate dalle interferenze. «Quincy e Dave» disse Weede. «A voi la palla.» Aveva un tono divertito, paterno. Evidentemente distruggere Walter Faye l’aveva messo di buonumore. Io non sapevo proprio cosa dire, dal momento che in tutta la settimana non avevo realizzato assolutamente nulla. Pensai di limitarmi a parafrasare le mie osservazioni della riunione precedente, prendendo tempo e improvvisando al momento, ma capii subito che non avevo molte speranze di cavarmela così. Era un espediente praticato ormai centinaia di volte e ormai sapevano fiutarne tutti l’odore e riconoscerne le tracce. «Quincy, perché non dai tu il calcio d’inizio?» dissi. «Il progetto Navajo.» «Il progetto Navajo» ripetei. «Ci sono problemi a lungo e a breve termine» disse Quincy. «Chi ci deve andare? Per quanto tempo? Gli indiani saranno disposti a collaborare? Mi sono messo in contatto con l’Ufficio per gli Affari Indiani.» «Anch’io l’ho fatto.» «Vogliono saperne qualcosa di più prima di impegnarsi.» «Gli indiani non vogliono compassione» dissi. «Vogliono dignità.» «E’ parso anche a me. Si vede che abbiamo parlato con le stesse persone.» «Non vogliono compassione di alcun genere o forma. Vogliono dignità. Secondo me Richter é in grado di dirci qualcosa di più al riguardo. Richter ne conosce addirittura uno, di indiano. Un vecchio compagno del college.» «Per la verità non ci sentiamo da tempo. Sono passati più di quindici anni e non é che lo conoscessi poi così bene. Era un ragazzo simpatico, tranquillo. Questo me lo ricordo benissimo. Un metro e settantacinque, ottanta. Sui settantacinque chili, magro come un chiodo, neanche un filo di grasso. Se ricordo bene, non era veramente un pellerossa. Aveva solo tre ottavi di sangue indiano, se ricordo bene. Tre o quattro ottavi di sangue pellerossa. Mi pare fosse un Crow. Un Crow, o un Piede Nero. Ma assolutamente uno dei ragazzi più simpatici e tranquilli del mondo. Di questo sono certo. Ne ho un ricordo precisissimo.» «Secondo te quell’uomo voleva compassione o dignità?» «Dignità, Dave. Su questo non ho il benché minimo dubbio. Dignità, assolutamente dignità.» «Vai, Quincy» dissi.

«Il punto è il seguente: chi ci deve andare, quando e per quanto tempo? Se vogliamo le bufere di neve, dobbiamo muoverci in fretta. Ci conviene appoggiare subito questo progetto, prima che cominci a crescerci l’erba sotto i piedi.» «Io mi sono tenuto in contatto pressoché continuo con l’ufficio meteorologico» dissi. «Sto cercando di costringerli a dare una previsione a lungo termine per quell’area del paese.» «Quale area?» domandò Jones Perkins. «Quella dove stanno i Navajo.» «E dove stanno?» «Quincy, sei tu l’esperto di geografia.» «Sentite, non avremo certo problemi a rintracciarli. La riserva è più grande perfino di certi stati. Più grande perfino di certe nazioni, come quegli stati-francobollo in Europa. Non ho il benché minimo dubbio che sia molto più grande, per esempio, del Principato di Monaco.» «Anche Central Park è più grande del Principato di Monaco» disse Reeves Chubb. «Rompicazzo» borbottò Quincy. «Stanno tra l’Arizona, il New Mexico, lo Utah e/o il Colorado» disse Paul Joyner. «Si dà il caso che questo lo sappia per certo.» «Giusto» dissi io. «E da quanto ho capito, in quella zona ci sono vari accampamenti sulle rocce e rovine di pueblos che possono servirci da sfondo panoramico. Dirò di più, che la Monument Valley si trova proprio all’interno dei confini della riserva, o almeno così pare. E’ un paesaggio scabro, bellissimo, quasi lunare.» «Perché mai ci servono le bufere di neve?» domandò Warburton. «Vogliamo mostrare che nonostante tutti i loro problemi quotidiani, stanno progredendo. E le bufere di neve sono uno di quei problemi.» «Pensavo non ci fosse bisogno di bufere di neve. Mi sembra che povertà e malattie parlino già da sé.» «Male non farà» ribatté Quincy. «Forse Ted non ha torto» dissi io. «L’altra questione importante che mi riguarda di persona è quella di “Soliloquio”. Su quel versante va tutto a meraviglia. Fin dalla prima puntata, il programma ha fatto presa a colpo sicuro. I critici lo adorano, senza mezzi termini, e le lettere degli spettatori sono a favore in rapporto di quattro a uno.» «Non mi è mai piaciuto molto quel titolo» disse Reeves Chubb. «E’ uno pseudononsoché. L’altra sera ne ho parlato a cena. Avevamo ospiti e ho chiesto che ne pensavano. Ho registrato l’intera discussione, nel caso tu, Dave, o tu, Quincy, voleste sentirla. I miei ospiti sono una coppia estremamente bene informata. Date e Phil Thomforde. Phil ha lavorato con AlcAndrew, a Arnherst.» «Il titolo lo ha scelto Weede.» «Davvero?» disse Weede. «Evidentemente è stata una delle mie intuizioni meno felici, almeno secondo il parere del signor Chubb. Purtroppo, Dave, credo che il programma non sopravviverà. A volte è difficile battere frontiere nuove senza che a

qualcun altro vada la polvere negli occhi. Lo sponsor ha deciso di non rinnovare il contratto e nessun altro ha mostrato interesse per la cosa. Dave, tu sai bene che io mi batto sempre per i miei uomini e ti assicuro che in questo caso non ho fatto eccezione. Ho fatto del mio meglio perché Larry Livingston, al piano di sopra, cercasse di convincere Stennis a fare in modo che le spese le pagasse il network. Livingston mi ha risposto in tutta franchezza, e va detto che la sua onestà è ammirevole, che quel programma è di una noia mortale. Mi ha risposto che non aveva senso parlarne con Stennis, perché Stennis e sia chiaro che non deve trapelare fuori da qui Stennis ha ben altri problemi. Il programma è di buona qualità. Questo lo dico perché non ci siano malintesi. Ma Chip Moerdler, della Brite-Write, ha detto che il pubblico non fa certo la fila per vederlo. Nel nostro lavoro bisogna imparare ad aspettarsi anche le sconfitte. Ma non prendertela, David. Abbiamo tutte le intenzioni di sfruttare ancora di più, e meglio, il tuo notevole talento. Ti dirò qualcosa di più non appena avrai finito con i Navajo.» «Chip Moerdler è un uomo di ignoranza apocalittica» disse Warburton. «Ho già avuto a che fare con lui. Non saprebbe riconoscere un programma di qualità neanche se gli arrivasse come un cazzotto nel plesso solare.» «Ben detto» ribatté Weede. «Ma davanti a un grafico delle vendite c’è poco da discutere. Ora forse è meglio se continuiamo a darci da fare. C’è un’ultima questione che ti riguarda, Dave. Intendo il progetto del raggio laser.» «Per quello ho dato a Carter Hemmings carta bianca. Mi sembra esperto sull’argomento e ho pensato che forse era il caso di fargli mettere un po’ le mani in pasta. Sai, è decisamente più vecchio di me e certe volte giova al morale di una persona lasciargli portare avanti un progetto per proprio conto. Per me è sempre un po’ imbarazzante dover spiegare a Carter come mai a queste nostre riunioni del venerdì non è invitato. La sua impazienza è comprensibile e sono sicuro che non ci vorrà molto prima che si unisca a noi nella solennità di questo conclave. Fatto sta, Weede, che Carter sostiene di aver usato una terapia d’urto per ridurre il progetto del raggio laser a proporzioni ottimali. Quando gli ho parlato, ieri sera, mi ha detto che voleva vederti per discuterne per prima cosa stamattina. Ha detto che è in condizioni assolutamente perfette. Praticamente pronto per partire.» «Con me non ha parlato.» «Allora mi sa che dovrò fare pressioni.» A quel punto, senza nessun motivo, feci scivolare il piede sul tappeto di qualche centimetro e rovesciai il bicchierino di carta vuoto del caffè di Richter Janes. Ci piantai sopra il tallone e lo schiacciai. Nessuno parve accorgersene. Mi sentivo esausto e nauseato. Volevo tornare nel letto caldo di Meredith, perdermi nell’incavo fra i suoi seni, nuotare ancora in stanze argentee come pesci, insondabili, sprofondato nel sonno come in un naufragio. Volevo trovarmi con Sullivan in qualche distesa selvaggia e lunare dell’Ovest ad ascoltare Mingus all’autoradio e Ornette Coleman con il suo sax impressionista, mentre Sullivan incrociava le braccia sul petto a mo’ di sarcofago egizio con i lineamenti immobili come bendati; volevo partire in quarta verso le pianure del

Nord e arrampicarmi ascoltando Bartók sulle Montagne Rocciose, fra le canzoni dei cowboy e il suono strascicato erboso e nasale dei banjo, e poi l’Oregon, il mare in lontananza viscido di foche. Questo volevo. E invece me ne rimasi seduto nell’ufficio gigantesco di Weede Denney, sulla sedia blu accanto alla finestra, a sentirmi esausto e nauseato. E’ il momento di sentire le novità. dal nostro osservatore per la Cina. Petto in fuori, signor Chubb. Come procede la questione Cina?» «Weede, si sta rivelando la miglior serie televisiva sugli affari pubblici di cui mi sia mai occupato. Ne ho già discusso con sette o otto persone al Dipartimento di stato. Mi hanno invitato a tenere conferenze in sei università e due fondazioni. Ci ho lavorato la notte e i fine settimana. La mia segretaria ha uno di quei problemi da donne, per cui ogni tanto ho dovuto prendere a prestito la segretaria di Chandler Bates. La documentazione continua ad affluire. Lo sapevi che in Cina si padroneggiavano già quasi tutte le arti e le scienze all’epoca in cui gli europei passavano ancora la giornata a spidocchiarsi a vicenda? Mia moglie dice che lavoro troppo. Per noi questa è una grande opportunità. La Cina è un enigma. Stanno trascrivendo tutto a macchina. Mao Tse-tung e i suoi seguaci hanno marciato per quasi diecimila chilometri per raggiungere una fortezza sulle montagne, quando erano inseguiti da quello là, come si chiamava. Il muso giallo con la moglie che è andata alla Wellesley. Appena sarà tutto battuto a macchina e rivisto e ciclostilato, mi piacerebbe sapere che ne pensano tutti quanti. La segretaria di Chandler Bates è molto lenta, per cui non so quando sarà pronto. Sono molto entusiasta di questa serie. Il fiume Yangtze è lungo cinquemilacinquecentoventi chilometri.» «Di che parlerà la serie?» domandò Warburton. «Di tutto quanto. La Cina dalla testa ai piedi.» «Dirà qualcosa che non abbiamo già sentito migliaia di volte?» «C’è la prospettiva concreta di avere dei filmati davvero emozionanti.» «Come no, magari girati da una collina di Hong Kong.» «Sarà una serie con un punto di vista ben preciso. Nel materiale che sto facendo battere è indicato molto chiaramente.» «Cos’è che è indicato?» «Che è necessario un punto di vista ben preciso.» «Quale punto di vista?» «E’ vero, quale punto di vista?» domandò Quincy. «Ci sto lavorando con il Dipartimento di stato. Si sono mostrati dispostissimi a collaborare.» Warburton disse: «A questo punto vorrei proprio citare Kafka. ‘Ogni concittadino era un fratello per il quale si costruiva il muro di protezione e che per tutta la vita si sarebbe mostrato grato con tutto ciò che faceva e possedeva. Unione! Unione! Spalla a spalla, un cerchio di fratelli, il sangue non più imprigionato nel meschino circolo delle membra, ma che fluiva con dolcezza e perpetuo ricorso lungo le infinite leghe della Cina.’ Presumo sia quello il tuo punto di vista».

«Ted, ma è meraviglioso» disse Weede. «Secondo me hai davvero dato a Reeves pane per i suoi denti. Quel passaggio sull’unione-unione è splendido. Racchiude tutto l’agitarsi drammatico di un’immensa distesa di terra, di un popolo che possiamo soltanto immaginarci. Dove l’hai comprata, quella cravatta?» «E’ davvero una musica, Ted. Magari la tua segretaria me ne può fare una copia. Quel passaggio sulle infinite leghe della Cina è di effetto quasi come l’altro sull’unioneunione. Magari riusciamo a tirarne fuori un titolo.» «Senza dubbio» disse Weede Denney. La chiacchiera proseguì. Fissai Warburton in viso. No, impossibile fraintendere quel fremito sardonico all’angolo della bocca. Mi abbandonai alla luce del tramonto, alle lagune, ai pozzi delle miniere. Un piccione saltò sul davanzale della finestra, agitando come un pazzo il becco su e giù, come una zitella obesa e sussiegosa a spasso per Providence, Rhode Island, e un attimo dopo il boato di una demolizione in lontananza lo fece schizzare in volo. Sentii un tremito di dolore alla tempia. Cercai di pensare ai regali di Natale che dovevo ancora comprare. Avrei passato tutto il sabato in giro per negozi e a far pacchetti. Dovevo comprare i regali per Meredith e i suoi genitori, per mio padre, per Sullivan, per Binky, per mia sorella Jane e i suoi bambini a Jacksonville, per tre ragazze con cui uscivo saltuariamente; niente per B.G. Haines, niente per l’altra mia sorella Mary, che non vedevo né sentivo ormai da anni. Avrei dedicato tempo e cura alla confezione dei regali per i genitori di Merry e per Jane e i bambini. (Pensare alle distanze mi lascia sempre sbigottito: meridiani, latitudini, date che cambiano, che oscillano sull’arco terrestre, mentre io rimango stanziale per l’eternità e i luoghi più lontani mi appaiono sempre fuggevoli, come se si allontanassero scivolandomi da sotto i piedi, difficili da raggiungere anche per posta. E’ per questo che tendo a trattare con eccesso di deferenza i pacchi postali destinati a viaggiare per centinaia o migliaia di chilometri, come se fossero piccioni viaggiatori con messaggi segreti da recapitare a impavidi guerriglieri in agguato sulle colline.) Poi mi tornò in mente di colpo mia sorella Mary. Me la immaginai seduta in una lavanderia a gettoni di Topeka, nel Kansas. Che fumava una sigaretta extralunga con il filtro mentre aspettava che il bucato si asciugasse. La immaginai con addosso un vestito grigio di cotone. Non c’era motivo per pensarla proprio in quella città, in quello stato o in quelle particolari circostanze, seduta in quell’inferno grigio e candeggiato, davanti al groviglio di abiti che vorticavano simili a embrioni meccanici dentro uteri sperimentali, eppure quella mi parve una visione vera e propria, giuntami per vie extrasensoriali non meglio specificate. Inspiegabilmente, provai tristezza. Sentivo un dolore irradiarsi da tutto il lato sinistro della testa. Un’altra esplosione, a vari isolati di distanza. Le voci ronzavano, entrando e riemergendo da alveari oscuri. Guardai di nuovo Warburton in faccia. Poi fu come un lampo: fu un pensiero di bellezza folgorante come un’intuizione improvvisa che risolve un calcolo astronomico. Warburton era Trockij. «Direi che con questo abbiamo riassunto tutto» disse Weede Denney. «Oggi pomeriggio prendo un grosso uccello argentato che mi porterà sulla Costa. Dovrei essere

di ritorno mercoledì. Se ci sono problemi, la signora Kling sa come raggiungermi. Buon fine settimana e buon Natale.» «Sancito ufficialmente» disse qualcuno, a mo’ di postilla. Weede andò nel bagno adiacente il suo ufficio. Noi raccogliemmo i bicchieri di carta, risistemammo le sedie nelle posizioni originarie e in generale rimettemmo in ordine, riluttanti a lasciare piccole incombenze del genere alla signora Kling, che negli anni era riuscita a imporsi come una delle persone più temibili dell’azienda. Andando verso il mio ufficio mi fermai da Hallie Lewin e le massaggiai il collo. Stava battendo a macchina una comunicazione riservata. Vidi che sull’elenco di smistamento il mio nome non c’era. «Com’è andata la riunione, David?» « E’ finita nel solito tafferuglio. Che cosa vuoi per Natale, Hallie?» «Un aborto» rispose lei. «Cos’è che scrivi?» «Vattene via. Non sei autorizzato a vederlo.» «Riguarda me?» domandai, passandole le mani sulla schiena. «Sei l’ultima persona a doversi preoccupare qui dentro. Sul serio. Ho sentito parlare molto bene di te, David.» Seguii in corridoio Quincy Willet e Jones Perkins, facendo schioccare piano le dita e molleggiandomi sulle punte dei piedi. Quincy aveva bisogno di un buon taglio di capelli. «Hai sentito?» disse Jones. «Merrill ha assunto un negro. Blaisdell l’ha conosciuto ieri. Dice che gli è sembrato un tipo simpatico e perbene.» «Andiamo a dargli un’occhiata» rispose Quincy. Entrai in ufficio. Binky mi seguì a ruota. Notai che, non portava il reggiseno. Raggiunse il divano zampettando, vi si lasciò cadere e rimbalzare un paio di volte prima di accomodarsi. Il venerdì si rilassava sempre un po’. Andai a sedermi alla scrivania. «Che c’è di nuovo?» domandai. «Ha chiamato una certa Wendy Judd. Vuole che la richiami.» «Che altro?» «Ha chiamato Warren Beasley. Non ha lasciato messaggi.» «Che altro?» «Tuo padre vuole vederti al Grand Prix a mezzogiorno e mezzo.» «Che altro?» «Nient’altro» rispose lei. «Com’è andata la riunione?» E’ finita nel solito tafferuglio. Phelps Lawrence non si è fatto vedere. Mi sa che gli hanno già comunicato la notizia.» «Hai sentito l’ultima? Sta diventando proprio un tiro al piccione.» «Che succede?» domandai. «Mars Tyler e Reeves Chubb.» «Che gli è successo?» «Silurati.» «Dove lo hai sentito?»

«Non posso dirlo» rispose lei. «Binky tesoro.» «Hallie Lewin mi ha detto di Reeves. E Penny Holton di Mars.» «Chi è Penny Holton?» «La segretaria di Carter Hemmings.» «Quella con le tette stereofoniche?» «David. Adesso non essere volgare.» «Ha i seni che puntano in due direzioni opposte.» «Be’, però è una notizia, vero?» disse Binky. «Non è tutto» dissi. «Forse il prossimo sarà Carter Hemmings. Ora come ora è solo una voce di corridoio, per cui non fiatare.» «Va bene.» «Ho anche notato che Chandler Bates aveva la porta chiusa quando sono passato davanti al suo ufficio giusto un minuto fa. Ne ho parlato per puro caso con Jody e lei mi ha detto che è chiusa da stamattina.» «Secondo te cosa vuol dire?» «O che sta licenziando qualcuno, o che qualcuno sta licenziando lui.» «Non è possibile che licenzino Chandler» disse lei. «E’ pappa e ciccia con Livingston. E’ il biondino di Livingston. Lo ha portato via Livingston dalla C.B.C.» «Mi dicono che Livingston ormai è andato.» «Questo è troppo.» «Come uno di quei bombardieri a medio raggio quando diventano obsoleti» continuai. «Acqua in bocca.» «Credevo avessero un minimo di spirito natalizio. Bel periodo per cominciare un’epurazione.» «Basta con le chiacchiere. Mandami qui Carter Hemmings, e digli di darsi una mossa.» Binky uscì e io chiamai Sullivan. Fece otto squilli senza che nessuno rispondesse. Lo lasciai suonare ancora un po’. («Dio mio, devo andarmene da qui» sussurrai nella cornetta. Alla fine riattaccai. In quel preciso istante entrò Carter Hemmings. Raggiunse il divano spostandosi di sbieco con passo incerto, leggermente curvo, con ossequiosità feudale. «Carter, mi pareva fossimo d’accordo che stamattina saresti andato da Weede per fargli rapporto su come procede la questione del raggio laser.» «Da come l’avevo capita io, Dave, eravamo d’accordo che sarei venuto da te stamattina presto. Ma quando sono passato dal tuo ufficio, Binky mi ha detto che non eri ancora arrivato. Sono tornato dieci minuti dopo e mi ha detto che eri appena andato da Weede per la riunione.» «Alla fiera del brusio è venuto fuori il tuo nome, Carter. Weede ha detto che se non stai attento ti fa un culo così. Notizie di B.G. Haines? Mi ha detto che l’altra sera non si è divertita neanche un po’. Non mi parlano bene di te, Carter. Qui tutti devono far

vedere che contano. Scoprirai anche tu quanto Weede sappia essere spietato, quando le circostanze lo richiedono. La tua segretaria è una stronza e parla troppo. Adesso ho del lavoro da fare.» Lui se ne andò. Io stracciai gli appunti che avevo preso durante la riunione. Dal cassetto centrale tirai fuori una scatola di graffette e cominciai a infilarle una dentro l’altra a catena. Nel giro di una decina di minuti, avevo collegato un centinaio di graffette. Poi unii i due estremi. Stesi il cerchio di graffette sul piano della scrivania. All’interno sistemai nove matite, disposte in tre triangoli di tre matite ciascuno. All’interno di ciascun triangolo misi una gomma da cancellare. Poi presi i brandelli degli appunti, li buttai in un portacenere, accesi un fiammifero e diedi fuoco. Sistemai il portacenere con la carta che bruciava in un punto più o meno equidistante dall’angolo interno dei tre triangoli, pressappoco al centro del cerchio. Quando il fuoco fu sul punto di spegnersi, strappai altri pezzi di carta e li gettai nel portacenere. Continuai finché non entrò Binky a riprendersi il cappotto, che appendeva sempre dietro la porta del mio ufficio. «Già ora di pranzo?» «E quello cos’è?» «Un rituale satanico.» Lei fece il giro della scrivania affiancandosi a me per vedere meglio. Io mi abbandonai sulla sedia, mi allungai e le misi una mano sul polpaccio, tracciandovi lentamente percorsi a otto con la punta delle dita. «E’ strano, David.» «Secondo me funziona bene. Non so se hai notato il portacenere rotondo. Cerchi concentrici. Proprio come la mia emicrania. Però le gomme non servono a molto. La prossima volta che passi dalla cancelleria, vedi se ci sono gomme triangolari. E’ una cosa seria, questa.» «Che significa?» «Serve a evocare le potenze delle tenebre. Hallie Lewin è davvero incinta o scherzava?» Avevo spostato la mano sull’insenatura morbida dietro il ginocchio che mi è sempre parso uno dei punti migliori del corpo delle donne, quando piegano le gambe; e, come per venire in contro alle mie preferenze, Binky spostò il peso proprio su quella gamba, in modo che il ginocchio, rispondendo alla variazione e mantenendone il pieno controllo, si piegasse appena a generare quell’avvallamento concavo e tenerissimo per il piacere gratuito della mia mano. Sulla soglia dell’ufficio comparve Weede Denney. «Entra, Weede» dissi. «Ehi, come sta tua moglie?» Binky si allontanò un poco. Mi parve di vedere le porte spalancarsi nella mia mente, tre, quattro, cinque porte che si aprivano, e la luce che filtrava illuminando il pavimento della camera oscura. In passato ero sempre riuscito a controllarle, quelle porte, ma in quel momento sembravano aprirsi da sole, spinte dal vento, sbattendo contro le pareti. Mi era ancora possibile mantenerne il controllo, ma non ci provai. La mia camera iniziò

a riempirsi di luce, e allora pensai che forse sarei arrivato a otto porte spalancate contemporaneamente, un nuovo record. «Non volevo disturbarvi» disse Weede, arrossendo un poco. «Volevo solo parlarti un minuto o due. Posso ripassare.» «Binky, non so se hai mai conosciuto la signora Denney. Una donna assolutamente coraggiosa. Weede, racconta a Binky di quella volta che la signora Denney è andata dritta incontro a un branco di ippopotami durante il vostro safari fotografico in Kenya. Doveva a tutti i costi fare quella foto, non gliene importava niente dell’incolumità personale. Weede ce l’ha raccontato ieri a pranzo. Sono impaziente di vedere quelle diapositive, Weede. Binky, secondo me dovresti vederle anche tu. Weede ha promesso che presto ci inviterà alla proiezione ufficiale. Binky è appassionata di fotografia, Weede. Weede ha una collezione fotografica niente male, Binky» «Mi piacerebbe molto vederla» disse Binky. «Be’, ho appuntamento a pranzo con Jody Moore e a lei non piace aspettare.» Binky se ne andò, infilando il cappotto mentre si dirigeva verso la porta, e Weede si spostò per lasciarla passare. Sembrava avesse paura di sfiorarla, come se bastasse quello a far saltare i nervi a entrambi. Cercai di richiudere le mie porte mentali. Non volevano saperne. Weede si avvicinò alla scrivania, stese le mani sul bordo opposto e si allungò verso di me. «Volevo chiederti una cosa» disse. «Riguarda una questione alquanto delicata. So che sei in sintonia con le correnti sotterranee dell’azienda. Quello che ci diremo io e te non deve uscire da questo ufficio. Reeves Chubb è omosessuale? Non sei tenuto a rispondermi, se non vuoi.» «Sì, mi è arrivata qualche voce al riguardo. Qualcuno ha scritto qualcosa a proposito sul muro del bagno degli uomini al trentasettesimo piano.» «Mi piacerebbe darci un’occhiata.» «Non ci sono più» dissi. «Era la settimana scorsa. Scritte a pastello rosso sopra gli orinatoi. Mi è sembrata la grafia di Willet. Quei due non sono proprio amici per la pelle, se capisci cosa intendo.» «Cosa c’era scritto esattamente? Può essere importante.» «Non credo di volertelo dire, Weede.» «Cose brutte?» «Le peggiori.» «Dave, siamo persone mature. Ora ti spiego perché ho sollevato l’argomento. So che posso contare su di te per fare in modo che qualsiasi informazione riservata resti all’interno di queste quattro mura.» «Vuoi che chiuda la porta?» domandai. «Assolutamente sì. Avrei già dovuto pensarci io.» Mentre chiudevo la porta dell’ufficio mi passò davanti Quincy e mi rivolse un’occhiata interrogativa. Weede andò a sedersi sul divano, io tornai alla scrivania. «Come ben sai, Dave, noi assumiamo solo ed esclusivamente sulla base dell’abilità professionale. La politica aziendale è sempre stata questa. Personalmente, non ho il

benché minimo interesse per la vita privata di chi lavora con noi. Quello che fa una persona nel suo tempo libero non mi riguarda, entro limiti ragionevoli.» «Di questo ti devo dare atto, Weede.» «Solo che in questo caso il problema è diverso. Il Dipartimento di stato non vuole checche nel progetto Cina. Lungi da me l’idea di sfidare le idee di gente la cui maggiore preoccupazione è la nostra sicurezza nazionale. La settimana scorsa si è tenuta una riunione in un albergo del centro. Sostanzialmente non hanno concluso nulla. Reeves è sposato, lo sai.» «Capita» dissi. «Esatto, Dave. Quelli del Dipartimento sono svegli. Raccontano storie incredibili. Abbiamo passato tutto un pomeriggio a discuterne.» «E’ un mondo sommerso. E’ una malattia. Può capitare a chiunque.» «Lo sapevi che Reeves dorme in ufficio due o tre notti la settimana? Sono cose che fanno riflettere. Cosa può pensare sua moglie di una cosa del genere?» «Gira voce che forse Jones Perkins è bisex. Non che con questo intenda necessariamente che se la fa con uomini e donne. E’ solo che certi suoi tratti sessuali secondari destano sospetti. “Potrebbe” farsela con uomini e donne, se cogli la differenza. Ma ora come ora è solo una voce di corridoio.» «Non do credito a storie del genere.» «Ci darebbe credito solo un imbecille.» «Be’, volevo solo sapere che ne pensavi, Dave. Spero proprio che la cosa finisca in niente.» «Weede, il modo migliore in assoluto per giungere a una conclusione in situazioni come questa, quando c’è in gioco il futuro di un uomo, è semplicemente ritornare indietro con la memoria. Prova a ripensare a Reeves. Ai piccoli fatti del passato, agli aneddoti che raccontava, alle sue reazioni a certe parole o frasi, ai suoi modi di dire preferiti, a come tiene fra le dita quei cigarillos che fuma, al suo tipo di sensibilità estetica, alle sue preferenze letterarie, a quanto tempo passa in bagno, alle scarpe che porta. Tutto è indicativo. Ecco. Ora, posso lavorare al progetto sui Navajo per conto mio?» «Quincy ti dà fastidio?» «Ha problemi coniugali. Ha la testa altrove.» «Prenderò in esame la questione, Dave.» «Grazie mille.» «Ti faccio sapere qualcosa appena torno dalla Costa» disse. «Magari ci troviamo a pranzo.» Le mie porte mentali erano tutte spalancate. Mi sembrava di impazzire. Era come se l’intera nostra conversazione si svolgesse in sogno, e non riuscivo assolutamente a credere che ci stessimo davvero dicendo quello che dicevamo. L’emicrania si era trasformata in un torpore vibrante, come dopo un’iniezione di Novocaina. Avevo perso il controllo delle parole, e neppure mi interessava riacquistarlo, Era una sensazione né

bella né brutta. Anzi, non era quasi nemmeno una sensazione. Mi sentivo la testa come un telefono che dà sempre occupato. «Sicuro che non vuoi dirmi cosa c’era scritto sul muro del gabinetto? Forse è importante.» «‘Reeves Chubb si arrampica sulle palme per fare pompini alle scimmie che dormono.’» Scesi in ascensore e mi feci a piedi i due isolati fino al Grand Prix. Non avevo il cappotto. Quando andavo a pranzo fuori non me lo mettevo mai, nonostante il freddo. J.F.K. Il ristorante era tutto decorato ad automobili. Mio padre era già lì, seduto a un tavolo d’angolo. Corpulento, in un bell’abito di tweed inglese, sembrava dominare tutta quella zona della sala. Stava lanciando improperi scherzosi a un vicino di tavolo. Rimasi a guardarlo per un istante. Lui si passò la mano fra i capelli radi, poi cominciò a giocherellare con le posate. Notai che aveva un paio di occhiali nuovi, con la montatura nera, che incutevano soggezione. Un volto privo di lineamenti forti, alquanto anonimo, ma con una luce autorevole e diretta nello sguardo che non si poteva ignorare. Non ci assomigliavamo per niente. Mio padre aveva appena compiuto cinquantacinque anni e si era calato dall’oggi al domani nel ruolo del vecchio saggio. Prima di quel nostro incontro al ristorante l’avevo visto solo una volta dal giorno del suo compleanno. In quell’ultima occasione, per un aperitivo insieme dopo il lavoro, mi era parso attentissimo ai suoi gomiti. Ogni volta che parlava, girava lo sgabello e si allungava verso di me con i gomiti allungati in fuori come le ali di un deltaplano. Oppure alzava l’indice della mano destra, con la testa che gli ciondolava sopra il bicchiere, e con quello si tamburellava il gomito sinistro, che teneva piegato sul bancone. Lo faceva solo quando doveva esporre proclami di grande importanza, e in quei momenti mi chiedevo se il significato profondo di tali dichiarazioni non fosse rinvenibile solo a patto di sezionargli il gomito e frugare in mezzo ai tessuti connettivi con uno strumento chirurgico sottilissimo. Quella sera mi aveva fatto tornare in mente John Foster Dulles e Casey Stengel, altri due vecchi saggi che sapevano usare bene i gomiti, «Scusa il ritardo, papà. Buon Natale.» «Mi dicono che Stennis è in difficoltà» rispose lui. «Mai piaciuto, quel figlio di puttana. Quanto guadagna? “Siedez-vous”, ragazzo. Possiamo berci solo un aperitivo. Ho appuntamento con un cliente alle due in punto.» «Non sapevo che conoscessi Stennis.» «Siamo noi l’agenzia della serie sulle malattie mentali di cui parlano tutti. Stennis ci ha detto che quegli spot di dieci secondi che stiamo trasmettendo sono di pessimo gusto, visto e considerato l’argomento del programma. Dice che il network ha ricevuto lamentele. Hai capito benissimo di quali parlo, quei jingle con le animazioni. Cameriere, due martini dry con ghiaccio. Poi aspetti dieci minuti e ci porti il filetto alla Bourguignon. Per dolce e caffè non abbiamo tempo.»

«Che progetti hai per Natale?» gli domandai. «Pensavo di passare da casa.» «Ottimo, vieni. Portati una ragazza. Ci beviamo qualcosa e poi andiamo all’Admiral Benbow a mangiarci il tacchino. Tua madre faceva un tacchino fantastico. Dovrei proprio venderla, quella casa, ma non ci riesco. Come sta Merry? Mi manca proprio, la ragazza. Una bambina deliziosa.» «Sta benissimo, papà.» «Senti, non nego di avere scopato in giro, ai bei tempi. Un uomo non vale molto, se non gli viene la fregola ogni tanto. Ma come faccio a sposarmi una di quelle troie ossigenate con il culone dopo tutti gli anni passati con tua madre? Avevo ventidue anni quando l’ho sposata. Abitavamo in un appartamento senza acqua calda nella Upper Broadway. Il giorno che è nata Mary, sono uscito a ubriacarmi. Guarda, non è nostalgia. Sono stati giorni schifosi, ragazzo mio. Adesso sono nell’età in cui un uomo sente il bisogno di fare un minimo di bilancio. Però ti dico subito che il golf può andare affanculo. Per uno come me è la morte. Mi chiedono tutti di andare a giocare a golf. Per gli ultimi sette, otto anni, da quando è morta tua madre, non ho sentito parlare d’altro che di golf. Io lavoro tutto il fine settimana, a casa o in ufficio. Meglio lavorare che morire. Senti, ho una storiella con la mia segretaria. Ma che me ne faccio? Posso davvero contare su di lei nel lungo periodo? Cameriere, avevo detto con il ghiaccio.» «Quanti anni ha?» domandai. «Non so, credo sui ventiquattro. Quando si arriva alla mia età finiscono per assomigliarsi tutte. Se hai voglia di uscire con lei, ti combino qualcosa.» «Che tipo è?» «Lo succhia» sussurrò. «Non intendevo questo.» «Vuoi capire se è la ragazza giusta per me. Va bene. Non è mica un problema. Le tue opinioni le rispetto, ragazzo. Ma nel mio settore io sono l’ultimo della vecchia scuola. Ho alle mie dipendenze sei venditori e nove assistenti alle vendite. Usciti dalla Harvard Business School. Non valgono nemmeno una goccia di sudore delle mie palle. E adesso ti dico un’altra cosa. Loro mi rispettano. E ti spiego perché. Mi rispettano perché sanno benissimo che potrei fare il loro lavoro meglio di loro. Nel mio campo ci vuole un po’ di colore. I venditori della nostra agenzia sembrano tutti esemplari da laboratorio conservati nella formaldeide. Quando si conosce bene il proprio lavoro ci si può anche permettere di essere se stessi, fino a un certo punto. Questo l’ho capito anni fa. Mi hanno piazzato nell’ufficio quattro di quelle sedie imbottite ripugnanti con la fodera grigia. Le ho buttate tutte giù dalla finestra nel vicolo. Lo sai anche tu come corrono le voci sulla Avenue. Nel giro di una settimana avevo già sei offerte di lavoro. C’è un cliente che mi considera la cosa migliore che potesse capitargli. Tutti i martedì andiamo a pranzo insieme allo Yale Club. Simpaticissimo. Un vero signore. All’università giocava a football e a lacrosse. L’ho raccomandato al mio sarto.» «Eccoci qua» dissi. «Bevi. Buon Natale.» «Buon Natale, Dave. Dio ti benedica.»

Mio padre collezionava spot pubblicitari. La cantina di casa di Old Holly era zeppa di bobine accuratamente catalogate per durata, tipo di prodotto reclamizzato, impatto sull’audience, classificazione del prodotto e innumerevoli altre categorie. Le schede di catalogazione riempivano due armadietti interi, mentre le bobine erano infilate in verticale in centinaia di caselle numerate lungo tutta una serie di mensole apposite che andavano dal pavimento al soffitto, progettate e costruite da mio padre con le sue mani. Mia madre la chiamava la sua enoteca. Aveva sistemato uno schermo e un proiettore, e passava diverse sere la settimana a guardarsi gli spot pubblicitari prendendo appunti. Lo faceva da anni. Per lui era parte integrante del suo lavoro. Diceva sempre alla famiglia che voleva studiarli per capire gli elementi comuni e le sfumature di quegli spot che ottenevano gli indici di gradimento più alti: per scoprire il rapporto fra determinati generi di spot e il loro impatto sul mercato, come lo definiva lui. Io, Mary e Jane, da adolescenti, avevamo passato molte delle nostre serate in quel seminterrato buio a guardare spot. Ogni volta che papà portava a casa una bobina nuova, non vedevamo l’ora di guardarcela. Mentre nostra madre vagava per le stanze della grande casa, noi scendevamo a stravaccarci nel seminterrato illuminato dalle immagini sullo schermo e discutevamo di quale fosse lo spot migliore. Mio padre faceva da arbitro nelle discussioni, invariabilmente feroci. Ripeteva sempre che non ha alcuna importanza quanto lo spot sia bello o divertente: se non smuove la merce dalle mensole, non serve. Lo spot deve smuovere la merce. E in quel momento, mentre il cameriere ci metteva di fronte i piatti, ripensai a lui di fianco al proiettore mentre la prima bobina della serata scorreva espellendo le immagini in direzione dello schermo nella penombra pulviscolosa da cattedrale, un ragazzino con le lettere dell’alfabeto in faccia mentre mangia la sua pastina lentigginosa, forse, o un uomo che si pulisce i denti da dopo Ringraziamento, o le lingue di sette casalinghe nude che leccano una ciotola di cibo per cani. Avrei voluto vederlo morto. Era il primo pensiero onesto che mi passava per la mente dall’inizio della giornata. La mia libertà dipendeva dalla sua morte. «Com’è che tutti i pubblicitari che conosco vogliono mollare il lavoro?» domandai. «Tutti che vogliono costruirsi uno schooner con le proprie mani, asse per asse, e salpare per il mare della Tasmania. Conosco un copywriter, alla Creighton Insko Dale. Un giorno eravamo a pranzo insieme ed è scoppiato a piangere.» «Io lo adoro, il mio lavoro» disse mio padre. «La legge della giungla. E’ come una partita a dadi per strada con un piatto di sei milioni di dollari. In quale altro campo uno come me riuscirebbe a guadagnare tanto? Io ho l’immagine di marca giusta. Lo sai benissimo anche tu. Da Wall Street mi caccerebbero via a calci in culo. Ma alla mia età non ho più preoccupazioni di soldi. Ho letto Tolstoj. Ciascun uomo al mondo è convinto di avere un romanzo dentro di sé. Un romanzo e un’amante eurasiatica. Tolstoj mi fa venire voglia di scrivere un romanzo. Tua madre era quasi sempre malata, ma aveva qualcosa che queste zoccole d’oggi neanche si sognano. Hai presente la mia segretaria? Maxine? Ha sempre il sapone sotto le unghie. Sette volte su otto, quando le guardo le unghie vedo quelle scagliette di sapone. Prova a fare un paragone con tua madre. Alla

mia età si finisce per rendersi conto di avere sbagliato tutto nella vita. Non importa chi sei, hai comunque sbagliato sempre tutto. Forse mi faccio cattolico.» «Non sapevo che la pensassi in questi termini.» «Ha il suo fascino» disse, rivolgendosi al suo gomito. «Ho letto parecchio. Non sono mai stato molto religioso, ma ha il suo fascino. Hai presente la chiesa cattolica di Old Holly, del Santo Scheletro, o come si chiama? Be’, una sera sono passato a trovare il prete capo, sì, il pastore, e ci siamo fatti una chiacchierata molto interessante. Ottima persona. Sapeva tutto di me. Mi ha spiegato tutto dell’anima. L’anima ha un legame trascendentale con il corpo. Pervade tutto il corpo. L’anima diventa consapevole della propria essenza solo quando si separa dal corpo. Dopo la morte, l’anima si lascia illuminare direttamente da Dio. Gli ho spedito una cassa di Johnnie Walker.» «Che ore sono?» domandai. «Hai ragione, devo darmi una mossa. Senti, ragazzo mio, vedi cosa riesci a sapere sul conto di Stennis. Scopri quanto guadagna.» Aveva ricominciato a nevicare, e la gente procedeva a testa bassa, reggendosi i cappelli con le mani, a spalle protese in avanti per resistere al vento. Attraversai lo spazioso androne grigio. In un angolo erano esposte fotografie di guerra che avevano vinto vari premi. Una in particolare era un ingrandimento a colori gigantesco, circa tre metri di altezza per sei di larghezza. Al centro della fotografia c’era una donna che stringeva fra le braccia il cadavere di un bambino, con altri otto bambini alle spalle e ai due lati: alcuni fissavano la donna, altri sorridevano e salutavano con la mano, apparentemente rivolti all’obiettivo. Al centro dell’androne c’era un giovane inginocchiato che fotografava la fotografia. Per un istante mi fermai dietro di lui e l’effetto fu indimenticabile. Tempo e distanza svanirono: i bambini della foto parevano sorridere e salutare proprio lui. Tale è il prestigio della macchina fotografica, la sua autorità quasi sacrale, la sua potenza ipnotica che impone rispetto sia al soggetto fotografato sia al passante occasionale, che io mi ritrovai assolutamente immobile finché il giovane non ebbe scattato la sua foto. Come per paura che il minimo gesto da parte mia potesse distrarre uno di quei bambini bendati e rovinargli irrimediabilmente la foto. Procedetti lungo l’atrio. Qualche metro davanti a me c’erano tre colleghi del network che camminavano pestando i piedi per terra nel tentativo di togliersi la neve dalle scarpe. Proprio in quel momento dall’ascensore emerse Weede Denney, che si diresse verso di noi con il cappello in una mano, la ventiquattrore nell’altra e il consueto sorriso giapponese in faccia. Mi avvicinai agli altri e cominciai anch’io a pestare i piedi. «Signori.» «Weede.» «Weede.» «Weede.» «Weede.» Sull’ascensore c’era una decina di persone. Nessuno aprì bocca. Dalla filodiffusione proveniva un canto natalizio. Arrivato al ventesimo piano, sganciai il citofono di

emergenza dalla nicchia di lamiera, ma non mi venne in mente nulla di spiritoso da dire, per cui riagganciai. Binky non era alla scrivania. Andai in ufficio e composi l’interno di Tana Elkbridge. Era segretaria nel dipartimento notiziari, sposata da sette anni. Avevamo una relazione da un mese. Era iniziata a una festa, quando mi aveva chiesto se poteva interessarmi leggere qualche suo pezzo breve. Non avevo idea di cosa intendesse. I ‘pezzi brevi’ si erano rivelati in seguito poemi in prosa, sul genere di quelli che scrivono le aspiranti infermiere finché non assistono alla prima amputazione. Tana era scura di pelle, con un fisico straordinario e i capelli a treccine. Rispose il suo capo, e io riattaccai subito. Era almeno la decima volta che lo facevo da quando mi avevano assunto al network. E’ un’esperienza avvilente, ma quando si ha una relazione con una donna sposata, o quando si è sposati e si ha una relazione, è meglio non correre rischi. Il superiore di Tana era un tipo segaligno e nervoso, e mi immaginavo benissimo la sua irritazione, l’ammutinamento incontrollabile dei suoi tristi lineamenti nel sentire lo scatto ostile del telefono riagganciato. Ma non mi procurava alcun piacere. Quincy comparve sulla soglia, entrò richiudendosi la porta alle spalle, attraversò lentamente l’ufficio e posò la gamba poderosa sull’angola della mia scrivania. Gli vidi la parte superiore della coscia appiattirsi e allargarsi sul ripiano, e mi venne in mente di colpo un organismo alieno da film di fantascienza che pulsa minaccioso nell’angolo buio di un laboratorio scientifico. «Era Weede quello che è entrato qui appena prima di pranzo?» «No.» «Era Weede» disse. «Senti, come mai parte per la Costa? In genere non si parte per un viaggio di lavoro subito prima di Natale. Dev’essere qualcosa di importante. Ti ha detto qualcosa?» «Quincy, se potessi te ne parlerei. Ma sono informazioni riservate.» «Andiamo, Dave. Da quant’è che ci conosciamo? Abbiamo cominciato insieme. Quante volte hai visto mia moglie nuda?» «Non posso dire una parola.» «Be’, almeno potrai dirmi se si porta dietro anche Kitty? Non riesco a crederci che molli sua moglie a casa per Natale. Impossibile che sia così importante.» «Sono in crisi quei due» risposi. «Qui stanno capitando un sacco di cose. Poco prima di pranzo ho alzato il telefono e ho sentito delle voci. Si vede che c’era un contatto. Era Walter Faye che parlava con qualcun altro che non ho riconosciuto. Walter stava raccontando quanto prendono di stipendio tutti i membri della divisione di Weede. Reeves Chubb guadagna più di noi.» Quincy aveva un ufficio con la porta arancione e il divano grigio scuro. Alcuni di noi, del gruppo di Weede, avevano le porte dello stesso colore ma il divano di colore diverso. Altri avevano gli stessi divani ma le porte diverse. Weede era l’unico con un divano rosso. Weede e Ted Warburton erano gli unici con la porta nera. Warburton aveva un divano verde scuro, come la porta di Mars Tyler. Ma il divano di Mars Tyler era un écru appena più chiaro del colore della porta di Grove Palmer. Mi ero scritto

tutto. Nei pomeriggi tranquilli me lo studiavo nel tentativo di trovarci una logica. Ero convinto che rientrasse in un complesso schema cromatico elaborato dalla direzione per indicare stipendio, capacità e prospettive di carriera del dipendente. Come mai non c’erano due persone con divano e porta uguali? Come mai a Ted Warburton era concessa una porta nera, quando ad avere la porta nera era solo Weede Denney? Perché Reeves Chubb era l’unico con un divano color primula? Perché avevano sostituito il divano marrone di Paul Joyner, in perfetto stato, con un altro blu scuro? Perché il mio divano era dello stesso colore della porta di Weede? Altri la pensavano come me. Quando Paul Joyner era entrato in ufficio e aveva visto il divano nuovo, aveva immediatamente cominciato a dire in giro che stavano per licenziarlo. Ma il caso del divano nuovo si era verificato già anni prima che cominciassero a circolare le ultime voci di corridoio, la cui origine non si era mai scoperta. Joyner non era stato licenziato: non era così facile trovare il nesso. Impercettibile, certo, ma doveva esserci. Almeno dieci volte avevo preso dallo schedario quel pezzetto di carta e mi ero scervellato per scoprire l’eventuale legame fra posizione aziendale del dipendente e colore di porta e divano. Doveva per forza esserci una logica. Se solo fossi riuscito a scoprire quale. L’uso che ne avrei fatto, se e quando ci fossi riuscito, era un problema che non mi ponevo. A qualcosa sarebbe servito. Avrei potuto cambiare qualcosa. Mi sarei sentito al riparo. Avrei risolto l’enigma. «Ho mangiato messicano a pranzo» disse Quincy. «Fra cinque minuti devo andare a una riunione nell’ufficio di Livingston-figlio-di-puttana. Sentimi l’alito, ti spiace?» Mi si avvicinò e mi soffiò in faccia. «A posto» dissi. «Petali di rosa.» E’ una fatica togliersi i tacos dall’alito. Mi sono lavato i denti due volte.» «Okay» dissi. «Adesso sentimi tu l’alito.» Quincy si allungò di nuovo in avanti. «Nessun problema» disse poi. «Non c’è il benché minimo odore.» Mentivamo tutti e due. Mezz’ora più tardi entrò Binky. Appese il cappotto dietro la porta e uscì subito. Composi il suo interno. «Signorina Lister.» «Bentornata alla fattoria degli animali» le dissi. «Ce l’hai con me? Aspetta solo di vedere il regalo che ti ho preso per Natale. Sei la miglior segretaria che abbia mai avuto. Giurin giurello, che piscio in un ruscello.» «Si può sapere che senso aveva quella storia di prima?» domandò. «Non capisco cosa cercavi di fare. Sono uscita a ubriacarmi di Bloody Mary.» «Scusami, Bink. E’ da un po’ che sono teso, nevralgico. Sul serio. Lavoro qui da sette anni. E’ una cosa che logora. Vieni da me un minuto.» «No.» «Sei la mia unica amica qui dentro,» «Ho raccontato a Jody cos’è successo. Secondo lei stai dando fuori di matto.» «Il mio cappotto e il tuo, Binky. Appesi uno di fianco all’altro dietro la porta. Gesù

del cielo, che soddisfazione sapere che le nostre vecchie pelli d’orso se ne stanno lì a farsi compagnia al buio. Dolcezza, ci vieni qui solo un minuto per un bicchierino? Mi sto leggendo il teatro irlandese. E dai, Binky» «No.» «Gesù mio, Binky. Quel tuo polpaccio vincente. Quel piccolo anfratto segreto che hai dietro il ginocchio.» «Crepa, David.» Avrei voluto andarmene a casa a dormire, ma era troppo rischioso uscire così presto. Weede se n’era andato, ma la signora Kling no, e aveva l’abitudine di fare controlli a sorpresa tutte le volte che Weede era fuori ufficio. Chiusi la porta. Tirai fuori la bottiglia di Cutty Sark che tenevo nascosta nell’armadietto, me ne versai un mezzo bicchiere e lo mandai giù in quattro sorsate. Poi appallottolai un pezzo di carta e lo lanciai nel cestino. Due punti. Lo recuperai e cominciai a esercitarmi al tiro a gancio. Avanzavo lentamente sul tappeto a passi ritmici, bilanciandomi con la mano destra fingendo di palleggiare scartando un avversario, sincronizzando il respiro con il movimento della mano; girai le spalle al cestino, sollevai la gamba destra e poi il braccio sinistro per mantenere l’equilibrio, mi passai il braccio destro sopra la testa e mollai un tiro a canestro da quattro metri. «Fiuuu» dissi. Per un po’ mi esercitai dalla linea dei tiri liberi, poi al tiro di sinistro, e alla fine a una complicatissima doppia finta con balzo roteato a canestro. Nella clausura dell’ufficio, giocavo la mia partita silenziosa. Ma senza piacere infantile. Anzi, mi esercitavo con grande serietà, con la cravatta che sobbalzava a ogni salto e il sudore che fioriva sotto le ascelle. Nessuno sapeva che mi davo al basket in ufficio, neppure Binky. Al liceo ero il cestista di punta della mia squadra: primo nei tiri a canestro, ultimo negli assist. Da allora quello sport mi aveva seguito dappertutto, la lucentezza ambrata del pavimento della palestra, il cigolio delle scarpe di gomma, il pubblico, il pubblico, e ancora anni dopo mi capitava di trovarmi a una festa a rigirarmi una nocciolina fra le dita guardando con occhi sognanti la vasca dei pesci. Ho sempre pensato che il basket fosse lo sport più americano di tutti, da paesino di provincia, due bambini sul vialetto di casa sotto il canestro fatto da papà con le sue mani. Saltai di nuovo, tirai e mancai il bersaglio. Ripresi la pallottola di carta, indietreggiai di tre metri, un bel tiro facile. Mancato. Squillò il telefono: tirai di nuovo, mancato. Non intendevo rispondere al telefono finché non fossi riuscito a mandare a canestro un tiro così semplice. Grondavo sudore. Tirai altre due volte, mancandole entrambe. Raccolsi la palla imprecando. Il telefono smise di squillare: evidentemente aveva risposto Binky dal suo interno. Tornai esattamente nello stesso punto di prima. Stavolta lo centrai. Rimasi immobile per un attimo, tremando, poi mi lasciai cadere sul divano. La porta si aprì ed entrò Binky. «Era di nuovo Warren Beasley» disse. «Perché non hai risposto? Hai un aspetto tremendo.»

«Sentimi l’alito.» «Puzza.» «Lo sapevo» dissi. «Quel bastardo di Quincy» «Il signor Beasley ha lasciato detto di riferirti che non ha telefonato.» «E che vuol dire?» «Il messaggio era questo. Non ha telefonato. Ma ritelefonerà.» «Credo che mi farò un altro bicchierino» dissi. «Bevi con me?» «Tu che bevi?» «Scotch.» «Dopo i Bloody Mary?» disse lei. «Non essere così schizzinosa. E’ un periodo in cui bisogna afferrare le occasioni al volo. Lo sai o no che siamo in guerra?» Presi dall’armadietto un altro bicchiere soffiando via la polvere, come Sterling Hayden rintanato in una pensione con la sua fondina ascellare. Versai da bere per entrambi. «David, non credo di farcela a berlo liscio.» «In quella caraffa dev’essere rimasta un po’ di acqua stagnante.» «Meglio se chiudo la porta» disse. Bevemmo in silenzio. Nell’ufficio faceva molto caldo e il nevischio frustava a intermittenza i vetri delle finestre. Mi aspettavo di veder entrare la signora Kling da un momento all’altro. Me la immaginavo seduta in quel preciso istante nell’ufficio di Weede a guardare la televisione, con una sigaretta piantata al centro delle labbra, le ginocchia aperte, le mani giunte sull’addome. Anni prima, durante una festa aziendale, ero entrato nell’ufficio di Walter Faye a verificare certe voci che mi erano giunte riguardo a spogliarelli e bagordi vari, e ci avevo trovato la signora Kling, sola, ignara della mia presenza: irrigidita, scalza e senza camicetta, chiusa in un busto quasi dal collo all’ombelico come un caveau di una banca, piede sinistro proteso in avanti e pugni serrati a mezz’aria, con il sinistro a proteggere il volto, nella classica posa da boxeur di un attaccabrighe del porto. Era stato uno di quei momenti per i quali non si trova spiegazione, un’immersione subacquea trasfigurata dall’ebbrezza da profondità. Molto più tardi, vestita di tutto punto, la signora Kling era ricomparsa alla festa. E poi, come a dare pubblica dimostrazione dell’ottima qualità del suo apparato digerente, dell’efficienza triturante dei succhi gastrici, aveva vomitato su una scrivania ingombra di carte, creando così al tempo stesso una leggenda e un monumento a quella leggenda, la Scrivania Commemorativa di Thelma Kling. Binky si rannicchiò sul divano e si addormentò, con un russare leggero che le increspava le labbra. Io terminai il mio bicchiere e mi accorsi che la bottiglia era vuota. Per un secondo pensai seriamente di spogliarmi e spogliare anche lei. Invece presi il suo cappotto dall’appendiabiti e glielo stesi sopra come una coperta, pur sapendo che l’ufficio era ben riscaldato, ma sopraffatto dal bisogno di mostrare un po’ di tenerezza, anche in modo così banale. Squillò il telefono. «Ciao, Trip. Ero a Hollywood di recente. Sono andato a schiantarmi con la macchina

contro una palma e dai rami sono caduti giù in dodici. Ti assomigliavano tutti come gocce d’acqua. Come i baristi disegnati da Norman Rockwell.» «Ciao, Warren.» «Prima, quando ho chiamato, la tua segretaria mi ha detto che eri in ufficio a suicidarti. Ho richiamato nella speranza di essere l’ultima persona a parlarti da vivo. Pare che l’ultimo a sentire la voce del giovane e celebre dirigente televisivo sia stato Warren Beasley, il controverso divo radiofonico. Secondo il signor Beasley Bell, ventotto anni, stava attraversando un periodo di profonda depressione dovuto alla perdita del suo vecchio guantone da baseball. Il defunto presentava una marcata somiglianza con diversi divi di Hollywood noti per la loro perfetta intercambiabilità. La salma verrà spedita via aerea sulla West Coast per essere reclutata nel nuovo kolossal cinematografico sull’assedio di Leningrado.» «Ti sento pimpante e morboso come al solito» dissi. «Ti chiamavo per invitarti al mio matrimonio. Se i precedenti reggono, la luna di miele si preannuncia già come il giubileo dell’eiaculatio praecox.» Warren Beasley era il conduttore di un programma su una radio locale. Il programma si intitolava “La morte è dietro l’angolo” e andava in onda dalle due alle cinque del mattino. Io l’avevo ascoltato, almeno in parte, quasi cento volte, e non l’avevo mai sentito ripetersi più di tanto. Non invitava ospiti da intervistare, non trasmetteva musica e neanche notiziari di sorta, tranne quelli scritti da lui stesso. Il programma aveva una decina di sponsor fissi più alcuni irregolari: produttori di rigeneratori per capelli, fabbricanti di protesi artificiali, foratori di orecchie, un metafisico di Long Island, un esegeta di manoscritti e rotoli sacri e cliniche veterinarie assortite. Quasi tutti gli sponsor si scrivevano da soli gli spot pubblicitari, letti in genere da Warren stesso in quella che si poteva definire una crescente frenesia orgasmica. Inoltre, Warren leggeva annunci per reclamizzare prodotti inesistenti. Parlava per tre ore filate tutte le mattine tranne il lunedì: a volte con stile, senso dell’umorismo e intelligenza, altre con piacere scatologico, altre nel tono amareggiato e vittimistico dell’uomo sinceramente disperato. Trovavo Warren brillante, ma anche irresponsabile, e non era semplice dare un volto al suo pubblico. “La morte è dietro l’angolo” attirava un rispettabile pubblico di cultori dai margini della società: buona parte della comunità urbana di neonazisti, transessuali, viaggiatori interplanetari, coprofili, collezionisti di fruste e catene, ufologi, bevitori di sangue e inservienti d’obitorio, la feccia caffeinica di un secolo di insonnia nazionale. La Federal Communications Commission non si era espressa sul suo uso frequente di oscenità, a volte primitive e a volte surreali, o perché i censori della F.C.C. non ascoltavano il suo programma, o perché era finalmente giunta l’era della diffusione del sesso radiofonico nelle silenziose alcove d’America. Ovviamente Warren era considerato un profeta da alcuni e un pericolo pubblico da altri. Da parte sua, non incoraggiava né l’una né l’altra interpretazione, men che meno un senso di fratellanza e di comunanza di intenti, o quell’ideologia di cameratismo subculturale che senza dubbio i suoi ascoltatori condividevano. Hanno troppo dei massoni, diceva sempre. Warren

aveva iniziato la sua carriera anni prima leggendo le previsioni del tempo per una t.v. di Los Angeles. Era riuscito a procurarsi una registrazione di quella che si sarebbe poi rivelata la sua ultima trasmissione e me l’aveva mostrata una sera nella sala di proiezione del network. Il particolare che ricordo con più chiarezza era il suo sguardo, implacabile e penetrante come un trapano, che perforava le mura di quel limbo opprimente ben noto a chi si è trovato davanti a una telecamera in un piccolo studio televisivo. Era riuscito a parlare per quasi un minuto intero, prima che in sala regia si svegliassero e lo interrompessero. Aveva cominciato dicendo che a Los Angeles il clima non esisteva, né mai era esistito. Che il clima vero sta dentro di noi e le previsioni del tempo vere erano state tenute nascoste al pubblico per decenni. Perturbazioni lungo i confini dell’anima. Tempeste sulla psiche metropolitana erano previste entro mezzanotte. Cancellati tutti i voli in arrivo e in partenza dai principali egoporti. Dopo di che, si era messo a ballare il tip tap e a cantare una canzoncina che diceva ‘scoperino scoperello vai a scopare un bel porcello’. Da quel giorno aveva fatto parecchia strada. Il suo reddito toccava i centomila all’anno. Molte riviste a diffusione nazionale avevano fatto un pezzo su di lui. Aveva partecipato a decine di talk show. Aveva scritto un nonlibro. Warren, educato per otto anni dai gesuiti, considerava i soldi, la celebrità che si era guadagnato e le quattro ex mogli con un misto di ironia distaccata, angoscia profonda e un maestoso senso tomistico della logica divina sottostante. «Di nuovo?» dissi. «Stavolta è sul serio, Trip. Ha le tettone rosee alla Renoir e sa cucinare. Ma la mia paura è che nella regione pubica sia posseduta dal fantasma di Giovanna d’Arco, quella suffragetta frigida. Per la luna di miele andiamo a Dublino, che magari suonerà un po’ controproducente, ma è una cosa che ho sempre desiderato.» «Quand’è il matrimonio? Non me lo perderei per niente al mondo.» «Durante la sua pausa pranzo» rispose. «Martedì a mezzogiorno al Palazzo della Corte Suprema. Fa l’igienista dentale. E’ quella che ti pulisce i denti prima che ci metta sopra le mani il Dottor Dachau con i suoi strumenti di tortura. Deve tornare in studio entro l’una e mezzo, ma ha una settimana di permesso a partire dal giorno dopo, così la posso portare nella cara vecchia Dublino e fingere che sia Molly Bloom, l’unica donna su cui ho mai desiderato praticare la presa a forbice. Le fantasie si stanno impadronendo della mia vita.» «Warren, ma non è la terza igienista dentale che ti sposi?» «La seconda» rispose lui. «Quella che dici tu era radiologa. Ha provato un paio di volte a friggermi le gonadi. Ci vediamo martedì, allora.» Lessi due pagine di un copione sullo scioglimento delle calotte polari, poi chiamai mio padre. La segretaria disse che mi avrebbe risposto nel giro di un momento. Cercai di immaginarmi le scaglie di sapone sotto le unghie. «Ciao, amico. Novità?» «Stennis guadagna quarantacinquemila» risposi. «Solo? Sicuro?»

«Fonte sicura.» «Dio ti benedica, ragazzo mio.» Qualche minuto dopo squillò il telefono. Alzai la cornetta. In quell’istante Binky si rigirò sul divano, facendo cadere a terra il cappotto, e la gonna le risalì sulla gamba in un dolce fruscio, attorcigliandosi graziosamente intorno alle cosce. Sentii vociare il telefono. Me lo collegai al cervello. «Dave Bell è il mio nome, la t.v. la mia professione.» «David, perché non mi hai richiamata? Ci vieni stasera, vero?» «Che regalo vuoi per Natale, Wendy?» «Non te lo dico al telefono. Ma se tu fossi qui, tesoro» «Solo perché ti senti sola» dissi. «Ti ricordi all’università, David? Era o non era favoloso? Sei uno dei miei amici più cari. Ti prego, vieni alla mia cena stasera. Hai il permesso di andartene presto. Ce l’hai ancora la tua T-Bird? E quelle poesie super che scrivevi? Non hai idea dello choc quando ti sei presentato con moglie al seguito l’ultimo anno. Senti, devo proprio raccontarti un’ultimissima cosa. Mi stai ascoltando? Oggi è arrivata una cartolina dal mio ex. Se ti dico dove sta passando le vacanze, non ci credi.» C’erano trentasei forellini nel microfono della cornetta. Erano disposti in tre cerchi concentrici di sei, dodici e diciotto fori ciascuno. Nell’auricolare, invece, ce n’erano solo sei. La sproporzione mi pareva significativa, ma non sapevo esattamente perché. Tenevo gli occhi incollati alla ragazza addormentata sul divano, mentre bocca e orecchio erano incollati alla bocca e all’orecchio di Wendy Judd. Mi sentivo come risucchiato dentro il telefono. Solo il mio sguardo sembrava in grado di resistere al vortice sibilante di quei quarantadue forellini. Sentivo la bocca di Wendy bruciarmi contro l’orecchio, gigantesca e frenetica. Mentre ascoltavo, portai la mano al punto della coscia corrispondente a quello appena sotto l’orlo della gonna di Binky, che avevo localizzato con lo sguardo solo un istante prima. Era come se i miei sensi si disperdessero, mano e occhi in alleanza ma bocca e orecchie trascinate nel telefono, attratte dal tono incalzante della voce di Wendy, da quell’immagine che non ero in grado di visualizzare; e poi, preso da un’eccitazione strana e feroce, cominciai a strofinarmi il pube con la mano dimenando i lombi in una danza assurda, senza spostarmi dalla sedia né staccare gli occhi da quel panorama marino e terrestre di gonna e gambe sul divano né resistere al richiamo cavernoso del telefono, il luogo in cui si trovava Wendy nella sua smisurata appetibilità, un trionfo di bocca e orecchio. Era la mia segretaria a incarnare quelle parole disarticolate, a impersonificare a mio beneficio l’immagine all’altro capo della linea telefonica, la scena che non ero in grado di visualizzare senza il suo aiuto. Chiusi gli occhi e mi resi conto che era troppo per me, troppo coinvolgente, e allora bloccai Wendy a metà frase, sapendo che non si sarebbe offesa. «Ci sarò» le dissi. Riattaccai e chiamai immediatamente Sullivan. Rispose al settimo squillo. Provai un brivido improvviso, di nuovo quel silenzio bianco e sconfinato al capezzale di mia

madre, che sapeva di ceri e lino, rividi i suoi occhi enormi, il respiro affannoso e malato. Sotto quelle coperte, il corpo di mia madre era poco più che cenere, briciole d’ossa; le sue mani, sterpi secchi. La morte le si addiceva benissimo, tanto da ispirare orrore, e quel giorno, sentendo lo scampanellio di un camioncino dei gelati, per poco non ero scoppiato a ridere. Il carro alato americano che giunge a condurre mia madre alla grande dimora, con il tettuccio arancione e i suoi ventotto gusti diversi. C’era mancato poco, ma non ero scoppiato a ridere; subito dopo era arrivato il brivido finale e lei era morta. «Devo andarmene da qui, Sully.» «David?» «Non riesco più a controllare le mie porte mentali. Le parole entrano ed escono da sole. Le sento benissimo, con una precisione stupefacente, ma non riesco a credere che stiano davvero uscendo dalla mia bocca. Credo sia ora che me ne vada.» «Guarda che là fuori non riuscirai a risolvere niente. Troverai solo pali telefonici che collegano le città. Le distanze ti confonderanno le idee e basta.» «Poco tempo fa sono andato a pranzo con un amico. Si è messo a piangere. Voleva costruirsi una barca e salpare per la Tasmania. Io gli ho riso in faccia. Una settimana dopo gli è venuta un’emorragia cerebrale. Non siamo capaci di imparare niente dagli stereotipi che ci circondano, neppure che siamo tutti uguali.» «Lo so io qual è il tuo problema. E’ che non hai amici ebrei. Perché non fai un salto da me stasera? Sto lavorando a qualcosa di nuovo. Mi piacerebbe che ci dessi un’occhiata.» «Ci sarò» risposi. Riattaccai. La porta si aprì di uno spiraglio rivelando la figura della signora Kling, condensata in quindici centimetri di larghezza, senza braccia e senza fianchi. Con la porta così, appena socchiusa, non capivo se fosse in grado di vedere Binky stesa sul divano. «Qualcuno mi ha rubato la graffettatrice» disse. «Era sulla mia scrivania quando sono andata nell’ufficio del signor Denney. E adesso non c’è più. Ce l’avevo da nove anni. C’è il mio nome attaccato sopra con lo scotch. Sto dicendo a tutti che se non ritrovo quella graffettatrice sulla mia scrivania alle nove in punto di lunedì mattina, saranno guai per tutti. Così avete tutto il fine settimana per pensarci.» «L’ha presa Reeves Chubb. L’ho visto.» «Lei mente. Non creda, so benissimo quante bugie si raccontano qui dentro. Che ci fa lei stesa a quel modo sul divano?» «Ogni tanto le vengono delle piccole crisi» dissi. «E’ una forma leggera di diabete. Niente di cui preoccuparsi, signora K.» «Le si vedono le cosce sopra le calze. E lei, perché tiene le mani sotto la scrivania?» «Mi stavo togliendo le pellicine. Lo sa anche lei quante pellicine vengono intorno alle unghie. Guardi che prima scherzavo, quando ho detto che la graffettatrice gliel’ha rubata Reeves. E’ stato Walter Faye. Ehi, sa che mi piacciono molto le sue scarpe, signora K.? Non sapevo che la Dottor Scholl’s e la Walt Disney fossero entrate in

società.» Quando se ne fu andata, composi l’interno di Ted Warburton. «Warburton.» «Ciao, Ted. Dave Bell. Volevo solo dirti che mi è piaciuto molto quello che hai detto su Chip Moerdler. E’ una grande soddisfazione essere appoggiati da un uomo della tua statura morale. Com’è che l’hai definito? Un uomo di arroganza scimmiesca?» «Di ignoranza apocalittica.» «Straordinario» dissi. «Mi è dispiaciuto scoprire che vogliono cancellare il tuo programma. Aveva i suoi difetti, ma era uno dei pochi che mi facevo scrupolo di guardare tutte le volte. Non abbatterti, Dave. Sei giovane e capace. Hai buone speranze. Ho sentito parlare molto bene di te.» «Detto da te, è davvero un grande incoraggiamento, Ted.» «Pensavo non ti servisse nessun incoraggiamento, soprattutto da un vecchiaccio come me.» «Da quant’è che sei qui, Ted? Era da un po’ che volevo chiedertelo.» «Dal 1951» rispose. «Ho sempre sperato di potermene andare in pensione e traslocare in Inghilterra, un bel giorno. Ma mi sa che nel giro di qualche mese sarò morto. Mia moglie è americana, sai.» «No, non lo sapevo.» «Una di queste sere devi proprio venire a cena da noi. Non siamo mai riusciti ad avere figli.» «Ted, c’era un’altra cosa che volevo chiederti. Hai letto l’ultima sortita del Memo Matto? La citazione da Sant’Agostino? A dire la verità, io non lo chiamo mai così. Preferisco chiamarlo Trockij. Non so perché, ma mi sembra un nome appropriato.» «Trockij» disse lui. «Non male. Mi piace.» «Volevo chiederti se eri in grado di chiarirmi il significato di quella citazione. Sei l’unico qui dentro che mi sembra in grado di spiegare cose del genere.» «Temo di non capire esattamente a cosa ti riferisci.» «La citazione di Sant’Agostino. “Mai uomo sarà più morto di disastrosa morte di quando la morte stessa sarà immortale”. L’ho imparata a memoria. Mi sconvolge. Non so perché, ma mi colpisce profondamente. Mi manda al tappeto.» «In effetti è davvero una frase potente, vero? Ma non capisco per quale motivo ti sei convinto che io sia in grado di interpretarla. Io sono uno di quelli che si rinfrancano lo spirito con gli anagrammi. La teologia è un po’ fuori dal mio campo.» «Le infinite leghe della Cina» dissi. «Non capisco.» «Hai citato quel brano di Kafka per confonderli. Ti stavo guardando. Li prendevi in giro.» «Weede è solo un parolaio dispotico e arrogante, e Reeves Chubb è al di là di ogni possibile redenzione; con ciò, il primo è un mio superiore, e l’altro un essere umano che

ha quantomeno il diritto di tenersi cara la propria illusione di dignità. Io aborro la doppiezza e i sotterfugi altrui, e cerco di usare al meglio le mie ormai esauste capacità al fine di eliminare dal mio repertorio questi vizi particolarmente spregevoli. No, giovanotto. Non prendevo in giro nessuno. Purtroppo devi avere male interpretato quello che mi hai letto in viso, qualunque cosa fosse.» «In tal caso domando scusa, Ted. Mi sa che ho unito le due cose. Il promemoria e quello che dicevi della Cina. Ho creduto che ci fosse un collegamento.» «Ti sbagliavi. Non sono quello che credi. Sono solo uno che cerca di fare il proprio lavoro, e se vuoi sapere la verità mi costa una fatica tremenda. E telefonate come questa servono solo a peggiorare la situazione. Quando qualcuno qui dentro ha bisogno di risposte alle sue domande infantili, o di scoprire qual è la domanda all’origine di una risposta astrusa, automaticamente prende il telefono e chiama me. Non sono mica il reparto documentazione. Non sono il servizio confessione telefonica. E decisamente non sono un Padre della Chiesa.» «Mi dispiace, Ted. Davvero. Ti chiedo scusa.» «Tutti noi stiamo morendo, sempre» disse Warburton. «Cominciamo a morire al momento della nascita. E dopo un po’ moriamo del tutto. Per consenso unanime, più o meno, questa la chiamiamo morte. Dopo qualche tempo si verifica la cosiddetta resurrezione del corpo. Anima e corpo si fondono in quello che già abbiamo definito come stato di morte. Ma per quanto ci troviamo in stato di morte, non siamo morti, perché corpo e anima si ritrovano di nuovo intatti, e non c’è altro espediente che riprendere da capo il corso della morte. O il corso della vita, se preferisci: sostanzialmente, sono parole intercambiabili. E dal momento che il corso della morte procede in eterno, non si può proprio dire che stiamo ad aspettare la morte. Né che ripensiamo alla morte passata, per il semplice motivo che non possiamo ripensare a qualcosa che non è passato ma presente. Al di là delle parti involute, con questa frase paradossale, ridondante e vagamente comica, Sant’Agostino intende dire che la morte non muore mai e che l’uomo è destinato a rimanere per l’eternità in stato di morte. Ovviamente c’è sempre la possibilità che io abbia frainteso dalla prima all’ultima parola. Sono riuscito a procurarmi la chiave della sala ciclostili. Stampo le copie dopo mezzanotte, poi le distribuisco. Se non riesco a finire tutto prima dell’alba, smisto le ultime copie durante la pausa pranzo, come è successo ieri. Lavoro in fretta e in segreto. Com’è ovvio, sono al di sopra di ogni sospetto.» Riagganciò. Tenni la cornetta all’orecchio per un po’, quasi in attesa di sentir ritornare la sua voce di tamburo e cornamusa, sentirla spiccare sul ronzio animista del telefono. Poi riattaccai e uscii a fare una passeggiata. Le porte degli uffici erano tutte chiuse e procedendo per i corridoi le aprii una dopo l’altra. Jones Perkins era inginocchiato a terra con la mazza da golf in mano, a calcolare le distanze per un “putt” di due metri: come buca usava un bicchiere di carta rovesciato. Walter Faye leggeva il “Kamasutra” alla sua segretaria. Mars Tyler era seduto alla scrivania a passarsi il filo interdentale. Reeves Chubb si stava cambiando la camicia. Richter Janes e Greve Palmer

tiravano monetine contro il muro. Quincy Willet si stava facendo pulire le scarpe dal lustrascarpe freelance. Paul Joyner era sul suo divano blu a piedi nudi, nella posizione del loto. Mi sentivo come una cinepresa che girava un documentarlo cogliendo sprazzi di vita quotidiana in una prigione, o su una portaerei, o in un manicomio criminale. Phelps Lawrence se n’era andato, ma nel suo ufficio, o ex ufficio, c’era la sua segretaria, Ellen Quint, che camminava avanti e indietro con gli occhi rossi e il nastro sciolto tra i capelli. Carter Hemmings strimpellava la sua chitarra. In ufficio da Chandler Bates non c’era nessuno e la porta di quello di Warburton non la aprii. Poi vidi Jennifer Fine girare l’angolo, e allora svicolai nel bagno. Più tardi tornai nel mio ufficio, svegliai Binky e le dissi di andarsene a casa. Era ubriaca persa e mancò poco che cadesse mentre si infilava il cappotto. Fui costretto a sorreggerla fino all’ascensore. Mentre tornavo indietro mi fermai da Jody Moore e chiacchierammo un po’ del suo viaggio imminente in Indonesia. Poi presi il cappotto e scesi al Gut Bucket. Leon, il barista che studiava recitazione, mi ignorò completamente per cinque minuti, impegnato a parlare con una ragazza in abito da uomo e con una benda sull’occhio. Alla fine mi raggiunse con calma, appoggiò le mani sul bancone e mi rivolse il suo sorrisetto ironico da cowboy marlonbrandiano. «Il solito» dissi. «E sarebbe?» «Credevo fossi Monty. Di solito è Monty che sta da questo lato del banco. Cutty Sark con ghiaccio. E’ così maledettamente buio qui dentro.» «Ecco il Cutty.» Ero al secondo drink quando entrarono cinque o sei colleghi del network ridendo e pestando i piedi, tutti guanti, sciarpe e guance arrossate. Mi raggiunsero al banco. Gli uomini mi strinsero la mano e le donne mi diedero baci. Restammo al bar un paio d’ore, in cappotto e stivali di gomma, con i piedi a bagno nelle pozzanghere di neve sciolta. Pagai gli ultimi tre giri, poi se ne andarono tutti lamentandosi dei treni e dei taxi, maledicendo i mariti che aspettavano la cena, le mogli e le loro Volkswagen parcheggiate davanti alla stazione, i bambini avidi di regali, i fidanzati gelosi, i gattini che si arrotavano le unghie sui mobili, i parenti in arrivo, l’ora, la stagione, l’epoca e l’era geologica. Augurai a tutti un buon fine settimana. Poi ordinai un altro drink, strappai un sorriso alla ragazza con la benda sull’occhio e me ne andai senza lasciare la mancia. Wendy Judd abitava sull’Ottantesima Est, una zona della città che da sempre mi ricordava una drogheria estesa fino all’orizzonte. Il condominio si chiamava Modigliani Terrace Apartments. L’androne era sbiancato dalle luci fluorescenti, con specchi in cornici dorate e arazzi spelacchiati. C’era una fontanella traboccante cicche di sigaretta con un’aggraziata naiade di pietra al centro, dal cui ombelico colava un rivolo di acqua rugginosa. Alle pareti, vedute di Montmartre, Fort Lauderdale e del Fujiyama. Il portiere domandò il mio nome, poi mi annunciò al citofono. Nell’ascensore era appeso un cartello in cui si diceva che per la sicurezza dei condomini erano installate telecamere a

circuito chiuso nascoste in tutti gli ascensori, nella lavanderia e nei giardini scultorei alla Giacometti e alla Lipchitz. Attraversai un lungo corridoio. Sulla porta di Wendy era appesa una ghirlanda natalizia con un bigliettino che diceva: CI SEI. Lei aprì la porta accogliendomi con un bacio frivolo che mi mancò di un pelo le labbra. Poi mi toccò rimanere in piedi sulla soglia del soggiorno mentre lei mi presentava gli altri ospiti caratterizzandoli uno a uno con piccole e leziose note biografiche. Tutti annuirono quando Wendy li presentò: una delle donne alzò la mano con allegria infantile, mentre gli uomini sollevavano i posteriori da sedie e divani con la leggerezza di pianoforti che non hanno nessuna voglia di farsi spostare. Wendy mi prese il cappotto. «E questo è David Bell, un mio ex» disse. «Niente male, vero ragazze? Buum!» Alle pareti erano appesi manifesti rivoluzionari con scritte in cinese. Sulle mensole delle librerie sedevano piccoli Buddha marrone lucenti, insieme a volumi patinati di riproduzioni d’arte orientale e a un certo numero di katana da samurai in miniatura. Oltre a me e Wendy, nel salone c’erano quattro uomini e quattro donne, nessuno dei quali pareva bello, attraente o di particolarmente dotato. Percepii un’enorme ostilità. Andai a sedermi sul divano accanto a una ragazza con la gamba sinistra ingessata. «Che fai di bello?» mi domandò. «Delle cose con McAndrew a Amherst.» «E’ uno che conosco?» «No» risposi. «Se ti stai chiedendo cosa mi è successo alla gamba, me la sono rotta sciando.» «Stavo proprio per chiedertelo.» «Sei bravo come amante?» domandò. «In mezzo ai ciechi, il guercio è re.» «Sei proprio svelto. Non cercherò più di fregarti. Sei troppo svelto per me. Io cerco di sbilanciarti e tu rispondi con una battuta fulminante presa senz’altro da uno di quei vecchi film di Randolph Scott in quel technicolor verdastro. Dov’è che vai a bere? Noi andiamo tutti al Bow-Wow, sulla Seconda Avenue. Il barista si chiama Roone. Anche lui è uno svelto. Tira fuori certi discorsi. Fin troppo. Però d’aspetto non mi piace. Quest’estate affittiamo una casa a Fire Island. C’è rimasta libera una mezza quota di partecipazione. Se ti interessa, parla con Barry o con Spike. Mezza quota viene centosessanta. Poi si fa cassa comune per il mangiare, il bere e gli extra. Portati una coperta, che di notte fa freddo. La casa che prendiamo quest’anno è proprio attaccata alle dune. Per caso sei dello Scorpione?» Poi arrivò Wendy, che trascinò una sedia al centro del soggiorno e vi si sedette a cavalcioni a mo’ di cantante di nightclub berlinese dei disincantati anni venti. «Sono talmente felice che David sia riuscito a venire, stasera. David Bell è l’unico in grado di salvarmi. Stavamo insieme all’università. David aveva una Thunderbird bianca. Ci saltavamo sopra e partivamo per andare a spogliarci nel deserto. Buum! Ditemi voi dove si può fare una cosa del genere a New York. Lo scorso agosto sono salita al solarium con il mio due pezzi blu e non mi hanno lasciato togliere neppure il reggiseno.

A Panama ho avuto un amante con gli stessi occhi di David. Fantastico. Ma per il resto non c’era con la testa. Non riuscivo a crederci. Era una sorta di venditore di banane, ed era fissato con le tarantole. Una volta eravamo al ristorante e lui ha cominciato a dire: tu che faresti se di punto in bianco vedessi una tarantola pelosa bella grande uscire dal piatto in cui mangi? In posti come quelli, bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza. Ho avuto degli amanti completamente fuori. Anthony Ambrose voleva piazzarmi come spogliarellista in un bar di SoHo solo per le mie tette. Non potevo crederci che esistesse un uomo così. Quando ci siamo lasciati mi ha ringraziato per le mie ghiandole mammarie.» Me ne andai in bagno. C’erano libri, xilografie, un portariviste, due tappetini, un piccolo gong di bronzo. Mi sedetti sul bordo della vasca da bagno e cominciai a leggiucchiare un articolo di guerra su una rivista. In ogni pagina dell’articolo c’era una foto a colori. Ce n’era una di un gruppo di abitanti di un villaggio decapitati, con accanto una pubblicità a tutta pagina di un nuovo tipo di guêpière. La modella era di una bellezza incredibile, alta, pelle color tortora, stringeva in mano una frusta per cammelli. Questo indumento di gran moda, reclamizzava il testo, calza come una seconda pelle ed è disponibile in tre morbidi colori. Passai alla pubblicità di un brandy. Una donna in abito bianco da sera con una pantera al guinzaglio nel giardino di una villa di Newport. La corrispondenza dal fronte occupava una quindicina di pagine stampate in caratteri molto piccoli. Mi accorsi improvvisamente che la vasca brulicava di scarafaggi. Andai in cucina, Wendy si voltò e di colpo ci trovammo appiccicati uno all’altra, cupi e avidi, schiacciati in un angolo, e nei pensieri rividi Binky addormentata sul divano nel mio ufficio. La cena consisteva in pollo e riso. Ci sedemmo tutti in soggiorno con i piatti sulle gambe, ciascuno scrutando le ombrose espressioni altrui in cerca di qualche indizio da cui partire per risolvere i propri dilemmi personali. Io contavo i biglietti d’auguri che Wendy aveva esposto in vari punti della sala. Ce n’erano sessantaquattro. «Hai delle bestie nella vasca da bagno» dissi. «Impossibile» ribatté Wendy, con la bocca piena di riso, e in quel momento non dubitai che tutti e dieci i presenti condividessero lo stesso pensiero, la stessa immagine fuggevole di animaletti guizzanti e nerastri annidati fra i chicchi di riso nelle ciotole. «Ho cercato di contarli, ma erano troppi.» «Questo è un condominio nuovo di pacca. Se ti dicessi che razza di regolamento sanitario c’è qui dentro, non ci crederesti. Ehi ragazzi, guardate che David vuole solo fare dell’umorismo macabro. E’ il suo modo di fare dello spirito. Mangiate, non preoccupatevi di niente. Ogni settimana qui puliscono e lucidano ogni centimetro quadrato del palazzo con le attrezzature più tecnologiche.» «Ce n’erano almeno venti» continuai. «In posti come questi, bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza. Sicuramente a quest’ora saranno già sugli schermi di tutti i radar. Ce n’era uno che stava figliando.» Durante il dessert, il nervosismo era palpabile. Le donne rifiutarono di sedersi e

perfino di rimanere immobili per più di qualche minuto. Dissi che la mattina presto dovevo salire su un grande uccello d’argento diretto verso la Costa e Wendy mi accompagnò alla porta. Mi rimproverò per essere stato birichino, poi, accostandomi la lingua all’orecchio, mi promise una notte di piaceri panamensi se solo fossi rimasto. L’ascensore non funzionava e mi toccò scendere a piedi tutte e sedici le rampe di scale. Nevicava fortissimo. Lungo la Seconda Avenue passavano decine di taxi fuori servizio. Alla fine uno accostò. Salii, il tassista abbassò la bandierina e partì verso Lower Manhattan sotto una neve totale. Sullivan abitava in un loft all’ultimo piano in Greene Street. Nell’ambiente artistico cittadino la sua reputazione era in crescita, e secondo me non ci sarebbe voluto molto prima che critici, commercianti d’arte e galleristi damerini con le scarpe da sballo e le basette a punta si rendessero conto che Sullivan apparteneva ai massimi livelli dell’arte scultorea americana. Lavorava con mogano, resina epossidica e vernici per automobili. Per dirla con le sue parole, ogni sua opera esprimeva la ricerca di una curva. I contorni lisci e i colori opachi delle sue creazioni facevano pensare a un’orrida mollezza, simile a quella delle lumache o dei vermi, esseri invertebrati che popolano le periferie del sonno. Molti le dicevano di aver paura a toccare le sue sculture in legno, il che la compiaceva ma solo fino a un certo punto; la sua massima ambizione era che il pubblico avesse la sensazione di mangiare vive piccole creature anfibie e umidicce. Il Whitney aveva acquistato due sue opere e un’altra decina era in mano a collezionisti privati. Di recente un’azienda chimica di Muncie aveva acquistato tre dei suoi pezzi più piccoli e li aveva esposti nell’ingresso. Ne ero rimasto sorpreso ed estasiato. Come tutti quelli che vivono all’ombra del vero talento, tendevo a eccedere nelle lodi di Sullivan e a considerare la sua opera uno dei provvedimenti essenziali alla salvezza della repubblica; di conseguenza, non escludevo che grazie a quelle tre ultime creature perfette di Sullivan lo stato dell’Indiana fosse in grado di elevarsi a nuove altezze spirituali. Lei mi aveva detto di non scaldarmi tanto, che quelli dell’azienda chimica stavano solo cercando di indorare la propria immagine. Avevano addirittura spedito un certo numero di dirigenti a un ritiro di montagna dove passavano le giornate in sandali e toga romana, e del resto si trattava solo di scappatoie fiscali. Avevo conosciuto Sullivan quando il nostro gruppo al network aveva girato un documentario di mezz’ora su quello che all’epoca chiamavamo il fenomeno dell’arte energetica, valeva a dire opere d’arte prodotte tramite l’uso di utensili elettrici. Due minuti del programma erano dedicati a Sullivan e al suo incredibile studio. Per filmare quei due minuti c’era voluto quasi tutto il giorno, gran parte del quale io e lei l’avevamo passato conversando. Aveva detto che le piacevo perché ero bello e triste, perfettamente in sintonia con la tradizione americana. Ero convinto che solo Sullivan potesse salvarmi. La porta d’ingresso era scardinata. Era appoggiata contro la parete piastrellata del corridoio, con la scritta PORTA dipinta in bianco sul vetro che ne occupava la metà superiore. Salii la prima rampa di scale. Su una delle due porte c’era scritto BENE, sull’altra MALE. Continuai a salire. I gradini piastrellati avevano i bordi consunti e

anneriti. Oltrepassai altre quattro porte. Sulla prima c’era scritto SENO, sulle altre GIUSTIZIA, MARTIRIO e FIUME. Nel salire l’ultima rampa che portava al loft di Sullivan, sentii un odore terribile attraversare l’edificio, una presenza misteriosa che evocava d’improvviso e distintamente immagini di piaghe aperte, paludi, terrore e pestilenze, il tanfo di un esercito in ritirata, una sensazione talmente strana e pervasiva che capii di doverla assolutamente buttare sul ridere, come facevo sempre in fin dei conti con tutto quello che non riuscivo a capire. Per cui cercai di studiarmi una battuta con cui presentarmi a Sullivan. Mi serviva un’entrata arguta e vivida, e quando aprii l’unica porta priva di scritte per entrare nella sala stavo ancora cercando la formula giusta. Lei non c’era. Il loft era occupato da sette sculture attorcigliate su se stesse, massicce, purgatoriali. Erano molto più grandi delle altre sue opere e molto più complesse: ruote incastrate dentro altre ruote, una serie di falci che spiccavano sul bordo stondato di uno scudo quasi grottesco, esseri umani o urne cinerarie, ingranaggi e cronometri che ispiravano sensazioni minacciose e ipertecnologiche, una zangola per il burro gigantesca, il tutto spaventoso e in ultima analisi indefinibile, incombente, mai immobile, la forza del suo spirito nel legno. Per plasmare, unire e rivestire. Diceva sempre che la benedizione di Dio, la sua ultima grazia, era quella di averci donato i pollici opponibili. Non riuscivo mai a entrare nello studio di Sullivan senza provare la sensazione di inoltrarmi mio malgrado in un paese alieno, già visitato in passato ma il cui panorama era solo un ricordo lontanissimo. In primo luogo c’erano le forme che si allontanavano e riemergevano a spirale nei propri contorni. I due riflettori sui piedistalli ai capi opposti della sala. La segatura ovunque e poi gli attrezzi famelici con tanto di denti e artigli: la sega circolare e il traforo elettrico, la levigatrice orbitale, l’enorme sega a nastro e la levigatrice da tavolo, con i cavi aggrovigliati nella polvere. E alla fine il particolare più alieno di tutti, la membrana che ricopriva pareti e soffitto. Era di un materiale simile alla pellicola trasparente che si usa per confezionare i tramezzini, ma più opaco e ruvido, non applicato a fasce, come la tappezzeria, ma in un pezzo unico a mo’ di tenda, aderente alle pareti, rigonfio a tratti di bolle d’aria. Nella pellicola era ritagliata una sezione rettangolare in corrispondenza della porta, per poter entrare e uscire. Era stato l’inquilino precedente a mettere quella roba sui muri, un inventore e collagista svizzero, pazzo di una pazzia totale e furiosa come riescono a esserlo solo gli svizzeri. Aveva battezzato quell’opera, il lavoro della sua vita, il Bozzolo, e si faceva chiamare il Bozzolista. Aveva sperato di riuscire a creare un ambiente che fosse di vita piuttosto che d’arte, un organismo isolato dall’ostilità delle topografie esterne, un groviglio di bruchi palpitanti, un micromondo, un’umanità oltre l’uomo che l’aveva creata. Del resto la membrana era a base di sostanze chimiche, per cui si poteva dire dotata di una forza vitale diversa nel grado ma non nell’essenza da quella condivisa da tutte le creature in grado di strisciare o camminare. Questo aveva detto a Sullivan, e questo aveva ripetuto Sullivan a me. Il Bozzolo rappresentava per lo svizzero solo il preludio al suo lavoro, ma poco dopo averlo installato nel loft aveva finito i soldi, si era

messo nei guai con il padrone di casa per aver dato fuoco a un gatto randagio in un rituale satanico e alla fine era riuscito a farsi prestare soldi a sufficienza per trovare un posto su una nave da carico diretta nel Nordafrica, partendo con addosso la tuta da lavoro di Sullivan e la maglietta di Lady Hathaway che le avevo regalato per il suo compleanno. Nella membrana c’erano micropori che permettevano il ricambio dell’aria. La luce naturale riusciva appena a penetrarla, ma i riflettori erano un sostituto più che adeguato. Anzi, Sullivan li preferiva, sostenendo che la luce del sole era molto sopravvalutata. Accostai le dita a una delle sculture: la vernice era asciutta, di un grigio scuro; le altre erano dipinte in varie sfumature di marrone opaco, nero e avorio, argento gelido. Le tre finestre del loft, contorni pallidi e tremuli oltre la pellicola da tramezzini, erano ben chiuse, eppure la membrana ondeggiava come sfiorata da una brezza marina. Su un banco di lavoro c’erano gli utensili elettrici più piccoli. Passai da una scultura all’altra, sfiorando con il dorso della mano le superfici curve. L’edificio era immerso nel silenzio. Mi domandavo come mai quell’ultima porta non avesse nome: chiamare ‘Fiume’ , una porta era un gesto che sapeva di gioia bizzarra, di poesia o di infanzia. Ripensai al fiume a Old Holly, e poi alle foglie che ondeggiavano riverse nella corrente leggera sopra i pesci affusolati e immobili, sospesi nell’acqua con occhi da dollaro d’argento, e poi alla donna che stirava in mutande nella casetta di legno, con le imposte socchiuse, e alla musica settembrina della notte calda, agli olmi e agli ozi della strada buia in quei giorni in cui i giardini odorano di erba bagnata e si è ancora ragazzi, la disperazione del desiderio, le braccia nude della donna e il luccicare della seta a ogni movimento tranquillo, una donna con almeno il doppio dei miei anni che stirava con i gesti morbidi di una leonessa che accarezza i suoi cuccioli, ed ero rimasto addossato a un albero e l’avevo guardata per un’ora o più, il doppio dei miei anni, i capelli castano chiaro, gli occhi indolenti, il volto morbido, mai vista prima e mai più rivista da allora. Non desideravo altro che dormire. Sotto il banco di lavoro c’era un grosso pezzo di gommapiuma sporca, i resti di un materasso. Lo trascinai fuori, mi rannicchiai in posizione fetale addormentandomi immediatamente, sotto l’involucro membranoso che rivestiva la stanza. Nei miei sogni scorrevano fiumi e peccati, occhi sbarrati di volti sommersi. Mi risvegliai nel silenzio e nel gelo, sotto l’occhio accusatore dei riflettori ad arco. La città traboccava di persone in cerca dell’uomo o della donna in grado di salvarle. Puzzavo di sudore freddo, alcol e paura. Il loft mi sembrava sconfinato, un’immagine ripescata dal fondo sabbioso di un sogno. Sulla soglia si stava materializzando un’ombra con le sembianze di mia madre.

5. Portavo occhiali da sole con le lenti verdi, da burocrate militare, mocassini di pelle, calzoni neri, maglietta attillata e berretto kaki calcato sugli occhi. Pike era stravaccato

sul sedile posteriore, Sullivan era al mio fianco a guardare il New England dissotterrarsi dalle ultime nevi invernali che sgocciolavano nella terra. Alla radio annunciavano una grande offerta promozionale per la carne trita scelta, e subito dopo partì un vecchio rock classico, sontuoso e mistico, voci dialettali e lamentose su una ruota da preghiere di sitar elettrificati, e oltrepassammo Boston nel ruggito del motore, seguiti da una nuvola bassa di fumo da forno crematorio. Avevamo i finestrini chiusi e il riscaldamento acceso, e io mugolavo e cantilenavo nel calore materno e falloppiano della Mustang rossa, un veicolo infinitamente più sacrale della T-Bird che guidavo ai tempi dell’università. L’America assisteva al risveglio della primavera e la campagna ritrovava la sua gloria, almeno quel poco di campagna che riuscivamo a vedere oltre il fumo e i tabelloni pubblicitari. Nulla al mondo è più emozionante dei primi giorni di un lungo viaggio su quattro ruote in direzione delle fauci bramose di un paese straordinario e inquieto. Gridavo guidando, oltrepassavo i limiti di velocità, declamavo poesie e canzoni popolari. Ormai ci eravamo lasciati alle spalle il centro urbano della vecchia Boston, con le sue chiese e le sue guerre fra bande rivali, e davanti a noi c’era il Maine, dove la risacca si frangeva contro le rocce e i rubicondi pescatori d’aragoste in berretto giallo e stivaloni narravano con voci crepitanti le leggende delle profondità marine. Ci fermammo a pranzo a Salem e andammo alla Casa dei Sette Abbaini, dove la nostra graziosa guida rifiutò di condurci su per la scala segreta, temendo zampate di coguaro nelle tenebre: nel tardo pomeriggio raggiungemmo la costa del Maine e ci trovammo di fronte a una tempesta nera e apocalittica sospesa sull’oceano, l’aria fredda ed elettrica, pronta a deflagrare. Quando ci raggiunse, ebbi paura che la macchina stesse per andare in pezzi, e Pike si svegliò convinto che stessimo per morire tutti e cominciò a raccontarci delle grandi migrazioni ellittiche delle gru europee. Diedi gas e la Mustang oltrepassò con uno scatto centinaia di bungalow, villini per vacanze e motel, quattromila chilometri di Marlboro Country, tra spettri fluorescenti di aragoste che attraversavano la strada invasa d’acqua. Era già sera inoltrata quando arrivammo a Millsgate, un paesino bianco sulla Penobscot Bay. Aveva smesso di piovere. Cenammo in un ristorante di pescatori, dopo di che ci incamminammo alla ricerca del garage ascetico di Bobby Brand, Brand l’esiliato, Brand in astinenza! Brand impegnato a scrivere il romanzo che stava per esplodere nelle budella d’America come una bomba batteriologica. Risalimmo una collinetta camminando in mezzo alla strada. Non c’erano macchine, neanche un rumore, e l’aria era così tagliente da raschiare i polmoni. Ci vennero incontro quattro cani e Pike si mise ad abbaiare, ma loro ci superarono senza badare a noi. C’era la luna piena oscurata di continuo da nuvole sottili e veloci, e sembrava che il cielo intero respirasse. In cima alla collina trovammo la strada che cercavo, e allora svoltammo a destra per oltrepassare il giardino pubblico. Da un lato lo fiancheggiava una fila di case bianche; di fronte c’era una chiesa di assi bianche con il campanile. Il liceo si trovava in fondo al prato, di fronte alla strada. Sulle verande erano accese le luci, e vedevamo bene il cannone e le palle di ferro nero ammonticchiate poco più in là sullo spiazzo erboso. Più avanti c’era una radura fra gli alberi, e io abbassai lo sguardo sull’acqua striata d’argento

per il riflesso della luna e delle luci bianche delle case fra la vegetazione sopra le piccole insenature ai due lati della baia. «Il New England è il posto più asessuato di questo emisfero» disse Sullivan. «Ha il sex-appeal di Hyde Park a Londra nei pomeriggi caldi, quando vedi la gente togliersi le magliette e buttarsi sull’erba, e allora capisci perché sono dovuti andare fino in Africa per divertirsi un po’.» Arrivammo al garage. «Essere umani significa attraversare delle fasi» disse Brand. «E io le ho attraversate tutte. Ma ormai è finita. Ora mangio, dormo e scrivo. Ho smesso di farmi le pere. Ho smesso di calarmi gli acidi. Mi sto depurando l’organismo dalla follia e dalla violenza di New York. Vado al liceo del paese a giocare a basket con i ragazzi. Qui è bellissimo, ed è qui che sto. Mi purifico. E tu puoi aiutarmi, Davy. Ho bisogno di ripulirmi il cervello. Io sono uno che pensa come parla. Come sto cercando di non parlare più. Puoi darmi una mano a liberarmi dallo slang. Ti autorizzo a correggermi tutte le volte che ricado nell’argot dei tossici o dei militari. Una delle cose che ho capito da solo in questo esilio è che ho troppo slang in testa. E’ insidioso. Porta alla violenza. Tu puoi darmi una mano, Davy. Voglio diventare incolore.» Eravamo seduti a un tavolino nel suo camper, nel garage, a bere Maxwell House solubile. Quasi tutto il camper era in plastica, progettato per sovrapporsi a un pickup Ford F-250. Il camioncino era nero, il resto della struttura di un grigio scuro con bordature nere intorno ai finestrini e allo sportello. Dentro c’erano tre cuccette, un tavolino, un fornello elettrico e una macchina da scrivere: era lì che Brand abitava. Lo avevo conosciuto anni prima, quando avevo passato un fine settimana con Merry a East Hampton. Era come un dispensario ambulante di metedrina, acido, hashish e anfetamine varie. Brand mi affascinava. Incarnava il pericolo che mancava nella mia vita, un pericolo vero, non quello plasticoso disponibile a palate al network, o quello di celluloide dei ruoli da film con cui speravo di movimentare il mio matrimonio. Tutti i giovani brillanti di Madison Avenue erano in cerca di un facsimile di pericolo, una radice oscura in grado di incrinare alle fondamenta la loro morale da parrocchia. Guardavamo tutti con interesse alle droghe psichedeliche leggere, al karate, all’appuntamento del fine settimana con il paracadutismo acrobatico, ai rally di macchine da corsa. Quel fine settimana Brand mi aveva regalato un acido da mettere sotto la lingua, un biglietto per destinazioni irraggiungibili, e ciò che ricordo è la mia immagine a sessant’anni, coperto di larve appiccicate alla carne pallida, la fossa, la farsa infernale del mio volto; e quella era stata l’ultima occasione, con un’unica eccezione, in cui avevo cercato di attraversare la palude da solo. Brand era passato da Yale direttamente all’Aviazione, a pilotare un cacciabombardiere F-4 sui canneti di una terra che andava scomparendo. Dopo il congedo (forse per ragioni mediche) era andato a vivere in una camera ammobiliata sulla Novantesima Ovest, sparandosi in vena eroina e cocaina, poi si era accostato a vari movimenti pacifisti del genere canterino e alla fine aveva scoperto l’acido, l’attivismo politico e la scrittura. Brand aveva più o meno la mia

età. Era alto, con i capelli biondo rossicci, portava gli occhiali, era simpatico e spaventoso, viveva per lo più alle spalle della famiglia, sembrava cambiare personalità ogni qualche settimana e a volte ogni qualche minuto, ed era facilissimo immaginarselo steso sul letto di un dormitorio universitario in felpa, jeans, mocassini e calze bianche a leggere un testo di economia sognando cucchiaini scaldati da fiammelle azzurre. Sull’avambraccio destro aveva tatuati due cani che copulavano. «Questo garage è di mia zia Mildred. Abita proprio in fondo alla strada, una in questo momento è a Bangor per sistemare alcune questioni legali. Peccato che non posso farvela conoscere. Suona il clarinetto.» «Quando partiamo?» domandai. «Domani per me va benissimo. Lascio qui il manoscritto. Ho bisogno di farlo decantare un po’. Hai portato la cinepresa?» «E’ in macchina. Ho anche un registratore a pile. E Sullivan si è portata la sua radio portatile NordMende a quindici bande di frequenza. Fantastica. Riceve le stazioni di tutto il mondo.» «Splendido.» «Dormiamo qui stanotte?» domandò Sullivan. «Tanto vale abituarsi all’idea» dissi io. «Non c’è bisogno. Mildred mi ha lasciato le chiavi di casa sua. Là staremo meno stretti. Continua a dirmi di traslocare da lei, ma io le rispondo che questo garage è magico. E’ un’emanazione unica. Riesco a scrivere solo qui dentro. Quand’è che devi trovarti in Arizona?» «Fra tre settimane a partire da ieri. Se tutto bene va, al mio arrivo la troupe avrà già preparato ogni cosa. Spero che resterete, mentre giriamo. Non so se riuscirò a tornare indietro con voi. Mi sa che dovrò tornare in aereo. Pike, tu e Sully potete venire qui a riprendere la mia macchina, poi me la riportate.» «Mi è scaduta la patente diciotto anni fa» disse Pike. Andammo a scaricare le borse e ci dirigemmo verso casa della zia di Brand. Era una bella casa antica, il tipo di abitazione in cui vivono le nonne degli spot pubblicitari, pervasa di ricordi familiari, eppure scaldata da un senso di amore e semplicità assolutamente universale. Dalle fotografie appese in corridoio ometti magri in abiti inamidati e bambine con capelli biondi e lisci lanciavano sguardi tetri. Il soggiorno era tutto chintz, merletti ad ago e gentilezza biblica, con la tappezzeria sbiadita a rose gialle, saturo di un odore di corpi vecchi che si addormentano cullati da una sedia a dondolo. Brand portò Sullivan e Pike al piano di sopra, e io cominciai a vagare per la cucina e la dispensa con la netta sensazione di essere arrivato al cuore, al segreto dei terrori domenicali di provincia, del silenzio eucaristico del caffè con i dolcetti dopo la lunga camminata per tornare dalla chiesa. Da quanto tempo non mi trovavo in una dispensa a mezzanotte, fra mensole buie cariche di vasi di biscotti, marmellate e spezie? Il gusto e l’olfatto scassinano la memoria nell’ombra di un secondo, e in quella dispensa, sgranocchiando biscotti secchi con l’ardore compulsivo di un penitente alla ricerca di un

messaggio dal passato, mi sentii trasportare in una stanza angusta e soffocante di un’altra cittadina, al profumo ozioso di un’estate lontana. Spensi le luci e salii di sopra. Brand e Pike dividevano una delle camere. In quel momento erano seduti sui letti, il soldato di carriera e la recluta, a slacciarsi le scarpe sbadigliando e a sfilarsi le magliette. Brand mi disse che l’altra camera da letto era in fondo al corridoio, e allontanandomi sentii Pike cominciare il suo racconto del grande eccidio dei bisonti tra il 1860 e il 1870, mandrie lunghe cinque chilometri e larghe tre decimate dai cacciatori della domenica che sparavano dai treni in corsa. Sullivan era già a letto a leggersi Yeats. Era evidente che quella camera non veniva usata da un pezzo ed era spoglia, tranne per la lampada, il tavolino su cui era appoggiata; una sedia, il letto di Sullivan e la branda su cui avrei dormito io. A quell’estremità della casa il tetto era spiovente e la mia branda era nella parte bassa della camera. Sullivan spense la luce e allora mi spogliai, rimanendo nudo per qualche istante, in piedi accanto alla branda, a chiedermi se lei mi vedesse. Era splendida l’idea di dormire nella stessa camera con Sullivan. Mi infilai sotto le lenzuola gelate. Il soffitto calava proprio sopra di me e alzai il braccio a toccarlo con la punta delle dita. Pensai che a tutti i bambini del mondo dovrebbe essere concesso di dormire in una camera come quella: il bambino adora le nicchie e gli angoli irregolari. Il terrore delle equidistanze, dei piani paralleli che non offrono nascondiglio dà gli incubi. «Pike sta raccontando dei bisonti.» «Il suo racconto più triste» rispose. «Arriveremo presto.» «David in viaggio verso Oz.» «Chissà se sono rimasti degli Arapaho. O Chiricahua. La mia tribù preferita. Gli Apache Chiricahua. Burt Lancaster con quella bandana a disegni cachemire in testa.» «Pensi che riuscirai a trovare la tua bufera di neve?» «Mi sa di no. Fra poco saremo già ad aprile.» «Sbocceranno i fiori del deserto.» «Ci hai mai fatto caso? Al buio sembra che la gente parli solo per frasi brevi.» «E’ vero» disse. «E quando si riaccende la luce torniamo espansivi e ricominciamo a blaterare senza dire nulla. Ma a letto, al buio, siamo tutti spinti dalla scimmia in attesa nel sonno.» «Che scimmia?» «Ci trasformiamo in un documentario. Diventiamo notiziari televisivi e proclamiamo quella che a noi sembra la verità. Mentre chi ci ascolta è poco più che un frammento di oscurità. Il vero pubblico a cui ci rivolgiamo è l’oscurità stessa. All’oscurità sveliamo le nostre vite nel tentativo di acquietare la scimmia.» «Che scimmia?» domandai. «La scimmia viennese. Ma in realtà, qualsiasi cosa diciamo è poco più delle solite chiacchiere. Nulla, in confronto alla rivelazione che verrà.» «Vale a dire?»

«La frase unica e interminabile.» «Dormi e sogna.» «Sì.» «Raccontami una storia» dissi. «Di che tipo?» «Sul grande Ovest lastricato d’oro e sugli indiani e sulla grande anima delle distese d’America.» «Devo raccontarla a frasi brevi?» «No.» «Ho proprio quello che ci vuole» disse lei. «La storia di un vecchio e venerabile saggio dei Sioux Oglala, e di quello che mi ha raccontato in una notte di luna piena.» «E’ una storia vera o te la stai inventando?» E’ vera» rispose Sullivan. «Allora racconta.» «Aveva cent’anni e sembrava un ceppo di quercia tagliata. Da ragazzo aveva combattuto a Little Bighorn insieme a Cavallo Pazzo. Già allora disapprovava le guerre, e aveva passato quasi tutta l’età adulta a digiunare e pregare. Tempo fa, grazie all’intercessione di un antropologo vecchio amico di mio padre, sono riuscita a far visita a Coltello Nero nella sua capanna sulle colline del South Dakota. Gli ho rivolto qualche domanda educata, che lui ha deciso di ignorare completamente, mostrando fin dall’inizio un fiero disprezzo per le amenità di circostanza. Fumava una pipa di mais vecchia e malridotta. Secondo me era riempita di fango e foglie umide. Poi gli ho chiesto se le cose erano cambiate molto, da quando lui era ragazzo. Ha risposto che era la domanda più intelligente che gli avessero mai rivolto. Ha detto che non era cambiato quasi niente. Che erano cambiati solo i materiali e le tecnologie, mentre noi restavamo sempre la stessa nazione di asceti, esperti in efficienza, infastiditi dagli sprechi. Che per decenni abbiamo ridisegnato il nostro paesaggio per eliminare tutto ciò che non è indispensabile, come gli alberi, le montagne e tutti gli edifici che non sfruttano al massimo ogni singolo centimetro quadrato di spazio. L’asceta odia gli sprechi. Noi progettiamo la distruzione completa di qualsiasi cosa che non serve la causa dell’efficienza. Ha detto che è difficile pensare agli americani come asceti. E invece lo siamo davvero, molto più dei santi fasulli d’oltremare.» «Ti ha detto proprio così, il vecchio mistico Sioux?» «Si teneva sempre al corrente con quotidiani e riviste.» «Continua.» «Diceva che il nostro vero desiderio, nei più profondi recessi del nostro cuore, è distruggere tutte le foreste, le case bianche, i ponti coperti, le ville signorili, i giardini di azalee, i grandi fienili rossi, le case coloniali, le chiatte per il trasporto fluviale, i villaggi dei cacciatori di balene, le segherie, i mulini, i palazzi d’anteguerra, le capanne di legno, le belle chiesette antiche e i depositi ferroviari. Tutti noi, in segreto, siamo totalmente a favore di questa distruzione, perfino gli ambientalisti, perfino quegli individui battaglieri

che di professione vanno a picchettare gli edifici storici destinati alla demolizione. E’ questo che siamo. Linee dritte e angoli retti. Ammetterai anche tu che nell’intimo proviamo un brivido di fronte a qualcosa di bello che va in fiamme. Il nostro desiderio è di ricacciare le cose belle e antiche nell’oblio per sostituirle con strutture identiche ma insapore. Scatole di cellule tumorali. Stanze grige e ordinate in cui meditare e leggere gli annunci pubblicitari. Prova a immaginare gli straordinari motel di prateria che saremmo capaci di costruire, se solo cedessimo completamente ai demoni della nostra vera natura; immagina le automobili che ci porterebbero da un motel all’altro, i macchinari monolitici alti come palazzi di cinquanta piani che costruiremmo per eliminare le vittime degli incidenti d’auto senza il fastidio dei funerali, senza sprechi per lapidi e sepolcri. Diamo mano libera alla polizia. Autorizziamo i folli governanti della nazione a distruggere chiunque vogliano. Questo è ciò che vogliamo veramente. Così mi ha detto Coltello Nero. Lasciarci travolgere totalmente da quello che è definito il peggio del carattere e del costume nazionale. Sguazzare nella tremenda e scintillante fregnafangosa di Madre America. (Così ha detto.) Di venire finalmente a patti con l’ira fasulla che tanto spesso mostriamo di fronte al proliferare della sterilità e della violenza nella nostra cultura. Uccidiamo le vecchie case di campagna e le stazioni ferroviarie barocche. Uccidiamo le casette di provincia marce e puzzolenti. Facciamo saltare in aria il Ponte di Brooklyn. Facciamo saltare in aria Nantucket. Facciamo saltare in aria la Blue Ridge Parkway. Rendiamoci finalmente conto che viviamo nella Megamerica. Luci al neon, fibra di vetro, plexiglass, poliuretano, mylar, resine acriliche.» «Per caso la sua capanna era su un picco battuto dai venti? E c’eri andata per scoprire il senso della vita?» «San Francisco completamente rasa al suolo» continuò Sullivan. «E Georgetown distrutta. Al loro posto costruiremmo motel e case identiche in ogni dettaglio. La nuova San Francisco non avrebbe neanche una collina. La costa del Maine sarebbe indistinguibile da Des Moines, nell’Iowa. Nella nuova Washington colorata di grigio i senatori passerebbero otto ore al giorno in uffici tutti identici uno all’altro, incatenati ai termosifoni e flagellati da sgualdrine francesi. E questa è la cosiddetta filosofia, la saggezza del mondo antico, la cultura di cui abbiamo tanto bisogno. Nessuno suderà più. Il sudore è spreco. Chi sarà colto in flagrante a sudare verrà fucilato sul posto. Tutti i condizionatori nelle case saranno regolati sempre sui dieci gradi. Senza modo di spegnerli.» «Cos’altro ha detto?» «Che le nuove università avranno una sola aula. E funzioneranno così. All’inizio di ciascun semestre l’intero corpo studentesco - almeno cinquecentomila persone in modo da dare lavoro sufficiente ai computer - si riunisce in un grande spiazzo all’aperto davanti a una telecamera. Tutti gli studenti vengono ripresi e videoregistrati. Separatamente vengono videoregistrati anche i docenti, uno per uno. Dopo di che i due televisori vengono portati nell’aula universitaria. Questa si troverà in una piccola casamatta a margine di un’autostrada a trentasei corsie, la cui vicinanza faciliterà le

trasmissioni fra apparecchiature elettroniche. Oh, magari alle pareti ci sarà qualche striscione, e forse una o due placche commemorative, ma a parte questo nell’aula ci saranno solo i due televisori. Alle nove in punto del primo giorno di lezione, i televisori, disposti uno di fronte all’altro, verranno accesi via computer. A quel punto il nastro registrato degli studenti starà a guardare il nastro registrato del corpo docente. Con il tempo, il sistema verrà perfezionato in modo da arrivare a un’unica università per tutto il paese.» «Francamente, le idee di Coltello Nero mi sembrano un pochino datate.» «La sorpresa più grande doveva ancora arrivare. Coltello Nero ha continuato, sotto la luna piena, dicendo che la resa completa alle pulsioni e ai sogni più reconditi sarà la cosa migliore che possa capitare. In fondo, era la vera espressione di noi stessi nell’oscurità più profonda del nostro essere. Riusciremo a realizzarci pienamente. Partiremo per la marcia più lunga nella storia della razza umana sul sentiero della volgarità, della malvagità e della decadenza. Daremo vita alla superpotenza più grande di tutte. Di fronte a un potere così impazzito, il resto del mondo cadrà in ginocchio, sempre che non lo sia già. E poi, piantato un piede nel fango, poi un piede e tre dita, ci fermeremo per un istante, ci guarderemo intorno e decideremo se è il caso di sprofondare ancora di più verso la morte, o piuttosto di tornare sulla terraferma e ricominciare a vivere, cibandoci di radici e bacche ma non più di simboli, liberandoci della maledizione dell’ascesi, lasciando il bisonte libero di correre, sapendo tutto ciò che una nazione deve sapere sul proprio conto e procedendo beati della consapevolezza che abbiamo deciso di non morire. Coltello Nero mi ha detto che vale la pena di correre il rischio, perché nel caso scegliessimo la seconda via saremmo finalmente in grado di diventare l’America che può concretizzare ogni possibilità che le si presenta. L’America cittadina del mondo. L’America in cui credevamo di vivere da bambini. Quando eravamo piccoli. Anzi, quando eravamo piccolissimi.» «E lui ti ha detto tutte queste cose. Quel brandello decrepito di pelle di bisonte.» «Faceva freddo, quella notte» disse lei. «E c’era la luna piena.» La mattina dopo pioveva. Fui l’ultimo a scendere. Era bello ritrovarsi seduto in cucina a sbadigliare sentendo odore di caffè e pancetta e ascoltando il rumore della pioggia sugli alberi. Guardai gli altri spostarsi dal fornello al frigorifero e viceversa, scontrandosi semiaddormentati e camminando come se la stanza fosse piena di ragnatele. «Tu che fai per vivere?» domandò Brand. «E’ un punto controverso» rispose Pike. «Perché non glielo dici?» mi intromisi io. «Faccio l’umanista di animali.» «Diglielo» aggiunse Sullivan. «Ho un negozio di assistenza tecnica per elettrodomestici sulla Quattordicesima.» «Digli in cosa sei specializzato.» «Vecchi tostapane e radio d’anteguerra. Ho qualche problema con i meccanismi a

molla, o con le cose che sono combinazioni di altre cose, come le radiosveglie o i radiofonografi. Per tenersi aggiornati bisogna leggere. Io non leggo un libro da vent’anni. Non ho la testa per i numeri. Non mi piacciono i volt. Ho un negozio piccolo e faccio il possibile per tener lontana la gente.» «Io ce l’ho, la testa per i numeri» dissi. «I numeri mi affascinano. I numeri hanno potere. I numeri muovono il paese intero. Mi piace da pazzi contare. Adoro aggiungere e sottrarre. Dei numeri li hanno tutti. Tutti quanti sono un numero. E’ poi così terribile? Forse sì. Francamente, non ne ho idea.» «Ascoltate» disse Pike. «Cominciate a mangiare» disse Sullivan. «Sto per farmi un uovo all’occhio di bue assolutamente perfetto. Un uovo sconvolgente. Tuorlo e albume perfetti. Tono, consistenza, integrità.» «Adesso dovete ascoltare tutti, perché è importante. Secondo voi in uno scontro leale chi vincerebbe, la tigre o l’orso polare? La tigre è un animale potente e muscoloso che ha tutte le qualità giuste per cacciare e uccidere. La tigre è un classico. Ma sbagliate di grosso se sottovalutate l’orso polare. A un orso polare basta un colpetto tranquillo con la zampa per amputare un braccio a un uomo. L’orso polare è di una velocità sorprendente, nonostante la mole, e sa mimetizzarsi nella neve. E’ un fenomeno che scientificamente si chiama selezione naturale. Tigre o orso polare.» «Dove si battono?» domandò Brand. «In che senso?» «Se si battono al circolo polare artico, è favorito l’orso polare. Nella giungla, è la tigre la padrona. Nessuno scherza con la tigre sul suo territorio. E’ il pezzo da novanta, è il capoccia.» «Senti un po’, Jack, si battono e stop. Dovunque vuoi, non ha importanza. Qui vogliamo capire chi dei due vincerebbe.» «Occorre una premessa» obiettò Brand. «Se un peso medio di Akron va a Panama a difendere il titolo contro un pugile locale, gli allibratori ne tengono conto. E le quotazioni vengono calcolate di conseguenza. Ora, forse questa mia similitudine zoppica. Può darsi che zoppichi. Nondimeno, prova a piazzare una tigre su una banchisa ghiacciata con davanti uno di quei bestioni bianchi e vedrai che la tigre riesce solo a scivolare finendo con il culo a terra mentre l’orso polare la fa a pezzetti. E viceversa nella giungla. L’orso polare collasserebbe per il caldo. Non puoi pensare che si battano nel vuoto. E neanche scegliere un campo di battaglia neutrale, come il deserto o le montagne, perché allora sia l’uno che l’altro si troverebbero fuori dal loro habitat naturale e lo scontro non servirebbe a dimostrare veramente le rispettive capacità. Questo combattimento è troppo ipotetico per essere preso seriamente in considerazione.» Pike fece colazione in silenzio, con uno sguardo calcolatore, come prima di lanciare i dadi. Era stata messa in dubbio un’intera filosofia insieme ai suoi precetti, e bisognava riflettere bene e rimettere ordine nei dati prima di chiedere pubblicamente la rivincita.

Sullivan colmò il silenzio cupo annunciando che la mia digressione sui numeri le era parsa poco euclidea per ampiezza e precisione, che uno dei miei difetti principali era di lasciarmi abbagliare dalla fluorescenza delle idee senza mai addentrarmici davvero, e che seguire un numero fino all’infinito non necessariamente significava arrivare a Dio. A quel punto divise in due con la forchetta una fettina croccante di pancetta, talmente friabile che le bastò sfiorarla; dopo di che dimezzò ulteriormente le due metà, quindi proseguì con i risultanti quattro pezzi, poi gli altri otto e così via, lavorando con l’ossessività silenziosa delle persone che per guadagnarsi da vivere suddividono le cose piccole in cose ancora più piccole e sono costantemente ai margini della pazzia; alla fine, della fettina non rimasero che cento frazioni decimali. Forse la pancetta rappresentava l’insignificanza dei numeri, la vana ricerca dell’infinito o la natura indivisibile di Dio contrapposta alla promiscuità frazionaria dei numeri? Forse quella di Sullivan era una lezione sulla materia primordiale e la forma sostanziale: la pancetta rappresentava forse i numeri e l’uovo all’occhio di bue Dio? Brand assisteva affascinato. Finii di mangiare e tornai di sopra. Localizzai un telefono e chiamai Binky in ufficio, a carico del destinatario. «Qualche novità?» «Troppe» rispose lei. «Cioè?» «Reeves Chubb, Carter Hemmings, Mars Tyler, Quincy Willet, Paul Joyner, Chandler Bates e Walter Faye.» «Silurati?» domandai. «Bastonati, strangolati e silurati. Appesi e squartati. E’ ufficiale.» «Puttana la miseria. Un’esecuzione di massa. I magnifici sette massacrati all’O.K. Corral. I sopravvissuti si stanno scannando fra loro, o che?» «Credo che ti daranno una promozione» continuò Binky. «Ora come ora è solo una voce di corridoio, ma secondo Jody è fondata.» «Bink, continua a proteggere i miei interessi e sarai al mio fianco in cima al mondo. Saremo come Cary Grant e Roz Russell. Berremo Martini insieme nel mio ufficio presidenziale al l’ultimo piano. Weede ha già cominciato ad assumere gente nuova?» «Per ora solo uno.» «Come si chiama?» «Harris Hodge.» «Quanti anni ha?» domandai. «Non lo so, David. Comincerà solo la settimana prossima. Non so nemmeno che faccia abbia.» «Scopri quanti anni ha. Ti chiamo nel giro di pochi giorni. Senti la mia mancanza?» «Devo riattaccare» rispose. Andai in bagno, tolsi la camicia e cominciai a depilarmi il torace con un rasoio elettrico. Era la purificazione rituale del corpo, il preludio al pellegrinaggio. Aveva smesso di piovere. Ero felice. Dalla finestra del bagno vedevo quasi tutta la cittadina di

Millsgate, case bianche ammassate in una farsa d’innocenza, il campanile illuminato dal primo sole. Per strada una bambina correva saltando la corda, con lo sguardo in alto per cogliere gli sprazzi di cielo tra le nubi; all’imboccatura della baia ondeggiavano due cutter bianchi, sbandando con violenza. Cercai di immaginarmi, anzi, di ricordare, cosa significasse vivere in mancanza delle angosce terminali della metropoli, perché un tempo avevo amato un piccolo paese di provincia senza accorgermene, e quell’amore non voleva saperne di lasciarmi. C’era una vena omicida che serpeggiava attraverso l’intero continente sotto le autostrade, le ciminiere, le piattaforme petrolifere e i gasdotti, una ferocia assolutamente casuale nutrita e propagata dalle metropoli silenziose, e allora mi domandai quali impossibili distanze fosse necessario percorrere da lì a qui, quante lingue cambiare, quanti stati dell’essere attraversare. I miei peli si lasciavano inghiottire volontariamente dalla bocca di pesce del rasoio. Dai gradini di una vecchia casa scese una donna. Indossava un abito blu e stringeva in mano un paio di cesoie. Smisi di radermi per guardarla. Mi sembrava sulla quarantina, pelle chiara, scarpe basse, attraente in quel modo quasi astratto in cui attrae una cameriera in uniforme bianca quando si allontana dal tavolo del ristorante, con le cadenze rilassate del corpo. La donna cominciò a potare la siepe di casa, maneggiando le enormi cesoie con abilità insolita, e poi, avvertendo forse l’intensità del mio sguardo, alzò gli occhi e mi vide. Io non mi mossi e lei riprese subito il suo lavoro canticchiando a bassa voce, procedendo per tutta la lunghezza della siepe, muovendo le braccia ritmicamente un po’ come un uccello che scopre per la prima volta il volo. Rimasi a fissarla per almeno mezz’ora. Ovviamente lei non sarebbe mai venuta a saperlo, ma mi aveva fatto venire in mente l’idea più bizzarra, tenebrosa e spaventosa di tutta la vita. Un’idea per un film che forse un giorno o l’altro avrei girato nelle cittadine sperdute d’America. Gli altri mi stavano aspettando. Brand chiuse la porta di casa, poi trasportammo i bagagli in garage e caricammo tutto sul camper. Quindi andai di corsa a riprendere la mia macchina e la portai davanti al garage. Misi sul camper cinepresa e registratore. Brand portò fuori l’F-250 in retromarcia., di fronte a noi che aspettavamo sul marciapiede contando ammaccature e graffi sulla carrozzeria. Quindi scese per dargli un’ultima occhiata, girandoci lentamente intorno con aria pensosa. Si sistemò gli occhiali sul naso, battendo veloce le palpebre sotto il sole. «E’ pronta, Davy» disse. «La vecchia troia di plastica è pronta a mettersi in moto. Il comandante sei tu. Da che parte si va?» «A ovest» dissi. «Punta più o meno verso ovest.» Misi la macchina in garage e Brand richiuse tutto. Facemmo testa o croce e si stabilì che per i primi ottanta chilometri mi sarei seduto davanti io, insieme a lui. Ciascuno prese il suo posto. Cominciò a squillare la campanella della scuola. Brand ingranò la prima.

6. Sulle piccole isole si farebbe meglio a evitare la filosofia. L’illusione insulare, che solitudine e saggezza si siano create a vicenda, è molto convincente. Giorno dopo giorno, mi sento sempre più profondo. Spesso mi sento alle soglie di grandi rivelazioni filosofiche. Sull’uomo. La guerra. La verità. Il tempo. Per fortuna, finisco sempre per tornare a me stesso. Rivolgo lo sguardo oltre il pizzo candido della risacca verso il mio passato disgregato e decido di lasciare che siano gli altri a rattoppare i grandi sistemi. Mi piace la banalità della situazione, un uomo e un’isola, l’esilio nel sobborgo estremo. Le onde si raccolgono e si infrangono diseguali, parole terribili e sfrenate che scorrono pagina dopo pagina. I colori si danno e prendono vicendevolmente in prestito, il mare dalla spiaggia e la spiaggia dal cielo e viceversa, e dopo un po’ seguo le mie stesse orme di nuovo verso casa. (Il film viene proiettato.) Il nostro paese traboccava di visioni, frammenti di un sogno deflagrato, e le più cupe erano quelle recapitate in triplice copia dai nostri generali e industriali: gli imperi del manganese, gli armamenti supersofisticati, i vari consorzi con privilegi annessi. A noi, o almeno ad alcuni fra noi, rimaneva qualcos’altro: il sogno di una vita onesta, innocente, in apparenza semplice quanto bastava, era iniziata per me non appena imparato a leggere e proseguita attraverso l’era dei primi viaggi spaziali, come la fanfara di benvenuto all’aereo presidenziale con tanto di tappeto rosso. Quel sogno comprendeva tutte le cose che pare la gente desideri tanto, materiali e oggetti e le ombre che proiettano, e nonostante ciò presentava le sue complessità, le sue sfumature illusorie e ingannatrici, le sue implicazioni di morte tragicomica. Riuscire a conquistarsi un’esistenza quasi del tutto simbolica è un po’ meno semplice che estrarre metalli preziosi dal sottosuolo di altre nazioni o spedire i piloti del proprio squadrone a bombardare questo o quell’altro villaggio di analfabeti. Per cui la purezza d’intenti, la semplicità e i suoi frutti, erano prerogativa unicamente dei grandi visionari, di chi possedeva forza a sufficienza da potersi battere con la follia del mondo. Per noi altri, invece, i veri figli del sogno, c’era solo la complessità. Il grande sogno non faceva concessioni alla verità dietro i simboli, alle note fra le righe, alla presenza di qualcosa di oscuro (e per certi versi ridicolo) sul bordo dello specchio della consapevolezza di qualcuno. A volte era difficile. Ma da ragazzo, e anche dopo, un bel po’ dopo, credevo ciecamente a tutto questo: ai messaggi istituzionali, ai salmi e ai cartelloni, alle immagini, alle parole. Una vita migliore, grazie alla chimica. Il catalogo Sears-Roebuck. Zia Jemima. Tutti gli impulsi elettrici dei mass media che entravano ad alimentare i miei circuiti onirici. Vengono in mente gli echi. Le immagini create a immagine e somiglianza delle immagini. Tanto era complessa l’idea. Old Holly era un sobborgo di New York solo in senso strettamente geografico: a differenza dei quartieri attorno, non era un’estensione dello spirito monossidico della metropoli, puro e semplice punto d’arrivo e di partenza. Non era una di quelle cittadine

che sembrano limate e lustrate da una manicure. Quasi tutte le case erano molto vecchie e malconce in modo quasi rassicurante, di due o tre piani con piccole finestre con le imposte, soffitti alti, tetti a due falde, verande che in alcuni casi circondavano tutto il perimetro della casa seguendo le strane angolature formate dai tetti. In tutte le abitazioni scorreva un plasma annacquato di identità a risvegliare i sensi del visitatore occasionale. Chi entrava in una di quelle case sentiva nell’aria odore di chiodi di garofano o di tabacco aromatico; quella vicino profumava vagamente di menta, in qualche punto di vernice, il soffice effluvio di un vecchio tappeto, i suoni poco più che suggeriti dal tasti di un pianoforte chiuso, posateria e voci sparse, la predica indolente di una sega contro il legno, nient’altro che silenzio, oppure i suoni interiori che il silenzio contiene in tutte le stanze antiche e invase dal sole. In certe stanze, in certe case, i pavimenti erano leggermente in pendenza, le modanature cadenti, le travi portanti non a bolla, e quando si scendeva dal letto la notte per andare a prendersi un bicchiere d’acqua e fuori pioveva e soffiava il vento, era come trovarsi in mare aperto durante una tempesta. Da bambini, poi, ci voleva poco a convincersi che la casa fosse una nave, perché le scale cigolavano e c’erano dappertutto piccole nicchie buie dove appoggiare la mano al muro e sentire sospirare l’edificio intero, agitato da correnti tumultuose di vento. In quelle case erano assenti le persuasioni occulte dell’uguaglianza, i contorni precisi che non implicano vittoria né sconfitta ma solo stallo e identità, l’arida scienza del secolo. Solo due di quelle case avevano la piscina. Il country club era sull’orlo della bancarotta. Fisicamente, a quell’epoca, Old Holly poteva sembrare una cittadina del Connecticut, o magari una vallata della Pennsylvania indipendente da qualsiasi metropoli per il suo sostentamento. Nello spirito, era ancora meno un sobborgo. Non era costruita pensando alle automobili: le strade erano decisamente anguste, e a tutte le ore del giorno e della sera si vedeva gente a piedi, diretta ai negozi di Ridge Street. Non c’erano parcheggi né ce n’era bisogno, non c’erano centri commerciali o chioschi in alluminio di venditori di dolci affiancati da campi di minigolf o piste da gokart. C’erano molte collinette in compenso, curve fastidiose invece che incroci comodi e ordinati, e per un bambino lo spettacolo dei fari di un’auto che tracciavano i contorni degli alberi nella foschia bassa era bellissimo e raro, dal momento che le automobili erano aliene a un ambiente del genere, e il loro passaggio invariabilmente faticoso e inconsueto. Quasi tutti gli abitanti di Old Holly lavoravano in paese: commercianti, operai, professionisti, e nelle ore di punta la stazione non era mai gremita. A quell’epoca il nostro era un paesino americano nell’aspetto al cento percento, di gente onesta e carnivora, relativamente flemmatica, disposta a morire per la patria o per una fotografia della patria. Harkavy Clinton Bell, il padre di mio padre, aveva passato a Old Holly gli ultimi sette anni di vita. Prima di andare in pensione era stato una delle primissime leggende della pubblicità, il secondo uomo al mondo ad allegare un buono sconto a un annuncio pubblicitario su un giornale. Era stato lui a lasciare la casa a mio padre. Quando vi avevamo traslocato da West End Avenue, io avevo sei anni, Jane nove e Mary dieci. Ero felice in quella casa, da bambino. Era una casa di dubbia progenitura architettonica, una

casa bastarda, randagia, da amare come si amano i bastardi. Sopra il focolare era appeso il ritratto di Harkavy, con le colline nebbiose sullo sfondo: sembrava lo zio corrotto di Monna Lisa. Io avevo riempito la mia cameretta di canne da pesca, gagliardetti universitari, palle da baseball e modellini di aeroplano. L’inverno del mio dodicesimo anno. I bambini sparivano sotto la neve fitta. Corsi in casa a togliermi stivali, cappotto e berretto. In quel periodo correvo sempre e mi toglievo sempre per ultimo il berretto. Mi fermai alla finestra a guardare la neve ammonticchiarsi. Era la prima nevicata dell’anno e riempiva la sera di silenzio cadendo con più impeto nei coni di luce dei lampioni. Un’auto parcheggiata era completamente sepolta di bianco e non si vedeva muoversi niente tranne la luce soffusa che colpiva la coltre di neve sui rami degli alberi. In casa faceva caldo, e sentii mia madre e mia sorella preparare la cena. Dopo un po’ arrivò mio padre e io corsi a salutarlo. Si fermò in corridoio, corpulento e rosso inviso, a scuotersi la neve di dosso, battendo insieme i guanti, soffiando nuvolette di vapore. Dopo cena tornai alla finestra sgranocchiando biscotti fatti in casa. Mary lavava i piatti; Jane faceva un ritratto di mia madre a gesso su una lavagnetta; mio padre sfogliava una rivista; il termosifone sibilava. Tutti quei rumori nella casa tiepida, di acqua corrente e vapore, lo stridere del gesso e il frusciare della carta, voci familiari, e il muoversi del tempo sull’orologio a pendolo del nonno, tutti quei suoni, le diverse inflessioni della casa, vitali e confortevoli, mi dicevano che ero al sicuro. E poi si sentirono uscire i primi spalatori. Non li vedevo, ma sapevo bene che c’erano, uomini muscolosi piegati in due sulle pale. Le pale scheggiavano il ghiaccio, grattavano il cemento, e mio padre cominciò a interessarsi allo spettacolo. Si riscosse e posò la rivista. Mia madre citò un articolo letto il giorno prima: lugubri statistiche sui pericoli d’infarto per gli spalatori, di polmoniti, schiene distorte, anche fratturate. Mio padre rispose che gliene mancava di tempo prima di doversi preoccupare di cose del genere, e dopo un po’ si alzò e si infilò il cappotto. Niente può fermare un uomo che vuole uscire a spalare la neve. In strada passava lenta un’auto con i tergicristalli in funzione, e a quel punto mio padre riemerse dalla cantina con la pala in mano. Dalla finestra si vedevano tre lampioni, tre coni di luce tra boccanti di neve. Mancava poco a Natale, con le sue visite di parenti e il troppo cibo. E se poi avevamo la fortuna di veder cadere la neve, tanto di guadagnato, perché non c’era da aspettarsi altro che ore di scuola e mesi gelidi e bui prima dell’arrivo della primavera. Ma era troppo presto per pensarci, doveva ancora arrivare il Natale. Il periodo peggiore veniva dopo. Mancavano ancora mesi alla primavera e non c’era altro che la scuola. Mia madre cominciò a piangere. Uscii di casa e mi fermai accanto al cancelletto. Mio padre era impegnato a spalare, non mi vedeva. Lungo tutta la strada c’erano uomini che spalavano in silenzio, sbuffando vapore, e nella quiete immobile della neve sembravano figure antiche assorte in professioni senza tempo, pastori in un campo o pescatori pazienti con le lenze tese nell’acqua di un lago invernale. L’aria notturna era pungente e sottile. Non passavano

auto e faceva troppo freddo per portare il cane a passeggio o perché i ragazzini uscissero a verificare la consistenza della neve per farne palle. Avrei voluto lavorare un po’ anch’io, ma avevamo solo una pala e sapevo che mio padre si divertiva, per cui lasciai perdere. Pensai a tutti gli abitanti del paese che mi erano simpatici e a quelli che non lo erano. Mi immaginai di essere un soldato che strisciava nella giungla con il pugnale fra i denti. C’era caldo e gli uccelli tropicali gridavano. Pancia a terra, mi avvicinavo alla casa nascosta fra la vegetazione. La casa di Weber, il medico. Immaginavo di entrare dalla finestra. Lui scendeva da basso e io mi nascondevo dietro la porta della cucina. Lui entrava e si allungava ad accendere la luce, e io lo afferravo piazzandogli una mano sulla bocca e la lama alla gola, poi lo uccidevo piano piano, sussurrandogli la mia vendetta all’orecchio tiepido. Sotto la neve, gli spalatori continuavano con gioia il lavoro. Risalii i gradini di casa e improvvisamente sentii una pacca sulle spalle. Mi girai e vidi mio padre che mi sorrideva scuotendosi la neve dalle mani. Lo aspettai finché non ripose la pala nel seminterrato. Poi entrammo in casa insieme. Il mio migliore amico era Tommy Valerio. Tutte le volte che andavo a trovarlo a casa, sua madre mi dava i pizzicotti sulle guance e mi strofinava le nocche in testa. La cosa mi imbarazzava molto, per cui avevo cominciato presto a trovare scuse per non andarci. Quando Tommy aveva sedici anni suo padre morì di infarto e lui ereditò la macchina di famiglia, una Chevy del ‘46. Sotto il sedile anteriore tenevamo una baionetta. Non avevamo la patente, per cui quando guidava Tommy metteva un cuscino sul sedile per sembrare più alto e quindi più vecchio. Un giorno mi aveva detto che Kathy, la figlia minore del capo della polizia, era disponibile a esperimenti vari. L’avevamo portata con noi al circolo nautico, dopo di che ci eravamo dati i turni sul sedile posteriore. Lei non aveva smesso un secondo di masticare la gomma. Il capo della polizia si chiamava Brandon Lovell. Lui e mio padre andavano spesso a tirare al piattello insieme. Io avevo iniziato la scuola di preparazione al college nel New Hampshire, ma quell’inverno ero tornato a casa più o meno sei fine settimana, e c’era sempre almeno un pomeriggio dedicato al circolo nautico. Un sabato presi la macchina in prestito e passai dall’emporio di Ridge Street. Trovai Kathy e la portai al circolo. Lei mi raccontò che suo padre aveva l’abitudine di girare per casa nudo. Per quello le sue due sorelle maggiori se n’erano andate. Una volta, con addosso solo il cinturone e la fondina, aveva sparato sei colpi di rivoltella contro il divano. Le chiesi chi di noi due le piaceva di più e lei rispose Tommy. Tirai fuori la baionetta da sotto il sedile e le ripetei la domanda. Non sapevo se facevo sul serio o meno. Lei disse Tommy. La colpii alla mascella con il manico della baionetta e la buttai fuori dalla macchina. Quell’estate, con il consenso di mio padre, presi la patente. All’epoca lui aveva una M.G. e uscivamo a guidare quasi tutti i fine settimana. Una sera acconsentì a prestarmi la macchina anche se in teoria mi era proibito guidare dopo il tramonto. Gli avevo raccontato che un mio amico di Larchmont, un compagno di classe, era appena morto di

amnesia e che quella era l’ultima sera di veglia funebre. Avevo speso un mucchio di tempo a pianificare la frottola nei minimi dettagli, ma lui mi aveva allungato le chiavi senza domande. C’era un film che dovevo assolutamente vedere. Me lo vidi due volte di fila. Durante l’intervallo passò una maschera con una lattina per le offerte al fondo malattie cardiache. La seconda volta il film fu ancora meglio. Burt possedeva una sua grandezza che trascendeva storia, azione e caratterizzazione. Nei miei pensieri sarebbe rimasto per sempre indissolubile dal caratteristico grigiore argenteo dello schermo cinematografico, un corpo che irradiava onde leggere di elettricità statica visiva. Una volta l’avevo visto di persona allo Yankee Stadium, e perfino allora, prima che se ne andasse al quarto inning per colpa dei cacciatori d’autografi, perfino quel giorno, in borghese e occhiali da sole, Burt era il grande comandante, inseparabile dai destini clamorosi del 1941. Ero contento di non avere invitato nessuno al cinema con me. Era un’esperienza religiosa e richiedeva privacy. Tornai a casa in tutta calma. Mio padre mi seguì in camera. Ero seduto sul letto, e avevo ancora la scarpa in mano, quando lo vidi entrare. «Come si fa a morire di amnesia?» mi chiese. «Amnesia? Mi sembrava di avere detto anemia.» «Hai detto proprio amnesia, ragazzo. Non ci ho fatto caso finché non sei uscito. Ma anche ammesso che in realtà intendessi dire anemia, la domanda non cambia. Come si fa a morire di anemia al giorno d’oggi? Cos’è, a questo tuo amico non davano abbastanza da mangiare?» «E’ una cosa del sangue, papà. Non c’entra niente con la denutrizione. Non gli arrivava abbastanza emoglobina ai globuli rossi. Una roba del genere.» «Sei uscito con quella passerina, vero? La figlia di Lovell. Se non ti prendi lo scolo da lei, non te lo prendi più. Guarda che stai giocando con la dinamite, ragazzo mio. Lovell è mio amico, ma ha un maniaco dentro. Uno grosso e cattivo con un fucile in mano. Se scopre che te la fai con sua figlia, quello ti fa saltare le cervella. Guarda che è un buon consiglio basato su un’interpretazione assolutamente pragmatica dei fatti. Non voglio farti la morale, David. Quella è giurisdizione di tua madre. Ascolta tuo padre. Ti ho mai fregato?» «Sono andato al cinema» dissi. «Certo.» «Stavolta è la verità.» «Lasciamo stare.» «Adesso posso bere anch’io la birra a cena?» «Se puoi bere anche tu la birra?» rispose. «Guarda che per quel che me ne fotte puoi berti un bourbon doppio. Ma anche quella è giurisdizione di tua madre. Forse se la bevessi a piccoli sorsi in un bicchierino da sherry ti darebbe il permesso.» Scoppiai a ridere e mi tolsi l’altra scarpa. «Sta ancora facendo i preparativi per la grande festa?» «Ha ingranato la seconda. Con un mese di anticipo. E proprio un tesoro tua madre.

Non c’è nessuno come lei.» «Potrà venire anche Arondella alla festa?» «Non nominare quell’uomo in questa casa» rispose mio padre. In genere a tavola mia madre parlava di cibo. Quando era in macchina, la sua conversazione verteva sulle auto e sulla guida. Quando lavorava a maglia parlava di vestiti; quando faceva le pulizie, delle infinite virtù dell’igiene; quando guardava la televisione, di chi guarda la televisione. Quando stava bene eravamo tutti presi da lei e ringraziavamo il cielo per ogni singolo istante. Ma capitava di rado che stesse bene. La sua era una malattia senza regole precise, perlomeno che noi potessimo individuare. Ogni volta che le nubi si diradavano riacquistavamo speranza e mio padre rimandava l’idea di ricorrere a uno specialista. Non capiva nulla, per cui non faceva nulla. Mia madre non era una fotografia che si poteva ritoccare. Impossibile eliminare il bambino menomato dal ritratto di famiglia. Mia madre non era una campagna pubblicitaria, per cui mio padre non aveva idea di che cosa fare per lei. Quando stava bene, lui viveva entro latitudini delimitate dalla grazia e intelligenza di lei, proprio come noi, con amore. Negli altri momenti facevamo del nostro meglio per fingere che non ci fosse. Era bionda, la pelle liscia e morbida, con mani quasi da musicista. Era minuta. Perfino i suoi gesti più semplici avevano una delicatezza così teatrale e consapevole che ci si sentiva come da vanti a un bambino che recita un monologo sul palcoscenico. Nata in Virginia, figlia unica di un pastore e della figlia di un pastore, aveva conosciuto mio padre quando era andato a trovare i parenti ad Alexandria. Due mesi dopo, erano già sposati. Mi metteva sempre in imbarazzo ascoltare i loro ricordi del corteggiamento, se così si poteva chiamare, e dei loro primi anni di matrimonio. Si erano sposati che mia madre aveva diciassette anni e cinque anni dopo ero nato io. Lei mi aveva raccontato di quel periodo decine di volte. Sembrava considerasse la mia nascita come il culmine di una successione di eventi preparatori quasi sacrali per significato e portata. La chiesa episcopale di Old Holly veniva chiamata Calvario. Mia madre ci passava un sacco di tempo. La parrocchia aveva organizzato una raccolta stabile di fondi per gli orfani dell’Asia. Mia madre era responsabile per la Birmania e la Corea del Sud. Per quanto fosse una sincera credente, la questione della passione di Cristo sembrava crearle disagio. Troppo sudore per i suoi gusti, forse. E lo dico senza ironia. Mi raccontava sempre piccole parabole deliziose su Gesù. Solo dopo anni avrei capito che erano inventate. In quelle parabole, Gesù era un ragazzone biondo ed energico che aiutava sua madre nei lavori di casa e ogni tanto si esibiva in un bel miracolino. «E dopo aver ridato la vista al cieco» raccontava «Gesù tornò a casa per aiutare il papà a mungere le vacche.» Da bambino nutrivo un’autentica devozione per lei. Ma avevamo le nostre divergenze. Quasi tutti i nostri litigi erano pure esibizioni di pedanteria, e in genere lo sconfitto di turno cercava di prendersi la rivincita con ripicche gratuite e infantili. Un

giorno stavo giocando a baseball, fermo a centrocampo, e l’avevo vista venirmi incontro. «I bravi bambini non si mettono le dita nel naso» mi disse. «Non si mettono le dita nei nasi, casomai. ‘Bambini’ sono plurale, per cui devono essere plurale anche ‘nasi’.» «‘Bambini’ “è” plurale» aveva ribattuto lei. «Guarda che da piccola ero bravissima in grammatica. E suonavo anche il clavicembalo.» Prima che potessi rispondere, se n’era già andata. La partita era ripresa, e alla fine dell’inning ero andato a sedermi sull’erba oltre la linea della prima base. Tommy mi si era seduto di fianco. Mi aveva chiesto cosa voleva mia madre. Io gliel’avevo detto. «Fosse stata la mia» aveva ribattuto lui «l’avrei spedita affanculo fin sulla luna.» La sua camera da letto traboccava di ricordi d’infanzia. Sulla cassettiera c’erano diverse bambole di pezza buttate lì con i loro colori smorti, le membra tristemente ripiegate. Nell’armadio c’era un servizio di stoviglie giocattolo e una piccola casa di bambola, un orsacchiotto, un coniglietto di peluche e sei o sette libri da colorare. Jane e Mary non avevano il permesso di giocarci. C’erano carillon dappertutto. A volte, la sua presenza in casa sembrava puramente accidentale. Era una di quelle persone che si materializzano giusto ogni tanto solo per svanire all’improvviso in questa o quell’altra parentesi di lontananza, come se ne intravedono ai parchi e nei musei. Passando in corridoio la vedevo andare da una stanza all’altra, un’ombra rapida e bianca di abiti, capelli, braccia nude; girando l’angolo delle scale la vedevo arrivare un frammento alla volta, prima i piedi, poi le ginocchia, le mani, il viso, con una luce stanca nello sguardo. Le piaceva sedersi sull’ultimo gradino in cima. Mia madre aveva qualcosa dell’apparizione. Sembrava quasi trasparente, e non c’era modo di prepararmi con gli occhi o con la mente ai suoi arrivi e alle sue partenze improvvise come lampi. Ogni tanto, quando eravamo soli in casa, andavo a sedermi sui gradini con lei. Fu li che mi parlò per la prima volta del dottor Weber. Era un pomeriggio d’estate. La casa sfolgorava di sole. Su ogni cosa aleggiava un tiepido letargo. Le ragazze erano fuori a giocare a tennis. «Il pastore e il medico sono il cuore di qualsiasi comunità» mi aveva detto. «Philip Thatcher, il tuo bisnonno materno, era un bravissimo medico di provincia. Abbiamo medici e pastori in famiglia praticamente fin dai tempi di Jamestown. Per i medici ho sempre nutrito il massimo rispetto. Nella mia famiglia, il medico era secondo solo al pastore. Era tradizione. Per questo il dottor Weber mi ha così sorpresa. Il dottor Weber non appartiene a nessuna tradizione, che io sappia, e se è secondo a qualcuno, si tratta probabilmente di un bracciante. Se ti racconto questa storia - e te la devo raccontare perché un giorno ti renderai conto che l’educazione vera è fatta anche di traumi e sgradevoli sorprese - prima devo spiegarti cos’è un esame interno. E l’esame delle parti del corpo più intime di una donna. Non chiedermi il perché, ma sono cose che bisogna fare ogni tanto. Il dottor Weber mi ha chiesto di spogliarmi e di indossare un camice bianco. Un camice come quello che ti hanno messo la volta che sei andato a farti togliere

le tonsille. Poi mi ha detto di stendermi su un tavolo, un tavolo molto grande e stranissimo, e mi ha messo le gambe in un paio di staffe. Mi ha appoggiato un cuscino sulla pancia in modo che non vedessi cosa combinava giù in basso. Posso dirti subito che non era una situazione molto dignitosa. E poi ha cominciato a fare delle cose. Mi ha chiesto se mi piaceva. Naturalmente gli ho risposto di no. Lui ha detto ma sì che ti piace, piace a tutte, è naturale, e quanto sei carina, così giovane e già con tre figli; tanto giovane e deliziosa e già tre volte mamma, tanto giovane e carina, continuava a dire, vero che ti piace, ma certo che ti piace, e sei la donna più graziosa che abbia mai visto, Ann, e sta’ tranquilla che non lo saprà nessuno. Mi chiamava per nome.» Tutte le volte che vedevo mia madre fare il giro della casa spruzzando il deodorante, capivo che stava per arrivare il reverendo Potter. Ogni qualche settimana si trovavano per le loro conversazioni informali. Lo conosceva da quando era ragazza, ad Alexandria. Parlava spesso di lui. Elencava i suoi meriti a mo’ di litania neanche si trattasse di una marca di automobile che aveva conseguito ottime prestazioni nei test di chilometraggio per litro di benzina e resistenza agli urti. La Boston Latin School. Harvard. Il Seminario Teologico Episcopale Protestante di Alexandria. La Chiesa della Santa Trinità di Philadelphia. La Sait Bartholomew a New York. Rettore della Chiesa del Calvario di Old Holly. Ad aumentare tanta risonanza contribuiva il suo nome completo, William Stockbridge Potter; e quello Stockbridge era perfetto, suggeriva grande opulenza e signorilità, e a ragione, visto che il reverendo era un uomo robusto, gioviale e di compagnia. Così la guardavo spruzzare deodorante alla lavanda per tutte le stanze di casa e andavo a cercarmi una sedia in disparte nel soggiorno nascondendomi dietro le pagine dell’“Isola del tesoro” o delle storie sullo sport di Bill Stern. «Ann, questo tè è squisito. Sai bene con quanta cura io scelga le parole, e ti dico sinceramente che questo tè è squisito.» «E l’etica giudaico-cristiana?» domandava lei. «Vale a dire, Ann?» «L’ho letto su una rivista. Ho detto a Clinton: di questo devo assolutamente parlare con William Potter.» «Giusto.» «Be’, cosa significa?» «Presumo che il termine si riferisca a certi elementi comuni al nostro e al loro patrimonio religioso. Presumo che la definizione serva a distinguere tali elementi comuni da quelli dell’etica musulmana, ammesso che esista.» Il reverendo Potter sedeva nel suo titanico splendore, elegantemente stravaccato sulla poltrona, le gambe allungate in avanti, una sull’altra, le mani giunte sotto il labbro inferiore con le dita che si sfioravano appena. Mi affascinavano quelle dita sottili e i ciuffetti di peli grigi sopra e sotto le giunture. Non avevo mai visto dita così lunghe, né con tanti peli. Le sue scarpe nere luccicavano. Aveva lunghi capelli grigi, occhi azzurri e severi, la voce con il suono dell’acciaio contro la roccia in una caverna profondissima. Vederlo e ascoltarlo mi colmava di terrore e piacere. Ai miei occhi, neppure un capotribù guerriero d’Abissinia sarebbe, parso più singolare. Ma nonostante la bellezza

della voce, nel suo modo di parlare c’era qualcosa di strano. Inseriva spesso lunghe pause tra una frase e l’altra, o perfino tra una parola e l’altra. A volte non rispondeva a una domanda semplicissima di mia madre se non dopo un minuto buono di silenzio. Ascoltarlo era sempre un momento di suspence. Mi sembrava di vedergli le parole aggrovigliate in gola, e le incoraggiavo con il pensiero a districarsi e saltare fuori. Soprattutto certe volte, durante le pause più lunghe in cui apriva e richiudeva lentamente la mandibola e i suoni gli risalivano dalla laringe quasi a tentoni, sembrava davvero sul punto di emettere un rutto torrenziale. Era parte del suo fascino. Quando alla fine parlava, era come se ci fosse una curiosa disparità fra i suoni che emetteva e i movimenti delle labbra. Per qualche motivo incomprensibile, non si accordavano. Forse erano le pause lunghissime e l’attesa a darmi un’illusione di squilibrio, ma sul momento sembrava del tutto reale. Solo anni dopo, lavorando al network, avrei imparato un termine in grado di descrivere perfettamente il modo in cui le parole gli uscivano di bocca senza che fra le une e l’altra vi fosse correlazione. Potter era fuori sincrono. «E la morte?» domandava lei. «Ah.» «Credo che non riuscirò a reggerla. Cosa può fare chi ha paura di morire? Ho visto morire mio padre. E’ stata un’agonia lenta e dolorosa.» «Questa è una delle domande fondamentali della nostra epoca» rispondeva lui. «Se sapessimo morire bene, la morte non ci farebbe più tanta paura, vero? Pare che Joe Louis, il grande pugile, abbia detto che tutti vogliono andare in paradiso, ma che nessuno ha voglia di morire. E’ una citazione che uso spesso nei miei sermoni. La risata, ah, è un grande catalizzatore. Libera la tensione e purifica l’atmosfera. Credo moltissimo nel potere del riso. Tutti sono abituati a considerare la Chiesa noiosa e priva di senso dell’umorismo. Sciocchezze.» «Ma noi cosa dobbiamo fare?» chiedeva lei. «Preparare un progetto di morte.» «La trovo talmente stupida, questa storia che si va lassù o laggiù.» «Ci vediamo al vespro? Tu e il ragazzo?» «Sicuramente.» «Devo andare.» «La prossima volta voglio sentire qualcosa sugli Opuscoli di Oxford.» «Su quell’argomento ho molte frecce al mio arco. Mi sono appena riletto il grande Alonzo Potter. Nessuna parentela, detto per inciso, anche se ammetto che l’omonimia mi lusinga, serpente della vanità permettendo.» «Non ha neanche toccato i biscotti.» «Devo proprio andare. Davvero.» «E poi voglio sentire ancora qualcosa sulla morte.» «Tornerò preparato» rispondeva lui. «Ora vuoi accompagnarmi fuori in giardino?» «Non c’è nessun giardino.» «Ah.»

«Saluta, David.» «Tua madre è una ragazza sveglia, giovanotto. Era una delle giovani bellezze della Virginia. E la sua generosità verso la chiesa non ha limiti. Sei un ragazzo davvero fortunato, così alto e con la schiena dritta. Ha i tuoi stessi occhi, Ann. Cosa vuoi fare da grande?» «Il soldato» risposi. «Parla schietto. Mi piace. Senza la minima esitazione. E’ proprio un bel ragazzo.» «Non abbiamo segreti l’una per l’altro» disse mia madre. «Ottimo.» «Arrivederci» dissi. «Il soldato. Ottimo. Ecco un ragazzo con la testa sulle spalle. Se non fossi diventato servitore del Signore, avrei fatto il soldato anch’io. Non sono due cose tanto diverse, sai.» Al Leighton Gage College volevo farmi chiamare Kinch. E’ il soprannome di Stephen Dedalus in “Ulisse”, che stavo leggendo in quel periodo. Ma ben presto avevo scoperto che alla Leighton Gage nessuno aveva un soprannome, se non a scopo denigratorio. Non c’erano nemmeno squadre di atletica. E neanche voti o esami. Non c’erano tradizioni. Era una facoltà valida, ma alquanto pigra, mentre per gli studenti valeva il discorso inverso. All’inizio avevo fatto amicizia con un ragazzo di nome Leonard Zajac, conosciuto fra i begli ingegni della società dei poeti come il Piccolo Foruncoloso. Frequentavamo varie lezioni insieme e mi colpivano molto il suo sarcasmo pronto e nervoso, la sua iconoclastia, il modo in cui sapeva rivoltare come un guanto le idee recepite da tutti e conferire significati nuovi senza necessariamente credere nella propria interpretazione più che nell’originaria. Leonard era un ragazzo obeso e solitario, con la nuca cosparsa di furiose eruzioni violacee. Gli altri gli rivolgevano la parola solo quando era strettamente indispensabile e perfino gli insegnanti facevano del loro meglio per ignorare la sua esistenza. La grassezza, la pelle devastata, i vestiti sgraziati da ghetto apparivano tragicamente fuori posto nel panorama lustro della California meridionale. Leonard passava un sacco di tempo in biblioteca. Io e lui andavamo d’accordo. Sentivo che poteva aiutarmi a rendere la mia mente uno strumento preciso e affilato. Kinch. Lama di coltello. Leonard era generoso con il suo tempo e le sue idee. Non c’era voluto molto prima che iniziassi a immaginarmelo nelle vesti di brillante autore di satira e critico dei costumi, un personaggio di grandezza swiftiana, un fenomeno postrinascimentale, come un falò intorno al quale ci radunavamo tutti in cerca di saggezza e calore. Ai miei occhi di diciottenne, la vita di Leonard esercitava una certa attrattiva. L’acne cronica e l’obesità fanno presto a cancellare ogni illusione: meglio fare della solitudine un’amica e della biblioteca il proprio grembo materno e santuario. Poi, di colpo, era crollato tutto. Un giorno Leonard mi confidò di essersi innamorato di Page Talbot. Page era una ragazza del Kansas dai lunghi capelli biondi, il tipo di donna che a tre metri di distanza

sembra uno schianto, mentre da vicino si notano gli occhi verdi slavati, la pelle giallastra e l’assoluta inespressività del viso che faceva pensare a una donna adulta tuttora in lutto per la morte del suo coniglietto da bambina. Ma quando si avvicinava o la si vedeva passare, con quegli ancheggiamenti che sembrava incapace di controllare, in blue jeans candeggiati dalla salsedine e camicia di tela grezza blu, Page riusciva a far provare la sensazione che valesse la pena seguirla a piedi fino a Kansas City. Un giorno, in biblioteca, Leonard mi raccontò le sue fantasie. Immaginava di fare l’amore con lei sott’acqua, a cavallo, sulle cattedre dei professori, dentro le cabine telefoniche. Poi disse che avrebbe voluto essere come me, che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di essere come me, in forma, bello, richiesto da tutti. La sua confessione aveva ottenuto l’effetto di sbilanciare in modo bizzarro il mio baricentro mentale. Quella sera ero andato a trovare Page Talbot in camera sua. Portavo calzoni sportivi marrone rossiccio, la migliore approssimazione possibile delle uniformi fresche e inamidate dell’Esercito degli Stati Uniti. Le ero apparso sulla soglia pensando a Burt Lancaster fermo sotto la pioggia in attesa che Deborah Kerr gli apra la porta. La mia carriera di intellettuale era finita. Al terzo anno avevo conosciuto Ken Wild. Una mattina ero uscito da camera mia già in ritardo per la lezione, e stavo scendendo le scale, quando, passato il secondo piano, sentii una musica, un rimbalzo gutturale di sax tenore. Mi fermai un istante ad ascoltare, poi imboccai il corridoio. La musica proveniva da un giradischi al massimo. Sul bordo del letto era seduto un ragazzo grande e grosso con gli avambracci sulle ginocchia, che annuiva leggermente seguendo la musica. Indossava calzoncini rossi e neri da pugile, con la scritta Everlast sulla banda elastica. Alzò gli occhi per un attimo, rivolgendomi un gran sorriso, e mi invitò con un cenno a prendere una sedia. Circa dieci minuti dopo, il disco finì e il braccio del giradischi tornò al suo posto. «Coltrane» disse. Wild era di Chicago, un ex marine. Passammo il resto della mattina ad ascoltare i suoi dischi. Mi sembrava di avere dentro quella musica da sempre, con il suo odore fumoso e azzurrino, le mattinate a Parigi e gli intestini di gatto sparsi in Lenox Avenue. Come capita spesso ai bianchi, accarezzavo l’idea di possedere un tocco di afroistinto in qualche recesso atavico e non meglio definito del mio essere. Io e Wild diventammo subito amici. Litigavamo, scherzavamo, facevamo la lotta e ci dedicavamo alle ordinarie blasfemie goliardiche di parola e di fatto, usando come guida la gioviale parodia divina di Buck Mulligan nelle prime pagine dell’Ulisse. Era quello il nostro rotolo sacro e rimpiangevamo spesso di non aver mai conosciuto grigi gesuiti che ci avessero avvelenato l’infanzia e tornassero a incombere sulle nostre teste con maschere mortuarie e summe teologiche. Scrivevamo tutti e due poesie. Mi piaceva molto strangolare le parole cercando di metterle su carta ancora vive, ma quando mi rendevo conto di non riuscire a finire, addirittura nemmeno a cominciare, ciò che mi ero ripromesso di fare, non ne facevo una tragedia. In fondo, mi restava sempre la cinepresa. Wild, invece, ci si buttava anima e corpo, o tutto o niente, rifiutando qualsiasi negoziato con l’insuccesso. Ci eravamo

iscritti alla società di poesia della scuola con l’unico scopo di disertare le riunioni e farci espellere, in modo da poter fondare una società rivale. Ma alla fine non ci eravamo mai presi la briga. Leggevamo le antologie, presi dall’amore e dall’odio per ogni tipo di talento superiore. Era l’immagine indefinita che cercavamo, quella che poi sceglievamo con cura e accudivamo, due bambini nella tana del leone. Durante quelle sedute di lettura Wild si lasciava prendere da una frenesia acuta: sfogliava le pagine, saltava da un libro all’altro, declamava ad alta voce le frasi beatifiche, e insieme scoppiavamo in risate vertiginose per la gioia, la meraviglia, la miseria di quelle pagine. Cercavamo di scrivere in compagnia del jazz e del vino. Ma mi sa che sarei stato molto meglio a letto con Wendy Judd. Tutti sognano ricchezza e amore. La grande ambizione di Wendy era fare la comparsa in un kolossal in technicolor. Non si faceva illusioni sulla celebrità. La frammentazione e la sistemazione del mito nel realismo delle sue componenti erano da tempo giunte all’Ovest, e Wendy era californiana di nascita. Le sarebbe bastato poter apparire anche solo di schiena in un film, o con il pugno rivoluzionario alzato al cielo in mezzo alla folla nella scena della presa della Bastiglia. Passava un sacco di tempo con Simmons Sait Jean, che insegnava teoria e critica cinematografica alla Leighton Gage. Simmons aveva solo una trentina d’anni, ma cercava lo stesso di passare per il Montgomery Clift post-incidente, un uomo che rimandava l’eco del vuoto assoluto. Curava amorevolmente il suo pallore cadaverico proprio come noi curavamo le nostre abbronzature. Allo stesso tempo faceva del suo meglio per informare gli studenti maschi che per essere un vecchio se la cavava discretamente con le ragazzine. Poiché mi specializzavo in cinema, e dato che Simmons mi considerava il principale antagonista per il titolo di stallone dell’istituto, provavamo un certo cauto interesse reciproco. Le nostre discussioni erano un continuo duello in punta di fioretto. Un giorno io e Wendy Judd ci trovammo a bere un caffè con lui. «Voi ragazzi siete affascinanti» disse Simmons. «L’altra notte ero con una mia studentessa, o forse dovrei dire l’altra sera, una ragazza di nome Pamela, non ricordo bene, e sono rimasto sbalordito dalla sua disinvoltura e dalla sua mancanza assoluta di provincialismo. Dalla tranquillità con cui manteneva il pieno controllo delle emozioni. Voi ragazzi siete di un’apertura e di una libertà straordinarie. Non avete neanche una delle inibizioni che avevo io all’università. E’ bellissimo.» «Come mai hai sempre l’aria stanca e derelitta?» domandò Wendy. «Non che non abbia il suo fascino, intendiamoci.» «Preferirei non parlare di me. Ho perso ogni speranza di riuscire a definire chi o cosa sono. Forse una volta o l’altra, Wendy, se Dave è d’accordo, ti racconterò la storia della mia vita. Ma ora come ora preferirei di gran lunga sentir parlare voi due. Uno dei piaceri di insegnare in un posto come questo è lo scambio di idee assolutamente disinibito fra studenti e docenti. E’ veramente l’unica facoltà nel suo genere in tutto il paese. Dave, che tipo di tesina hai in mente di presentare quest’anno?»

«La giro nel deserto, Simmons. Immagini allo stato puro. Con un velo di significato per chi non può farne a meno.» «Io le adoro, le immagini. Pare che abbiano un effetto lassativo.» «David mi ha mostrato quello che ha fatto l’anno scorso» disse Wendy. «Era o no sconvolgente, Simmons? Con tutti quei riflessi e quelle ombre?» «Non gli è piaciuto» dissi. «Non direi, Dave. I suoi momenti buoni li aveva.» «Lo ha trovato un plagio, benché garbato. Ha detto che gli ricordava il Kurosawa degli esordi, se non sbaglio.» «Semmai un Kurosawa prenatale» disse Simmons. «Mi piacerebbe molto continuare questa conversazione, ma fra dieci minuti ho lezione. Le mie matricole vanno in ansia se non arrivo puntuale. Sapete, la questione della figura paterna e compagnia bella.» «Io vado da quella parte» disse Wendy. «Pensavo che potevamo fare un salto al lago» dissi. «Perché non vieni anche tu, Simmons? Non ti si vede mai, al lago. Io e Wendy ti cerchiamo sempre, ma non ti vediamo mai.» «Ho lezione. Tu da che parte vai, Wendy?» «Noi andiamo al lago» risposi. «Simmons, se non hai il costume te ne presto uno io.» «Dave, non dubito che tu abbia abbastanza costumi per un’intera squadra di bagnini, ma temo proprio che lo spettacolo sarà rimandato per la pioggia.» «Non sta mica piovendo.» «Un po’ di sole ti farebbe bene» disse Wendy. «Devi uscire da qui e metterti al sole, Simmons. Passi troppo tempo al buio.» «Mi consola pensare che nei posti bene illuminati non succede mai granché.» «Buum!» disse Wendy. Con la vittoria più importante in pugno, non avevo messo in discussione il diritto del perdente all’ultima parola. Lo sanno tutti che le vecchie generazioni trovano grande sollievo nel salvare la faccia. Per quanto non vi fossero squadre di atletica alla Leighton Gage, direi che prendevamo lo sport molto più sul serio di quello che in genere fanno gli studenti. Ma ci dedicavamo a giochi diversi: giochi non di squadra, veloci, rischiosi. Una delle cose più importanti che il denaro può comprare è la velocità. La velocità e una visione fugace della morte. Organizzavamo gare amichevoli di auto sportive e moto, guidavamo “dune buggy” nel deserto e motoscafi nel laghetto artificiale vicino al campus universitario. Molti degli studenti possedevano un aereo. Bastava fare amicizia con uno di loro per passare i fine settimana in giro per feste a L.A., e durante il volo di ritorno mettere alla prova il proprio desiderio di una poetica e prematura dipartita. La forza motrice di quelle attività era sostanzialmente spirituale. C’erano stati diversi infortuni e disgrazie varie, e a ciascuno noi reagivamo con distacco professionale. E quello il denaro non lo può comprare. O lo si impara, o è meglio darsi al baseball. Il padre di Page Talbot le aveva regalato per il suo compleanno un fuoribordo in fibra

di vetro e l’aveva fatto trasportare fino al laghetto un paio di chilometri a nord del campus. Lei lo aveva fatto dipingere di giallo e lilla e l’idea era di infilarci dentro un letto a baldacchino, finché qualcuno non l’aveva dissuasa. La prima volta che mi aveva invitato ad andare a navigare, come diceva lei, il motore era caduto in acqua, e così ci eravamo seduti a bere birra, con lo scafo che girava lentamente su se stesso, in attesa che qualcuno arrivasse a rimorchiarci a riva, relativamente soddisfatti, fingendo di trovarci su un sambuco arabo che andava tranquillo alla deriva fra i papiri del ramo sudanese del Nilo. «Ieri notte mi sono fatta Ken Wild» disse lei. «Non sapevo vi conosceste.» «Infatti.» «Be’, non ne voglio sapere niente.» «Guarda che è simpatico. Davvero.» «Te l’ho detto che sto pensando seriamente di sposarmi? L’estate scorsa ho incontrato una ragazza, nella mia città, e ci scriviamo. Adesso è a Londra, a farsi il giro degli epitaffi. E’ da un po’ che sto pensando di farle la grande dichiarazione.» «Non riesco proprio a capire per quale ragione al mondo una persona della nostra età possa volersi sposare» disse Page. «Mi sembra come dire che si è al capolinea.» «A te non viene mai voglia di giocare a mettere su casa?» «Solo se è un trilocale a Montego Bay.» «Dimmi di Wild» ribattei. «E’ bravo, a letto? Meglio di me? Non c’è bisogno che mi racconti i dettagli. Rispondimi solo sì o no. E’ importante.» Tre mesi prima della laurea, Piccolo Foruncoloso svanì nel nulla. Nessuno sapeva dove fosse andato. Credevo che la sua scomparsa avrebbe risvegliato qualche senso di colpa in chi per tutti quegli anni lo aveva ignorato e messo in ridicolo. Invece era diventata una barzelletta. Dicevano tutti che era partito per il Tibet in cerca di un vecchio santone che gli guarisse le pustole, o che vagava nel deserto in preda al delirio cantando i successi degli anni quaranta, o che si era barricato nel gabinetto della biblioteca con una mitragliatrice, una montagna di munizioni e un deodorante spray. Una sera andai in camera di Leonard nella speranza di trovare qualche indizio che permettesse di localizzarlo: una sottolineatura in un libro, magari, o una cartina stradale, o una lettera dei genitori. Trovai solo un pezzetto di carta su cui era scritto: «Qualcosa mi dice che stanotte sognerò giornali avvolti nel pesce» Leonard Zajac aveva vissuto con noi quattro anni, uomo nonostante la compassione che ispirava, e il mistero della sua scomparsa, dovuta forse a un terrore non più sostenibile, venne accolto solo da un vago senso di sollievo generale. Tornò il giorno dopo la consegna delle lauree. Alcuni di noi erano ancora al campus a caricare i bagagli

sulle macchine, a organizzare vacanze sulle Ande, alle Baleari, su navi in rotta per le Indie Orientali. Nel giro di tre mesi ci saremmo visti tutti obbligati a guadagnarci da vivere, e nei dialoghi scambiati in quell’ultimo giorno era percepibile una punta di isteria. Io e Merry, che entro un’ora saremmo partiti diretti a est, ci trovavamo a chiacchierare con alcuni amici nel cortile, quando sentii qualcuno toccarmi la spalla: era Leonard, venuto a sussurrarmi ciao e addio. Disse che era tornato a riprendersi i suoi libri. Era andato a vivere in Arizona con gli indiani Havasupai e intendeva tornarci immediatamente e rimanerci per sempre. Quando mi chiese che progetti avevo, mi limitai ad alzare le spalle. L’acne era sparita. Sembrava avesse perso almeno venti chili. Non lo presentai agli altri, perché in quel momento non ricordavo il suo nome. Tutto ha inizio in California. E’ come lo slang in uso nei ghetti: appena Madison Avenue riesce a decodificarlo, Harlem ne inventa uno nuovo. Lo stesso vale per la California e New York. Quando la moda del surf e del nudismo si è spostata verso est, la California si è addobbata di vesti indiane è si è spostata all’interno alla scoperta della comune. L’ambiente mi piaceva, e ci sarei anche rimasto. Ma mio padre continuava a vivere da solo nella casa dei carillon sulla costa orientale, e non intendeva lasciarla. Abbiamo tutti qualcosa da dimenticare. I più furbi se ne partono per lidi ignoti. Ma mio padre non era in grado di lasciare la casa di famiglia e io non avevo il buon senso di restarmene dalla parte del continente dove si tocca. Per cui cominciai a nuotare. Big Bob Davidson fece la sua prima comparsa a Old Holly che io avevo diciotto anni, per cui Jane doveva averne ventuno. All’epoca lavorava a New York, ed era arrivato un fine settimana a conoscere la famiglia. Quell’estate ero a casa a perfezionarmi nel golf e nel tennis e a fare qualche giro in barca a vela. Jane mi suggerì di passare qualche ora insieme a Bob. Per giocare un po’ a tennis e per qualche birra. Per farlo sentire in famiglia. Così ce ne andammo al club, cercando entrambi di non essere troppo educati, scambiandoci qualche colpetto come pugili con lo sparring partner, per sondare le nostre suscettibilità. Bob mi era sembrato un tipo non male. Era grande e grosso. Aveva il viso di uno strano colore rosa lucido, come se gliel’avesse appena leccato un cane, e capelli biondi molto lisci. Portava la camicia fuori dai pantaloni, una camicia stinta a scacchi con una matita nel taschino. Come avrei scoperto in seguito, Bob portava sempre una matita nel taschino della camicia o della giacca, e ogni volta che lo vedevo era come se stesse per tirare fuori un blocchetto di fatture per segnarsi un ordine di tre dozzine di tagliaerba. Ci cambiammo e cominciammo a giocare. Ero più in forma che mai, e decisi che all’inizio me la sarei presa comoda e avrei cercato di capire il ritmo di Bob. Ben presto fu evidente che intendeva massacrarmi. Correva da una parte all’altra del campo, rabbioso e impolverato, avvolto da nuvole di terra rossa, annunciando con decisione il punteggio prima di ogni servizio. Più ci si metteva d’impegno, peggio andava. Aveva un servizio incostante, e sul suo rovescio era meglio stendere un velo pietoso. Cominciavo

ad annoiarmi, quando vidi mio padre seduto su una delle panche a margine del campo. Alla fine del primo set, mi chiamò. «Sono appena arrivato» mi disse. «Chi sta vincendo?» «Il primo set è mio.» «Punteggio?» «Sei a uno, credo. I punti li tiene Bob. Se devo dirti la verità, non è che questa partita mi coinvolga molto.» «Be’, allora vedi di farti coinvolgere» disse. «Voglio che gli fai un culo così. Lo devi battere in tre set. Voglio tornare a casa e poter dire che in questa partita non c’era storia. In tre set. Questo voglio poter dire. Il ragazzo l’ha battuto in tre set.» «Non ti è simpatico, papà?» «Non è questione di simpatia. Non lo conosco neanche. E’ una cosa di famiglia. Quello entra in casa nostra e Dio solo sa cosa ci fa con Jane. Gesù, guardalo. E’ grosso come un armadio. Potrebbe picchiarla, o altro. Per quanto ne so può essere l’uomo più gentile del mondo. Ma non è questo il punto. E’ una cosa di famiglia, ragazzo. Adesso vai. Vai e spaccagli il culo.» «Va bene» dissi. Vinsi i tre set in tutta calma, mettendolo in imbarazzo, alzandogli parabole leggerissime che lo spedivano da un’estremità all’altra della rete per poi spiazzarlo con un passante a un centimetro dal naso. Alla fine mio padre venne ad allungarmi una pacca sulla spalla e a strofinarmi la nuca con la mano, congratulandosi per quella che definì una vittoria di rilevanza storica e una rovinosa disfatta per il nemico. Da parte di mio padre, fu uno di quei bizzarri sussulti di amore paterno che nella loro gioiosa dirompenza lasciano al tempo stesso perplessi e sopraffatti, il tutto a spese del terzo incomodo di turno. Dissi a mio padre che non avevo fatto neanche in tempo a sudare un po’ e lui scoppiò a ridere come se fosse la battuta migliore che avesse mai sentito. Poi ci avviammo verso lo spogliatoio con le braccia l’uno sulle spalle dell’altro. Big Bob ci passò davanti come un bulldozer. Mio padre beveva birra scura irlandese. Comprava quasi tutti i vestiti in Inghilterra. Gli piacevano i sigari olandesi e guidava macchine italiane e inglesi. Sugli scaffali della libreria teneva solo libri su Londra prima del Grande Incendio e sul West prima di Little Bighorn. Portava scarpe fatte a mano a Londra da una ditta che gli aveva preso il calco dei piedi il giorno dopo che avevano toccato per la prima volta il suolo d’Inghilterra. Non andava molto a cavallo, ma nel suo studio teneva numerose selle da cowboy e una piccola collezione di fucili Winchester 73, oltre a uno Sharps calibro 50 che definiva con affetto il suo fucile da bisonti. Era appassionato di macchine fotografiche tedesche e fumava pipe danesi che costavano quasi duecento dollari l’una. Un paio di volte la settimana andava a pranzo al Playboy Club. In seguito cominciò ad accompagnare i clienti o gli amici ai rispettivi club: all’Harvard o al Princeton, al New York A.C., allo Yale, al New York Yacht Club. Mio padre era laureato alla Long

Island University. Usava un’acqua di colonia invecchiata in botti di quercia a base di oltre trecento essenze. Fra le macchine che aveva posseduto nel corso degli anni c’erano una M.G., una Jaguar, una Ferrari, una Aston-Martin e una Maserati. Non ho idea se con una quantità simile di cavalli vapore cercasse di togliersi di dosso la maledizione della Long Island University o che altro. «Un uomo deve lavorare duro per arrivare a duecentomila dollari» mi disse una volta mentre giravamo per la periferia sulla sua Jaguar Marx IX. «Risparmia, traffica, investe. Fatica finché non ha un tot di dollari da parte, e se pianifica con cura e ha un minimo di fortuna sul mercato, allora può cominciare a costruire qualcosa per la famiglia. E’ questo che fa sì che la democrazia valga tutto il sudore e la corruzione che costa. Sicurezza per moglie e figli dopo la tua morte. Che fate se mi succede qualcosa? A tua madre non piace sentirmi parlare così, ma bisogna essere pronti per evenienze del genere. E’ questo il dovere del capofamiglia, in una libera repubblica. Ho circa nove polizze assicurative che servono a mantenere te, tua madre e le tue sorelle nel caso dovesse capitarmi qualcosa. E guarda che potrebbe capitare in qualsiasi momento. Fra un minuto potrebbe attraversare la strada un cane, io sterzo per evitarlo e bum. Capisci? I soldi che mi ha lasciato mio padre sono stati decisivi. E’ stato grazie a quelli se ce l’abbiamo fatta. Ma se non stai attento, tutto quello che ti becchi è il bruciore di stomaco. Adesso ti racconto una storia vera, presa pari pari da una delle pubblicazioni scientifiche più autorevoli del paese. Hanno sottoposto due scimmie a un esperimento. Ogni sessanta secondi gli somministravano una scossa elettrica. Ora, la prima delle due scimmie aveva un pulsante nella gabbia e le bastava premerlo per non beccarsi la scossa. Anche la seconda aveva un pulsante, ma non serviva a niente. Dopo un po’ la scimmia numero uno capisce il trucco e si butta sul pulsante come una pazza per evitare la scossa. Invece la scimmia numero due si rende conto che il suo pulsante non serve a un cazzo, per cui si mette in un angolino a grattarsi e a prendersi la sua scossa ogni minuto. Be’, com’è andata a finire? Che la scimmia numero uno si è presa l’ulcera e nel giro di due settimane ha tirato le cuoia. La scimmia numero due invece, che si è rassegnata alle scosse, vive felice e contenta. Un piccolo esperimento che è la morale dei nostri tempi. Mostra il prezzo da pagare per poter raggiungere la stanza dei bottoni. Un giorno di questi ti devo mostrare gli uffici. Ci vedrai sessantacinque scimmie dirigenti che piangono al telefono e pisciano sangue. E’ quello il lavoro di tuo padre. Ma non avere paura per me, figlio mio. Ho le budella d’acciaio, e in questa corsa sono il favorito. Nel profondo sono un grande conservatore. La mia è una lunga dinastia di presbiteriani bevitori occulti. Mio nonno era maniscalco a Sag Harbor. Dov’è che volevo arrivare con questo discorso?» Una sera d’estate, mio padre tornò a casa dal lavoro e raccontò alla famiglia cos’era successo sul treno delle 18,17 in partenza dalla Grand Central. Aveva la camicia e la cravatta macchiate di sangue. «Stavamo leggendo tutti il giornale. Da un capo all’altro del vagone non si vedeva altro che una fila di giornali aperti. Il controllore è arrivato a convalidare i biglietti. In quel momento eravamo ancora sottoterra e ricordo che stavo proprio per finire la pagina

dei titoli di borsa, quando il treno è uscito dal tunnel con un boato e ha cominciato ad attraversare Harlem. E’ stato allora che ci ha colpiti la prima pietra. Ha spaccato un finestrino di fronte al mio sedile e i vetri sono schizzati dappertutto. La cosa strana è che nessuno ha detto una parola. La seconda pietra è arrivata dal mio lato del treno, il vetro due posti più avanti è andato in frantumi, e a quel punto mi sono reso conto che erano ben più di uno o due furbetti a bombardarci, per cui ho guardato fuori dal finestrino dalla mia parte e poi dall’altra e li ho visti, eccome, sopra il treno, oltre la recinzione, ragazzini portoricani che tiravano pietre come dei pazzi, decine di ragazzini, due schieramenti ai due lati della ferrovia che ridevano e ci tiravano pietre. A quel punto nessuno leggeva più il giornale. Eravamo tutti per terra sotto i sedili, e anche questo sembrerà strano ma nessuno diceva una parola. Come se sapessimo tutti che prima o poi ci sarebbe toccato. E che oggi era il giorno del giudizio. Le pietre rimbalzavano sulla fiancata del treno e spaccavano i vetri. Ragazzini. Dodici, tredici anni. Be’, in quel momento hanno smesso. Hanno smesso per una decina di secondi, e stavamo rialzandoci, quando è cominciata la seconda sassaiola. Hanno cominciato i piccoli negri e hanno veramente fatto a pezzi il treno. Ragazzini negri dai tetti. Sono saltati altri finestrini e in fondo al vagone c’era qualcuno che mugolava, un tipo che si era preso una sassata o forse si era tagliato con i vetri che ricoprivano il pavimento. Usciti da Harlem pensavamo fosse finita, e abbiamo cominciato a ripulire i vetri dai sedili e due o tre passeggeri hanno addirittura cominciato a fare battute e abbiamo riso tutti, anche se in realtà non c’era niente da ridere. Erano risate isteriche, non so se mi capite. Ma nel South Bronx sono ricominciate a volare pietre. Per tutto il Bronx ci hanno bersagliati. Non so perché, ma lì i colpi erano meno concentrati. Solo che proprio lì un piccolo cecchino mangiafagioli ha preso in pieno il vetro dal lato dove stavo seduto io e una scheggia di vetro mi è andata dritta nella mano. Finalmente verso Woodlawn è finita. Era come se dentro il vagone fosse passata una tromba d’aria. C’erano vetri e pietre e giornali sparsi ovunque. Nessuno sembrava furioso, o amareggiato. Eravamo solo un po’ sconvolti. E quando sono sceso dal treno, c’erano altri tre o quattro uomini che scendevano con me, ce ne siamo andati tutti a riprendere la macchina e nessuno ha neanche accennato al fatto che su quel treno per poco non ci ammazzavano. Piccoli bastardi schifosi. Cosa mai gli abbiamo fatto, si può sapere?» «Vi siete trasferiti in periferia» rispose mia sorella Mary. «Domani passa una buona giornata al lavoro, papà. E se decidi di lavorare fino a tardi e fermarti a dormire in città, sappi che noi ti capiamo.» La Santa Dymphna si trovava nel New Hampshire sudoccidentale ed era un posto niente male per farsi un’istruzione. Tranquillo e pittoresco. In autunno le foglie cambiavano colore e in inverno c’era sempre tanta neve. Tutti si vestivano con molta eleganza. Qua e là qualche edificio mostrava segni di decadenza, ma la cosa non dava fastidio a nessuno: era parte delle molte tradizioni del civile Nordest. Del personale della scuola, un tempo costituito di soli episcopali, erano entrati a fare parte numerosi laici,

qualche pastore unitariano, un battista di Duck River e un adorabile custode irlandese, Petey, che amava sfidare gli studenti del primo anno a sapere i nomi dei Quattro Cavalieri di Nôtre Dame. Gli studenti erano quasi tutti ragazzetti cinici e anticlericali. Il mio tutore era un laico, e nel Reciprocity Day si era presentato ai miei genitori. «Mi chiamo Thomas Fearing. Sono iscritto a diversi club, fra cui il Millbrook Golf and Tennis, il Rhinebeck Tennis and Saddle, il Players of New York, il Nassau di Princeton, il Princeton di New York e il Church Street Social di Millbrook.» «Notevole davvero» aveva risposto mio padre. Al terzo anno era sorta una controversia. Nella squadra di basket c’era un ragazzo di nome Brad Dennis, che prima dei tiri liberi si faceva sempre il segno della croce. La madre di Brad era una cattolica militante e a quanto pareva non solo gli aveva ordinato di segnarsi prima di ogni tiro libero, ma gli aveva anche spiegato che la santa che dava nome all’istituto era una beata di tradizione esclusivamente cattolica, e che gli episcopali, per quanto gentili e onesti, non potevano accampare nessun diritto sul suo patronato come sul suo nome per una loro scuola, per quanto decorosa e autorevole. Brad aveva messo in giro la voce e per il tumulto che ne era seguito si era preso parecchie cinghiate sul culo dal responsabile disciplinare, il che era servito soltanto ad accrescere in lui il fervore religioso e l’ambizione paleocristiana al martirio. Cominciai a interessarmi a lui. Brad era come un anarchico che impazzava al Pentagono. Distribuiva opuscoli pubblicati dai Cavalieri di Colombo e si offriva di sfidare a parole qualunque coetaneo sui relativi meriti delle grandi religioni mondiali. Alcuni di noi si ritrovavano in camera sua dopo il coprifuoco serale, violando il regolamento, per sentirlo argomentare di transustanziazione e infallibilità papale. Era evidente che almeno in parte il suo zelo si trasmetteva al piccolo cerchio di discepoli che lo attorniava. Gli studenti iniziarono a dividersi in fazioni, e ben presto i principali argomenti di conversazione diventarono il diritto alla libera espressione e al proselitismo. Dal momento che l’istituto sapeva poco o niente delle attività postcinghiata di Brad, in quei primi giorni ferveva un grande entusiasmo cospiratorio. Molti si schierarono con Brad solo per via della sua disavventura con il responsabile disciplinare, soprannominato da tutti il Figlio di Dracula, nonché temuto e disprezzato all’unanimità. Altri parevano sinceramente interessati alle sue dottrine. I suoi oppositori lo definivano un papista, un baciapile, un anti-intellettuale e un faccia di culo. A un certo punto decisi che era il momento di arrivare al fondo della controversia, vale a dire Santa Dymphna in persona. Chiesi a Brad uno dei suoi opuscoli. Era pubblicato dalle Missioni Francescane e sul frontespizio riportava queste parole: SANTA DYMPHNA (pronuncia dimf-na). PATRONA DEGLI AFFLITTI DA TURBE NERVOSE E MALATTIE MENTALI. ‘La Santa degli Esaurimenti Nervosi’. Venne fuori che Santa Dymphna era nata in Irlanda, unica figlia del re pagano di

Oriel. Alla morte della moglie, il re decise di risposarsi. Dopo lunghe riflessioni, concluse che al mondo esisteva solo una donna degna di lui, sua figlia. Dymphna, battezzata da un sacerdote della Chiesa, aveva quattordici anni. Con tutta la forza di persuasione di cui era capace, il re mise a parte del progetto la figlia impaurita. Dymphna cercò salvezza nella fuga, rifugiandosi in Belgio insieme al suo confessore. Ma le spie del re si misero sulle tracce dei due esuli, e la vicenda si concluse quando il sovrano sguainò la spada e decapitò la sua unica figlia. Nei secoli successivi, molte persone affette da turbe mentali guarirono grazie all’intercessione di Santa Dymphna, la cui fama di patrona degli esaurimenti nervosi si diffuse gradualmente dal Belgio fino all’Irlanda, e da lì a quasi ogni angolo del mondo. Quella storia mi affascinava. La sensazione che mi procurava era la stessa che avrei provato mesi dopo ascoltando Jane mentre leggeva i commenti della Young Women’s Christian Association sulle religioni primitive. Di fronte a personaggi di tale splendida follia, mi sentivo piccolo piccolo e troppo ben vestito. Provavo addirittura simpatia per il padre di santa Dymphna. Me lo immaginavo con la barba rossa, che beveva idromele da un corno di montone, segretamente dubbioso della propria virilità. Andai da Brad Dennis in camera sua a restituirgli l’opuscolo, nella speranza di impegnarlo in un’accesa discussione sulla scienza, la religione e l’eternità. Con Brad c’era Miles Warren. Miles, fresco di due settimane di ateismo, era lo studente più brillante di tutta la scuola. Quando diedi a Brad l’opuscolo dicendogli che la storia di santa Dymphna mi era piaciuta moltissimo, lui ribatté che si era sbagliato a darmi quel materiale. Disse che quella era una storiella per bambini. E mi allungò un altro opuscolo intitolato “Concetti preliminari di psicologia metafisica”. «Ormai solo le Sorelle della Carità credono a quelle favolette sulle beate vergini» mi disse. «Il cattolico di oggi è un tipo esigente che fa domande scomode. Tutto si riduce a questioni di metafisica e principi primi. Ciò che è, è.» «E l’Inquisizione?» domandò Miles. «Al cattolico moderno questa domanda non fa più paura.» «E tutti quei papi con mogli e amanti?» domandò Miles. «Retroattivamente, possiamo dire che non partecipavano davvero del corpo mistico di Cristo, non in senso dottrinale. Pensa a tutte le bugie e le truffe della General Motors. C’è comunque bisogno di macchine.» «Se nella foresta cade un albero» continuò Miles «e non c’è nessuno a sentirlo cadere, quell’albero fa davvero rumore quando precipita a terra, o il suono in quanto fenomeno fisico è subordinato alla presenza di qualcuno, o qualcosa, dotato di udito? L’assoluto dipende da un osservatore con la capacità di interpretarlo? O forse l’assoluto è esattamente quello che la parola implica? E’ una domanda antica quanto Platone.» «Ciò che é, è» fu la risposta di Brad. Il momento migliore a scuola era la vestizione per la partita di baseball o di basket. L’adoravo, quella parola: “vestizione”. Ce ne stavamo seduti negli spogliatoi a prepararci mentalmente in attesa dell’incontro. Avevamo letto tutti di quei giocatori di

football professionisti che prima del calcio d’inizio vomitano per la tensione. Nella squadra di basket avevamo un ragazzo di nome Rich Higgins, che andava sempre nel piccolo gabinetto in fondo allo spogliatoio e cercava di vomitare. Più di qualche conato non era mai riuscito a produrre, ma ci faceva bene l’idea che un compagno di squadra fosse talmente in ansia per la partita da andare in gabinetto a infilarsi un dito in gola. Non appena Rich Higgins tornava fra noi, se non altro svuotato di qualsiasi emozione, Emery, il coach, gridava; «Ci siamo! Forza con la vestizione!». E noi davamo inizio alla vestizione. Nelle partite di baseball era molto più divertente, perché c’era più roba da indossare. Nella squadra di baseball, Brad Dennis era interbase. Non si faceva il segno della croce come quando giocava a basket, ma quando toccava a lui battere, tracciava con la mazza una croce nella terra di fronte al box. Era ottavo nell’ordine di battuta, cosa che aveva procurato qualche protesta da parte di sua madre. L’America, allora come oggi, era il sanatorio di ogni possibile statistica. Ci prendevamo grande cura delle statistiche. Cercavamo di capirle. Facevamo il possibile per mantenerle in salute. Per noi i numeri erano importanti, perché qualsiasi paura avessimo che la nostra mente potesse andare in pezzi veniva in gran parte esorcizzata dall’appagamento di sapere con precisione in quale modo eravamo spinti alla follia, a quanti decibel, a quanti mach, a quale forza di resistenza aerodinamica. Per cui c’era come un trasferimento di pazzia, uno sdoppiamento, fra i numeri in sé e chi li creava e accudiva. Ne avevamo un bisogno estremo, era evidente. Con i numeri eravamo in grado di celare i dubbi. I numeri rendevano sopportabile il presente, preannunciavano gli impressionanti eccessi del futuro e fornivano una sottile configurazione illusoria ai ricordi del passato, per quel che valevano. Eravamo tutti scienziati nati. Tempo di guerra o di pace che fosse, la conta delle vittime per noi era tutto. I numeri hanno perso importanza oggi che sono state disinventate le addizionatrici, i supercalcolatori, i sistemi numerici e i sottosistemi. Tuttavia, ripensando al passato, ricordo quanta importanza avesse per me poter definire una situazione o un periodo di tempo con quanti più numeri possibili. Erano come vere e proprie ancelle della chiarezza. Se oggi mi trovassi sul letto di morte e non sapessi la data esatta, molto probabilmente le cellule del mio corpo rifiuterebbero di arrendersi. Senza un calendario, un cronografo o un misurino sul comodino, non saprei da che parte cominciare per morire. L’inverno del mio quindicesimo anno, Mary conobbe Arondella. Ciò significa che Mary aveva diciannove anni all’epoca. E che Jane ne aveva diciotto, il mio migliore amico Tommy sedici, Kathy Lovell quattordici, mio padre quarantadue e mia madre trentasette. Era l’inverno in cui io e Tommy avevamo portato per la prima volta Kathy al circolo nautico, l’inverno prima dell’estate in cui, a sedici anni, avevo visto per due volte di seguito al cinema “Da qui all’eternità”, con Burt Lancaster. E quell’estate era l’estate della festa. Tranne Mary, in famiglia nessuno aveva mai chiamato Arondella se non per

cognome, e peraltro assai di rado. La vigilia di Natale si rividero per la seconda volta. Dopo che Mary uscì per raggiungerlo da qualche parte, noi restammo seduti in soggiorno a guardare l’albero. «Chissà quanti anni ha» disse Jane. «Non vuole dirmi neanche una parola, per cui non mi stupirei se fosse molto più vecchio di lei.» «Non è tanto l’età a preoccuparmi, piuttosto quello che fa per vivere» disse mio padre. «Mary dice che è nel racket» dissi. «Sì, be’, con Mary non si sa mai se dice la verità o scherza. Se quello è davvero nel racket, qui dentro voleranno tuoni e fulmini. Non permetterò mai che una delle mie figlie vada in giro con un malavitoso da quattro soldi. Gli spezzo tutte e due le braccia, a quello. Vedrete se non gliele spezzo.» «Clinton, tu hai sempre abbaiato molto e morso poco. Di’ la verità, caro, non è così? Non fai altro che minacciare di fare a pezzi questo e quello. Poi, quando arriva il momento, mi guardo in torno e dico: ma dov’è Clinton? E mi sento rispondere: oh, è nello studio a lucidare le sue selle, mamma. Jane, se mai questa casa dovesse andare a fuoco, ti giuro che ti basterà andare dritta nello studio e troverai tuo padre che lucida le sue selle. Fuoco, peste, carestia, ti troveremo là dentro, Clinton, via dalla pazza folla.» «Apriamo i regali e facciamola finita» disse Jane. «Dovremmo aspettare che torni Mary. E sempre stata questa la tradizione di famiglia e non vedo motivo per cambiarla proprio ora solo perché lei è temporaneamente incapace di intendere e di volere. La aspetteremo.» «E se torna insieme a lui?» domandai. «Allora tuo padre gli consiglierà di andarsene. Per risolvere situazioni del genere c’è la diplomazia. Non vedo motivo per ferire i sentimenti di quell’uomo.» «E se rifiuta di andarsene? Se davvero è nel racket, mi sa che non è abituato a prendere ordini. Jane, l’hai visto “L’urlo della città”? Con Victor Mature e Richard Conte. Richard Conte interpreta un gangster e Victor Mature il vecchio amico del suo stesso quartiere che invece è diventato detective.» «E’ questo che fai nel New Hampshire?» disse mio padre. «Passi le serate al cinema? Guarda che mi costa una piccola fortuna mandarti a quella scuola.» Mary non era bella. Ma dal volto traspariva una vivacità, un’intelligenza che riusciva a cancellare la sua insignificanza. Leggeva sempre i suoi scrittori preferiti in pose curiosamente appropriate: Proust distesa, Faulkner con un bicchiere di bourbon, O’Casey con indosso il dolcevita di mio padre. Era un’ottima nuotatrice e giocava benissimo a tennis, per quanto a volte con una punta di condiscendenza: era tutto così facile, il risultato tanto prevedibile. Trattava il resto della famiglia quasi come avrebbe trattato la sua racchetta da tennis: con ruvido affetto e squisita, spensierata noncuranza. Quest’ultimo sentimento, tuttavia, non si estendeva a me. Il suo fratellino. Credo mi volesse molto bene. Quasi tutto quello che diceva mio padre la divertiva molto. «Papà» diceva spesso «fai ridere quasi come Eisenhower.» Lui, invece, più che deliziato da lei,

ne era sconcertato. Credo che mia sorella obbligasse mio padre a mettere in dubbio la struttura della propria natura, perché si rendeva conto che solo la malizia ribelle del suo seme poteva aver generato una simile commediante randagia. Io e Mary giocavamo a dama in soffitta. Cadeva una pioggia gelata. Lei beveva rum liscio da un boccale da birra e fumava una sigaretta come Lauren Bacall, lo stesso fascino distaccato di quei ritmi indolenti. Nonostante fosse tardo pomeriggio, era ancora in pigiama. «Come l’hai conosciuto?» le chiesi. «Qui ha inizio l’avventura, fratello mio. Ma tanto vale che ti metta al corrente, se non altro per prevenire ulteriori sconfitte per mano del re di Westchester. Dopo aver preso la controversa decisione di piantare la scuola, un pensierino sgradevole continuava a tormentarmi. Cosa avrei fatto dopo? Non avevo nessuna voglia di tornare qui, come ormai è chiaro, ma non morivo neanche dalla voglia di trovarmi un appartamento in città e perseguire una carriera da stenografa. Solo a pensarci, mi tremavano le ginocchia. Sapevo solo che dovevo a tutti i costi uscire dall’università. Il Massachusetts non è un bel posto per ricevere un’istruzione, nonostante il parlare che si fa del suo fermento intellettuale. Il ricordo più vivido che ho è quello di bravi ragazzi che vuotavano le pipe sbattendole rumorosamente nei portacenere, spettacolo deprimente oltre ogni dire. Non ne potevo più. Non ne potevo più di sentir ripetere continuamente le stesse cose. E sottolineo continuamente. Sempre le stesse frasi, gli stessi modi di dire, gli stessi paragrafi. Sono ipersensibile, lo so, ma avevo davvero l’impressione che là, come in nessun altro posto, avrei avuto la possibilità di veder avvizzire e morire questo meschino talento che ho di riuscire a trovare difetti in tutto. Mi sbagliavo. Troppo incestuoso quell’ambiente per me. Tutto il grande complesso educativo e nella fattispecie la fabbrica di leccalecca che avevo il privilegio di frequentare. Quella passione per i rituali era opprimente. E ovviamente non c’era una sola persona che imparasse qualcosa. Però un bel ricordino mi è rimasto. La nostra piccola e democratica confraternita per studentesse aveva istituito una specie di cerimonia informale d’iniziazione. Circa un quinto delle ragazze ne era al corrente. Le altre la trovavano troppo disdicevole per delle signore. Era molto semplice. Ogni volta che arrivava una ragazza nuova e cenava per la prima volta in mensa, una di noi diceva a un’altra: Per favore passami quelle cazzo di carote. O frasi del genere. L’altra rispondeva a tono, e in genere continuavamo con questo registro per tutta la cena, tirando fuori le peggiori oscenità immaginabili e sempre con un certo bon ton, come se parlassimo della coltivazione di sisal alle Bahamas. Al dessert, la nuova arrivata di solito era in grave stato di choc. Sto divagando parecchio, vero?» «Arondella» dissi. «Vuoi un sorso di rum?» «Okay.» «Alla fine ho fatto i bagagli» continuò Mary, «Ho preso un taxi e mi sono fatta portare in città, poi sono salita sul primo pullman per Boston. Ho preso un altro taxi e

sono andata alla stazione. Ho pagato la corsa, sono scesa sul marciapiede e lì l’ho visto. Seduto nel suo barcone blu. Che si pettinava. C’erano cinque gradi, ma la macchina aveva la capote abbassata. Lui portava una giacca a vento leggera con le maniche completamente rimboccate. Era sul sedile anteriore, accanto a quello di guida. Ha rimesso via il pettine e ha allungato il braccio destro fuori dal finestrino. Lo teneva piegato e schiacciava il bicipite contro la portiera per farlo sembrare gigantesco. Io cercavo di portare due valige pesantissime, un beauty-case e la borsetta. E sapevo che mi stava guardando. Mi ha detto: Ehi. Mi sono fermata e l’ho guardato, era evidente che si considerava un dono del cielo per tutte le vergini bostoniane, e poi mi fa: Ti porto dovunque tu voglia andare. Da qualunque parte, in territorio americano. Io gli ho detto: New York. E lui: Ehi, sai, era proprio quello il posto che intendevo. E ci siamo sorrisi. Come Leslie Howard e Ingrid Bergman. In seguito ho scoperto che l’avevano mandato a Boston per uccidere un uomo.» «E l’ha ucciso?» «L’avevano arrestato la sera prima. Traffico di stupefacenti o qualcosa del genere. Alla fine qualcuno lo ha ammazzato in galera.» «La settimana scorsa papà ha detto che se è un malavitoso ti proibirà di vederlo.» «David, guarda che non resterò qui ancora per molto.» «Te ne vai con lui?» «Sì.» «Quando?» «Non lo so» rispose. «Ha moglie e tre figli. E’ una situazione a dir poco delicata. Ha una serie di parenti che stanno esercitando una serie di pressioni.» «Cosa fa esattamente nel racket?» «Gira. Adesso è a Syracuse. Viaggi d’affari, così li chiama. A quanto pare, il suo territorio è il Nord dello stato e il New England.» «Ammazza le persone?» «Suppongo di sì. L’ha praticamente ammesso. Non credo proprio che il viaggio a Boston fosse un caso isolato. Ma ci sono diversi tipi di morte, David. E io preferisco quel tipo, il suo tipo, alla morte a cui ho cercato di sfuggire per tutta la vita.» «Dammi ancora un po’ di rum» le dissi. «Non piace anche a te, quando piove così? Tutto grigio e buio. Io li adoro i giorni scuri e freddi come questo. Stiamo facendo proprio la cosa più indicata per un giorno simile. Seduti in soffitta a bere rum. Si sta bene qui, vero? Con quegli alberelli grigi e smunti là fuori e il rumore della pioggia. Ci vorrebbe un po’ di musica. Sarebbe perfetta un po’ di musica d’organo.» «Vado a prendere la radio.» «Vai via da questa casa» aveva detto lei. «Appena puoi, vattene da qui. Scappa a gambe levate, David. Questa casa è maledetta e anche tutti quelli che ci abitano. Mamma è gravemente malata. E se se ne va, se scivola via del tutto, cercherà di trascinarti con lei. Io la conosco bene, David. Sono l’unica che la conosce.»

Io e Meredith ci sposammo fra il mio penultimo e ultimo anno di corso alla Leighton Gage. Una settimana prima, mi arrivò una lettera di Ken Wild. «Ti scrivo perché voglio sentirmi dire da qualcuno se sono vivo o morto. Ultimamente me l’hanno chiesto e io non sapevo cosa rispondere. Per cui, se ti arriva questa lettera, scrivimi appena puoi. Così capirò che sono vivo. E’ proprio vero che stai per sposare Miss Industria Casearia Americana? Al momento mi trovo nei boschi del Michigan a fotosintetizzare. Il mio più grande problema quest’estate, a parte quello della vita o della morte, è che non ho più lezioni da cui tenermi alla larga. A nessun uomo al mondo dovrebbe mai mancare una lezione da bigiare. Sono arrivato fin qui sull’aereo della ditta di mio padre, pieno zeppo di manager diretti ai padiglioni di caccia per riunioni di lavoro e sghignazzamenti sconci. Una tonnellata di carne di maiale pronta per il patibolo. Poco prima dell’atterraggio, uno dei motori si è incendiato. Per prima cosa ho spento la sigaretta. Mi pare che questo si chiami ‘sangue freddo sotto il fuoco nemico’. Ma un secondo dopo ero sull’orlo di una crisi di panico. Gli altri non sembravano minimamente agitati. Possibile che sull’aereo fossero tutti maestri Zen? Alla fine siamo atterrati senza il minimo problema, e io sono rimasto deluso. Perché non mi bastava. Volevo atterrare tra le fiamme con i mezzi di soccorso che accorrevano sulla pista a sirene spiegate. Forse tu capisci questo genere di pathos. Dostoevskij mi sedeva accanto spuntandosi le unghie argute. Vado a pesca, vado a caccia, scrivo i miei versi lacerati. Mio padre vuole che dopo la laurea entri a lavorare in azienda. Per il momento mi limito ad assicurargli che ci rifletterò seriamente. Tutti al mondo desiderano rassicurazione. E’ la monetina che infilano nel distributore di realtà. Non importa se dal distributore esce qualcosa o meno, purché la monetina venga restituita. E un peccato che tu stia leggendo questa mia con tale mancanza di partecipazione. Pensando: povero fesso di Wild, è come tutti gli altri, anche lui si piscia sulle scarpe. Sto scrivendo un poema eroicomico. Non ci crederai. Sto scrivendo un poema eroicomico su un bambino che cresce fra i lupi in Siberia. Diversi editori illustri hanno mostrato un cauto interesse. Mandami qualche notizia dell’arciduca. Gesù, quanto odio le lettere come questa. Se soltanto fossi un po’ meno sano di mente. Allora sì che scriverei poesie maestose come cattedrali!» Mi ero portato la lettera di Wild, con carta e penna e tre lattine di birra, nel mio punto

preferito di Old Holly. Era la discesa dietro la caserma dei pompieri, una radura verde senza neppure un albero, sempre tranquilla, rivolta a ovest di modo che con il calare del sole sulle colline lontane l’erba si colorava gradualmente di verde dorato. La discesa digradava per una trentina di metri fino a una specie di piccola valle, una pietraia arida fra alberi rachitici e il letto di terra scabro di un fiume prosciugato. Dal lato opposto della valle c’era una collinetta con un terreno da pascolo in cima, al confine orientale di una grande tenuta, e dal pendio si vedevano i cavalli pascolare lentamente a testa bassa, il dolce profilo del collo che spiccava contro le alture lontane; oppure fermarsi dove le alture terminavano di colpo, come se pascolassero anche in un prato più basso, stagliati contro il cielo e il succoso tramonto citrino del sole. Wild, naturalmente, non conosceva ancora Meredith. Il soprannome ‘Miss Industria Casearia Americana’ l’avevo coniato io, e Wild si limitava a ripetere la mia pessima battuta. Verso la fine del penultimo anno di corso mi resi conto che le avrei chiesto di sposarmi. E sapevo che in attesa del suo assenso saremmo tornati insieme alla Leighton Gage per l’ultimo anno. I miei compagni di corso, nella loro crescente mondanità, avrebbero senz’altro considerato Merry troppo casta, troppo ingenua, troppo priva di esperienza per essere lasciata libera di varcare i confini di Disneyland. Per cui cercavo di prepararli con una barzelletta qui, un aneddoto là; una battuta di spirito ogni tanto. E in tutto ciò pensavo spesso a lei, in un parco o una piazza di Londra, seduta su una panchina sotto qualche ammiraglio di granito, così graziosa, ad annuire come annuiscono i piccioni, a mostrare il broncio ai bambini imbronciati nelle loro carrozzine, talmente carina e candida, con quei seni fiorenti, salvezza del maschio occidentale, mentre ripiegava un ombrellino giallo. Avevo trascorso le mie belle nottatacce ad amare il mio odio per me stesso. Cercavo di prepararli, nient’altro, di smussare lo scintillio dei loro bisturi famelici. Mi punivo con lunghe nuotate sott’acqua nel lago artificiale, annaspando nel riemergere sotto un cielo che mi scrutava da lenti appannate, con una certa curiosità. E continuavo a prepararli. Sono queste le cose a cui si dedicano gli uomini che hanno orchestrato l’intera vita sul mormorio dell’opinione pubblica. Arrivai al campus con Merry l’autunno seguente. Tutti la giudicarono una ragazza molto carina. Quando scrissi la mia lettera di risposta a Wild, non gli parlai di lei. Non feci il minimo accenno al motore in fiamme e al bisogno di crisi della sua anima. Non dissi niente del suo poema eroicomico, che evidentemente era solo un altro sogno teatrale. A dire la verità, gli scrissi solo una riga: “La tua lettera non mi è arrivata”. Quindi rimasi dov’ero a sorseggiare birra per un’ora. Pensai di aggiungere qualcosa riguardo la sua ambizione di una minore sanità mentale. Wild era davvero convinto di non essere pazzo abbastanza per poter diventare un grande poeta. Io ero più o meno d’accordo, ma non avevo voglia di approfondire. Ero arrivato alla terza lattina di birra, ormai calda e sgasata. Il sole era tramontato ed era ora di tornare a casa. Perfino da questa distanza, stretto nella morsa magnetica di un secolo incombente, mi è molto doloroso scrivere di lei. Mi ci è voluto tanto solo per riorganizzare i pensieri. E

per quanto mi sembri di essere riuscito a fare i conti con tutto, sarà interessante vedere se sarò o meno in grado di metterlo su carta con chiarezza e sincerità. O se invece dovrò alzare un po’ di fumo su questo o quell’altro episodio. Un po’ di fumo per nascondere il fuoco. Un’estate lei comprò due bambole, una per Jane e l’altra per Mary. Jane le mise tutte e due sulla cassettiera in camera sua. Ma mia madre si oppose, per cui la bambola di Mary fu spostata nel la sua camera ormai deserta. Jane cercava sempre di discutere con me di queste cose. Nella sua confusione, le restava il conforto del suono delle voci. Era un suo credo che la tragedia fosse evitabile, o quanto meno trattenuta dall’irruzione dell’oscurità travolgente e incomprensibile, da due persone ragionevoli sedute a discuterne in una stanza accogliente. Io non avevo nessuna voglia di parlarne. Temevo molto meno il silenzio che il coinvolgimento delle parole. Distanza, silenzio, buio. Nella vastità di tutto ciò speravo di sottrarmi al bisogno di comprendere e di distruggere ogni possibilità di spiegazioni. Jane entrò in camera mia con la teiera, chiudendosi la porta alle spalle. «Cosa facciamo?» chiese. «Per cosa?» «Lo sai benissimo.» «Non c’è niente da fare» risposi. «Dovremmo cercare un medico. Qualche strizzacervelli di Park Avenue. Ma sta a papà deciderlo, giusto? Vorrei finire questo libro e riportarlo in biblioteca prima che chiuda.» «E delle bambole cosa ne facciamo?» «Lasciale dove sono e morta lì.» «Secondo te cosa significano, David?» «E io come diavolo faccio a saperlo? Adesso lasciami finire questo libro in pace.» «Puoi finirlo domani.» «Devo restituirlo.» «Dev’essere qualcosa che riguarda la nostra infanzia» proseguì Jane. «Forse sta cercando di farsi perdonare qualcosa.» «Certo. L’infanzia. Non c’è dubbio.» «Sto cercando di ricordare se ho mai avuto bambole come questa, da piccola. Forse allora volevamo proprio questo tipo particolare di bambola e lei non ce le ha comprate perché costavano troppo. Hanno l’aria di costare parecchio. Vorrei tanto che Mary fosse qui.» «Senti, ha solo comprato un paio di bambole. Non capisco cosa ci sia da farla tanto lunga. Da parte mia dico solo che sono offeso che non abbia preso niente anche per me. Io volevo l’autocarro dei pompieri, No tocallo dei popei per Dabid. Dabid vuole un bel tocallo grande dei popei tutto losso. Dabid vuol giocare con Jane e Mary. Ma mammina no compla bei giocattoli per lui. Adesso Jane vai via che Dabid legge suo libicino. Vai via, Jane. Ciao ciao. Jane va via. Guarda Jane che se ne va. Jane è tanto arrabbiata.

Guarda com’è arrabbiata Jane. Jane sbatte la porta della camera di Dabid. Cattiva, cattiva. Tahe è sparita. Ciao ciao, Jane.» L’aprile seguente; a scuola, mi chiamarono al telefono. Era mio padre. Ricordo benissimo cosa indossavo quel giorno. Top-Sider bianche, calzini bianchi di spugna, calzoni verde oliva e una vecchia felpa da baseball, bianca con i bordi blu e il numero nove. Mentre parlavamo esaminavo con grandissima attenzione i miei capi di vestiario, come in una veglia mescalinica, a cercare con lo sguardo quelle esplosioni di bellezza che pare si nascondano nella trama di un tessuto. «Cattive notizie» mi disse. «Che c’è?» «A tua madre è successa una brutta cosa.» «Sta male? Cos’ha?»» «Penso stia per morire, ragazzo. L’hanno scoperto troppo tardi.» «Cosa?»» dissi. «Cosa?» «Cos’è che hanno scoperto?» «Pare sia cancro. Non vuole anelare in ospedale.» «Un cancro dove? In che parte del corpo?» «Prendi il primo aereo che trovi. Manda un telegramma e ti vengo a prendere all’aeroporto. Se ti servono soldi, te li spedisco subito. Ma ascolta, cerca di fare più in fretta che puoi. avrei dovuto chiamarti già da settimane, ma non riuscivo a credere a quello che stava accadendo. Ci sta crollando tutto addosso. Come diavolo faccio adesso a rintracciare Mary?» «Dov’è che ha il cancro?» ripetei. «Dentro. Nelle parti femminili. Senti, non possiamo parlarne dopo? Queste cose può spiegartele il medico meglio di me.» «Chi è il medico?» «Ho chiamato Weber.» «Weber deve andare fuori dai coglioni» dissi. «Non ce lo voglio Weber lì con lei. Trova un altro medico. Trova chi ti pare. Ma Weber caccialo via.» «E’ tutta colpa mia» disse lui. «Ho sbagliato tutto. Avrei dovuto obbligarla a farsi gli esami anni fa. Avrei dovuto farla vedere da un dottore per l’altra cosa. Adesso c’è questa, ed è troppo tardi. Sai che è strano, ragazzo? Lei ha detto esattamente la stessa cosa. Di mandare via Weber.» In aereo c’era un vago odore di vomito di bambino. Sorvolammo le nuvole tempestose sopra le montagne fino a emergere nel cielo azzurro pomeridiano. Quando uscii dalla toilette un uomo mi fermò e si presentò. Disse che a sua moglie avrebbe fatto piacere un mio autografo. Disse che mi aveva riconosciuto e chiese se potevo salutarla quando le sarei passato davanti per tornare al mio posto. Risposi che mi aveva scambiato per qualcun altro. Lui ribatté che non aveva importanza, di firmare con un nome qualsiasi Per cui mi firmai Buster Keaton, e quando passai davanti al sedile di sua

moglie, lei mi prese la mano dicendo quanto era felice di conoscermi e quanto ero gentile a interrompere i miei impegni di lavoro per salutare un’ammiratrice. Un’ora prima dell’atterraggio, l’uomo venne a offrirmi una banconota da venti dollari. Per tutta la durata del volo, mio malgrado, continuai a immaginarmi strane proliferazioni nell’utero di mia madre. Nel vaso c’erano sette zinnie avvizzite. Mio padre mi sussurrava, mentre lei dormiva. Era la cervice. Lo avevano scoperto ormai in fase avanzata. Il medico voleva asportare tutto quanto. Lei si era rifiutata. Aveva detto a mio padre che lo sapeva già da tempo. Aveva avuto perdite di sangue inspiegabili e da allora lo aveva sentito espandersi come una peste, irradiarsi nel corpo come la morte nera medievale. Lui si era reso conto che qualcosa non andava solo quando lei aveva avuto un collasso. E si era rifiutata di lasciarsi rimuovere alcunché. Dio è stato sconfitto, diceva.. E non ci sono bisturi e pinze al mondo in grado di rimediare alla sua disfatta. Lui viveva nel mio corpo, e io l’ho lasciato uscire. Era la luce del mio corpo, e io l’ho soffiato via da me. Io credo al medioevo. Fuoco per le streghe e peste per i peccati del mondo. Io credo all’antico Egitto. Tutte cose che mi sono state lette da una donna bellissima e radiosa in un giardino pieno di sole. Aprii la finestra. La stanza si riempì del vapore dolce di aprile, e quando mi sfuggì un sospiro parve quasi possibile credere che qualcuno o qualcosa all’esterno me lo restituisse, qualcosa che infuriava nel vento contro gli alberi protesi, qualcosa di terribile che sfiorava l’erba, un istante in cui la natura cedeva allo stupro, simile a un uccello in volo, infangato di sangue. Jane mi toccò la spalla. Sulla soglia c’era il reverendo Poster, come una nave dentro una bottiglia messa in verticale. Mio padre si chinò ad allacciarsi la scarpa. Sentivo scampanellare il camioncino dei gelati. La mattina dopo facendomi la barba mi tagliai. Il sangue si arrestò sette minuti dopo e allora capii che potevo uscire senza timore. «Era una gatta di razza tutta speciale» diceva mio padre. «Sapeva cose che nessun altro sapeva. Quella donna aveva qualcosa di magico. Non credo ai diavoli, ai santi e agli spiriti maligni. Per me, quel che non vedi non esiste. Ma quando tua madre parlava di cose simili era difficile rimanere scettici. Sua madre è affogata quando lei era bambina. Forse questo ha influito. Ricordava alla perfezione cose che le erano successe quando aveva appena due anni. Forse le sognava e basta, ma se anche fosse, riusciva a farle sembrare più che vere. Quando era incinta di Mary, nel momento preciso in cui si è resa conto di essere incinta di Mary, ha detto subito che era una bambina. Ha detto che era l’anima-aquilone di sua madre. L’anima-aquilone. Suona molto orientale, vero? Una cosa da buddhisti, o da indù. Qualcosa che c’entra con la reincarnazione. Non avevo mai sentito quell’espressione prima, e non l’ho più sentita dopo. Ma per tornare a Mary. Mary, appena nata, assomigliava a me più di chiunque altro. E quando è nata Jane, sembrava praticamente ormai certo che il ramo biondo della famiglia si fosse estinto, il

ramo di tua madre e di sua madre. Ann era disperata. Secondo me pensava che una stirpe intera si fosse estinta per catastrofe genetica. E poi sei nato tu. Ti ha guardato e ha detto: eccolo qui, emerso dai mari d’Irlanda proprio come Licida. Come amavo lei non potrò amare mai più niente e nessuno al mondo. Quando sei nato tu era felice e non importava cosa diceva o quanto poco la capissi. Era felice e solo questo contava. Almeno di questo devo ringraziare te.» Mio padre mi disse che a mano a mano che lei si avvicinava alla morte, lui aveva cominciato a bere come un disperato. Poi un giorno aveva smesso. Completamente. Aveva smesso di bere, era salito sulla sua Maserati ed era partito per la prima di una lunga serie di strane escursioni lungo le strade anguste e buie intorno alla città. Usciva poco dopo mezzanotte e si metteva al volante. Accelerava fino ai centottanta, prendeva le curve attorno ai centoventi, spingeva la macchina al margine estremo della carreggiata e la pressione leggera del piede sull’acceleratore entrava in un gioco di equilibri morbidissimi, con le mani sul volante che lo sfidava verso gli occhi accecanti che schizzavano nella corsia opposta. Una notte che pioveva fece un testacoda finendo in un fosso. Uscì dalla macchina con la testa sanguinante e tornò in città a piedi. Deviò di un paio di chilometri per attraversare il quartiere dei neri di Old Holly, bar e vecchi scheletri di case. Aspettava che da un androne uscisse qualcuno armato di coltello. Mi disse che per tutti quei mesi non aveva fatto altro che tentare di sottrarle la morte dal corpo. Pensava che affrontandola di persona sarebbe riuscito a tenerla lontana da lei. E quell’ultima notte da un bar uscì un uomo che cominciò a seguirlo. Mio padre girò un angolo, strinse i pugni e rimase in attesa. Pioveva ancora e mio padre sentiva in bocca il gusto del sangue mescolato a quello della pioggia. L’uomo girò l’angolo e gli si avvicinò, poi cominciò a ballare il tip-tap. Mio padre rimase immobile e l’uomo si mise a ballargli intorno, strascicando lentamente i piedi e borbottando una canzoncina alcolica. Quando fece per andarsene, l’uomo lo seguì a distanza di qualche metro, ballando e facendo ticchettare le scarpe con l’eleganza rilassata degli irredimibili ubriaconi. Mio padre camminò a ritroso per quasi mezzo isolato, fissando l’uomo che si avvicinava. Poi si voltò in fretta e cominciò a correre, sentendo ancora il ticchettio dietro di lui svanire gradualmente, la voce dell’uomo affievolirsi, un gemito affannoso di paludi e campi di cotone, parole di una lingua sconosciuta. Per anni avevo considerato mio padre un testimone. Morta mia madre, diventò molto di più. Il legame che ci univa si rafforzò ulteriormente, e lui cominciò a incombere su di me. Ci ritrovammo in piedi sul prato erboso insieme a decine e decine di persone. L’eleganza della bara fu di grande conforto per tutti. Guardavo i presenti e capivo che erano orgogliosi di lei. Essere sepolti con tanto sfarzo. Senz’altro la sua vita doveva essere stata grandiosa. Per un attimo, pensai a quei leggendari sceicchi che si schiantano sempre contro qualche albero in compagnia delle loro ninfomani sulla strada fra Parigi e Nizza. C’è una certa sostanza nei luoghi comuni, e finiamo sempre per ammirare uomini e donne del genere, che hanno l’arguzia di morire come sono vissuti. Il pensiero se ne andò com’era venuto, e mia madre si inabissò nella sua Ferrari d’argento, con una rosa

adagiata sul cofano. «Ci sta guardando» disse mio padre. «Voi credete che sia lì sotto, ma non è vero. Non una come lei Ci sta guardando. Ci osserva per vedere cosa ci faremo a vicenda.» Meredith, tornata dall’Inghilterra, trovò lavoro come segretaria a Manhattan. Un giorno andai in città a comprarmi un paio di scarpe e ci trovammo a pranzo. «Come va il lavoro?» «Lo adoro» rispose lei. «Hai già ripreso il ritmo? Mi sa che ci vuole un po’ per abituarsi. Ti sei fatta una bella vacanza.» «New York è il posto più entusiasmante al mondo dove lavorare. Londra per passeggiarci, New York per lavorarci.» «Mi sei mancata» le dissi. «Forse te ne sei accorta dalle mie lettere.» «Erano molto carine. Molto creative. Non so dirti quanto mi sia dispiaciuto per tua madre.» «Ti sto chiedendo di sposarmi.» «Non sono fatta per te» rispose. «Due daiquiri con ghiaccio.» «Hai bisogno di una donna molto più matura.» «Mi vuoi sposare?» «No.» «Ma almeno ci penserai? Starei molto meglio se mi dicessi che almeno ci rifletterai. Non chiedo molto. Che ci pensi su per una settimana. Poi ne riparliamo. Ti vengo a prendere e ce ne andiamo in un posto tranquillo, ceniamo insieme con calma e ne parliamo. Conosco proprio il posto ideale. Appena fuori Westport. In questo periodo dell’anno è una scampagnata molto gradevole. Ti piacerà. Il bancone del bar è tutto piastrellato di monetine da mezzo penny. Veri mezzi penny inglesi. Ceniamo con calma e ne discutiamo, poi ti riporto dritta a casa.» Mary era felicissima che Arondella portasse scarpe con i tacchi da tip-tap. Di pomeriggio fiorivano gli studi sui soliti uomini inglesi defunti. Li attendevamo con ansia, figli di Bread Street e della canonica di Aldwinkle. Eravamo a maggio del mio ultimo anno alla Leighton Gage, e il martedì e il giovedì pomeriggio andavamo tutti a sederci in una grande clessidra con l’aria condizionata a goderci la nostra totale incapacità di comprensione mentre l’assistente illustrava le poesie di Dryden, Lovelace, Fanshawe e Suckling. Erano così incomparabilmente morti, i poeti della Penguin: e noi li adoravamo perché i loro versi ci erano ancora più oscuri della faccia nascosta della luna. Era la lezione ideale per il pomeriggio, un esercizio di puro linguaggio che richiedeva la minima attenzione non essendoci la benché minima speranza di capire il senso di quelle poesie; per cui sonnecchiavamo e sorridevamo, felici nella nostra piccola

infanzia angelica, comodi nella nostra barchetta sul Tamigi, e quando il rutto ultrasonico dei jet sperimentali strappava in due il deserto, mancava poco che applaudissimo al simbolismo; ma sarebbe stato un applauso tremante, perché sapevamo tutti che quel clamore presagiva la morte della nostra quieta e sonnolenta Inghilterra e l’inizio di una nuova mortalità a cui mancavano ormai solo pochi mesi. L’inizio di una vita di lavoro, matrimonio, figli, scrivania, bere, poltrone, genuflessioni, tremarelle e morte. Il pomeriggio era dedicato alle scienze politiche e agli inglesi defunti. Per questo i lunedì pomeriggio erano così terrificanti. Il lunedì significava Zen. Hiroshi Oh era un ometto di fragilità quasi allarmante. Nell’aula dei seminari, prendeva posto nella sua sedia per gradi, con grande cautela, sempre sul punto di volar via, poi rivolgeva ai suoi fanciulli un sorriso desolato. Bei ragazzoni americani alti e biondi, pronti per lo Zen? Mi piaceva molto quel suo sorriso d’apertura. Era il sorriso dell’Oriente tediato, esausto della verità, costretto alla quiete interiore, indifferente all’occidentalizzazione. Sedia e cattedra del relatore si trovavano su una piattaforma antistante quella platea così igienizzata, simile alla mensa di un padiglione di secondo ordine a una fiera internazionale. C’erano posti a sedere per duecento studenti, ma al corso del dottor Oh eravamo iscritti solo in trenta. Nell’aula eravamo ben sparpagliati: cinque o sei in fondo, gli altri appostati qua e là in modo da risultare difficili bersagli. Alcuni cercavano di mimetizzarsi con l’abbronzatura, dello stesso color terra di Siena dei banchi. Le pareti, e anche il soffitto basso, erano in vetro; il pavimento aveva qualcosa che mi ricordava un tappeto di scarafaggi spiaccicati, un’intera civiltà di scarafaggi triturati, cotti al forno e piastrellati nelle Cucine di Sara Lee. Un luogo perfetto per lo Zen. Quei lunedì pomeriggio erano colorati di sole e fluido viscido d’insetto. Lo Zen aveva ben poco a che spartire con gli inglesi defunti e nessuno osava sonnecchiare. Era il sonno assoluto o la coscienza assoluta. Tutti sceglievano il sonno, che però sembrava volerci sfuggire; pareva sempre lontano giusto una manciata di secondi, un torpore magico dipinto con morbida tempera primaverile, con alberi di un verde nuovo eretti nel vento, con gli odori di terra pulsante, e l’enigma di una donna che sa di petali che attraversa un ponticello su un fiume. Era il sonno perfetto, ma non scendeva mai veramente. Colmava l’aula sopra di noi, aspettava al confine della mente di ciascuno. Era un sonno che desideravamo con tutto il cuore, perché avevamo vent’anni e cominciavamo a capire che l’invincibilità non esiste. Volevamo radunare quel po’ che ci restava di coraggio e speranza, e confinarlo in un sogno. La bellezza era troppo difficile e la verità in Occidente era morta insieme al Grande Capo Cavallo Pazzo; ci attendeva una vita di piccole sconfitte. Lo sapevamo, e sapevamo anche che il sonno era l’unica attività della vita che non riduceva le possibilità individuali. Ma il sonno perfetto non veniva mai. Il sole si tratteneva alla finestra, e in quei lunghi pomeriggi ascoltavamo Hiroshi Oh mentre ci parlava della necessità di sciacquarsi dalla bocca il nome di Buddha, di acqua e carburante estratti dai pozzi, che meraviglia, che miracolo; mentre ci parlava dell’immobilità nel movimento, della necessità di diventare una canna di bambù;

mentre salmodiava instancabile con voce simile al ronzio di un motorino che spinge in volo una farfalla, e noi volgevamo lo sguardo al sole oltre la vetrata sognando il sonno che sarebbe giunto luminoso come un risveglio. Oh ci assediava con tonnellate di piume di passero, ed era veramente meraviglioso e miracoloso, con un tale sentore di inaccessibile e di antico che in un punto oscuro dell’anima provavamo tutti un istinto di ribellione. Fu nell’ora del dottor Oh che uno studente, un certo Humbro, mangiò la sua copia dell’introduzione allo Zen di D.T. Suzuki. Humbro sedeva tre posti più in là, ma in mezzo a noi due non c’era nessuno. Un giorno lo vidi strappare una pagina dal libro e mangiarsela. Sembrava piacergli. A ogni lezione, mangiava qualche pagina. All’inizio di maggio, si era mangiato tutto quanto il libro. Humbro venne riverito in quanto eroe esistenzialista. Mentre divorava il libro non cercava affatto di nascondersi allo sguardo del dottor Oh, ma il professore non sembrava curarsene; quantomeno non diceva nulla al riguardo, e ci convincemmo tutti che in segreto approvava il gesto. Bisogna diventare un libro, prima di poter sapere che cosa contiene. Arrivò dunque l’ultimo lunedì di maggio, l’ultima settimana di quell’ultimo anno, e per tutto il campus risuonavano le grida delle offerte di lavoro, il frullare d’ali e il gracchiare della mortalità, la General Dynamics e la I.B.M., voci che correvano libere per il paese, gigantesche targhe alate che sbattevano sopra i dormitori, amore eterno e baseball, l’equinozio di primavera, la luna e il fluire delle maree, un diplomatico della Boeing con gli occhiali di tartaruga e il dito verso il cielo. All’ora di Zen ci ritrovammo in quattro, quattro su trenta. Il dottor Oh ci gratificò di un sorriso ancora più desolato del solito e ci accompagnò fuori, in un boschetto lontano dal campus in cui avrebbe tenuto lezione, come nel Medioevo, all’ombra incerta di una palma. Andò a sedersi ai piedi dell’albero, e noi ci sistemammo in cerchio intorno a lui, seduti a gambe incrociate in un’ultima “captatio benevolentiae”. Oh ci parlò del Vuoto. Disse che la mente è una scatola vuota dentro un’altra scatola vuota. Con l’indice tracciò un segno a mezz’aria, un gesto, il nome-forma, la linea unica del cerchio che si chiude. Disteso sulla schiena, guardavo il cielo spostarsi nei varchi azzurri tra le foglie. Poi chiusi gli occhi e pensai al sonno. Il Vuoto è Pienezza. Diventate il libro. Diventate la canna di bambù. L’oscurità scorreva verde e superficiale. Poi diventò nera, accogliente come lo spazio cosmico, e allora sospirai forte e mi decisi a procedere in una nuova galassia. Cosa capivo di tutto ciò? L’episcopale con le labbra screpolate. Oh cantava e salmodiava a bocca chiusa. Notate il paradosso. Una scatola vuota dentro una scatola vuota. Enumerò altri paradossi, conflitti incruenti, problemi interpretativi di fronte ai quali i maestri dell’antichità scuotevano il capo in segno di disaccordo. Oh aveva l’abitudine di rivelarci profondissimi principi Zen disseminando con cura le prove della loro indiscutibile verità, solo per metterci di fronte subito dopo a un’altra teoria completamente diversa ma di verità altrettanto indiscutibile. Sembrava divertirsi molto a spezzarci la mente, a rovesciarci addosso secoli e secoli di confusione, come per dire: se i grandi maestri e gli illuminati della storia non sono riusciti a trovare un’interpretazione comune, come potrete mai voi capire in cosa credere, poveri bianchi creduloni bastardi?

Nell’oscurità maculata, steso sulla schiena, ascoltavo lo scorrere acquoso della sua voce, cercavo di sentire i silenzi che con grande perizia inseriva tra una parola e l’altra. Levate le palpebre. Svuotate la mente. Guardate la pietra come la vedono le altre pietre. Mai promessa di sonno immortale è stata più potente che qui, all’aperto, sull’erba calda e femmina. Mi sentivo sul punto di abbandonare l’universo. Ma ogni volta erano le parole del professore, che sembravano lontane secoli, a riportarmi indietro. Ci provai ancora e ancora, e tutte le volte ritornavo indietro. Poi riaprii gli occhi e mi misi a sedere, e allora vidi che erano tutti distesi per terra, i miei compagni di studio, con gli occhi chiusi e il ventre che si sollevava e riabbassava piano, che tentavano di abbandonare questo piano dell’esistenza. Oh mi guardò e mi fece cenno di stendermi di nuovo con un sussurro degli occhi, stenditi, ragazzo mio, questa è la tua ultima occasione, domani arriveranno a prenderti le multinazionali, mai più ritroverai questo istante, la possibilità di catturare il sonno del risveglio. Mi distesi e richiusi gli occhi. Mi domandavo se gli altri ci fossero riusciti. C’era Humbro, il divoratore di Zen, un metro e mezzo più in là. Wild non c’era. Wild era nel solarium, senza dubbio con un ghigno sulle labbra, a riassumere la storia del third stream jazz a una ragazzina venuta dal freddo. L’oscurità si spalancò e io capii che al suo interno, in profondità, c’era posto anche per me, ma non riuscivo a fuggire. Ricordati dell’Arizona. Aprii gli occhi e vidi il professor Oh alzarsi in piedi e poi dire: «Alzatevi, bambini». E noi ci alzammo. Ci ritrovammo nel solarium e dopo un rapido sondaggio scoprimmo che nessuno di noi si era addormentato durante la lezione. Neanche uno. Wild ci disse che era ora di prepararsi. Stavano davvero arrivando le multinazionali, con i loro grafici e le corsie d’emergenza. Si alzò in piedi e ci impartì una benedizione semplice, generica, non conoscendo la procedura formale per l’ultimo rito. «La nostra famiglia ha una lunga tradizione umanitaria» disse mia madre. «Un mio antenato intercedette presso il presidente Lincoln in persona per conto dei poveri e malconsigliati indiani del Minnesota.» «Ann, che c’entra con il college in cui lo mandiamo?» «Per i miei antenati l’Università della Virginia è sempre andata benissimo.» «Ma lui vuole andare in quel posto all’Ovest. Lascia che vada dove preferisce.» «Ho deciso» dissi. «E’ là che voglio andare.» «Sono tre anni che io e tuo padre discutiamo se mandarti alla Princeton o alla Virginia. E adesso salti fuori dicendo che vuoi iscriverti a una scuola in California di cui nessuno ha mai sentito parlare. C’è Mary dietro questa cosa, vero? E’ stata lei a dirti di andartene lontano da qui. Be’, maledizione, non ho nessuna intenzione di lasciarti scorrazzare a cinquemila chilometri da casa.» «Ann, rilassati. Ne riparliamo domani.» «Sta’ zitto. Chiudete la bocca tutti quanti. C’è quella zoccoletta dietro questa storia. Quella stronzetta schifosa. Di chi è? Mia no di certo. Non mi assomiglia neanche. Non ragiona come me. Lui, lui è mio. Quel ragazzo. Lui sì che è mio. Di chi è Mary, Clinton?

Se non mia, allora di chi? Per esclusione si finisce per arrivare a te, vero o no? Guarda che da bambina ero un piccolo genio in grammatica. Questo te lo posso dire subito. Dio. Dio santissimo. Fa’ quello che ti pare, David. In fondo, che importa? Chi se ne importa di cosa succede agli altri?» L’estate in una piccola città può essere micidiale, ancora peggio di quelle nei ghetti urbani o di quelle pesanti e umide dei porti sul golfo. Non è l’implacabilità della sporcizia o della disperazione, e non tutti ne soffrono. Ma ci sono giorni, ai margini dei pomeriggi striati negli abissi ricorrenti del tempo, in cui dalla luce all’ombra sembra trasmettersi un messaggio di terrore. L’estate si dispiega lenta, un silenzio felpato che si srotola gradualmente sull’acciaio dilatato, e i giorni iniziano a muoversi in rima, quando le distanze si gonfiano insieme ai ponti e il caldo scioglie l’aria, quando il marciapiede si incrina, quei giorni in cui sembra che non esista creatura vivente sulla terra a parte le farfalle, la mantide religiosa intorpidita, il ragno che si arrampica sul rastrello spezzato e infangato nel buio di un garage. Da ogni finestra sembra sul punto di venire un urlo. Il pericolo che incombe sulla vita della gente tranquilla è che quando arriva il momento fatale, quando la bocca si socchiude, il suono che ne scaturisce è destinato a ridurre in pezzi qualsiasi cosa si muova nel raggio di chilometri. E questa minaccia si fa sentire particolarmente in estate, nei grandi filari di luce solare, quando gli anziani camminano per i giardini ronzando come insetti o siedono nella quiete tinta di grigio delle stanze per gli ospiti a sventagliarsi con riviste che parlano del Siam e di Zanzibar a seno nudo, oppure escono in veranda in cerca di fresco o mangiano un gelato all’emporio fra due zitelle sedute a roteare sugli sgabelli girevoli sotto i ventilatori immobili, e quando alla fine arriverà il momento, tutto questo andrà in pezzi. Non è una sensazione di tutti i giorni, e solo alcuni riescono a percepirla. Forse non ha la violenza dei ghetti urbani, dove il catrame si scioglie sui tetti e i ragazzi urlano il loro odio per i caschi bianchi, ma è proprio nel silenzio e nell’astuzia di quei giorni in rima che l’estate, in una piccola città, riesce a capovolgere le emozioni alla velocità della follia. E lo si sente soprattutto di domenica. Le chiesette bianche e pulite che si ergono tra fronde di sole. Nonni poliziotto, con quei cinturoni assurdi sulle pancette debordanti, dirigono qualsiasi mole di traffico si crei in uscita dai parcheggi dopo le funzioni religiose. I fedeli scendono le gradinate sudando e battendo forte le palpebre, lenti e con l’estrema cautela richiesta da un ambiente inesplorato e più vasto, diretti ai giardini o ai parcheggi in cui le automobili sembrano nuotare nell’incandescenza bluastra della ghiaia. Metallo rovente al tocco, miasmi infernali all’interno. La domenica, nei grandi corridoi di luce, è come se tutto il torpore della cristianità si riversasse sulla nazione. In quegli attimi sfolgoranti, davanti agli uomini con il colletto inamidato e le bambine in scarpette bianche sui gradini delle chiese, si percepisce tutto il silenzio di Lutero, dei picnic battisti, dei giovani seminaristi che giocano a softball, dei papi seduti sui vasi da notte, dei temibili metodisti che risalgono le colline al volante delle loro carrette; delle Testimoni di Geova adolescenti che distribuiscono opuscoli, degli arcivescovi ortodossi,

dei revivalisti che vezzeggiano serpenti sulle Great Smokies, dei calvinisti che suonano la cornamusa, delle bibbie di Gedeone lasciate a ingiallire in giro per il Missouri. E tutti, immersi in un fiume di silenzio, ricordano di riposare il settimo giorno. Io, mia madre e Jane tornammo a casa a piedi dalla chiesa. La gente si salutava con cenni del capo, i volti tesi nel riverbero del sole, avviandosi ognuno per la propria strada. Passò qualche macchina diretta al lago, carica di salvagenti e bambini in costume da bagno. Poi svoltammo nella via di casa nostra, e io cominciai a correre. Corsi al piano di sopra e indossai vestiti vecchi. Poi arrivò mio padre con un sacchetto bianco pieno di ciambelle. Succedeva tutte le domeniche. Io aprii il sacchetto, tirai fuori le ciambelle e le dita mi si impastarono di glassa zuccherata. Poco dopo era già pronto il caffè. Jane non voleva uova e bacon, perché faceva già troppo caldo per una colazione vera e propria. Mia madre non voleva l’aria condizionata in casa. Ci sedemmo tutti a mangiare le ciambelle. In silenzio. Poi mia madre disse che la colazione era il pasto più importante della giornata. In Virginia, quando era piccola, a colazione si mangiavano cereali caldi, fragole, uova, prosciutto e pane fatto in casa. Sul pane spalmavano burro e marmellata. Tutti bevevano latte fresco invece che caffè. Dopo di che calò di nuovo il silenzio. Erano le dieci del mattino. Uscii sulla veranda. Erano solo le dieci, ma faceva già caldo come alle tre del pomeriggio. Poi anche .Jane uscì: disse di ricordare che da piccoli sedevamo insieme sulla veranda e giocavamo a indovinare quale marca di automobile sarebbe passata davanti a casa. Ricordava di avere previsto un giorno che sarebbero passate tre Buick una dietro l’altra, e aveva indovinato. In realtà era stata Mary a prevedere quelle tre Buick di fila. Ma a Jane non lo dissi. Andai al lago, a piedi. Sotto gli alberi c’erano altalene e laghetti con lo scivolo. Andai a sedermi ai margini di uno dei laghetti a guardare i bambini che sguazzavano nell’acqua bassa e i più grandi che giocavano a spingersi giù dalla piattaforma bianca. I ragazzi avevano il naso imbiancato dalle creme solari, e sulla piattaforma andarono a sedersi due ragazze con la schiena al sole e le spalline dei bikini slacciate che penzolavano sui seni. Mi girai e vidi una bambina in cima allo scivolo. Mi spostai di lato, e lei si gettò dalla rampa metallica lentamente e con una certa goffaggine. Non avevo voglia di nuotare, né di guardare gli altri nuotare, per cui mi diressi verso Ridge Street e comprai una rivista in un emporio. L’emporio aveva il parquet per terra e un sifone per il seltz. Ero nel pieno di quel desiderio di solitudine che invade i sedicenni nel momento in cui si rendono conto che in quel preciso istante, altrove nel mondo, ci sono giovani che stanno cacciando condor su dirupi scoscesi e bianchissimi, o stanno facendo l’amore con donne nate a Singapore che parlano sussurrandogli all’orecchio. Nella sua desolazione, è lo stato d’animo più romantico di tutti. In situazioni del genere si parte per lunghe passeggiate che assomigliano a pagine di un romanzo francese. Si è convinti di essere alle soglie di un grande incontro che cambierà la vita. Magari con un vecchio giardiniere che ci accompagna in una soffitta, suona il violino come mai l’abbiamo sentito suonare prima e ci spiega il segreto dell’esistenza. O una donna dalla pelle scura

su una cabriolet scintillante che ci accosti, si allunga di lato senza una parola ad aprirci la portiera e ci porta in Messico per spogliarci con calma. Avevo comprato una rivista di baseball. Andai a casa a leggermela sulla veranda. Da una macchina di passaggio si allungarono a salutarmi delle persone. Faceva caldissimo, e non si muoveva foglia. Mio padre mi raggiunse. «A che ora è la festa?» gli chiesi. «Comincia alle otto.» «Secondo te devo vestirmi bene?» «Assolutamente sì.» «Spero, che stasera rinfreschi un po’.» Tornò in casa. Dopo un po’ uscì mia madre. «Guarda che devi vestirti bene» mi disse. «Non farti venire idee strane.» Tornò in casa e io mi lessi un altro articolo della rivista. Poi entrai anch’io. Mia madre era in cucina che guardava un vassoio di paste. Andai a sedermi in soggiorno. Nell’aria c’era un sentore di densità. La luce penetrava dalle finestre a ondate ritmiche di pulviscolo. Ero sulla grande sedia a dondolo verde di mia madre. Ai miei piedi c’era il cestino del cucito. E’ così che si muore, pensai. Tenevo il braccio destro allungato sul bracciolo, sul tessuto teso a disegni floreali, la mano curva sull’intaglio ornamentale del legno, mogano scuro arrotondato e scolpito a zampa di leone. Il braccio sinistro penzolava oltre il bracciolo quasi a toccare terra, le caviglie incrociate. Portavo mocassini marrone, calze bianche, salopette e una vecchia felpa blu scuro con le maniche tagliate sui bicipiti a circa un quinto della lunghezza. Non mi dondolavo. Avevo cambiato umore, ero passato dal senso di solitudine con annesso desiderio di vagabondare per il mondo a una specie di strana nullità di matrice europea. Mi sembrava di potermene stare lì seduto a soffrire in eterno. Mi pareva un atteggiamento di valore. Si sta seduti immobili per anni e anni, e prima o poi le cose iniziano a ruotarci intorno, idee, persone, guerre; tutto che dipende per la propria follia e il proprio splendore da quella sorgente di luce che è l’inerzia umana. Basta fermarsi nello stesso punto per un po’ e si vedranno arrivare statisti e generali a chiederti un parere. Forse non era una sensazione tanto europea quanto asiatica o nordafricana. Ma aveva anche qualcosa di europeo, o perlomeno russo, l’idea di passare lunghi inverni da lupi, seduti, in esilio, mentre fuori crollano i governi e gli uomini si rendono ridicoli. Poi, alla fine, si sente bussare alla porta. E’ corsa la voce che sei rimasto seduto per anni senza fare niente. Tu devi essere uomo di grande saggezza. Vieni con noi nella capitale e aiutaci a sistemare le cose. Stavo sulla sedia di mia madre a pensare a tutto questo, più o meno, e sfidarmi a non battere le palpebre. Poi sentii un rumore, e quando diventò più forte capii cos’era: motociclette, un ruggito gutturale di motori che salivano di giri in lontananza, ma che si avvicinavano gradualmente, scoppiettanti e rombanti, e capii che ce n’erano ben più di due o tre. Andai alla finestra e li vidi in strada, avanzare in un fragore che sembrava strapparsi e frammentarsi sotto le ruote, spezzettarsi in rumori più piccoli schiantati dai

pneumatici della moto che seguiva e poi da quella ancora dopo. Contai dieci, poi dodici motociclette, i cui conducenti urlarono qualcosa nel passare, diciotto moto, venti, motociclisti vestiti di nero e argento, i colori dei loro mezzi. Passarono tutti urlando nel rumore dei loro veicoli, gridando imprecazioni o forse avvertimenti attraverso i prati deserti. Sparirono nel giro di pochi secondi, e fu come se un uragano o un flagello avesse colpito la città. Eravamo ancora tutti interi; eppure, a mano a mano che il silenzio colmava il vuoto lasciato dall’incursione dei motociclisti, mi sembrava quasi di sentire ogni uomo e donna della città affacciarsi alla finestra per guardare in strada provando una strana commistione di desiderio e terrore. Eravamo ancora tutti interi. Ma non eravamo più le stesse persone di dieci secondi prima. A pranzo mangiammo carne fredda. Alla radio Mel Allen trasmetteva la radiocronaca di una partita di football in cui le squadre stavano pareggiando, la prima di due successive, e stava dicendo: amici ascoltatori, qui c’è un mucchio di posto; potete vedere il resto di questa partita e anche tutta quanta la prossima, per cui che ne dite di fare un salto anche voi e portarvi dietro la famiglia? A quel punto Jane cominciò a parlare del corso che stava frequentando sulle religioni primitive. Si teneva due sere la settimana all’Y.W.C.A., in una comunità vicina. Gli Algonchini sentivano gli spiriti dei morti cantare come i grilli. I sacerdoti delle Fiji fissavano per ore un dente di balena finché non venivano presi dalle convulsioni. Ai funerali, sempre nelle Fiji, gran parte della cerimonia funebre era dedicata a strangolare mogli, amici e schiavi del defunto. Jane salì in camera a prendere il suo quaderno di appunti. Noi mangiavamo in silenzio. Un minuto dopo era di ritorno. Alla radio trasmettevano un breve annuncio registrato in cui Eisenhower esortava i cittadini a sostenere le raccolte di fondi nelle comunità locali. I cinesi bucavano il soffitto di casa per lasciar volare via l’anima del defunto. Quando un guerriero wachandi uccideva il primo nemico, l’anima del morto entrava in lui e diveniva il suo “woorie”, il suo spirito guida: prendeva dimora vicino al fegato, e avvertiva il guerriero dei pericoli imminenti con una sensazione di prurito o formicolio. Era tradizione presso gli aztechi versare il sangue delle vittime sacrificali in bocca agli idoli. I sacerdoti mandingo prendevano in braccio i neonati, gli sussurravano all’orecchio e poi gli sputavano in faccia tre volte. Gli ojibwa credevano che le accette e le pentole avessero un’anima. Gli zulù avevano un detto, che il corpo impagliato non vede i segreti dell’aldilà. Lo sciamano zulù si preparava al colloquio con gli spiriti tramite il digiuno, la sofferenza e lunghe camminate silenziose. Gli yakuti siberiani veneravano l’orso, loro zio adorato. Secondo i daiacchi, l’anima dei morti dimorava nei tronchi d’albero. Nelle Samoa, gli spiriti maligni intrattenevano relazioni carnali con le donne durante la notte, per concepire creature soprannaturali. I nicaraguensi offrivano sacrifici umani a Popogatepec gettandoli nei crateri vulcanici. Gli aht dell’isola di Vancouver consideravano la luna e il sole marito e moglie. I mintira temevano un demone acquatico con testa di cane e corpo di coccodrillo che uccideva succhiando il sangue dai pollici e dagli alluci. Per gli assiri, la pazzia indicava possessione demoniaca. Quando moriva un kayan del Borneo, tutti i suoi schiavi venivano uccisi in modo da

poterlo seguire nell’aldilà e obbedire ai suoi comandi. Prima le parenti femmine del defunto li ferivano superficialmente con le lance. Poi i parenti maschi raccoglievano le lance e li uccidevano. L’anima umana pesa fra i novanta e i centoventi grammi. «Quante crudeltà e quante superstizioni» disse mia madre. «All’epoca la vita valeva poco, Ann.» «Ma chi erano?» domandò lei. «Pensate a quella gente che viveva in grotte e capanne. Fin dall’alba dei tempi. Che adoravano orsi e scimmie. Milioni di anime. Quanto ci sembrano insignificanti.» «Capisco» disse mio padre. «E’ quasi impossibile concepire tutta quella gente passare le giornate ad ammazzarsi a vicenda e a pregare il sole. Viene da pensare che non faccia poi grande differenza quello che uno fa nella vita. Perché mai noi dovremmo essere meno insignificanti di quei primitivi?» «Però lo siamo, Clinton.» «Belli i tuoi appunti, Jane» dissi io. «Li stenografo e poi li ricopio dopo» rispose lei. «E’ il sistema migliore.» «Incredibile» disse mio padre. «Pensate a quanto poco tenevano in considerazione la vita umana. Eppure erano sempre uomini e donne. Noi siamo qui a pranzo la domenica pomeriggio ascoltando la radiocronaca. Quella gente non potrebbe essere più lontana da noi. Eppure erano sempre uomini e donne. Credevano a qualcosa.» «Più una razza crede nella magia» disse mia madre «e meno conta l’individuo. La magia schiaccia tutto il resto. Noi occidentali teniamo in conto la vita umana quasi fino alla disperazione perché non abbiamo magia.» «Dio è magia» disse Jane. «No. Dio è il contrario della magia. Ne ho parlato con William Potter. L’argomento gli è estraneo. Abbiamo tutti la magia dentro, chi più e chi meno, ma ogni insegnamento che riceviamo tende a seppellirla. Prova a pensare a cosa stiamo mangiando, Clinton. Il cadavere di un animale. C’è qualcosa di più primitivo?» «Noi però questo animale non lo adoriamo» ribattei. «Solo perché Dio si è incarnato in forma umana. E se invece avesse deciso di scendere sulla terra in forma di leone? A noi questi popoli primitivi sembrano insignificanti perché sono lontanissimi da noi nel tempo e nelle convinzioni, come dice tuo padre, ma anche perché loro stessi si consideravano a vicenda insignificanti. Era la magia. Era la magia a renderli meno importanti degli animali o dei pianeti che adoravano. Non erano poi così lontani dal punto della questione. Io resto dell’idea che la magia esista. Non saprei se sia un bene o un male. Ma so per certo che esiste.» «Niente male, Ann» disse mio padre. «Interessantissimo.» Non c’era altro da fare. Per tutto il pomeriggio me ne rimasi seduto immobile sulla veranda a pensare a corpi umidi di donna. Faceva sempre più caldo. La quiete era quasi assoluta. L’aria sapeva di acqua, di sale caldo che ardeva le labbra. Mi sentivo pesante. Avrei voluto che piovesse. E’ forse così che si muore, con gli occhi puntati sulla strada a cercare un indizio, qualcosa che annunci che il momento è arrivato, finalmente, alzatevi

tutti e passate all’azione, l’ora è giunta, presto, in strada, granate e motociclette, una parola di avvertimento, sale su corpi umidi di donna. Per strada passò il dottor Weber. Un uomo basso, con i baffetti. Il machete è un’arma di grande efficacia, dottore. Sorpreso di sentirmi parlare la sua stessa lingua? Harvard. Classe del ‘34. Portava con sé la sua valigetta. Indossava un abito scuro. Aveva una macchia di sugo sulla camicia. Aspettai che spostasse lo sguardo su di me per indirizzarmi quel sorriso giallastro che medici e dentisti esibiscono spesso, il sorriso tirato e obliquo del momento in cui i soldi passano di mano, e quando lo fece, voltai la testa sbadigliando. Professionista medico. Il giuramento di Ippocrate. Con quello sbadiglio superai il pomeriggio. Più tardi, dalla finestra di camera mia, li guardai arrivare per la festa. Quasi tutta la gente di Old Holly arrivò a piedi, mentre quelli dei sobborghi vicini o che abitavano in città, la compagnia di amici di mio padre, vennero in macchina o in taxi dalla stazione. Non c’era niente di preciso da celebrare, ma in un certo senso la festa doveva essere un po’ il mio debutto in società. Mi avevano giudicato grande abbastanza per poter partecipare ai giochi degli adulti, presumibilmente restando ai margini con un bel bicchiere di rum collins ghiacciato in mano (o un altro cocktail di effetti simili) mentre gli altri ammiravano la mia eleganza da giovane dandy e mi dicevano quanto ero cresciuto dall’ultima volta. Erano previsti quaranta o cinquanta invitati. Venni a scoprire da Jane che erano stati presi accordi affinché una coppia di invitati, i Loomis, portassero anche la figlia, Amy, mia coetanea. Anche Jane aveva invitato il suo ragazzo dell’epoca, John Retley Tucker, predecessore di Big Bob Davidson virtualmente in tutti i sensi della parola. Io lo chiamavo Rettey il Sudaticcio. Mary non era stata invitata, perché nessuno sapeva dove fosse. Arrivarono al calar del sole: gli Smith, i Bradshaw, i Morgan, gli Hill, i Rayburn, i Gossage, i Pepper, gli Stevenson, gli Haliday, i Torgeson, i Baker, gli Hunter, i Taylor, i Collier, i Barber e i Fisher. Andrew Alexandre arrivò sulla sua Packard bordeaux, un’auto d’epoca che si diceva fosse appartenuta ad Al Capone o a F. Scott Fitzgerald, a seconda di chi raccontava la storia. William Judge e la moglie alzarono gli occhi e mi videro. Io gli rimandai il saluto con un sorriso da giovane cadetto, decoroso e umile come si conveniva. Vidi passeggiare in giardino August Riddle. Era l’avvocato della città, un vecchio scontroso che pareva sapesse di atti notarili e ipoteche più di chiunque altro nella nazione. Era scapolo. Aveva sempre l’ufficio adeguatamente in disordine e non faceva altro che bere caffè forte e fumare sigari lunghi e sottili. Tempo prima, io e Mary avevamo deciso che nella sua biografia cinematografica la sua parte l’avrebbe interpretata Lee J. Cobb, oppure Paul Muni. Mi puntò addosso il suo sigaro. La serata era calda e silenziosa. Un falco passò nel cielo. Nessun segno di pioggia. Indossai un completo con camicia bianca e cravatta. Scesi da basso e andai in cucina. Ad aiutare Justina Simpson, la domestica che veniva da noi quattro giorni la settimana, erano arrivati sua figlia Mae e il genero, Buford Long, che avrebbe servito da bere. Guardai Buford mentre preparava tutto e allora pensai che la vita del barista non doveva essere niente male. Sbattere sul banco grandi boccali di birra spumeggiante pronti alla

stretta poderosa di manone di virili romanzieri appena tornati dal tiro al piattello. Agitare lo shaker con un passettino di samba per intrattenere le signore. Essere esperti in qualcosa. Chiesi a Buford se gli piaceva fare il barista e lui rispose che il ghiaccio gli gelava le nocche e gli dava dolori lancinanti che risalivano fino in testa. A quel punto mia madre entrò per invitarmi a comparire in pubblico. Io rimasi in cucina ancora un momento a guardare Mae che disossava il tacchino. Portava una divisa bianca. Non portava mutande, e attraverso la tela sottile si vedeva l’ombra dell’interno delle cosce. Uscii in soggiorno. «Oh, ma sei diventato più alto di Clyde» disse la signora Hunter. I Gossage, Henry e Lucy, vennero a palpeggiarmi, dopo di che parlai un po’ con Justin Hill della Conferenza per il Sudest e dei Dieci Grandi. Mio padre mi tenne il braccio sulla spalla per qual che minuto. Parlavamo con Claire Collier, una donna alta e fascinosa. Parlavamo tutti contemporaneamente. Poi andai dai Rayburn e dai Taylor a ripetergli parola per parola le stesse cose che avevo appena detto alla signora Collier. Quando parlava di lei, in genere mia madre la chiamava ‘quella là, la Collier’, come a sottintendere che fosse stata protagonista di scandali non meglio specificati. Mi rendevo conto perfettamente che io e Amy Loomis, che fino a quel momento ci eravamo tenuti ai capi opposti della sala, stavamo arrivando a un confronto. Come se le energie trasmesse dai corpi dei quaranta e passa adulti presenti ci spingessero l’uno verso l’altra. Amy era una ragazza minuta. Chiacchierava con Andrew Alexander, che nel frattempo continuava a battersi piano la mano sulla testa. Mia madre mi teneva la mano sul gomito, e di punto in bianco mela presentò, pizzicandomelo quando calavano i silenzi e allentando la presa non appena riprendevo la conversazione. Amy e io ci ritrovammo soli. «Lo conosci Jim Gibson?» mi chiese lei. «No, credo di no.» «Sai quello che ha un catamarano verde, il Belleweather?» «Mi ripeti il nome?» «Jim Gibson.» «Non lo conosco.» «Quel catamarano va fortissimo.» «Sì, piacerebbe anche a me comprarne uno. Vanno davvero veloci.» «Lo conosci Marty Hammer?» chiese ancora. «Mi sembra di averlo già sentito.» «Quello con il papà che ha una iole? Quando ha compiuto sedici anni suo padre gliel’ha lasciata dandogli carta bianca. Hai presente, una iole sui quindici metri?» «No, non è quello che pensavo io. Per caso ha un fratello che si chiama Frank?» «No.» «Allora non è lui» risposi. «E Tim Lerner lo conosci?» «Non è quello che è affogato a Peconic Bay l’estate scorsa?»

«Proprio lui.» «E tu lo conosci Billy Shaw?» «Ne conosco due, di Billy Shaw» rispose. Gli invitati si riempivano i piatti di prosciutto e tacchino, cercando di mangiare in piedi. Nel salone faceva molto caldo. Ci raggiunsero i Gossage. Henry mi mise la mano sulla spalla. Lucy Gossage cominciò a parlare con Amy, tenendomi la mano. Arrivò la signora Loomis insieme a Tod Morgan, chiedendo come ce la cavavamo. Lucy Gossage mi strinse la mano portandosela al seno e accarezzandomela. Ray Smith mi si avvicinò inscenando le solite mosse da pugile che recitava a ogni nostro incontro. Con la testa piegata sulla spalla sinistra, fece una finta di sinistro e poi di destro al ventre, inspirando rumorosamente a ogni colpo. Poi vi fu un breve silenzio, e sentimmo la signora Loomis dire ad Amy di sorridere almeno una volta ogni tanto. Poi tutti cominciammo a parlare. Passò Jane a presentare il suo ragazzo. Tod Morgan mi allungò quello che secondo lui era un drink da veri uomini. Era scotch con acqua. Mi fece venire un gran caldo e il gusto non mi piaceva granché. Ma direi che mi stavo divertendo parecchio, Erano brave persone. Non avevano sfregi in faccia e neanche il naso rotto. Si vestivano più o meno tutti nello stesso modo. Parlavano nello stesso modo e dicevano le stesse cose, e non sapevo ancora quanto fossero noiosi, né che più o meno erano tutti intercambiabili. In fondo ero uno di loro. Non ero un estraneo, là in mezzo, e mi piaceva sentirmi le loro mani sul corpo. «Qualcuno ha visto le moto, oggi?» domandò Tod Morgan. Andai a bere davanti al camino con quella là, la Collier. Assunsi un’aria rilassata. Poi mi sentii cingere con il braccio da Lucy Gossage e suo marito Henry mi sussurrò all’orecchio una barzelletta sconcia. Faticavo a distinguere le parole. Nel giro di qualche istante lui scoppiò a ridere, e allora capii che la barzelletta era finita. Ci facemmo delle grandi risate tutti e due. Henry mi guardava dritto in faccia, cercando apprezzamento genuino. Voleva essere ben sicuro che l’avessi capita. Continuai a ridere, annuendo. Quando si ritenne soddisfatto, si allontanò. August Riddle aveva due protuberanze carnose simili a lacrime sulle guance cascanti. Lo fissai. Amy mi parlava di qualcuno o qualcosa che chiamava l’Austin Healey di Bobby Springer. Il signor Riddle chiacchierava con gli Stevenson. Accese il suo sigaro, poi spense il fiammifero con uno svolazzo circolare della mano. Buttò il fiammifero per terra. Mae entrò nel salone con un piatto da portata di ananas a fette. Cercai di attirare la sua attenzione per poterle sorridere. Amy mi parlava contro il torace. Per quanto la riguardava, l’affare era concluso. Fra la Wellesley e la Bryn Mawr. Aveva i capelli rossi e grandi occhi verdi. Io immaginavo di trovarmi a letto con lei e sua madre insieme. Amy beveva il punch allo champagne. Nessuno sembrava ancora ubriaco. Le domandai se voleva uscire a prendere un po’ di fresco sulla veranda e lei rispose di no. No e basta. Seguì un silenzio spaventoso che mi mise a disagio e di colpo mi ritrovai a chiederle se per caso sapeva come se l’erano cavata gli Yankees nella seconda partita. Mio padre venne a stringermi la mano, non so per quale motivo. Poi scomparve. Andrew Alexander

aveva cominciato a parlare con Amy. Voi giovani, continuava a dire. Voi giovani. Battendosi la mano sulla testa. Senz’altro non per rassettarsi i capelli, visto che li aveva folti e cortissimi. A ogni colpetto della mano, alzava gli occhi al cielo. Stava discorrendo con Amy del colore beige. Lo guardavo alzare gli occhi al cielo e riabbassarli. Domandò se Amy e io eravamo fidanzati. A quel punto mi congedai per andare in cucina a guardare Buford Long che preparava i cocktail. Teneva in bocca una sigaretta spenta. Mentre versava club soda con la mano destra, con la sinistra estrasse dal taschino della camicia una scatola di fiammiferi, aprì il coperchio con il pollice e ne accese uno tenendolo fra indice e pollice. Mi piacque molto. Non l’avevo mai visto prima. Mi piaceva anche il fatto che fosse mancino. I mancini hanno l’aria di fare le cose con più stile. Li ho sempre invidiati. Warren Spahn, mancino di stile. «Dov’è che lavori di solito, Buford? Fai il barista, o che?» «Addetto alla manutenzione. Io e Mae stiamo a Manhattan, nell’isolato della Ventesima Ovest. Lavoro in sei condomini. Vado a raccogliere i sacchetti dell’immondizia davanti agli appartamenti e li porto giù. Se si rompe qualcosa, lo riparo. Pulisco quello che c’è da pulire.» «E com’è? Immagino sia duro.» «Non tanto, è solo un lavoro monotono. Ma almeno ha una sua intrinsecità. Si scoprono molti indizi sulla natura umana. Si impara di più dall’immondizia che non dalla convivenza con una persona.» «Allora non ti dà fastidio.» «Oh, anzi, mi piace» rispose lui. «L’immondizia varia a seconda dei condomini?» «Certo che varia. Lo si capisce da piccoli dettagli. Senza neanche bisogno di guardare cosa c’è nell’immondizia. Quando vedi uno specchio rotto giù nell’androne, capisci subito che l’immondizia non promette niente di buono.» «Dev’essere una soddisfazione contribuire a tenere la città pulita.» «E’ una gioia incredibile» rispose Buford. «Dicono che Sugar Ray Robinson sia il miglior pugile di tutti i tempi.» Mia madre comparve sulla soglia a dirmi che Amy era rimasta tutta sola. Uscii a raggiungerla. Arrivò John Retley Tucker. Gli domandai se aveva mai conosciuto l’altra mia sorella, e lui rispose che Jane non gli aveva mai parlato di altre sorelle. Si fermò a chiacchierare, infilando l’indice della destra sotto il colletto della camicia, sulla nuca. Per cui, aveva il gomito circa all’altezza dell’orecchio. Vidi Amy fissargli la macchia di sudore sotto l’ascella. John Retley era sul metro e novanta abbondante, sul quintale di peso, e assomigliava un po’ a un poliziotto che dirige il traffico la domenica pomeriggio godendosela un mondo. Quella là, la Collier, si avvicinò di nuovo. Mi sganciai per andarle a parlare. Era vestita di beige. «Voglio dirti una cosa» attaccò lei. «Adesso sei un giovanotto, e non c’è motivo per non dirtela. Sei cresciuto, sei quasi un adulto. Hai il corpo di un uomo e desideri da uomo. Era questo che volevo dirti. Alle donne piace essere amate.»

«Certo.» «Chi è quello dietro di te?» «John Retley Tucker. E’ il ragazzo di mia sorella Jane.» «Trovo che un uomo con dei pollici così grandi abbia qualcosa di indecente.» Avevo bisogno di una boccata d’aria. Dissi a Amy che uscivo un momento. Rispose che sarebbe venuta anche lei. La lasciai fuori in veranda per un attimo e tornai dentro a prendere da bere, poi uscii di nuovo. Non accesi la luce. «Bevi molto?» mi chiese. «Abbastanza. Sì, bevo abbastanza.» «Lo conosci un ragazzo che si chiama David Bell? Beve in un modo impressionante. Basta sfidarlo. Lo regge benissimo.» «Sono io David Bell» dissi. «Mi sono confusa. Intendevo Dick Davis.» «Lapsus freudiano» dissi. «Pare che se dici per sbaglio il nome di una persona, vuol dire che quella persona ti piace molto.» «Non farti venire idee strane, amico.» «Scherzavo.» «I tuoi genitori sono molto simpatici.» «Anche i tuoi. Mi trovi bello, Amy?» «Che domanda.» «Sì, mi rendo conto che è molto ambigua, ma ti ho sentita parlare di colori con il vecchio Andy Alexander è mi è parso che avessi buon gusto, per cui mi domandavo che ne pensi. Senz’altro ti chiederai anche tu se gli altri ti considerano carina. Mi trovi bello?» «Sì» rispose lei. «Vuoi sapere se ti trovo carina io?» «Okay.» «Ti manca poco» risposi. «Che ne pensi di Burt Lancaster? Per me è il più grande di tutti i tempi.» Henry Gossage uscì sulla veranda. Prese un gran respiro profondo, poi si picchiò sul torace i minuscoli pugni. Ci vide accanto al parapetto e si finse sorpreso, indietreggiando a braccia alzate come per difendersi. «Due ombre purpuree nella neve» cantò. Io speravo non si mettesse a raccontare altre barzellette. «I nostri ragazzi sono al campeggio» disse. «Il più grande è capogruppo. Il secondo serve da mangiare ai tavoli, ma diventerà capogruppo l’anno prossimo. Il più piccolo ha solo dodici anni, per cui gli ci vuole ancora un po’ prima di uscire dalla cerchia dei semplici campeggiatori.» «Come sta Hank?» gli domandai. «E’ il più grande. Henry Junior. Sta benissimo. Grazie di averlo chiesto.» «Mandagli i miei saluti.» «Senz’altro. Gentile da parte tua, ragazzo. Gentile davvero, piccolo Dave. Hai detto proprio una bella cosa. Dov’è che posso andare a vomitare?»

«Nella siepe» risposi. «Tutto bene. Credo di non averne più bisogno.» Amy disse che sarebbe stato meglio tornare dentro. Erano tutti in piedi a chiacchierare e mangiare. All’altro capo del salone, Tod Morgan parlava con la moglie di Peter Fisher. Lo stavo fissando, quando lui scoppiò a ridere. I lineamenti del viso si tirarono tutti e poi tremarono. Mi parve di una bruttezza fuori dal comune. Provai a immaginare che il cervello gli stesse scoppiando. Rideva in modo assolutamente esagerato, sopra le righe, creava la risata come fosse di ceramica. Mi immaginai di vedergli la testa esplodere al rallentatore e le varie parti schizzare per aria, naso, orecchie, un pezzo di mandibola con denti annessi. Andai in cucina e uscii. dalla porta di servizio. La piccola veranda era ingombra di bottiglie vuote. Mi avviai lungo il limitare dei boschi oltrepassando casa Harris, Torgeson e Weber. Casa Harris e casa Weber avevano le finestre illuminate. Tagliai per un giardino e mi feci a piedi i cinque isolati fino a Ridge Street. L’emporio era chiuso. Nella gelateria c’erano quattro o cinque persone. Mi presi una bibita e aspettai che Kathy Lovell si facesse viva, ma non arrivò. Mi venne quasi voglia di andare a cercarla al cinema. Poi feci per incamminarmi verso casa sua. Alla fine tornai alla gelateria e la chiamai da lì. Rispose suo padre e io riattaccai. Dieci minuti più tardi ero in Green Street. Tutto buio e silenzioso. Un accenno di brezza. Mi fermai sotto un olmo a guardare una donna in una casetta di legno che stirava. Per strada non passava nessuno. Era una domenica sera d’inizio settembre, e mi sentivo tremare di angoscia al pensiero della bellezza e all’inganno di tutti i corpi. Quando ritornai a casa, erano rimaste una quindicina di persone. Sembrava avessero troppo spazio per muoversi. Dappertutto c’erano bicchieri per metà pieni, e le sedie e i divani erano occupati adesso. Per terra c’era una fettina bianca di tacchino con l’impronta di una scarpa sopra. Quasi tutte le donne erano sedute tra di loro in un angolo della sala. Gli uomini andavano e venivano dalla cucina. Pareva fossero tutti passati alla birra. Attraversai il salone sorridendo. Andai di sopra e mi tolsi giacca e cravatta. Dalla camera di Jane sentivo provenire voci. Rimasi perfettamente immobile. A quanto pareva, Jane stava mostrando al suo ragazzo l’album delle foto di famiglia. «Questa è mamma da bambina» diceva. «Quello è suo padre e l’altro è suo zio Jess, che scriveva poesie e un giorno si è suicidato. Questa sono io da piccola. L’hanno scattata in West End Avenue, dove abitavamo prima. Quest’altra in Central Park. Questa è a Old Holly, e quello è papà. Questa è zia Grace, ad Alexandria. Questa è ancora mamma. E questa. E anche questa. Questo è David quando aveva due anni. Questo è papà nel suo ufficio.» «Jane» diceva lui. «Jane.» Scesi in cucina a prendere una birra dal frigorifero. Nell’angolo c’era Harold Torgeson. Beveva un bicchiere di latte. Eravamo soli. «Ho sempre desiderato diventare scrittore» mi disse. «Solo stasera, di là in quel salone, c’erano quaranta o cinquanta ottime storie da scrivere. Da giovane ci ho provato,

ma non avevo la costanza. Partivo pieno di energia e buona volontà, e poi finiva tutto nel nulla. Diciamoci la verità, io sono nato per fare l’assicuratore. Ma è una cosa che mi rode ancora oggi, ragazzo. Ci sono volte che non riesco a dormire, e allora scendo dal letto e mi accendo una sigaretta e vado a sedermi davanti alla finestra aperta. E mi prende quella sensazione dolceamara ripensando alla mia vita e a quello che ho o non ho fatto. Sei troppo giovane per capirlo. Ma sedersi davanti a una finestra aperta a mezzanotte fumando una sigaretta ha qualcosa di poetico. C’entra anche la sigaretta. Affiorano i ricordi, fumando una sigaretta. Me ne sto seduto lì a ripensare alla mia vita. Ho ucciso tre giapponesi nell’unica guerra che conosco. Ti dico queste cose perché un giorno ti saranno utili.» A metà del monologo di Torgeson era comparso Ray Smith, che andò verso di lui e gli strinse la mano. Poi prese una birra dal frigo. «La mia storia, invece, comincia a Londra durante la guerra» disse. «C’era un’infermiera che si chiamava Celia Archer.» Sulla porta della cucina si erano fermati ad ascoltare altri tre uomini. Io li oltrepassai per tornare in soggiorno. Le signore sembravano non avere molto da dirsi. Vidi dalla finestra mio padre, fuori sulla veranda. Io e William Judge eravamo gli unici uomini presenti in sala. Nessuno diceva niente. Mia madre aveva un’espressione strana. Poi Jane e il suo ragazzo scesero le scale. Qualcuno domandò cos’avevano fatto fino a quel momento al piano di sopra e tutti scoppiarono a ridere. La risata fu un segnale. Lo stavano aspettando tutti. Si alzarono e cominciarono ad andarsene. Mio padre entrò in casa e si fermò accanto alla porta, cercando di fare del suo meglio per non lasciar trasparire il sollievo. Mia madre era immobile al centro del salotto. Agitava le mani avanti e indietro come se cercasse di spazzare via tutti quanti fuori dalla porta. C’era gente che continuava a uscire e poi ritornare indietro dopo qualche secondo a riprendersi le cose che aveva dimenticato. Alla fine se ne andarono tutti per davvero. Mio padre cominciò a spegnere le luci e chiudere le porte. Jane era già di sopra. Ben presto mi ritrovai da solo. Sul tavolo del buffet qualcuno aveva lasciato un bicchiere quasi pieno. Bevvi un sorso, chiusi gli occhi, mi concentrai, ma non capii che cos’era, e allora vuotai il bicchiere lentamente. Mi resi conto che mio padre non aveva salutato nessuno. Spensi la luce in soggiorno e la casa divenne buia, fatta eccezione per la cucina. Feci per entrare, poi mi bloccai sulla soglia. C’era mia madre. Lo sportello del frigorifero era aperto. Lei aveva una scarpa sola. L’altra era per terra, una scarpa nera, in piedi contro la parete. Mia madre teneva in mano la vaschetta del ghiaccio e sputava sui cubetti. Poi scomparve dietro lo sportello del frigorifero, e la sentii aprire il congelatore e infilare dentro la vaschetta. Mi allontanai quando sentii lo sportello del congelatore che si richiudeva. Salii di sopra e andai in camera mia. Richiusi la porta più piano che potei. Tolsi scarpe e camicia e mi stesi sul letto, pensando che faceva troppo caldo per dormire. Pensai a Harold Torgeson, seduto davanti alla finestra spalancata a fumare una sigaretta. Mi chiedevo quanti romanzi avesse scritto nel pensiero, in quel modo. Dopo un bel po’ mi abbandonai a un sonno leggero e privo di sogni, più uno smarrimento dei

sensi che uno stato d’animo. Quando ne riemergevo, per pochi secondi alla volta, non capivo dov’ero, se fosse già mattino o ancora notte fonda. Mi inquietava non sapere dove fossi, ma ero più che soddisfatto di scivolare nuovamente nel fiume, in quel fiume per nulla profondo o traditore, quel fiume che è il linguaggio senza pensiero; e nel giro di qualche secondo, o di quelli che a me parevano pochi secondi, riemergevo chiedendomi dov’ero, ma per qualche ragione mai chi ero, non arrivavo a tanto. Poi mi ritrovai bello sveglio. Con la mano sulla fibbia della cintura, e allora mi accorsi che avevo ancora su i pantaloni. Rimasi steso dov’ero, immobile, ben consapevole che ormai il sonno era svanito. Tesi l’orecchio ad attendere il passaggio di treni o automobili, ma non ne passarono. Quando si aspetta di addormentarsi, è bello ascoltare il rumore dei treni. Mi convinsi che il romanzo che Torgeson stava scrivendo nel pensiero in quel preciso momento fosse uno di quelli in cui due giovani amanti sentono un treno in lontananza o il latrato di un cane, o in cui nei giardini aleggia sempre l’eco di una risata. Mi sentivo teso e inquieto. Il mio corpo era sveglio, ma non la mia mente. Pensavo a una certa cosa, poi cercavo di riprendere il filo e scoprivo di non trovarlo più. Non riuscivo a tenere in piedi un solo pensiero. Non ingranava niente. Mi alzai e guardai fuori dalla finestra. Poi scesi da basso. La luce della cucina era ancora accesa, ma lei era nella dispensa. Non riuscivo quasi a vederla. Era seduta su uno sgabello contro la parete nuda di fronte alla porta. Sui due lati, le mensole erano cariche di bottiglie, barattoli e scatole. «Era solo questione di tempo» disse. «Meglio se accendo la luce.» La lampadina era a basso voltaggio e in quel ripostiglio pieno di barattoli scuri la luce sembrava quasi bruna. Lei si era alzata in piedi. «Non esiste altro che il tempo. Il tempo è l’unica cosa che avviene in sé e per sé. Dovremmo imparare a lasciarci trasportare. Quella là, la Collier, è un’imbecille.» Non mossi un muscolo. Mi sentivo vicino a qualcosa che mi avrebbe travolto. Nella semioscurità, la sua ombra divorava la mia. Sapevo bene che cosa stava succedendo e non me ne fregava niente di discuterne con i medici. Doveva accadere prima o poi. Dentro di lei c’era qualcosa, qualcosa di luminoso e frantumato, forse la traccia del mio passaggio dal suo corpo. Era di fronte a me con lo sguardo rivolto verso l’alto e le mani sulle mie spalle. La tensione che avevo provato in camera mia lasciava il passo alla promessa di una liberazione straordinaria. Doveva succedere. Qualunque cosa fosse. La gabbia stava per aprirsi, l’uccello impazzito stava per volare via, e in quel momento io avrei urlato di estasi e dolore nel percepire che veniva liberato l’attimo, il principio dei tempi. E poi sentii il rumore dei passi di mio padre, che saliva le scale a piedi nudi. Nient’altro. Eravamo seduti nella Aston-Martin, in garage. Sul parabrezza erano rimaste tracce di neve. «Mio padre si chiamava Harkavy Clinton Bell. E mi ha battezzato Clinton Harkavy Bell. Ha cominciato a guadagnare quando era già avanti con gli anni. Certo, non che

prima fossimo poveri. Ma prima è venuta la sua reputazione, prima dei soldi a palate. Mi ha raccontato la sua storia decine di volte. Un giorno era su un treno della Union Pacific, fra Omaha e Cheyenne. Era seduto accanto a un certo McHenry, il proprietario di una fabbrica di pigiami, i Filati McHenry. McHenry tirò fuori una bottiglia e loro due si sbronzarono per bene. McHenry gli confidò di essere sull’orlo del fallimento. Per cui il vecchio Harkavy gli spiegò che quello di cui aveva bisogno era una campagna pubblicitaria efficace. Hai un bel nome americano, gli disse, e non ne approfitti. McHenry. Fort McHenry. Dove Francis Scott Key compose l’inno nazionale. Al che mio padre tirò fuori una matita e cominciò a disegnare un bozzetto sul retro di una busta. Disegnò una scena di guerra, mi capisci, con navi, razzi, un fortino, centinaia di soldati e una grande bandiera al vento che sovrastava il campo di battaglia. Poi, in fondo, scrisse una riga. “McHenry; il pigiama a stelle e strisce”. Poi e questo fu il colpo di genio disse a McHenry che per avere veramente il mercato in pugno doveva ricamare su tutti i suoi pigiami quarantotto stellette. E così ce la fece. La migliore trovata di merchandising del decennio. McHenry diventò ricco e mio padre famoso. Così si creava la pubblicità ai vecchi tempi, ragazzo: sbronzi marci in un vagone della Union Pacific Railroad. Mi ha raccontato questa storia decine di volte. Secondo me ha una sua splendida innocenza. Cioè, intendo l’idea di ubriacarsi insieme a uno sconosciuto. E anche la campagna pubblicitaria in sé. Il pigiama a stelle e strisce. Di un’innocenza adorabile. A quei tempi ci si poteva permettere l’innocenza.» Circa una settimana dopo la festa, andai con Tommy Valerio a un campo da baseball abbandonato in periferia. Il campo era circondato dai boschi. Rimanevano solo le tracce delle basi e la pedana del lanciatore, e su quella che una volta era la parte sterrata intorno al diamante erano cresciute le erbacce. Tommy si era portato una bella mazza lunga e sottile, e cominciammo a battere a turno. Faceva fresco, per essere in settembre, il cielo di un azzurro generoso, la giornata giusta per un incontro di football più che di baseball, e mi trovai a correre da una parte all’altra del campo a prendere le palle come se giocassi a basket, piegando la spalla e picchiando due volte il pugno sul guantone come Willie Mays, cercando di adattarmi al cambio improvviso di stagione; non mi dispiaceva veder andarsene l’estate, perché nei campi del New Hampshire l’autunno era tutto sfumature dorate e rosso vino, e io stavo per iscrivermi all’ultimo anno alla Santa Dymphna, dove avrei percorso le ampie navate grige in soprabito di tweed. Eppure qualcosa stava finendo, non solo l’estate, ma anche l’idea di ciò che ero, del tempo che occupavo come se fosse spazio, di quel tempo privato e personale in cui ci si muove e si ragiona e si conoscono tutte le domande. Il tempo si era distorto, e guardavo alla settimana appena trascorsa senza riuscire a ritrovare me stesso. Solo anni più tardi, nel periodo delle mie relazioni extraconiugali, avevo iniziato a battermi contro questo senso di sparizione. A non concedere nulla a Jennifer Fine per il terrore che non rimanesse più niente per me. Indietreggiai fino al filare di alberi e presi una parabola lunga e altissima. «Cambio» gridò Tommy.

«Continua a battere» risposi. «Voglio inseguire ancora qualche palla.» Rimasi lì fuori un bel po’. Tommy era stufo di fare da battitore, ma io gli ripetevo di tirare ancora qualche palla, ancora una o due. Non volevo smettere. La palla si alzava in volo davanti alla mazza, e poi sentivo il colpo secco e leggero quando entravano in contatto e poi la palla decollava nel cielo azzurro senza nuvole, colorandosi di nero all’apogeo per poi calare bianca e ammaccata, una vecchia palla da baseball macchiata di verde dall’erba. Cominciavo a prendere la cosa molto sul serio. Tommy colpiva la palla e io mi abbassavo con la mano libera sul ginocchio destro e l’altra, quella con il guantone, che toccava quasi terra. Con la palla in volo, scattavo in avanti, tenendola d’occhio solo per un secondo o due e correndo a testa bassa verso il punto in cui sapevo sarebbe atterrata, un punto stabilito dal ricordo di quel primo secondo di volo, dalla mia conoscenza del vento, dalla familiarità con il tiro di Tommy e dal rumore della mazza contro la palla. Una volta recuperata la palla, la rispedivo indietro con la massima forza e precisione di cui ero capace, come se avessi alle calcagna qualcuno dalla terza base. E Tommy la lasciava ricadere contro la barriera ormai in rovina dietro la pedana. Andò avanti così per un po’. Non ero più una persona. Ero tutto istinto e velocità e memoria che non andava oltre gli ultimi dieci secondi. Nient’altro. Sarei potuto andare avanti così tutto il giorno. Ma Tommy era stanco, e alla fine diede forfait. Tornai a casa, oliai il guantone e lo misi via per l’inverno. Quella sera uscii da camera mia e mi diressi verso le scale. Oltrepassai camera di Mary, e ci vidi mia madre, minuta e azzurrina, rannicchiata sul letto come un punto di domanda. Scesi da basso e mi misi per un po’ sulla sedia a dondolo. Poi mio padre mi chiamò, e allora scesi la scala che portava nel seminterrato. Jane era su una sedia pieghevole e mangiava una mela. Mio padre era accanto al proiettore. Mi fece un cenno, e allora spensi la luce e andai a sedermi vicino a Jane. Il primo spot pubblicitario durò venti secondi. Una villetta, in una strada tranquilla di un quartiere residenziale, di sera. In casa c’erano un uomo e una donna che litigavano. Una ragazzina adolescente assisteva al litigio, appoggiata alla televisione. Decisamente bruttina. A un certo punto la ragazza scomparve e ritornò poco dopo con una bottiglietta. L’uomo e la donna notarono la bottiglietta e di colpo si abbracciarono e iniziarono a cantare. Lo spot successivo durò un minuto. Un ragazzino con occhiali spessi che si esercitava al pianoforte. Contro il muro alle sue spalle era appoggiata una mazza da hockey. In lontananza, si sentivano urla e risate di altri bambini della sua età. Il ragazzo si alzò in piedi, prese la mazza e schizzò verso la porta. Dalla camera accanto emerse una donna che stringeva in mano uno spazzolino da denti. La donna lo rincorse, urlando e agitando lo spazzolino. Il ragazzo spalancò la porta di casa e inciampò. Precipitò giù per i gradini fin sul vialetto lastricato di fronte alla villetta, dove rimase immobile. Gli occhiali si erano rotti. Da un taglio profondo appena sopra la radice del naso usciva sangue. Il ragazzo sembrava aver perso i sensi. Era una serata splendida, una serata fresca e limpida, quasi autunnale. Oltre la vetrata del seminterrato si sentiva sibilare il vento tra l’erba. Il cielo era un fragore di stelle. Io pensavo a vecchietti che suonavano il violino, a donne che mi

portassero in Messico su una cabriolet bianca.

SECONDA PARTE

7. Nell’oltrepassarli lungo le strade su cui viaggiavano diretti verso i propri confini interiori, veniva la tentazione di parafrasare un noto incipit. Erano i tempi peggiori, erano i tempi peggiori. Viaggiavano a piedi, su automobili vecchie e nuove, in gruppi di motociclette, su autobus e autocarri e camper, i giovani e i giovanissimi in fuga dalle città medievali, metropoli cintate di mura traboccanti pestilenze e corruzione, non ancora disperati nella fuga e non ancora frenetici nella ricerca: i perduti, i ritrovati, gli innominati, i brillanti, gli sballati, i confusi e i semplicemente esausti, tutti a gridare il sincero amore per il paese lungo la linea bianca spezzata, facce sperdute nell’incredulità e nella massa dei capelli: il batterista, il mistico, il fascista, di tanto in tanto un occhio di donna che sbirciava dal lunotto, il rumore dietro di lei, un breve canto di pace. Stavamo arrivando al termine della prima settimana, decisi a non avventurarci neppure per un istante oltre i confini della nostra terra natia, evitando con cura i laghi che sembravano grandi orme e lo spettro innocente del Canada. Sullivan dormiva davanti, nella cuccetta sopra la cabina di guida. Era quasi sempre Pike a cucinare. E quasi sempre Brand a guidare. Io urlavo e leggevo ad alta voce le cartine stradali. Per tutto il viaggio ci aveva accompagnato la radio portatile hi-fi di Sullivan a tre bande di frequenza e tre antenne, con il suo strepito incessante di disc-jockey infantili, spot che reclamizzavano la morte e Gesù country nel Nord dello Stato. Oltrepassando i raccordi a quadrifoglio e le città grige e morbose; sentivo che tutto era in armonia: la terra stordita alimentava la radio convulsa, ogni singolo ettaro della notte che deflagrava in accordi cinetici, la logica oltre il delirio. Quando pioveva, Sullivan si infilava il trench senza bottoni sebbene fossimo all’interno del camper. Viaggio denso di misteri e sacralità, pensavo io, che quasi sempre non avevo idea di dove ci trovassimo e dipendevo da Pike per trovare la strada da un posto all’altro. Tutte le volte che vedevo un fiume, ero convinto che fosse il Mississippi. Tutti i benzinai che incontravamo si chiamavano Earl. Registravo gran parte delle nostre conversazioni. «Questo grande paese azzurro che sbadiglia» disse Brand una sera presto, mentre cenavamo a tramezzini. «Mi viene voglia di pisciare contro ogni albero, rotolare giù dalle colline, rincorrere i conigli, arrampicarmi sui tetti, crocifiggermi alle antenne televisive. Mi viene voglia di dire buongiorno a chiunque incontriamo. E’ una meraviglia. E’ troppo. Baby, è mitico. E’ il paese più strano, favoloso e pazzesco della storia. Davy, cerca di frenarmi un po’.» «Raccontaci qualcosa del tuo romanzo» disse Sullivan. «Gli scrittori non parlano mai dei lavori in corso» replicai. «Vero, Bobby? Rovina quella tensione necessaria. Se ne parlassero, non sentirebbero più il bisogno di scrivere.

Sostanzialmente, si scrive per spezzare la tensione. Giusto, Brand? E se la tensione creativa si rompe prima del dovuto, si perde la spinta. Mi sorprende sentirti fare una domanda del genere, Sully. Proprio tu.» «Parla di un uomo che diventa donna» disse Brand. «L’ex presidente degli Stati Uniti. E’ alla fine del secondo mandato, ma la sua gloria non tramonta. Lo invitano sempre a parlare ai grandi banchetti. E intanto si trasforma in donna. Cominciano a crescergli i seni e a rimpicciolirsi i genitali. La voce gli diventa stridula, da checca. Comincia a portare sempre una giarrettiera, per il brivido segreto che gli dà. E’ un WASP, l’ex presidente. Ma il nuovo bresidende è nero. Si ispira a Sonny Liston. Uno alla moda, magico. Si sballa tutte le sere, se la fa con mogli e figlie di tutti i senatori sudisti e anche con qualche senatore. Sarà lungo oltre mille pagine. Si intitola “Coitus Interruptus”. La trama sarà quella che pare a voi, perché conta solo l’apparenza, amici. Il paese intero sputerà sangue, quando lo leggerà.» «Voglio parlarvi di un’idea che mi è venuta per un film» dissi. «Siamo tutti orecchi» disse Pike. «Ho una mezza idea di girare uno di quei film lunghi e incasinati, sul genere autobiografico, e mi piacerebbe girarne una parte qui nel Midwest, sempre ammesso che siamo nel Midwest. Un film lungo e incomprensibile pieno di frammenti di qualsiasi cosa abbia fatto parte della mia vita, che ci vorranno due o tre o anche più giorni per girare, e in piccolissima parte vorrei farlo qui. Troviamo un paesino sonnolento e giriamo un po’ di pellicola.» «Quanto ci vorrà?» domandò Sullivan. «Nel giro di un paio di settimane dovrai riprendere gli indiani.» «Abbiamo tempo. Per la parte che voglio sistemare subito basteranno due o tre giorni. Tre giorni, o diciassette anni. Userò la luce che troverò. Non mi importa quanto primitivo risulterà tecnicamente. Del resto, non sarò io in persona a riprendere gli indiani. Non terrò io fisicamente in mano la cinepresa. Farò da supervisore e da supervisionato. Il film che voglio girare sarà una cosa totalmente diversa. Me lo sto organizzando mentalmente. E’ strano come mi sia venuta l’idea. Ho visto una donna che potava una siepe. Quasi subito la scena si è trasformata in qualcos’altro. E sta mutando ancora adesso.» «Non avevo ancora finito di parlare del mio romanzo» disse Brand. Pike si scandagliava l’orecchio con uno stuzzicadenti avvolto nella carta igienica. Finita l’operazione, passò davanti per guidare. Era calata la sera, il cielo a ovest incipriato di ruggine sbiadita, motel efflorescenti, il bagliore sulfureo dei lampioni, una vecchia carretta abbandonata in un campo con il cofano sollevato come la visiera di un berretto da baseball, una scena rurale degli anni trenta. Sullivan canticchiava un miscuglio di quelle che sembravano canzoni antimilitariste. Brand era curvo sul sedile con la sua macchinetta inglese per rollare le sigarette e un pacchetto di cartine ZigZag. A quanto pareva, stavamo oltrepassando una zona residenziale. Villini bianchi simili a case di bambola, con le imposte rosa come nella favola di Hansel e Gretel, le stazioni di

servizio nascoste nelle stradine dei paesi di provincia, con un’unica pompa ormai decrepita e un cane addormentato in una pozza di grasso. Accesi la radio. Ali Akbar Khan suonava un “raga” per la serata, e dalle corde del suo sarod si riversava un’estasi triste e liquida. Mi venne in mente un bengalese cieco che cammina su una fune sopra il nulla. Avevo iniziato al buio e non c’era dubbio che avrei terminato nello stesso modo. Ma da qualche parte fra l’inizio e la fine doveva per forza esserci un tentativo di spiegare l’oscurità, quantomeno a me stesso, senza preoccuparmi di che forma bizzarra potesse mai assumere una spiegazione del genere e senza riguardo per le eventuali conseguenze. Forse il segreto era nei capelli della donna. Forse nei suoi movimenti per potare la siepe, con il bel portamento stilizzato tipico di una bambina che sa di essere guardata. Sullivan continuava a canticchiare. Sopra le cime degli alberi comparve un elicottero della polizia, che ci sorvolò proseguendo lungo l’autostrada. Brand aspirò profondamente il fumo in corpo. «Dove, oh dove cazzo son finiti i fior?» cantò, accelerando per farci stare tutte le parole. Pike svoltò in una laterale e alla fine parcheggiò nello spiazzo dell’A. & P., infilando il camper in mezzo a due station wagon in attesa di essere rimpinzate. Entrammo dalla grande porta a vetri onnisciente, che sapeva già del nostro arrivo e si spalancò per conto suo. Io e Brand ci separammo dagli altri per seguire una donna scura e attraente nella corsia vicina, al banco delle pesche e delle prugne. Le dita della donna scivolavano tra i frutti a palparli e saggiarli. Noi la affiancammo, spingendo leggermente il suo carrello con il nostro. «Pesche» disse Brand. Lei non fece una piega. «Guardi come mi esce di bocca questa parola, tutta morbida e pelosetta. Pesche. La parola perfetta per la cosa perfetta. Adesso siamo qui fermi. Se guardiamo tutti le mie labbra, la vedremo uscire. Pesche. Lei cosa ne dice, signorina, sempre che si chiami così? Ne prendiamo mezzo chilo o un chilo? Siamo solo due bei ragazzi della East Coast, soprattutto lui. Senta, ho un po’ di erba da parte, nella mia ciofeca di plastica.» Lei passò alle prugne, e noi dietro. Era alta, con i fianchi che ondeggiavano in un modo incredibile mentre spingeva il carrello. «Venga con noi nel nostro camper a rilassarsi un po’. Ci mangiamo le prugne e fumiamo un po’ di erba. Sto scrivendo un romanzo con la tecnica del monologo interiore diretto.» Lei si guardò intorno in cerca di soccorso, e io fissai la prugna nella sua mano delicata e mediterranea. Era il tipo di donna che ci si immagina di incontrare a Porto Said, più adulta e più saggia, color della terra, di sangue misto, che ride dei nostri modi da biondi bambinoni yankee e dispensa verità sconvolgenti in poche brevi frasi: incredibile, ma si trovava proprio lì, in mezzo alle prugne del centro degli Stati Uniti. «L’aria non è invisibile» disse Brand. Poco dopo, lei era scomparsa. Ingranammo la retromarcia. Gli scaffali del supermercato erano lunghissimi e multicolori, e io pensai a mio padre. Era quella la sua

arca brillante, migliaia di confezioni di panna montata spray con i loro beccucci fallici, la mitologia e il rombo del tuono, i lombi del Gigante Verde, secchielli traboccanti energia pulita e bianco che più bianco non si può, le angosce nascoste nei rettangoli delle scritture evangeliche. (Bisogna smuovere la merce dagli scaffali.) Un bambino era seduto in un carrello e frignava. La madre gli diede un gambo di sedano per giocarci e lui parve soddisfatto. «Chi è che vuole tanto bene alla mamma?» gli disse la donna. «Dimmi chi è che vuole tanto bene alla mamma, puzzetta mia. Il mio bimbo vuole tanto bene alla mamma. Ma certo che il mio bimbo vuole tanto bene alla mamma. Dimmelo, puzzetta mia. Il mio bimbo vuole tanto bene alla mamma. Sì, sì, sì.» Le donne infilavano la testa dentro congelatori giganteschi e ne riemergevano ancora vive. Le cassiere strisciavano i fianchi contro i registratori di cassa. Una vecchia signora cadde per terra. Dopo un po’, arrivammo a una cittadina di nome Fort Curtis. Ero l’unico seduto davanti, a guidare con calma, con gli occhiali verdi sul naso e un paio di vecchi calzoni kaki con enormi tasche posteriori, forse progettate per nascondere corde, pile elettriche e cesoie per il filo spinato. Era tardo pomeriggio di un giorno caldo, quasi fuori stagione, con il parabrezza coperto di insetti spiaccicati e un ronzio tranquillo di cicale che proveniva dall’erba alta in riva al fiume. Per quanto ne sapevo, il fiume poteva essere il Wabash, l’Ohio o il Mississippi. Percorremmo lentamente le strade ombrose e deserte della cittadina. Case di mattoni sotto filari di olmi secolari. Le verande avevano colonnine intagliate. Nei giardini c’errano aiuole di lillà, i pali del telefono erano coperti di muschio alla base, nel grande parcheggio alla periferia c’era un palco per la banda cittadina. Guidai ancora un po’, quindi fermai il camper davanti a un albergo intonacato di bianco su tre piani. Avevamo tutti bisogno di un bagno. Nell’atrio c’erano quattro anziani che sfogliavano le stesse riviste. Presi una camera con bagno, poi ritornai al camper. Brand e Sullivan si erano addormentati sulle brandine. Pike era seduto al tavolo con addosso i mutandoni abbottonati da fante della Prima guerra mondiale, a bere bourbon e ad annusarsi le ascelle. Svegliai Sullivan. Lei mise in borsa le sue cose e andò in albergo. Aspettai dieci minuti, poi salii in camera. Mentre stavo per entrare, sentii l’acqua scorrere nella vasca da bagno. La porta era aperta. Sul letto era stesa parte dei vestiti di Sullivan. Esaminai attentamente la vestaglia marrone, che pareva fatta apposta per la penitenza quaresimale. Le pareti della stanza erano di un verde arcigno e burocratico. In un angolo c’era un mucchietto di polvere, graffette metalliche e briciole di intonaco. Niente televisore. La poltrona aveva la fodera consumata. Sentii Sullivan immergersi nella vasca. «Deliziosi, i vecchietti giù nell’atrio» disse. «Com’è che si chiama questo albergo? Il Menopausa Hilton?» «Come hai fatto a, capire che ero entrato?» «Mi porterò il segreto nella tomba, Igor.» «Senti» dissi. «Quando ti lavi le gambe, le sollevi una alla volta fuori dall’acqua strofinandole dolcemente e con sensualità con la spugna come le modelle degli spot pubblicitari?»

«No.» «Posso entrare a guardare?» «No» rispose. «Perché no? Siamo fra adulti.» «Appunto.» «Se ti prometto di tenermi una mano sugli occhi, posso venire a lavarti la schiena?» «Dove sei seduto?» «Sul letto.» «Vedi se riesci a trovare le sigarette.» «Qui non ci sono» dissi. «Vuoi che scenda a prendertele?» «Non disturbarti.» Gettai sigarette e fiammiferi sotto il letto. «Sully, ti scoccerebbe se ci fermassimo qui un paio di giorni?» «Per il tuo film?» «Stasera mi guardo intorno, poi decido.» «Che ha di tanto speciale questo posto?» «Mi sembra antico, semplice e noiosissimo.» «Per me va bene. Lo hai chiesto agli altri?» «Secondo me andrà bene anche a loro. Siamo tutti piuttosto stanchi. Qualche giorno di riposo ci farà bene.» «Be’, si può sapere dov’è che siamo?» chiese. «Potremmo essere nell’Indiana. Come potremmo essere nell’Illinois o nel Kentucky. Non saprei.» «Mi sa che non ha importanza. Non so neanche perché te lo chiedo, ma cosa c’è a ovest di qui?» «Credo l’Iowa. Ma forse l’Iowa è più a nord. Sto cercando di farmi tornare in mente cosa c’è sotto l’Iowa.» «Non importa. Lascia stare. Non so neanche perché l’ho chiesto.» Rimasi seduto sul letto ad ascoltare le tonalità della camera, o forse il suo rumore di fondo, riprendendo con la mia cinepresa mentale la demarcazione fra luce e ombra sulla poltrona. Quella camera d’albergo sembrava al di là del tempo, o quantomeno al di là del presente, nel tono, nelle fattezze, addirittura nella qualità della luce e dell’aria. Mi pareva il tipo di camera che anni o decenni prima serviva più che altro ad attendere il rappresentante di articoli da ferramenta e le sue seratine al whisky. Era più che probabile che già ai tempi la camera fosse altrettanto squallida. Forse era quello il sogno dell’epoca, un piccolo tocco di libidine e disordine, sogno ormai perduto, perché i nostri istinti erano risvegliati da un’immagine nuova, di spose e mezzane e pistoleri del West, un’immagine che si adeguava perfettamente al nostro ascetismo: l’irresistibile ascesa del modesto motel, pulito e lindo a livello del suolo, con un coniglietto elettronico ai piedi del letto. Dalla porta socchiusa del bagno si intravedevano un braccio e un seno. Raccolsi dal letto l’accappatoio e lo lanciai mirando al polso. In quella stanza c’era

un’atmosfera morta. Morta e sepolta da trent’anni o più. Quella sera tirai fuori la mia cinepresa e uscii a fare una passeggiata. Era una Canon Scoopic da 16 millimetri, modificata per funzionare in sincrono con il registratore, un Nagra ultimo modello. La cinepresa non aveva l’obiettivo intercambiabile, ma era leggera, facile da maneggiare ed entrava subito in funzione. All’inizio la mia idea era di fare qualche ripresa semplice nel viaggio verso ovest, le facce bianche lignee degli agricoltori mennoniti, i sobri cittadini del Kansas vestiti per la messa. Ma in quel momento i miei progetti erano un po’ più ambiziosi, e per certi versi mi spaventavano, perlomeno nella loro versione non montata. Strinsi l’impugnatura, mi appoggiai la cinepresa alla spalla destra e cominciai a vagare per le strade silenziose. Dopo poco mi ritrovai una piccola folla alle calcagna.

8. Strano a dirsi, ma la panchina non era verde. Era azzurro chiaro, proprio di fronte al palco giallo. Il campo giochi, da un lato, brillava di colori ancora più allegri, forse per controbilanciare l’aspetto spartano e ostile del resto del panorama. Andai a sedermi e guardai una bambina che faceva navigare una scatoletta di fiammiferi in una pozzanghera ai piedi della fontana. Aspettai e le sei persone si avvicinarono lentamente a darmi il benvenuto, in due gruppetti di tre. Prima arrivarono un vecchietto e due vecchiette, poi un ragazzino seguito da due uomini che probabilmente avevano trascorso interi turni di guardia insieme su una bagnarola a Guadalcanal (nei gloriosi anni quaranta della Warner Brothers) a parlare della carrozzeria che avrebbero aperto in società il giorno che fossero tornati a casa. Ovviamente era la cinepresa a interessarli, il grande oggetto di conversazione postlineare, e mi si radunarono intorno gradualmente, presentandosi, rivolgendomi domande, mostrandosi amichevoli all’eccesso, preparandosi intanto all’indignazione di fronte a una mia eventuale inciviltà. Ma io rimasi ineccepibile dall’inizio alla fine, come un ospite in un luogo sacro. Il vecchietto era il signor Hutchins. Disse che gli piaceva farsi chiamare Signor H. o Hutch, come preferivano i suoi amici della Florida. Le due donne erano la moglie e la sorella, Flora e Veejean, sui sessantacinque anni, belle, sorridenti e silenziose come due tendine di pizzo in controluce. Una volta Hutch si era fatto comprare una Argus da un amico. Mi disse che tutto l’impianto gli era costato solo centocinquanta dollari: cinepresa, proiettore, schermo con treppiede, valigetta e pellicola. Aveva fatto il tutto esaurito nel seminterrato della Chiesa Metodista con le sue riprese delle Everglades. Gli altri uomini si chiamavano Glenn Yost e Owney Pine, e il ragazzo era Glenn Yost Junior, che però preferiva farsi chiamare Bud. Scoprii che i membri del gruppetto si conoscevano solo di vista, abitando in quartieri diversi, e si erano ritrovati lì sostanzialmente attratti dalla cinepresa, ragazzo e anziani incuriositi in pari misura. «Quanto costa la cinepresa?» domandò Bud. «Milleduecento e rotti.»

Il signor H. si lasciò sfuggire un fischio. «Forse quest’estate mi prendo un Super 8» disse il ragazzo. «Un Bolex 155, spero. Abbiamo un club, a scuola. Finora non sono riuscito a fare molto, perché l’equipaggiamento è molto limitato. Ma se riesco a prendere un Bolex, do fuori di testa. Che gamma diottrica ha, quella?» Il padre rimaneva indietro rispetto a lui, cupo e riflessivo, con l’occhio sinistro che scattava nervoso da una parte all’altra, la testa piegata completamente di lato, e guardandolo mi tornò in mente Hoyt Wilhelm, un lanciatore di riserva dei vecchi tempi, appostato sulla pedana ad attendere il segnale accarezzando con le dita le cuciture della pallina, con la prima e la terza base occupate e il fuoricampo libero, senza che a persona al mondo importasse. Seduto ai margini del palco c’era un giovane con una chitarra. Il signor Hutchins parlò di sé, al di fuori di qualsiasi contesto, definendosi un fanatico della precisione. Dopo di che si congedò insieme alle signore, spiegando che era ora di vedersi Bob Hope alla tv. Li guardammo allontanarsi lungo la strada, oltrepassando un enorme volano scheletrico. Io e Bud gareggiammo nel tentativo di mettere in soggezione gli altri, citando tutta una serie di tecnicismi incomprensibili ai profani. Poi Owney Pine appoggiò sul collo del ragazzo un braccione bianco, fingendo per scherzo di tappargli la bocca a forza e tenendolo ben stretto per un minuto o due, e da quel gesto traspariva un certo affetto reciproco, con l’adulto che saltellava e sgomitava senza quasi far caso al ragazzo, che a quindici o sedici anni era più che cresciuto e sicuramente non doveva essere facile da tenere fermo. «Conti di stare qui per un po’?» chiese Glenn. «Forse qualche giorno. Credo che alla mia cinepresa questo posto interessi.» «Sei uno di quelli dei mass media?» chiese Owney, tenendo sempre ben stretto il ragazzo che cercava di divincolarsi. «Sono un regista indipendente. Ora come ora sto solo cercando esterni per le riprese. Ti piacerebbe recitare in un film?» «Uaaau.» «Pensaci» gli dissi. A quel punto Bud si intromise con un’altra domanda e Owney lo lasciò andare. Chiacchierammo ancora un po’. Il giovane con la chitarra scese dal palco e si avvicinò. Si era messo la chitarra in spalla, e trascinava uno zaino. Mi sembrò un ragazzino emaciato e logoro con i vestiti in decomposizione, raggiante di gioia per qualche motivo. Nel vederlo avvicinarsi, gli altri indietreggiarono un poco: la loro era una ritirata etnica, qualcosa che intuivo più che vedere chiaramente. «Ehi, quella cos’è? Otto o sedici millimetri?» «E’ una Scoopic 16. Sostanzialmente una cinepresa per notiziari televisivi.» «Voglio arrivare a piedi fino in California» disse lui. Se ne stava lì, sorridendo, con le scarpe alte da basket ai piedi. Glenn Yost disse che era meglio se lui e Bud tornavano a casa a vedere come se la passavano i lombrichi. Il ragazzo li dissotterrava per rivenderli come esca. Li tenevano in cantina, chiusi in grossi

barattoli. A lui e Bud piaceva un sacco passare a dargli un’occhiata tutte le sere verso il tramonto, perché era a quell’ora che i vermi si dimenavano di più, e padre e figlio provavano un divertimento speciale nel vederli contorcersi, soprattutto quando erano tanti. A Glenn ripartì il tic all’occhio sinistro. Non avrei saputo dire se quello fosse il tipico senso dell’umorismo locale, sofisticato e complesso. Il ragazzo era assolutamente inespressivo, e mi venne da pensare che stessero solo prendendo in giro me, o la classica convinzione del forestiero secondo cui vivere in provincia significa rimanere prigionieri di piccole morti spirituali come passare la serata a guardare vermi o in strette di mano massoniche. (O forse cercavano solo di contrastare il potere ammaliatore del capellone, di distrarlo parlando di vermi mentre gli abitanti davano fuoco alla sua chitarra?) Owney Pine disse che sarebbe andato con loro. I lampioni del parco si accesero. «Mi sono messo in viaggio più o meno tre mesi fa» disse il giovane. «Sono partito da Washington, D.C., per cui sarà una traversata quasi da costa a costa. Ho cercato di camminare in linea retta, dal D.C. a Frisco, poi però ho deviato verso sud. Ma ho un sacco di tempo per riaggiustare la rotta.» «Si, più o meno tremila chilometri di tempo. Io mi chiamo Dave Bell. Tu?» «Richard Spector. Ogni tanto fatico a ricordarmelo. Mi sembrano passati secoli dall’ultima volta che ha avuto importanza.» Venne a sedersi accanto a me, mettendo i piedi sulla panchina e abbracciandosi le ginocchia. Mi parve molto fragile, con il viso quasi completamente nascosto dai capelli. Quando parlava mi guardava dritto negli occhi ma senza nessuna sfida, non con l’idea di uno scontro di ideologie, e mi parve di capire che avesse già sgombrato da tempo il suo cammino da cose del genere, per assestarsi su una posizione delimitata soltanto dalla lunghezza di ogni giorno di cammino di piedi doloranti. «Mi hanno trattato tutti bene» disse. «Mi danno da mangiare e ogni tanto da dormire. In un primo momento mi guardano strano, come a dire: che vuole questo da me? Ma poi, quando gli dico che voglio arrivare in California a piedi, rimangono tutti quanti coinvolti dall’assurdità della cosa. La gente è fantastica, se riesci a spostarle l’attenzione dai particolari e coinvolgerla in qualcosa di assurdo. Mi hanno trattato tutti benissimo. Mi sono portato dietro tutti i risparmi che avevo, settecento dollari tra contanti e traveller’s cheques, e in tre mesi ne ho dovuti spendere solo centocinquanta per mangiare e dormire in albergo quando di notte faceva troppo freddo per stare fuori e non trovavo nessun posto dove andare.» «Richard, non vorrei scoraggiarti, ma sembri proprio a pezzi.» «Avresti dovuto vedermi prima che partissi.» Scoppiammo a ridere tutti e due, poi Richard mi chiese se poteva provare la cinepresa. Tolsi il tappo all’obiettivo e lui si alzò in piedi con l’occhio contro la guardia di gomma del mirino per abbracciare lentamente tutto il panorama in una carrellata virtuosistica a 360 gradi. Sentii una macchina frenare di colpo, mi voltai e vidi prima un viso giovane di donna affacciarsi al finestrino dalla parte del passeggero, poi dall’altro lato, sopra il tettuccio, emergere testa e spalle di un uomo della mia età che si alzava a

fissarci. Apparentemente soddisfatto di avere preso la decisione di fermarsi, l’uomo tornò a sedersi al volante, ingranò la retromarcia e parcheggiò velocissimo lasciando striature di gomma sull’asfalto. Uscì dall’auto sempre fissandoci, richiuse la portiera con slancio quasi sdegnoso, poi entrò nel parco e in quel momento fu chiaro che non stava guardando Richard o me, cosa che mi procurò notevole sollievo, ma la cinepresa che Richard stringeva fra le mani. La ragazza lo seguì con calma, una bionda flessuosa sui venticinque anni, tranquilla come chi è nel fiore degli anni, dolce e paziente e non ancora offesa dalla vita, assolutamente non innamorata. Richard mi allungò la cinepresa. Lo sguardo dell’uomo la seguì anche mentre passava nelle mie mani. «Quell’affare emette un impulso per il sincrono?» «Esatto» risposi. «Il sonoro» disse. «Giusto.» «Io sono Austin Wakely. La signora si chiama Carol Deming. Ho visto quella cosa lì dalla macchina e mi sono detto: andiamo a dare un’occhiata. Che cosa ci giri con quella?» «Underunderground» risposi. «Ma con il sonoro.» «Qualcosa. Qui e là.» «Io faccio l’attore» disse. «Studia recitazione» lo corresse Carol. Mi presentai, dissi da dove venivo e li invitai a sedersi accanto a me sulla panchina. Mi accorsi che Richard Spector era sparito. Poi vidi che era tornato al suo posto sul bordo del palco. «Studio con Drotty» disse Austin. «Chi è?» «E’ di Minneapolis. Ha lavorato insieme a Guthrie. E’ uno talmente poco impostato, che non poteva resistere in un ambiente così strutturato. E’ per questo che si è trasferito al McCompex. Quell’istituto nuovissimo otto chilometri a est di qui. Sull’East Coast non l’avete ancora sentito nominare, ma lo sentirete presto. Il nome esatto dell’istituto è McDowd Communication Arts Complex. La sessione regolare finisce il mese prossimo. Ma io rimango per quello estivo. Prima di venire al McCompex ho fatto svariati lavori in giro. Sono dello Stato di Washington.» Carol era seduta fra noi due. «Il problema è cosa sono io e cosa voglio diventare» disse Austin. «Devo pur riconoscermi in qualcosa. Drotty è un asociale. Omosessuale, naturalmente. Come tutti. Ha le sue tensioni e le sue ansie, e fuma un sacco. Come tutti, Ma Drotty mi ha insegnato una cosa, ed è questa: che la pressione sociale è spaventosa, ma c’è sempre la possibilità di reimpostarla. La recitazione è amore. Cos’è che diceva la Nazimova?» Spostai leggermente la gamba, una frazione infinitesimale di un centimetro, e mi trovai a toccare Carol. Lei rimase assolutamente immobile, e Austin continuò a parlare. Mi spostai ancora, e ci trovammo a contatto dalla coscia al ginocchio. La situazione era di una delicatezza infinita. Forse non si era neanche accorta che la mia gamba premeva

contro la sua, forse se n’era accorta ma non le faceva né caldo né freddo, o forse aveva capito tutto fin dall’inizio. Avvicinai il braccio al suo. Austin continuava a parlare. I nostri avambracci ora si toccavano, pelle nuda che si sfiorava a malapena come una brezza leggerissima che soffia dal mare, pelle che andava a posarsi sulla peluria argentea e quasi invisibile del suo braccio. Lei rimaneva imperturbabile, senza dare segni di sorta. Aspettai qualche minuto. Poi feci scivolare la mano destra sulla gamba, appoggiandola sopra il ginocchio destro. Carol teneva gli occhi fissi nel vuoto. Ero molto nervoso. Nel giro di pochi secondi avrei scoperto se lei aveva capito o meno, e in quale modo riteneva più giusto rispondere. Non volevo delusioni. Era fondamentale che mi trasmettesse il segnale giusto. Feci scivolare lentamente la mano nello spazio fra la mia gamba e la sua. E lì la fermai. Tenevamo entrambi lo sguardo fisso davanti a noi. Poi la sentii spingere leggermente la coscia verso di me, un calore leggero e gradevole sulle dita, uno spostamento di peso appena accennato, un muscolo che si tendeva; il corpo di Carol era immobile e tuttavia esprimeva movimento, cercava equilibri nuovi venendomi incontro. Risposi alla pressione, poi mi allontanai di qualche centimetro, Austin continuava a parlare e io cominciai a rilassarmi. Io e Carol tenevamo lo sguardo fisso davanti a noi. Era il primo istante di gratificazione da quando avevo lasciato New York. Austin mi spiegò come contattarlo e disse che gli sarebbe piaciuto avere notizie del mio progetto. Solo in quel momento, mi resi conto che era un bell’uomo. Capelli e occhi scuri. Spalle larghe. Tipo intenso. Ci alzammo e gli strinsi la mano. Carol era in disparte con le braccia conserte sotto i seni. La sua era una posa da casalinga in giardino a scambiare pettegolezzi e consigli sui detergenti per la casa, ma i fianchi erano protesi in avanti e lo sguardo era interessato, meditabondo, più che sufficiente a redimere l’attimo. Dissi a Austin che mi piaceva molto la sua macchina, una Barracuda verde, e nelle poche frasi che ci scambiammo riuscii ad accennare al fatto che la mia Mustang rossa, al momento parcheggiata nel Maine, aveva lo stesso tipo di sedili alti dietro e gli stessi specchietti laterali da corsa. Li guardai allontanarsi, poi rivolsi un cenno a Richard e lui scese dal palco per venire con me al camper. Restammo a chiacchierare un po’ con gli altri. Più tardi, durante la cena a base di carne in scatola e sangria, Sullivan annunciò che da quel momento in poi Richard veniva ribattezzato Kyrie Eleison. Mi allungai a prendere il registratore. «Facevo il portalettere al Dipartimento di giustizia di Washington» disse lui. «Sentivo che stavo diventando trasparente. Avevo come la sensazione che dopo aver mangiato chiunque potesse vedere il contenuto del mio stomaco. Era solo una delle cose che mi succedevano. Cominciavo ad avere paura che dagli edifici governativi si staccassero i pezzi e mi cadessero in testa. Ma il peggio era camminare in una strada affollata. Sapete anche voi, quel modo che ha la gente di spostarsi avanti e indietro, quando i veloci vogliono sorpassare a tutti i costi i lenti. Sempre con grandi spintoni, e quelli che vanno in fretta finiscono invariabilmente per pestare i piedi ai lenti e sfilargli le scarpe. Io ero uno di quelli che andavano veloci. Sempre di fretta, anche quando non avevo una destinazione precisa, e mi scocciava molto trovarmi davanti qualcuno che

camminava con calma. Un giorno stavo cercando di superare un vecchio che continuava a spostarsi verso il margine del marciapiede tagliandomi la strada, e di colpo mi sono ritrovato a urlargli nel pensiero, in silenzio: LARGO! LARGO! Senza gridarlo veramente, solo con il pensiero. Ho cominciato a farlo di continuo. LARGO, pensavo di gridare alla gente. MUOVERSI ! MUOVERSI! E mi sembrava di vedere le parole stampate nel cervello a caratteri cubitali, come in un fumetto. Poi, un giorno, una donna di fronte a me si è bloccata di colpo e per poco non le sono finito addosso. Mi sono trovato a gridarle con il pensiero una parola nuova: CREPA! E se gliel’avessi urlato davvero, probabilmente lei sarebbe morta sul serio. Era un grido interiore veramente spaventoso, me lo vedevo scritto a grandi lettere rosse nel cervello, con un punto esclamativo. E ho cominciato a rendermi conto di essere anormale. Ero uno che camminava per strada urlando mentalmente CREPA a dei poveri innocenti. Dopo diversi mesi che andavo avanti così, feci uno sforzo consapevole di finirla con quelle urla. Ma era troppo tardi. Era diventato un pensiero automatico. CREPA! CREPA! Adesso vi dico che tipo di uomo ero. Il tipo d’uomo che finisce sempre per innamorarsi delle mogli degli amici.» «Hai smesso di urlare CREPA agli altri?» domandò Sullivan. «Ho smesso il giorno che mi sono licenziato e non l’ho più urlato a nessuno da allora. Non ho più urlato niente a nessuno, da allora. Adesso vi dico cos’altro ero. Ero il tipo che legge sempre sui giornali gli elenchi dei morti e dei dispersi quando precipita un aereo. Li leggevo con un’ossessività totale. Non so proprio cosa mi aspettassi di trovarci. Magari il nome di un amico? O forse il mio? La cosa più deprimente che si possa leggere al mondo è un lungo elenco di nomi di morti. Alcuni sono incompleti, altri non hanno la città di provenienza. Poi c’è l’elenco dei dispersi. Come si fa a risultare dispersi in un disastro aereo? Dove può andare a finire un sopravvissuto, secondo voi? Adesso vi dico cos’altro facevo. Provavo uno strano imbarazzo a pronunciare i nomi altrui, soprattutto quelli di amici e parenti. Per qualche motivo non mi rivolgevo mai alle persone con il nome giusto. Era un imbarazzo un po’ goffo. Chiamavo sempre gli altri Max, Charlie, Guido o Steve. Erano i quattro nomi che usavo più di frequente. Non chiamavo mai una persona in particolare con un nome in particolare. Nomi e persone erano intercambiabili. Magari un giorno chiamavo un amico Max e il giorno dopo lo chiamavo Guido. Certe volte perfino durante la stessa conversazione. Nessuno sembrava prendersela. Mi sa che è un po’ come sentirsi chiamare amico, o vecchio mio. Non ho proprio idea del perché abbia scelto proprio Max, Charlie, Guido e Steve. Con le donne non avevo problemi. Le donne le chiamavo sempre con il loro nome giusto. Mi spiegate perché non riuscivo a chiamare per nome gli uomini?» E’ cambiato anche quello?» chiesi. «E’ cambiato tutto» rispose. «Adesso, per esempio, non mi angoscia più il fatto che non parlo il francese. Una volta mi preoccupava molto. Mio padre parla francese benissimo. Non faceva che invitare gente a cena e tutta la sera si parlava in francese. Era il suo modo di tenermi in pugno. Ma ormai non me ne frega più niente. Non vivo più nel

terrore. C’è un sacco di gente come me che ha deciso di tirarsi fuori. A noi non interessa il tipo di potere che i vecchi desiderano a ogni costo. Loro cercano di dominarci, parlano in francese e sanno le proporzioni giuste per preparare un whisky sour e portano quei soprabiti con i bottoni dei polsini che si sbottonano davvero. Ma c’è molta gente come me che si è tirata fuori. E non ce ne frega niente anche se non sappiamo pronunciare i nomi dei vini francesi. Del resto, che ha di male il vino della California? Che cazzo, siamo in America. Per quanto faccia schifo, dobbiamo imparare a conviverci.» Quella notte Kyrie dormì in albergo. Noi ci sistemammo sulle brandine dentro il camper. Appena prima di addormentarmi, mi immaginai di fare a botte con Brand. Ci tiravamo tanti pugni. Poi i miei pensieri vennero occupati da altre immagini: oggetti personali, cose che tenevo in casa, forme di oggetti che non manipolavo da tempo: la Olivetti Lettera 32, la Nikon F., e poi immagini di ragazze in calze viola che percorrevano pianure di carta, e poi James Joyce e Antonioni e Samuel Beckett seduti nel soggiorno di casa mia, sei caviglie incrociate, Tana Elkbridge nuda in Riverside Drive mentre suo marito leggeva “Business Week” a diecimila metri di quota, Jennifer nuda nell’isolato dell’Ottantesima Ovest, con quelle ossa pelviche quasi commoventi, Meredith nuda a Gramercy Park, Sullivan nuda nella vasca da bagno. Poi di nuovo io e Brand che ci pestavamo. Schivavo un destro e rispondevo con un sinistro allo zigomo e un destro secco al mento. Brand cadeva in ginocchio, sputando sangue. Lo presi a calci nello stomaco, dopo di che mi addormentai. La mattina seguente facemmo colazione a una tavola calda. Uomini in camicie a maniche corte che andavano e venivano. Io piegai le dita ad artiglio. Brand sedeva al tavolo e rideva. Poi cominciò a ridere anche Sullivan. I camerieri al banco si voltarono a fissarli. Brand era chino sul tavolo a braccia incrociate e rideva annuendo. Sullivan sedeva irrigidita di fronte a Brand, ridendogli addosso. Piegai ad artiglio tutte e due le mani e cominciai a saltare su e giù sulla sedia. Aprii leggermente la bocca, piegando in basso gli angoli delle labbra, mostrai i denti inferiori e mi morsi il labbro superiore. Sapevo benissimo che non ridevano di me, ma continuai lo stesso a fare smorfie e ad artigliare l’aria. Non mi piaceva rimanere escluso. Non sapevo perché ridessero, quindi feci finta che ridessero di me. Pike scoppiò a ridere. Mi voltai verso i camerieri al banco e finsi di aggredirli alle spalle con gli artigli snudati. Rideva anche Kyrie. Arrivò la cameriera con i piatti. Brand alzò la testa a guardarla e mancò poco che cadesse dalla sedia dal ridere. Io rilassai le mani. Kyrie indicò il suo piatto con le uova strapazzate e fra i quattro si scatenò una nuova ondata di ilarità. La cameriera ci sorrise, ferma accanto al tavolo a scrivere il conto. Brand indicò la matita che lei stringeva. La guardò anche lei e scoppiò a ridere. Era tutto buffissimo. Una giornata limpida di primavera e di colpo tutto pareva buffissimo. Andai in bagno a guardarmi allo specchio. Continuarono a ridere per tutta la durata della colazione. A turno, uno di loro indicava qualcosa e tutti esplodevano in grasse risate. La bottiglia del ketchup era esilarante. Brand si toglieva di continuo gli occhiali e li puliva con un tovagliolo. Aveva una faccia universale da bollettino di ex alunni. Assistente caporeparto della divisione

polimeri per la Tenneco Chemicals di East Rutherford, New Jersey, ufficiale di addestramento per la Divisione sistemi bellici dell’Università Aeronautica della base militare di Maxwell, Alabama. Brand, socio di minoranza. Il giovane Repubblicano. Era più alto di me di un paio di centimetri. Sui cento chili. Occhi come lastre di vetro infangato, grigi e lontanissimi. A quel punto si alzò in piedi a benedire il ristorante, di nuovo inespressivo, imponendo con la mano destra il segno della croce dall’alto sul consesso di uomini e donne seduti ai tavoli. Terminai la colazione e lasciai sul tavolo venti dollari. Poi uscii, seguito da Pike. Ci fermammo sul marciapiede davanti all’albergo. Notai che si chiamava Ames House. «Vediamo se riesci a rispondere» disse Pike. «Prenditi tutto il tempo che ti serve per pensarci. Senti qua. Apri lo stomaco a un’orca assassina. Secondo te, più o meno quante foche e focene ci trovi dentro?» «Meglio se mi ci lasci riflettere.» «Circa venticinque» rispose. Dovevamo lasciare la camera entro mezzogiorno. Salii in camera, chiamai la reception e chiesi di chiamare il mio ufficio a New York. Quando rispose la centralinista del network, chiesi di parlare con David Bell. Fu una sensazione bizzarra. Rispose Binky. «Ti manco?» domandai. «Chi parla?» «La persona che ammiri di più al mondo.» «Basta con gli scherzi.» «Dave Bell è il mio nome, il cinema la mia professione.» «David, come stai?» «Ti manco?» «Sì, qui è talmente una noia.» «Anche qui.» «Dove sei?» domandò. «All’angolo fra la Cinquantatreesima e la Lex.» «Indovina un po’? Gira voce che Grove Palmer è finocchio. Jody mi ha raccontato che Sid Slote lo ha incontrato per caso alle Bermuda, ed era insieme a dei tipi molto checca.» «Direi che quadra. Mi ha sempre insospettito.» «Indovina un po’ cos’altro c’è?» «Di’.» «Volevo vedere se ci arrivavi da solo. Ti ricordi Harris Hodge? Il primo rimpiazzo assunto da Weede dopo il grande stupro e il genocidio? Si è fatto vedere ieri.» «Che aspetto ha?» «Molto elegante, David. Grande senso dell’umorismo. Ed è proprio carino. Hallie dice che le ricorda Paul Newman, solo più giovane.» «Più giovane di quanto? Voglio l’età esatta.»

«Non sono ancora riuscita a scoprirla.» «Alzassi un po’ il culo dalla sedia, ogni tanto.» «Non arrabbiarti.» «Che altro?» domandai. «Trockij ha colpito ancora.» «Quando?» «Due giorni fa.» «Splendido, splendido. Con che nome ha firmato il promemoria? Aspetta, voglio indovinare.» «Scordatelo» ribatté lei. «Mi sembrava che fosse il momento giusto per Giambattista Vico.» «Acqua, tesoro.» «Ieri notte pensavo a Beckett. Lo ha firmato Beckett?» «Non ce la farai mai a indovinare, per cui tanto vale che te lo dica io. Triplo nome. Otto Durer Obenwahr.» «Certo che stavolta Trockij lo ha veramente tirato fuori dal cappello a cilindro.» «Dillo a me. Stanno cercando tutti di capire chi sia questo Otto Durer Obenwahr. Stamattina Ed Watchold ha spedito in biblioteca la sua segretaria. Sono tutti un po’ in subbuglio.» «Cosa dice? Qual è la citazione?» «L’ho messa da parte apposta per te. Pronto? “Idioti! Idioti! La quadratura del cerchio è un gioco da bambini. E’ l’esatto contrario che porta alla visione beatifica”.» «Interessante» dissi. «Secondo te cosa significa?» «Molto interessante.» «Grazie mille.» «Senti, scoprimi tutto il possibile su questo bastardo di Harris Hodge. Ma soprattutto quanti anni ha.» «Okay.» «A Weede è simpatico?» «Vanno a pranzo insieme domani.» «Scoprimi se a Weede è simpatico. Ti richiamo prima di raggiungere i Navajo.» «Okay. Divertiti.» «Ci sentiamo, Bink.» «David, quasi mi dimenticavo.» «Che c’è?» «Hanno dovuto portare di corsa Ted Warburton all’ospedale.» «Quando?» «Ieri pomeriggio. E’ crollato sulla scrivania.» «Ciao» dissi. Restammo tutti e cinque seduti nel camper l’intero pomeriggio. Pike beveva Old

Crow da un bicchiere di carta e ogni tanto grugniva. Di fronte a noi c’erano le Montagne Rocciose, grondanti sudore, zampe che grattavano la terra, pronte a scagliarsi sulla preda, loro custode il leone di montagna. Brand aveva lo sguardo perso dietro gli occhiali, secondo me assorto nel suo ritorno a uno spazio senza tempo al centro del suo essere, ricordi confusi di quattro mura e il grigio sciamano. Kyrie si mordicchiava la nocca del pollice destro. Qualcuno che stava parcheggiando urtò il paraurti posteriore del camper e il colpo ci fece ondeggiare la testa. Io portavo i miei mocassini Comanche, calzoni di velluto a coste larghe, cinturone e camicia sportiva nera. «Sully, chi è Otto Durer Obenwahr?» «Un noto studioso di ossigeno liquido e rifornimenti di carburante in volo ad alta quota.» «Dico sul serio. Mai sentito nominare?» Sullivan tentava di strappare dal giornale che stava leggendo dei pezzetti rotondi di carta. Poi li allungava a Kyrie. Kyrie era seduto per terra. Prendeva i cerchietti e li passava a Brand. «Io vado a fare due passi» dissi. «Portaci dei Mars» disse Brand. «Mi devi il resto di venti» dissi. «A colazione ho lasciato sul tavolo venti dollari.» «Non guardare me, Davy. Non l’ho pagato io, il conto.» «Neanche io» disse Kyrie. «Non guardare me.» «Uno di voi mi deve il resto di venti dollari.» «Io sono uscito con te» disse Pike. «Be’, uno di voi mi deve il resto. Finora ho pagato tutto io.» «Portaci delle caramelline» disse Kyrie. Mi avviai per una strada che aveva tutta la tristezza delle strade che portano fuori città, una strada da canzone blues, macchie di olio rovesciato dagli autocarri, un semaforo sospeso che ondeggiava al vento sopra un incrocio deserto. Attraversai la strada dirigendomi verso un edificio con un’insegna al neon sulla facciata che reclamizzava una marca di birra. Andai al telefono, chiamai il McDowd Communication Arts Complex e chiesi di Carol Deming. Stavo usando il telefono a parete in fondo al bar. Al banco c’erano tre meccanici. Vidi che c’erano un flipper, un minibowling, un jukebox e una tavola per lo “shuffleboard” con tre dischetti d’acciaio abbandonati sulla resina. Poi sentii la voce di Carol. «North Atlantic Treaty Organization.» «Ciao, non sapevo se ti avrei trovata. Sono David Bell, quello del parco.» «Mi spiace, questo è il centralino della NATO di Bruxelles. Sono già usciti tutti. Vuole lasciare un messaggio?» «Sono in un bar in Howley Road.» «Buster’s» disse lei. «Una volta era la caserma dei pompieri.» «Ce l’hai una macchina?» «Posso prendere quella di Austin.»

«E a lui non scoccia?» «Ovvio che gli scoccia.» Andai a sedermi al banco e ordinai uno scotch. Il portacenere di fronte a me era pieno di pezzi di unghie tagliate. Quando lei arrivò, ero già al terzo scotch. Camminava in un modo che le faceva svolazzare leggermente la gonna contro le gambe, e io mi sentivo fortunato e in vena di improvvisare, come una musichetta allegra e leggera che batte in testa. Mi accorsi che i tre meccanici la guardavano, ma non sbavando di libidine troglodita; con un poco di gioia, piuttosto, o almeno così mi pareva, un piccolo sussulto della carne, quel senso piacevole di benedizione nel vedere una bella ragazza a gambe nude che attraversa una sala con il sorriso di chi ama farsi guardare. Cercai di non mostrarmi troppo compiaciuto. Lei diede un’occhiata al mio bicchiere e ordinò lo stesso. «Non ero sicuro che fossi anche tu al McCompex. Pensavo ci stesse solo lui. Ieri non hai detto niente a proposito. E’ stato ieri che ci siamo conosciuti?» «Non c’è molto da dire, David. E’ solo una delle tante cose che faccio aspettando il divorzio da mio marito. Avevo da parte un po’ di soldi e ho sempre desiderato studiare recitazione. Per cui sono venuta qui.» «Da dove?» «Detroit» rispose lei. «E’ li che sei nata?» «Ero figlia di un militare. Ho abitato in nove stati.» «E a Detroit che facevi?» «Andavamo a bere l’aperitivo tutti i venerdì sera al Zebra Lounge. Questo facevamo.»» «Vuoi dire con i colleghi dell’ufficio.» «Sai anche tu com’è, il venerdì. Tutti che vogliono rilassarsi un po’ con un paio di aperitivi. C’erano i canapè per i clienti fissi. E noi eravamo clienti fissi.» Restammo a bere e a chiacchierare per un po’. Mi sentivo bene, tranquillo, ispirato nel dialogo, già al quarto drink, una fiammella chiara che prendeva forma. Carol tirò fuori dalla borsetta un pacchetto di Gauloises. Gliene accesi una e insieme al fumo si alzò un sentore dolciastro e sgradevole. «Per caso fra i clienti fissi dello Zebra c’era anche il tipo estroverso che tutte le volte scherza con il barista e ordina sempre cocktail esotici?» «Fred Blasingame» rispose lei. «Che cocktail ordinava? E’ importante.» «Ricordo che una volta ha chiesto un Americano. E un’altra un Black Russian.»» «Secondo me stiamo andando bene. Carol, quando fai il bagno ti piace sollevare una gamba dall’acqua e lavarla lentamente con sensualità?» «Stai esagerando.» «Carol, che ne pensi della guerra?» «Non riesco a sentirmi coinvolta, forse perché mi sembra talmente moscia.» «C’è gente che muore.»

«Lo so. Terribile, vero?» «Sai chi è Otto Durer Obenwahr?» le chiesi. «Non era il chitarrista solista dei Grand Funk Railroad?» «Permettimi una domanda. Qual è l’esigenza più pressante in America, ora come ora?» «Il patriottismo» rispose. «I nostri figli devono fare ritorno alla madre. Lei li aspetta a gambe larghe. La priorità nazionale deve tornare a essere l’eliminazione della gente con gli occhi porcini e la fronte sfuggente.» «Allo Zebra c’era la filodiffusione? Rispondi subito, per favore.» «Sì» disse. «Fra i clienti fissi c’erano mai discussioni amichevoli riguardo al titolo esatto di una canzone?» «Sempre. Carl Stoner, che lavorava in borsa, litigava di continuo con Martha Leggett. Martha Leggett era la ragazzina più spiritosa del mondo. Alta meno di un metro e mezzo. Freddy B. le dava sempre il suo sigaro per fare qualche tiro. Ci circondavamo di fumo e rumori. Era così che avevamo scelto di vivere. E io sono pronta a difendere questa scelta.» «Ma le voci sul conto di Carl Stoner e della moglie di Fred Blasingame avevano qualche fondamento reale?» «Ma dai. Non è mai girata una voce del genere. E poi non mi hai neanche chiesto della casetta in giardino.» Ordinai altri due scotch. Non avevo idea di dove stessimo andando a parare né alcuna fretta di scoprirlo. Era chiaro che le finte e i giochi di prestigio del momento non le confondevano neanche un po’ le idee. Rispondeva con troppa facilità. A mano a mano che procedevamo la sentivo cambiare tono di voce e struttura della frase, e mi resi conto che non era affatto una semplice aspirante attrice. Sembrava totalmente rilassata, quasi annoiata, felice di lasciare che fossi io a stabilire ritmo e tema dell’incontro, limitandosi a modificare l’inflessione da una frase all’altra e tuttavia senza mai abbandonare quella sua ironia di fondo, il nucleo duro del Midwest. Gli occhi emettevano lampi azzurri. Non era certo la cosa peggiore che ci si aspetta di trovare in una vecchia caserma dei pompieri dell’Iowa, o del Missouri o dell’Illinois. «Sei mai stata a New York?» le domandai. «Andavamo sempre al molo di Gansevoort Street a guardare il tramonto. Uscivamo a mangiare il cibo dei neri sulla Decima Avenue.» «Capitava mai che allo Zebra, dopo un tot di cocktail o anche più, qualcuno degli uomini della compagnia infilasse la mano sotto il tavolo e ti accarezzasse una coscia?» «Credo sia inevitabile, quando si esce a bere con una compagnia mista. Ma non ci sono mai stati problemi. Nel senso che mi bastava spostarmi un po’ sulla sedia, loro capivano e la cosa finiva lì.» «E la piccola Martha Leggett, anche lei si spostava un po’ sulla sedia?» «Non ho modo di saperlo.»

«Mi congratulo per la lealtà.» «Era una ragazzina piccola piccola e canterina, dura come l’acciaio. Lei e Fred Blasinger sembravano un duo di comici. George e Gracie. Li chiamavamo così. Anche mio padre si chiamava George.» «Il che ci porta dritti alla casetta in giardino» dissi. «L’erba alta, la limonata. Quei pomeriggi interi a far niente in casa di zia Nell. Ero talmente stupida, a quindici anni. Mi è molto difficile.» «Provaci, ti prego.» «Lui veniva dalla base a trovarmi, alto sull’erba alta, illuminato dal sole, era talmente bello e scintillante. In uniforme. Nell ci preparava una limonata. Andavamo a sederci davanti a casa, sotto il grande olmo, noi tre insieme a John Morning. Papà mi aveva regalato un libro di poesie, sonetti scritti da una signora del Sud il cui amante era morto in battaglia a Vicksburg. Nell tornava in casa a preparare la cena. John Morning ci cantava uno spiritual e poi se ne andava alle stalle. Papà mi leggeva i sonetti, e allora io scoppiavo a piangere e mi davo della stupida e lui rideva piano, in quel suo modo così gentile. Bevevamo la limonata e guardavamo il sole tramontare sopra l’olmo.» «E dov’era il piccolo Jamison?» le chiesi. «Il piccolo Jamison era affogato nel Loon Lake solo tre settimane prima. Ovviamente papà lo sapeva, ma era talmente delicato e saggio da non fare il minimo accenno a quella tragedia. Dopo cena passeggiavamo nell’erba, sotto la luna piena. Ascoltavamo i grilli e papà mi teneva per mano. Poi tornavamo in casa. Nell ci preparava una limonata e John Morning ci diceva che il puledrino stava crescendo proprio a meraviglia. Papà andava in stalla a vederlo. Io andavo in camera mia, e più tardi lui saliva da me e cominciava a parlarmi a bassa voce al buio, mi parlava della guerra e della morte, e mi toccava piano nei punti delicati. Non faceva il minimo accenno alla tragedia del piccolo Jamison, e non diceva una parola sul casetta in giardino.» «A che ora ti ha svegliato quel rumore strano?» «Era quasi l’alba quando mi ha svegliata un rumore strano. Sono scesa dal letto e mi sono infilata i pantaloni da cavallerizza e il maglione verde senza un bottone. Ce l’ho ancora, quel maglione. Lo portavo l’ultima volta che ho visto il piccolo Jamison, due notti prima che affogasse. Eravamo seduti in veranda dietro casa a bere limonata. John Morning cantava uno spiritual. Il piccolo Jamison mi chiedeva se sarei rimasta tutta l’estate o solo poche settimane, come in passato. Gli rispondevo che dipendeva da mia madre. Lui diceva che era stufo di tutti quei misteri su mia madre, che voleva la verità.» «Per cui gli hai raccontato della casetta in giardino.» «Sì, gliel’ho raccontato» rispose. «Lui era l’unico a conoscere quell’orribile segreto. E due notti più tardi è affogato nel lago. Ho ancora quel maglione da qualche parte, chiuso in un baule. Hai idea di quanto mi sia difficile raccontare queste cose?» «Carol, quando ti sei resa conto che la sua morte non è stata accidentale?» «E’ stato quel rumore strano che mi ha svegliato. L’ho riconosciuto benissimo, e allora ho realizzato che prima di venire buttato nel lago il piccolo Jamison era stato

ucciso a colpi di pistola. Mi sono messa il vestito scollato di raso rosso, quello che portavo al secondo funerale di mia madre. Non c’è bisogno di dire che il rumore veniva dalla casetta in giardino. Ho attraversato il campo di erba alta, tutta bagnata di rugiada. Stava sorgendo il sole, sopra l’olmo. Ho aperto la porta.» «E cosa hai visto?» «Papà. Era nudo, a parte l’uniforme.» «E cosa stava facendo?» «Non posso continuare. Sul serio.» «Cosa stava facendo, Carol?» «Stava crivellando di pallottole il cadavere affogato di John Morning.» «E cosa hai visto in mano a John Morning?» «Il medaglione. Il medaglione d’argento di mia madre.» «Capitava mai che qualcuno dei clienti fissi dello Zebra spezzasse in due il bastoncino per mescolare i cocktail con un colpo secco di plastica?» «Bob Kirkpatrick.» «Perfetto. Cosa puoi dirci di lui?» «Che sembrava una sequoia.» «Sei in grado di dire il nome del governatore della California?» «La California non esiste.» «Ottimo. Se una sequoia cade in una foresta senza nessun testimone fa rumore? O forse il rumore dipende dalla presenza di un essere senziente?» «Fa rumore.» «Che rumore?» domandai. «Il suono di un applauso con una mano sola.» «Ti stai spingendo troppo in là, Carol. Ma cercherò di tenerti dietro. Poco fa hai parlato di tuo marito. Era anche lui uno dei clienti fissi?» «Mio marito non fa parte di nessuna clientela, né fissa né di passaggio né di altro tipo. E’ nero. Più nero del nero.» «Vuoi dirmi che è negro.» «E’ quello che una volta si diceva un negro americano.» Ormai mi stavo ubriacando. Il barista ci mise di fronte altri due bicchieri pieni. Le accesi un’altra sigaretta e lei girò la testa per soffiare via il fumo, poi la girò di nuovo lentamente a fissarmi con un sorriso triste. I tre meccanici erano al flipper. Al lato opposto del bancone, quattro giovanotti bevevano birra. «Tu che ci fai qui?» domandò lei. «Non volevo essere un cliente fisso. Ormai vedevo i fantasmi. Una notte stavo dormendo in un loft. Ero stanco e sbronzo, e mi sono addormentato. Ho sognato la città dove sono nato. Quando ho aperto gli occhi, mi è sembrato di veder entrare il fantasma di mia madre. Ma era solo un’apparizione trascinata fuori dal sogno. Quella che ho visto era la proprietaria del loft. Lo usava come studio. Quando ho aperto gli occhi, era appena entrata ed era ferma sulla porta. Per te che senso ha, ammesso che ne abbia?»

«David, sono a pezzi. Sono stanchissima. E’ stata una giornata lunga. Se non ti spiace, io torno a casa.» «Ti voglio nel mio film» le dissi. Quando tornai al camper, gli altri stavano cenando. Dopo cena, a beneficio di Kyrie, Brand si mise a tendere e distendere ritmicamente i muscoli dell’avambraccio in modo che il tatuaggio dei due cani sembrasse in movimento. Mi aspettavo che qualcuno si lamentasse della permanenza prolungata nella cittadina. Kyrie andò a dormire sotto il tavolo. Io mi portai a letto la radio di Sullivan. La accesi a basso volume e rimasi ad ascoltarla al buio. Quando Pike cominciava a russare, tiravo un pugno sulla fiancata del camper e lui smetteva per un po’. Non riuscivo a prendere sonno, per cui rimasi ad ascoltare la radio per metà della nottata, cambiando continuamente stazione, nazione, emisfero, passando sulle onde corte ad ascoltare le voci delle navi al largo, un mondo notturno intero che sfrigolava, idiomi ingarbugliati, voci colte in una tempesta di passioni e scariche di elettricità, spot pubblicitari, preghiere, notiziari, poesie, risse negli stadi, minacce di morte e guerra e rivoluzione, risate dalle montagne e appelli alla ragione dalle grandi pianure, una manifestazione a La Paz, una frana a Zurigo, un assassinio a Dakar, un incendio a Melbourne, disordini a Tokyo, grandi tragedie ad Atene. Poi sentii una voce che riconobbi. «Al suono del gong saranno le tre in punto del mattino. Le tre della morte in punto. Qui è Beasley la Bestia che vi parla, e ci restano due ore da trascorrere insieme. Ma i prossimi minuti sa ranno cruciali e ci diranno tutto. E’ ora di togliersi la garza dall’ombelico. E’ ora di mordere le gambe alle sedie. Lo so che ci siete tutti, lì fuori a mammalandia, siete a decine di migliaia, piegati per terra a frignare, a leccare la canna d’acciaio gelido della pistola. Inizia la lotta. E’ ora di mettersi a urlare nel cuscino. E’ ora di tappezzare le pareti di casa con il vostro cervello. Ma se riusciamo a sopravvivere ai prossimi dieci minuti, sopravvivremo alla notte. Sono le tre del mattino e i lupi mannari si aggirano in soggiorno. Tempo Medio Americano. Siete tornati a casa dal lavoro per trovare vostra moglie a letto con vostra sorella. E avete provato uno strano senso di sollievo. Siete rimasti a guardare. Certo, lo so anch’io com’è la vita lì fuori. Come un bel bulbo oculare succulento che va avanti e indietro sulla lingua. Un occhio di capra. La nera pupilla scintillante del padre di tutti gli stupratori delle pecorelle che contavate per addormentarvi nel vostro lettino bagnato d’infanzia. Lo so com’è. Io, Beasley la Bestia, ho già sofferto in anticipo quasi tutto. Costretto dai miei capillari da prete ad andare fino a Dublino pur di ottenere erezioni e durata adeguate alla bisogna. Pur di vezzeggiare la mia mogliettina, Molly che voleva fare Bloom Bloom, madre di angosce gemelle. Certo che li conosco i vostri segreti. Sono tre giorni che vi segue per tutta la città un gigante malese calvo in impermeabile. Avete fatto pubblicare un annuncio sul “Free Press” di L.A. Cercansi maschioni, lesbicone e cuccioli già addestrati per autoerotismi. Avete aggiunto in piccolo: astenersi maniaci. E per le risposte avete indicato un numero di casella postale corrispondente a giorno, mese e anno in cui avete ricevuto la prima comunione. State affogando nel pornografico e nel pruriginoso. Siete

smascherati ed evirati. Interrompiamo il programma per un bollettino straordinario. Il presidente si è alzato a mezzogiorno, ha fatto colazione con i membri dell’esecutivo, si è scagliato contro i suoi critici, ha stretto la mano a un negro, si è fatto una sauna e ha pranzato con Nguyen Cao Dung, ex capo di stato di una nazione tuttora segreta nonché gestita dalla CIA come organizzazione non profit, Qui è Warren Beasley dalla Casa Bianca, a Washington, a ricordarvi che qui è Warren Beasley dalla Casa Bianca, a Washington. Linea allo studio. C’è un certo silenzio lì fuori, stanotte. Niente che si muova, a parte una figura grigia ed emaciata che vaga per i capolinea degli autobus e le stazioni ferroviarie. L’onanista solitario e i suoi freddi calcoli. C’è un orecchio caritatevole che si presti al mio smodato vaneggiare? Tengo le mie caricature a farmi compagnia. Lord Greystoke, il noto avventuriero britannico, ha comunicato la sua decisione di arrivare da Malta a Creta da solo su un giunco cinese, allo scopo di dimostrare che ai tempi che furono il Mediterraneo era un lago della Provincia del Sinkiang. Lo so che siete là fuori da qualche parte, gioviali cecchini che girate in tondo nelle vostre camerette scabbiose a compilare a biro elenchi di potenziali bersagli, meditando con somma malinconia sull’immutabile sfarzo dei funerali di stato. Con le vostre foto di gruppo di piccoli adolf appese al muro. Con lampi e tuoni roventi che vi percorrono il cervello, tutti i tamburi di guerra mai suonati dai tempi di Golia. Linea a Simone, che chiama Pietro che parla a nome dei confezionatori di tonno in scatola d’America per augurare al pubblico una felice e sicura ascesa al regno dei cieli. Siete in buone mani, con Dio vostro Padre. Del Figlio non sarei tanto sicuro. Un grande esperto. Ma duro nel corpo a corpo. Sono le tre e tre minuti, “les misérables”. Il nemico si fa ardito. Abbiamo giusto il tempo per un paio di notizie a caso. Pare che l’Europa sia scomparsa. Ignota al momento la sua posizione. Tuttavia, secondo un altro comunicato, un gruppo di marinai a bordo di una petroliera battente bandiera liberiana ha avvistato al largo della Groenlandia grandi chiazze di petrolio e macerie galleggianti stile Luigi Quattordici. E’ ora di approfondire quello che sta dietro la notizia. E’ ora di sedersi davanti al Wurlitzer gorgogliante sotto le strade della città e lasciarsi scorrere sul volto abbrutito ma aggraziato un’unica lacrima perfetta, proprio come il grande fantasma senza amore degli abissi. Ma prima un breve annuncio dal nostro testicolo alternativo. Signore, oggi per voi c’è un modo nuovo e straordinario per garantire ai vostri bambini l’alimentazione equilibrata di cui hanno tanto bisogno negli anni della crescita. Ammazzate vostro marito e serviteglielo per cena. Vi piacerebbe, vero? Carne buona che si scioglie in bocca. Quanti rancori covati per anni che si dissolvono in enzimi ricchi e gustosi. Che sughi saporiti potrete preparare con i cosciotti dei grandi manager. Abbastanza da riempire tutte le pentole di Bloomingdale’s. Le dolci ondate di rigurgiti acidi. Ideale per le cene all’aperto. I brutti li metterete da parte per il più piccolo. Per dargli coraggio. Guarnire con prezzemolo e servire. Ma sto esagerando, anche per il mio pubblico di organismi monocellulari. E’ la carne fasulla del mio corpo che voglio cucinare. Il delirio. Al mondo esiste un solo vero problema filosofico, ed è l’interruzione pubblicitaria. L’orologio gracchia. E’ tutta questione di numeri. Di Numeri e di

Deuteronomio. Sto perdendo smalto, ma voi restate con me. E’ la vostra unica speranza. Mancano quattro minuti alla morte. Non c’è tempo da perdere, per cui vi conviene aprire le orecchie. Dentro l’orologio a cucù, l’uccellino sta facendo le smorfie. Presto, pregate. Inginocchiatevi di fronte al vostro dio preferito e pregate che giunga la fine. Pregate che vi conceda occhi e orecchie nuove. Pregate che le forme cambino. Pregate che vi conceda nuova energia perché vi accompagni nell’imminente climaterio. Pregate che vi conceda inverni brevi e scevri di orde barbare. Pregate per l’Upper East Side, per quei palazzi di piastrelle bianche zeppi di ragazzine sole che ripetono citazioni di falsi poeti persiani ai ragazzi innamorati dei perizoma. Pregate per Venezia ormai adriaticata. Pregate che la fortuna vi conceda in dono atarassia e astuzia. Pregate per l’interno di ogni cosa, uomini e batterie, siano essi rasati con precisione chirurgica. Pregate per le mura di ogni cosa, proteggano esse quel che proteggono dalle contromura. Pregate per gli scroti degli industriali. Pregate per i poeti in vacanza a Nantucket. Pregate per le Oldsmobile bicolori del 1958. Pregate per Umbriago, il sindaco di New York e di Chicago. Pregate seriamente per gli australiani, perché se mai dovessero avere anche loro la bomba, saranno tempi bui per tutti. Pregate per l’aquila delle montagne e il suo becco invadente. Pregate affinché noi tutti smettiamo di ritrasmettere la storia della nostra vita nella grande tenia parassita. Pregate affinché noi tutti non scompariamo o Signore Dio Nostro nella tua mente notturna così sconfinata e irrealistica (da cui tutti noi discendiamo) senza prima esserci preparati al brusco cambiamento del passo. Pregate per l’espressività, affinché possiamo gettare via le maschere da saldatori che indossiamo per nascondere il nostro dolore e la nostra gioia. Vulva! Vulva! Vulva! Filtrate all’interno, verificate che cosa rimane contro la notte. Siate ostinati come non lo era l’uomo di Giava. Sciacquatevi il cranio musteriano. Ritornate alla mezzaluna fertile delle origini. Dares-Salaam! Abu Simbel! Zhou-Kou-Tien! Ma la verità, purtroppo, è che temo i giorni bui delle mille e una notte. Ho il blues di Stephen Dedalus, e c’è ancora un sacco di strada per Leopoldville. Panico nero nel filtro della mia Kent extralunga. Ci siamo risvegliati dall’incubo della storia. Accostate la vostra forchetta logica all’omelette con i funghi. Spiacevole interruzione di una continuità rassicurante. Mancano precedenti a cui l’apparato giurisprudenziale possa appigliarsi. Niente più rotoli di pergamena su cui la razza umana possa vergare appunti di storia, di arte, di battaglie fra eserciti sbandieranti. Nessun sequel per i cinefili nei comitati di esperti. Genomi enigmatici del Giappone, assistiamo dunque al lento percolare delle vostre domande sul suolo. “Exeunt” dunque, e ricordate: King Kong è morto per i vostri peccati. Ora si apre lo sportello dell’orologio a cucù e giunge il momento dell’ultima preghiera. Nella versione di Regina Giacomo. Comando Aereo Strategico che sei nei cieli, siano ingoiati i tuoi aeroplani. Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in terra così a Omaha, Nebraska. Dacci oggi il nostro panico quotidiano, e rimetti a noi il nostro stronzio come noi lo rimettiamo ai nostri stronziatori. E non ci indurre in distruzione, ma liberaci dal macero, perché tuo è il potere, tuo è il potere e il potere, ora e per mai nei secoli dei

secoli, a meno.» Quella notte fui tormentato dagli incubi e al mattino un’immagine in particolare non mi abbandonava, quella di un pullman blu che percorreva un’autostrada nel deserto, e rivedevo la scena nei pensieri con tanta chiarezza che forse ero ancora addormentato e stavo sognando un lampo metallico azzurro che solcava il deserto leonino. Per la prima volta in vita mia ebbi la certezza che sognavo a colori. Non so perché, ma fu una scoperta entusiasmante. Dopo colazione, Kyrie annunciò che doveva riprendere il suo viaggio. Lo accompagnammo in camper per i tre o quattro isolati fino a Howley Road, parcheggiando davanti a Buster’s. Ci facemmo un’ultima tazza di caffè nel camper. «Sto dedicando questa maratona al mio vecchio amico Art Levy» disse Kyrie. «Faceva anche lui il portalettere con me al Dipartimento di giustizia. C’era un gruppo di avvocati che aveva fondato un club di motociclismo. Alla fine ci hanno lasciato entrare anche gli impiegati e i fattorini. Art si è comprato una Harley di seconda mano, il modello base, e si è iscritto al club. Avevano tutti tenute bizzarre: bandana, mimetiche militari, sahariane, anfibi, gambali, magliette da football, giacche di cuoio. Gli avvocati e gli altri. Il Dipartimento di giustizia. Una mattina sono entrato in ufficio e uno di loro mi si è avvicinato e mi ha detto che Art era steso. Io non capivo cosa intendesse. Mi ha spiegato che l’aveva steso un’autopompa. Che aveva fatto un bel frontale con un’autopompa e si era rotto il cranio riportando gravi lesioni interne. Morì la notte stessa. Per cui adesso dico a tutti quelli che mi danno una mano che questa traversata la dedico alla memoria del mio amico Art Levy, un uomo che ha dato la vita in uno scontro impari con una delle potenti forze oscure di questo secolo.» «Cosa farai una volta in California?» domandò Sullivan. «Imparerò a suonare questa chitarra.» Uscimmo tutti dal camper e ci fermammo in Howley Road. Era una mattinata nera, fredda e ventosa, e nell’aria c’era odore di tempesta. Dai tre o quattro spiazzi edificabili della strada si alzavano nuvole di polvere e il semaforo sospeso ondeggiava sopra l’incrocio. Kyrie sorrise e ci salutò uno per uno con un bacio. Poi si allontanò lungo la strada con chitarra e zaino, un epilogo decisamente neochapliniano, e il vento gli riempì la camicia e quasi lo buttò a terra. Cercammo di trovare una buona ragione per non lasciare il camper esattamente dov’era, ma a nessuno venne in mente nulla, per cui tornammo dentro. Pike prese una bottiglia dalla sua borsa da marinaio. In quel momento iniziò a piovere, un tamburellare di plastica costante e regolare sul tettuccio. Pike ci raccontò del coguaro, di quanto era veloce, astuto e pieno di risorse, di come era in grado di saltare fino a dieci o undici metri, arrivando a competere con l’impala, per quanto fosse quest’ultimo a godersi tutta la pubblicità. Ci parlò dell’inesauribile energia dell’animale, citando un caso documentato di un leone di montagna che da solo, in una notte, aveva ucciso centonovantadue pecore. Più tardi me ne andai all’altro capo della città a piedi sotto la pioggia, per concludere un po’ di lavoro in biblioteca. Quella sera mi misi a sedere da solo di fronte al camper ad ascoltare gli insetti. Sentivo l’impulso

irrefrenabile di abbandonare quel luogo, di trovarmi a sfrecciare verso ovest su un lungo rettilineo d’autostrada. Di dimenticare il film e quello che cominciava a significare per me, di affrontare montagne e deserti, distruggere la mia apparenza fisica, prisma rifrattore di tutte le mie immagini, per divenire finalmente un uomo in grado di vivere unicamente delle proprie forze e del proprio odore. A Venezia avevo conosciuto un signore anziano, negli uffici della American Express. Eravamo in coda per cambiare traveller’s cheques. Dissi qualcosa a proposito della bella giornata di sole. «Lo sa come la chiamiamo noi una giornata come questa, a Pima County, in Arizona?» mi rispose lui. «Come?» «Una giornata piovosa» disse. «Per noi una giornata come questa è piovosa.» Poi mi strizzò l’occhio procedendo verso lo sportello. I gatti neri di Venezia sonnecchiavano nelle calli. L’Italia, con il suo sole umido e le tovaglie bianche, le fette di noce di cocco sotto lo scroscio delle fontanelle nei mercati, preti sinistri come lame di coltello ovunque. Poi andai a Firenze, e Meredith additò le vecchie pietre gridando di stupore. Poi, da solo, giù fino a Roma, morta e arrugginita, fra turisti tedeschi che si salutavano, tutti in via Veneto ad aspettare l’arrivo di Fellini truccato da pagliaccio e con il suo mantello da palcoscenico, seguito da un corteo di vergini, cammelli, schiavi nubici e pubblicitari. Per tutto il viaggio mi aveva tormentato un’idea, una visione persistente di “mesas” e canyon rocciosi, il pensiero del vento gelido e tagliente, lunghe ombre fredde e teste di cavallo che spuntavano dai recinti, l’immagine dei Navajo a pascolare le pecore, la terra suturata dell’Arizona. Per noi è una giornata piovosa. E invece commisi l’errore di rimanere in Howley Road. Mi risvegliai a notte fonda e sentii odore di budino al cioccolato, un profumo forte e avvolgente. Poi mi tornò in mente il grembiule azzurro di mia madre, il vecchio fornello scheggiato, così terribilmente reale, il grembiule azzurro a fiori, il suo modo di starsene immobile a mescolare il budino, con la mano piccola e leggera in un trionfo di grazia e continuità, un’asserzione dell’ordine universale. La mattina dopo, infilai la pellicola nella cinepresa.

9. L’illusione del moto era a malapena rilevante. Forse non era un film che stavo creando ma piuttosto un rotolo sacro, un frammento delicato di papiro che teme di essere scoperto. Senz’altro i veterani dell’industria cinematografica sarebbero stati pronti a giurare che un progetto simile precedeva l’invenzione del cinescopio di Edison. La mia risposta a quell’obiezione era semplicissima: ci vogliono secoli per inventare ciò che è primitivo. Glenn Yost mi aprì la porta. La sua lunga testa stanca era inclinata a sinistra e

l’occhio folle brillava incerto. Immaginai che in qualche pascolo verde a forma di diamante della sua mente, con le basi tutte occupate, un pivello grande e grosso alla sua prima partita si avviasse alla pedana, un uomo-montagna con le spalle cariche di legname, biondo divoratore di cereali. Glenn abitava in un villino su due piani, in una strada di vecchie case, quasi tutte bianche, molte delle quali richiedevano una mano di vernice. Mi portò da basso, in cantina, dove c’era suo figlio stravaccato in un angolo a guardarsi un western con Kirk Douglas alla televisione. «La t.v. grande la sta usando mia moglie» disse Glenn. «Speravo che qui di sotto fosse più tranquillo, ma vedo che la creatura ci ha battuti sul tempo.» «L’Occhio Onnisciente» disse Bud. «Non c’è problema. Tanto volevo parlare con Bud.» «Sediamoci.» «Tu che fai per vivere, Glenn?» «Ho una segheria insieme ad altri.» «Come vanno gli affari?» «Diciamo che la pensione non incombe all’orizzonte.» «In realtà non c’entra niente. La mia domanda, intendo. Te l’ho chiesto per pura educazione, per arrivare al vero motivo della mia visita. Vale a dire: ti andrebbe di comparire in quella cosa che voglio girare qui nei dintorni più o meno la settimana prossima? Non ti ruberebbe più di un paio d’ore. Devi solo leggere qualche riga ad alta voce davanti alla telecamera. Leggere dal copione, da un foglio di carta. Niente da imparare a memoria, niente preparazione. Devi solo metterti lì davanti e leggere. Mi rendo conto che non è la cosa più entusiasmante del mondo, visto che per di più non posso pagarti un centesimo, ma non perderesti più di un paio d’ore, e forse ti divertiresti. Però so una cosa, e cioè che mi faresti un grande favore, veramente grande. Bud, tu quanti anni hai?» «Sedici fra tre mesi.» «Anche tu» dissi. «Solo un paio d’ore.» «Io non so niente di come si legge ad alta voce» disse Glenn. «Ma se leggi ad alta voce ogni volta che apri bocca» disse Bud. «Quello che dici non significa mai niente. Lui non dice mai niente. Racconta a tutti che ha fatto la guerra nel corpo paracadutisti subacquei. Che si lanciava dai sommergibili. Verso l’alto invece che verso il basso.» «Va bene, spiritosone.» «Glenn, quanti anni hai, se posso chiedertelo?» «Quarantasette, direi.» «A parte lanciarti dai sommergibili, hai davvero combattuto nella Seconda guerra mondiale?» «Ha fatto la marcia della morte di Bataan» disse Bud. Glenn salì di sopra a prendersi una birra e poi ci guardammo il film finché non terminò, un’ora più tardi. Andavo pazzo per i paesaggi, quel senso di precisa equazione

evocato da uomo e spazio, dal cowboy di fronte alle colline silenziose: era quello il vero soggetto del film, lo spazio, come predisporlo e popolarlo, il tempo sospeso in una finestra che si affaccia sul deserto, come vincere contro la sabbia e le ossa. (Mi dissi che in fondo era solo un western.) A quel punto scese le scale Owney Pine, basso e tozzo, a gambe leggermente divaricate, in tutta la sua ampiezza, cranio tondo, capelli a spazzola, e traghettò attraverso il seminterrato attraccando con gran fragore, il ventre spalancato a riversare fiumi di automobili. La mattina seguente mi portai la cinepresa in albergo e dissi al portiere che volevo la stessa camera, stavolta a tempo indeterminato. Sui baffi dell’uomo aleggiavano vaghe tracce di starnuto. Guardò la mia cinepresa, indeciso se commentare o meno, poi si limitò ad allungarmi la chiave sul banco. Una volta di sopra, posai la cinepresa sul letto e mi misi su una sedia a guardarla. Mi soffiai sulla punta delle dita. Mi sbottonai i polsini e rimboccai le maniche fino a due centimetri sotto i gomiti. Mossi le spalle avanti e indietro per sgranchirmi i muscoli. Tirai fuori il portachiavi e mi pulii le unghie con la chiave della cassetta per le lettere. Mi soffiai sulla nocca dell’indice destro. Con l’altra mano mi aggiustai i testicoli fino a sentirmeli ben comodi. Poi espirai tre volte dal naso. Austin Wakely si presentò spaccando il minuto. Come da istruzioni, indossava scarpe militari marrone lucidate a specchio e pantaloni kaki estivi. Pantaloni e camicia venivano dal guardaroba del McCompex; le scarpe se le era fatte prestare. Austin mi pose una decina di domande, io risposi solo a due: che non c’era una trama e che avrei girato in bianco e nero dall’inizio alla fine. Le risposte lo preoccuparono solo un po’ di più delle non-risposte. «Ammetto di non saperne molto» disse «ma mi sembra che qui dentro non ci sia abbastanza luce.» «Voglio tutto al naturale. Mi sono portato dietro alcune lampadine ad alto voltaggio. Useremo quelle pregando che non salti un fusibile. Direi che possiamo usare quella come riflettore principale. E’ il tipo di lavoro che in certi ambienti viene definito ‘dilettantismo ispirato’. La ripresa di oggi è relativamente semplice, una specie di sigla da usare sia come inizio sia come fine. Quando cominceremo con il sonoro ti comunicherò le parole da dire con il maggiore anticipo possibile. Vale a dire ventiquattr’ore al massimo. Spero che riuscirai a leggere la mia grafia. «Ce la farò.» «Adesso ascolta» dissi. Gli diedi le ultime istruzioni, cambiai le lampadine e poi regolai i fotogrammi per secondo. Sistemai il mirino. Austin si schiarì la voce, anche se non doveva dire nulla. Era in piedi con la schiena rivolta a uno specchio a tutta altezza, e guardava dritto nella telecamera. Lo feci spostare leggermente di lato. Girai a inquadratura fissa dalla testiera del letto per una ventina di secondi, la classica durata da spot pubblicitario. Alla fine della ripresa, fu evidente che Austin aveva cambiato umore. Parlava con

grande entusiasmo del film e del suo ruolo, tuttora indeterminato. La sua immagine era memorizzata nella banca del tempo, e gli bastava per sentirsi euforico. Per la prima volta da quando l’avevo conosciuto, mi sentii in vantaggio. Non c’era bisogno di raffinati spargimenti di sangue, né di lunghe campagne belliche per assicurarsi il dominio sull’altro. Avevo la cinepresa, ed era sufficiente. Dopo che se ne fu andato mi feci una doccia, poi chiesi alla centralinista di chiamarmi il network. «Sono nudo» dissi. «Che emozione. Chi c’è con te?» «Il Mormon Tabernacle Choir.» «Beati loro» disse Binky. «Non credevo che avresti richiamato così presto.» «Quanti anni ha Harris Hodge?» «David, ne ha ventisei. Non arrabbiarti. A vederlo sembra più vecchio.» «Okay. Come sta Ted Warburton?» «Ha avuto un collasso alla scrivania e l’hanno dovuto portare d’urgenza all’ospedale.» «Questo me l’hai già detto, porca puttana, e mi pare di ricordare che hai usato quasi le stesse identiche parole. Da quand’è che ti sei trasformata in una segreteria telefonica? Voglio sapere se ci sono notizie dall’ospedale.» «Non so. Chiederò in giro.» «Weede non ha cercato di mettersi in contatto con la signora Warburton?» «Non lo so» rispose lei. «Be’, vedi di scoprirlo. La prossima volta che sei a letto con Weede, chiedigli se ha cercato di mettersi in contatto con la signora Warburton. Usa esattamente queste parole. Credi di riuscirci, Binky?» «Sì.» «Scusa.» «Spiace anche a me, David. Questa cosa di Ted Warburton mi fa stare malissimo. Davvero. Se vuoi posso scoprire in quale ospedale sta, così puoi chiamarlo.» «No, non farlo. Se Ted sta veramente male preferirei non parlargli affatto. Non sopporto di parlare con le persone che stanno veramente male. Scopri solo come sta e io ti richiamo la settimana prossima.» «Okay» «Scusa per quello che ho detto di Weede.» «Non importa. Tanto lo sanno tutti. Quando hai detto che sei con il Mormon Tabernacle Choir, intendevi che sei nello Utah?» «Sì.» «Lo Utah è giusto sopra l’Arizona.» «Davvero?» dissi. «Per cui sarai a destinazione da un giorno all’altro.»

«Esatto.» «Sono tutti entusiasti del progetto.» «Non dire così.» «Sei davvero nudo?» «Come un verme.» «Mi spiace per Harris Hodge.» Pensai di chiedere a Binky di passarmi l’interno di Tana Elkbridge. Ma se l’avessi fatto lei avrebbe sospettato che avevo una relazione con Tana, ed essendo Tana sposata, non era una buona idea. Potevo anche limitarmi a dirle di passarmi l’interno senza specificare a chi apparteneva, ma per scoprirlo le sarebbe bastato controllare l’elenco aziendale. Meglio non correre rischi. Dopo avere salutato Binky riattaccai, poi chiesi di nuovo al centralino di chiamarmi il network. Chiesi di Tana Elkbridge. Rispose il suo capo. Riattaccai immediatamente. Poi chiamai Meredith in ufficio. «Dove sei?» mi chiese. «In giro nel Midwest. Come va a Gramercy Park? Bombe, scioperi, insurrezioni, epidemie?» «Qui va tutto a meraviglia, ma ho avuto brutte notizie dalla Turchia. Mia madre è in ospedale ad Ankara. Ha ricominciato a bere. Mi sa che è proprio malridotta. E’ caduta da una scala.» «Vorrei essere lì con te.» «Anch’io vorrei, David.» «Mi manchi.» «Sì.» «Secondo me siamo maturati tutti e due» dissi. «Ti ha fatto bene il viaggio?» «Mi ha dato una prospettiva nuova.» «Prima che mi dimentichi, David, qualche giorno fa ho visto mia cugina Edwina. Ti ho già parlato di lei. E’ quella cugina da cui stavo quando sono andata a Londra quella volta. Suo marito è qui per lavoro e hanno passato tre giorni a New York. Adesso sono a Boston, poi vanno a Toronto e poi a Chicago. A Chicago si fermano solo due giorni e pensavo che magari, se sei nelle vicinanze, potresti fare un salto a trovarli. Edwina non conosce anima viva laggiù e Charles sarà sempre in riunione con qualcuno.» Mi scrissi i dettagli, poi passammo ancora un po’ a dolerci insieme per sua madre. Le domandai se nella sua vita erano entrati uomini nuovi e affascinanti. Lei rimase sul vago. «Senti» dissi. «Indovina un po’? Sogno a colori.» «Sicuro?» «L’altra notte ho sognato un grande pullman blu su un’autostrada nel deserto. Quando mi sono svegliato, ero sicurissimo che quel pullman fosse blu. Per la prima volta ho avuto la certezza di sognare a colori.» «David, ma è fantastico.»

«Già.» «Abbi cura di te. Divertiti. Buona fortuna con i tuoi indiani. E promettimi che cercherai di passare da Chicago.» «E’ stato bello parlare con te, Merry» «Sei stato molto carino a telefonare, David.» La segretaria disse che mio padre era in riunione. Le feci notare che chiamavo da lontano e che si trattava di una questione urgente. Lei rispose che sarebbe andata a cercarlo. «Che c’è, ragazzo mio?» «Come stai, papà? Troppo lavoro?» «Abbiamo appena concluso un contratto con la Procter & Gamble. La loro nuova gamma di prodotti per il bagno. Viviamo in un paese gabinetto-oriented, lo sai benissimo anche tu. Passiamo la giornata intera in bagno. Ci facciamo tutto tranne pisciare e cagare. Maxine, vai a battermi quel resoconto. Per noi il gabinetto è terra santa. Mi capisci?» «Ha l’aria di essere un buon affare.» «Cos’hai in mente, David? Si può sapere dove diavolo sei?» «Qui in giro per il Midwest.» «Se ti servono soldi, spedisco subito Maxine a farti un bonifico.» «No, no, ti ho chiamato solo per chiederti una cosa.» «Spara.» «Non ci hai mai parlato molto della tua esperienza in guerra. Tutto quello che sono venuto a sapere è che hai combattuto nel Pacifico, che ti hanno ferito più volte e che hai ricevuto parecchie medaglie al valore. Mi chiedevo se non potevi dirmi qualcosa di più.» «Non sono cose di cui parlo» rispose. «Dicono tutti così. Ma prima o poi finiscono per parlarne.» «Io no, ragazzo.» «E perché no?» «Perché non c’è niente da dire. E’ finita. Se vuoi sapere com’era, ci sono centinaia di libri sull’argomento.» «Voglio sapere com’è stato per te, non mi interessano gli altri. E’ per una cosa che sto scrivendo.» «Ho sepolto vivo un uomo» rispose. «Dov’è successo, papà?» «Su una di quelle isolette schifose. E non usare quel tono da funerale.» «Non te lo chiederò più. Scusa. Mi serviva solo per una cosa che sto scrivendo. Novità da Jane?» «Il bambino sta meglio. E lei è di nuovo incinta.» «Chissà se Mary ha figli.» «Non parlare più di Mary. Mary non esiste.» «Ti ricordi di quando mi hai parlato dell’anima-aquilone? Quella cosa che ha detto

mamma quando era incinta di Mary? Che Mary era l’anima-aquilone di sua madre? Dicevi che ci trovavi qualcosa di orientale in quell’immagine. In un certo senso avevi ragione. E’ presa da uno di quei libri per bambini che mamma teneva in camera da letto. Un libro così vecchio che cadeva a pezzi. Un giorno mi sono messo a sfogliarlo per puro caso e ci ho trovato proprio quella frase. Era la traduzione di un libro giapponese per bambini. Con splendide illustrazioni.» «Ti piace aggrapparti a piccole informazioni come questa, vero? Che altro sai che io non sappia? Ti dirò una cosa, ragazzo: io so più di quanto tu non creda. Molto di più.» «Sì» risposi. «E fai bene a crederci. Cosa sarebbe questa cosa che stai scrivendo?» «Una sceneggiatura.» «Ti è tornata quella fissa, vero?» «Sembrerebbe di sì.» «Mi sto facendo crescere la barba» continuò lui. «Sta venendo proprio bene. Non la sto ancora curando più di tanto. Voglio che diventi un gran barbone bianco. Ce ne ho un sacco di peli bianchi, ma fanno un bell’effetto. Aspetta di tornare e vedrai. Mi coprirà tutta la faccia.» «Perché ti stai facendo crescere la barba?» «Ogni uomo al mondo vuole farsi crescere la barba prima di morire. E’ un modo come un altro per mandare affanculo tutti. Senti, io sono quasi al capolinea. E voglio avere la barba. Solo vederla allo specchio mi tira su di morale. Non intendo toccarmela almeno per altre due settimane. O forse mai più. Forse mai più.» «Non riesco a immaginarti con la barba.» «Come mai ti sconvolge tanto?» «Non lo so, papà. E’ che mi sembra strano. Cambia le cose. Non so come spiegarlo.» «Senti, adesso devo riportare il mio culo in quella riunione. Dammi un colpo di telefono quando ripassi in città. Andiamo a pranzo insieme.» «Va bene, papà. Non lavorare troppo.» «Grazie del consiglio» rispose. Tirai fuori l’agendina dal portafoglio e cercai un qualsiasi appunto utile per rintracciare Ken Wild. Trovai indirizzo e numero di telefono dei suoi genitori, che abitavano in una zona residenziale di Chicago. Mi rispose il padre, e io gli dissi che ero un vecchio compagno di corso e volevo risentire Ken. Lui disse che Ken aveva traslocato in centro a Chicago, e mi diede il numero di casa e quello dell’ufficio. Disse che era contento di sentire un amico di Ken, e che se mai fossi capitato dalle parti di River Forest potevo passare a trovarli e fare un tuffo in piscina quando volevo. Chiamai Wild in ufficio. «Lei è cordialmente invitato a una messa nera che si terrà nella torre martello di quartiere a lei più vicina. E’ gradito il clergyman. “R.S.V.P.”» «Oh Gesù» disse lui. «Non può essere.» «Invece sì.»

«Dove sei?» «Qui vicino, credo. Relativamente, almeno. Ho cercato di rintracciare il tuo nome, Wild. La giuria per il Pulitzer si è chiusa in un silenzio preoccupante.» «Ho scoperto che la mia musa era lesbica.» «Peccato» dissi. «Che stai facendo?» «Sono project manager nell’azienda di impianti industriali di mio padre.» «Ci ho appena parlato con tuo padre. Ha detto che posso passare quando voglio a farmi un tuffo in piscina.» «Puro senso di colpa» disse Wild. «Quanto tempo è passato? Sei o sette anni, no?» «Sette» risposi. «Sei sposato?» «Divorziato.» «E così fai il project manager.» «Sento una punta di soddisfazione nella tua voce. Tu che fai?» «Film» risposi. «Qualche documentario. Diciamo che mi sto facendo strada verso il primo lungometraggio. Sono indipendente. La Tek-Howard ha in distribuzione la mia roba. Adesso sono in zona per gli esterni e fra qualche giorno dovrò passare dalle tue parti a ritirare delle attrezzature. E’ per questo che mi è venuto in mente di chiamarti. Magari possiamo vederci.» «Splendido» rispose. «Non vedo l’ora. Sul serio.» Mi sentivo meglio di quanto mi fossi sentito negli ultimi tempi. Richiamai il network. Chiesi di Weede Denney. Allungai la mano per prendere il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e lo misi sopra la cornetta. Poi sentii la voce della signora Kling, acida come sempre, ideale per le procedure di impeachment. «Ufficio del signor Denney. Il signor Denney al momento è assente.» «Qui è la S.D.S. Nel vostro distributore d’acqua c’è un esplosivo liquido invisibile, programmato per detonare nell’istante esatto in cui riappenderete.» Riagganciai, cercai di nuovo nell’agendina e trovai il numero del Leighton Gage College. Chiesi di parlare con Simmons Saint Jean. «Sei ancora lì, Simmons? Sono David Bell. Ti ricordi di me?» «Certamente. Che vuoi?» «Negli ultimi tempi sto girando dei film. In 16 millimetri. Voglio arrivare gradualmente ai 35.» «Ti spiace dirmi in fretta? Devo partire per Marrakech a momenti.» «Come ti va? Conservi ancora gelosamente ogni singola copia dei “Cahiers du Cinéma”? Hai visto l’ultimo di Bergman? Più deprimente del solito. Io l’ho visto appena prima di partire da New York. Al momento sono qui nel Midwest a lavorare al mio film. E’ una dichiarazione d’intenti molto personale.» «Bergman è la quintessenza del regista beccamorto. Tutti i suoi film soffrono di rigor mortis. Non ho più visto niente di suo da quando ha nominato il dio ragno. L’ultima commedia western del la Paramount vale da sola tutti gli incubi esegetici bergmaniani.»

«Sempre il solito vecchio Simmons. E’ bellissimo poterti parlare di nuovo, Simmons. Ti ricordi Wendy Judd? Adesso abita a New York. Una vera gatta selvatica a letto. Ecco, ti dico perché chiamo. Ricordi la scena della nevicata in “Vivere”? Con il vecchio malato di cancro. Va al parco giochi e si siede su un’altalena. E in quel momento inizia a nevicare. Secondo me è la scena più bella in tutta la storia del cinema. Ho bisogno di sapere un paio di cose. Primo: Kurosawa ha inquadrato il vecchio dal basso? Secondo: ha girato tutta la scena in una ripresa sola? Terzo: su quell’altalena, il vecchio si dondolava o rimaneva seduto e basta? Ho visto “Vivere” tre volte, ma l’ultima è stata quasi cinque anni fa. E la scena di cui ti parlo è talmente bella che mi dimentico sempre di studiarla nei dettagli per capirne la struttura. Mi sono detto che se c’era qualcuno al mondo in grado di interpretarla, eri sicuramente tu.» «Non l’ho mai visto “Vivere”» disse. «Impossibile.» «E per quanto riguarda Wendy Judd, mi è sempre sembrata più un topo di campagna che una gatta selvatica. Nel senso che le piaceva rosicchiare, giusto?» «Stai raccontando balle, Simmons. Sei un bugiardo e un sacco di merda, Simmons. Che ci vai a fare a Marrakech? C’è un festival del cartone animato arabo?» Riattaccai, poi mi feci una dormita. Quando mi svegliai, erano le cinque passate. Chiamai il centralino dell’albergo e diedi il numero di Jennifer Fine. «Jennifer, sono David. David Bell.» «Ma certo» disse lei dopo un po’. «Non ero sicuro che abitassi ancora lì, ma poi mi sono detto chi se ne frega, cosa mi costa. Sono qui in giro per il Midwest. Nel caso non riuscissi a sentirmi, è per quello.» «Ti sento benissimo.» «Spero di non avere interrotto niente. Forse non avrei neanche dovuto chiamare. Volevo solo salutarti. Niente di speciale. Sono qui nudo e sto chiamando gente in tutto il paese. Volevo solo dirti che mi rendo conto perfettamente di averti trattata male quando stavamo insieme. Mi hai dato del fascista. Ti ricordi? In un certo senso, è stata una notte divertente. Così sembra adesso, almeno, anche se sul momento era stata tutt’altro che divertente. Credo di essere maturato parecchio da allora, Jennifer. Ma non e per rivangare queste cose che ho chiamato. Non avevo nessun motivo particolare per telefonarti. Solo per parlare. Certe volte, al telefono, le parole vengono fuori da sole.» «Mi è morta la gatta» disse. «Non sapevo che avessi una gatta. E’ un peccato. Lo so come ci si affeziona agli animali. Mi spiace davvero. Sono qui a girare un film.» «Dev’essere morta oggi pomeriggio. Stamattina è passata la donna delle pulizie e non mi ha chiamata in ufficio, per cui dev’essere morta nel pomeriggio. Sono tornata dal lavoro e l’ho trovata morta.» «Mi spiace veramente.» «E’ ancora li per terra. Non sopporto l’idea di toccarla.» Jennifer, credo che farei meglio a riattaccare, in modo che tu possa chiamare qualcuno per venire lì a darti una

mano. Mi spiace per tutto. Ti richiamo quando torno in città. Andiamo a pranzo insieme. Adesso riappendo. Ciao.» Riappesi, poi cercai il numero di casa di Weede Denney. Misi di nuovo il fazzoletto sul microfono. Rispose Weede. «Sono Ted Warburton» dissi. «Volevo solo informarti che sei un intollerabile logorroico. Sei uno stronzo pelato e figlio di puttana.» Riattaccai, poi dissi alla centralinista di chiamarmi il numero per le informazioni elenco abbonati di Westchester County e chiesi della famiglia Valerio, a Old Holly. L’operatrice rispose che c’erano due Valerio sull’elenco, Annette e Joseph. Mi tornò in mente che Annette era la madre di Tommy. Annotai il numero. Rispose una voce maschile. «E’ a questo numero che abitava Tommy Valerio?» dissi. «Sto cercando di rintracciarlo. Siamo vecchi amici.» «Rintracciare Tommy?» «Mi può dire dov’è?» «Tommy è morto da tre anni.» «Cosa è successo?» «E’ morto in guerra.» «Cosa è successo?» domandai. «Cioè, intendevo, come è successo?» «Che posso dirle? Caduto in combattimento. Era luogotenente. Aveva ai suoi ordini un sacco di uomini. Annette, quanti soldati comandava Tommy? Be’, insomma, ha mandato una lettera il Presidente. Il Presidente in persona ha spedito una lettera alla madre di Tommy.» «Come sta la signora Valerio?» «Bene. Adesso stiamo cenando.» «Scommetto che lei è suo zio. Mi pare di ricordare che ci siamo incontrati due o tre volte. Mi chiamo Dave Bell. Io e Tommy eravamo amici.» «Non ricordo di avergli mai sentito nominare nessun Dave Bell. Ora siamo a tavola, ma forse lei vuole parlare con la madre. E’ qui accanto a me. Un certo Dave Bell.» «Cosa?» dissi. «Sto parlando con Annette. Dice che è un amico di Tommy. E’ proprio qui vicino a me. Aspetti un momento.» «Non si disturbi. Le dica di non disturbarsi. Vi sto interrompendo la cena.» «E’ qui vicino a me.» «Devo andare. Le dica che mi dispiace.» «Dice che gli dispiace.» «Arrivederci.» «Annette chiede per cosa.» Chiamai Wendy Judd a casa. «Sono David. Voglio chiederti una cosa. Voglio una risposta onesta e concreta. Quando eravamo alla Leighton Gage, sei mai andata a letto con Simmons Saint Jean?»

«Chi?» «Il docente di teoria e critica cinematografica.» «Un tizio pallido e attraente con gli occhi da spettro?» «Come descrizione mi sembra appropriata.» «Direi che non sono proprio affari tuoi, non ti pare David?» Riattaccai e chiamai Carol Deming al McCompex. Ci volle qualche minuto prima che venisse a rispondere. «Che ne dici se andiamo a berci qualcosa e poi ceniamo insieme?» domandai. «Possiamo trovarci da Buster’s. Non ho idea di dove si possa mangiare decentemente in questa città, ma magari puoi consigliarmi tu un posto. Come se la cavano con il pesce da queste parti? Muoio dalla voglia di un fritto di gamberi.» «Ho appena visto Austin. Sembra entusiasta del lavoro che avete fatto oggi, qualunque cosa fosse. Quand’è che tocca a me?» «Possiamo parlarne.» «David, in questo posto non faccio altro. Il teatro è parlare. Motivazioni, sentimenti, discorsi, interpretazioni.» «L’alfabeto rischia il collo.» «Esatto» rispose. «Sto ancora ragionando sul ruolo per te. Andiamo a cena insieme e parliamone.» «David, non ho nessuna voglia di parlare. Sul serio. Con nessuno. Dammi solo qualcosa da recitare. Un’idea, un ruolo, un travestimento. Qualcosa che la cinepresa possa capire anche se non lo capisce nessun altro. Sto cercando di essere il più possibile sincera.» «Senti, giusto un paio di aperitivi, nient’altro. Un aperitivo e basta. Sono all’Ames House, in centro. Posso trovarmi da Buster’s in un quarto d’ora.» Al quarto drink, lei non si era ancora fatta vedere. Alla fine tornai al camper, dall’altra parte della strada. C’era solo Brand, steso su una delle brande con le mani intrecciate dietro la testa. «Sta capitando davvero» disse. «Me lo sento nel cranio. L’antica violenza. Credevo fosse sparita, invece sento che ritorna. A ragione o meno, in genere associo tutto ciò che è insulso alla non violenza. E’ per quello che voglio essere insulso. Usare parole insulse. Fare cose insulse. Ho cercato di non risvegliare i vecchi istinti. Li si può risvegliare con le parole, soprattutto con lo slang. Magari la teoria ti sembrerà stupida. O quantomeno non ancora dimostrata. Ma per me è verissima. E sento che sta tornando. Il vecchio impulso. Ti conviene tenermi d’occhio.» «Continui a comparire e scomparire e riapparire» dissi. «Sei sempre stato così. Non ho mai scoperto esattamente chi sei. Mi sei sempre piaciuto, Bobby. Perlomeno diciamo che mi sono piaciute quasi tutte le forme diverse che hai scelto di prendere. Solo che poi sparisci e ritorni diverso da prima, e io devo riadattarmi. Quale delle tue forme mi conviene tenere d’occhio?» «In teoria l’insulsaggine parrebbe la cosa più facile del mondo da ottenere.

Fisicamente, ci sono già arrivato. Ce l’ho fatta. Assomiglio a un milione di altri al mondo. A dieci milioni di altri. Ma nel cervello l’azione è costante. Ho preso roba pesante per rallentarla. Fumo erba, per rallentarla. Ma non ci riesco più. La vecchia azione. Distruggere i nemici. Davy, tu non hai idea di cosa significhi mitragliare un villaggio con una 20 millimetri. E vederlo cadere in pezzi. Di cosa significhi scendere rasoterra e buttare giù una o due capanne. I tuoi bidoni di napalm. Le tue bombe da duecentocinquanta chili. I tuoi razzi. Una volta ho steso un tipo in bicicletta. Stava pedalando su una stradina appena fuori da un villaggio controllato dai nemici. Gli sono calato alle spalle, proprio alle spalle, e per un po’ l’ho seguito sulla stradina, volando bassissimo. Quando mi sono trovato a un centinaio di metri, ho aperto il fuoco. Quello è scoppiato come una tazzina di ceramica. Vedi, si prova un senso di gioia primitiva a colpire un oggetto in movimento. E’ uno dei piaceri più antichi del mondo. Qualcosa si muove, e tu “bum”! lo tiri giù. Animale, uccello o essere umano, bisogna tirarlo giù. E’ atavico, Davy. E’ essenziale all’origine della specie. E io sto imparando a conviverci.» Scampato alla versatilità nervosa dell’occhio paterno, Bud Yost pareva un ragazzo tipico sotto ogni aspetto, beneficiario di un’educazione moralmente solida e di una dieta equilibrata. Era alquanto robusto per la sua età e un lieve tremolio accompagnava i suoi gesti, come se fosse sempre in piedi su una sedia a dondolo. Uscì dal corridoio e si mise al centro della palestra della scuola deserta, in tenuta da basket bianca con i bordi e le scritte in oro. Gli avevo chiesto di mettersi la maglia numero nove, se possibile, il mio numero di squadra ai tempi della preparatoria, ma nella sua il nove apparteneva a un ragazzo alto due metri che pesava centocinque chili, per cui Bud aveva optato per la propria divisa, con il numero undici e la scritta F.T. CURTIS HIGH in lettere dorate. Io controllai l’esposimetro e gli dissi di fare tutto quello che gli pareva senza prestare attenzione né alla cinepresa ne a me. Lo ripresi prima dall’alto, dalle tribune sopra il campo da basket. Completamente solo, sul pavimento lucido color ocra bruciata, palleggiando lentamente a zigzag verso il fondocampo e cambiando continuamente velocità, Bud si lanciò in una facile entrata in terzo tempo. Saltò a canestro, prima da vicino, poi da qualche metro di distanza, poi sempre più da lontano, la palla che emetteva rumori strani quando rimbalzava sul pavimento, sul canestro, sul tabellone o entrava in rete, una serie di echi che duplicavano i suoni originari. Dopo un po’ scesi sul campo, mi misi con un ginocchio a terra dietro il tabellone e lo ripresi dal basso. Bud ne mise dentro quattro di seguito dal limite dell’area, mancò altri due tiri, ne mandò a canestro altri due dall’angolo. Era bravo. Aveva occhio, e sembrava molto meno impacciato quando correva o tirava la palla che non quando camminava. Curvo, con il gomito sinistro in fuori, palleggiò indietro e tirò a canestro da sei metri. Io smisi di riprenderlo e mi tolsi scarpe e camicia. Cominciammo un allenamento uno contro uno, dandoci i turni all’attacco, e la nostra esercitazione durò più o meno un’ora, senza che ci scambiassimo una parola. Bud era troppo veloce per me e io mi ero arrugginito nel tiro. Ero quasi sul punto di scoppiare in lacrime quando diedi il segnale di stop, piegandomi

in due per riprendere fiato, stracciato ai ventotto e rassegnato a un futuro di palline di carta e cestini dell’immondizia in derelitte camere d’albergo. Mi sedetti sul pavimento ad allacciarmi le scarpe. «Spero che tu abbia avuto quel che volevi» disse Bud. «Dovrebbe andare bene. Questa cinepresa è fatta apposta per riprese sportive, documentari, servizi giornalistici, cose del genere. Forse avrò ancora bisogno di te.» «Posso farti una domanda?» «Per oggi è tutto, signori.» Lui scoppiò a ridere, poi allungò una mano per aiutarmi a rialzarmi in piedi. Pike dormiva dietro nel camper. Io e Brand eravamo davanti ad aspettare Sullivan nel parcheggio di un supermercato. Notai un gruppo di donne accanto a una station wagon. Erano in sette, caricavano cartoni e sacchetti della spesa nel bagagliaio aperto della macchina. Dai sacchetti spuntavano gambi di sedano e scatole di detersivo. Sollevai la cinepresa che tenevo appoggiata in grembo portandomela all’occhio, mi allungai un po’ fuori dal finestrino e inquadrai le signore come se dovessi riprenderle. Una di loro se ne accorse e diede immediatamente di gomito all’amica, ma senza staccare gli occhi dalla cinepresa. Fecero ciao ciao con la mano. Una dopo l’altra, risposero tutte. Mi sorrisero e cominciarono a salutare. Parevano estasiate. Forse gli sembrava di salutare se stesse, nella speranza che se un giorno i loro dubbi avessero richiesto prova concreta del loro transito terreno, avrebbero potuto ricordare quegli istanti nello spiazzo inondato di sole e il nastro di plastica trasparente che aveva immortalato la loro immagine; e di lì a trent’anni, nel giorno in cui fosse richiesta la prova in questione, si poteva sperare che quell’immagine venisse proiettata su qualche schermo, e loro erano lì, autenticate, in una reincarnazione chimica, colte nell’attimo in cui facevano ciao ciao con la mano rivolte a se stesse ormai invecchiate, sorridendo rassicuranti al passare dei decenni come in una grande corsa di pellegrini al mercato nella luce pulviscolare del sole, sette braccia tese in un incredibile omaggio all’oblio dell’esistenza. Quale prova migliore (se mai ce ne fosse stato bisogno) della loro reale esistenza? Forse questo era il motivo di tanta felicità, l’attesa di una prova inconfutabile, e non c’entrava nulla con il momento presente, destinato a sfumare insieme a tutti gli altri in quel qualcosa che è l’opposto dell’eternità. Finsi di continuare a riprenderle, assorbendo la luce che lasciavano sfuggire, permettendo ai loro sorrisi di penetrare l’obiettivo e vagare sul corpo della cinepresa in cerca della bobina magica, del rivestimento di gelatina capace di trattenere l’immagine, il film che attraversa la soglia dell’attesa. Sullivan uscì dal supermercato e io riabbassai la cinepresa. Impossibile non percepire che ciò che stavo scoprendo era una precisa forma di potere. In serata, restammo seduti nel camper in Howley Road ad ascoltare la radio. Trasmettevano un reportage dal fronte. Non ascoltavo le notizie, ma solo le parole, le solite frasi opprimenti. Erano come le chiacchiere scialbe del network: mai quello che significavano, e spesso neanche il contrario.

«Chi vuole comparire nel mio romanzo?» disse Brand. «Vi costerà solo cinquanta dollari, immortalità garantita in cambio.» «Io voglio figurare come neurochirurgo» disse Pike. «Ottanta dollari tondi.» «Un grande amatore» dissi io. «Dipingimi come un grande amatore.» «Con centocinquanta dollari hai una notte garantita con un personaggio femminile a tua scelta.» «E tu ci sei, nel libro?» domandai a Sullivan. «Ci siete tutti» disse Brand. «Tutti quanti.» «Allora prenotami per i centocinquanta.» «Suppongo che vorrai il resto» disse Sullivan. «Credo di no.» «Anni fa ho avuto una relazione in un romanzo. Il mio compagno l’ha trovata poco appagante. Era un ufficiale di marina con un sacco di esperienza. Ovviamente all’epoca ero solo una mocciosa.» «Fammi diventare un neurochirurgo con le mani che tremano» disse Pike. «Su uno spunto del genere si può creare una grande suspense.» «La suspense non è più la prima cosa» dissi. «Vaccate» gridò Pike. «Tutte vaccate.» «Stai calmo» disse Sullivan. «Pike è piccato a picchi elevati» dissi io, molto compiaciuto di me. «Vaccate.» Erano parole pronunciate con soavità da una persona intelligente (senza dubbio), che superavano un certo limite di tolleranza, e ben presto parvero dotarsi di esistenza propria, esigere indipendenza, vivere all’interno di un profilo di significato ben più complesso, un’astuzia superiore al raziocinio che le aveva partorite. Restammo ad ascoltare in silenzio per un po’. L’annunciatore disse di avere letto per sbaglio il comunicato del giorno prima. «Ogni tanto fantastico di innamorarmi di una vietnamita» disse Brand. «Solo che poi lei muore di una malattia sconosciuta e io passo il resto della vita a piangerla.» A nord si alzavano le nuvole dei monsoni. Le squadre della morte setacciavano i villaggi. Di notte si vedevano le scie luminose dei traccianti schizzare sopra le zone di guerra. Ci sono venti colpi in un caricatore. «L’America può essere salvata solo da ciò che cerca di distruggere» disse Sullivan. Passai in biblioteca gran parte dei due giorni successivi a compiere ricerche, riflettere, preoccuparmi, scrivere monologhi e dialoghi. Tornai al camper nel tardo pomeriggio del secondo giorno e ci trovai Pike da solo. Lo misi a parte dei miei progetti di passare da Chicago. Poi lo convinsi ad accompagnarmi su e giù per una delle vecchie strade silenziose della città mentre io riprendevo il paesaggio dal parabrezza. Gli ordinai di procedere a passo d’uomo, o anche più lentamente se ci riusciva. Non avevo supporti

per assicurare la cinepresa ai montanti della portiera, e volevo il minimo sobbalzo possibile. Inoltre, mi piaceva l’idea di far risaltare le file di case, espandendole nel tempo, riconoscere come più importante la loro apparenza che non le voci e le sofferenze umane che racchiudevano. Era un’intervista in una lingua nuova. E senza gente per strada avevo la possibilità di girare a velocità superiore al normale, smorzando le vibrazioni e prolungando la scena. Percorrevamo la strada pochi centimetri alla volta, e ciascuna di quelle case silenziose e accoglienti diventava un monumento a certi attimi interiori, frenetici e ridestati dallo scorrere del tempo. Nel cuore di ogni uomo c’è un motel. Dove l’autostrada inizia a dominare il paesaggio, oltre i confini di una grande città che continua a duplicarsi, nei pressi di uno snodo principale di arrivo e partenza: in genere è lì che si trova. E al banco della reception, di solito ci sono le cartoline di quello stesso motel. Un centinaio di stanze ermetiche. Le quattro stagioni in bombolette spray nell’armadietto del bagno. Ripetuti all’infinito lungo il percorso che porta alla propria camera, è facile dimenticare se stessi; ci si può sedere sul letto e trasformarsi in “Uomo seduto sul letto”, un’astrazione in grado di competere con l’infinito stesso; da luoghi e momenti simili il moderno caos si eleva a matematica pura. Nonostante la vastità, il motel sembra provvisorio. E’ una sensazione nata forse dalla consapevolezza che nessuno ci vive più di una o due notti per volta. Oppure si spiega con la posizione del motel, quel vago accenno di mistero che circonda un edificio solitario eretto nel mezzo di quella che un tempo era palude, dove soffiano correnti fredde da un lago o una baia e i riflessi del sole si infrangono sulle ali degli aeroplani in lontananza, le anatre bordeggiano sopravento e non si vede ombra di essere umano che vaghi a piedi. Il motel è rivestito unicamente di piastrelle per bagni. Le lenzuola sono sempre gelate e un po’ umide. Nell’armadio ci sono sempre troppi appendiabiti, come se la direzione volesse farsi perdonare qualche mancanza segreta e troppo gravosa anche solo a pensarci. Dalle piccole grate alla parete alita un soffio costante e quasi insopportabile di aria condizionata. Ma malgrado le tante pochezze spirituali, non è poi il luogo peggiore del mondo. Impersonifica una forma di ripetitività così pressante e angosciosa che diventa possibile, se non la libertà, almeno la liberazione, l’affrancamento; posseduti dal caos ci si sposta in regni più rarefatti, si conquista raffinatezza, integrità matematica, fino a diventare, se preferite, l’uomo seduto sul letto nella stanza accanto. La capanna nella foresta, le suite color malva, l’albergo di infimo ordine sopra il banco dei pegni, l’appartamento preso a prestito: tutto troppo personale, un attimo non ricorrente. Questo motel è caro agli uomini nel profondo del cuore: è qui che scorre il sonno della confluenza del viaggio e del sesso. Edwina Meers alloggiava in un motel del genere, vicino all’O’Hare Airport, a una trentina di chilometri da Chicago. Meredith mi aveva dato il nome dell’albergo, e io avevo chiamato Edwina e Charles dicendogli di aspettarmi. Poi mi ero fatto prestare da Glenn Yost la macchina, una Pontiac grigia spastica, ed ero partito verso nord durante la notte. Era bello trovarsi di nuovo per strada, a sfidare la logica della linea bianca. Mi

sorpassarono diversi camion, con targhe di dieci o dodici stati diversi, facendo sobbalzare la Pontiac nella loro scia. Facevo parte anch’io di quel commercio, del romanticismo insito nel trasporto a lunga percorrenza, del canto epico ed errante delle cartine stradali. Erano le nove del mattino. Edwina venne ad aprirmi in gonna a fiori con cerniera sul davanti e maglietta attillata. «Uomo fortunato. Sono tutta sola. Charles è già schizzato a una riunione. Ci sono i nostri bagagli sparsi dappertutto, per cui dovrai sederti sul letto. Ti spiace se lascio accesa la televisione? Ci sono trasmissioni in questo paese da non credere.» «Come mai non vi siete fermati in città?» «Charles non ha voluto saperne. Il brav’uomo è completamente ossessionato dalla puntualità, per cui ha deciso che era meglio riposare i nostri corpicini caldi il più vicino possibile all’aeroporto, visto che a quanto pare abbiamo una tabella di marcia stabilita secondo criteri di massima allerta ventiquattr’ore al giorno, ideali per una base missilistica. Non sopporta l’idea di arrivare in ritardo per il decollo. Molto sessuale, suppongo.» «Se vuoi possiamo andare a prenderlo per pranzo. Sono stato più volte a Chicago per lavoro e mi so orientare piuttosto bene.» «E’ proprio carino da parte tua, David. Davvero, sono tanto contenta che tu abbia trovato il tempo di venire. Meredith mi ha parlato tanto di te. E’ proprio una ragazza super, non trovi? Talmente fresca, quasi omogeneizzata.» Edwina aveva la faccia tonda e ordinaria, con qualche lentiggine, simile a una frittella. Sembrava sui trentacinque anni ed entusiasta di esserlo: le tensioni di una gioventù sgraziata ormai al le spalle e la scoperta che i trent’anni abbondanti sono l’età dell’oro della sua passione e dell’ingegno. Alla televisione trasmettevano uno spot pubblicitario. Una donna immersa nella vasca da bagno che si lavava le gambe con una saponetta di bellezza. Teneva un ginocchio fuori dall’acqua e faceva scorrere lentamente la saponetta sul polpaccio, poi sopra il ginocchio scendendo lungo la coscia. L’immagine sparì in dissolvenza. Subito dopo si vide la donna in piedi sul pavimento piastrellato del bagno, una lunga inquadratura in soft focus, con la testa all’indietro e le mani che sfregavano lentamente l’asciugamano sul ventre e sulle cosce. Edwina si appoggiò a una cassettiera. «Sono un po’ confuso» dissi. «Non so perché ma ero convinto che tu fossi americana.» «Infatti lo sono, David.» «Da quant’è che vivi in Inghilterra?» «Pensa, manca poco e sono dieci anni. Io e Charles ci siamo sposati a Philadelphia e poi via. Prima di Charles ho avuto un amante sudamericano che non voleva altro che scodellare bambini. Era una specie di cavernicolo, tremendo. Charles ha avuto una relazione omosessuale prima di conoscermi. Il suo amante ci ha fatto da testimone.» «Sei mai stata a Chicago?»

«No, e neanche Charles. Siamo arrivati ieri pomeriggio con l’aereo e abbiamo noleggiato una macchina. Ci siamo sistemati qui e poi siamo andati in centro. Eravamo stati invitati a una specie di festa per manager obesi, in casa di un tizio che si chiama Lawrence Thomas o Thomas Lawrence. E’ con lui che Charles deve parlare di affari. A dire la verità è stato molto gentile da parte sua prendersi una simile briga solo per introdurre Charles nel circolo dei ricconi della città. Ma devo proprio dire che come festa è stata tutt’altro che divertente. Gli uomini parlavano solo di leghe metalliche e coloranti, e le mogli erano, per quanto possibile, ancora più noiose. Lo sapevi che c’è un’azienda che si chiama American Metal Climax, Inc.? Dio mio, pensa all’uomo che si è inventato un nome del genere. Be’, insomma, David, per cena hanno preparato del “coq au vin”, ed era praticamente dieci parti di “vin” contro una “coq”. Poi hanno continuato a passarmi per tutta la sera bicchieroni di cocktail al rum e frutta dal nome Vulcano Spento. Manco a dirlo, nel giro di poco, ero sbronza marcia. Poi questo Thomas, Lawrence o quel che è, ha portato i nostri pallidi corpicini a un’altra festa in un appartamento favo-lo-so di undici stanze, di un uomo che a quanto pare è proprietario dell’intero Venezuela. Se ti dicessi cosa aveva appeso alle pareti, non ci crederesti. Braque, Chagall, Mondrian, Renoir, e questi sono solo alcuni. Non ho alcun dubbio che al poveretto abbiano rifilato dei falsi vergognosi, ma ti confesso che lo spettacolo era eccezionale, tutte le pareti che sputavano soldi. Il padrone di casa, un certo Arno Tumbler, al momento è sulla sua isola privata ai Caraibi a studiare per diventare impressionista francese. La festa in sé era una schifezza. Per cominciare, questo Lawrence Thomas mi ha praticamente stuprata mentre ballavamo. Poi è arrivato un intero gruppo di pazzi furiosi con la faccia dipinta e i vestiti più spaventosi che abbia mai visto. Un branco di deficienti ritardati, se vuoi saperlo. Uno mi ha esibito le parti intime. Pensa che stavo solo dicendo a Charles che secondo me neanche i migliori chirurghi della Regina sarebbero riusciti a stabilire di che sesso erano quelle creature orrende, e di colpo mi sono trovata davanti questo ometto ributtante che mi guardava dritta negli occhi e mi sorrideva con il birillo a mezz’aria. Ma veramente, David, ti sembra che una cosa del genere dovrebbe divertirmi? Torme intere di gente che saltellava in toghe e abiti di piume. Roba da sentirsi al centro dell’attenzione per il solo fatto di essere assolutamente normali.» Ero costretto a rammentarmi di continuo che era americana. Come succede ai neoconvertiti, era molto più devota di chi ha passato gli ultimi duemila anni a cantare salmi. Mi domandai cosa ne pensasse il marito inglese di quello sproloquio torrenziale. «Quand’è che ripartite?» «Domani pomeriggio» rispose. «Andiamo in aereo a Omaha, Denver, Little Rock e Atlanta. Dio, che depressione. Poco prima che partissimo da Londra ci è arrivato un diluvio di cartoline praticamente da tutti i nostri conoscenti, tutti in vacanza nei posti più galattici di questa terra. Gwyllam è in Sardegna a fotografare banditi e contrabbandieri. Dilys, a quanto pare, rischia l’espulsione dal Portogallo per edonismo molesto. E i cari Harry e Nigel sono di nuovo in Madagascar a scrivere a quattro mani le loro memorie e

inchiappettarsi a più non posso. Sia chiaro che non mi lamento affatto dei posti come Little Rock. E’ la fine del mondo ritornare dove si è nati. Ma diciamola tutta, David, c’è una sporcizia terrificante. Cioè, insomma, uno legge del Middle West e si immagina di trovarci avventisti e mennoniti che si affannano per le campagne con ramazze e pennelli per ridipingere la casa. Però il clima è micidiale, non trovi? Come mi piacerebbe che fosse così a Londra. E ho sentito che da queste parti le bistecche sono il massimo della vita.» Qualche minuto più tardi eravamo già a letto. Una delle valige aperte scivolò per terra. Lei continuava a parlare di suo marito. Le tirai una sberla e lei chiuse la bocca. Nuda, era ancora più insignificante, e non c’era traccia della lussuria che mi ero aspettato. Contro la sua neutralità, il suo silenzio, scagliai una specie di disperazione. Il vecchio fascismo. Guerra, sadismo, mortificazione di sé, tutto quanto. E lei accettò tutto questo, ma non per tenerselo, e nemmeno per se stessa. All’inizio credevo che avrebbe voluto banchettare con il mio corpo. Mi ero ritrovato protagonista del sogno televisivo del motel, il piacere di diventare altro e nessuno. Mi ero ritrovato sospeso in quel sogno, una sorta di narrativa moderna, il bel giovane violentato dalla duchessa decrepita. Credevo che mi sarebbero piaciute da morire la sua avidità, la sua lingua, i rimasugli delle sue fantasie. Invece lei si era arrampicata sul letto come un vecchio carrettiere e di colpo mi ero ritrovato sovraccaricato di parti: le sue, le mie, quelle del sogno, e lei non sembrava distinguere fra l’autentico e il terribile, il brutale. Forse perché era caduta l’ultima barriera. «Dio mio, chissà cosa penserebbe di noi Meredith. Che dici, abbiamo commesso una specie di incesto medievale? Fra cugini di terzo grado, una cosa così? E’ incredibilmente sordido, vero? Ma scommetto che mi consideri una scopata facile, tesoro. E non sopporti come parlo. Non preoccuparti, David, non sei il primo. Ho avuto una lunga serie di amanti, e tutti dal primo all’ultimo detestavano perfino la terra su cui camminavo, e tutti dal primo all’ultimo mi hanno implorata in ginocchio di riprenderli con me quando alla fine li cacciavo via per semplice noia. Vedi, i miei uomini sono convinti di annoiarsi con me, quando invece è vero l’esatto contrario. Poveri, non gli viene mai nemmeno il barlume finché l’esilio non diventa “fait accompli”. Hanno bisogno di me, capisci. Gli serve una stanza vuota in cui scartare i loro desideri segreti. Tu ci credi, all’aldilà?» «Per chi?» le domandai. «Per chi. Già. Ottima domanda, davvero. Forse i giusti e i noiosi vengono mischiati insieme e spediti a caso in paradiso o all’inferno, mentre noialtri non andiamo da nessuna parte. A dire il vero, forse non è il caso che me ne preoccupi. Il sublime nulla. Sto studiando l’induismo. Cicli e cicli di esistenza. Con Vicky Glinn vado a lezione da uno swami che vive nella miseria più nera in un buco d’appartamento a Battersea. Un uomo davvero notevole, oserei dire, che fa veramente sul serio, solo che comunica soprattutto un pessimo odore. Al momento non chiedo altro alla vita che un paio d’ore di buon sonno. Ti consiglierei di andartene, David. Così io potrò riposare e tu avrai piena libertà di analizzare nei dettagli quanto è successo. Sei il tipo, vero? Lo vedi anche tu

che non sono poi così stupida. Ho anch’io i miei attimi di intuito. Puoi raccogliere quella valigia, per favore? E un’ultima cosa, David, quando farai la tua seduta d’analisi, fammi una cortesia, cerca di trattarci bene entrambi.» Tornato in macchina, sentivo ancora il suo sapore sul dorso della mano. Mi fermai a fare il pieno e chiamai Ken Wild in ufficio. Poi entrai in paese e raggiunsi un negozio di articoli di fotografia. Comprai un po’ di pellicola Kodak Tri-X, un filtro di attenuazione e un treppiede metallico leggero a supporto rotante. Un’ora più tardi, Wild entrò nel ristorante a circa tre isolati dal Drake Hotel. Era ingrassato di qualche chilo e l’attaccatura dei capelli gli si era alzata di un centimetro. Ci fermammo al banco a ordinare un aperitivo. «Allora giri un film» disse lui. «Fantastico. Raccontami tutto. Mi fa schifo la mia vita. Sono arrivato al punto che voglio sentire parlare solo delle vite altrui. E’ come passare dalla narrativa alla biografia. L’inizio della fine.» E’ un po’ difficile spiegare il lavoro che sto facendo. E’ una specie di racconto in prima persona, ma senza che io sia fisicamente presente, se non di sfuggita, non proprio come Hitchcock ma comunque una breve comparsata, diciamo perlomeno la mia immagine riflessa in uno specchio. E anche la mia voce, quando partirò con il sonoro. Ma non solo quello. E’ anche un tentativo di spiegare, di consolidare. Gesù, non so proprio. Sarà in parte sogno, in parte narrazione, in parte cinema. Un tentativo di esplorare certi aspetti della mia coscienza. Non propriamente un’autobiografia nel senso di Jonas Mekas. Ho detto in parte cinema. E con questo intendo certe giustapposizioni di film e realtà, certe immagini che sono rimaste con me e anche certe influenze. Cioè, a volte è possibile anche partire dalla pochezza della propria realtà per finire con un’approssimazione dell’arte. Tecnicamente, spettri e ombre dappertutto. Bresson. Miklós Jancsó. Ozu. Shirley Clarke. La tecnica dell’intervista. Il monologo. L’antifilm. L’inquadratura fissa. L’attore inespressivo. La ripresa prolungata fino al limite temporale estremo. Detto per inciso, mi sono appena fatto una scopata.» «Vai davvero fortissimo» disse Wild. «Non ho la minima idea di che diavolo stai parlando, ma suona proprio fantastico, suona proprio importante, impegnativo.» «Sento di doverlo fare. Sto anche preparando un documentario sui Navajo per la televisione. Lo girerò in Arizona e nei dintorni. Dove c’è la riserva.» «Però non lavori per nessuno.» «Sono un indipendente» dissi. «Non voglio che siano altri a prendere le decisioni al posto mio. Non navigo nei soldi, ma me la cavo. Forse quando sarà finita questa storia farò qualcosa per la Svensk Filmindustri. Appena fuori dalla Svezia. Cioè, intendevo da Stoccolma. Territorio di Bergman. Allora sei divorziato. Mi spiace.» «Lei era una stronza e io un bastardo. Peggio per tutti e due. Mi fa schifo la mia vita. Sul serio. E tu? Sposato?» «Per la verità, convivo con una vietnamita» risposi. «Il matrimonio è un’arte ormai perduta. Forse un domani, se decideremo di avere figli. Altrimenti va benissimo così.» «Le donne sono bellissime, laggiù» disse Wild.

Finimmo gli aperitivi e occupammo un tavolo. Era evidente che nel locale Wild era ben conosciuto. Cominciò a scherzare con il cameriere, ordinandogli un po’ d’angoscia con pane di segala. Poi chiese altri due aperitivi. «Però guadagni bene, no?» «Sì, guadagno bene» rispose. «Scommetto che abiti in un appartamento stupendo con ogni sorta di creature stupefacenti fra cui scegliere.» «Qui siamo nel paese delle conigliette» rispose lui. «Orecchie e code in quantità anche per il cacciatore più imbranato.» Accompagnammo il pranzo con una bottiglia di vino, poi ordinammo due brandy al tavolo. Dopo di che tornammo al banco a bere due Stinger. Wild non aveva la minima fretta di tornare in ufficio. Erano circa le tre del pomeriggio. Io avevo guidato per buona parte della notte precedente, e mi sentivo stanco e intorpidito. Restammo a bere in silenzio per una mezz’ora. «Noi offriamo consulenza nel settore amministrativo e industriale» disse Wild alla fine. «Vuoi sapere tutto dei sistemi di flusso produttivo? Del trattamento di materiali? Del processo centralizzato di trasformazione e distribuzione? Sai, non è detto che la risposta sia l’automazione. Prima si studia l’operazione nel suo complesso. Poi si analizza il sistema in termini di costi e funzioni. Può anche darsi che l’automazione non sia affatto una risposta. Forse ci vuole l’automazione selettiva. Certe volte bastano uno o due piccoli cambiamenti a risolvere tutto. Magari spostando un nastro trasportatore. O progettando un componente ad hoc. Troppi considerano l’automazione come la risposta a qualsiasi problema. E’ un errore. Io lavoro con brave persone. Fanno bene il loro lavoro e non si lamentano mai. Tempo fa sono uscito con la figlia di uno di loro per diversi mesi. Tutta tette. Mi piaceva molto. Solo che continuava a usare una parola che non sopportavo. La diceva continuamente. Mi sono recata al museo. Mi sono recata al parco. Mi sono recata in Rush Street. L’automazione non è affatto una panacea. Nell’azienda di mio padre, questo l’abbiamo capito. La pianificazione dei sistemi è la vera forma d’arte americana. Ancora più del jazz, perdio. In quanto a manutenzione, noi siamo all’avanguardia. Capiamo le interconnessioni. Facciamo funzionare tutto, dall’entrata delle materie prime allo smistamento di magazzino fino alla spedizione delle consegne. Sappiamo sempre esattamente dove piantare il chiodo che tiene insieme tutto. Un sacco di paesi non ne sono in grado. Praticamente in tutta Europa non hanno la minima idea di dove piantarlo, quel chiodo. Hai presente cosa diceva quel francese in quel suo libro? Che al mondo ci sono tre grandi potenze economiche. L’America, la Russia e l’America in Europa. Dobbiamo spiegarglielo noi, dove piantare quel chiodo. Ma i russi sono ancora indietro. Sono arretrati nella ricerca industriale, nell’informatizzazione, nei sistemi automatizzati. Sono ancora indietro. Noi americani sappiamo pianificare benissimo cose come le strategie aziendali, la gestione degli inventari, la distribuzione, la localizzazione dei siti produttivi. Siamo esperti in containerizzazione, carichi unitari, elaborazione elettronica dei dati, studi di fattibilità. Sappiamo arrivare al nucleo del problema. Cosa ci sarà mai di tanto scandaloso?»

Un quarto d’ora dopo, continuò: Il talento è tutto. Se hai talento, nient’altro importa. Puoi anche mandare a puttane la tua vita privata nel modo peggiore, chi se ne frega. Se hai talento, ti rimane sempre di riserva. Chi ha talento sa di averlo e non c’è bisogno di altro. E’ quello a renderti quel che sei. Serve a dirti che sei davvero tu. Il talento è tutto, la sanità mentale nulla. Ne sono assolutamente convinto. Secondo me una volta avevo i numeri giusti. Promettevo bene, vero o no, Dave? Cioè, insomma, qualche talento l’avevo, vero o no? Ma ero troppo sano di mente. Non sono stato capace di compiere il grande balzo fuori dalla mia anima per penetrare l’anima universale. Quello che hanno fatto tutti i grandi. Da Blake a Rimbaud. Ormai l’unica cosa che scrivo sono gli assegni. Leggo fantascienza. Vado per lavoro a South Bend e Rochester. Quello nel Minnesota. Non Rochester nello Stato di New York. Intendo Rochester, Minnesota. Non sono stato capace di compiere il grande balzo». Quando riaprii gli occhi, stava calando il sole. Mi trovavo su un battello. Vidi i grattacieli di Marina City. Ero sul battello del giro turistico del Chicago River, quello stupido fiumiciattolo che l’ingegneria moderna aveva trovato il modo di far scorrere all’indietro. Mi facevano molto male le costole sul lato sinistro. Era il tramonto, e non so come, ma avevo un vuoto di memoria di qualche ora. Poi attraccammo, e allora mi avviai verso il Drake cercando di farmi tornare in mente dove avevo parcheggiato la macchina. Mi fermai in un emporio e chiamai Wild a casa. «Cosa è successo? Mi sono appena svegliato. Ero su un battello turistico.» «Brutto figlio di puttana» rispose lui. «Eravamo al bar. Non ricordo altro. Mi sono risvegliato dieci minuti fa. Cos’è successo nel frattempo?» «Mi fa male il collo, cazzo.» «E a me le costole» risposi. «Non dovrei neanche rivolgerti la parola.» «Eravamo al bar. A berci uno Stinger.» «Ti sei messo a discutere con Chin Po.» «E chi sarebbe?» «Chin Po era il tipo seduto vicino a te. Io ero da una parte, lui dall’altra.» «Va bene» dissi. «E poi cos’è successo?» «Abbiamo brindato. Tu, io e Chin. Abbiamo brindato un tot di volte alla salute di Chiang Kai-shek.» «Fantastico. Splendido davvero.» «Poi hai cominciato a discutere. Con Chin.» «Di cosa discutevamo?» «Dell’aldilà» rispose Wild. «Se esiste o meno qualcosa dopo la morte.» «Ma è incredibile. Non ho neppure una convinzione sull’argomento. Da che parte stavo? Pro o contro?» «Non lo so. Questo non lo ricordo bene. Ricordo solo che tu e Chin vi siete messi a

litigare di brutto se esiste o meno l’aldilà.» «E poi?» «Poi tu hai tirato un pugno a Chin.» «Dio.» «Per fortuna l’hai solo sfiorato, e prima che lui avesse il tempo di reagire mi sono messo in mezzo io per cercare di calmarti.» «E poi cos’è successo?» «Tu mi hai stretto il braccio intorno al collo e hai cercato di strangolarmi.» «Gesù, Ken.» «Mi hai messo il braccio intorno al collo e io non riuscivo a liberarmi. Mi torcevi il collo e io non riuscivo quasi a respirare.» «Sono mortificato. Non mi rendevo conto di quello che facevo.» «Poi sono svenuto» continuò. «Non riuscivo a liberarmi e sono svenuto. Quando mi sono ripreso, ho visto il barista che ti prendeva a pugni nelle costole per costringerti a lasciarmi andare, e il vecchio Chin seduto sul suo sgabello che si accendeva una sigaretta in tutta calma.» «Incredibile.» «Frank, il barista, ha continuato a picchiarti finché non mi hai mollato. Io sono corso dritto al cesso, ribaltando qualche sedia, sono entrato, ho vomitato un paio di volte, mi sono sciacquato la faccia con l’acqua fredda e poi mi sono seduto per terra. Quando sono uscito, cinque minuti dopo, non c’eri più. Non sono sicuro, ma mi pare di ricordare che a un certo punto sei entrato al cesso per un secondo e sei venuto a stringermi la mano. Ma non sono sicuro.» «Ken, non so cosa dire. Mi dispiace davvero.» «Staresti molto peggio se Chin Po fosse riuscito a metterti le mani addosso.» «Perché?» «Frank mi ha detto che è cintura nera di karate.» «Dio.» «Poteva romperti il collo come ridere.» «Dio, lo so.» «Chin il vecchio ciccione. Poteva renderti invalido per il resto della vita.» «E ancora non so cos’è successo nelle ultime due o tre ore. Dio mio, è spaventoso. Ti giuro che sono mortificato, Ken. Cercherò di farmi perdonare in qualche modo.» Non ero affatto mortificato, in realtà. Mi sentivo euforico, casomai. Wild era robusto e muscoloso, pieno di forza. Eppure quando gli avevo stretto il braccio intorno al collo non era riuscito a liberarsi. «Mettiamoci una pietra sopra» disse lui. «Senti, è un po’ che lavoro duro e bevo troppo, mi sa che ho bisogno di una vacanza. Magari vado a disintossicarmi da qualche parte. Hai detto che andavi in Arizona, o un posto del genere, a girare un documentario. Magari possiamo vederci lì. Quand’è che devi trovarti sul posto?» «Domani» risposi, ed era la pura verità.

10. Tornai di corsa all’albergo con le tasche piene di pezzi di carta, schede, foglietti ben ripiegati, frammenti appiccicati con lo scotch, biglietti accartocciati e poi stirati a forza di mani, quanti detriti, quanta gioia, quel giorno così sgranato, figlio di Godard e della Coca-Cola. Chiesi al portiere, che stavolta era un vecchio con la faccia paonazza di capillari rotti, se poteva recuperarmi una t.v. portatile da qualche parte. Mi serviva per un’ora e in cambio sarei stato più che disponibile a infilargli con discrezione una banconota da cinque dollari ben ripiegata nel taschino della camicia robusta comprata per corrispondenza. Lui ricomparve portando con sé un Motorola gigantesco con l’aria di chi tiene in spalla un ferito che non vede l’ora di scaricare da qualche parte. Infilai la spina, abbassai il volume a zero e montai la Canon Scoopic sul treppiede. Dopo poco arrivò Glenn Yost. Lo ringraziai per aver rinunciato alla pausa pranzo e gli spiegai che dovevamo girare nel primo pomeriggio in modo da trovare i programmi televisivi e gli spot più adatti, poi gli chiesi di rileggersi i miei appunti. Gli spiegai che avremmo letto registrando le mie domande e le sue risposte. Per il momento non era previsto che lo filmassi. Parlai in fretta, in modo che non avesse il tempo di ripensarci. In televisione trasmettevano un gioco a premi, con coppie sposate come concorrenti e un maestro di cerimonia affabilmente viscido: le interruzioni pubblicitarie erano frequenti, i consueti spasmi pomeridiani a base di detersivi per la casa e igiene orale. Filmai lo schermo della t.v. per otto minuti circa, con due pause per ricaricare la pellicola, il tutto mentre io e Glenn leggevamo fuori campo il copione sgualcito e spiegazzato. Dall’inizio alla fine, Glenn parlò con voce assolutamente inespressiva. «Ora parleremo di tipi di test e ombre. Di certe forme di oscurità. Di un angolino di ventesimo secolo» dissi. «Ho tutte le risposte.» «E io le domande. Cominciamo molto semplicemente da un uomo che guarda la televisione. E’ possibile che quest’uomo venga condotto alla pazzia molto lentamente, per gradi, un programma dopo l’altro, un’interruzione pubblicitaria dopo l’altra. Eppure continua a guardarla. Cosa c’è dentro quella scatola? Perché l’uomo continua a guardarla?» «Il televisore è un contenitore pieno di prodotti. Dentro ci sono detersivi, automobili, macchine fotografiche, cereali per la prima colazione e altri televisori. Non sono i programmi a essere interrotti dalla pubblicità, ma è il contrario. Un televisore è una forma di imballaggio elettronico. Non è altro. Senza i prodotti, non esiste nulla. Il concetto di programma educativo è un’idiozia. Chi mai in America sarebbe disposto a guardare una t.v. senza pubblicità?» «In che modo uno spot pubblicitario di successo è in grado di influenzare il

telespettatore?» «Gli fa venire voglia di cambiare il suo modo di vivere.» «In che modo?» chiesi. «Sposta la sua consapevolezza dalla prima alla terza persona. In questo paese c’è una terza persona universale, l’uomo che tutti vorremmo essere. La pubblicità ha scoperto quest’uomo. E lo usa per rappresentare le possibilità aperte al consumatore. Consumare in America non significa comprare, ma sognare. La pubblicità suggerisce che il sogno di diventare terza persona singolare è effettivamente realizzabile.» «Allora in che cosa si differenzia uno spot televisivo da un film? I film sono pieni zeppi di persone che tutti vorremmo essere.» «La pubblicità non va mai oltre la grandezza naturale. Cerca di non spingersi troppo oltre il confine della fantasia; tanto è vero che spesso prende in giro certi temi dell’immaginario associati in genere ai film. Guarda, non c’è niente al mondo che ti impedisca di salire su un aereo della Eastern e andartene ad Acapulco per vivere due settimane di sesso e avventura con una dattilografa di Iowa City in vacanza. Ma la pubblicità non ti fa mai credere che tu lo possa fare con Ava Gardner. Solo Richard Burton può farlo. Si può cambiare la propria immagine, ma non l’immagine della donna che ci si porta a letto. E la pubblicità ha saputo commercializzare questa distinzione. Siamo riusciti a sfruttare i limiti dei sogni umani. E’ la nostra conquista più importante.» «Come si diventa grandi pubblicitari?» «Si deve saper smuovere la merce dagli scaffali. Né più né meno. Se domani l’intera industria pubblicitaria chiudesse i battenti, andrei da Macy’s a cercare lavoro come venditore di mutande per uomo.» «Torniamo alle immagini. Tu pensi che gli ideatori di spot pubblicitari tengano conto di questa consapevolezza in terza persona di cui hai parlato con tanta persuasività e verve?» «Loro si limitano a girare i loro piccoli capolavori da venti secondi. La terza persona l’ha inventata il consumatore, il grande sognatore in pantofole. La pubblicità ha scoperto il valore della terza persona, ma è stato il consumatore a crearla. E’ stata la nazione a crearla. La terza persona è arrivata qui insieme al “Mayflower”. Sto ancora aspettando che tu mi chieda della controimmagine.» «E sarebbe?» «E’ la guerriglia che si combatte dietro il fronte dell’immagine. E’ il ritratto di atrocità spirituali devastanti. Il perfetto esempio di controimmagine in pubblicità ci viene dallo spot televisivo di “tranche-de-vie”. Una scena riconoscibile che si svolge in una casa di quartiere residenziale in una qualsiasi città degli Stati Uniti. Un dialogo fra papà e figlio, o fra Madge e gli amici del club del bridge. Problema: Madge soffre di irregolarità intestinale. Soluzione: bevi questo, e sedersi sulla tazza sarà una poesia. Il fondamento logico, in queste pubblicità, è che il consumatore si immedesimerà in Madge. Ed è un grave errore. Il consumatore non si identifica mai con la controimmagine. Si identifica solo con l’immagine. L’uomo della Marlboro. Frank

Gifford e Bobby Hull per i costumi da bagno Jantzen. In genere, gli spot realistici trattano gli aspetti della vita più deprimenti: puzze, dolori, vecchiaia, bruttezza, sofferenza. Per fortuna, l’immagine è grande quanto basta per fagocitare la controimmagine. Non che io abbia pregiudizi nei riguardi della controimmagine come principio. Ha le sue potenzialità, e forse non è lontano il giorno in cui saremo stufi del sogno. Ma la controimmagine viene presentata fin troppo alla lettera. Le tematiche scontate. I dialoghi stereotipati. Ci vuole un tocco di orrore, una folle risata dall’oltretomba ogni tanto. Prima o poi un copywriter più furbo degli altri riuscirà a intuire il vero mistero dell’America e saprà elaborare una nuova variante allo spot di vita quotidiana. Lo spot di morte quotidiana.» «Hai passato quasi tutta la tua vita adulta nel campo pubblicitario?» «A parte quattro anni.» «E quelli dove li hai passati?» «Sotto le armi durante la guerra.» «Dove?» «Nel Pacifico.» «Dove esattamente nel Pacifico?» «Filippine.» «Dove esattamente nelle Filippine?» «A Bataan: ci hanno girato due film.» «Ti senti mai a disagio per il tuo ruolo nel costante e incorporeo dispiegarsi dell’ordine delle cose?» «Solo quando cerco di acquistare per diritto di prelazione la verità.» «Sarebbe a dire?» «Uno dei clienti per cui lavoro è la Nix Olympica Corporation. Commercializza una linea completa di prodotti per il corpo. Creme depilatorie, pomate, polveri per pediluvi, matite emostatiche, collutori, bastoncini nettaorecchie, deodoranti per ascelle, deodoranti inguinali maschili e femminili, pomate antiacne, decongestionanti nasali, risciacqui per dentiere, lassativi, cerotti per calli. Dovevamo organizzare una campagna pubblicitaria per la loro Divisione Dentex, che si occupa sostanzialmente di collutori. Okay, abbiamo puntato l’attenzione su uno dei componenti essenziali, il quasicinnamaldeide-plus. Il Q.C.P. Siamo partiti con la tattica aggressiva. Il nuovo Dentex con Q.C.P. elimina i batteri del cavo orale e le impurità che provocano l’alito cattivo, ed è più efficace del trentadue percento. Specificare. Presentare fatti. Fare promesse concrete. Okay, a quel punto durante una riunione salta fuori uno stronzetto che dice: più efficace del trentadue percento rispetto a cosa? Ma è ovvio, gli rispondo: più efficace del trentadue per cento rispetto a un Dentex senza Q.C.P. Il fatto che tutti gli altri collutori sul mercato abbiano o meno come ingrediente il Q.C.P. è irrilevante, perché comunque noi siamo gli unici a parlarne. E questo significa acquistare per diritto di prelazione la verità. I creativi preparano lo storyboard. Apertura su una macchina di Formula Uno, la numero sei, al circuito di Watkins Glen. Azione, rumori, folla, ruggito di motori,

incidenti, esplosioni. Vince la numero sei. La miss di turno arriva di corsa alla macchina, si abbassa per dare un bacio al vincitore e distoglie la testa con una smorfia schifata. Alito cattivo. Non ha nessuna voglia di baciarlo. Stacco su interno laboratorio medico, scienziato in camice bianco. E qui c’è la parte concreta: grafici, diagrammi, nuova formula con Q.C.P., più efficace del trentadue percento. Altro stacco e torniamo al pilota di prima, sempre la macchina numero sei, altra gara. Sul traguardo cala la bandiera a scacchi, ha vinto di nuovo lui, ghirlanda al collo, arriva la miss per il bacio al vincitore, dissolvenza sul party del dopocorsa, pilota e miss che ballano, si baciano, si sussurrano qualcosa, ballano, si baciano di nuovo. Abbiamo sottoposto l’idea alla Dentex. Gli è piaciuta da pazzi. Poi l’abbiamo sottoposta alla Nix Olympica. Gli è piaciuta da pazzi. Erano al settimo cielo. Ci hanno dato l’okay per le riprese. Ci siamo procurati macchine, piloti e comparse. Siamo andati a Watkins Glen. Abbiamo girato riprese dagli elicotteri, carrellate, “ralenti”, fermi immagine, zoom, grandangoli, abbiamo preparato due piccoli incidenti e un’esplosione spettacolare con una macchina cappottata che per poco non ha fatto fuori mezza troupe. Ho indetto una riunione straordinaria del comitato programmazione dell’agenzia e ho sottoposto il risultato finale. Gli è piaciuto da pazzi. Quando ho spiegato che in proporzione il budget di quello spot era lo stesso del film “Cleopatra”, erano al settimo cielo. Così avrebbero avuto qualcosa da raccontare alle mogli a cena. Il giorno dopo abbiamo proiettato lo spot ai tipi della Dentex. Gli è piaciuto da pazzi. Erano al settimo cielo. L’abbiamo sottoposto alla Nix Olympica. E loro l’hanno bocciato su due piedi. Non era un problema di soldi, a loro tutte quelle spese facevano effetto, anche loro avrebbero avuto qualcosa da raccontare alle mogli. Eppure lo hanno bocciato. Ci hanno ordinato di rifare da capo tutte e due le sequenze in cui il pilota vince la gara.» «E perché?» «Per colpa dell’asiatico. Per colpa di quel vecchietto ai margini del gruppo di comparse che al momento della vittoria si affollano intorno al pilota numero sei, prima quando la miss rifiuta di baciarlo, poi quando invece lo bacia. Tutte e due le volte c’era anche lui, un vecchietto piccolo e rugoso, un orientale. Chi è quello? Chi l’ha ingaggiato? Come ha fatto a mescolarsi tra le comparse? Non lo sapeva nessuno. Però c’era eccome, e i dirigenti della Nix Olympica se ne sono accorti. Tutte le altre comparse erano uomini e donne giovani che scoppiavano di salute, belli, splendenti. E’ una pubblicità per un collutorio, quindi ci vogliono salute, allegria, freschezza, bocche sexy. E in mezzo alla folla c’è questo vecchietto malaticcio, questo asiatico con l’aria da cane bastonato, deprimente oltre ogni dire. Guarda, io lo adoro, il mio lavoro. Ci sguazzo. Ma non riesco a togliermi il dubbio che forse ho sprecato la vita, e tutto per colpa di quel vecchietto che ha rovinato lo spot del collutorio. Una sera di primavera, qualche anno fa, nel periodo in cui mia moglie era gravemente malata e si avvicinava alla fine, camminavo per una strada nell’isolato della Trentesima. Ho svoltato in Park Avenue e mi sono trovato davanti al grattacielo della Pan Am, alto due chilometri e largo uno, con tutte le luci accese, uno spettacolo incredibile, un blocco gigantesco di

roccia squadrata che mi sovrastava cancellando dallo sguardo tutto il resto, perfino il cielo. Sembrava di essere di fronte a Dio in persona. Non avevo mai visto il grattacielo della Pan Am da quel punto, e non ero pronto a una sorpresa del genere, a un’enormità simile, al modo in cui riempiva il cielo, a quella fila interminabile di luci. Giuro che sembrava di vedere Dio Padre Onnipotente. Dov’è che volevo arrivare con questo discorso?» «Non lo so.» «Neanch’io. Mi sa che è quello che capita quando si cerca di accaparrarsi la verità.» «Qual è il ruolo della televisione commerciale nel ventesimo secolo e oltre?» «Quando sono di pessimo umore, sono certo che significherà il caos per tutti noi.» «E come ti fai passare il cattivo umore?» domandai. «Faccio un bagno rilassante con il nuovo bagnoschiuma Palmolive, mi lavo i denti con Crest, mando giù due pastiglie di Sominex e cerco disperatamente di dormire un po’ sul mio materasso Simmons Beautyrest.» «Grazie.» Feci una doccia e poi chiamai il network chiedendo di me. Mi domandai cosa sarebbe successo se mi fossi risposto io. «Ufficio del signor Bell» disse Binky. «Qui è Charles della Ritz. Il nostro rossetto del mese è la tonalità mousse di salmone.» «David, dove diavolo sei?» «Dammi dieci secondi e mi tornerà in mente.» «Adesso piantala di scherzare, il signor Denney è su tutte le furie. C’è la troupe al completo che ti aspetta alla riserva, e non possono muovere un dito finché non arrivi tu. Mi dici dove sei?» «A circa duemilacinquecento chilometri dal posto in cui dovrei essere.» «Non ci credo. Sei impazzito. Ti farai licenziare.» «Di’ a Weede di mandarci Harris Hodge, alla riserva. E’ giovane e pieno di buona volontà. Se la caverà benissimo. Ho sentito parlare molto bene di lui.» «Ma quello è il tuo progetto, David. Devi andarci assolutamente.» «Io in Arizona non ci vado, Binky. Almeno non ora. Preferirei stare là, piuttosto che qui. Ma devo assolutamente finire una cosa.» «Che cosa?» «Ho chiamato solo per dirti che sto bene. Pensavo che saresti stata in ansia non sentendomi.» «Infatti sono molto in ansia, David. Cos’è la cosa che stai facendo?» «Sto guadando la palude. Senti, come sta Warburton?» E’ morto» rispose. «Me lo sentivo negli ultimi due giorni. Spero che lo seppelliranno in Inghilterra. Freddy Testadimerda ha scritto un comunicato?»

«Freddy chi?» «Weede» risposi. «Ha scritto un comunicato per Ted Warburton?» «Non dovresti insultarlo così. Finora ha preso con molta calma il fatto che non ti sei presentato in Arizona. Ti sta dando tutto il suo appoggio. Ha detto a Livingston che senz’altro il ritardo era dovuto a cause di forza maggiore. Un incidente, o qualcosa del genere. David, guarda che dovrò chiamarlo e dirgli che non hai intenzione di raggiungere il set.» «Cosa diceva il comunicato? C’era scritto che Ted era un amico fidato e un dipendente di antica data e che nessun uomo è un’isola?» «Sì, qualcosa del genere, mi pare.» «Warburton era Trockij» dissi. «David, no.» «Non dirlo a nessuno. Lascia che lo scoprano per conto loro, i bastardi. Niente più promemoria. Erano l’unica cosa per cui valeva la pena di lavorare lì.» «Ti servono soldi?» «Ho ancora traveller’s cheques per una decina di giorni. Non mi fermerò di più.» «Tornerai a New York?» «Non lo so, Bink.» «Cosa farai per vivere?» «Non lo so. Non ci ho ancora pensato.» «E di casa tua che te ne fai?» «Non ci ho ancora pensato.» «Mi terrai informata su dove sei e cosa combini? Giuro che non lo dirò a nessuno.» «Va tutto bene, Binky. Tutto benissimo. Mi mancherai. Tu e i promemoria di Trockij. Le uniche cose per cui valeva la pena di stare in quell’ufficio.» «Grazie tante» ribatté lei. Il vecchio venne a riprendersi il televisore. Poi arrivò Carol Deming in maglione e pantaloni neri, struccata. Le stampai sulla guancia un bacetto impersonale, gesto che lei accolse con un sorriso esangue rivolto alla cinepresa. Andò a sedersi sulla poltrona, ripiegando le gambe sotto di sé, poi diede un’altra occhiata al copione. Regolai il treppiede e le parlai accucciato a terra, da vero regista. Lei si mordicchiò il pollice, stellina di Hollywood sotto le luci incantate. Cinepresa e registratore erano collegati e pronti a partire in sincrono. «Ora, durante la prima parte devi mostrarti semplice, sincera, disponibile. Nella seconda cominci a tirarti indietro. Voglio sentirmi come se ascoltassi una sconosciuta che parla nella nebbia. Mi servono due donne molto diverse. Non so se hai visto “Persona”. Ci sono due donne, un’infermiera e una paziente, molto diverse, ma che cominciano lentamente a fondersi una nell’altra, quasi a naufragare una nella personalità dell’altra per poi riemergere con qualcosa in più o in meno, non saprei dire esattamente quale delle due, ma comunque un grande film, tuttora insuperato, sulla natura

dell’esistenza che svanisce. Ma sto divagando.» «Come vuoi che stia seduta, David?» «Esattamente come sei ora. Voglio inquadrare tutta la poltrona. Guarda dritto nell’obiettivo. Voce bassa. Mantieni al minimo l’interpretazione. Poi stacchiamo e andiamo con la seconda parte.» «Ho paura.» «Ce l’abbiamo tutti.» «Ma forse ho capito cosa vuoi.» «Comincia» dissi. «All’inizio era costretto a farsi prestare i soldi da suo padre, ma dopo un po’ siamo riusciti a cavarcela da soli. Era un matrimonio di quelli divertenti. Avevamo un sacco di amici e li chiamavamo sempre in base all’estro del momento per invitarli a casa nostra. Quando non sapevamo più cosa dirci, prendevamo il telefono e chiamavamo gli amici. Se non potevano passare a trovarci, allora andavamo al cinema. Andavamo al cinema tre o quattro volte la settimana. Abbiamo visto “Fino all’ultimo respiro” tutte le volte che lo replicavano, almeno cinque o sei. A lui piaceva moltissimo. Non ricordo cos’altro abbiamo visto. Andavamo per negozi insieme, e ogni tanto io compravo qualcosa per lui e lui qualcosa per me. Ci piaceva molto farci vedere insieme. Ci invitavano dappertutto e noi accettavamo sempre. Nei fine settimana partivamo alla scoperta della città. Era favoloso. Poi lui cominciò a fare cose strane. Una volta mi picchiò. Mi chiese di guardare mentre faceva quella cosa che fanno i ragazzi. Andammo dagli Hampton e lui scomparve nel nulla per dodici ore. Quando tornò, disse che aveva fatto un viaggio attraverso le età dell’uomo e che sulla via aveva incontrato se stesso. In quel periodo telefonavamo spesso ai nostri amici. Chiamavamo sempre più amici per invitarli a casa nostra. Compravo un sacco di cappelli. Volevo un bambino. Una volta lo vidi al Rockefeller Center insieme a una ragazza con un impermeabile verde. Stavano fermi a guardare la gente che pattinava sulla pista ghiacciata. Sicuramente lei stava congelando.» Carol andò alla finestra e rilesse il copione. Gettò le pagine a terra senza una parola, si accese una sigaretta e ritornò alla poltrona, stavolta con i piedi nudi piantati sul cuscino e le ginocchia in alto, allargate, schiena curva e viso incorniciato dalle gambe, come a trovare rifugio nel proprio corpo, soffiando fumo verso l’occhio paziente della cinepresa. Cominciai a girare. Carol tacque per dieci secondi buoni, mostrando grande intelligenza, dieci secondi fumosi prima di ricominciare. «E’ incredibile quanto fosse suscettibile alle offese. Se qualcuno pronunciava una parola oscena in mia presenza, lui esigeva scuse immediate. E ovviamente le riceveva, vista la sua reputazione. Era pronto a uccidere, letteralmente a uccidere, pur di vendicare l’onore di una persona amata. Non faceva che giurare sulla tomba di sua madre. Tra gli uomini che frequentava non c’era promessa o dimostrazione d’onore più sacra che giurare sulla tomba della propria madre. Si poteva avere in prestito qualsiasi somma e ottenere qualsiasi favore purché si giurasse solennemente sulla tomba della propria

madre di ripagare il debito. Una volta mi raccontò di un suo amico che tutti chiamavano Mamma Cabrini. Questo Cabrini aveva fatto molta strada sfruttando la tomba di sua madre, finché non si era saputo in giro che la madre era viva e vegeta. Nel raccontarlo, era divertito e indignato allo stesso tempo. Erano bambini, naturalmente, ma non nel modo in cui restiamo tutti bambini. Abbiamo tutti imparato a non avere paura del buio, ma ci siamo dimenticati che il buio significa morte. Loro invece no. Loro sono ancora sulle colline della Sicilia, o della Corsica o qualunque sia il luogo da cui provengono. Obbediscono ancora alla madre. Non scendono mai in una cantina buia senza aspettarsi di essere strangolati da uno zombie. Si fanno continuamente il segno della croce. Mentre noi, noi cosa facciamo? Guardiamo la televisione e giochiamo a Scarabeo. Ecco qua: figli della luce, figli del buio. Ci sono a dir poco molti modi per morire, e ne ho appena elencati due. Non riuscivo più a sopportare il modo in cui stavo morendo, per cui ho deciso di rischiare con lui. Facemmo l’amore per la prima volta sul sedile posteriore della sua Cadillac parcheggiata nel vialetto di casa di qualcun altro, alle dieci di sera, da qualche parte fra Boston e New York. All’epoca non ero già più vergine e fu una cosa che lo sconvolse. Non riusciva a capire come potesse una ragazza di diciannove anni e di buona famiglia e via di questo passo. Cominciammo a convivere, un po’ sì e un po’ no. Lui partiva per i suoi viaggi di lavoro e io mi chiedevo quanta importanza avesse il suo lavoro ai fini della nostra relazione. Non riuscivo a togliermi dalla mente il sospetto di avere costruito tutto con le mie mani, il bisogno che avevo di lui, semplicemente pur di evitare quelle che mi sembravano le alternative. E’ uno dei miei difetti peggiori. Non sono capace di mettermi seduta ad aspettare che le cose crescano per conto loro fino a mostrarsi in tutta la verità o l’orrore. Devo a tutti i costi sondarle fin dall’inizio. Ma sono così, prendere o lasciare, per cui mi ritrovavo sola nel letto a domandarmi se davvero avessi bisogno di lui, se invece non mi sarebbe andato benissimo chiunque altro, chiunque altro fosse abituato a passare le sue notti accanto alla morte violenta. Deve pur esserci un limite al bisogno di sconfiggere la noia. E nel cercare di sconfiggerla, forse ho oltrepassato il limite. Mi serviva la morte per convincermi di essere viva, un’atmosfera di morte ben più concreta e personale di quella offerta dai giornali. Non volevo che lui mollasse i suoi affari. Se l’avesse fatto, credo che l’avrei lasciato. Per cui stavamo insieme, il figlio delle tenebre e la bambina che sfugge alla luce, lui nascosto in una grotta profonda con il suo coltello siciliano luccicante e io con la mano fra le gambe alle quattro del mattino ad aspettare che tornasse coperto di sangue. Quante notti ho passato a immaginarmi la bellezza della sua morte? Assassinato a Utica, il sicario prezzolato. Su una poltrona da barbiere che gira e gira sprizzando sangue. L’idea mi faceva sentire quasi in calore. Mi immaginavo spesso la sofferenza muta e splendida che avrei provato. La sua doveva essere la morte più bella di tutte, che mi avrebbe riempito di vita. Era alto e davvero bello, proprio un attore degli anni trenta. Si muoveva come un animale, un animale quasi fin troppo orgoglioso di sé, un animale tutto sesso e morte. Aveva il terrore del buio. Faceva pesi, per tenersi in forma diceva, ma in realtà solo per esibire il proprio corpo. Spesso si presentava a tavola in mutande. Quando passava davanti a una

chiesa, si faceva il segno della croce. Credeva nei fantasmi e nei diavoli. Cercava di non dire mai parolacce in mia presenza, e quando le dicevo io rimaneva sconvolto e piacevolmente sorpreso. Andava spesso alle corse dei cavalli e perdeva parecchio. Mi comprò una pelliccia di visone e mi portò al Copa. Per me lui era tutto, il mio uomo e la mia filosofia, e in fondo è strano che una donna come me, così beneducata e istruita e di una certa intelligenza, almeno in teoria, avesse tanto in comune con un uomo del genere. Lui percepiva a istinto che la morte è priva di significato se non è violenta.» Sullivan gettò la cenere della sigaretta nel piatto di insalata che stava buttando via. «Dopo le incursioni ce ne stavamo a perdere tempo in camerata» disse Brand. «C’erano sempre Thaw, Hoppy, Bookchester e un ragazzino di nome Eldred Peck che aveva studiato a un’università sconosciuta giù al Sud e aveva scritto la tesi di laurea sul significato della svastica nella storia. Avete presente, no? Ne aveva rintracciato il percorso fino ai tempi dei primissimi buddhisti, a ritroso fino all’alba dell’uomo. Era la sua frase preferita. L’alba dell’uomo. Eldred aveva inventato un giochino che facevamo sempre, seduti in camerata dopo un’incursione. Solo che non era proprio un gioco. Era piuttosto una forma particolare di conversazione, quasi un cantico. Gli aveva perfino dato un nome. Si chiamava il Diosalvi. Cominciava sempre Eldred. Era il più giovane di tutti e aveva i capelli quasi più bianchi che biondi, talmente bianchi che sembravano rosa, era un ragazzo piccolo e magrissimo che quando indossava l’uniforme da pilota sembrava quasi sparirci dentro. Diosalvi i novantaquattro fra donne e bambini che ho disintegrato stamattina, diceva. E noi ripetevamo a turno. Diosalvi il monaco cieco che ho incenerito con il napalm, rispondeva Hoppy. Diosalvi l’asilo che ho ridotto in cenere impalpabile. Diosalvi l’ospizio che ho cancellato con quella bomba da trecento chili. Diosalvi i trecentoventotto bibliotecari che ho grovierato a colpi di mitragliatrice. Diosalvi la squadra di osservatori neutrali che ho carbonizzato. Diosalvi il gruppo interconfessionale di missionari in escursione da diciassette giorni che non si sono neanche resi conto di crepare. Dopo circa un mese, Eldred ha perfezionato il salmo. L’ha reso più ortodosso, più rigido. L’ha purificato. Ci ha obbligati a usare le stesse identiche parole tutte le volte. Ciascuno aveva il suo versetto e poteva recitare solo quello, e inoltre dovevamo parlare a turno in ordine prestabilito: prima Eldred, poi Bookchester, Thaw, Hoppy e poi io, tutti a ripetere i diosalvi a volte per più di due ore, sempre le stesse cinque frasi, una per ciascuno. Diosalvi i testamenti di questo mondo che diventa ogni giorno sempre più reale. Diosalvi i poveri stronzi che stanno dalla nostra parte solo per finire ubiquizzati in frattaglie onnipervasive dalle buone intenzioni delle nostre bombe. Diosalvi i nostri cari in patria e conceda alle loro vagine di espandersi e proliferare. Diosalvi l’alba dell’uomo, che è di nuovo imminente nel ciclo dell’inversione temporale. Diosalvi Dio. Era quello il mio versetto. Diosalvi Dio. Era come un rito religioso, ma con una grande ironia che in genere nelle religioni non si trova. E a volte ci facevamo grandi risate per tutta la durata del salmo. Eldred era un ragazzo strano. Assomigliava un po’ a come sono io adesso. Ma molto in anticipo

rispetto ai tempi. Aveva previsto il ritorno del mondo reale. Le cose diventano sempre più reali in proporzione all’irrealtà delle singole esistenze. Il mondo non è mai stato più reale di adesso. E questo non l’ho imparato a Yale. L’ho imparato da Eldred. Lo ha divorato il cielo. E’ stato il primo a prenderlo in quel posto. Ma i diosalvi non sono mica finiti. Ci siamo limitati a togliere il suo versetto dal cantico e cambiare quello di Thaw. Diosalvi Eldred Peck e il suo roseo pisellino. Poi l’hanno preso in quel posto Bookchester e Thaw nello stesso giorno. Aerei nemici. I cattivi. Diosalvi Dio, recitavo quella sera. Ma Hoppy continuava a mandare giù la sua birra senza una parola.» «Vuoi che rolli una canna?» domandò Sullivan. «Grazie, signora. Ma facciamo più tardi.» Pranzammo insieme, poi Sullivan e Brand decisero di fare una passeggiata in città per comprare una scacchiera. La cosa mi infastidì un po’, perché io non sapevo giocare. Dopo che se ne furono andati, guardai Pike rovesciare la testa e buttare giù il whisky bruciante con una smorfia. «Se vuoi possiamo partire per il Colorado nel giro di una settimana.» «E perché?» mi chiese. «Volevi trovarti faccia a faccia con un coguaro prima di morire, no? Senza sbarre a separarvi. Saliremo sulle Montagne Rocciose.» «Passami quel portacenere.» «Vuoi andarci, no? Non è per questo che sei venuto con noi?» «Una volta, a Baltimora, ho visto tutti gli animali e gli uccelli del mondo senza bisogno di uscire dalla mia camera. Sono rimasto sbronzo marcio per due o tre settimane. Che me ne faccio delle Montagne Rocciose? Questa vita non è così grande da non poter stare tutta intera dentro una bottiglia.» «Una volta Sully mi ha detto che tu le hai salvato la vita. Intendeva alla lettera?»

«Lei intende tutto alla lettera. Non farti illusioni sulla signora. Intende alla lettera tutto quello che dice.» «Come gliel’hai salvata?» chiesi. «Aveva una mosca in testa che le divorava il cervello. Una mosca piccola piccola che le si era incastrata in un orecchio e non si sa come, era riuscita a infilarsi in testa. Il ronzio la faceva impazzire. Poi la mosca ha cominciato a mangiarle il cervello. La sentiva masticare. Per cui siamo saliti nel suo studio e io ho eseguito un delicatissimo intervento di neurochirurgia nonostante il tremito alle mani. Quando le è entrata in testa, quella mosca era ancora piccola, ma quando le ho aperto la scatola cranica e l’ho tirata fuori, con tutto quello che si era mangiata, era grande come un lumacone ormai.» «Chi ti paga tutto l’alcol che ti bevi? Non posso credere che hai guadagnato tanti soldi in vita tua.» «Levati dai piedi, Jack.» «Guarda che mi chiamo Dave.» «Jack. Jacazzo. Jaculo. Jacorvo. Jacorvo che divora la carogna del coguaro. Jacorvo B. DeMille. Che ne sai tu di come si fa un film?» «Sono ventotto anni che sto nel cinema» risposi. Austin Wakely era un attore alle prime armi, e non c’era missione che non fosse disposto a intraprendere pur di gratificare l’ego della cinepresa. Gli avevo dato solo quattro ore per imparare la sua parte, eppure giurava di non essere mai stato più pronto in vita sua. Cominciai a trafficare con i tasti giganti del registratore. «Sai, questa tecnica dell’intervista non è mica una novità.» «Sto inventando il primitivo» dissi. «Gli altri, nella loro ansia, sono semplicemente inciampati per caso in certe forme pseudoarcaiche. Ho fatto la stessa cosa per un programma televisivo prodotto da me. Ma quello era per la televisione.» «Puoi fare una panoramica, con quel treppiede?» «Non stasera.» «Non ce l’hai un microfono da farmi mettere?» «No.» «Sai, c’è chi usa delle cose che si chiamano filtri a diffusione per ammorbidire i lineamenti all’attore nei primi piani.» «Austin, lasciamo perdere i tecnicismi e cerchiamo di rendere magica questa sera d’aprile. Non farò nessun primo piano. Voglio che ti metti in piedi contro quella parete bianca. A proposito, Carol è sposata?» «Mi giungerebbe nuovo.» «Ragazza interessante» dissi. «Drotty la trova troppo immersa in sé. Vorrebbe che esternasse di più.» «Okay, siamo pronti. Cerca di evitare pause a effetto. E controlla l’inflessione più che puoi.» Inquadrai Austin contro la parete, poi iniziai a riprenderlo, la mia voce una cordiale

macchina da interrogatorio per perplessi e disadattati. «Stato civile.» «Divorziato.» «Figli.» «Nessuno.» «Appendice.» «Tolta.» «Che ne pensi della guerra?» domandai. «L’ho vista in televisione. La sponsorizzano i produttori di caffè solubile, fra gli altri. Gli spot pubblicitari si attengono con un certo stile alla gravità dei fatti presentati dai programmi. In certi c’è perfino integrazione razziale. Dal momento che ho lavorato sette anni al network responsabile delle corrispondenze dal fronte, direi che sono nella posizione di fare presente che network e agenzie pubblicitarie hanno unito le forze allo scopo di convincere lo sponsor che erano consigliabili spot pubblicitari a integrazione razziale. L’argomento decisivo è stato che la guerra per prima mette in atto l’integrazione. Il network ha sempre fatto della programmazione equilibrata uno dei suoi obiettivi strategici principali.» «Obblighi di leva.» «Ho fatto la visita militare subito dopo il college. Ginocchio difettoso. Forfora allo stadio terminale. A quell’epoca erano molto più selettivi.» «Quanto è durato il tuo matrimonio?» «Circa tre anni.» «Vuoi raccontare alla cinepresa come mai non avete avuto figli?» «Volevamo prima divertirci. Abbiamo deciso che i figli potevano aspettare che finissimo di divertirci, dopo l’Europa, dopo esserci sistemati un po’.» «E ci siete andati, in Europa?» «Solo dopo il divorzio. Ci siamo incontrati a Firenze e abbiamo bevuto un’aranciata insieme. Io alloggiavo in un palazzo del quattordicesimo secolo. Una sera, al ristorante, ho attaccato discorso con una ragazza veramente brutta che poi ho scoperto essere tedesca e zoppa. Abbiamo passato parte della nottata in camera sua, non nella mia, e la mattina dopo ho incontrato la mia ex moglie sul Ponte Vecchio e abbiamo vagato ore per la città. Verso sera lei aveva cominciato a zoppicare leggermente, e allora mi sono reso conto che non volevo più stare con lei.» «Per quale motivo avete divorziato?» «La mia immagine cominciava a offuscarsi. Il che creava problemi a entrambi. Nonostante ciò, siamo rimasti molto affezionati. Il divorzio è un’invenzione straordinaria, molto meglio delle lunghe separazioni o dell’omicidio. Distrugge la tensione. Libera un gran numero di emozioni salutari fino a quel momento tiranneggiate dalle varie crudeltà mentali. Il divorzio è la strada più educativa ai fini di una comprensione profonda fra due persone. E’ il secondo passo più importante per raggiungere una forma di amore veramente oblativa e gioiosa. Ovviamente il primo è il

matrimonio.» «Genitori.» «Madre deceduta.» «Padre.» «Sepolto vivo, ma respira ancora. Non è che aspetti con ansia il giorno della sua morte. Però ammetto che mi darebbe un certo sollievo.» «Perché?» chiesi. «Ricordo il rumore dei suoi passi quando scendeva le scale a piedi nudi. Non portava mai pantofole, mio padre. Gli regalavano sempre tutti pantofole, per Natale. Ma esiste una certa virilità americana che preclude l’uso di qualsiasi capo di vestiario che possa attenuare l’impatto della verità brutale dell’ambiente che ci circonda.» «Alla cinepresa non piace l’evasività. Come dice il signor Hitchcock, non si deve mai usare il flashback per ingannare lo spettatore. Di cosa sei orgoglioso, ammesso che tu sia orgoglioso di qualcosa?» «Ho girato molti cortometraggi di vario tipo. Filmini del fine settimana. Porno domestici. Cose senza la minima trama insieme agli amici. Qualcosa di più di un hobby, ma non molto. Finora, ovviamente. E ricordo che ero molto orgoglioso di una delle cose che ho fatto. L’ho realizzata a Central Park, durante una cerimonia funebre dopo uno degli omicidi. C’era una coppia di neri anziani, in fondo alla folla. L’uomo era alto e magro, con una faccia come uno scoglio puntato verso il mare. Portava un completo nero e una camicia bianca con il colletto inamidato con le punte arrotondate, cravatta nera con il nodo un paio di centimetri sotto il primo bottone della camicia. In mano teneva un cappello nero. La donna era alta quasi quanto lui, e a suo modo aveva un viso altrettanto forte, ma anche più morbido, non roccia ma terra. In certi casi, la parola ‘dignità’ è inevitabile. E per qualche ragione, percepivo che non erano marito e moglie, ma fratello e sorella. Qualunque fosse il loro rapporto, sembravano i pilastri della Chiesa Battista nera. Ascoltavano i discorsi e la musica, assolutamente dritti e assolutamente immobili, e allora io ho puntato la cinepresa e ho cominciato a girare. Ogni tanto inquadravo il resto della folla o uno degli altoparlanti sul palco, ma finivo sempre per tornare a quella coppia. Credo di essermi riguardato quello spezzone di pellicola almeno cinquanta volte. Per me significava molto. Ne ero fiero. Non era una giornata al parco come mille altre, o una delle cose che si vedono al notiziario delle sette. Quelle due facce mi sembravano più eterne della repubblica stessa. Il film iniziava con loro e finiva con loro. Esprimevano un senso di turbamento. Almeno così mi pareva. Mi ci è voluto un pezzo per capire quanto mi sbagliavo. La cinepresa crea significati dove in realtà non ce ne sono. Io non avevo celebrato l’immagine di quei due, fratello e sorella. Li avevo presi in giro. Avevo approfittato della loro sofferenza. Avevo cercato di renderli parte di un messaggio di speranza per il discorso sullo stato dell’Unione. Essere neri vuol dire essere attori. Essere bianchi vuol dire essere critici.» «Qualcos’altro che vorresti dire alla cinepresa?» «Solo ciao. Ciao a me stesso in un futuro remoto, quando guarderò queste immagini

nel terrore e nel buio. Ciao a quell’America, qualunque cosa starà facendo o disfacendo. Spero proprio che tu sia finalmente entrato a far parte del tuo tempo, David. Sei sempre rimasto un po’ indietro, bloccato da sensibilità ormai obsolete.» «Ambizioni particolari nella vita?» «Uscirne vivo.» «Grazie» dissi. Spensi tutta l’apparecchiatura, cinepresa e registratore, poi restammo a chiacchierare per un po’ di argomenti che non interessavano a nessuno dei due. Quando Austin se ne andò, presi un foglio di carta bianca, lo appallottolai e cominciai a tirare a canestro nel cestino. Fingevo di essere Oscar Robertson contro Jerry West. Un’ora dopo, infilai un lungo tiro a gancio di sinistro e me ne andai a letto. Era l’ottavo anniversario della morte di mia madre. Mi comprai un cappello, il primo dai tempi dell’infanzia: un berretto grigio che indossai con magica fiducia di bambino nell’infinità degli oggetti quotidiani. Ogni tanto, durante il viaggio da New York al Maine, avevo portato un berretto militare di Pike, ma poi lui se l’era ripreso e l’aveva sepolto nella sua borsa da marinaio: proibito giocare alla guerra con il suo equipaggiamento personale. Mi riposai sul letto d’albergo, coprendomi gli occhi con il berretto. Dalle imposte malferme filtrava un mattino abbagliante. Fellini, maestro dei cappelli e dei nasi finti, lui sì che capiva l’essenza filosofica del travestimento. I miei ventotto anni nel cinema. Un’interpretazione così semplice della vita che bastava un cappello in testa a creare l’uomo. Era il cappello a indossare me. E’ arrivato Zampanò: il carrozzone e la strada, il corpo emaciato e androgino della ragazza mentre annunciava lo spettacolo dell’uomo più forte del mondo, che urlava in catene. E rumore dei miei denti che battevano nel buio del Bleecker Street Cinema, guardandoli ballare sullo sfondo del cielo, una collana di pezzi degli scacchi che si tenevano per mano nell’alba nordica. A occhi chiusi, aspirai l’odore di depressione industriale dalla fodera morbida del berretto, L. S. Stratford L.t.d., un po’ come Finney che cadeva dalle scale. Sbirciavo nel buio dagli spiragli. Burt Lancaster che si asciugava il torace (e noi lì viviamo, scavando nei pori della pelle). Bell che guardava il poster di Belmondo che guardava il poster del tenebroso Bogart. Il vecchio Watanabe sull’altalena, a cantare la propria infanzia invisibile. Cominciai a girare intorno al letto, e sentivo la mancanza delle camere stagnanti del West Side, graziosamente asessuate a modo loro, un tocco di fascino cadente che trapela da Needle Park, uomini pallidi e rastremati che vivono per i film degli anni trenta. Shane che cavalca verso le montagne immacolate. Uscii in Howley Road nella notte gelata di stelle. Nel camper c’era la luce accesa, e mentre mi avvicinavo, sentivo farsi strada dal mio stomaco la piacevole sensazione infantile di credermi un soldato in avanscoperta in territorio ostile, che procede nell’oscurità verso la postazione in cui il nemico, ignaro, siede tranquillo a fumare, a pochi secondi di distanza da una morte silenziosa per mano esperta.

«Oggi è il mio compleanno» disse Brand. «Stiamo pensando a come festeggiarlo.» «Quanti anni compi?» «Trenta.» «Due più di me. Come ci si sente ad avere trent’anni? Un mio amico mi ha raccontato che quando li ha compiuti gli sono successe tre cose: ha messo su un po’ di peso attorno ai fianchi. Ha smesso di leggere romanzi. E ha cominciato ad avere un sogno, sempre lo stesso per più di un anno: sognava di avere una tenia nella pancia, che cresceva sempre di più fino a diventare letteralmente più grande di lui. La tenia gli divorava gli organi vitali, si ingrossava mentre lui diventava sempre più debole e rachitico, finché, quando la tenia gli spuntò dalla bocca, divorandogli denti e gengive, pesava quasi novanta chili, quasi tutti rubati a lui, mentre lui era ridotto a quindici chili di ossa e pelle trasparente, e a quel punto cadeva per terra e vedeva le fauci enormi e bavose della tenia chiuderglisi intorno alla testa, e allora si risvegliava. Me l’ha raccontato Warren Beasley, quello della radio.» «In che senso ha smesso di leggere romanzi?» chiese Brand. «Così mi ha detto. Non so cosa intendesse di preciso.» «Sto togliendo tutto lo slang dal mio libro. Ne sto inventando uno nuovo.» «Sully, non è che per caso hai visto “Vivere”?» «Un attimo, Davy, si stava parlando di romanzi. Voglio eliminare tutto lo slang e sostituirlo con forme nuove, modalità nuove. Forse elimino addirittura il linguaggio. Forse è possibile scoprire modalità nuove. E’ da un po’ che ci sto pensando. Vorrei una tua opinione.» «Nel mio filmetto casalingo, questo che sto girando, non ho affatto sminuito il valore del linguaggio. Anzi, l’ho rafforzato. Ho ridotto il movimento semmai, quel genere di movimento che racconta una storia o crea un’armonia. Voglio vedere il linguaggio evolversi dalle forme statiche. Questo film è una sorta di sottospecie di underground. Al momento sto girando una piccola parte di riprese che finirà per comprendere argomenti più vari: funerali, ingorghi stradali, mobili, fatti realmente accaduti, donne, porte, finestre. Autonarrativa. Attori, persone che interpretano se stesse, versi di poesia. Quando avrò finito voglio mettere il tutto in freezer e proiettarlo fra trent’anni senza tagliarne neppure un secondo.» «Per allora avrò sessant’anni» disse Brand. «E io avrò chiuso» disse Pike. «Sully, mi chiedevo se saresti disposta a recitare nel film. Non ti porterà via molto tempo. Possiamo fare tutto domani. Una scena molto breve. Mi rendo conto che ultimamente non ho passato molto tempo con voi, ma è solo perché sono stato molto occupato. Vi sono grato per non esservi mai lamentati di tutti i giorni che abbiamo passato qui. Ti va di farlo? Solo una scena brevissima. Dimmi qualcosa, signora triste delle pianure.» «Ma certo, David. Per te qualsiasi cosa.» Brand decise che voleva sfidarmi a braccio di ferro. Ci mettemmo in posizione,

scambiandoci sguardi d’acciaio. Non sapevo se facesse sul serio o meno. Cominciò a fare forza e io chinai la testa per concentrarmi, cercando di tenere i gomiti ben piantati sul tavolo. Ci sforzammo entrambi per diversi minuti: ciascuno dei due cedeva e resisteva ma sempre di poco. Avevo l’avambraccio teso, sentivo fremere i muscoli. Misi tutta la forza che avevo in un’ultima offensiva finale, con le vene del polso gonfie, e lo sentii cedere un poco, perdere la presa con il gomito; poi di colpo lui si irrigidì nuovamente e ci ritrovammo un’altra volta in stallo, e Sullivan si avvicinò piazzandoci davanti agli occhi una stranissima bambolina di legno dipinto e filo di ferro. «Il tuo regalo di compleanno» disse. «Te l’ho fatto con le mie mani oggi pomeriggio. E’ un idolo indiano. Una piccola divinità ermafrodita, maligna e minacciosa.» «Mi fa paura, sai» disse Brand. Nella luce tersa del mattino l’erba era bagnata e i supporti d’acciaio delle altalene dietro il palco della banda cittadina sembravano di argento ossidato. Una scena dei miei dodici anni, i bambini e le loro slitte visti al rallentatore attraverso un velo di nebbia, facce tonde e accaldate che svanivano nella neve, l’amore sconfinato che nutrivo per i miei stivaloni e le loro fibbie arrugginite; l’inizio dell’inverno, nella purezza e nel vuoto, la creatura marina (il cervello) che pulsava dentro il vaso dei biscotti, l’arte e la scienza degli spalatori di neve, i battiti regolari della sedia a dondolo echeggianti per casa, le mani di lei avvinghiate ai braccioli, le nocche sbiancate, e io che mi chiedevo quale fosse il meccanismo, se il sangue fosse condannato per l’eternità a restare imprigionato nelle vene delle mani o riuscisse anche a risalire le braccia in attesa che la mano diventasse insensibile, che cominciasse a penzolare nell’oscurità mentre la neve cadeva silenziosa. Ma in quel momento non c’era neppure un fiocco di neve e avrei dovuto girare alla luce del giorno. Sullivan era dietro una delle altalene, niente domande e nessuna spiegazione offerta, una donna, una figura nel paesaggio nonostante l’assenza di neve e di malattie a devastarle le cellule, un attore, comunque una donna che prendeva parte della sua forza generatrice dalla cinepresa, smorzando, per fortuna, quello che era un momento per me troppo grande. Gli uccelli si posavano sui camini delle abitazioni, storni o scriccioli, ma per quanto ne sapevo io potevano anche essere neopterodattili, per quanto ne sapevo potevamo trovarci nell’Iowa, ad Alexandria, a Kamakura; dal mirino della cinepresa vidi passare alle spalle di Sullivan un camion con il telone blu e la parola SMITH scritta in bianco sulla fiancata. Ormai sempre più vicini all’Iowa, pensiero di non poco conforto. Le otto in punto del mattino. Il palco della banda, un emisfero rovesciato. Alberi ed erba bagnata. La sabbia nella vasca per i giochi dei bambini compattata dalla pioggia della notte precedente. Un solco lasciato da una gamba distesa. L’impronta di quattro dita. Il cerchio perfetto del secchiello. Regolai il filtro di attenuazione, e Sullivan si sedette sull’altalena, un cigolio nautico che attraversava le catene, appena sfiorate dai polpastrelli. Sullivan cominciò a dondolarsi verso di me, negli occhi non aveva niente.

«Mi immagino in una grande casa di pietra sulla costa dell’Oregon» disse Brand. «Ho sessant’anni esatti. La casa l’ho costruita io, pietra su pietra. Mi immagino come uno di quegli scrittori vecchi e unici nel loro genere che sono ancora rispettati dopo tanti anni per lo stile e le idee coraggiose. File di giovani discepoli vengono da me in pellegrinaggio. Arrivano in autostop, zaino in spalla e copie dei miei libri in mano. Nella zona non ci sono strade. Tipo Big Sur, per capirci, ma molto più isolata e lontana dalla civiltà. La mia casa e proprio a picco sul mare, e dalla finestra si vedono le foche che si crogiolano sugli scogli e grandi uccelli marini che sfiorano le onde, a volte perfino uno squalo, la pinna luccicante di uno squalo gigantesco e bellissimo. Lo squalo è il mio simbolo. In fondo a tutti i miei libri c’è il disegno di uno squalo, proprio come il levriero sui volumi della Alfred A. Knopf. La risacca si infrange sulla spiaggia rocciosa. Il vento si alza dall’acqua e soffia sulla casa per proseguire sibilando attraverso la foresta alle spalle. Mi vedo magro e segnato in volto. I giovani discepoli arrivano da ogni angolo del mondo. A volte in gruppo, giovani francesi accompagnati dalle fidanzate che mi portano i saluti di grandi scrittori e filosofi di Francia, tutta gente con cui ho tenuto simposi e firmato petizioni, intellettuali francesi anziani e celebri che non hanno ancora rinunciato alle proprie idee rivoluzionarie ed esercitano tuttora una profonda influenza sulla politica estera del loro paese. Questi discepoli di solito si fermano più o meno una settimana. Conversiamo con calma e andiamo a passeggiare sulla spiaggia. Mi chiedono della mia vita e del mio pensiero. Ogni tanto arriva qualche vagabonda solitaria, una discepola giovanissima partita tutta sola dalla Svezia con grande dispendio di fatica e denaro. Una ragazza giovane, bionda e adorabile. L’esperimento svedese non ha funzionato, mi dice. Poi andiamo a letto insieme. Ascoltiamo il vento e i gabbiani. La stanza è completamente vuota, solo le quattro mura e il letto. Dopo, lei mi dice che dimostro la metà dei miei anni. Parliamo di rado. Lei mi cucina piatti svedesi molto semplici. Passeggiamo sulla spiaggia. Io le leggo il primo capitolo del libro a cui sto lavorando e lei mi dice che sono le pagine più belle e sincere che abbia mai scritto. Poi mi chiede di mia moglie. Anni prima ero sposato con una bellissima vietnamita, che è poi morta di una rara malattia polmonare. Ma alla giovane svedese non dico niente di tutto questo. Mi limito a prenderla per mano e ad accompagnarla verso il letto. Due settimane più tardi, le dico che deve andarsene. Che per poter lavorare ho bisogno della tensione della solitudine. Lei capisce. Ritorno al lavoro. Tutto scabro e pulito. La risacca si infrange sugli scogli. Un mese dopo, un’australiana alta e bellissima con i capelli color tiziano risale il sentiero scosceso che porta a casa mia. Ha lo zaino in spalla, e in mano stringe il mio unico libro di poesie.» Nel pomeriggio andai in biblioteca. Poi tornai a piedi in Howley Road, quasi senza notare la giornata calma e luminosa, gli alberi assorti in un’ansia cedevole e tranquilla che profumava di terre più alte. Di colpo mi trovai a rimpiangere il silenzio delle pianure, delle zone al livello del mare, e pensai che se mi fossi trovato in montagna avrei visto sparire come niente tutti i miei progetti, soffiati via dal vento. Nella follia spietata

della natura sopra il limite dei boschi, non serve altra determinazione se non quella di un fiume che cambia colore mentre scorre lungo il continente verso la propria promessa e il proprio passato. Pike era solo nel camper, a latrare piano nel sonno, e il bar dall’altra parte della strada era deserto. Passai sedici ore filate a dipingere di bianco le pareti verdastre della camera d’albergo, e poi, con un pennello sottile, a trascrivere in nero sul fondo bianco le duemila parole di cui era costituita la parte successiva del copione. Terminai la mattina presto. Me ne tornai al camper, dove passai quasi tutta la giornata a dormire o a guardare Sullivan e Brand che giocavano a scacchi. In serata tornai all’albergo. Glenn Yost salì in camera e diede un’occhiata alle pareti. Gli spiegai che mi erano costate due mance non da poco, più l’impegno di pagare la ritinteggiatura non appena avessi lasciato la stanza. L’occhio folle di Glenn era in piena frenesia. Gli dissi che durante le riprese doveva rimanere fermo accanto alla poltrona e leggere parole e frasi nell’ordine in cui comparivano sulle pareti. Si sarebbe trovato inquadrato a intermittenza; ogni tanto avrei fatto la panoramica sulle pareti, a volte seguendo il passaggio che lui leggeva, a volte andandogli incontro, cinepresa e attore che leggevano in direzioni opposte. Certe volte avrei anticipato il testo, o ripreso passaggi che lui aveva già recitato. Avevo previsto una pausa per tagliare, ricaricare la pellicola e continuare. Gli diedi il tempo di leggere tutto una volta, mostrandogli come riprendevano i passaggi dopo le interruzioni di porte o finestre. L’occhio sinistro gli sobbalzava. Gli dissi di stare tranquillo, che in fondo niente era così importante. «In tutta franchezza, sono esterrefatto.» «L’occhio ti sta andando a tutto gas» gli dissi. «Non so, ma credo che in questo momento preferirei essere a casa a riparare la zanzariera.» «Fellini dice che l’occhio destro serve a vedere la realtà, e il sinistro la fantasia. Quando vuoi, Glenn.» «Be’, al diavolo, cominciamo.» Mi curvai sul treppiede e gli diedi il via con la mano. «Quell’anno abbiamo avuto poca fortuna. Eravamo circa in diecimila. Gli altri erano indigeni. Eravamo dispersi lungo tutta la parte meridionale della penisola, pronti ad arrenderci a chiunque passasse di lì, in tutto circa settantamila fra americani e filippini, e i giapponesi dovevano cacciarci via in modo che le loro truppe potessero farsi largo per approntare il grande assalto a Corregidor. E noi gli stavamo fra i piedi, sensazione decisamente nuova per chi, come me, era abituato a considerarsi un buon tiratore nonché soldato dell’unica nazione veramente invincibile della terra. Per prima cosa ci ordinarono di radunarci in un. posto che si chiamava Balanga. Dovevamo raggiungerlo per conto nostro partendo da qualsiasi compagnia, plotone o postazione di comando nei dintorni che fosse stata massacrata o si fosse arresa per fame o noia o malattia. Nove del nostro gruppo si incamminarono verso Balanga in una zona di guerra che era già stata

sgombrata. Era solo a venti o venticinque chilometri dalla nostra postazione. Non ci avevano dato da mangiare, ma non era una novità. Ormai avevamo adottato la procedura di massimo stress, per cui seguivamo l’esempio della truppa indigena e mangiavamo cani, scimmie e lucertole. Una volta ho visto un soldato filippino mangiare carne di pitone. Io non ho mai mangiato un pitone, e dopo averla assaggiata una volta, non ho più toccato la carne di scimmia. Le lucertole si riescono anche a mandare giù, ma con le scimmie sembra di ingoiare una creatura risalita dalle profondità dell’inferno a forza di salti, dondolandosi su una liana, e inoltre non ero disposto a seguire la procedura di stress fino a quel punto. L’altro problema era la malaria, se l’erano presa tutti. Ma non era poi questa gran tragedia. Trovavamo nei campi delle canne da zucchero e ci nutrivamo con quelle, e bevevamo dai fiumi. Con noi c’era un colonnello che aveva un lasciapassare rilasciatogli da un muso giallo al momento della nostra resa. Quando incrociavamo qualcuno per strada, lui mostrava il lasciapassare e non c’erano grandi problemi. Ci perquisivano, portandoci via anelli e orologi e tutto quanto trovavano, come per esempio il mio Zippo, di cui ho cominciato a sentire la mancanza vent’anni dopo perché sarebbe andato benissimo per la campagna pubblicitaria che la Zippo stava organizzando, annunci a pagina intera in bianco e nero con testimonianze autentiche dei proprietari. QUESTO ZIPPO E’ SOPRAVVISSUTO ALLA MARCIA DELLA MORTE DI BATAAN. Quella notte raggiungemmo Balanga. Eravamo riusciti a coprire la distanza in un giorno senza il minimo sforzo. Poi ci giunse la notizia che il nemico aveva fucilato più o meno quattrocento militari indigeni fra ufficiali e sottufficiali. I filippini erano in marcia verso Balanga proprio come noi, quando si erano visti fermare da dei musi gialli di un plotone di rappresaglia. Avevano lasciato andare tutti tranne ufficiali e sottufficiali. Li avevano disposti per file e li avevano legati ai polsi con i cavi telefonici. Poi avevano estratto sciabole e baionette e li avevano massacrati. Ci dissero che li avevano quasi tutti decapitati. Non avevano usato armi da fuoco, e gli ci erano volute un paio d’ore per ammazzarli tutti e quattrocento. Chissà che spettacolo. Pare che i musi gialli volessero vendicarsi di un torto fatto dagli indigeni, ma nessuno sapeva quale esattamente. Se devo dirti la verità, mi sa che non gliene fregava niente a nessuno. Nella situazione in cui eravamo, e cioè di noia e caldo assoluti, completi e totali, in cui ci chiedevamo solo quale dei tanti insetti striscianti e crostosi della zona ci sarebbe toccato mangiare per cena, la decapitazione di quattrocento filippini era per noi solo un’occasione di chiacchiera da camerata, qualcosa di cui discutere per un po’, con vago timore e quasi con ammirazione per i musi gialli, che perlomeno conservavano il senso del grandioso, cosa per cui essere grati, perché ci distraeva dai nostri guai. Balanga fu indimenticabile. Migliaia di uomini che si riversavano nella città. Alcuni di noi venivano smistati nei campi da pascolo, altri in piccoli recinti di filo spinato. Eravamo stipati tutti insieme, impossibile sedersi, e il paese intero puzzava di feci. Il paese intero. Ci dissero di farla in un fossato, ma era pieno di cadaveri, e l’odore dei morti e dei moribondi bastava a tenerci lontani. I soldati con la dissenteria non riuscivano a controllarsi, per cui erano costretti a defecare dove si trovavano. Altri si limitavano a cadere per terra e

morire. Per tutto il tempo che rimasi a Balanga, in mezzo ai campi e poi dopo, mentre seppellivo i morti, cercavo di pensare a mia moglie e alle mie due bambine piccole, il luogo della normalità, una casa, un letto, i seni di mia moglie, la bocca, le belle mani, ma il ricordo continuava a sfuggirmi e io ero troppo insensibile o svuotato di emozioni per preoccuparmi di rincorrerlo, l’idea di vederla nuda in un stanza buia, e in quel momento vidi l’uomo per terra accanto a me, che all’inizio credevo morto, farsi una sega, steso sulla schiena, pomparselo con una frenesia che sembrava quasi tranquilla. I musi gialli ci diedero una copia ciascuno delle clausole sulle violazioni dei diritti umani degli Accordi di Città del Capo. Poi ci diedero da mangiare del riso e ci spedirono verso nord. Stavolta ci accompagnavano delle guardie. Eravamo in marcia verso un paese chiamato Orani. Per strada vedemmo un sacco di cadaveri. Alcuni civili indigeni ci diedero da mangiare e bevevamo acqua inquinata dai fiumi o dalle pozzanghere. C’era l’ordine di non rompere le righe, ma lo facevamo ugualmente. Avevamo a tutti i costi bisogno di acqua. Valeva la pena di correre il rischio, non c’era altro da dire. Un sacco di uomini finirono ammazzati a colpi di fucile o di baionetta mentre bevevano. Una delle guardie cantava. Ci camminava a fianco sotto il sole cocente, sorrideva e cantava una canzone. In quell’attimo un certo Ritchie, sergente di un’unità di sabotatori, uscì dai ranghi e aggredì la guardia alle spalle, gettandogli il fucile in un fosso. Poi si mise a cavalcioni della guardia e cominciò a lacerargli la gola. Non credo lo facesse per un desiderio particolare di uccidere quanto per aprirlo e ispezionarlo per bene all’interno. Poi arrivarono di corsa altri due musi gialli e spararono nella schiena a Ritchie. Arrivammo a Orani, che puzzava ancora più di Balanga. Solo che appena fuori dal paese, a un paio di chilometri di distanza, vidi una cosa talmente strana che mi parve una visione, un’allucinazione provocata dalla fame e dalla malaria. Ai margini di un campo deserto, sotto una macchia d’alberi, c’era un’altalena, evidentemente un’altalena fatta in casa, una semplice asse di legno legata con due corde a un ramo d’albero. Seduto sull’altalena c’era un ufficiale, un muso giallo, e forse era colpa del riverbero del sole, o forse solo della distanza, ma sembrava vecchissimo, quasi antico, però allo stesso tempo ero certo che portasse l’uniforme da ufficiale giapponese. Ci stava fissando e intanto si dondolava molto lentamente sull’altalena, pochi centimetri in avanti e pochi centimetri indietro, con le gambette che non toccavano nemmeno terra, ci fissava e cantava. All’inizio non mi accorsi che cantava, ma in quel momento sentii la melodia giungere attraverso il campo, una canzone lenta e in apparenza molto triste. Forse era solo la mia immaginazione, forse solo il fatto che non conoscevo la lingua, ma mi sembrava la stessa identica canzone che stava canticchiando la guardia prima che Ritchie gli saltasse alla gola. E il muso giallo se ne stava li tranquillo a dondolarsi un po’ avanti e un po’ indietro, cantando quella canzone bellissima e triste, e poi ci rivolse un cenno della mano come a benedirci, ma muovendola in cerchio. Strana benedizione. Se davvero era un miraggio, allora era per forza un miraggio collettivo, perché nel procedere lungo la strada tutti si voltarono a guardare. Ma nessuno disse una parola. Ci limitammo a guardarlo e ad ascoltarlo cantare. Un po’ più avanti oltrepassammo uno dei centri di

sobillazione messi in piedi dalla Tech II e dal reparto Guerra psicologica prima che il nemico ne eliminasse anche solo l’idea. Rimanemmo fermi a Orani più o meno un giorno. Poi ripartimmo verso un’altra città, dove ci stiparono in un magazzino. Eravamo a migliaia, uno addosso all’altro, a darci gomitate e a impazzire. Nessuno riusciva a dormire. Io avrei dato qualsiasi cosa per un collutorio. Barili di collutorio verde e schiumoso per tutti. Eravamo imprigionati tutti insieme e la puzza era più spaventosa che mai, perché stavamo al chiuso. Da quel magazzino ci portarono a una stazione ferroviaria dove c’erano dei treni ad aspettarci. Alcuni ricevettero da mangiare, altri no. Eravamo tutti ansiosi di salire sul treno, perché in qualche recesso ancora funzionante del cervello ripensavamo a dio sa quale periodo dell’infanzia trascorso sui treni, magari il Twin Cities Zephyr per chi era nato nel Midwest, o il San Francisco Chief o l’Afternoon Hiawatha. Ricordi vaghi di traversate per le grandi pianure su un treno della Union Pacific, quando intorno tutto sembra sconfinato e selvaggio e misterioso, perché hai dieci anni e l’America sembra vasta come il mondo intero e due volte invincibile. Non vedevamo l’ora di salire su quei treni, ma ormai avremmo già dovuto saperlo. Ci infilarono dentro vagoni merci. In qualunque posizione uno si ritrovasse appena spinto nel vagone, in quella rimaneva per tutto il viaggio. Niente finestre e le porte erano sbarrate. Eravamo tornati dentro un magazzino, stavolta su ruote. Pochi minuti dopo la partenza del treno, qualcuno cominciò a muggire. E diede il via a tutti gli altri. Entro breve tutti muggivamo e grufolavamo, facevamo versi da pecore, vacche, cavalli, maiali. Quelli della Guerra psicologica non ci avevano mai detto nulla di una reazione ambientale del genere. Nessuno rideva. Non stavamo scherzando. Non era mica una celebrazione comica dell’indomabile spirito umano. Non era una protesta contro un trattamento disumano. Eravamo diventati bestiame e lo sapevamo. Ci sentivamo trasformati in bestiame, per cui gridavamo muuu e beee con serietà assoluta e odio schiacciante per noi stessi. Eravamo bestiame. Come negarlo? Cos’altro potevamo essere, rinchiusi a quel modo in un vagone merci e con i piedi in pozzanghere della nostra stessa merda liquida e schifosa? Non li odiavamo, i musi gialli. Non ci avevano messo loro in quella situazione. Eravamo stati noi, o erano stati i nostri generali, o il nostro paese che osannava il sacrificio dei suoi figli e usava la loro morte per fabbricare slogan o vendere obbligazioni di guerra o magari saponette, per quanto ne sapevamo. Il viaggio sembrò durare anni. Come se avessimo attraversato tutta l’Asia. Una volta scesi dal treno, ci accompagnarono al campo prigionieri di guerra, dove ci fecero passare per uno dei nostri simulatori incrementali. La marcia era finita e io cercai di ritrovare con il pensiero quei suoi seni piccoli e bianchi e le mie due bambine, talmente belle e morbide che mi sentivo sciogliere le dita quando le toccavo. E il terzo figlio in arrivo. Ma non potevo tornare. La West End Avenue. A quanto pareva, tutti quelli che ci abitavano stavano prendendo lezioni di musica. Harkavy, gentiluomo di campagna, con il suo Jack Daniel’s con ghiaccio e il suo pigiama a stelle e strisce. E mia madre (come si chiamava) che spolverava la vecchia casa come la vedova di un faraone che passa ogni giovedì a

lustrare il sarcofago. Alexandria. Il nostro matrimonio in giardino. Era tutto in un punto oscuro della mente e dovevi tornarci, perché fu a Balanga che ci costrinsero a seppellire i morti. Fu a Balanga che ci costrinsero a seppellire i morti. Fu a Balanga che ci costrinsero a seppellire i morti, e ricordo che stavo buttando palate di terra sul cadavere di un filippino, quando all’improvviso lo vidi muoversi. Povero soldatino filippino con la faccia color sangue. Mentre cercava di rialzarsi dalla fossa. Intorno a lui c’erano decine di altri soldati già coperti di vermi, talmente sommersi che il suolo sembrava strisciare, la terra intera, corpi putrefatti ovunque e l’intera trincea sul punto di scoppiare. Mentre si sollevava sul gomito. Gettai la pala e mi allungai in avanti oltre il bordo della trincea, in mezzo ai milioni di orribili creature che brulicavano in bocca ai cadaveri dei miei amici e ai cadaveri dei loro amici e a quelli degli amici dei loro amici e a quelli dei duri-piccoli, scuri-piccoli militari indigeni. Mentre il ragazzo allungava la mano verso di me. Mi spinsi ancora più avanti e in quel momento mi sentii qualcosa nelle costole. Era una guardia che mi pungolava con la baionetta, indifferente, distratto, condiscendente, quasi aristocratico, sembrava uno stronzo di ufficiale dell’Undicesimo Dragoni di Sua Maestà che dava un colpetto di frustino al piccolo stalliere indiano. Mentre il soldato cercava di rialzarsi. Lo indicai alla guardia, e la guardia mi rispose a sua volta a gesti. Puntò la baionetta verso la pala che avevo lasciato a terra, e poi verso il ragazzo nella trincea. Era a dir poco un capolavoro di understatement. Mi stava ordinando di seppellirlo lo stesso.» «Perché ti sei fermato?» chiesi. «Non c’è altro» rispose Glenn. Dopo che se ne fu andato, cercai il numero di Owney Pine sull’elenco. Lui si disse disponibile a provare tutto almeno una volta, e prendemmo appuntamento per il giorno successivo. Se fossi in grado di elencare tutti i ricordi sospesi che si ripresentano con tanta insistenza alla mia porta, mentre siedo circondato dagli svaghi di una delle tante sere dedicate all’introspezione (modellini di navi, libri, ciò che rimane della bottiglia di brandy), allora compilerei la mia lista non in termini di ricordi belli o brutti, infantili o adulti, innocenti o malvagi, ma piuttosto sulla base di due categorie molto ampie e semplici. Collaborativi e non collaborativi. Certi ricordi sembrano più che felici di rimanere unità singole: vanno ad allinearsi perfettamente nello spazio loro riservato senza sottendere alcun continuum. Altri, quelli non collaborativi, scalpitano per evadere, per mimetizzarsi, per dissolversi in immagini sgradite. Quando comando alla neve di scendere ancora sulle strade di Old Holly con le mani di mio padre che si stringono attorno alla pala, non ho mai la sicurezza di ritrovare il momento esatto che cerco. Un secondo di anticipo e rivedo mia madre sulla sedia a dondolo; un secondo di ritardo e il ricordo si frammenta, e una parte si perde nella fantasia: mi ritrovo con un coltello spuntato stretto fra i denti ad avanzare come un segugio, a strisciare sul ventre in mezzo alla giungla, diretto a casa del dottor Weber. Noi siamo quello che ricordiamo. Il passato

è qui, dentro questo orologio nero, più ingannevole della notte o della nebbia, ed è lui a decidere come vediamo e cosa tocchiamo in questo istante insostituibile nel tempo. «Da quanto esercita la professione medica, dottore?» «Vediamo, ventiquattro anni direi. Quadra con le sue cifre?» «Non ha importanza» ribattei. «Dove ha fatto l’internato?» «La prima volta al reparto di Occhio-Orecchio-Naso-Gola di Brooklyn. Poi al Senile di Pelham, all’Obitorio di New York, al Discount Ebraico e al Beata Veronica Levatrice. Seguito da un breve intermezzo sulla costa al Neurolandia di Pasadena e poi al Parto Veloce Roy Rogers. Le spiace se fumo?» «Per niente, dottore. E dopo l’internato?» «Ho aperto uno studio a Westchester. Mi volevano tutti bene, laggiù. Può chiedere a uno qualsiasi degli abitanti. Ero adorato da tutti i miei parrocchiani. Cioè, da tutti i miei pazienti.» «Parliamo un po’ della malattia che al giorno d’oggi ossessiona il mondo intero.» «Il Grande C. Sarà un piacere.» «Vuole spiegare alla cinepresa le modalità in cui può manifestarsi?» «Attenti ai gonfiori di qualsiasi specie. Attenti alle perdite irregolari di sangue da un orifizio qualsiasi del corpo. Attenti alle verruche o ai nei se cambiano colore. Attenti alla tosse persistente, ai dolori alle ossa, alla cattiva digestione, alla perdita inspiegabile di peso. Attenti alla diarrea. Attenti alla stitichezza. Attenti a quel senso di fatica che prende ogni tanto. Attenti alla minzione dolorosa e in particolare attenti all’espettorazione di sangue o catarro. Attenti alle ferite sulle labbra. Attenti ai dolori alla bassa schiena. Attenti ai gonfiori. Se di punto in bianco comincia a disgustarvi la carne, siete nei guai. Attenti al sangue nelle feci, alla ritenzione urinaria, ai groppi in gola, al muco striato di sangue, agli spurghi improvvisi da un capezzolo, ai gonfiori sotto le ascelle. Attenti ai porri, alle stomatiti, ai polipi, alle voglie che si ingrandiscono. Ne siamo affetti tutti, in una certa misura. Oh sì. Cellule che si espandono, che impazziscono. Cellule bandite. Oh sì. Massaggiate la prostata. Centrifugate ad altissima velocità le urine del povero disgraziato. Bombardate il malcapitato con onde sonore, ottocentomila cicli al secondo. Le onde sonore uccidono le cellule bandite e fanno impazzire il malcapitato. Oh sì, oh sì. Ma per grazia di Esculapio, dio della medicina, noi al Grande C faremo il culo quadro, e renderemo l’America un luogo sicuro per i bambini e per tutte le creature in crescita. Tramite irradiazione e/o intervento chirurgico. Taglia e brucia, taglia e brucia. Mi tiri quel pacchetto di sigarette.» «Le è mai capitato che i suoi pazienti sputassero sulla terra su cui camminava?» «Lei scherza. I miei pazienti mi adoravano. Quando uscivo per il mio giro di visite nelle mattinate di primavera e li incrociavo per strada, li salutavo con un cenno del capo e loro rispondevano con un cenno del capo. E più di una volta erano loro a rivolgermi per primi un cenno del capo.»

«La cervice, dottore.» «Il collo dell’utero. Raschiare la superficie vaginale per ricavarne fluidi. Oppure estrarli con un catetere. Praticare un paptest, uno dei miei preferiti. Lasciar seccare il fluido su un vetrino. Colorarlo. Passare il tutto a un patologo. Recitare la preghiera del medico generico. Donami forza e tempo libero e zelo così che io possa ampliare le mie conoscenze. La nostra fatica è grande e la mente umana si spinge a progredire all’infinito. Tu mi hai prescelto nella Tua infinita grazia per vegliare sulla vita e la morte delle Tue creature. E io sto per adempiere ai miei incarichi. Guidami in questa fatica immensa, sì che ne benefici l’umanità intera, perché senza il Tuo ausilio nulla può giungere a compimento. Mi piace molto quella parte sul tempo libero.» «L’esame interno, dottore.» «Sonda e indaga. Cerca e troverai. Scandaglia. Odori possenti di terra e mare che fuoriescono. Maree che cambiano. Sandalo e spezie. Tempo di raccolto nelle Fiandre. Mi piace giocherellare un po’, solo un po’. Serve a rilassarle.» «La morte, dottore.» «Mai dire morto, dico io. Pompare glicerina nel sistema circolatorio. Infilare il corpo in un sacco di plastica e metterlo sotto ghiaccio. Infilarci capsule di azoto liquido. Raffreddare a meno duecento gradi. E il giorno che saremo riusciti a trovare il modo di scongelarli, quegli stronzi, ci sarà una grande risurrezione di massa da costa a costa.» «E’ scaduto il tempo a nostra disposizione» dissi. «Sono centocinquanta dollari.» Qualsiasi descrizione della via principale di Fort Curtis può iniziare ed esaurirsi nei confini di questa stessa frase. Aggiungere altro produrrebbe solo ridondanza. Le stesse sei parole che identificano l’oggetto da descrivere, bastano a descriverlo. La via principale di Fort Curtis. Su quella strada mi ritrovai a camminare insieme ai miei attori girovaghi, Austin Wakely e Carol Deming, ciascuno di noi in balia di quelle correnti amorose incrociate che passano fra compagni di imprese segrete, creatori, interpreti, artigiani, cartografi, tessitori della velocità della luce. La gente ci passava accanto per strada, remota, ignara del nostro impegno, un discreto numero di persone in quella serata tiepida, tutte dirette al cinema o a comprare articoli di stagione: vernice, zanzariere, scarpe estive. La brezza portava odore di commerci, di cuoio e gas di scarico, un odore a suo modo gradevole, la foglia di fico dell’infanzia. Quella via era un luogo totalmente americano, monumento alla nostalgia collettiva: leggevamo ad alta voce le insegne dei negozi e guardavamo i fotogrammi patinati nelle bacheche fuori dai cinema. Nessuno ci conosceva e noi non ci conoscevamo. Austin e Carol rimasero affascinati dai muri della camera d’albergo. Appesi un lenzuolo nel punto in cui loro avrebbero dovuto sedersi, per coprire le frasi del copione. In pochi minuti, eravamo pronti. Austin, nei suoi ridicoli boxer, era su una sedia di fronte al lenzuolo appeso. Carol indossava biancheria intima nera, tipo bikini. Sedeva a

fianco di Austin su una sedia identica. La cosa si stava facendo complessa, non mi limitavo più a trafficare con il passato per cambiarne un po’ il colore: cominciavo a mescolare i vari passati finendo per ritrovarmi, almeno in parte, con un film nel film. Di una complessità tremenda. Ma gli attori non facevano domande. La biancheria intima è umoristica e solo la mente antidemocratica mette in dubbio l’umorismo. Ragazzo. Parliamo un po’ del prossimo futuro. Ragazza. Comincia tu. Ragazzo. Secondo me dovremmo sposarci. Possiamo andare insieme sulla Costa per il mio ultimo anno di college. Ci divertiremo un sacco. Si possono fare tutti gli sport acquatici. Ragazza. Mi piacerebbe proprio imparare lo sci d’acqua. Ma il matrimonio è un passo talmente importante. Ragazzo. Tu mi ami? Ragazza. Non so. Direi di sì. Credo di sì. Ragazzo. Mi porterò la macchina. Possiamo andare nel deserto. Magari potresti recitare nel mio film. Devo girare un film. Laggiù potremo fare tutto quello che ci salta in mente. Possiamo spogliarci e sentirci liberi. C’è di che stupirsi, se pensi quanta gente al mondo ha piena libertà di vestirsi come vuole e se desidera spogliarsi non ha l’obbligo di discuterne prima per ore. Ragazza. Questa è la mia biancheria preferita. Ragazzo. Anche questa, per me. Ragazza. Quanto si è liberi laggiù? Con quante ragazze hai già fatto queste cose? Ragazzo. Mica tengo la contabilità. Ragazza. Molto inglese e molto divertente. Ragazzo. L’esperienza è importante. Ragazza. L’esperienza è una di quelle cose che mi piacerebbe avere già senza dover fare la fatica di procurarmela. Ragazzo. Per come la vedo io, non c’è motivo per non sposarci. Ci piacciamo un sacco. Ciascuno rispetta il gusto nel vestire dell’altro. Ci piace fare quasi tutte le stesse cose. E tutti dicono che siamo una bella coppia. Ragazza. Non pensi che ci siano altre cose da prendere in considerazione? Ragazzo. Mica tengo la contabilità. Ragazza. Osservazione davvero spiritosa. Ragazzo. Una cosa te la prometto. Se ci sposiamo, è sicuro che avrai una parte nel mio film. In realtà dovremmo usare gli studenti come attori, ma sono sicuro che in questo caso faranno un’eccezione. Ci sarà perfino la colonna sonora. Ragazza. Potrò stare vestita così? Ragazzo. Potrai vestirti come ti pare. E potrai dire quello che ti pare. Ragazza. Sarà mitico. Sarà super. Sarà troppo. Quando Austin si fu rivestito gli chiesi di lasciarci e lui disse che avrebbe aspettato in macchina. Carol si infilò una mia camicia e lesse con calma la scena successiva.

Trafficai con il registratore cercando di non sbirciarla di nascosto. Ci tenevo che tutto restasse su un piano strettamente professionale, e avrei voluto dire una cosa qualsiasi, qualcosa di tecnico sul sonoro o sulle luci, ma non mi trovai sulla punta della lingua niente di particolarmente scientifico. Poi arrivò Brand, con puntualità sorprendente. Carol andò in bagno e Brand si spogliò restando solo in boxer, lunghi boxer bianchi decorati a svegliette verdi. Carol uscì con addosso una camicia da notte che le arrivava a metà coscia e si diresse verso il letto senza guardare né lui né me. Io e Brand le guardammo i seni ondeggiare morbidi e autorevoli, e ci scambiammo sguardi accuratamente preparati a indicare interesse poco più che moderato. Carol salì in piedi sul letto, con le mani sui fianchi, guardandosi intorno come per accertarsi che sul set fosse rimasto solo il personale essenziale, poi si rannicchiò sul cuscino abbracciandosi le gambe, un’entrata in scena di un umorismo assolutamente serio, con una parte del personaggio già calato nel ruolo che esigeva obbedienza dall’altra, la quale forse cominciava a odiare l’obiettivo. Brand andò a sedersi sull’altro cuscino. Gli dissi di togliersi gli occhiali. Poi prendemmo accordi sulle riprese. Per quanto Brand mi assicurasse di aver memorizzato alla perfezione le battute, insistetti per girare una scena improvvisata, in primo luogo perché non mi fidavo di lui, e in secondo luogo perché non mi piaceva affatto quella che avevo scritto. Dissi loro di conservarne lo spirito e di lasciar perdere i dettagli. Carol fissò il tatuaggio a inchiostro blu sul braccio di Brand, i due cani copulanti. Lui batté le palpebre diverse volte e si allungò a prendere gli occhiali, ma io glieli allontanai. Portai cinepresa e treppiede in fondo al letto. Uomo. C’era la luna rossa. Donna. Schenectady è famosa per la sua luna. Uomo. Ecco che ricominci. Guarda che è meglio se non sai niente. Non dovrei neanche dirtelo, ma finisci sempre per costringermi a parlare. Donna. Mi hai solo detto dove, nient’altro. Uomo. E’ sufficiente quello. E’ anche troppo. Certe volte non ti capisco. Sempre a fare domande. Non è meglio se non sai niente? Sei troppo interessata. Non ti fa bene tutto questo interesse. Donna. Sei il mio tesoro. Voglio sapere cosa combini nei tuoi viaggi di lavoro. Uomo. Non è giusto che tu voglia saperlo. C’è qualcosa che non va. Certe volte non ti capisco. Donna. Quello che affascina in quelli come te è il forte senso morale. La devozione all’idea del ‘un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto’. Gratta gratta, è questo che significa la moralità per un moralista. Significa ‘spara pure ad altezza d’uomo, ma non vicino a un ospedale perché disturbi i degenti’.» Uomo. Ma di che parli? Ma di che parla questa qua? Donna. Sto parlando della tua biancheria. Quei boxer li hai comprati a Schenectady? E’ stato prima o dopo che hai portato a termine il contratto? Non te li ho mai visti addosso prima. Sono straordinari. Trascendono i limiti dell’assurdo e si addentrano in qualche ambito privato della metafisica. Quelle svegliette segnano tutte le dieci meno un

quarto. Secondo te intendono di mattina o di sera? Non so perché, ma credo sia importante. Devi assolutamente darmi il nome del negozio, così li chiamo e chiedo a loro. Nel frattempo, voglio che tu mi dica in particolare se avevi quei boxer il giorno che hai portato a termine il contratto. Uomo. Torniamo al discorso di prima. Donna. Non te lo ricordi neanche, il discorso di prima. Adesso rispondimi. Avevi addosso quei boxer il giorno che hai adempiuto alle clausole scritte in calce? Uomo. Okay, va bene, avevo questi boxer. Donna. Adesso dimmi esattamente che ore erano quando l’hai ammazzato. Uomo. Lo sai benissimo che di queste cose non parlo. Ho già fatto male a dirti il posto. I dettagli creano solo guai. E’ la prima cosa che si impara in questo lavoro. I dettagli creano solo guai. Donna. Dimmi che ore erano. Che male può fare? Uomo. Era l’una e dieci. Donna. Ripeti. Uomo. Era circa l’una e dieci del mattino. Donna. L’avevo pensato. Lo sapevo. Uomo. Come facevi a saperlo? Donna. Ce l’hai scritto addosso. Ce l’hai letteralmente scritto addosso. Lo dicono quegli orologini sui boxer. Uomo. Segnano tutti le dieci meno un quarto. Donna. Esatto. Esattamente quello che intendevo. Devi bruciarli appena possibile. Possiamo andare a casa di Nell e bruciarli là. Uomo. Senti, se vuoi proprio sapere come l’ho fatto, te lo spiego. Donna. Non mi interessa. Uomo. Stavano uscendo quelli dell’ultimo spettacolo. La biglietteria era chiusa. L’ingresso era buio. Sono uscite solo una decina di persone. Io sono sceso dalla macchina e mi sono avvicinato a lui. Ho allungato la mano per stringergliela. Quando si vede un tipo allungare la mano come ho fatto io, la reazione naturale è tendergli la propria. Io lo conoscevo, mentre lui non conosceva affatto me. Era la prima volta che mi vedeva in vita sua. Eppure mi ha teso la mano lo stesso. E’ una reazione naturale. Chiunque l’avrebbe fatto. Eravamo li a stringerci la mano, e io l’ho chiamato per nome. Lui voleva mollare la presa, ma io gli tenevo la mano ben stretta. Poi ho infilato nella giacca la mano sinistra, sempre tenendolo ben stretto con la destra, ho estratto la 38 e gli ho sparato tre volte mirando al taschino della camicia. In cartellone c’era un film di guerra. Donna. Che rumore ha fatto? Uomo. Che differenza fa il rumore? Donna. Un botto? Un gemito? Uno schianto, un’eco, un sibilo, ha fatto bum? Uomo. E’ stato come i colpi di un cannoncino da 20 millimetri. Come spazzare una Z.A. con il tuo pezzo da 20. Ecco che ricomincio con lo slang. Ecco che torna.

Donna. E dopo come ti sei sentito? Uomo. Tu come ti saresti sentita? Era zona di ospedale. Donna. Hai infranto la regola principe. Uomo. Se è per quello gli ho infranto la testa, al principe. Era sulla sua bicicletta, il principe buddhista, e io l’ho doppiamente indennizzato. Donna. Di che orientamento politico era, tesoro? Uomo. Appena a sinistra di Dio. Donna. Per cui un repubblicano alla Taft. Uomo. Di quale Taft? Donna. Di quale Dio? Uomo. Quello che ha creato questi orologini verdi. Donna. E i bambini bianchi che li portano sui boxer. Uomo. Un po’ di rispetto per tuo marito. Donna. Tu non sei mio marito. Mio marito è nero. Nerissimo. Più nero del nero. La macchina di Austin si staccò dal marciapiede con una sgommata isterica. Sapevo che per un po’ non sarei riuscito a prendere sonno, per cui me ne tornai con Brand in Howley Road. Per parte del tragitto andammo di corsa, come due pugili per l’allenamento, scambiandoci destri e sinistri mentre correvamo a passo di danza, girando di trecentosessanta gradi senza interrompere il ritmo della corsa, monopolizzando la strada buia con i nostri grugniti. Poi rallentammo al passo. «Mi sorprende che abbiate deciso di rimanere» dissi. «Credevo che vi sareste stufati di questo posto. Non credevo che questa cosa mi prendesse tanto tempo.» «Nessuno ha deciso di rimanere» rispose lui. «Non ne abbiamo mai parlato. Non abbiamo mai parlato di niente, e per quanto ne so nessuno ha preso decisioni. Siamo rimasti e stop.» «Ma non siete stufi di restare qui?» «Non ho mai fatto mente locale. Tanto dove andremmo senza di te? Sei tu al comando di questa spedizione.» «Non credo che sia più così. E’ solo che non immaginavo mi prendesse tanto tempo.» «Nessuno ha parlato di andarsene» disse. «E il tuo libro?» «Non esiste nessun libro, Davy. Ci sono undici pagine, sette delle quali bianche. E sulle altre quattro non conto più di tanto.» «Credevo che per tutto il tempo che sei stato nel Maine tu avessi scritto. Quanto sei stato là?» «Quasi un anno» rispose lui. «E che hai fatto per un anno?» «Non lo so. Ti dirò che non ricordo molto. Per la maggior parte del tempo ero fuso. Mi sa che mi è saltato un fusibile, o qualcosa. Mi è morto il cervello. Non so come altro dirlo. Qualcosa mi è bruciato dentro e se n’è volato via. Morto.» «Sei rimasto in quel garage per un anno intero. Senza fare niente.»

«Be’, qualcosa facevo. Mi distruggevo il cervello.» «Va bene» dissi io. «Pike abbaia nel sonno. Non gliene frega niente di dove sta, purché abbia una bottiglia a portata di mano. Tu non hai in cantiere nessun romanzo e non hai fretta di tornare nel Maine, o da qualsiasi altra parte. Ma Sully?» «Dovrai chiederlo a lei. Ti ho già detto che in questa famiglia nessuno discute di niente. Siamo un gruppetto con la bocca cucita.» «Quanto ti dureranno i soldi?» «Negli ultimi dieci giorni la signora ha pagato i conti.» «Questo non lo sapevo» dissi. «Vorrei prestartene un po’ io, ma non è che sia messo tanto bene. Mi sa che a questo punto sono disoccupato.» «Infatti me lo stavo chiedendo. Se fossi in te farei quattro chiacchiere con la signora.» Riprendemmo a correre per un po’, bevendo l’aria fresca e poi soffiandola fuori, tirando pugni al vento. Poi ci ritrovammo tutti e quattro, seduti al tavolino nel camper, fra rumori sommessi di piedi e gomiti. «Infatti me lo stavo chiedendo» disse Sullivan. «Mi pareva di ricordare che avessi un lavoro da fare nel Sudovest la settimana scorsa, ma non ero sicura. Non hai detto niente.» «Ho avuto da fare.» «Era un buon lavoro, David.» «Guadagnavo ventiquattromilacinquecento l’anno. Senti, avrò bisogno di te un’ultima volta per la mia cosa.» «Ci sarò» rispose lei. «Davy mi ha portato via gli occhiali e mi ha rimboccato le coperte» disse Brand. «Non è stato divertente come credevo. Quella Carol comesichiama, Deming. Alla fine è diventata un po’ troppo strana per i miei gusti. Mi dici che senso ha questa storia, alla fine?» «Torna a giocare con la tua bambolina» risposi. Austin si vestì esattamente come per la prima sequenza. Io portavo un dolcevita giallo limone di nylon e calzoni a strisce orizzontali. «Allora la ragazza zoppa di Firenze esisteva davvero» disse. «Certo. Mi ha aiutato a togliere un po’ di tensione dall’incontro con la mia ex moglie. C’era nell’aria una possibile riconciliazione. Ma la ragazza zoppa mi ha provocato uno strano spostamento nei pensieri. E’ un po’ difficile da spiegare. In quel periodo i genitori della mia ex moglie vivevano in Germania. La zoppa era tedesca. Poi quel giorno, verso sera, mia moglie ha cominciato a zoppicare. Niente che avesse un significato particolare. Però mi confondeva parecchio le idee. Cercavo di mettere tutto insieme, solo che non quadrava. Bastava quello a sbilanciarmi. La zoppa era piuttosto bruttina, il che non giovava all’intera faccenda.»

«Mi spieghi certe cose, ma non altre. Per esempio, come mai devo rimettermi questa uniforme.» «Secondo te Fred Zinnemann le spiegava certe cose a Burt Lancaster?» «Al McCompex sono abituato a fare quello che mi dicono» ribatté. «Ma potresti anche essere un po’ meno scorbutico.» «Contro il muro, figlio di puttana.» Era la sua ultima scena. Lo inquadrai in piedi accanto alle parole scritte in nero sulla parete. Poi cominciai a parlare, improvvisando. «Siamo nell’anno 1999. Stai guardando un cinegiornale di molti anni prima. Un uomo in piedi in una stanza in America. Sei tu, David, più o meno. Cosa siete in grado di raccontarvi, voi due? Come farete a svuotare i decenni che vi separano? A volte è possibile sfiorare con la mano uno schermo di cinema e trovarsi appiccicato alle dita un microsecondo di luce, come, per esempio, l’immagine di un taxi che svolta un angolo, e te la ritrovi proprio lì sul pollice, all’incrocio fra la Quarantanovesima e Madison Avenue. Puoi parlare allo schermo, e forse lo schermo ti risponderà. Non ricordi quasi nulla dell’uomo che stai guardando. Chiedigli quello che vuoi. Lui conosce tutte le risposte. E’ per quello che non parla. Ha attraversato il tempo per rispondere alle tue domande. E’ immobile, ma si muove. Risponde in silenzio. Hai venti secondi per esporre le tue domande.» (Mantenni l’obiettivo fisso su Austin Wakely, immobile contro la parete, inespressivo, e contai mentalmente i secondi, da uno a venti.) «Siamo giunti alla fine del silenzio preregistrato.» Io e Austin ci dividemmo una bottiglietta di Coca calda. «Senti» gli dissi. «Puoi fare una cosa per me?» «Cosa?» «Trovami Drotty. Voglio qui Drotty per un’ora.» «Perché hanno deciso di ucciderlo?» «Ha commesso un piccolo errore di procedura. Ha sbagliato su un dettaglio secondario. I dettagli creano solo guai. Lo diceva sempre.» «Come è morto?» «Secondo te come muoiono quasi tutti gli uomini d’affari? Gli cede il cuore e crollano lunghi distesi sul tappeto. E a lui ha ceduto il cuore, con variazioni minime sul tema. Nessuno può dire che la sua morte sia stata insignificante.» «E adesso cosa farai?» «Mi trasferirò a Topeka, in Kansas.» «Perché proprio là?» «Ho sempre avuto voglia di andare a sedermi in una lavanderia a gettoni di Topeka, in Kansas. Credo sia questione di reminiscenze prenatali.» «Pensi di rimetterti in contatto con la tua famiglia?» «Preferisco lasciar sbollire i rancori. Ora come ora, qualsiasi contatto servirebbe solo a creare confusione.»

«Sei sicura che ti serbino ancora rancore?» «Tutti tranne mio fratello. Lui mai.» «Allora ti rimetterai in contatto con lui?» «No.» «Perché no?» «Ho paura di scoprire cosa gli è successo in questi anni.» «La cinepresa ti è grata per la disponibilità a farti riprendere in circostanze tanto penose.» Finora ho cercato di evitare grandi rivelazioni sul conto dei professionisti nel cast. Per me, Carol e Austin rappresentavano molte cose diverse. Non saprei dire esattamente quando mi accorsi delle loro capacità, ma so per certo che l’idea è nata, per un verso o per l’altro, dalle prime impressioni. Nel caso di Austin, l’età e l’aspetto fisico furono determinanti: che studiasse recitazione non aveva la minima importanza. Carol, al tempo stesso debordante e intollerabilmente introversa, aspirante attrice o meno, sembrava possedere un talento tutto suo, di velare ogni singolo attimo, spostarsi lungo gli scenari mentali come un mosaico di nuvole e raggi di sole: era un talento difficile, che sfuggiva a ogni analisi e frustrava l’osservatore finché non veniva colto dalla cinepresa, un talento meschino e addirittura nevrotico di nascondere cose che non valeva la pena nascondere, o forse fingere di nasconderle o magari fingere di rivelarle, o lanciare allusioni o maliziosi battiti di ciglia, in altre parole una rompiballe, cioè l’ideale. Se finora queste due persone sono sembrate difficili, o addirittura indecifrabili, soprattutto la ragazza, andrebbe chiarito che io per primo non avevo voglia di capirle troppo. Per me rappresentavano molte cose diverse, persone reali definite (e forse ampliate) dal mio passato personale, dalle mie fantasie, dalla ricerca dello specchio, dagli onori, dai momenti di vergogna e da tutte le persone che avevo amato o non ero riuscito ad amare. Conoscerli troppo bene sarebbe servito solo a ingarbugliare la questione, e anche la controquestione e la moglie e la sorella della questione. Per cui ho cercato di presentarli così come li conoscevo allora, o forse come non sono riuscito a conoscerli. Ora, a posteriori, e in breve, credo di poter sostenere che Carol era solo una ragazza smarrita che cercava di sfruttare al meglio l’invisibilità. Perfino i suoi capelli erano discutibilmente biondi. Forse vale la pena far presente che nell’attimo in cui e apparsa per la prima volta di fronte alla mia cinepresa ho smesso di far caso a tutti gli altri suoi possibili ruoli, le scorrevoli ambiguità che all’inizio mi erano parse tanto affascinanti e alla fine fastidiose la sera in cui mi aveva sepolto di chiacchiere al Buster’s Bar & Grill. La cinepresa le aveva divorate, quelle componenti, per poi risputarle. Carol era l’interprete migliore di tutto il cast, perché dotata dell’invisibilità più coerente. Con Austin Wakely mi era facile mantenere l’interesse al minimo. Non provavo la benché minima curiosità per lui, né prima né dopo averlo inserito nel cast. Aveva un bel mento forte e dentatura smagliante. Fosse anche nato con un neo rosso, bianco e blu

sulla schiena, un neo a forma di bandiera americana, avrei comunque messo la sua faccia davanti alla cinepresa. Carol sedeva sulla poltrona con gli occhi chiusi, esercitandosi a passare da un’atmosfera rarefatta all’altra. Si era appena esibita nell’interpretazione più disinvolta di tutte, eppure sembrava esausta. Andai alla finestra. Giù in strada, un uomo infilò una moneta in un parchimetro e sparì dietro l’angolo. Era quasi mezzogiorno e la strada era parecchio gremita. Il negozio di scarpe faceva i saldi. Una macchina si fermò al semaforo. «Mi sono appena reso conto di aver visto pochissimi neri da quando sono qui.» «In questa città perfino le bibbie sono bianche» disse lei. «Scommetto che in un posto come questo non si ha la minima idea di quello che succede nel resto dello stramaledetto paese.» «Lo vedono in t.v.. E’ come guardare la luna da un cannocchiale.» «Tutto continua a succedere, ma è noioso lo stesso.» Teneva sempre gli occhi chiusi. Per poco non mi avvicinai a lei. Ricordavo ancora quel giorno sulla panchina nel parco, il mio soprassalto di vanità quando ci eravamo sfiorati. Restammo immobili così per un pezzo, poltrona lei e davanzale io. Fra noi non poteva capitare nulla di buono, neanche per un momento, neanche per un secondo. Non sapevo come mai ne fossi tanto sicuro. Forse la vedevo troppo immersa in sé. A volte mi piaceva vedermi in quello stesso modo, e forse ero convinto che non ci fosse nulla da sottrarle in cambio di quello che occorreva cedere pur di penetrare il nucleo di una consapevolezza così centrata su di sé. Inoltre, non avevo idea di come mi giudicasse. Quindi non potevo immaginare quale forma avremmo assunto insieme. Per ultimo c’era il fatto che teneva gli occhi chiusi. «Hai l’aria stanca» dissi. «E’ colpa del clima, questo risveglio di vita e profumi. Per me è un tormento resistere a questo clima. Preferisco pianificarmi la vita seguendo il diagramma di una mia febbre mentale. A New York, con l’umidità, la temperatura saliva, e una volta, nel Montana, a quasi trenta gradi sotto zero, per poco non schizzava al massimo, e in quel momento ho creduto di morire per eccesso di vita. Però mi sa che in gran parte è pura autosuggestione. Riesco a convincermi di qualunque cosa. Il giorno della mia morte riuscirò a convincermi a tornare in un grembo materno nuovo, e poi ricomincerò da capo. E’ così che fanno in Tibet. Non verrebbero mai ammessi alla Princeton, ma traslocano da un grembo materno all’altro come ridere.» «Dal portale del grembo materno.» «Esatto» disse. «E al mondo ci sono grembi buoni e grembi cattivi.» «Non lo sapevo.» «E’ verissimo.» «Hai fame?» le domandai. «Io sì. Andiamo a prendere qualcosa da mangiare.» «Devo andare alle prove.»

«Proprio adesso?» «Purtroppo sì, David.» «Non abbiamo più avuto grandi occasioni per chiacchierare, dopo la sera della casetta in giardino.» «Più la gente parla con me e meno argomenti di conversazione trova. Spero che lo sfumare dell’esistenza non sia contagioso.» «Direi piuttosto che è pandemico. Mi piacerebbe proprio che aprissi gli occhi.» «C’è qualcosa da vedere?» «Forse no.» «Perfino le bibbie sono bianche» continuò. «Una volta andavamo sempre al molo di Gansevoort Street a guardare il tramonto. Le serate umide in quel quartiere desolato di New York, quando vivevo quasi oltre la vita. E quella volta che Roy mi ha detto: adesso ho capito come mai il New Jersey si trova dove si trova e non vicino all’Alabama dove dovrebbe trovarsi. Perché così ci può tramontare sopra il sole.» Drotty era vestito di seta nera e velluto a coste verde chiaro. Era uno stiletto d’uomo, con una punta seghettata di malumore in un angolino. Eppure fumava la sua sigaretta quasi con tenerezza, e ogni singolo gesto della mano sembrava orchestrato con calma e assoluta premeditazione. Non me l’aspettavo così giovane. Anzi, non mi aspettavo neppure che sarebbe venuto davvero. Con ciò, sembrava più che disponibile a partecipare a quella che doveva sembrargli una forma assolutamente casuale, se non addirittura barbara, di teatro. Il copione non era rilegato, la stanza non era isolata acusticamente, il regista aveva ben poco da dire, quel registratore era una vera e propria sciagura sociologica, il film era condannato. Ma Drotty non accennò a nulla di tutto questo; si limitò a fumare e girare silenzioso per la camera con quei suoi stivali neri, e da ogni passo sembrava trasparire una certa violenza bisbetica. La sua faccia, la sua piccola faccia, ce la metteva tutta per apparire inespressiva. «Immagino che Austin e Carol ti abbiano detto che hanno partecipato a questa cosa fin dall’inizio.» «Non mi dà fastidio che i miei allievi lavorino anche con altri, purché non interferisca con il lavoro in teatro.» «Spero non sia successo questo.» «Non è successo» rispose. «Mi sembrano molto affascinati dal tuo lavoro. Forse dovrei essere geloso.» «A me sembrano molto più coinvolti dal tuo, di lavoro. Non fanno che parlare di te.» «Cominciano ad annoiarsi. Prima o poi, le compagnie teatrali regionali annoiano chiunque. La gente viene solo per senso del dovere. Noi cerchiamo di scioccarli, ma ormai vivono in stato di choc da anni. La sai una cosa? Nel giro di cinque anni l’intero teatro americano, compreso quel che resta di Broadway, diventerà un’istituzione semireligiosa finanziata dal governo. Non molto diversa dal Parco Nazionale di Yellowstone. Con cartelli ovunque che dicono NON SPORCARE.»

«Belli, quegli stivali» dissi. «Me li ha regalati una professoressa di lingue romanze, la cui unica copia della sua settima opera teatrale inedita è finita bruciata nel caminetto di casa mia da un afroamericano che diceva di chiamarsi Abdul Murad Bey. Avevo un terrore folle di dirglielo, ma quando alla fine è arrivato il momento, lei mi è parsa quasi sollevata, e poche settimane dopo mi ha regalato questi stivali. Poco tempo fa ho sentito che questo Abdul Murad Bey è stato in parte responsabile del grande incendio di Philadelphia, un altro dramma mai rappresentato in pubblico.» Concluse l’aneddoto riportando in tensione i lineamenti e diventando ancora più inespressivo di prima. Non sapevo se dovevo ridere o meno, per cui mi limitai a soffiare un po’ di aria dal naso cercando di rendere il suono il più gioviale possibile. Mi resi conto che nessuno dei due aveva ancora chiamato l’altro per nome, o per cognome. Dimenticanza percepibile all’inizio e alla fine di ogni botta e risposta. Ovvio che non si trattava di una semplice dimenticanza. Discutemmo un po’ delle sue battute. Lui appoggiò la sigaretta in un portacenere, si diresse con calma alla poltrona e si sedette. Mi toccò spegnergli la sigaretta. Potevamo cominciare, a quel punto. «I film devono lasciare un residuo emotivo. L’unico vero criterio è quello ritentivo. Cosa prendo da un film che ho visto, e di quello che cosa mi rimane? Qualcosa di più della biancheria intima, spero. Secondo me, a questo punto, hai il dovere di ampliare la tua estetica. E mio compito è di aiutare i miei studenti a elaborare uno stile di vita cinematografico. Devo ammettere che provo un certo interesse marginale per il tuo film. Chiama in causa il bambino che è in me. Mi piace la stupidità. Mi piacciono le idee stupide. Sostanzialmente in molti grandi film l’idea di fondo è stupida, e l’eroe del grande schermo quasi sempre è un fesso. Brando, per esempio, ha interpretato ruoli da fesso uno dietro l’altro. E anche Belmondo, anche O’Toole, anche Toshiro Mifune. E’ tutta questione di livelli. La volgarità di Preminger è postuniversitaria, mentre la tua è ancora da matricola. Visto che questo sarà il nostro ultimo incontro, ritengo doverosa la più assoluta sincerità. Tu non mi piaci per niente. Non mi sei mai piaciuto. Hai mostrato scarso, per non dire nessun rispetto nei miei confronti. Più di una volta, in presenza delle mie studentesse, hai cercato di sminuirmi in quanto insegnante e in quanto persona. Hai preteso che rendessi conto a te dei miei rapporti personali con una nostra giovane amica comune. Tu agogni cattive notizie, sconfitte, punizioni. Al cinema, la sconfitta è sempre gloriosa. Il perdente viene sempre nobilitato dalla sofferenza e dalla morte. Non c’è cinepresa in grado di resistere all’uomo che sprofonda nel baratro della sconfitta. Lui accentra su di sé ogni meccanismo mentale e tutta l’attenzione dello spettatore. Forse ti consideri un eroe del grande schermo. Ho perso completamente il filo.» La moglie di Glenn Yost era una donna corpulenta e simpatica che probabilmente aveva cominciato a girare per casa in vestaglia già a tre anni. Era scherzosa e di compagnia, ovviamente benvoluta dai due Glenn, il tipo di donna che dà il meglio di sé

ai picnic quando ride e racconta barzellette, tira gioviali pacche sulle spalle agli uomini e pizzicotti ai bambini, sfida le altre signore a chi ha le tette più grandi, una specie di gigantesco fronte di alta pressione che attraversa le pianure. Non mi piaceva averla intorno. Presentai Sullivan alla famiglia, e poi Laura, la signora Yost, disse che ci avevano aspettato per il dessert, torta di pesche e gelato alla vaniglia, e così ci sedemmo tutti a mangiare e chiacchierare. Gli Yost non facevano che raccontare storielle divertenti uno sul conto dell’altro. Il loro affetto familiare aveva qualcosa di straordinario, qualcosa di risibile nel senso migliore della parola: ciascun membro della famiglia appariva leggendario agli altri, un capolavoro di “vis comica” fatto di equivoci, idee balzane e hobby disastrosi. Era quasi sempre Laura a raccontare, spostandosi continuamente dal soggiorno alla cucina in quella sua vestaglia gialla e passando a versarci il caffè fin sopra l’orlo delle tazzine. Io mi trovavo lì per portare a termine un lavoro irreale, per completare la parte peggiore della traversata, e tutto quel calore umano, con il suo eccesso di realtà, non mi aiutava affatto. Inoltre, alla mia cinepresa non interessava per niente la tradizione orale. Guardai Sullivan. Assorta, dimezzava le briciole di torta con l’unghia del pollice. «Possiamo cominciare, Glenn?» «La dispensa è di là» rispose. «Che ne dite se io, Bud e Sully ci andiamo subito e sbrighiamo la cosa? Ci vorranno solo pochi minuti.» «Non sarà troppo buio, là dentro?» disse Laura. La dispensa era appena fuori dalla cucina. Glenn mi accese la luce e si fece da parte. In fretta, spostai una delle sedie della cucina contro la parete in fondo alla dispensa. Dissi a Sullivan di sedersi. La guardai per un istante. Poi mi resi conto che Bud era accanto a me con la cinepresa. Gliela tolsi di mano in fretta, misi a fuoco l’obiettivo su Sullivan e la sedia, poi cominciai a girare. Cinque o sei secondi dopo, finita la ripresa, le dissi di mettersi contro la parete e feci entrare Bud nella dispensa, di fronte a lei con le spalle rivolte all’obiettivo. Poi tornai sulla soglia. Glenn e Laura erano proprio dietro di me. Dovevo liberarmi di loro. Erano come miele che mi si appiccicava alle dita, mentre invece avevo bisogno di sentire sapore di aceto, aceto e acciaio bollente sulla lingua, se volevo avere qualche speranza di terminare quel film. Gli chiesi di uscire. E di non fermarsi nemmeno in cucina. Poi, con Sullivan e il ragazzo in piedi, girai altri venti secondi, uno spot pubblicitario tutto mio, una vita nella vita. Staccai, e chiesi a Sullivan di avvicinarsi al ragazzo e di mettergli le mani sulle spalle. Lui si voltò e rimase a fissarmi, o perché non riusciva a capire come mai avessi cacciato i suoi genitori o perché quello che stavamo facendo era molto diverso dal suo allenamento di basket nella palestra della scuola, per cui aveva bisogno di un mio sguardo, una mia parola, qualsiasi cosa. Poi mi resi conto che c’era l’immagine di mamma e papà in quello sguardo amareggiato; lo aveva in faccia, quello sguardo tagliente che giudicava il piccolo tradimento del fratello, occhi da cui traspariva l’incomprensione per quello che dovevo

fare e tuttavia immobili, bloccati dalla cinepresa che stringevo in mano o forse da Sullivan, anzi, sicuramente da lei, l’uccello slanciato con le piume umide. Ovvio. Impossibile per chiunque riuscire a divincolarsi dalla morsa di gommalacca di quelle mani, voltare la schiena a una presenza simile. L’illuminazione nella dispensa era pessima. Stavo facendo tutto troppo in fretta, e capivo che sarebbe stata pura fortuna se qualcosa fosse riuscito a prendere vita, a imprimersi nei cristalli d’argento e crescere da sé. Mi sembrava già di vederla, l’immagine sottoesposta di due corpi incompleti, il volto di Sullivan come un nido disordinato e crepuscolare, macchie intricate di luce grigia ai margini dello schermo, e poi mi chiesi se sarei mai riuscito a vederlo quel film, o anche solo una parte, e mi chiesi perché mai quel soliloquio silenzioso tra donna e ragazzo dovesse significare qualcosa di più, perfino per me, il viso dell’una e la nuca dell’altro, e mi domandavo se quello spot pubblicitario sarebbe riuscito a vendere il prodotto. Rimisi a fuoco inquadrando le mani di Sullivan sulle spalle di Bud, un’espressione strana, stranissima, una forma di curiosità simile a quella che segue un uomo quando esce da una stanza, uno sguardo totalmente insolito nei suoi occhi. Non mi sentivo potente, a fare le cose in quel modo. L’illuminazione era disastrosa e non avevo completato gli aggiustamenti del caso. Stavo andando troppo in fretta. Non inquadravo bene. Terminavo le riprese troppo velocemente. Ma dovevo farlo e finirlo a ogni costo, e forse era quello il modo migliore, annientare il ricordo nella parodia, senza il minimo potere, disperdendo il seme in quella luce non catturata. Poi iniziai a girare l’ultima sequenza e mi accorsi che non riuscivo a fermarmi. Li vedevo nel mirino, immobili, di una pazienza sublime, incrollabili, le dita sottili di lei ben visibili dalle nocche alle punte sulle spalle di Bud, l’occhio sinistro della donna che guardava oltre l’orecchio del ragazzo fisso nell’occhio della cinepresa, e così girai per due o tre minuti, sperduto in luoghi remoti, sotto quei venticinque watt di luce fioca, le orecchie tese in cerca di un rumore alle mie spalle, e di tutte le domande che mi ero posto quella sera, l’ultima era quanto Sullivan sapesse veramente. Laura non era in sala da pranzo. Glenn era seduto al tavolo con lo sguardo a terra. Lo ringraziai di tutto. Gli dissi che a volte un eccesso di maleducazione era spiacevole ma necessario. Sullivan mi aspettava alla porta. Gli spiegai che a volte, quando si è sotto pressione, si fanno o dicono cose che sul momento sembrano necessarie, ma in seguito le si vede per quello che sono, cioè stupide e imperdonabili. Bud era fermo sulla porta della cucina e andai a ringraziarlo chiedendogli scusa. Poi tornai al tavolo e tesi la mano a Glenn. Lui la guardò, la strinse forte con un sorriso e mi insultò a bassa voce. Lo fece con grande abilità, un bel tocco hollywoodiano degli anni d’oro, che gli valse un sorriso di rimando. Poi sciogliemmo la stretta e mi ritrassi. Vidi i capillari dell’occhio impazzito che gli si infiammavano, rivoletti sussurranti, tracce di gelida rabbia diaconale, quel gelo che brucia, il gelo che resta appiccicato alle mani, un bagliore ghiacciato di rabbia a dannarmi nel profondo dell’anima, fiumi polari, venuzze rosse in quell’occhio simile a un cubetto di ghiaccio. Lei rimase a guardarmi immobile sul marciapiede, mentre scendevo dalla veranda.

Non era sua abitudine fermarsi ad aspettare. Mi ero immaginato che fosse già a metà strada, e poi mi tornò in mente il modo in cui mi aveva fissato durante l’ultima sequenza, quei due o tre minuti in cui non sapevo più dov’ero. Da lei si irradiava una strana dolcezza. I lampioni erano accesi. Reggevo la cinepresa sulla spalla destra. «Vorrei proprio farmi un bagno» disse. «Nel camper ci laviamo con la spugna. Quando fa un po’ più caldo scendiamo al fiume. All’inizio era solo una piccola scomodità. Adesso è una piccola scomodità che minaccia di trasformarsi in un modo di vivere.» «Gli altri ti hanno vista senza vestiti?» «Usiamo grande tatto, David. Abbiamo pianificato con grande cura. Pike è un maestro, in certe cose. Anzi, un vero quartiermastro. Ha cominciato ad appendere alle pareti tutta una serie di ruolini di servizio, registri e inventari. Ti assicuro che facciamo tutto con grande discrezione.» «Andiamo in un motel» dissi. «Possiamo prendere un taxi.» «E’ proprio necessario?» «Mi sa che non gradiscono gli uomini che si portano le donne in camera. Sono un po’ come dire, barbosi.» «Li sbarberemo noi.» Sullivan passò in bagno quasi un’ora. Io rimasi seduto a guardare la porta socchiusa del bagno cercando di non pensare a niente. Poi mi avvicinai. Come avevo previsto, lei alzò una gamba dal l’acqua, si lisciò il polpaccio con le mani e guardò indietro verso di me. In quel momento mi giunse la voce dell’occhio del diacono Yost. Abominio. Per cui tornai a sedermi sul letto. Sullivan mi aveva guardato per vedere se ero soddisfatto. Io rimasi dov’ero, in attesa. Poi accesi la lampada accanto alla poltrona e spensi la luce in camera. Sullivan uscì dalla vasca. Io entrai subito e la vidi asciugarsi con un grande asciugamano bianco con le cifre. Poi mi avvicinai e le mie mani percorsero lentamente l’asciugamano sul suo corpo. Non ci dicemmo una parola. Mi ritrovai a seguirla verso il letto, a seguire un sogno di piaceri inimmaginabili, sapendo anche che si trattava del solito senso di colpa yankee, tutto sale e pene. Le pareti erano bianche e nere, lei stesa sul letto. Abominio. Si era coperta, anche i seni, sdraiata, rigida, per comunicarmi che era arrivata la fine della sua strofa, che adesso toccava a me. Quanto sapeva Sullivan di quel momento, e quanto mi stava insegnando, con quel suo assurdo coprirsi, era che la miglior indecenza, quella più vera, vale a dire anche la più ripugnante, non è in realtà che una forma di modestia talmente ossessiva da non riuscire a muoversi per il terrore di toccare se stessa. Mi spogliai in piedi accanto al letto, proprio come quella notte nel Maine - era buio quella volta - chiedendomi se Sullivan fosse in grado di vedermi, vergine e indecente Maine, una stanza completamente diversa. Lei mi guardò dal basso e io cercai di non pensare a niente. Era immobile, mi guardava - nulla si muoveva - nuove stanze si aprivano mentre le porte si chiudevano a una a una. Se ne rese conto e non si allontanò né si avvicinò quando mi stesi sul letto. Mi allungai sulle lenzuola. Sono sempre stato

molto orgoglioso del mio corpo. «Non avere paura» disse. «Dimmi cosa vuoi che faccia.» «Ancora non lo so. Restiamo così un momento. Ti ricordi la notte che abbiamo passato nel Maine in quella vecchia casa? Quando mi hai raccontato una favola prima di dormire.» «Non avere paura, David.» «Non ho paura.» «Prima eri terrorizzato.» «E’ vero» risposi. «Non devi avere paura. Ti aiuterò io. Farò tutto quello che vuoi.» «Prima, prima di tutto, voglio che mi racconti una storia. Come nel Maine. Come la favola della buonanotte che mi hai raccontato quella volta.» (Sullivan era talmente pronta a obbedire, talmente indecente e disponibile, talmente abile come artista immersa nella sua opera, che di fronte alla mia richiesta non ebbe neppure un istante di esitazione, e nemmeno scoppiò in una risata liberatoria.) «Un sonno davvero profondo, il tuo» disse. «Una favola. Una favola della buonanotte.» «Ho proprio quello che ci vuole. La storia di un vecchio zio cattivo e dell’esperienza straordinaria che abbiamo vissuto insieme su una barca nella nebbia del Somes Sound.» «E’ inventata?» «E’ una storia vera» rispose. «Me l’hai fatta tornare in mente parlando del Maine.» «Racconta.» «Avevo uno zio dell’Ulster, cattivo e che odiavo a morte e mi faceva paura» iniziò Sullivan. «A diciotto anni se n’è andato da Dublino a Belfast, abbandonando chiesa, stato, famiglia e l’ombra adulterina di Parnell. Era fratello di mio padre, l’animaccia più nera fra tutti gli ex cattolici, blasfemo militante e austero, niente affatto gioviale, bonario e buontempone come lo era il mio defunto padre. Poi, anni dopo, è emigrato qui stabilendosi nel Maine, in una cittadina non lontana da Bar Harbor. E una volta sono andata a trovarlo, per ricomporre una vecchia vertenza familiare. Era una città semplice e tranquilla, il posto adatto per zio Malcolm. E’ venuto ad aprirmi la porta, e mi ero quasi dimenticata del suo aspetto selvaggio e inquietante: calvo, robusto, solido come un fusto di birra scura. Aveva occhi neri, che ardevano come fiamme, e mi guardava come si guarda la concubina del Papa. Odiava a morte i cattolici. Odiava mio padre come la peste, come l’incenso. Fratelli di sangue, stelo e scafo, Shem e Shaun, la dura Dublino e l’ancora più dura Belfast. Nella lettera che gli avevo scritto, non parlavo affatto dello scopo della mia visita. Siamo usciti a sederci sulla veranda. Notte di luna piena. Statue di patrioti in giardino. Nessun giovanotto bardeggiante, nessun menestrello che usciva dai pub, e nemmeno un luppolo scuro di Guinness in vista. Non c’erano pub, c’erano statue. Come sai, io sono una scultrice, e quelle statue mi gelavano il sangue, David. Che cristianesimo. Che assenza di Cristo. Sembravano statue di maestri di scuola sodomizzati che fingono sia solo l’angolo della cattedra quello che preme da dietro. La

guerra ha una certa grazia, e sicuramente l’aveva anche la nostra rivoluzione. Ma per trovare grazia in quelle pietre ci sarebbe voluto un cieco con le dita insensibili. Niente di demoniaco, niente svolazzar di mantelli, niente battute di caccia, niente incubi, niente coraggio. Su la testa, su i cuori, su per il culo. (Signore, perdonami.) Ma comunque cristianesimo. L’era di Omdurman e Chillianwalla. La perversione di Cristo. Il Bambino di Praga sul cruscotto di plastica a benedire la scatola dei Kleenex sul sedile posteriore. Preti con l’alito pesante a caccia della mia anima nella desolazione scura del confessionale, a inseguire con dita torpide le curve della grazia rigeneratrice. Io e zio Malcolm eravamo su due sedie a dondolo. Anzi, ci dondolavamo in sincrono. Non mi aveva chiesto perché ero venuta. Si limitava a guardare le statue nella penombra come se pensasse che il marmo patriottico non aggiunge nulla alla nostra comprensione della storia, a meno che non riposi sotto il linguaggio; rimanere in silenzio nel silenzio della pietra è il principio dell’unione con il passato. Ma forse stava solo pensando alla sua barca a vela. Perché poi ha cominciato a parlare di quella. Diceva di possedere una Hinckley, ormeggiata in una baia appena oltre la punta di Bar Harbor, cioè a soli venti minuti d’auto dalla veranda su cui ci trovavamo.» «Mi sto annoiando.» «Ti prego di concedermi quantomeno una minima parte dell’indulgenza che riservi a te stesso. Non vorrei sembrarti dura. Ma finora io ho collaborato con te, e sono più che disposta a seguirti dovunque tu decida di condurci. E oltretutto sei stato tu a chiedermi una storia.» «Scusami. Continua.» «Vedrai che da questa stupida sequela di superstizioni emergeranno presto temi ben più importanti. Guarda che per me non è un lavoro facile questo.» «Te lo sei studiato prima?» domandai. «La notte, a letto, converso a lungo con i grandi personaggi storici, quelli che parlano inglese. Posso confessartelo. Elaboro filosofie, leggende, note autobiografiche e pillole di saggezza femminile, aneddoti e bugie. Quindi sottopongo il tutto a personaggi come Swift o Blake, e nei panni di Swift o Blake esprimo commenti e critiche. Può darsi che mi illuda, ma credo che la mia mente dia il meglio appena prima di dormire. Ho dialogato brillantemente con me stessa, almeno credo; o anche con le grandi figure storiche, che forse è più appropriato. Per cui la tua intuizione in fondo è corretta. In un certo senso questa storia che ti racconto me la sono studiata prima. Anzi, direi che l’ho raccontata moltissime volte, rifinendola, rivedendola, perfezionandola per avvicinarmi sempre di più all’imponente verità. Ma quella non l’ho mai rivelata. Non ho mai raccontato la storia fino in fondo, né a Coleridge né a Melville né a Conrad. Non ho mai rivelato il mistero delle ultime ore di quella giornata nebbiosa passata su una barca di dieci metri al largo del Somes Sound, mai ad anima viva o morta.» «Un secondo, per favore» dissi. «Voglio spegnere la luce.» «Le sedie a dondolo oscillavano in perfetta sincronia militaresca. Mio zio aveva gli

occhi rivolti al grande panorama defunto della storia, verso Yorktown, Shiloh, la visione decapitata di Khartoum. Poi mi ha detto che la mattina dopo aveva in programma di uscire in barca, e mi ha chiesto se volevo andare con lui. Un calcio nei denti. Ma ovviamente ho accettato l’offerta. C’era tutta l’atmosfera di uno scontro biblico. Rifiutare un’offerta simile voleva dire sputare sulle paure che avevano spinto mio zio in fuga verso Belfast, nonché il mio caro padre al pub a bersi una pinta di scura. Quasi tutto il resto della serata l’abbiamo passato in silenzio. Lui ha cucinato un po’ di stufato per entrambi, servendolo poi in due ciotole spaiate a rivendicare perfino nei confronti di un terzo disinteressato qual ero io, parente e consanguinea, la risolutezza con cui si confermava scapolo a vita. Abbiamo dormito ai due capi opposti della casa. La mia camera aveva un tocco della follia del Capitano Ahab: spoglia, gelida, con il pavimento in pendenza come il ponte di una nave. Non il minimo segno d’amore per l’habitat d’elezione, non una scheggia di avorio intagliato, non una tazza, una pietra raccolta dalla costa, non una stampa navale alle pareti, neppure un frottage di pietra tombale. Una camera spoglia, ghiacciata, nordica, umida come una stella nebbiosa. Quando lui ha bussato alla mia porta, era l’alba, fredda e crepitante. Sono scesa per la colazione, tutta melassa e proteine agglutinanti secondo il principio marinaro per cui le ossa vanno cementate insieme per non lasciarsele strappare via dal vento. Nel giro di mezz’ora eravamo sul pontile, diretti al suo dinghy, e poi abbiamo remato insieme in mezzo alla nebbia appena tagliata da flebili raggi di sole, fino a veder comparire la barca, alta sull’acqua, bianca e verde, che ondeggiava seguendo una corrente tranquilla, e perfino nella semioscurità mi ero subito accorta che quella barca aveva poco o niente di lui. Siamo saliti a bordo e mi ha spiegato rapidamente dove trovare le cose essenziali e a cosa servivano e come stringere questo e allentare quell’altro. La barca si chiamava “Marston Moor” ed era tenuta molto bene. Di struttura leggera, aveva l’aria di essere veloce. Tutte le cromature lucidate a specchio. Era bellissima, David, anche se battezzata con un nome funesto, che era il minimo che ci si poteva aspettare. Mio zio ha issato il fiocco. Io ho mollato gli ormeggi, ho alzato la randa e siamo salpati in un mattino denso di domande non risposte o mai formulate. Uno smergo rosso illuminato dalle luci di navigazione. I rintocchi della campana. I gabbiani sulle boe. Le barche per la pesca delle aragoste che oziavano nella nebbia suonando le sirene, una o due sagome intabarrate che ci fissavano dai ponti, talmente silenziose, immerse in un mutismo strategico, l’occhio maledetto del marinaio che sogna le proprie ossa a cinquanta fathom di profondità e disprezza l’intruso, perché l’intruso non si è guadagnato il diritto a quel braccio di mare. Senz’altro i pescatori devono averci considerati imbecilli di prima grandezza, ad avventurarci in quella nebbia oleosa. Mio zio guardava, al di sopra della piccola ruota del timone, la chiesuola proprio di fronte. Bussola, timone e scotta erano giurisdizione sua. Io ero responsabile del fiocco. Non ci siamo quasi scambiati parola. Nel giro di un paio d’ore la nebbia ha iniziato a diradarsi, e riuscivamo a vedere le foreste di pini di Mount Desert Island e poi, dopo un po’, le colline e ancora le cime brune dei monti Cadillac e Pemetic. Uno spettacolo. Con la foschia ancora collosa sulle

zone scabre delle montagne. Il verde dei pini bassi, le sterrate. La risacca che penetrava le rientranze e le lingue di roccia delle scogliere. La Baia del Francese. I dominii dei reali d’Europa. A mezzogiorno la giornata era completamente nuova, più calda, più ventosa, tutta azzurra, tersa da far male agli occhi, con la luce del sole che ci spalmava addosso come burro un fulgore divino. Perché eravamo nel mondo di Dio, David, e non meritava di accedere alla mente un pensiero che non riconoscesse questo. Era uno spettacolo. L’azzurro dell’acqua era un azzurro d’angelo. Le torri bianche si erigevano sulle lingue di terra. Gabbiani reali e cormorani ovunque. Le focene sbucavano dall’acqua, nel rintocco delle campane nere. C’era la sensazione del firmamento, di un mondo sconfinato appena sopra noi, sfiorato dai lembi di una sola nuvola. La luce del sole era una spada su quell’acqua. Non c’era nulla là fuori che si fosse mai trasformato per altra spinta se non la propria. Dio. La creazione di Dio, intatta. Perfino la barca, così splendida e protesa in avanti a rollare al vento in mezzo al gran giogo di luce, perfino la “Marston Moor” era come un virus benigno che trasformava quel lembo di mare in una graziosa fotografia. Mio zio mi indicò Isle au Haut, l’isola meravigliosa che sembrava ergersi come le altre isole sembrano stendersi o dormire, definendola l’ultima altura, l’ultima macchia d’alberi e terra prima delle immensità atlantiche. Credo che la terra non sia mai uscita dal nostro orizzonte. Alcune isole erano grandi, coperte di pini e aceri, con piccoli villaggi sul perimetro delle rocce. Altre minuscole e disabitate, altre ancora semplici montagnole di granito. Sbandavamo parecchio e io guardavo mio zio. Era ancora in tenuta da maltempo, la destra sul timone, la sinistra che assettava la vela. Non guidava la barca, la cavalcava: sembrava cavalcare un delfino o una donna, una creatura giovane e imbizzarrita e impossibile da domare. Io morivo di fame, e non appena è calato il vento sono scesa in coperta a cucinare qualcosa sul fornello a kerosene. Lui mi ha ringraziato. Per tutto il primo pomeriggio il mare non si è mai calmato del tutto, ma lo zio ha dovuto cercare lo stesso qualche graffio di brezza sull’acqua, per avere un minimo di vento in poppa. Sembrava non prendere nemmeno in considerazione l’idea di accendere il motore. Io guardavo le isole dal binocolo. Ho visto una donna che portava il cesto del bucato, un ragazzino che correva, un uomo contro il profilo imbiancato del faro. Mi sembravano tutte scoperte incredibili, pezzi di un raro minerale, marinai di terra che avevano scoperto quanto sono micidiali le linee rette. E le isole più piccole. Tutte azzurre e del granito più puro. Neanche un’anima viva. Eppure non silenziose. No, gli era concessa la gloria di avere voce. Il grido degli uccelli marini e il fragore incessante dei marosi. Dopo un po’ ho preso io il timone, e lo zio è sceso in cabina a consultare le sue mappe. A quel punto la brezza si è rinfrescata, e dopo una lunga bordata nel tramonto abbiamo ammainato le vele e ci siamo diretti a motore in una baia formata da due isolette, brandelli di terra e niente più, la prima quasi tutta di roccia, l’altra un po’ più grande e alberata. Mio zio mi ha dato lo scandaglio e io l’ho buttato in acqua contando i fathom e cercando inutilmente di aggiungere un tocco di cantilena marinara alla mia voce senza speranza. Abbiamo gettato l’ancora e ci siamo seduti sul ponte a guardare il tramonto. Poi abbiamo visto i velieri: erano tre, venivano dritti verso di noi

come schizzando da una ferita, spaventosa e splendida, aperta nel cielo, con le vele quadre al vento, sfolgoranti di iodio, assolutamente irreali, che passavano dietro la più piccola delle nostre due isole, prima uno, poi l’altro, e nel momento in cui il terzo è scomparso, è ricomparso il primo, con le alberature che si incrociavano alte sul granito, la dignità di quelle navi, figure brunite che sfilavano dall’orizzonte rosso all’azzurro e poi al buio, la venuta dei Re Magi. Lo zio ha detto che erano senz’altro stipati fino alle paratie di turisti da Camden. Ah sì. Spariti i velieri, siamo scesi a cenare con carne fredda e uova nella luce bronzea e tremolante. E finalmente gli ho spiegato il motivo per cui ero venuta. La vertenza familiare era vecchissima data, ancora più degli scontri fra Repubblicani e Orangisti. Prima di morire al Saint Vincent’s Hospital di New York, mio padre mi aveva raccontato che zio Malcolm, dopo aver lasciato Dublino, era riuscito con mezzi poco ortodossi ad accaparrarsi il diritto su un terreno di famiglia sulla costa occidentale della Scozia, poco sopra Lochcarron. Terreno lasciato in eredità alla famiglia da un lontano avo, che, così voleva la storia, aveva legami di sangue con gli antichi clan scozzesi. Terra posseduta per generazioni da capiclan, feudatari, nobiltà varie. E poi, alla fine - la storia gira come il tamburo di un’arma - da mercanti, idioti e figli di emigranti. Tutto ciò mi giungeva nuovo. Qualche centimetro di Scozia nel sangue. Ovviamente le origini si erano perse, e la mescolanza probabilmente la ricordava solo l’uomo che per primo aveva varcato le Highiands per attraversare il Canale del Nord, senza dubbio verso Belfast, magari in cerca di una moglie che gli partorisse dei figli destinati a tornare, almeno alcuni, alla terra avita, e altri destinati a vagabondare fino a stabilirsi nell’Eire per avviare la nuova dinastia da cui è nato il padre di mio padre, mio padre e suo fratello, lo zio Malcolm, anima da ladro di bestiame. E nel raccontarmi questa storia, gli occhi di mio padre dicevano che c’era dell’altro. Riprenditi la terra. Sii forte dove io sono stato arrendevole. Chiedi il saldo di ogni conto, vendica ogni offesa, onora la memoria di tua madre, perché anche lei ha conosciuto le bassezze a cui può giungere quell’uomo. La tua povera madre. Povero angelo innocente. Cristo abbia pietà di lei. Avrei dovuto esigere allora quello che era mio per diritto di nascita. Una briciola di Highiands. Ed era quello il punto. A questo mi hanno portata le mie fisime da benestante, le mie comode bigotterie. Scozzese-irlandese! Americana! (Ineluttabile, signor Faulkner. Coevo, signor Joyce.) Una scossa improvvisa nello scorrere del sangue. Spadoni e cornamuse. Le mammelle cadenti delle indiane Ozark. Secoli e secoli di chiesa scozzese. E quella prima parte del racconto, del terreno sopra Lochcarron, l’ho riferita a Malcolm. Lui ha ribattuto che la terra era sua, l’aveva acquisita in modo più che onesto e non voleva più sentire altro al riguardo. Gli ho domandato cosa contava di farne. Ha risposto che ci avrebbe passato gli ultimi anni di vita e intendeva farvisi seppellire. Era stato fatto testamento. Ogni cosa era stata amministrata al meglio. Mi ha dato la sua parola. Poi è salito sul ponte e io l’ho seguito. Calma assoluta. Abbiamo osservato un’ora di silenzio, ascoltando il grido sconcertato di un uccello in mezzo ai boschi. Belfast e il Maine. Catacombe di silenzio. Tonnellate e millenni di silenzio. Per apprendere che la storia non è in grado di dare

forma al nostro sangue, se non sappiamo ascoltarla. I segreti dei tagliapietre del New England. Tutti quei paesini che vantano campanili di Bulfinch e campane di Paul Revere. La cui flotta è nata dal silenzio di Belfast. E del resto, non ci sono diciotto città di nome Belfast in America? E non era l’Ulster ad approvvigionare le colonie? Uomini, patate e filatoi. Gli Orangisti, non i Repubblicani, morivano nella nostra rivoluzione. Ma io avevo un odio dentro in grado di risalire le cascate come un salmone impazzito pur di ritrovare il proprio laghetto di nascita, il laghetto della verità. A quel punto zio Malcolm mi ha cantato una canzone, lì al buio sul ponte di comando, pronunciando appena le parole, tracce d’Irlanda e di Scozia, addirittura di Shakespeare, nella voce, e secondo me non si è neppure reso conto che stava cantando ad alta voce. “Veniva dal Nord, di poche parole Ma di voce gentile e di cuore sincero Senza insidia alcuna negli occhi Giacqui allor col mio uomo del Nord.” Ha ripetuto quel verso più volte, la sua voce una ninnananna, poi siamo scesi di sotto. Io dormivo nella cabina vera e propria, mentre lo zio si è disteso nel gavone di prua, raggomitolato come una sartia. Nel sonno parlava in gaelico.» «Tutto qui?» chiesi. «E il mattino dopo siamo tornati indietro nella pioggerella grigia, e lontano sull’orizzonte dell’oceano ho visto i banchi di nebbia crescere e avanzare, bassi e cupi e minacciosi, aspettando invano da mio zio un cenno di rassicurazione. Lui parlava di tutto tranne della nebbia. Parlava, certo, come se solo una grande prova, un colpo secco e famelico del pericolo, potesse soffiare via la nebbia dalla sua anima. C’erano poche barche in mare, ma quelle che vedeva gli ispiravano elocuzioni argute riguardo categorie e caratteristiche. Tutta di randa. Stringe il vento. Bordeggia. Guarda come orza. Una iole blu di Darkharbor. Stupida nave scuola. Abbiamo navigato tutto il giorno nella pioggerella, e sentivo il gelo penetrare lentamente nelle mie ossa, nelle gomene e nello scafo della corvetta. Quel banco di nebbia che avanzava verso di noi. E con la nebbia anche tutte le domande senza risposta e quelle mai formulate. Come avrai capito, David, sostanzialmente questa è una storia di fantasmi. Perché mai mi aveva chiesto di accompagnarlo in una traversata così insensata? Forse sapeva già che ero partita dal Maine per la questione del terreno? E mio padre, poi. Babbo roseo mezzapinta con la pipa in bocca. Quali bocconcini succulenti aveva scelto di non servirmi dal letto di morte? Silenzio nella Torre di Londra. Silenzio nei campi intorno ai villaggi. L’occhio nordico del vento. Fiumi di sangue nordico a devastare il Sud tenebroso e affamato. In nome del Cristo dei mastini della guerra. Il predone che cala a saccheggiare terre e divinità. In verità, vi dico che l’Inghilterra e la Chiesa di Dio hanno ottenuto questa grande vittoria su di noi per grazia del Signore; questa non è altro che la mano di Dio, e a Lui solo appartiene la gloria nei secoli. Colubrine e farsetti di cuoio. Picchieri al

centro, moschettieri ai lati. E come finisce, questa preghiera di Marston Moor? La testa mozza di Cromwell che batte le ciglia infissa su un palo a Tyburn. E mio zio, col suo tartan benedetto di Scozia e dei Puritani e dell’Ulster, agognava forse al ritorno al sacro Nord? Il terreno sopra Lochcarron. L’idea di sguazzare nel fango spaventoso di Dio e della patria. Coltello Nero, seduto come un ceppo d’albero nella notte luminosa dei Dakota, l’eco del mio odio più inconfessabile. E mentre tornavamo in vista di Mount Desert Island c’era ancora l’ultima domanda su cui riflettere, quando lo zio ha smesso di chiacchierare e ha puntato la prua verso il Somes Sound, un autentico fiordo, uno squarcio di dodici chilometri nelle scogliere dell’isola. Chissà se sperava di trovarvi rifugio, o maggiori perigli per maggior gloria? Su entrambi i lati ci sovrastavano le colline, ed eravamo entrati per tre o quattro chilometri nello stretto quando l’ho vista arrivare, lontana solo pochi metri, e poi di colpo ci ha sommersi. Nebbia del nord, gelata, umida e buia, nel punto più settentrionale, e mio zio aveva scelto di portarsi sul ciglio del mistero, di entrare sempre più dentro al fiordo, con occhi di nebbia e di brace, cavalcava quella barca come un uomo nella furia del sacro orgasmo cavalca i lombi di una donna, e io ero terrorizzata, David, fuori di me dalla paura, paura della nebbia, di lui, dell’ultima domanda che in quel momento, e solo allora, iniziava a trovare risposta da sola. Perché mi è tornato in mente che si erano rivisti, mio padre e mio zio, molti anni dopo che lo zio aveva rinunciato a tutto ciò che è sacro e puro nel petto apostolico, poco dopo che mio padre aveva sposato quel tenero giglio di mia madre. Si erano ritrovati a Derry, nel New Hampshire, solida cittadina dell’Ulster dove all’epoca abitava mio zio, a tentare invano di ristabilire l’armonia familiare. E mia madre mi aveva raccontato certi dettagli del loro incontro anni prima di morire, dicendo che i rancori e le ire dei due uomini per poco non avevano incendiato la casa, e in quel momento ho capito che c’era qualcosa di sbiadito nei ricordi di mia madre, un filo vagante che poteva riportarmi con la memoria al letto di morte di mio padre - mi stai seguendo? - e a tutte le sue omissioni tattiche, ma anche all’accenno di mio zio a un testamento, alla sua parola d’onore che avrebbe amministrato con saggezza il terreno, il suo letto di morte. E poi una lama d’argento ha tagliato in due il buio, una spada vichinga sull’incudine, e allora abbiamo visto il profilo indistinto della costa. La passione di mio zio era davvero sospinta dal cielo, o forse dall’inferno, e non sembravamo affatto in pericolo di incagliarci. E io aspettavo una parola da lui. Di colpo si è alzato il vento, e il boma ha cominciato a oscillare tagliando l’aria. Venti che sembravano soffiare da ogni direzione, melodiosi come cornamuse di guerra, terrificanti, che sollevavano appena la nebbia ma allo stesso tempo maltrattavano la nostra barchetta tanto da convincermi che di lì a un attimo ci saremmo rovesciati. Vento che soffiava dritto sull’acqua dall’imbocco del fiordo e dal mare lontano. Vento da ogni direzione che ci faceva oscillare pericolosamente a tribordo, poi a babordo, sforzando l’albero, facendo ondeggiare il boma, e quando ho cercato di fermarlo una stecca è volata via dalla vela maestra sfiorandomi la testa. E in quel momento perfino lo zio, perfino lo zio ha iniziato a perdere la sua calma evangelica. Perché quelli erano venti biblici, nubi di tempesta di un Dio adirato mai

incontrato in chiesa o in nessuna riunione quacchera. La barca a vela odia l’indecisione e lo zio non sapeva cosa fare.» «Sully, non mi piace questa storia.» «E il primo angelo suonò la tromba. E si alzarono i venti e morì la terza parte delle creature viventi del mare, e fu distrutta la terza parte delle navi. E attraverso il fumo grigio e argento comparve una luce a riva all’estremo del fiordo. E a reggere la luce era un uomo. E mio zio lo vide e gli parlò. Gesù ha bisogno di me. “Gesù ha bisogno di me”, disse. E la luce era una lanterna, e il volto dell’uomo luce esso stesso. E verrà giorno in cui l’uomo cercherà la morte senza trovarla; agognerà la morte, ma essa fuggirà da lui. E mio zio era arrivato a svelare il mistero, vale a dire: che l’uomo riceve la vita allo stesso modo di Cristo, nascendo da ventre gentile di donna, lontano dagli eserciti in silenziosa adunata, lontano dalla pietra erosa e abbandonata lungo un passato senza luci; vale a dire: che ogni energia si esaurisce, la vita si spegne, tutta tranne la forza del tutto nel tutto, o la luce che illumina luce; vale a dire: la figura che reggeva la lanterna era un bambino. E a tale consapevolezza lui volse sprezzante le spalle maledicendo la propria imbarcazione. Perché dov’era Cristo la tigre, in quella luce pentecostale? E poi a ogni mistero venne rivelata la propria infinità, e tutti gli echi furono sul punto di trovare risposta nelle proprie voci e in esse soltanto. Eravamo ancora imprigionati nella violenza dei venti, e a quel punto l’ho supplicato di ammainare le vele, e lui mi ha guardata e ha urlato: “Maledetti i tuoi occhi, figlia mia”. E quella era la risposta all’ultima domanda. Madre radiosa, che si donava al più nero fra gli Orangisti. ‘Giacqui allor col mio uomo del Nord’. Eugene O’Neill, maledetto lui. E avevo dentro anche quello. I tamburi dell’Ulster. Poi lui ha urlato di nuovo. “Maledetti i tuoi occhi, figlia mia”. Credo mi si sia spezzato qualcosa nella mente. E poi il vento è cessato all’improvviso e siamo usciti dalla burrasca composti come in una fotografia per rimetterci in viaggio verso casa. Io mi sono girata, ma non ho visto lanterna né bambino né uccello dei boschi. E in quel momento ho capito che la guerra non è fra Nord e Sud, fra bianco e nero, fra giovane e vecchio, ricco e povero, crociato e pagano, falco e colomba, Dio e il diavolo. La guerra è tutta fra zio Malcolm e zio Malcolm.» Mi risvegliai a notte fonda. Sullivan era sparita. Un foglio di carta soffiato dal vento finì sul letto, e allora mi alzai a richiudere la finestra. Poi sentii odore di biscotti che cuocevano nel forno.

11. Agli uomini piace sentirsi narrare la sconfitta, il fallimento, la caduta, la perdizione altrui; li rende più forti. E le donne hanno assoluto bisogno di sentirsi raccontare le vicende delle anime sconfitte, perché in esse ritrovano la speranza di poter fare da madre a una creatura sofferente. La comprensione risiede tutta nelle ghiandole: il seno è magia. Naturalmente questo non comincia nemmeno a spiegare quanto successe dopo che

Sullivan finì la sua storia. Accesi la luce e scostai con calma le lenzuola dal suo corpo. Di nuovo mi sollevai a guardarla e lei guardò me. Mi inginocchiai sul letto e abbassai gli occhi su di lei. Le presi la mano e me la portai al viso, cominciai a leccarle e morderle le dita, che sapevano di sapone neutro. Portai le nostre mani destre sul suo seno destro. La mia mano guidò la sua fino a toccarle le labbra e poi giù lungo il suo corpo fino alla parte interna della mia coscia e poi su fino al mio torace e alla bocca. Lei era un’artista e mi chiesi se le piacesse il mio corpo, che fino a quel momento non aveva mai visto davvero. Le misi la sua mano fra le gambe, strette come in un’opera d’arte oscena. Mi stesi sul letto e le leccai le dita, che avevano preso un gusto di vasca da bagno e di sudore leggero. Guardai nella fessura. Cominciai a giocherellare con la carne morbida e i peli attorcigliati. Le baciai le dita, l’indice e il medio tesi sopra il foro allungato, e poi il suo medio fu nella mia bocca e le succhiai la nocca spostando il braccio fino ad avvicinarlo al suo volto e le raggiunsi le labbra con l’indice, e lei cominciò a succhiarlo e leccarlo. Le allargai le cosce con la testa, con le orecchie, fino a sentirle cedere lentamente, loro malgrado, con grande arte e bramosia, e poi, dalla lingua alla radice, mi ritrovai immerso dentro me stesso in una sconfitta così appagante da non ammettere consapevolezza o analisi di piaceri puramente sensuali. Mi ritrovai di nuovo in ginocchio sopra di lei, a scenderle sui seni per leccare e annusare, picchiettandole piano i capezzoli con il dito. Le chiesi di alzarsi e mettersi contro il muro, rivolta verso i piedi del letto. Lei obbedì. Mi distesi al centro del letto, a braccia e gambe allargate. Lei mi fissava. Mi bastò alzare di poco la testa a guardarmi l’inguine. Lei avanzò lenta, di quella lentezza che richiede l’assenza di pudore, si inginocchiò ai piedi del letto e mi strinse le caviglie con le mani e quando cominciarono a risalirle io cominciai ad abbassare le gambe con plateale decisione, come a imitare una creatura che è rimasta rintanata per secoli nelle viscere della terra. Le sue mani mi raggiunsero a inscenare un brevissimo trionfo di fallocrazia, dopo di che me lo prese in bocca, e io cominciai a torcermi e inarcare la schiena. Non ci volle molto prima che mi imponessi di chiederle di smettere, e poi mi ritrovai ancora una volta in ginocchio, con lei distesa sulla schiena a guardarmi. Stavolta aveva la testa contro i piedi del letto, e la pura e semplice realtà della contrapposizione, quella rotazione sull’asse, sapeva di sconfinata lussuria. Giocherellai ancora un po’ con i suoi seni. La baciai sulle labbra. Abominio. Le spinsi di nuovo la lingua in mezzo alle cosce e di nuovo la baciai sulle labbra sognando ruote che giravano in una camera bianca, e poi entrai in lei, svolgendo la topografia essenziale, e mentre la penetravo ero completamente occupato da lei in un ulteriore spostamento dell’asse, dalla parte sbagliata del letto, una città che occupava un esercito. Abominio. Cominciai a pensare i suoi stessi pensieri, o forse quelli che credevo i suoi pensieri. Nella mia mente, mi trasformai in una terza persona singolare. (O forse nella sua.) Ed entrando in lei più a fondo che potevo, duro e furibondo più che potevo, ascoltai i suoi pensieri. Bello di mamma. Vuole svegliarsi da solo. Il David di Michelangelo. Il grande WASP del Selvaggio West. E’ a casa, finalmente.

Sentii odore di biscotti che cuocevano nel forno. Durò solo pochi secondi. Poi crollai di nuovo nel letto e mi sentii come su un campo di battaglia in cui parte dei soldati si finge morta e scambia i propri odori con il profumo della terra, provando una delizia mai più conosciuta dai tempi dei giochi infantili. A quel punto mi riaddormentai. Quando riaprii gli occhi, non mi stupii neppure un istante della disinvoltura con cui ero riuscito ad accantonare ogni ricordo della notte precedente. Com’è più semplice seppellire la realtà che sbarazzarsi dei sogni. Feci una doccia e mi rasai. Mi tagliai con le forbicine un ciuffetto di pelo dalle narici. Non avevo un aspetto malvagio, tutto sommato: la sequenza cinematografica conclusa ed estirpata da me (tutta sangue e occhi), il desiderio oscuro esaudito (con tutto il panico del caso), pochi soldi in tasca e non un posto preciso dove andare. 1) New York non attendeva il mio ritorno con microfoni e flotte di limousine parate a festa, vecchia città, adorabile troia babilonese di celluloide, che sbadigliava come Mae West. 2) Sicuramente il network aveva ricomposto le mie spoglie mortali nel cassetto di uno schedario con l’etichetta “fino al ritorno dell’anima dal limbo”. 3) Rimanere a Fort Curtis era fuori discussione: quel posto ormai era soltanto la sommatoria delle sue monotonie non impresse su pellicola. 4) Perfino il camper appariva off-limits. Cosa mai potevamo dirci io e Sullivan? (E in fondo cosa ci eravamo mai detti?) Ma, malgrado tutto, guardandomi allo specchio, non avevo affatto un aspetto malvagio. Nessun dubbio che rimanessi David Bell. Mi lavai i denti, mi rivestii e mi misi in poltrona per tagliarmi le unghie. Magari potevo scappare nel Montana e innamorarmi di una cameriera in una candida tavola calda. Magari il Canada poteva rivelarsi piacevole, la parte occidentale, essendo una delle ultime terre al mondo immuni da colpa. O magari potevo passare un anno seduto fuori dalla Moschea Blu di Istanbul a fumare hashish. In quel momento entrò una donna in calzoni pesanti, maglione e vestaglia aperta. Non l’avevo mai vista in vita mia. La donna cambiò le lenzuola, battendo più volte sul materasso e poi picchiando sul cuscino il taglio della mano a mo’ di karateka. Mi guardò per un istante nel modo analitico in cui tutti i membri del personale alberghiero al mondo valutano le biografie degli ospiti paganti. Io continuai a tagliarmi le unghie, guardando le piccole schegge argentee schizzare nell’aria. La donna finì di rifare il letto e buttò le lenzuola sporche in corridoio. Poi si allungò dietro la porta e trascinò dentro un aspirapolvere. Io ritrassi immediatamente le gambe. La donna accese l’aspirapolvere e iniziò a passarlo per terra, guidandolo con una mano mentre con l’altra cercava di scostarsi i capelli dagli occhi. Ai piedi indossava calzini bianchi pesanti e mocassini. La vestaglia era senza cintura e troppo grande per lei, forse del marito. L’aspirapolvere mi oltrepassò strisciando e risucchiò le mie unghie. Sollevai i piedi sulla sedia. Lei si mise in ginocchio, e stava per pulire sotto il letto, quando si voltò a guardarmi. Magari potevo andare in Texas. «Ci sono delle sigarette qui sotto e anche una scatola di fiammiferi. Li vuole o no?»

«No» risposi. Lei aspirò il tutto. Non avevo idea di che ora fosse. Le mie unghie dentro quell’aspirapolvere. Peli miei aggrovigliati nelle lenzuola in corridoio. La donna collegò al tubo dell’aspirapolvere una piccola spazzola e iniziò a pulire la tapparella. «Quello è un Vaculux, vero? Erano clienti di mio padre. Anni fa. Ultimamente si sta facendo crescere la barba. Solo a pensarci mi sento a disagio.» «Io faccio solo il mio lavoro» disse. Dopo di che se ne andò in silenzio, un ulteriore evento insignificante che sarebbe stato ricordato. Avevo ancora i piedi sulla sedia. L’inattività è il preludio a quel genere di consapevolezza che sfocia nella presa di coscienza finale dell’inutilità di qualsiasi azione. Si protende verso se stessa per poi ritornare indietro e non c’è nulla di più dolce e rilassante al mondo. La cameriera aveva lasciato la porta aperta e Sullivan era immobile sulla soglia con addosso il suo trench zingaro. Ci sorridemmo. Fossi rimasto su quella sedia a sufficienza, sarebbero arrivati tutti da me: cancellieri, prefetti, commissari, dignitari, tutti in pellegrinaggio a chiedermi che cosa sapessi di potenzialmente utile. «Sei venuta a riconoscere il cadavere?» domandai. «Posso sedermi?» «Prego.» Si mise contro la testiera del letto, seduta sul cuscino, mimando la mia posa, con le mani giunte sulle ginocchia strette e sollevate. Sopra di lei, alla parete - un vuoto fra le parole scritte - era appesa una litografia di un indiano in canoa che pagaiava sulle acque di un lago di montagna. In precedenza ho detto che nel descrivere Sullivan avrei cercato di evitare le analogie, ma in quel momento sembrava anche lei un’indiana, una squaw vendicatrice pronta a scendere dalla collina dopo la grande battaglia per strappare la lingua ai cadaveri dei soldati in modo che non potessero gustare la carne di bisonte nel mondo degli spiriti. Sembrava la figlia di Coltello Nero, un omicidio fatto a regola d’arte. «Spero di non esserti mancata stamattina, David. Non riuscivo a dormire, per cui sono tornata al camper. Ho pensato che non ti avrebbe dato fastidio.» «Cosa è successo? Cosa è avvenuto o ha avuto luogo? Credo proprio mi sia sfuggito di mente.» «Ha smesso di piovere e le fantasie sono uscite a giocare. Il tuo filmetto casalingo ti ha messo in stato di angoscia. Io ho cercato di consolarti. Volevi inzupparti nel peccato, per cui ho ritenuto mio preciso dovere darti una mano. I vecchi amici hanno dei doveri. David, giuro davvero che ti amo e ti odio. Ti amo perché sei molto bello e anche un bravo ragazzo. Sei ancora più innocente di un topolino di campagna e non penso che ci sia del male in te, se mai è possibile. E ti odio perché sei malato. Fino a un certo punto, le malattie ispirano compassione. Oltre, diventano solo odiose. Diventano molto simili a un’offesa personale. Viene voglia di distruggere la malattia eliminando il paziente. Sei un cliché talmente adorabile, amore mio, e spero con tutto il cuore che tu abbia trovato il

centro del tuo peccato, anche se devo dire che niente di quanto abbiamo fatto ieri notte mi è sembrato poi tanto bizzarro.» «Vaffanculo» dissi. «Hai bisogno di soldi?» «Te l’ha detto Brand di chiedermelo?» «Ha detto che eri a corto. Io ne ho un po’. Tanto finiremo per incrociarci di nuovo. Potrai restituirmeli allora.» «Me la cavo, Sully.» «Dove intendi andare?» «A ovest, direi.» «Non mi piace l’idea di saperti laggiù tutto solo, David. Sul serio, io ti amo veramente, un po’ come il ragno ama la sua preda. Non avrai nessuno con cui parlare. Nessuno con cui giocare. E le distanze sono enormi. Abbiamo parcheggiato qui di fronte. Vieni con noi.» «Dove?» «Torniamo nel Maine. Poi a casa.» «E Brand? Lui resta nel Maine?» «Non ha ancora deciso» rispose. «Dipende tutto da zietta Mildred. Se lei riesce a racimolare un po’ di soldi, lui magari prova con il Messico. Altrimenti torna nel garage. La sua unica vera speranza è tornare a combattere. Gli ho consigliato di riarruolarsi. Sono convinta che per lui sia l’unica via d’uscita. I demoni vanno affrontati qui e subito. Giusto, compagno di stanza?» «Io non ho demoni che mi tormentano» risposi. «Ho un solo problema immenso, come ben sappiamo tutti e due, ma è unicamente un problema etnico. Non ho amici ebrei. Com’è che sai tante cose sul conto di Brand?» «Me le ha dette lui.» «Ti ha detto anche del suo romanzo? La Grande Risma Americana di Pagine Bianche.» «Mi ha sussurrato i tristi dettagli.» «E quando?» ribattei. «La primissima notte nel Maine.» «Non ricordo proprio di avervi mai visti soli, in tutta la serata.» «E’ entrato in camera.» «Quella in cui dormivamo io e te?» «Sì.» «Capisco.» «Si è inginocchiato accanto al letto e mi ha sussurrato all’orecchio. Paroline tristi. Voleva che sapessi la verità. Forse era convinto che sarebbe servito a rendere più allegro il viaggio. Ovviamente, gli ho concesso l’assoluzione.» «E poi ti sei fatta da parte e l’hai lasciato venire sotto le lenzuola con te.» «Esatto.»

«E io lì nella stessa stanza. Un sonno davvero profondo, il mio. E da allora avete continuato a spassarvela, voi due?» «Ogni tanto.» «Capisco.» «Sì.» «C’è solo una cosa che non afferro, la logistica. Come avete fatto?» «Abbiamo approfittato di ogni possibilità. Sembrava una primavera del fuoco d’amor. Finché eravamo in viaggio, non è stato facile. Quando ci siamo fermati qui le cose sono migliorate.» «E Pike?» «Di guardia» rispose. «E la prima volta è stata proprio quella notte nel Maine con me nella stanza.» «E’ stato proprio divertente, David. Russavi come Lyndon Baines Johnson.» «Io non russo. Non russo affatto, porca puttana.» Ciò che accadde dopo aveva i suoi risvolti burleschi, un tocco di sadismo stilizzato, attimi di uno show da circo quando volano le torte in faccia. Passai le gambe sopra i braccioli e mi rialzai. Sullivan scese dal letto e ci ritrovammo tutti e due in piedi. Con quel trench sporco e stropicciato addosso, sembrava uscita da una marcia per la pace con trent’anni di ritardo. «Aspettami qui» dissi. «Voglio prendere congedo dagli altri con la virile stretta di mano del compagno d’armi. Brinderemo al destino.» «E noi due, a cosa brinderemo, David?» «Alla salute. La mia, ovviamente.» Entrai nel camper, da dietro. Pike e Brand giocavano a carte. Pike raccontava del dingo australiano e non alzò nemmeno lo sguardo quando entrai. Mi appostai dietro di lui, gli misi le mani sulle spalle e strinsi con forza. Alla fine fu costretto a tacere. «La signora ti vuole.» «E perché?» domandò. «Stanza 211. Alzare il culo, colonnello.» Pike si alzò lentamente e uscì dal camper, e io mi sistemai sulla sua sedia pieghevole, girandola in modo da poter appoggiare le braccia incrociate sullo schienale, io di faccia a Brand, il tavolino in mezzo. Brand portava un giaccone kaki. Io ero in calzoni di velluto a coste e camicia pesante blu. «Me l’ha detto» iniziai. «Chi ti ha detto cosa?» «Sully mi ha detto che tu e lei avete giocato al dottore e all’infermierina.» «E allora?» «Certo che hai avuto un bel paio di palle, visto e considerato che tu e io siamo vecchi amici e che lei stava con me, anche se non in via ufficiale.» «Avere le palle aiuta» rispose. «La conosco da anni. Non puoi metterti in mezzo così.»

«Tu la conosci da anni e io la conoscevo da pochi minuti. Il risultato è lo stesso. Certe questioni vanno valutate alla luce dell’eternità.» «Adesso ti dico una cosa. E vedi di afferrarla bene. Mi stai ascoltando? Lei si è tolta le mutande solo perché hai paura di essere uno scrittore. Ti è chiaro il concetto? Personalmente ti consiglio di riarruolarti in Aviazione, porca puttana. La nostra difesa militare non è completa senza il tuo apporto.» «Almeno io pilotavo un aereo, vecchio mio. Tu te ne stavi in ufficio a passare carte.» «Io non l’ho neanche fatto, il militare.» «Quadra.» «Quadra, vero?» «Cazzo se quadra» rispose. «Usciamo dove c’è un po’ più di spazio per muoversi.» «Parlare non costa niente.» «Commento quantomai originale» dissi. Passammo per una stradina fino a raggiungere il parcheggio retrostante l’albergo. C’erano tre macchine, con i paraurti contro un lungo tronco d’albero squadrato posto a mo’ di barriera. Brand si tolse il giaccone e lo buttò a terra. Io allungai la mano e pizzicai i cani copulanti che aveva tatuati sul braccio. Lui in un primo momento parve stupito, poi cacciò un urlo. Quindi cominciò a pizzicarmi il collo. Restammo in quella posizione a pizzicarci a vicenda, cercando di non fare smorfie né gridare. Il dolore era insopportabile. Mi resi conto che non sarei riuscito a reggerlo ancora per molto, per cui lo lasciai andare e gli tirai un calcio negli stinchi. Lui mi tirò i capelli. Ci fermammo a guardarci negli occhi. «Perché dobbiamo pestarci per quella brutta stronza?» dissi. «Non è brutta.» «Bruttina, allora.» «Non è neanche bruttina, e lo sai benissimo.» «Sì che è bruttina.» «No che non lo è» ribatté. «Non ti togli gli occhiali?» Cominciammo a lottare, e Brand mi morse una spalla. Io gli bloccai la testa con il braccio, poi lo buttai a terra facendo perno sull’anca. Non lo presi a calci nelle costole, anche se sarebbe stata la cosa più facile del mondo. Poi Brand, steso a terra, mi rivolse dal basso un’occhiata feroce e si strinse le mani sull’inguine. Era un gesto strano, e non avevo idea di che cosa sottintendesse. Lo aiutai a rialzarsi, e ci spostammo davanti all’albergo. Ci stringemmo la mano, e gli dissi che poteva tenersi la mia macchina, o rivenderla e tenersi i soldi; in ogni caso, era sua. Poi tornai al camper e rubai la radio di Sullivan. Chiesi al portiere di tenermela e salii in camera. Dissi a Pike e Sullivan che Brand li stava aspettando e ci augurammo tutti buona fortuna. Strinsi la mano a Pike. Sullivan mi diede un bacio sul mento.

Quando se ne furono andati, gettai la mia roba dentro due valige, anche la cinepresa, che pesava solo tre o quattro chili, e tutte le bobine di pellicola. Decisi di abbandonare treppiede e registratore, oltre a una giacca sportiva e due paia di scarpe. Pregai il portiere di salire in camera e gli dissi che tutto quanto vedeva nella stanza era suo, ed era più che sufficiente a ripagargli l’imbiancatura. Lui tornò da basso molto confuso. Dopo di che mi masturbai sulle lenzuola bianche cambiate di fresco con una strana gioia che mi lasciò svuotato, il piacere gelido e indifferente degli attimi in cui nulla è previsto, e quel che ci si lascia alle spalle è solo peso morto da abbandonare alle cure del basso clero. Scesi alla reception e infilai la radio in una delle due valige. Poi partii per il primo tratto del mio secondo viaggio, il grande balzo nelle profondità d’America, vaste distese sognate da tutti i poeti e gli istruttori scout, a ovest verso il nostro destino manifesto, verso le estreme foreste rosse, le sabbie dipinte, le colline trasfigurate in oro, a ovest per confrontarmi con le ombre della mia immagine e con me stesso.

TERZA PARTE

12. Precipito silenziosamente in me stesso. Lo spirito si contrae nell’esaurirsi di ogni passione, sia che la stagione appartenga alla sofferenza o all’amore, e mentre preparo le ultime pagine mi sembra di cadere lentamente verso il coma, un sonno privo di un terrore particolare e tuttavia angoscioso e senza fondo. A quanto pare, ormai di me rimane ben poco. 1) La solitudine intensa diventa intollerabile solo quando non c’è niente che si abbia voglia di dire agli altri. 2) I santi parlano agli uccelli, ma solo i pazzi li sentono rispondere. Sono arrivato al punto in cui coniare aforismi appare un ottimo succedaneo della buona compagnia o della follia. E di sicuro questo mio resoconto manca dell’una e dell’altra. Troppo è stato distorto in nome della simmetria. Le nostre vite erano la distanza più breve fra due punti, nascita e caos, ma ciò che appare su queste pagine rappresenta, nelle giuste proporzioni, quasi un parto del caos. Troppe cose sono state dimenticate in nome della memoria. Non si parla della cicatrice sul mio indice destro, della medicina lattiginosa che prendevo da bambino, delle visioni eteree della mia tonsillectomia. Nella mia mente, la risonanza di questi fatti lontani assume un fragore di tuono, sopravvive a opere immortali, guerre lunghe e brevi, viaggi su altri pianeti. In breve, non ho mostrato sufficiente astuzia. Ho imboccato il sentiero di mezzo, né paradiso né inferno, e non c’è introspezione al mondo in grado di persuadermi che l’astuzia non mostri i suoi artigli più affilati proprio nei punti estremi della consapevolezza. Certo, non che questo mio lavoro manchi di uno scopo. E’ un bell’oggetto. Mi piace guardarlo, le pagine ben impilate, a centinaia, con le loro difformità nascoste. Ogni tanto sposto il manoscritto in una stanza diversa, per potermi sorprendere di trovarlo lì quando entro. E’ sempre commovente, il mio libro sul tavolo di legno di pino, poetico nella sua solitudine, completamente immobile. Ha un che di Cézanne nella luce senza tempo che irradia, un oggetto semplice, l’equivalente delle bobine di pellicola che riposano nel mio piccolo caveau con l’aria condizionata. Ultimamente mi sono studiato con attenzione le riprese, ora per ora. C’è una sorta di bellezza mutilata in alcune parti: Sullivan sull’altalena, tutta ombra e minaccia, un airone scuro e slanciato che guarda il nostro sonno disabitato. Gli episodi di Fort Curtis sono solo una piccola parte di quello che alla fine è diventato un film sul silenzio e l’oscurità. Nel suo insieme dura quasi una settimana, il lavoro di diversi anni privo di tagli. Visto nella sequenza originale delle riprese, il film diventa progressivamente più scuro e più silenzioso. Ci sono le parti girate a Fort Curtis. Manifestazioni, discorsi, marce, rivolte. Le riprese di una vacanza nel Vermont, persone che entrano in casa mia,

brani scelti di una relazione sentimentale. Poi ci sono lunghe scene non ritoccate in cui amici e sconosciuti proclamano la loro pazzia davanti all’obiettivo. Punti in cui ho rinunciato al sonoro. Ci sono case, case di ogni genere, di tutti i posti in cui sono stato. Ci sono edicole, vetrine, stazioni d’autobus e sale d’aspetto. Ci sono suore, a centinaia, così bianconere, soggetti ideali nelle loro lunghissime processioni, mute come grani di rosario fatti scorrere tra le mani. Per un breve periodo, sono tornato a inquadrare individui: donne e ragazzi in corridoi d’ospedale, sordomuti che giocano a scacchi, gente che attraversa gallerie. La commedia vera non si trovava nei teatri. La commedia vera eravamo noi, e noi avevamo bisogno di ombre su cui disegnare a gesso la nostra luce, di velocità per vincere la sequenza, di fori infinitesimi in cui piantare le nostre coscienze. A quel punto ho cominciato a sottoesporre, per diventare ancora più crudo, distruggendo forma e luce, nel tentativo di sciogliere l’oscurità penetrandola completamente. Al termine del film ci sono musei, scene sfuocate in grandi saloni marmorei tutti invariabilmente deserti, in apparenza subacquei, schiacciati dall’oscurità che si diffonde dagli angoli dello schermo, sovrani scolpiti nella pietra calcarea a malapena visibili, gentili signore fiamminghe incorniciate, e poi, infine, il nulla per diversi minuti. Proprio in chiusura compaio io in persona, riflesso in uno specchio con la cinepresa in spalla, nella prima delle scene girate a Fort Curtis. Venti secondi di pellicola che servono anche da inizio. Il film dà il suo meglio se visto come una sorta di schizogramma definitivo, un’esercitazione diametrale intesa a distruggere ogni significato. Mi piace toccarlo, il mio film. Mi piace guardarlo scorrere nel proiettore. E’ questo il mio grande successo. Sullivan e Brand, nel loro candore chirurgico, mi hanno insegnato a temere e invidiare l’artista. (In realtà Brand, come si è scoperto alla fine, era uno scrittore di pagine bianche. E così mi piace ricordarlo, in definitiva come romanziere, in tutti i sensi un artigiano di grande talento; solo che sceglieva parole dello stesso colore della carta su cui erano scritte.) Volevo davvero diventare un artista, come credevo dovessero essere gli artisti, un individuo pronto ad affrontare le complessità del vero. E ho avuto grande successo. Mi sono ritrovato con il silenzio e con il buio, seduto e immobile, creatore di oggetti che imitano la mia predilezione. Da questa finestra vedo l’oceano, lontano, ondeggiante nella patina vacua e rabbiosa con cui la burrasca dipinge tutte le acque. Più tardi uscirò a passeggiare sulla spiaggia per un’ora. Se per allora il tempo sarà schiarito forse riuscirò a vedere le coste dell’Africa, la grande curva bruna dei lombi equatoriali. Ma ora come ora è piacevole l’attesa di lasciarmi ricadere (di qui a un paragrafo) in un periodo della mia vita ben più degno di essere filmato. Allo scadere del secolo non ci saranno fuochi d’artificio. Non ci saranno agonie nei giardini. Ora che la notte fa cenno, la prima lampada accesa sarà quella di un uomo che si getta da una rupe per imparare a volare, che si libra verso i tropici solari e allontana la mano dal petto a estrarne fuoco. Il rumore dell’oceano sembra perdersi nel deflagrare della propria passione. Porto calzoni di flanella bianca.

La Cadillac paleolitica color lavanda di Clevenger era dotata di aria condizionata, moquette spessa, cruscotto imbottito, impianto stereo e antifurto. Dietro il volante, lui sembrava un autista veterano, per nulla intimidito dalla magnificenza della propria livrea. Era sui cinquant’anni, un ometto con un collo di argilla solcato da rughe ampie e profonde. Clevenger era texano. Mi aveva preso su in un punto imprecisato del Missouri, dove si trovava in visita alla famiglia della sorella. Quando gli avevo detto che non avevo una destinazione precisa, aveva fatto un grande sorriso e mi aveva detto di salire. Aveva continuato a sorridere per quasi tutto il Kansas e io potevo solo supporre che custodisse un segreto insignificante, magari di una gioventù passata il giorno a fare l’autostop e viaggiare sui vagoni merci, e la notte alla luce opprimente dei falò in compagnia di uomini incapaci di cantare. Dormivamo nei motel più cari e Clevenger mangiava bistecche e patatine fritte per colazione. Lavorava come sovrintendente capo di un circuito di prova per pneumatici di automobili e camion, poco lontano da Rooster, una cittadina del Texas occidentale. Era la sua ultima settimana di ferie e si stava occupando di certi affari personali in apparenza molto redditizi e senza dubbio estesi in ogni angolo del paese. Dopo il Kansas, tagliammo per l’angolo sudorientale del Colorado e procedemmo a tutto gas attraverso il New Mexico. Un viaggio noiosissimo. Eravamo sempre diretti verso la sutura fra terra e cielo, ma non la raggiungevamo mai; non restava nulla da scoprire e il tempo si confondeva. I jet d’addestramento sfioravano le montagne e il deserto. Il passato ritornava sotto forma di plastica. Gli equilibri ecologici andavano in crisi e gli oggetti sembravano non corrispondere più alla somma delle proprie parti. Soldati carichi di armi. Inversioni nette di corrente nella storia e nella geografia: in un ristorante stile vecchia frontiera, una nota esplicativa sul menù informava che la sala da pranzo principale era l’esatta ricostruzione di quella del famoso ristorante Cattleman a New York, nella Quarantacinquesima. La gente andava a pesca, a caccia, portava i figli in gita all’inevitabile base militare nuova di zecca e parlava di luoghi come Phoenix e Las Vegas come a ricordare momenti lontani distanze astronomiche, un opuscolo verdastro d’infanzia sul pianeta Terra. In verità, quei giorni non erano poi così diversi dall’idea che in genere ci si fa della vita su una colonia lunare: dovunque andassimo, c’erano indiani che vagavano per il paesaggio, come operai stremati dalla mancanza di ossigeno, uomini mandati a smuovere pietre dove non esiste altro che pietra. Una volta Kenneth Wattling Wild (di Chicago, River Forest, Corpo dei Marines degli Stati Uniti, Leighton Gage College, Chicago, Insomnia e, senza alcun dubbio, ancora di River Forest) aveva scritto: “La morte è giunta in fila per due nella notte Con whisky e vendetta nel respiro Le nostre carabine in riva al fiume”. E anche quello che vedevamo, la luna e i pony dipinti, sembravano l’andare e il

venire del tempo liberato dalle sue catene, di qualunque genere fossero. La letteratura è ciò che abbiamo superato e ci siamo lasciati alle spalle, molto più che uomini e cactus. Per anni mi aveva inchiodato il grande mistero contorto di quella terra profonda, con i suoi paragrafi voluminosi e le fotografie perentorie, il galoppare degli aggettivi ansimanti, la verità delle praterie e le prede innocenti delle aquile, il deserto abbigliato di colori Navajo, immagini di un cinema surrealista, i ventricoli collegati alle pompe, l’arte muraria di Chaco e le chitarre in spalla, i polmoni da organo di cattedrale e l’ardesia imperiale, la presenza del corallo in un luogo così strano a suggerire oceani di reliquie, le sembianze benedette di Dio sulle pareti di montagne superstiziose. La questione non è tanto se i romanzi e le canzoni abbiano usurpato la terra o ne abbiano ricavato del vero, quanto piuttosto il fatto che l’avventura in cui mi ero imbarcato era puramente letteraria, il mio tentativo di rinvenire logiche e motivazioni, di trasformare qualcosa di selvaggio in una tesi schizzinosa sull’essenza dell’anima nazionale. Ipotizzare. Cercare collegamenti. Ma il vento bruciava i letti dei torrenti, quasi senza smuovere la terra, e non c’era nulla da annunciare a me stesso in termini di grandi rivelazioni storiche. Perfino ora, mentre scrivo queste parole, riesco a comunicare ben poco di ciò che ho visto. La Cadillac faceva quasi i centoquaranta e i finestrini erano color verde bottiglia a beneficio degli occhi di Clevenger, bruciati dal sole. Eppure non si stancava mai di guidare. Ci fermavamo solo per dormire e mangiare. Telefonava spesso, incontrava gente ogni tanto, e più di una volta aveva parcheggiato per qualche attimo alla periferia di questa o quell’altra città a soppesare con occhio da professionista proprietà immobiliari in vendita. Ma tutti i diversivi erano pianificati in modo da coincidere con le fermate per dormire e mangiare, e nel giro di breve tempo ci rimettevamo in viaggio. Clevenger adorava la strada. Era una retta di lunghezza e limiti precisi, ed era possibile procedere solo nel modo più diretto. Probabilmente una stradina tortuosa di montagna in Baviera gli avrebbe distrutto il cervello. Mi lasciava prendere il volante ogni tanto solo per pura formalità. Quando non guidava lui, parlava pochissimo. Forse, pensavo, guidare era il suo vizio segreto, l’unico cerchio concluso della sua vita, senza il quale si sentiva perso. II tempo scivolava avanti e indietro, la natura era senza baricentro, e io ascoltavo le stazioni radio. Passavamo dall’autoradio alle cassette sulla radio portatile di Sullivan, che rimpiccioliva i confini del mondo. A volte riuscivo a produrre un bel mixaggio e discorsi politici o annunci commerciali venivano scanditi su ondate di soul-rock come sottofondo. Clevenger si divertiva un mondo, e dava un colpetto all’acceleratore puntando il gomito contro il rivestimento imbottito della portiera. Quasi sempre tenevo accesa solo la radio portatile e l’abitacolo della Cadillac si riempiva di ottoni, gospel, ghetto soul, gruppi country e bluegrass, “college rock” effeminato e semibleso, oscenità e catastrofi elettriche, violini sfrenati di Nashville, “oud” e tamburelli e batterie libidinose; al calare della notte frugavo tra le stazioni in cerca di jazz, e con un po’ di fortuna localizzavo qualche nota catatonica di Thelonious Monk, o Sun Ra in collisione con l’antimateria, e a un certo punto emergeva una nota in grado di raccogliere tutti i frammenti della notte dilagante, e per qualche istante tutto

sembrava acquistare significato, armonici impazziti che offrivano sanità mentale, o almeno quanta era possibile offrirne, a chi corre con la morte; allora ci lanciavamo verso le prime luci dell’alba con quella musica oscura sopra di noi, e io mi sentivo estraneo nell’amore che le portavo, perché non avevo niente con cui correre. A colazione Clevenger adocchiò la cameriera, una donna dai gesti lenti in uniforme bianca senza calze, una donna che conosceva alla perfezione le tensioni del proprio corpo, i punti saldi e quelli più elastici, e sapeva come sfruttare al meglio una camminata o l’immobilità, che nel giro di pochi minuti il vestito appariva del tutto superfluo. Clevenger ordinò una bistecca ben cotta e lisciò la sigaretta con indice e medio prima di accenderla. «Certe donne te le porti a letto» disse. «Certe te le chiavi, certe te le sbatti, certe te le scopi. Quella è una scopata e mezza con i controfiocchi. Una bella cavalcata sotto il livello del ma re. Una singola esecuzione a spron battuto. Quella sì che è un bel numero.» «Il fatto che non porti le calze mi urta» dissi. «C’è solo una cosa al mondo meglio di una donna senza calze, ed è una donna con le calze. Bastano quelle a tirarti su e giù. Finché le bambine continuano a diventare signorine, questo sarà sempre un gran bel mondo.» «Quand’è che devi tornare a casa?» «Fra tre giorni» rispose. «Prima devo fare una scappata a Phoenix. Vieni da me, Dave. Mia moglie sarà felice di avere compagnia. Si sente sola, laggiù. Solo coyote e messicani. E’ di San Antonio, la mia piccola, e se va tutto come spero magari riusciamo a tornarci, a San Antonio. Gran bella città. La piccola non va d’accordo con mia sorella, altrimenti mi sarebbe toccato portarmela dietro per questo viaggetto. Basta aspettare e tutto va per il meglio. Guarda che gambe quella. Straordinarie. E’ proprio straordinaria quella.» «Forse è meglio che prenda la mia strada. Ho già abusato fin troppo della sua ospitalità.» «Diavolo, di quello non ti devi preoccupare, Dave.» «Sono praticamente al verde. Devo pur darmi una mossa.» «Posso aiutarti io per un po’. Diavolo, la macchina la sai guidare. Puoi venire con me e familiarizzare con il business. Non guadagnerai molto, ma almeno avrai qualche soldo in tasca finché non decidi la tua prossima mossa.» «Magari lo faccio.» «Niente ‘magari’. E d’ora in poi, tienti i soldi in tasca. Non c’è bisogno che sborsi. Ho tutto io. Prima che finisca questa storia, ci faremo quattro risate insieme.» Mentre andava al gabinetto disse qualcosa alla cameriera e lei gli sorrise, tutta labbra carnose e occhi socchiusi, un commiato gentile e amabile con allusivo biglietto di ritorno. Poi ci ritrovammo di nuovo in strada e Clevenger non era mai stato più felice di così. Quella donna aveva risvegliato un turbinio sanguigno, gli aveva smussato l’umore, e così Clevenger chiacchierò per buona parte del pomeriggio, spingendo la Cadillac ben

oltre i centosessanta e allungandosi sul volante in modo da sollevare leggermente le chiappe e sedersi sulle cosce. Mi raccontò di avere due divorzi al suo attivo, muovendo la testa su e giù e facendo il segno della vittoria con due dita. La sua prima moglie era in parte messicana, in parte Apache, in parte gallese e per una briciola o due francocanadese. Aveva diciannove anni quando l’aveva incontrata, ed era la creatura più bella che avesse mai visto in vita sua. I problemi erano iniziati quando lei aveva cercato di staccargli l’orecchio destro a morsi durante una lite a causa di un altro uomo. Clevenger si puntò l’indice a lato della testa e io mi allungai a guardare più da vicino. L’orecchio non mostrava segni particolari, ma annuii comunque. La sua seconda moglie era una commessa. Non gli aveva mai procurato grane. Passava la giornata in negozio a vendere giocattoli e gingilli. Di sera cucinava, puliva la casa, stirava e cuciva. Dopo un po’, Clevenger aveva cominciato a picchiarla. Io indossavo sempre il mio berrettino magico da pilota. Clevenger penetrò a forza l’Arizona. Gli domandai dov’era esattamente la grande riserva Navajo e lui rispose molto più a nord, il che mi andava benissimo. Pranzammo in una tavola calda con le pareti color azzurro polvere e io andai in bagno a guardarmi allo specchio. I capelli, che non tagliavo da quando ero partito da New York, erano cresciuti parecchio, e mi piaceva vederli ammassarsi sotto il berretto che portavo calcato sulla fronte e appena storto. Non mi facevo la barba da due giorni, ma non ero male nemmeno così. Anzi, mi era stato detto più volte che una barbetta bionda è molto attraente. Mi accertai di non avere forfora. Il giorno dopo imboccammo l’ultimo tratto di strada per Phoenix. «Devi tenerli a bada» disse Clevenger. «Chi?» «Quelli che ti inseguono, chiunque siano.» Lungo la strada oltrepassammo un ragazzo, ma non aveva con sé una chitarra, e in ogni caso sarebbe stato impossibile per Kyrie arrivare così lontano a piedi in così poco tempo. Dal parabrezza la terra appariva come una distesa d’acqua verdastra, come se il sole si fosse guastato e stesse abbandonando la nostra civiltà invalida, sommersa di luce cristallina. I grembi buoni e i grembi cattivi. La terra curvava. In quel momento rividi casa mia, deserta e buia e silenziosa, con i suoi mobili di John Widdicomb, i vestiti di F.R. Tripler e J. Press, i libri d’arte Rizzoli, i tappeti di W & J Sloane, gli accessori per il camino di Wm. H. Jackson, l’argenteria di Bonniers, i cristalli di Steuben, le scarpe di Banister, il gin House of Lords, le camicie di Gant e Hathaway, lo stereo Garrard, Stanton and Fisher, le cravatte di Countess Mara, gli asciugamani Fieldcrest, qualcosa qui e là di Takashimaya. Pranzammo in una grande tavola calda tutta vetrate a margine dell’autostrada. Fuori erano parcheggiati una decina di tir. Dopo pranzo chiamai casa mia, a carico del destinatario, e rimasi ad ascoltare il telefono squillare nelle stanze deserte. Fu un’esperienza triste e bella, e mi parve di vedere la polvere accumularsi sui tavoli, sui libri, sui davanzali. Ogni cosa era immobile e io vagai per le stanze sfiorando il bordo del caminetto o sfogliando le pagine di un libro aperto sul tavolino in soggiorno. Con la punta dell’indice tracciavo un solco nella patina di polvere che copriva la radio.

Soffiavo sulla tenda della doccia, mi guardavo nello specchio sopra il lavandino e ascoltavo squillare il telefono. Quel libro lo stavo leggendo solo poche settimane prima, e forse vi restava ancora incollata qualche particella eterea, a trasformare quello che all’inizio era solo un dito umido che sfogliava una pagina in un attimo di eternità. Poi le stanze tornarono deserte, anche nei miei pensieri. Non ero più lì, e nulla si muoveva. Restava solo lo squillo del telefono. I camionisti sedevano al tavolo davanti alle tazze di caffè in una specie di delirio trattenuto, uomini che avevano già fatto mille volte quello che si doveva fare e l’avevano capito fin troppo bene. Ci rimettemmo in marcia. Clevenger, al volante, mi indicò un gruppo di dieci o dodici piccole case in una vallata a circa trecento metri dalla strada. Sembravano costruite di legno e argilla. Rallentò e accostò. «Ecco dove sono» disse. «Un anno fa erano tre, quattro al massimo. Adesso ho sentito dire che sono quasi in venti.» «Chi?» «Ragazzini. Più giovani di te. Vivono con gli indiani. Diavolo, non ho proprio idea di cosa combinino. Ho sentito dire che rivendicano il diritto a occupare terre di coltivazione. Quello su cui stanno è territorio del governo, per cui è solo questione di tempo.» «Mi piacerebbe dare un’occhiata. Le dispiace?» «Siamo in un paese libero, ragazzo.» «Forse è meglio se prendo anche la mia roba. Le ho già dato abbastanza disturbo.» «Senti che si fa» disse. «Tu vai pure a dare un’occhiata. Io faccio una scappata a Phoenix e vengo a riprenderti appena possibile. Ho due ebrei da fregare prima che loro freghino me. Non credo mi ci vorranno più di un paio d’ore. Poi ci rimettiamo in viaggio.» «Le ho già dato abbastanza disturbo, signor Clevenger.» «Alza il culo e vai, ragazzo. E chiamami capitano. Al lavoro i ragazzi mi chiamano sempre così.» Scesi per il fianco del terrapieno e attraversai una distesa di lastroni di pietra e cespugli di artemisia. Le casupole erano disposte senza criterio logico e l’insediamento sembrava non avere né centro né piazza principale. C’era gente seduta per terra, due ragazzi e una ragazza bianca che teneva in braccio un bambino indiano. Andai a sedermi accanto a uno dei due uomini. Indossava solo calzoni chiari tagliati sopra il ginocchio, niente camicia né scarpe. «Dave Bell» gli dissi. «Sto dando un’occhiata in giro.» «Io sono Cliff. Questo è Hogue. Lei è Verna, e il bambino si chiama Tommy. O Jeff?» «Jeff» disse l’altro. «Be’, e così vivete con gli indiani. Com’è?» «E’ il massimo» rispose Cliff. «Si sta un milione di volte meglio di ogni altro posto qui intorno. Qui viviamo come persone. C’è tanto amore, anche se a volte è un po’

monotono.» «Loro sono Navajo o che cosa?» «Apache. Esiliati da una loro tribù che sta centocinquanta chilometri più a est. Reietti, più o meno. Si sono rifiutati di diventare allevatori di bestiame come gli altri del loro popolo. Qui ce ne sono soltanto undici, ma ne aspettiamo altri. In tutto siamo diciotto. Ci piacerebbe che loro fossero più di noi. E’ soprattutto un fattore emotivo.» «Non vorrei fare quello che arriva e si mette subito a criticare, visto che di sicuro ne avrete già sentiti abbastanza, ma non capisco cosa pensate di ottenere.» «Non pensiamo di ottenere niente. E’ solo che non vogliamo partecipare al grande festival della morte là fuori.» «Ecco Jill» disse Hogue. La ragazza era molto magra, e sembrava avvicinarsi di sbieco, a piccoli passi e saltelli. Non poteva avere più di diciassette anni. Capelli fulvi, manciate di lentiggini slavate che le sciamavano intorno al naso. Fatte le presentazioni, si offrì di farmi da guida del villaggio. Mi piaceva come scopriva le gengive a ogni sorriso. «Io sono di Trenton, New jersey» disse. «Io di New York.» «Vicini di casa!» Jill indossava una camicia bianca da uomo con i lembi annodati sul ventre e blue jeans tagliati sopra il ginocchio. Entrammo in una delle casupole. Il pavimento era di terra battuta, coperta da un tappeto. C’erano varie stuoie di paglia, un sacco a pelo, coperte arrotolate, una stampa di Matisse appoggiata contro la parete e nient’altro. Dentro era buio e faceva molto caldo. Ci sedemmo per terra. «Sei felice?» le chiesi. «Qui siamo tutti felici. E’ il posto più felice del mondo. E guarda che dico sul serio.» «E gli indiani sono felici?» «Difficile dirlo. Non parlano molto. Ma è evidente che sono più felici di prima, altrimenti tornerebbero ad allevare le bestie.» «Certo che sei giovane per decidere di vivere in questo modo, e non prenderla come critica. Sei scappata di casa?» «Siamo scappati di casa io e mio padre. Mamma ci stava facendo impazzire. Psicodramma ventiquattr’ore al giorno. Io le volevo anche bene e tutto quanto, ma alla fine le cose andavano davvero male. Non faceva altro che bere e fumare e chiamare mio padre in ufficio per urlargli nel telefono. Per cui a un certo punto lui ha smesso di tornare a casa dal lavoro. E dopo un po’ è arrivato a prendermi a scuola, abbiamo portato via da casa tutta la mia roba mentre lei era a fare la spesa, siamo saliti in macchina e siamo scappati. Adesso mio padre è a Tempe, sta cercando di mettere in piedi una lavanderia a secco. Viene qui a trovarmi nei fine settimana.» «Non ti annoi?» «Qualsiasi cosa è meglio che lavorare per i fabbricanti di morte. Qui facciamo il possibile per vestirci tutti allo stesso modo. Cose semplici e belle. Ma non come

un’uniforme. E’ solo una parte della coscienza unica della comunità. Come dire: tutti sono te, e tu sei tutti. In genere qui il sesso si fa da soli. Hai il permesso di guardare un altro o un’altra mentre gioca, e gli altri hanno il permesso di guardare te. E’ molto meglio così, perché c’è molta più purezza, è tutta una cosa sola e poi lo puoi fare con persone diverse senza paura che qualcuno corra a prendere il fucile come succede fuori da qui, nella fabbrica di morte. A volte non si fa da soli, ma in genere sì, altrimenti si fa al massimo in due perché comunque in due resta sempre il meglio. Cosa facciano gli indiani, questo non lo so.» «Senti, Jill, non sono né un giornalista né altro, per cui non c’è bisogno che mi racconti particolari delicati o personali.» «Non preoccuparti» disse. «A te posso dire tutto, perché mi ricordi mio fratello. Lo ha ucciso la polizia.» «Mi dispiace.» «Non preoccuparti. Gli volevo molto bene, ma non ho sofferto. Bisogna superarle certe cose.» «Chi è quel tipo?» «Quello è l’Incredibile Uomo che Rimpicciolisce. A quest’ora di giorno dorme sempre. Di notte se ne va nel deserto. E’ lui che ha fondato questa comunità. Ha tanto amore dentro. Non ci vorrà molto prima che uccidano anche lui. Crede nella verità della fantascienza. Il cosmo è amore. C’è qualcuno, là fuori, e il giorno che impareremo ad accoglierlo invece di averne paura, scopriremo che la sua è una missione d’amore. Si è ribattezzato come un vecchio film di fantascienza. Di notte se ne va nel deserto a cercare gli UFO. Ne ha visti a centinaia. Li abbiamo visti tutti. Siamo nel posto ideale per gli avvistamenti. E’ anche per quello che ha deciso di fondare la comunità proprio qui. C’è una visibilità eccezionale. Per cui è ovvio che lo uccideranno, perché predica amore.» «Io ci credo, ai dischi volanti.» «Ci credono quasi tutti» ribatté. «Ma la gente ha sempre paura di ammettere certe cose. Se riusciamo a imparare ad accogliere invece di aver paura, l’universo intero traboccherà d’amore. Ma il festival della morte e sempre in corso. Questo rende le cose difficili per molti.» «Una volta, al college, conoscevo un ragazzo, che ha fatto proprio come te. Ha piantato la scuola dalla sera alla mattina ed è andato a vivere con gli indiani Havasupai. Ha perso almeno venti chili.» «Loro stanno più a nord. Credo abbiano fattorie e orti.» «Chissà se sta ancora con loro. Leonard Zajac. Un ragazzo davvero in gamba.» «Questa è l’unica comunità fantascientifica.» «Conosco anche un tipo che vuole arrivare in California a piedi» dissi. L’Incredibile Uomo che Rimpicciolisce si alzò puntellandosi sul gomito. Portava bermuda multicolori. Era abbronzato e molto muscoloso, eccezione vivente al vago senso di denutrizione che aleggiava sull’accampamento. Aveva i capelli lunghi quasi fino alle spalle. Ci alzammo per stringerci la mano, e allora mi resi conto che era alto

oltre un metro e novanta, il torace possente e i fianchi stretti. La sua stretta di mano era molto gentile. Mi accorsi che io, invece, stringevo forte. Tornammo a sederci. «Interessante, la cosa che avete messo in piedi qui.» «Gli abitanti della zona hanno paura di noi» disse. «Non si rendono conto che siamo molto più conservatori di loro. Questa è una comunità molto conservatrice. Noi vogliamo rimanere fedeli a tutto ciò che è antico. Terra. Abitudini. Parole. Idee. Purtroppo, molto presto la vita allo stato brado rimarrà solo un ricordo. Atterreranno i dischi volanti e i nostri figli saranno obbligati ad abbracciare le nuove tecnologie. Se per allora non saranno pronti, se non ci assumiamo noi la responsabilità di prepararli, si creerà una confusione pazzesca. Dobbiamo imparare ad accettare i fatti della tecnologia senza tutte le emozioni che provocano, senza la pulsione di morte. Ma presto il grande governo ci porterà via questa terra per installarci silos e missili e laser per tenere lontani gli UFO. Alla fine, il grande governo insabbia sempre tutto. Le armi sono tutte in mano a pazzi isterici. I papponi e i lavacervello acquistano sempre più potere. La soluzione sta nell’indistinguibilità. Nel diventare indistinguibili dal proprio vicino di casa e dal suo vicino e dal vicino del vicino. Il circo della morte sta arrivando in città e l’unica risposta praticabile è il totalitarismo benigno.» «Non sono un giornalista» dissi. «Chiunque tu sia, sei il benvenuto. Qui sono tutti benvenuti. La nostra galassia vive d’amore. Alle nove cantiamo.» «Jill mi dice che hai visto un sacco di UFO nel deserto.» «Lui li chiama oggetti d’amore» disse lei. «Ne ho visti a non finire. Creature della notte messaggere d’amore. Ma non si poseranno finché i tempi non saranno maturi. L’entità è là fuori. Giove e oltre l’infinito.» «Io ho una teoria personale sugli UFO» dissi. «Secondo me non vengono affatto dallo spazio cosmico. Vengono dagli oceani. Dagli abissi oceanici di questa terra.» «E chi li pilota?» chiese Jill. «I delfini.» «Sta solo scherzando» disse lei all’Incredibile Uomo che Rimpicciolisce. Io e Jill proseguimmo insieme la visita guidata. In una delle capanne c’erano alcuni Apache che giocavano a carte. La ragazza di prima, Verna, aveva ancora in braccio il piccolo indiano. Seduti a terra, un gruppetto di otto fra ragazzi e ragazze, tutti in apparenza più grandi di Jill, giocavano a lanciare sassolini. Un ragazzo sui quattordici anni, indiano, sedeva ai margini del gruppo, con accanto due guantoni e una palla da baseball. Io raccolsi uno dei due guantoni, un Luke Appling vecchissimo. Ci sputai sopra e ci battei il pugno un po’ di volte. Il ragazzo si alzò in piedi e insieme ci avviammo con calma oltre l’ultima capanna ad allenarci un po’ alla presa. In un primo momento restammo lontani una decina di metri a tirarci tranquillamente la palla per scioglierci i muscoli. Quindi raddoppiammo la distanza e cominciammo a tirare più forte. Poi il ragazzo indietreggiò di altri tre o quattro metri e iniziò a lanciare sul serio.

Eravamo al limitare del deserto e faceva molto caldo, l’aria secca. Mi sentivo a meraviglia. Il ragazzo era forte e preciso di braccio. Il guantone era ammorbidito dall’uso, non bene imbottito come gli ultimi modelli, e la mano mi bruciava. Il ragazzo si allontanò ancora e io gli tirai qualche parabola che lui mi rispedì senza un attimo di esitazione. Mi tolsi la camicia. Era bello stare al sole, e in faccia, sul collo e sul torace iniziò a sgorgarmi un sudore voluttuoso. Il ragazzo si spostava fra le erbacce e la terra incolta, sollevando nuvole di polvere, ritardando volutamente lo scatto incontro alla palla in modo da prenderla all’indietro o dal fianco opposto. A quel punto la mano mi faceva davvero male e non ricordavo di essermi sentito così bene da anni. Continuai a fare lanci lunghi e alti, prima da un lato e poi dall’altro, e il ragazzo virava e schizzava e retrocedeva sempre con piena padronanza del territorio, schivando i pietroni senza mai staccare l’occhio dalla palla. Il sudore mi colava nell’ombelico: lo asciugavo con la mano destra, poi la strofinavo per terra e toglievo la terra che si era attaccata strofinandomi la mano sui calzoni per poi soffiarci sopra per asciugarla, dopo di che mi allungavo indietro e facevo decollare un’altra lunghissima parabola mirando al centro del sole. I marchi sulla palla erano spariti da tempo. Tornammo al villaggio. Io mi misi la camicia in spalla. Jill ci raggiunse e il ragazzo scomparve. Andammo a sederci per terra, e Jill mi toccò il petto con la punta del dito, poi se lo portò alle labbra. Ci fissammo per un attimo. «Perché si tinge i capelli di blu?» le chiesi. Pura vanità.» «A che scopo?» «A scopo di vanità» rispose. « E’ stupido che una persona reprima la propria vanità. Fai l’amore con il tuo corpo e ucciderai la morte che lo abita.» «Ci sono alcune incongruenze qui.» «Secondo me ha dei capelli bellissimi. Perché non dovrebbe tingersi i capelli di blu se vuole? Ti senti forse minacciato in qualche modo? Sul serio, che male ti fa? Se ti permetti di essere quel lo che vuoi essere, fisicamente e spiritualmente, puoi davvero uccidere un bel po’ della morte dentro di te.» «Mi piace imparare da quelli più giovani. E’ come dire che non sono una causa completamente persa.» «Io non potrei mai insegnarti niente» disse. «E non potrei mai arrabbiarmi con te. Non solo per la questione di mio fratello. E’ che sei talmente bello.» «E questo lo trovi importante.» «Bellezza e gioventù sono sempre importanti. Sono le due cose che gli sbirri della morte odiano di più. Vogliono ammazzarci e fotterci nello stesso tempo.» «Devo ammettere che è un personaggio di una certa presenza. Senz’altro gli indiani lo considerano un dio.» «Gli indiani lo considerano un frocio» disse Jill scoppiando in una risatina, poi si tirò uno schiaffo da sola sul polso mo’ di punizione. «Ti si vedono le gengive, quando sorridi» dissi. «Mi dà un piacere tale che sarei

disposto a uccidere.» «Prima, quando ti ho toccato, mi sono sentita addosso tutti i brividi.» «Fallo ancora.» «Meglio di no» ribatté. «Hai gli occhi color nocciola.» «Vuoi restare con noi?» «Non so. Forse è meglio che mi rimetta in marcia. Sto cercando di sfuggire a me stesso.» «E’ un periodo di quelli che hai voglia di suicidarti?» «Non credo.» «Perché forse mio padre ti potrebbe aiutare. E’ uno fantastico. E’ per quello che mia madre sfoga su di lui tutti gli istinti repressi.» «Mi hai guardato, mentre mi allenavo con il ragazzino?» «Fan-taastico.» «Il baseball è bello e pigro. La versione americana del passare la giornata al caffè. Si rimane lì seduti e non succede niente. Ne vado pazzo. La stagione è ormai a più di metà. Se fossimo nel 1955, potrei sedermi in tribuna al Polo Grounds a guardare i Giants che giocano contro i Cubs. E mi troverei circondato da vecchietti in canottiera con il torace incavato e i calzoni rimboccati fin sopra le ginocchia puntute. Vuoi sapere che effetto fa? Come una grande spiaggia alla fine del tempo. Jill, con quegli occhi nocciola mi distruggi. E’ bello stare qui seduti. Un momento di chiacchiere davanti alla nostra tazza di tè stantio. Di questi tempi ormai la fatica è un lusso.» «Rimani qui» disse lei. «Deve venire una persona a prendermi. Mi stupisce che non si sia ancora fatta vedere.» «Questa è una parte del mondo» disse lei «in cui non sempre la gente si fa vedere.» Tornammo alla capanna. L’Incredibile Uomo che Rimpicciolisce era fermo di fronte all’ingresso, alto quasi quanto la struttura di legno, con addosso solo i bermuda, la pelle color rame intenso, i capelli blu sciolti sulle spalle, i muscoli tesi nelle braccia. Era uno spettacolo da lasciare attoniti, e nell’avvicinarci a lui mi tolsi la camicia dalle spalle e la infilai. Più tardi venne a cercarmi il ragazzino Apache, e ci lavammo tutti insieme con la spugna dietro la sua capanna e poi tutti si radunarono intorno ai falò a mangiare hamburger e pannocchie. Una ragazza intonò canzoni del vecchio West con la chitarra, e Clevenger non si vedeva ancora. Nella penombra ai margini dei falò io baciai la piccola Jill e le toccai il seno appena sopra il cuore che pulsava piano, e lei mi sfiorò il polso con la punta del dito. L’Incredibile Uomo che Rimpicciolisce si avventurò nel deserto a celebrare l’infinito, nani bianchi e stelle binarie che procedevano nel cosmo a passo di valzer, i prodromi narrativi dell’odissea nello spazio. Io, Hogue e Jill ci ritirammo per la notte nella capanna con la stampa di Matisse. Dentro era acceso un fuocherello. Hogue ci raccontò della sua vita in Canada e in Messico, prima la caccia all’oro e poi la ricerca di Dio, e poi il vuoto assoluto; proprio nei dintorni di quell’accampamento era venuto in

cerca d’oro suo nonno, un pistolero che non disdegnava la carne di mulo, ma suo padre, pavida progenie dei giorni passati a setacciare acqua aurifera, aveva finito per aprire una ferramenta. Noi tre eravamo stesi ben lontani uno dall’altro. Dopo poco il fuoco si spense, e allora pensai che lei mi sarebbe venuta incontro nel buio, la piccola indiana Mescalero lentigginosa e profumata di cuoio e artemisia. Ma non venne affatto. E mi risvegliai all’alba per vedere l’Incredibile Uomo che Rimpicciolisce rientrare nella capanna, nudo e sporco del sangue del serpente a sonagli che stringeva in mano. Jill si alzò per andargli incontro, e insieme uscirono in silenzio per dirigersi verso il luogo in cui si compiono le abluzioni dell’uomo all’alba dei tempi e alla fine dei tempi. La Cadillac aspettava. Avevamo appena finito di pranzare e Jill mi accompagnò alla strada. Clevenger era fuori dalla macchina, un nuovo paio di stivali ai piedi, che fumava un cigarillo. Jill mi salutò in fondo al terrapieno e io le chiesi di aspettare un momento. Tirai fuori le mie valige dal baule, le svuotai e stipai in una delle due quasi tutti i vestiti che mi rimanevano, poi gliela spinsi giù. «Questa roba la puoi rivendere per comprarti da mangiare.» «Non andare via» disse lei. «Il mondo è brutto, là fuori.» Per la prima volta da quando avevo incontrato Clevenger, ci stavamo dirigendo a est, a sudest, e se mi pareva meno felice di prima forse dipendeva solo dagli stivali nuovi, ancora troppo stretti. Mi chiese di prendergli gli occhiali da sole nel cassettino del cruscotto. Dentro c’era una rivoltella a canna lunga, probabilmente una 45, e nel vederla mi chiesi ogni quanto si esercitasse al poligono di tiro o fantasticasse di sparare dalla macchina in corsa, stendendo coyote, indiani o utilitarie di fabbricazione straniera. E in quel momento, due volte schermato dal sole, con il parabrezza affumicato e gli occhiali scuri, era come genuflesso nella propria chiesa personale: mi resi conto che proprio per quello ero con lui, per cercare l’estremo assoluto, la bibbia come arma, la ricerca ostinata dell’uomo timorato di Dio che insegue il fanciullo capace di turbare gli anziani del villaggio. Clevenger guidava con una mano sola. «Dovrebbero trascinarli fuori nel deserto e prenderli tutti a frustate.» «Non danno fastidio a nessuno» dissi. «Quella dove stanno è terra demaniale.» «E allora?» «Ehi ragazzo, ti hanno convertito, vero? Cip cip cip. Non posso darti torto. Ho fatto il possibile per tornare a prenderti ieri sera, ma i maneggioni trafficavano, e i trafficoni maneggiavano. Un bel casino, proprio. E poi c’era quella donna.» «Non si preoccupi» dissi. «Chiamami capitano.» «Non si preoccupi, capitano.» «C’era quella donna. Un bel vasetto di sciroppo caldo. Odio l’idea di dover tornare. Lo schifoso polmone bucato d’America. Ma non c’è problema. Mettiamo in piedi un’orgetta. Ehi, lo vedi quel burrone laggiù?» «Non ci sono mai stato, in Texas.»

«Non stiamo andando proprio in Texas. In realtà non stiamo andando proprio da nessuna parte. L’hai visto quel burrone che abbiamo appena passato? Quello è un pezzo di storia locale, quel punto. Mi mette sempre di buonumore ripensare a quello che ci è capitato. Ovvio che magari a qualcun altro non è parso tanto divertente.» «Ti ascolto» dissi. «Be’, c’era una ragazza, sui ventun anni. Una piccola dolce studentessa. La ragazza passa la notte con un uomo sposato. Il giorno dopo torna a casa e racconta tutto a mamma e papà. Non chiedermi perché. Forse solo per godersi la faccia che avrebbero fatto. Loro decidono che la piccola ha bisogno di una lezione. La famiglia al completo sale in macchina e arriva nel deserto, proprio lì dove siamo appena passati. Tutti e tre più il cagnolino della ragazza. Paparino ordina alla ragazza di scavare una fossa. Mammina si inginocchia e prende il cane per il collare. Quando la ragazza ha finito di scavare, paparino le allunga una rivoltella calibro 22 e le ordina di sparare al cane. Proprio una scenetta familiare commovente. Da farci un calendario per qualche gruppo religioso. La ragazza si punta la pistola alla tempia e si spara. Ecco, non è proprio una stramaledetta storiella che scalda il cuore? Mi restituisce fiducia praticamente in tutto.» «Questo è l’unico paese al mondo in cui la violenza fa ridere» dissi. «E secondo te di cosa hanno accusato i genitori? Di cosa, secondo te? Avanti, prova a indovinare.» «Non saprei. Omicidio colposo?» «Ma quale omicidio, cazzo. Di maltrattamenti agli animali. Deliberato scopo di uccidere, ferire o arrecare danno, o comunque mancata resistenza all’uccisione, al ferimento o danneggia mento di uno stupido cane. E’ quello che mi fa piegare in due. E’ quello l’insulto finale.» Clevenger scoppiò a ridere, l’urlo del ribelle consumato, un bisillabo che era al tempo stesso richiamo al corteggiamento, urlo di battaglia e latrato dell’anima che trova la salvezza a un ritiro di preghiera. Non riuscivo a capirlo, Clevenger. In lui c’erano ombre che finivano sempre per oscurare le mie aspettative sul suo conto. Letteratura. Cinema. Continuammo a solcare la terra squamosa, ed era come insinuare una lingua tra le ossa dei muli e l’avidità, e tutti i cartelli indicavano la direzione per i monumenti nazionali: Organ Pipe, la Casa Grande, Saguaro, Chiricahua, il Gila Desert, White Sands, tentativi generosi di imbalsamare il mistero secolare degli abitanti delle montagne, e gradualmente ci addentrammo nella sera, la cresta del sole calante nel finestrino posteriore, la gentile minaccia della nostra terra, i pipistrelli in volo sopra le capanne mormoranti degli asceti e il canto ineffabile della morte in mezzo alle colline. Letteratura. Parlai a Clevenger dell’Incredibile Uomo che Rimpicciolisce, di quanto era alto e possente, dell’energia della sua presenza. «Non ho ancora visto in vita mia l’uomo su cui le pallottole rimbalzano.» In un momento imprecisato della notte, affacciandomi a una finestra che dava su una piscina azzurra, mi tornò in mente la volta che ero passato davanti al Waldorf, poi alla Saint Bartholomew e al grattacielo della Seagram, e avevo visto dall’altra parte della

strada una ragazza deliziosa vestita di verde chiaro ferma davanti alla vetrina della concessionaria Mercedes-Benz, nella Cinquantaseiesima. Era una sera d’estate, un venerdì, e la città iniziava a svuotarsi. Avevo attraversato l’aiuola spartitraffico e mi ero fermato a guardarla. Aspettava qualcuno. La luce violetta del tramonto in Park Avenue calava lentamente tra le vetrate dei grattacieli. Il traffico rallentava e il belato leggero dei clacson pareva alzare semitoni nostalgici nell’aria pesante del crepuscolo. C’era come un’atmosfera tropicale, voluttuosa, di frutta appena colta, e anche un’aria di mare, come una promessa che si dispiegava seguendo maree di aria insaporita dai fiumi e dalle baie, aria di amache negli attici signorili e piante verdi gigantesche, un uomo e una donna che guardavano la città inabissarsi nei crateri musicali da cui era nata. E la donna era ferma accanto alla vetrina, non proprio di fronte a me, bionda e slanciata, tanta elegante velocità imbottigliata dietro di lei, tutta barre di torsione nascoste e freni a disco, la straordinaria compostezza dei macchinari di precisione, e il suo corpo, nel momento in cui si era voltata, sembrava sciogliersi nel vetro increspato di immagini. Non c’era altro, ed era tutto. «Se non ci muoviamo in fretta saremo nei guai» disse Clevenger. Si stava infilando gli stivali al buio. Aveva dormito solo un paio d’ore, dopo aver guidato per quasi settecento chilometri, e quando uscimmo era ancora notte fonda. Clevenger disse che la notte prima non aveva dormito affatto e gli erano bastati un asciugamano caldo, una bella rasata e un buon sigaro rinsecchito per mantenersi vigile. Io accesi la radio portatile, e ci ascoltammo in silenzio il Reverendo Pollicino Goodloe, un predicatore-cantante country che ululava da una stazione di El Paso. A Clevenger si dipinse in faccia un sorriso. «Adams, dico io. Aldrich, dico io. Andrews, Armstrong, Bancroft, Barton, Bennett, Box, Brown, Bryan. Datemi un Calder. Datemi un Carpenter, che va tutto a meraviglia. Datemi Cartwright, Cassidy, Cole, Cooper, Curtis, Dale, Dixon. Voglio un Elliot, nella mia squadra. Fowler è l’uomo giusto per me. Voglio Benjamin Cromwell Franklin. Voglio Calvin Gage. Voglio Albert Gallatin. Voglio Gant, Gillespie, Gray, Green, Hale, Hamilton, Hawkins, Hunt, Ingram, Jackson, Jennings, Jones, Kenyon, King, Lambert, Lane, Lawrence. Lewis, dico io. Lightfoot, dico io. Lindsay e Logan. Love, Marshall, Martin. Maxwell, dico io. McClelland, McCoy, McKay, Mercer, Mitchell, Moore, Nabers, Nash, Orr, Pace, Parker, Patton, Phillips. Voglio sentire i nomi giusti, come Powell, Proctor, Reed e Reese. Voglio sentire Rhodes, Robbins, Rockwell, Russell, Sanders, Scott, Slayton. Voglio sentire i bei nomi di una volta, come Smith, Stilwell, Taylor, Thompson, Tindale. Voglio dalla mia parte la brava gente. Trask, Turner, Tyler, Wade, Walker, White, Williams, Yancey, York, Young. C’erano tutti, fino all’ultimo, a issare la bandiera con la stella. E perdio, con loro c’era anche un Goodloe. Robert Kemp Goodloe. E io non ero straniero in patria.» «Di che sta parlando?» domandai. «Si diverte a elencare i nomi incisi su uno dei monumenti del cimitero per i caduti della battaglia di San Jacinto. La guerra contro i messicani. Sam Houston. L’Esercito

della Repubblica Texana. Si diverte a escludere tutti i nomi stranieri.» «Le parole semplici della gente semplice. Solo un ragazzo, ma un ragazzo con una canzone dentro. Solo un povero figlio della patria, ma un figlio con un inno nel cuore. Modesto agricoltore e suonatore di banjo, ma tutto il Texas è la mia casa, e nessun angolo del Texas mi è straniero.» «Si sta scaldando» disse Clevenger. «Se incontrate un uomo di cui non riuscite a pronunciare il nome, quell’uomo è straniero; e se non vi guarda negli occhi, è nei guai davvero.» «L’inferno puro, eh?» «Ventre molle e bianchiccio. Passate parola, ditelo ai buoni vicini di casa, di tenere in volo la palla. Ditegli che queste parole le avete sentite pronunciare da Pollicino Goodloe, l’evangelista di mezzanotte, ventisei anni e già in marcia per la gloria. Ora, quali sono le parole in questione? Le parole in questione sono ventre, molle e bianchiccio. Diffondetele, amici. Ditelo a tutti, che siamo troppo molli e gentili e che dobbiamo farla finita con tutta la gente che bestemmia la nostra cristianissima nazione con i suoi fischi da gradinata e i suoi farfugliamenti incomprensibili, come una setta islamica uscita da un film. Dobbiamo mandare in campo i difensori. Crrristo Gesù non era affatto straniero in patria. Lui parlava la lingua. Mangiava la sbobba. Si sentiva a casa. Adesso il nostro buon ingegnere, il signor Dale Mulholland, mi sta segnalando che è ora di cantare un po’, e io chiedo a ciascuno di voi che mi seguite da casa di cantare con me dovunque siate, sotto le lenzuola o in cucina a prepararvi lo spuntino di mezzanotte o qualunque cosa stiate facendo in questo istante. Verrete anche voi alla sacra dimora? Chi sa la risposta, canti con me. Chi non la sa, gli conviene scoprirla. Ma prima una pausa per leggervi questo annuncio pubblicitario.» Non riuscivo a capire cosa ci fosse di tanto divertente, ma Clevenger sbandava sulla carreggiata e picchiava i pugni sul volante dal ridere. Io cambiai stazione, abbandonandomi esausto sul sedile. Dieci minuti più tardi, un deejay ispanico concluse le trasmissioni in una scarica di elettricità statica, e pochi secondi più tardi l’etere notturno venne attraversato da un’altra voce. «Pazzi, falsari, farisei e mascalzoni. E’ Beasley la Bestia che vi parla, per l’ultima ora di “La morte è dietro l’angolo”. Chiacchiera filosofica. Una passeggiata per Via della Lobotomia. Qualche sacca di aria morta ogni tanto. Mi sono appena reso conto, come accade a fanatici e ubriachi, che non avrete più bisogno ancora per molto di questa mia personale forma di verità. E’ in programma la distribuzione di droghe per soppiantare i mass media. Il terrore bruciante che provate di notte e di prima mattina lascerà il posto a un’estasi cupa e opprimente. Potrete finalmente aspirare a liberarvi da ansie, sofferenze e felicità grazie alle droghe. Endoparassiti di tutto il mondo, potrete anche voi conficcare gli scolici nelle pareti intestinali del tempo. Ma sentirete la mia mancanza. Pillole e caramelle magiche non potranno mai surrogare l’amore transistorizzato che passa fra me e voi nella notte selvaggia. Io costruisco palizzate con le riflessioni malsane. Ma continuiamo, cari cavernicoli cloroformici, procediamo nei misteri e nei massacri. Oggi

mi è capitato di incrociare un vecchio amico, Lothar Nobo, già conosciuto con il nome di George Jefferson Carver Eleanor Roosevelt III. Non c’è dubbio che perfino ai più barricati di voi sia giunta la notizia che Lothar Nobo, ora come ora, è il primo portavoce dell’orgoglio virile afroamericano in tutta la nazione, almeno finché non verrà annunciata la “top forty” della prossima settimana. Ho conosciuto Lothar l’anno scorso alla J. Edgar Hooverplatz di Berlino Ovest, dove eravamo tutti e due per partecipare al grande rogo librario internazionale. Se non ricordo male, Lothar ha rilasciato alla stampa certe dichiarazioni alquanto denigratorie che avevano per oggetto le parti intime del nostro riverito capo di Stato, il signor H.C. Porny. Ma non ho voglia di parlarne. Di punto in bianco mi è venuta voglia di discutere di cose più garbate. Basta con le oscenità. La mia vita è sopraffatta da prurigini di redenzione. Dovunque vada, ritrovo i frutti delle mie fatiche notturne. Ora che la storia mi ha assolto, e con formula piena, credo che mi piacerebbe proprio andarmene lontano, molto lontano: nelle isole Aran, o nel Sahara o in qualche villaggio in cima all’Himalaya. Un luogo in cui situare il mio corpo ormai stantio, nonché il mio cervello pagato fior di dollari, per affrontare i cani selvatici della natura. Mare, deserto e montagna. Che Eldorado neosantificato di solitudine. Che stupore mi si legge in viso, quando emergo dalla mia capanna indiana fatta di erba e terra e mi ritrovo di fronte non i signori sussiegosi e le dame imbalsamate della Sessantaquattresima Strada, ma un gigantesco yak mefistofelico che vaga in mezzo alla neve. Sto girando la mia ruota da preghiere di Harry Winston. O forse mi ergo al di sopra del mare tempestoso, gentile nativo delle Aran, a sputarmi in faccia da solo. La salvezza temporale. Forse in solitudine sarei in grado di reggere uno o due pensieri degni di questo nome. Matematica desertica pura. Allontanarsi da questa pozzanghera radioattiva. Mi sento la pelle secca e squamosa. Ho la lingua patinata di isotopi. Le estremità del corpo, tutte, stanno diventando bluastre. Il deserto contiene ogni segreto. Linee che si intersecano nella sabbia. Dove siete e quel che siete. Il beduinismo, in tutto il suo humor da padella per malati. Il buckmulliganismo con il suo bacile di schiuma. Ho un arabo irlandese che mi vive nell’orecchio interno e mi annuncia personalmente notiziari, previsioni del tempo e cronache sportive. Educato dai Gesuiti, indossa il meglio che il dogma può comprare. A proposito di vestiti, forse può interessare a tutti gli eunucoidi che fanno tendenza sapere che oggi pomeriggio quando ho incrociato Lothar Nobo sulla Cinquantatreesima, all’uscita del Museo del Commercio Moderno, portava una criniera di leone di Sassoon, tuta di leopardo e stivali con la zeppa in pelle di cobra reale. Al collo aveva una collana di perline con la testa rinsecchita di un ex poliziotto di Oakland come pendaglio. Ci siamo stretti calorosamente la mano e lui mi ha rivolto il saluto del Black Power ora in voga: mignoli intrecciati e pollici in basso, saluto d’elezione per i membri di una tribù nomade dell’Algeria centromeridionale che venerano l’occhio mistico stampato sul retro delle banconote americane. Bando ai commenti, ora vi leggerò il messaggio che Lothar mi ha consegnato in quell’ultimo nostro incontro. Aperte le virgolette. Colgo l’occasione per ricordare ai guerrafondai bianchi stupratori imperialisti assetati di potere che hanno esattamente ventiquattr’ore di

tempo per andarsene dall’Africa, dall’Asia, dal Sud e dal Centroamerica, dalle Indie Occidentali, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. La mancata osservanza di questo ultimatum darà il via a uno spaventoso bagno di sangue planetario in confronto al quale la Seconda guerra mondiale vi sembrerà un picnic di quaccheri a New Harmony, nell’Indiana. Chiuse le virgolette. La costruzione di giungla e deserto, retorica su retorica, alle prime tenebre dell’alba. Per scolpire a colpi di martello i bronzei nomi. Anche conosciuti come: Ahmed Abu Bekir. Halil Rassam. Shafik Bey. Imam el-Mahdi. Kwame Mwanga. Majid Said. Hassan Karami. Rashid Nimr. Muhammad Lateef. Mustapha al-Attassi. Dugumbe Ujiji. Ismail bin Salim. James Lumumba. AbdulRahman Alami. Yakoub Mahmoud. Si navigava verso Shafik Bey / ma un rumore a babordo / ci mozzò il respiro. Piccoli ineffabili miei, mostriciattoli e trogloditi del mio cuore, so che trovate un che di nobile nel suono di questi nomi desertici. Di giunchi e scimitarre. Ecco, mi fa tremar il petto la risata dello spigoloso Sassone. Cioè quel che sono. Carne in triplice copia della sequenza graduata. Estratto dell’ultimo e finale ripensamento. Il figliolo archiviato e registrato nella sottostringa temporanea. L’immagine trasmessa per sfumature numeriche. L’attivazione standardizzata del tabulatore in codice. Io sono l’incredibile Mandrake. E mi accorgo in questo momento che dobbiamo fare una pausa per trasmettere un annuncio registrato di importanza cruciale per chiunque si trovi nel raggio di portata della mia voce. Nel frattempo, non fate nulla che possa pregiudicare l’incesto nazionale.» Il circuito di prova era una pista circolare nel deserto lunga quindici chilometri. Stava sorgendo il sole, e noi eravamo parcheggiati su un cavalcavia a guardare le auto e i camion che sfrecciavano sotto di noi. Clevenger disse che il traffico era sempre lo stesso ventiquattr’ore al giorno, sei giorni la settimana, in qualunque condizione atmosferica. Ogni tanto a qualcuno prende un colpo di sonno, continuò Clevenger, perde il controllo, finisce fuori strada, cappotta sei o sette volte e muore nel veicolo in fiamme. I camion non cappottano spesso come le macchine, continuò, ma pare brucino molto meglio. Poi disse che era giunto il momento per lui di farsi vedere in ufficio, ma prima fece il giro del circuito, quindici chilometri rapidissimi, l’ultimo sprint verso il traguardo, con la lancetta del contachilometri che vibrava sui centonovanta. Mi chiesi come mai avesse deciso di fare tappa lì prima di andarsene a casa. In ufficio mi mostrò alcuni prospetti spiegandomi brevemente come funzionavano le cose. Aveva dodici dipendenti più o meno stabili: quattro bianchi, due neri, sei messicani. Il lavoro era organizzato in modo che i messicani si occupassero principalmente di guidare, i neri di cambiare pneumatici, i bianchi del bilanciamento e della pressione, della perdita di aderenza e di tutto il resto. Gli dissi che avrei preferito guidare e cambiare pneumatici, al che lui mi fissò con rabbia nei confronti di tutti gli abitanti del Nord, con i loro stupidi sensi di colpa e la loro innocenza cretina, anche se non mosse la testa di un millimetro e neppure gli occhi: almeno così mi parve. Poi si mise a leggere la posta e per un bel pezzo non ci scambiammo parola. Fuori

continuavano a passare macchine e camion, nella pianura ininterrotta fino a una catena montuosa azzurrina in lontananza. Io dissi che c’era aria di pioggia. «Chiunque cerchi di prevedere che tempo farà nel Texas o è forestiero o è deficiente.» «Giusto» dissi. Davanti alla finestra un uomo sorseggiava una bevanda calda da un bicchiere di carta e Clevenger uscì a dirgli qualcosa. Io telefonai a Warren Beasley a casa. «Per vincere il primo premio di ottocentoquarantamila dollari in contanti, è in grado di dirci il nome dell’uomo, o della donna, che giocava in terza base per i Philadelphia Phillies nell’esatto istante in cui James Mason si è immerso in mare per salvare la carriera a Judy Garland?» «Non tratto mai di soldi senza i miei avvocati» rispose. «Chi parla?» «David Bell. Ho ascoltato il tuo programma un paio d’ore fa. Sono sperduto nel mezzo del nulla. Mi sei sembrato poco spiritoso, con quel discorso sui militanti neri. Perché non vuoi lasciargli il diritto di avere i nomi che preferiscono? Ti ho svegliato?» «Tanto non riuscivo a dormire» rispose. «Comunque mi ha fatto piacere sentire una voce familiare.» «Sono d’accordo. Ho ascoltato anch’io il programma alla radio e mi ha risollevato non poco il morale.» «Non ti seguo, Warren.» «Era registrato. Sono tre o quattro mesi che registro. Farlo in diretta era troppo estenuante.» «Avrei dovuto immaginarlo» dissi. «Davvero, avrei dovuto immaginarlo. Siamo tutti registrati. Registrati. Tutti, dal primo all’ultimo.» «Mi spiace di averti imballato i tuoi circuiti delicati, Trip. Ma ti assicuro che così è molto più pratico. Posso registrare un paio di trasmissioni alla volta e prendermi un giorno libero ogni tanto.» «Era meglio nell’altro modo, Warren.» «Solo ontologicamente. Anche se devo ammettere che da quando ho deciso di registrare non sono più riuscito ad avere una notte di sonno come Dio comanda. Secondo me è colpa più che altro di mia moglie. Le prime quattro soffrivano di insonnia. Di conseguenza, ho dormito come un neonato per tutti quegli anni. Sai, ho un metabolismo regolato su polarità assai complesse. Invece la stronza del momento è sempre dietro a ronfare. Sembra un serpente addormentato nell’acqua tiepida. Di fronte a una forza del genere, sono completamente impotente. E quando riesco finalmente ad appisolarmi un minuto o due, ecco che ritorna il sogno della tenia. Erano anni che non la sognavo più. Senti, Trip, vieni qui a farti un paio di Bloody Mary con me. Ce ne stiamo seduti accanto al letto a guardare lei che dorme. Ogni mattina, verso quest’ora, fa tutta una serie di giochini con le dita. Se arrivi in fretta riesci a vederla anche tu.» «Warren, non sono a casa. Sono in Texas, maledizione.» «E quando è successo?»

«Non lo so» risposi. «Me ne sono andato qualcosa come cinque settimane fa. Ho anche perso il posto.» «Ecco, sta cominciando proprio adesso.» «Ciao» dissi. Uscii dall’ufficio, e Clevenger mi presentò due bianchi di nome Lump e Dowd. Disse che sarebbe andato a prendere le donne non appena Peewee si faceva vedere. Andammo tutti in garage. Al centro dello stanzone di cemento c’era un camioncino con il cassone ribaltabile, con decine e decine di pneumatici accatastati contro il muro. Dappertutto c’erano bilance e strumenti di misurazione, stracci, cric, ferri a T, carburatori, cerchioni, coprimozzi, marmitte. Lump entrò reggendo contro i fianchi due casse di bottiglie di birra. Lump e Dowd andarono a sedersi su un copertone. Clevenger si sistemò sul paraurti del camion. Io mi appoggiai al muro. Cominciammo a bere. Erano le sette del mattino. Bevevamo a canna. A quell’ora del mattino la birra faceva veramente schifo, ma non dissi una parola. Gli altri trangugiavano al doppio della mia velocità. Dowd ne mandò giù un mezzo litro e poi disse che forse era meglio se usciva a farsi una pisciata reale, al che tutti scoppiarono a ridere. Restammo a bere birra per circa un’ora, e ciascuno di noi, a turno, diede spettacolo agli altri mettendosi sul grande portone del garage a pisciare fuori sulla ghiaia del piazzale. Quando toccò a me, vi furono grandi risate e applausi, come se grazie a quel semplice gesto fossi diventato parte di una mitica comunanza. Mi scoprii molto soddisfatto della loro benedizione. Poi arrivò Peewee con una bottiglia di bourbon e cominciammo a passarcela. Dalla vetrata vedevo le macchine e i camion in corsa sul circuito, a fari spenti. Clevenger andò al telefono alla parete, parlò a voce bassa e inespressiva per non più di dieci secondi, poi riappese. Dowd chiuse la saracinesca del garage. Le donne arrivarono mezz’ora dopo. Erano tre, tutte messicane. La più giovane chiese dov’era Danny Boy e Clevenger rispose che Danny Boy era in galera, senza più l’occhio destro. Dowd si portò la cicciona nell’abitacolo del camion e lei si sdraiò di schiena alzandosi il vestito. A Dowd scivolò il ginocchio sotto il sedile e si accasciò sulla gamba di lei finendo sotto il cruscotto. Noi eravamo piegati in due dal ridere. Lui strisciò fin sulla pedana del camion e si buttò a terra, ridendo e vomitando con il piede ancora incastrato nel predellino. Lump lo scavalcò, si sbottonò i calzoni e si mise sopra la donna. Clevenger si spogliò completamente, si rimise gli stivali e disse alla più giovane di sedersi su uno dei copertoni accatastati contro il muro. Lei si alzò il vestito, e Clevenger si mise a quattro zampe e vi infilò dentro la testa. Peewee aveva bloccato l’altra contro il muro, le morsicava i seni scoperti e cercava di penetrarla. Io trascinai Dowd dietro il camion, e quando fui ben certo che nessuno ci guardava, gli assestai un potente calcio nelle costole. Poi finii il bourbon e rovesciai un po’ di birra in testa a Lump. Lui scoppiò a ridere e continuò a darci dentro. Peewee si lasciò scivolare giù lungo le gambe della donna. Vidi il culo di Clevenger, e più su la ragazza che mi fissava infilandosi le dita nel naso. Peewee era per terra, avvolto intorno alle gambe dell’altra e

la mordeva, con i pantaloni calati a metà. Lump uscì dal camion, si spogliò e prese una bottiglia di birra. Clevenger uscì da sotto il vestito della ragazza e salì nel camion a mettersi sopra la cicciona. Le disse di spogliarsi, ma lei rifiutò e lui scoppiò a ridere. Lump lanciò la bottiglia contro il muro. Vidi Dowd avvicinarsi strisciando, e allora lo aiutai a rialzarsi e lo spinsi verso la più giovane. A metà strada, lui crollò a terra. La ragazza era ancora seduta sul copertone, e Lump si avvicinò a infilarle la testa sotto il vestito. Tirai un calcio a Dowd. Peewee aveva tolto le scarpe alla ragazza e le strattonava il piede per infilarselo dentro i pantaloni. Lei abbassò lo sguardo su di lui e scoppiò a ridere, e poi rise anche lui e la ragazza gli si buttò addosso e si gettarono a terra insieme, ridendo e tirandosi i capelli, mordendosi, rotolandosi. Io non riuscivo a riaprire la saracinesca del garage, e allora vi appoggiai la testa, sentendomi precipitare. Volevo schiantarmi a terra, lo volevo davvero, ma per qualche motivo non meglio specificato ero ancora in piedi, la guancia contro la saracinesca gelata. Clevenger mi batteva la mano sulla spalla ripetendo continuamente “ventre molle e bianchiccio”. Mi girai e vidi la cicciona rovesciare addosso a Dowd una bottiglia intera di birra. Peewee si era rialzato in piedi e si era infilato un tubo di ferro in mezzo alle gambe, fra le risate generali. La ragazza più giovane era di nuovo seduta dentro il copertone. Lump pisciò contro la parete. Dowd si rialzò, abbracciò la cicciona e vomitò di nuovo. Lei gli tirò un pugno in faccia, poi un altro, facendogli male sul serio, e tutti scoppiarono in grandi risate. Peewee si era spogliato. Raggiunse la ragazza più giovane strisciando e le infilò la testa sotto il vestito. Clevenger mi disse di stare attento alla cicciona, che aveva la fica con i denti. La cicciona e l’altra ragazza andarono a sedersi sul predellino del camion a spartirsi una bottiglia di birra. Dowd, di nuovo a terra, disse che toccava qualcosa anche a lui. Si avviò barcollando verso le due donne, cercò di raddrizzarsi, perse l’equilibrio di nuovo e andò a sbattere la testa contro il bordo del paraurti. Lump era in piedi nel proprio piscio. Andai da Peewee, lo presi per le caviglie e lo trascinai via dalla ragazza giovane. Lo trascinai per terra a faccia in giù. Clevenger gli rovesciò addosso una birra. Andai dalla ragazza seduta dentro il copertone, le sollevai il vestito sui fianchi e le infilai la faccia in mezzo alle gambe. Lei allargò le cosce e poi le richiuse, bagnandomi le orecchie, e io cercai di infilarle dentro la lingua, a fondo, sentendomi di nuovo lì lì per svenire. Lei mi batteva piano sulla testa. Qualcuno mi trascinò via da lei, e allora mi diressi verso la cicciona cercando di sfilarmi la camicia, giusto la camicia. Arrivò prima Clevenger. Si allontanarono insieme verso il retro del camion, e dopo un po’ riuscirono a salire. L’altra ragazza mi spinse a terra, mi venne a cavalcioni, mi sbottonò la camicia e me la tolse, poi iniziò a sfilarmi la cintura. Vedevo benissimo Dowd. Era ancora fuori combattimento, ma non c’era sangue intorno. La donna mi aveva preso l’uccello in mano, cercava di infilarselo dentro. La tirai verso di me e la baciai, e alla fine lei mi lasciò andare e si limitò a starmi distesa addosso, spostandosi da un lato all’altro e leccandomi la faccia. Poi mi si mise di nuovo a cavalcioni, e allora mi resi conto che mi stava pisciando sul torace e sul ventre. Alla fine si rialzò e andò a sedersi sul predellino a bere altra birra. Mi misi in ginocchio e mi riallacciai la cintura. Poi vomitai. Lump era

con la testa sotto il vestito dell’altra ragazza. Peewee era per terra che si fumava una sigaretta. Mi avvicinai strisciando e gli chiesi un tiro, anche se non fumavo da anni. Ci sedemmo fianco a fianco a dividerci la sigaretta. Clevenger scese dal camion, si tolse gli stivati, si rivestì e rimise gli stivali. La cicciona rimase nel retro del camion e l’altra le allungò una bottiglia. Clevenger andò a telefonare. Lump sbucò fuori dal vestito della ragazza e pisciò addosso a Dowd. La ragazza rimase seduta dentro il copertone. Poi Clevenger uscì da una porta laterale. Io lo seguii e tirai fuori la mia valigia dalla macchina. Lui disse che sarebbe tornato entro mezz’ora. Rimasi a guardarlo mentre faceva un giro sul circuito. Lo percorse tre volte, a velocità quasi doppia rispetto ai camion e alle altre macchine. Fissai quel cerchio enorme di asfalto, quindici interminabili chilometri, una struttura abbandonata da un popolo impazzito o forse solo infantile. Per un attimo mi tornarono in mente Warburton e il suo ultimo promemoria, e allora cominciai a rimescolarmi nei pensieri l’alfabeto e finalmente i pezzi andarono al loro posto: tre nomi da due, anagrammati, l’ultima beffa dall’esilio aziendale. Tornai in garage a riprendermi la camicia. Attraversai di corsa il circuito di prova, poi i cinquanta metri dello spiazzo di terra e varcai il cancello che dava sulla strada. Clevenger stava ancora girando per il circuito. Mi rimisi la camicia e camminai per almeno mezz’ora. Cominciava a fare caldo. Ai recinti di filo spinato erano appese carcasse di coyote. In quel momento accostò una macchina, una Studebaker. L’uomo al volante diede gas prima ancora che avessi richiuso la portiera. Era senza un braccio e indossava l’uniforme blu della Marina degli Stati Uniti. Lungo la strada, sparse per il deserto, c’erano centinaia di trivelle petrolifere, colonne nere che carezzavano la sabbia, teste triangolari, tralicci sottili, colonie di gigantesche formiche operaie, la fantascienza della preistoria e della vita futura. Da una raffineria si innalzava un pennacchio di fumo nerastro che copriva terra e cielo. Chiesi all’uomo dov’era diretto e lui rispose Midland. Alla radio, Bob Dylan cantava “Subterranean homesick blues”. Dopo un po’ uscimmo dalla colonna di fumo e allora gli chiesi da quanto era in marina. Sembrava avesse venticinque anni, un tipo esile e nervoso con le labbra sottili e i capelli biondi quasi bianchi da organizzatore di rapine in banca. «Non ci credi che sto in marina per via di questo braccio. Mi trovi assurdo. Ti dirò che è sempre stato quello il mio punto di forza. Io emano un senso di mistero che già altri uomini e donne hanno cercato di svelare. Ma forse il mistero è dentro di loro. Senz’altro ti stai chiedendo come faccio a conoscere così bene la gente. Sono stato dappertutto nella mia vita. Sono stato in Cina, uno dei pochi. Sono un lettore vorace. Ho studiato alla Sora Bona di Parigi. Prima di perdere il braccio.» «Non volevo offendere. Chiedevo e basta.» «La questione del braccio interessa sempre a tutti. Ma ci sono altre parti di me, nel profondo, che nessuno è riuscito a raggiungere. Ho una curiosità insaziabile per la gente di ogni specie. Per capire la gente bisogna tenere occhi e orecchie ben aperte e bocca chiusa. Mi aggiravo come un gatto per le strade di Parigi. Ero cauto e silenzioso.

Nessuno provava a fare il furbo con me. Per tutto il periodo che ho vissuto a Parigi, giravo armato di coltello. Avevo solo un amico intimo, un pittore-scrittore di Harlem. Elegante e instancabile. Il negro più in gamba di Parigi. L’asso di picche. Sembravamo due gatti a caccia sulla Rive Gauche. Portavo sempre con me il coltello. A chi faceva il furbo con uno dei due, l’altro gli tagliava la gola.» «Come si chiamava?» «Chi?» «Il pittore-scrittore» risposi. «Sei educato solo perché hai paura di me. La paura spinge la gente a fare domande per ingraziarsi l’interlocutore. Sono anni che lo noto. E’ una cosa complicata, la paura. L’ho studiata a fon do, durante i miei viaggi. Nelle biblioteche in giro per il mondo c’è tutta una letteratura sulla paura, che aspetta solo di essere studiata e riassunta. E’ il braccio a preoccupare la gente. Il mistero è il nemico dell’uomo bianco. Io sono uno dei pochi al mondo con un’anima. Voglio dare un’occhiata a come cazzo sei fatto.» «Quanto è lontana Midland?» «Voglio dare un’occhiata» rispose. «Al primo cartellone che trovo, ci parcheggio dietro. Poi vediamo quanto sei misterioso. Io ce l’ho grosso. Ce l’ho grosso come un toro. Grosso così. Vediamo chi è più uomo. Chi ce l’ha più grosso lo dà. Chi ce l’ha più piccolo lo prende. E’ la legge della strada.» «Adesso basta» dissi. «Fammi scendere.» «Respingere gli altri è una delle grandi calamità della nostra epoca. Non bisognerebbe mai respingere gli altri. Tu sei convinto che la mia sia pura e semplice volgarità. Ma io offro molto più che mercanzia. Ci sono stati uomini che hanno pagato molto per la mia prestanza sessuale e le mie inclinazioni. Ma il mistero della mia individualità non è in vendita.» «Ferma questa macchina.» Lui rallentò e accostò. Io agguantai la valigia e scesi. E poi, come un bambino allegro che recita una filastrocca, un fanciullo che ricorda parola per parola una lezione o un brandello di proverbio, lui si sporse dal finestrino e declamò vittorioso: «I bravi bambini non accettano passaggi dagli sconosciuti». Per i settanta chilometri successivi mi accompagnò una coppia di sordomuti. Si assomigliavano tanto da sembrare gemelli. Io sedevo dietro, accanto a una chitarra. Poi percorsi un breve tratto di strada con un venditore di veleno per topi che anni prima era stato delegato a un raduno di partito. Poi mi diede un passaggio un’ex spogliarellista, che mi scaricò a Midland. Mi disse che giocava a ramino con il duca di Windsor. Trovai una camera d’albergo, feci una doccia, mi rasai, lasciai la camera e noleggiai una macchina. Guidai per tutta la notte in direzione nordest, e ancora una volta ebbi la netta sensazione che negli ultimi giorni mi fossi scontrato con la letteratura, con gli archetipi del tetro mistero, con figli e figlie dell’archetipo, immagini che non sapevano quale delle due confusioni fosse meno spaventosa: la loro, o ciò che questa poteva diventare se mai si fosse trovata ad affrontare la verità. Guidavo a velocità folle.

La mattina dopo imboccai Main Street, nel centro di Dallas, in direzione ovest. Svoltai a destra in Houston Street, poi a sinistra in Elm Street e pestai sul clacson. Continuai a tenere la mano sul clacson mentre superavo il deposito della libreria scolastica, fino a Dealey Plaza e poi lungo il triplo sottopassaggio. Continuai a suonare il clacson lungo tutta la Stemmons Freeway, fin oltre il Parkland Hospital. A Love Field restituii la macchina all’agenzia di noleggio e comprai un regalo per Merry. Poi, con la mia American Express, prenotai un posto sul primo volo per New York. Dieci minuti dopo il decollo, una donna si alzò dal suo posto e venne a chiedermi un autografo.