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Italian Pages 184 Year 1985
Al sorgere delle stelle è una raccolta di riflessioni e meditazioni, suscitate dalla memoria degli orrori dell'olocausto, sempre presente e sofferta negli scritti di Wiesel, ma anche da una speranza piena di trepidazione per l'avventura del nuovo stato ebraico. La scittura asciutta e insieme vibrante, graffiante eppure intrisa di un’immensa pietà per l’uomo, - sia esso vittima o carnefice – nel riproporre l’insondabile mistero dell’olocausto, che coinvolge tutta l’umanità e per primo Dio, vuole anche sollecitare la coscienza contemporanea ad un giudizio più equo, meno «farisaico», sulla giovane nazione d’Israele.
Elie Wiesel, nato nel 1928 a Sighet Transilvania), fu deportato con tutta la faniglia a Auschwitz e Buchenwald. Dopo la guerra fece per alcuni anni il giornalista in Francia, trasferendosi quindi in America, dove insegna nelle Università di Boston e di Yale. Le sue opere, scritte abitualmente in francese, hanno ricevuto numerosi premi sia in Francia che all’estero. In Israele, l’Università di Haifa ha istituito il premio annuale Elie Wiesel «per incoraggiare lo studio e la comprensione dell’olocausto e per assicurare la memoria», mentre a New York si è costituito un comitato allo scopo di appoggiare la sua candidatura al premio Nobel per la letteratura.
e-book realizzato da filuc (2003) Titolo originale dell'opera: Entre deux soleils © Les Editions du Seuil, 1970 27, rue Jacob, Paris VI I Edizione 1985 Traduzione di Anna Maria Guerrieri Copertina di Giancarlo Cancelli © 1985 Casa Editrice Marietti S.p.A. - Casale Monferrato Sede centrale: Via Adam, I? - tel. (0142) 76311 15033 Casale Monferrato (AL) ISBN 88-211-8355-6
INDICE
Presentazione di Piero Stefani ........
VII
Itinerario di una fine. .......... L'inizio ............... Dialoghi - I. ............. Storia di una promessa .......... Pagine di un diario ........... Primi diritti d'autore ........... Letture ............... Istantanee .............. Racconti ............... L'orologio .............. Appuntamento con l'odio ......... Ritorno a Mosca ............ Dialoghi - II ............. I dopoguerra: 1948 ........... ... 1967 ............... A un amico preoccupato. ......... A un giovane ebreo di oggi ........ Dialoghi - III ............. Una generazione dopo .......... Fine di un itinerario ...........
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PRESENTAZIONE
Un giorno chiesero al Rabbi chassidico Levi Jizchaq di Berdicev se fosse meglio seguire la via della gioia o quella dell'afflizione. Il Rabbi rispose che esistevano due tipi di gioia e due tipi di afflizione. Quando ci si affligge per una disgrazia, rintanati nel proprio cantuccio, disperando di ogni aiuto, questa è cattiva afflizione; la buona afflizione è invece l'onesta pena dell'uomo che sa quanto gli manca. Ugualmente per la gioia. Chi manca di intima sostanza e nella sua vana ricerca di piacere non si accorge neppure del vuoto su cui cammina, costui percorre la falsa, folle via della gioia, « ma l'uomo veramente gioioso è come uno a cui è bruciata una casa e che ha sofferto nell'anima la sua pena, ma poi ha cominciato a costruirne una nuova, e il suo cuore si rallegra di ogni pietra che pone » \ SÌ rallegra nell'atto stesso di ricostruire, ancor prima di abitare in quella casa, di cui forse non vedrà mai neppure il completamento, È una gioia memore della distruzione, ma che non si lascia neppure vincere da essa. L'atto di costruire è cammino, non mèta. La via chassidica della gioia, troppo spesso confusa con un entusiastico, esaltato slancio, cresce all'interno della distruzione dell'esilio, ' M. BUBER, I racconti dei chassidim [tr. Ìt. Garzanti, Milano 1979, p.276].
ponendo una sopra l'altra « memori » pietre di una casa di cui non si vede ancora il completamento. I giorni del messia non sono ancora giunti. Quelle pietre gioiosamente, tenacemente sovrapposte, hanno, a propria volta, conosciuto la distruzione. La prima guerra mondiale ha reso infatti i territori di elezione del chassidismo nell'Europa orientale un'immensa zona di devastazioni. Cosicché all'inizio degli anni venti Isaac Ba-bel, volgendo uno sguardo pietoso verso le ultime comunità chassidiche, poteva scrivere: « Nell'edificio appassionato dei chassidismo sono state sfondate porte e finestre, ma esso è immortale come l'anima di una madre,.. con le orbite vuote il chassidismo sta ancora in piedi al crocevia dei venti della storia » '- Nelle orbite vuote sono ormai evidentissime le cicatrici della distruzione, ma ancora c'è un misterioso balenìo di speranza, d'attesa. L'anima di una madre vuole ancora credere alla gioia, alla gioia di saper costruire con pietre contrassegnate dalla fedeltà, memori della speranza trasmessa per una lunga catena di generazioni. Wiesel nasce qui, in una delle ultime propaggini di un mondo capace ancora di educarlo e di segnarlo per tutta la vita. Siamo a Sighet in Transilvania, paese sottoposto a continui cambiamenti di confini politici, ma con impressa una forte componente ebraica, specie di ascendenza chassi-dica (cfr. p. 9). È il 1928- II giovane Eliezer (Elie) si identifica pienamente con un mondo che aveva nella pratica delle miswot (precetti), nei trattati talmudici, nei libri cabbalistici, nell'attesa messianica (cfr. p. 36), le sue coordinate fondamentali e costitutive- A quell'epoca, in seno all'ebraismo, le distinzioni, le divisioni erano già molte, ma in quell'angolo dell'Europa orientale, qualunque fosse il modo di essere e di sentirsi ebrei, poteva ancora crescere ;
I. BABBL, L'armata a cavallo [tr. il. Fdtrindji, Milano 1983, p. 39].
per tutti l'albero della speranza, tutti potevano infatti ancora esigere che la sofferenza avesse senso (cfr. p. 12), che il vivere non fosse inganno. Su quelle comunità, come su centinaia di altre, su quegli individui, come su milioni di altri, si abbatte lo sterminio nazista che ha ferito in modo indelebile una tradizione e ha reso individui e comunità un immenso cumulo di cenere. Né alla famiglia Wiesel è stata riservata una sorte diversa. Né il padre, né la madre, né la sorellina sono usciti vivi dai campi di morte, solo Elie è scampato; diventando da allora una voce, un testimone sia dell'annientamento di comunità ed individui, sia del ferimento di una tradizione. La specificità della sua voce, che la rende diversa da quella, in ogni caso preziosa, di altri superstiti (in Italia si pensa subito a Primo Levi), sta nel non abbandono di quell'educazione religiosa di impronta chassidica in cui è stato allevato e che pure riconosce definitivamente lacerata dall'immensa catastrofe che l'ha colpita. Ma se non le si rimanesse, per quanto possibile, ancora fedeli, non si darebbe, di per ciò stesso, una specie di vittoria postuma a Hitler? In ogni caso è in questo violento incrocio, in questa estrema tensione fra tradizione antica e distruzione moderna che nasce lo scrivere di Wiesel. Egli ha ripetuto decine di volte che se non ci fosse stata la guerra, se non ci fossero state camere a gas e campi di morte, non sarebbe mai diventato scrittore, sarebbe un pio talmudista in qualche comunità dell'Europa orientale. Lo scrivere di Wiesel, tanto impregnato dai morti, è sorto in lunghi anni di gestazione nell'immediato dopoguerra come testimonianza e come misterioso, irriducibile segno di speranza, perché (e lo ha detto proprio Wiesel) finché si può parlare della disperazione, la disperazione non ha ancora vinto. Anche il suo scrivere è costruire sulle rovine, ma può dirsi ancora un segno di gioia? Proprio perché il suo scrivere è nato sotto il peso di milioni di morti (cfr. p, 115), in ogni sua parola vibra un'eco, più o meno diretta, di
Auschwitz, che rimane sempre (anche quando non la si affronta direttamente) radice e linfa di tutta la sua opera. Eppure quell'evento di distruzione fu tale da distruggere anche la parola, anche la stessa possibilità di venir detto. Non ci sono più solo orbite vuote, ci sono anche labbra definitivamente mute; eppure sono proprio loro ad essere chiamate a testimoniare. La difficoltà, anzi l'impossibilità di dire e di tacere su un evento che sfida la parola, impone alla vita e allo scrivere di Wiesel una permanente nota di sradicamento. Liberato dai campi si rifiuta infatti di ritornare al proprio paese, « Sighet non esisteva più, aveva seguito gli ebrei nella deportazione ». Diviene « ebreo errante », Francia, Israele, Stati Uniti. Trova una lingua in cui scrivere, il francese, e trova infine la forza di scrivere i) suo primo libro, La notte, un ricordo diretto della deportazione dedicato a chi dalla deportazione non ha fatto ritorno. Etopo di allora ha composto tante altre opere, romanzi, racconti, saggi, drammi, sempre in francese, anche se la sua lingua abituale è ormai l'inglese e la maggior parte dei suoi lettori è ormai americana \ In questa scelta linguistica è già contenuta una sfida. Non si usa la lingua di tutti i giorni, perché le cose da dire ' Bibliografia delle principali opere di Wiesel: La nuit, Les Editions de Minuit, Paris 1958 [tr. il. La flotte, La Giuntina, Firenze 1980]. Tutte le seguenti opere sono stale pubblicale dalle Editions du Seuil, Paris, Le ;our (19611; La ville de In chrnce (1962|; Les porte s de ìa forét (1964); Le chant des morts (1966) [tr, il. L'ebreo errante. La Giunrina, Firenze 1983]; Lesjuifs du silence (I966): Zaimen (in in/olle de Din (1968); Le mendiant de Jénisa-iem (1968); Elitre deux soleiis (19701 [tr, it. Al sorgere delle stelle, Marietti, Casale Monferrato 1985J; CéUbratim hassidique 119721 [tr.ir. Celebrazione hassidica, Ed. Spirali, MiÌano 1983], Le semient de Kolvitlàg (19731; Célébra-tion biblique (1976) [tr, it. Personaggi biblici attraverso il Midrash. Cittadella, Assisi 1978]; Un ]uif aujourd'hui (1977); Le pmés di' Shsmgorod (1979) [tr. it. /; processo di Shamgorod, La Giuntina, Firenze 1982]; Le lesta/seni d'un poète juif assassine |]980) [tr, it. II testamento di un poeta ebreo assassina-lo. La Giuntina, Firenze 1981); Contro la mélancolie (1981) [tr. il. Contro la MelanMnia, Ed. Spirali, Milano 1984], Paroles d'éiranger (1982), Le cmquiè-nie fits, Editions Grassei & Fasquelk, Paris 1983 [tr. it. II quinto figlio. La Giuntina. Firenze 1984].
non sono di tutti i giorni. Non si usa però neppure una lingua « esiliata », come lo yiddish di Singer; essa è infatti tutta radicata nel mondo prima di Auschwitz, mentre Wiesel (a differenza di Singer) nasce come scrittore nei campi di morte. Egli impiega una lingua che (sono parole sue) dopo la guerra « fu più di una lingua, fu un rifugio e una patria » 4, eppure essa era estranea alla tradizione in cui era nato. È una patria diasporica. Un personaggio di un romanzo di Wiesel, il poeta yiddish Paltiel Kossover, muore, proditoriamente ucciso nelle carceri della Russia staliniana, mentre pronuncia queste parole « voi capite, la lingua di un popolo è la sua memoria, e la memoria è... » '. È memoria, ma Wiesel non scrive in yiddish, o in ebraico, perché vuole essere in ogni sua parola testimone dell'assassinio perpetrato. Assassinio non completo, ma ugualmente reale. Occorreva una lingua profana, una lingua scelta in quanto imposta dalle circostanze storiche, per cercare di sforzare il linguaggio, per tentare di esprimere l'indicibile. In occasione di una sua recente venuta in Italia b, Wiesel ha scritto questa specie di autopresentazione: « Raccontare, testimoniare: ecco il mio scopo. La mia ossessione- Dire l'indicibile, comunicare con la parola ciò che sfida la parola. Mantenere vivo il ricordo di un mondo scomparso nella cenere. Conferire un senso umano a un evento che per la sua dimensione di crudeltà si situa oltre l'umano- Offrire ai nostri figli la possibilità, se non la necessità, di non rinunciare alla speranza. Compito impossibile? Lo so. Eppure... L'angoscia pesa troppo sul nostro destino? È nostro dovere combatterla, così come è nostro dovere costruire sulle rovine ». È ancora l'immagine antica di costruire sulle rovine, di costruite senza vedere la casa completata. Un perso' Cfr. E. Wiesel et le silence de Dieu, in « Le Monde Dimanche », 15/11/1981, p.XII. ' I! testamento di un puela ebreo assassnalo, cit., p. 306. ° In occasione della rappresentazione, al festival teatrale di S. Minialo (Pisa) 198). di Il processo di Shamgorod.
naggio dell'ultimo romanzo di Wiesel afferma che ci fu un tempo in cui conosceva la mèta, non il cammino, ora è il contrario 7. È cosi anche per l'autore di quel romanzo. Sa di dover camminare e testimoniare, sa (come asseriva già la Mishnah, cfr- Avot, 2, 16) che non tocca a lui completare l'opera, ma che non è neppure libero di sottrarsene. I giorni del messia non sono ancora giunti, ed è tardi, molto tardi perché alla fine giungano, ma è proprio ora che comincia la vera attesa (cfr. p. 75). Si conosce il cammino, non la mèta. Come avvenne per Mosè, si è in obbligo di camminare nel deserto anche se si sa di non poter entrare nella terra promessa, e si sarà sepolti in una tomba posta sul suo limitare (cfr. Dt 34, 5-6). Raccontare, testimoniare. Che cosa? Ci fu un tempo in cui Dio stesso comandò ai suo popolo di raccontare ai propri figli dell'uscita dall'Egitto (cfr. Es 13,8). Ma ad Auschwitz non sorse alcun Mosè capace di liberare il popolo, né ci fu alcun inconsumabile roveto ardente da cui proveniva la voce di Dio. Ci fu solo il silenzio di Dio. Ci furono sì fiamme, ma esse bruciavano i cadaveri e le anime degli uomini: « Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia fede... Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima » s. Senza Dio Auschwitz non può assurgere a punto decisivo della vita di un intero popolo; sarebbe ugualmente esperienza sommamente tragica e passaggio bruciante e inestinguibile nella vita dei sopravvissuti, ma non assumerebbe il ruolo, attribuitegli da Wiesel, di oscura rivelazione, di estremo opposto, ma non meno determinante, rispetto alla rivelazione sinaitica. La sua dimensione più profonda irrompe solo di fronte al silenzio di Dio, solo di fronte al fatto che Dio ha taciuto proprio nel momento in cui l'uomo, l'ebreo, avevano più bisogno di lui, della sua parola e della sua miseri' // quinto figlio, cit, p. 7. ' La notte, cit, pp. 39-40.
cordia (cfr. p. 141). Il mistero di questo silenzio si erge contro DÌO, lo provoca e Io sfida. Come può il trono divino non essere anch'esso coperto di fumo e cenere? Il tentativo di dire l'indicibile si presenta in Wiesel come la scelta di rendere V interrogazione il segno più forte della continuità di una tradizioneII miracolo di far prolungare una tradizione (cfr. p. 47) non si presenta qui come una riproposizione letterale, ma come scelta di concentrarla, riassumerla tutta in una domanda, in un'interrogazione sul silenzio di Dio: « Se non ho risposte ciò non vuol dire che l'alleanza sia stata recisa o che Dio non esista, ma che mi interrogo sul suo silenzio » ". Decine di volte Wiesel ha ripetuto che il Dio ebraico è nelle domande non nelle risposte, e altrettante volte si è identificato con Giobbe « che ha scelto le domande e non le risposte, i silenzi e non i discorsi » ll). La domanda è tipica dell'ebreo, ma è anche inevitabilmente segno di rottura. Per il poeta ebreo contemporaneo Edmond Jabès (il quale, si può dire, ha trascorso tutta la vita a riflettere sull'interrogazione) « interrogare è rompere, è stabilire un dentro e un fuori, stare ora nell'uno ora nell'altro » lt. Il « dentro » e il « fuori » di Wiesel sono Dio e Auschwitz. Rappresentano la rottura e la continuità, all'interno di una perdurante assenza di risposte. Bisogna far tesoro di questa mancanza di risposte, soprattutto di quelle tradizionalmente religiose. Una voce molto diversa da quella di Wiesel, ma anch'essa proveniente in prima persona dai campi, una voce « laica » e sensibile (quanto immeritatamente poco conosciuta), quella di Liana Millu, raccontando di come le deportate si ponevano di fronte al dolore delle guardiane tedesche che avevano avuto la famiglia annientata sotto i bombardamenti, afferma che esse sentivano come « espiazione, pena e ' E. Wiesel et le silente de Dieu, cit. 1D L'ebreo errante, di., p. 16ì. " E. JABÈS, Dal deserto a! libro [ti. it. Elitropia, Reggio Emilia 1983, p. 129].
castigo » fossero « tra le parole più vane » 12. Vogliamo qui far assurgere queste parole a segno della sconfitta delle tradizionali, pie risposte religiose e del loro tentativo di far scorrere qualsiasi dolore e qualsiasi morte nell'ambito della normalità, se non addirittura della provvidenza. In un suo dramma, II processo diShamgorod, tutto incentrato sull'insoluto interrogativo di come conciliare la misericordia di Dio con l'interminabile destino di sofferenza del popolo ebraico, Wiesel mette in bocca le consuete argomenta2Ìoni provvi-denzialistiche e giustificatorio a un personaggio che, alla fine. si rivela essere addirittura satana. Forse ci si può rivolgere ancora alla Bibbia (che si colloca ben al di là di ogni forma di pia religiosità), ma a balzare in primo piano sono allora le figure legate alla domanda, alla lotta: Abramo, Giacobbe, Giobbe... Ma neppure la Bibbia e i suoi antichi, profondissimi commenti midrashici possono ormai riproporsi alla lettera, eppure non li si può neanche lasciar cadere; « La grandezza tragica dell'opera di Wiesel consiste in questo sforzo disperato che fa dire alla Bibbia — di fronte ad Auschwitz - ciò che la Bibbia non può dire, perché ciò che ha detto, lo ha detto quando Auschwitz non esisteva ancora. E l'emozione dolorosa dei primi libri di Elie Wiesel dipende, in gran parte, da questa scommessa di situare le parole del testimone di Auschwitz all'intemo di un Libro che, al limite, non può che tacere » 1). È stato detto che Wiesel « attraverso la sua opera celebra un qaddish di dimensioni apocalittiche, un qaddish che non smette di recitare per sei milioni di morti nei campi » ". Il qaddish è la preghiera aramaica che in Israele è " L. MILLU, II furno di Qirkenau, La Giuntina, Firenze 1979, p. 98. Il medesimo testo venne scampato ne] 1947 presso La prora, Milano, e nel 1957 presso Mondadori, Milano. " A. NEHEB, L'esilio deÌ!a parola [rr. ir. Marietti, Casale Monferraio 1983. p, 226]. " A. CHOURAQUI, Ritorno alle radici [tr. it, Jaca Book, Milano 1983, P. 35J.
recitata per i defunti. Una preghiera che non nomina mai la morte. Essa rappresenta nel suo stesso recitarsi, generazione dopo generazione, la tangibile continuità d'Israele- Per questo va pronunciata in onore dei propri genitori e se essi non sono moni non lo si può dire per nessuno. II qaddish non lo si può recitare da soli, va pronunciato alla presenza di almeno dieci uomini adulti {minyan}, rappresentanti (secondo la tradizione) dell'intero Israele. Il proprio lutto è lutto di tutti; ma anche il proprio vivere è vivere di tutti- Fino a quando qualcuno risponde « amen », il popolo vive. Non si recita il qaddish per il defunto. Io si recita dopo di lui, è un segno che il suo vivere ha avuto senso ". Si può recitare per sei milioni di morti una preghiera che non nomina mai neppure la morte? E la si può non recitare senza condannare all'oblio tutti i morti, senza contribuire a propria volta a renderli numeri e cenere? Senza contribuire a spezzare ulteriormente la continuità dell'essere ebrei che non si sustanzia solo di rottura, ma anche di memoria? La notte (i! primo, indimenticabile scritto di Wiesel in cui si narra la vicenda che lo portò da Sighet ad Auschwitz e a Buchenwald) è dedicato, proprio come fosse un qaddish, alla « memoria dei miei genitori e della mia sorellina Zippo-rà ». Le pagine in cui si racconta una scissione definitiva si presentano così come segni di memoria, di continuità, di impossibile identificazione con chi non è più. Bisogna identificarsi con i morti mentre si è vivi, con le vittime mentre si sopravvive loro e mentre gli anni, e il susseguirsi delle vicende, pongono uno spazio sempre più ampio tra noi e " Ecco, in traduzione, il qaddish yatom (dell'orfanoi: «Sia ampliato e santificato il suo grande nome nel mondo che creò secondo la sua volontà e dove tara regnare il suo regno in vita nostra e in vita di tutta Sa casa d'Israele, presto, in tempo vicino - dite amen. Sia il suo santo nome benedetto, al di sopra di ogni benedizione, canto e lode e consolazione che diciamo nel mondo, e dite amen. Sia grande pace dal cielo e vita buona su di noi e su tutto Israele e dite amen. Colui che fa la pace nelle altitudini eccelse, Egli nella sua misericordia stabilisca la pace su di noi e su tutto Israele. Amen ».
loro. « Compito impossibile? Lo so. Eppure.,, ». Per Elias Canetti il compito insostituibile dell'arte non è né la catarsi, né la consolazione, « né il disporre ogni elemento in funzione di un lieto fine. Perché lieto fine non ci sarà » — Wiesel direbbe di conoscere il cammino non la mèta, e aggiungerebbe che è troppo tardi perché il messia giunga; per questo è nostro dovere attenderlo. Il compito dell'arte - prosegue Canotti ~ sta nel ricordare l'orrore « che gli uomini si procurano l'un l'altro » ". Un orrore che, se ci si pone dalla parte delle vittime, è memoria. Lo scrivere di Wiesel è questo ricordo. Ma Io scrivere è impotente a tanto, così come ormai lo è anche la religione tradizionale. Bisogna far tesoro di queste reciproche, incrociate debolezze, non abbandonando nessuno dei due incompatibili estremi. In un suo racconto Wiesel ci narra la sua incapacità di recitare e nel contempo di non recitare il qaddish m memoria del proprio padre: « Domani è l'anniversario della morte di mio padre, e io cerco una nuova legge che mi prescriva quali voli fare e quali voti non fare più, quali parole dire e quali parole non dire più » '7. Elie non comprende tante cose, sa però che, nel giorno in cui morì suo padre, fu costretto a rompere con la tradizione: non recitò il qaddish. Perché non lo conosceva ancora a memoria, perché non c'erano dieci uomini a rispondergli « amen », ma soprattutto perché si era a Buchenwald, nel regno stesso della morte 1B - Eppure nel giorno anniversario si' recherà ugualmente in sinagoga, troverà dieci uomini e reciterà il qaddish « e ciò sarà per me un'ulteriore prova della mia impotenza » '". Di impotenza, ma anche di fedeltà. È ancora una volta il porre una sopra l'altra le pietre della memoria, dell'alleanza non ancora rotta, anche se non ci è dato di vedere né il progetto, né la conclusione dell'edificio. II " E. CANETTI, II fruito dei fuoco [rr. it. Adelphi, Milano 1982, p. 235]. " L'ebreo errante, di., p. 8. '" In, p. 11, " Ivi, p. 13.
modo più autentico e fedele di recitare il qaddish per il proprio padre e per i sei milioni è, da parte di Wiesel, di raccontare a se stesso e a noi la sua incapacità di farlo e nel contempo di non farlo. Il quasi trentennale scrivere di Wiesel vuole narrare l'irraccontabile, vuole esprimere con la parola quanto trascende la possibilità di venir detto, e vuole trovare orecchie capaci di questo difficile ascolto. Tuttavia la sua parola — e Wiesel ne è profondamente consapevole - non ha la forza di cambiare il mondo, il quale continua ad accumulare motivi di orrore, di disperazione e forse di catastrofe. È a Wiesel stesso che si deve applicare il racconto in cui il profeta grida il messaggio di conversione per le vie di Sodoma non (come credeva in principio) per cambiare gli uomini, ma solo perché gli uomini non cambino lui (cfr. p. 76). Non ci si può sottrarre al compito, ma non è neppure dato di vedere il compimento dell'operaUn segno della difficoltà di cogliere questo grido ci pare riscontrabile anche nel fatto che in Italia sia stata soprattutto una piccola casa editrice fiorentina (La Giuntina) a udirlo per prima. Non si tratta di un caso. Lì c'erano orecchie capaci, anzi quasi costrette, ad intendere. Le opere sono infatti apparse in una collana dedicata alla memoria dì Schu-lim Vogelmann, scampato da Auschwitz dove sono state uccise la moglie e la piccola figlia, e sono state tradotte ed edite dal figlio Daniel, il quale ha compiuto per sé, e per noi, la scelta, tipicamente ebraica, di accogliere liberamente un'imposi2ione (cfr- p. 107): essere figlio di un deportato. L'antica espressione a cui allude il titolo di questo libro (in francese Entre deux soleiis) è ben-ha-sh'mashot, « tra i due soli ». SÌ tratta della versione talmudica della locuzione biblica « tra le due sere » (cfr. ad es. Es 12, 6). È il tempo, di durata quasi indecifrabile (vi sono in proposito lunghe discussioni talmudiche, cfr. T.B. Shabbat, 34a), che sta fra il tramonto e il crepuscolo. È l'invisibile spartiacque tra l'ultimo bagliore del giorno e le prime tenebre
notturne. Tempo sia di fine che di inizio- Quasi di sospensione atemporale lv. Momento particolarmente caro alla tradizione chassidica. Secondo la Mishnah (Avof 5, 9) e il Talmud {T.B. Pesafyim, 54b) in quell'estremo lasso di tempo dei sei giorni che diedero inizio al mondo, quando mancava un nonnulla perché si entrasse nel riposo del primo sabato, Dio creò dieci cose (non esplicitamente menzionate dalla Scrittura). Tra esse tre paiono quasi riassumere in loro il senso di queste nostre pagine: l'arcobaleno, le lettere della scrittura, la tomba di Mosè. L'arcobaleno è immagine biblica dell'alleanza (Gn 9, 12-17), è il segno di un mondo riemerso dal diluvio, è la promessa che, se ci sarà una catastrofe, una distruzione totale, essa non verrà più per mano di quel Dio che ha giurato di non più sommergere il mondo. È l'alleanza non rotta che prosegue in virtù di promessa e di memoria: « allora mi ricorderò della mia alleanza » (Gn 9, 15). Ora prosegue appoggiandosi anche alla forma delle lettere, cioè al testimoniare e allo scrivere degli scampati. Lo scrivere sulla disperazione è una sfida, anzi già parzialissima vittoria- Si vuole costruire sulle rovine, anche se non si è ancora entrati nella terra promessa, anche se in quella terra forse non si entrerà mai. È la tomba di Mosè posta ai margini della terra di Canaan; tomba costruita per mano di Dio, ma rivelatrice di un destino totalmente umano: infatti (secondo le indimenticabili parole di Kafka ") non perché la sua fu vita breve Mosè non entrò nella terra promessa, ma perché la sua fu vita umana. Solo in questo particolarissimo senso si possono ripetere le parole del filosofo ebreo contemporaneo Andre Neher secondo cui l'essenziale non sta neppure nel credere o ne) non credere in Dio, ma nel credere o nel non credere nell'uomo ". Difatti (come afferma Wiesel, cfr. pp. '"'Cir. Le mendiant de jéruselem, cit,. p. 179. " Gii, da A. NEHER, Mosè [ir. i[. Mondadori, Milano 1961, p, 76]. " Cfr. A, NEHER, L'esilio della parola, cir., p, 233.
141-142) si può persino dire di no a Dio a patto di farlo per l'uomo, a patto di restare dentro l'alleala- A patto di camminare e di costruire in virtù di fedeltà e di ricordo, e persino di drammatica rottura non di progetto, così come insegnateci da « Mosè, "servo del Signore" e "nostro maestro", dal quale impariamo ad amare la nostra opera non nel suo progetto o disegno che non si reali-azera mai, ma nel suo limitato nascere giorno per giorno » ". Wiesel ci ricorda una leggenda talmudica secondo cui, quando fu incendiato il Tempio di Gerusalemme, i sacerdoti interruppero l'ufficio sacro, salirono sul tetto e parlarono così a Dio: noi non siamo più in grado di salvaguardare la tua dimora, così te ne restituiamo le chiavi- E le lanciarono verso il cielo. Il santuario dell'Olocausto brucia ancora e Ì sopravvissuti ne sono i sacerdoti. Ma questa volta ~ prosegue Wiesel - essi ne tengono ben strette le chiavi (cfr. p. 63). PIERO STEFANI
P. DE BENEDETTI, La morte di Mosè, Bompiani, Milano 1978, p. 11.
NOTA
DELL'EOITOBE
II presente volume, per gentile concessione dell'Autore, non include la traduzione dei seguenti brani compresi nell'edizione originale: Une carrière manquée (pp. 56-60)? lishak R.ahn (pp. 143-1511, Malta Gur (pp. 152-159), 11 élail une jois (pp. 188-241).
ITINERARIO DI UNA FINE
II vecchio Rabbi posò su di me uno sguardo di disapprovazione. - Così sei tu, sospirò accarezzandosi la barba che non era più brizzolata e folta, ma rada e biancastra. Sei tu il nipote di Dodye Feìg. Mi aveva riconosciuto subito, e questo mi fece arrossire di piacere ed anche di imbarazzo. Dal tempo della mia infanzia, dal tempo della guerra, nessuno mi chiamava più così. Improvvisamente maschere e volti sepolti nel passato risalirono in superficie. Un dolore antico prese ad attanagliarmi— Dunque sei tu, gemette il Rabbi sempre più scontento. Molti anni erano trascorsi dal nostro ultimo incontro. Ci trovavamo ancora in Ungheria. Mia madre mi aveva condotto da lui per sollecitare la sua benedizione. Adesso eravamo soli, lui ed io, da qualche parte in Terra Santa. Come allora, udivo giungere dall'esterno il canto melodioso e suadente degli allievi che, nell'oratorio, studiavano il Talmud salmodiando. Ma per un motivo che mi sfuggiva, mi sentivo invadere da un malessere che non avevo provato in passato, laggiù. Non sapevo che fare dei miei occhi, dei miei ricordi. Rannicchiato su se stesso, nella sua poltrona, il Rabbi mi esaminò a lungo. Constatai che non era cambiato molto- II
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suo volto era rimasto buono, dolce e segnato dal dolore- II suo sorriso, pallido, racchiudeva tutta la saggezza del Tiondo- E s3; eccoti qui, tu, il nipote di Dodye Feig, ripete :ome tra sé, con il pensiero altrove. I suoi occhi non mi abbandonavano un istante. Mi chie-ievo chi vedesse, chi cercasse. E perché diventava cupo, riste. Forse perché, a sua insaputa, ero cambiato più di lui, n modo diverso da lui? Egli era rimasto il mio Rabbi, ma o non ero più il suo discepolo. - Non dici nulla? domandò. Il nipote di Dodye Feig lon ha nulla da dirmi? - Rabbi, risposi con voce timida, siete ingiusto, Sembra-e ignorare che da anni ed anni lavoro sodo per avere liritto al mio nome. Eppure, per voi, sono rimasto il nipote li mio nonno.,. Era, da parte mia, un tentativo - maldestro - di rompere i tensione; fallì miseramente, me ne resi conto subito, fon apprezzando minimamente il mio umorismo, il Rabbi ggrottò le sopracciglia, incollerito: - Adesso so a che cosa hai dedicato il tuo tempo do-o l'ultima visita a casa mia. Hai sprecato le tue forze cerando di staccarti da tuo nonno, è così? E, forse, ne sei ero? - Avete capito male, Rabbi- Mi sono espresso male... - Nient'affatto. Ti ho capito benissimo; non sono né lido né cieco. Lontano da tuo nonno, hai fatto tutto il Dssibile per non assomigliargli. - Non mi giudicate, Rabbi. - E perché no? — Voi non sapete tutto, non potete sapere tutto. Tacque prima di rispondermi con tono mutato: — Non ti giudico; ti compiango e basta. II padre di mia madre era stato uno dei suoi adepti voriti. Dodye Feig, fervente hssid, era, alla corte del abbi, più celebre e più influente di quanto suo nipote,
scrittore, possa mai sperare di divenire. Era forse questa la ragione che suscitava il corruccio e la stizza del mio antico maestro? Non osavo domandarglielo. Alla sua presenza ridiventavo il bambino che ero stato, abituato ad ascoltare e ad attendere. Sembrava d'altronde che il Rabbi si stesse calmando. Con un tono di voce più dolce, mi interrogava sulla mia vita, sulle mie attività, dove abitavo, chi frequentavo, con chi studiavo. Gli rispondevo come meglio potevo-
— E di che cosa vivi? domandò con tono pratico, preciso. — Lavoro. - Per chi? - Per me stesso. — E sei tu stesso che ti dai il tuo salario? - Non ricevo un salario, Rabbi. — No? Ma allora... come fai a pagarti l'affitto, i pasti? — Oh, i miei bisogni sono modesti. Ho quanto mi basta. - Sicché, ti guadagni la vita. Ma facendo che cosa? — Scrivo. - Scrivi? esclamò, incredulo. È questo il tuo lavoro? Dici sul serio? Non fai nient'altro? Non hai altre occupazioni? Passi la vita a scrivere? E basta? - SI, Rabbi. Il suo volto rifletteva un dolore così intenso che, preso dalla vergogna, provai il bisogno di spiegargli il senso e lo scopo del mio lavoro. Per nulla convinto, mi guardava senza capire. Ed era proprio ciò che avevo temuto. Se avevo aspettato tanti anni prima di venire a trovarlo, era stato per il timore di dovere constatare la distanza che ci separava, distanza che temevo e allo stesso tempo desideravo. Avevo paura di essere cambiato troppo, o non
abbastanza. E anche di scoprire che tutte quelle parole che, da dopo la guerra, mi sforzavo di mettere in fila imponendo loro un segreto e un
iilenzio particolari, mi riconducevano a lui, o me ne allonta-lavano: qual era la sua parte? Preferivo non saperlo. aspettare. — Dunque scrivi, disse il Rabbi, pensieroso. Dimmi che rosa scrivi. — Dei racconti. Volle sapere che genere di racconti, — Non ne ho idea, Rabbi. Mi gettò un'occhiata sospettosa: mi stavo forse prenden-lo gioco di lui? — Come puoi scrivere se non sai cosa scrivi? — Si può, Rabbi. Credetemi: è possibile- Le pagine mi-;liori sono quelle che si scrivono senza saperlo. Adesso era certo che mi stavo prendendo gioco di lui; lecise di non adombrarsene. - Ammettiamolo, disse. Ma i tuoi racconti, di cosa tratta-io, di chi? — Non saprei dirlo, Rabbi. — Ma, almeno, sono veri? — Sì... e no, farfugliai a fatica. Non lo so... Era la verità: sotto il suo sguardo, tutte le mie certezze si iissiparono improvvisamente; non sapevo più nulla. Appoggiato alla tavola, il Rabbi allungò la testa per esaminarmi meglio: — Devi sapere almeno se scrivi di persone o di awe-imenti. — Dei due, Rabbi. — E queste persone, le hai conosciute? — Sì... e no. Avrei voluto conoscerlo. — E gli avvenimenti, si sono verificati? — Sì... e no. Avrebbero potuto verificarsi. I suoi occhi si velarono: — Capisco... Tu inventi personaggi ed episodi... passi il •mpo a mascherare la realtà, la verità divina o umana, con arole create per altri fini. In altri termini: scrivi delle lenzogne,
Profondamente colpito, rimasi a lungo senza parlare. Il bambino in me, colto in flagrante delitto, non trovava nulla da dire in sua difesa. Ma l'adulto doveva giustificarsi: — Non è tutto così semplice come pensate, Rabbi. Vedete, ceni avvenimenti hanno avuto luogo, ma non sono veri; altri invece lo sono, ma non sono mai accaduti. Non fui capace di aggiungere altro. Era sufficiente? Lo ignoro. Il Rabbi, sempre scontento, smise di insistere. Il suo sguardo errava ora lontano, oltre le frontiere. Forse lo riportava alla sua corte in Ungheria ridotta in cenere, ai suoi adepti scomparsi. Bruscamente sembrò risvegliarsi da un sogno profondo. Una luce familiare si accese nei suoi occhi, tornati dolci e carichi di bontà. Mi ordinò di avvicinarmi; obbedii. — Vieni, disse. Il nipote di Dodye Feig non se ne andrà a mani vuote. Vieni più vicino, che possa benedirti. Non osai più ricordargli che da molti anni ormai avevo un altro nome, e che mio nonno, andandosene, si era portato via tutte le mie benedizioni. Chinai il capo immergendomi nella voce che era di nuovo quella del mio maestro. Baciai la sua mano, come avevo fatto un tempo. Riprese a sorridere e mi augurò qualcosa, non sapevo cosa. Lo lasciai indietreggiando, a testa bassa, il cuore pesante, e solo più tardi, molto più tardi, mi dissi che era forse tempo che il nipote di Dodye Feig riprendesse il suo posto nella mia vita. E mi desse la sua voce.
L'INIZIO
L'ultimo sguardo che getti su ciò che fu l'inizio è senza iguali. Gli attribuisci un coefficiente assoluto. Poi lo disto-;Ii con forza, quasi con rincrescimento. E te lo porti via :ome l'aria di un canto che non verrà più cantato. Te lo xirti via come un segreto. Venticinque anni separano il testimone dall'oggetto della tua testimonianza: la sua città natale. Venticinque anni di dta errante, in un mondo sconvolto, spesso ostile e sempre rriducibile. Durante tutto questo tempo avevo cercato qual-:osa e non sapevo che cosa. Adesso lo so. Una piccola città •braica, circondata di montagne: è lì che desideravo pene-rare per lasciarvi tutto ciò che posseggo: la mia memoria. Quella città la vedo ancora, la vedo ovunque, al punto la irridere me stesso e farmi la morale: se continui cosi, mpazzirai; quella città non esiste più, non è mai esistita. ^a non posso farci nulla, non vedo che lei. I suoi Giusti lascosti e i suoi trovatori rumorosi, i suoi saggi e i loro lumerosi figli, i suoi visionari poveri ed i suoi mercanti iltrettanto poveri. LÌ vedo, nella grande piazza, madidi di udore, affrettarsi al mercato, alla scuola, all'ufficio, ai ba-;ni rituali, al cimiteroLa loro presenza, a volte, mi sembra così reale che mi 'ien fatto di voler fermare uno di loro, uno qualunque, per iffidargli un messaggio: dì a tutti che stanno sbagliando
strada, che si allontanano dal loro avvenire; dì loro che un pericolo li minaccia, l'umanità è alle loro costole, vuole il loro sangue e la loro fine. Ma rimango in silenzio. Temo che mi risponda: non ti credo, non ti conosco. Alzerebbe le spalle e continuerebbe il suo cammino, dritto verso la sua tomba lassù, verso la sua tomba tra le nuvole incandescenti. Ho voglia di gridare, di urlare, ma ho paura di svegliarlo. È pericoloso svegliare i motti, soprattutto se hanno fatto man bassa sulla tua città e sulla tua infanzia. Sighet. Provincia rumena, ungherese, austriaca. Occupata dai turchi, dai russi, dai tedeschi, bramata da tutte le tribù di quella parte della terra. Nonostante la diversità delle lingue che vi si udivano, nonostante i differenti regimi che vi si succedevano, era una città tipicamente ebraica, come ve n'erano a centinaia, a migliaia, tra il Dnieper e i Carpazi. Con la sua popolazione prevalentemente ebraica, essa si purificava per 'Yom Kippur, digiunava per il Tish'ah be-'Av piangendo sulla distruzione del Tempio, e si rallegrava, inebriandosi, durante la festa della Toràh. Si usciva per la strada, il sabato, e si sentiva lo Shabbat nell'aria. I negozi: chiusi. I centri commerciali: paralizzati. Gli uffici del municipio: deserti- Per gli ebrei, come per i loro vicini cristiani, quello era un giorno di totale riposo. I vecchi si recavano nelle case di studio per ascoltare l'oratore itinerante di passaggio; Ì giovani andavano a spasso nel parco, nei boschi, lungo il fiume. Le preoccupazioni, Ì tormenti potevano attendere: il sabato era un rifugio nel tempo. Fin dalla vigilia, il venerdì pomeriggio, si poteva percepire l'arrivo dello Shabbat. Per accoglierlo, gli uomini si immergevano nei bagni rituali. Le donne riordinavano la casa, lavavano i pavimenti, sfaccendavano in cucina e tiravano fuori i loro abiti più belli. Tornati da scuola i ragazzi, recitavano il Cantico dei Cantici. Poi, nel medesimo istan-
:, lo stesso canto si elevava da tutte le case; shalom 'ale-sm mal'ake ha-shalom, siate benedetti o messaggeri di be-edizioni; entrale e partite in pace, o angeli della pace... Rabbini ed illetterati, ricchi negozianti e facchini, datori i lavoro ed impiegati, tutti avevano per gli angeli dello habbat le stesse parole che esprimevano la stessa grati-idine« Chi sono gli angeli? » chiesi un giorno a mio nonno le lì melodie di Wizsnicz mi sconvolgevano, tanto la loro ioia è violenta e bella. Come risposta si chinò su di me e mi bisbigliò all'orec-iio un segreto che ancora custodisco: « Gli angeli, piccolo no, siamo tutti noi che stiamo ritti e sereni davanti a uesta tavola coperta da una tovaglia bianca e trasformata i altare. Tu, io, tutti Ì convitati. Ecco la forza e la grandez-i dello Shabbat: esso fa sì che l'uomo si compia ». Allora sentii ali divine palpitare sulla mia testa, eh sì, le o sentite, ve lo giuro. E da quando mi sono separato da •, nonno, non ho più visto angeli: giuro anche questo. In srità, nonno, credo che essi siano rimasti nella nostra città •polta tra le montagne, invisibili come te e come me, come itti noi. Mio nonno viveva in un piccolo villaggio: Bichkev, o ocsko in ungherese. Dodye Feig vi conduceva una placida ita di fìttavolo. Amavo i suoi racconti, Ì suoi canti; amavo gualmente il suo modo di tacere. Lavoratore instancabile, faceva tutto da sé. Mungeva le acche, arava la terra e si arrampicava sugli alberi per igliere susine, mele e albicocche. La sera, al crepuscolo, fendeva che si facesse buio per accendere la lampada a etrolio. Seduto sotto il portico, si avvolgeva di notte e di letizio. I primi tempi mi stupivo: « Ma non si vede nien•, nonno' ». Mi rispondeva in un sussurro; « Sei giovane :icora. Più lardi parlerai diversamente. Per il momento, iiarda e stai zitto ».
Lo andavo a trovare durante le vacanze. Lui veniva a Sighet solo in occasione delle grandi feste. Per pregare con il Rabbi di Borshe, un santo che aveva centinaia di adepti nelle borgate circostanti. Ricordo ancora le ore che rimanevo in piedi dietro al Rabbi. Mi sforzavo di agganciare le mie preghiere alle sue e di aprire così le muraglie del santuario celesteUn giorno vidi il Rabbi che si batteva il petto implorando Dio di perdonare i suoi peccati. Turbato, interrogai il nonno: « Come è possibile? Un Rabbi che trasgredisce le leggi? ». Fu l'occasione, per mio nonno, di rivelarmi un altro segreto: « Si può essere innocenti e ritenersi colpevoli ». L'anno seguente piansi come il Rabbi e anche di più, come lui mi accusai di peccati che non avevo avuto alcun modo di commettere, mi battevo il petto con più violenza di lui, e finii con l'attirare l'attenzione di mio nonno che mi ordinò di moderare il mio fervore per non cadere nell'orgoglio: « Non si copiano i gesti del Rabbi, non si ha il diritto di imitarlo. Puoi seguirlo, obbedirgli e bastaNon cercare di assumere il suo ruolo: non si tocca impunemente lo scettro regale. Anche se il re sembra essere assente ». La nostra città aveva anche altri capi spirituali, più o meno celebri, più o meno eruditi. Ognuno aveva il proprio oratorio, i propri fedeli, i propri consiglieri e benefattori, i propri allievi felici o infelici, e tutti supplicavano Dio perché venisse in aiuto a uomini già presi di mira, già segnati dal destino. Ma Dio si rifiutava di dar loro ascolto. Di conseguenza dovrei sentirmi meno colpevole, nonno. Eppure non è così. La lista dei delitti da me confessati si fa sempre più lunga, ed aspetto che qualcuno me ne spieghi II perché. Per evitare malintesi, mi sembra tuttavia necessario inserire, a questo punto, una breve precisazione: gli ebrei di Sighet non erano tutti dei santi. Non tutti passavano il loro tempo studiando i sacri testi o recitando i salmi- Con le
[oro debolezze e Ì loro difetti, i commercianti non erano né più onesti né più vili che altrove. I ricchi sfoggiavano la loro ricchezza e i poveri nascondevano la loro miseria. Sarti e calzolai, boscaioli e cocchieri, aggiogati al carro della propria disperazione quotidiana, non giocavano a fare i poeti mascherati: la loro miseria, carica di maledizione, era priva di poesia. Associati e vittime di Dio, non avevano tutti un buon carattere. Non tutti riuscivano a vincere frustrazioni e amarezze. Si litigava, ci si insultava, si spettegolava, si facevano maldicenze, eh sì, come dappertutto. Avevamo i nostri invidiosi, Ì nostri gelosi, i nostri bugiardi, i nostri avari e i nostri ladri, avevamo persino Ì nostri spergiuri e i nostri rinnegati. Solamente oggi, riandando col pensiero a quei tempi e a quei luoghi, mi rendo conto di quanto i loro vizi fossero inoffensivi. Pretendevano così poco dalla vita, dalla società: un letto per dormire, un libro per sognare, un melammed per istruire Ì figli, e un segno di :onsolazione, uno qualunque, la certezza che nessuna sofferenza è inutile. In cambio erano sempre pronti a dare: per le scuole talmudiche, gli ammalati, gli orfani, per le ragazze da maritare, i vecchi indigenti, gli esiliati e i decaduti. Impegnati e generosi, si poteva contare su di loro. Non appena si trattava di salvare una comunità minacciata nel ìuo onore o nella sua sopravvivenza tutti tenevano a mostrarsi solidali. Ricordo un tipo rossiccio che gridava allo scandalo perché era stato respinto il suo dono, per una causa qualsiasi. Mon so più quale. Il fatto è che egli era l'informatore accreditato della città e nessuno gli rivolgeva la parola[nutilmente protestava che il suo era un mestiere come un litro, e che era poco pericoloso perché a tutti noto. Viveva il margine. Frequentava la sinagoga, ma non veniva mai :hiamato alla Toràh. Dopo quell'incidente fu costretto a ambiare città. Più tardi cambiò anche occupazione. Avevamo, naturalmente, i nostri miscredenti, indunenti-:abili anch'essi. Il più famoso era un vecchio centenario che
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detestava i hasidim, suoi vicini di casa, perché le loro funzioni, troppo rumorose, Io disturbavano. Diceva: « Se non possono farsi udire che gridando, vuol dire che il loro cielo è lontano, ed è un peccato, soprattutto per me che abito troppo vicino ». Quando era giovane, non usciva mai senza il suo cane. Un giorno incontrò per strada il rabbino in compagnia del suo servitore. « Tu non sei un rabbino come me, ma come me hai bisogno di un compagno per servirti! » esclamò il rabbino, ridendo. « Infatti, rispose l'altro, accarezzando il cane, ma nel mio caso il servitore sono io ». Questa storia aveva un seguito. Il rabbino, invece di arrabbiarsi, mise una mano sulla spalla del miscredente e disse: « Tu non mi ami, però ami il tuo cane; vuol dire che sei capace di amare, e questo solo conterà ». Anni dopo, quello stesso miscredente schiaffeggiò il proprio figlio che aveva avuto l'impertinenza di criticare il rabbino davanti a lui. Non ho conosciuto il rabbino, ma ricordo il suo difensore. Ricordo, ricordoUn pazzo: Moshé. Era pazzo solamente durante i mesi d'estate. Ridiventava normale, equilibrato, prima delle feste dell'Anno Nuovo. Allora officiava in un granaio in rovina, dal tetto sbrecciato, in un borgo sperduto dove non vi era né rabbino né cantore. Dopo le feste insegnava l'alfabeto ai bambini. Non lo dimenticherò mai: panciuto, quadrato, perennemente affamato. Aveva la barba rossa e irsuta, le labbra gonfie, spesso paonazze. Gli occhi, selvaggi e angosciati, non si vedevano, ma si indovinavano attraverso la fessura delle palpebre: sento ancora il morso del loro sguardo. Gli scolari, crudeli nel loro ozio, lo perseguitavano. LÌ lasciava fare. Qualche volta veniva a rifugiarsi da noi- Per dimenticare la sua sofferenza, beveva. E cantava. Ascoltan-
dolo diventavo un altro. Mi metteva paura e mi affascinava. Standogli vicino mi rendevo conto che si muoveva in un universo abitato da lui solo. Cercavo di farlo parlare, gli chiedevo di descrivermi ciò che vedeva, ciò che lo tormentava. Preferiva cantare. Più tardi, quando mi interessai alla psichiatria, mi sfiorò il sospetto che fosse a causa di lui. Un amico volle sapere cosa cercavo nei pazzi. Risposi: « Sono soli e cantano. E poi vedono cose diverse da .noi ». Un altro Moshé: lo scaccino- Gracile, timido, impacciato, disarmato, rassegnato. Occhi da cane bastonato, spalle curve, corpo da ragazzino malaticcio. Vinto, accettava in partenza le angherie e le sevizie degli uomini. Camminava in punta di piedi; per non disturbare. Sempre in disparte, avrebbe voluto essere invisibile. Apolide, fu tra Ì primi « stranieri indesiderabili » a subire la legge del carnefice. Quando accadde? Nel 1942, mi pare. Quanti partirono? Cento, mille- Forse di più- Ricordo: la comunità al completo — uomini, donne e bambini — li aveva accompagnati alla stazione. Porgevano loro borse colme di cibo- Poi il treno si mise in moto. Destinazione ignota. Pochi tornarono. Tra questi: Moshé-lo-scaccino, Irriconoscibile. Aveva perso la sua dolcezza, il suo pudore. Impaziente, intollerante, aveva il volto misterioso di un messaggero perseguitato dagli autori del messaggio. Lui che, prima, tossicchiava ogni volta che doveva dire una parola, si mise improvvisamente a parlare. Raccontava, raccontava. Si scoprì una nuova vocazione: arringare le folle. Andava da una sinagoga all'altra, di casa in casa, da negozio a negozio, da officina a officina; interpellava i passanti per la strada e i fìttavoli sulla piazza del mercato. Raccontava, raccontava. Storie atroci, da far rizzare i capelli sulla testa. Faceva il resoconto del suo viaggio, della sua evasio-ne, della sua esperienza della morte da qualche parte in Galizia. E la sua famiglia? Rimasta laggiù. I suoi figli?
L INIZIO
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Rimasti laggiù. E i suoi compagni? Rimasti laggiù. In fondo a una fossa comune. Fucilati. Tutti. In pieno giorno. Lui stesso era fra loro. Caduto una frazione di secondo prima di essere colpito. Protetto da quelli che caddero dopo di lui. Ecco com'era sopravvissuto. Non smetteva di parlare. La gente, stanca e ingenua, non voleva, non poteva credere. Diceva: « Povero scaccino, ha perso il ben dell'intelletto ». Finì per tacere. A forza di reprimere la sua rabbia impotente, sprofondò in un mutismo vicino alla demenza. Due anni dopo, qualche giorno prima dell'ultima Pentecoste, quando la sorte del ghetto era già decisa, irruppe in casa nostra annunciando a mio padre la sua decisione di ruggire. Se ne andò canticchiando: « Non ho più nulla, nulla, nulla da fare qui; ritorno, ritomo, ritomo in Galizia. Con un poco di fortuna arriverò prima della festa, arriverò prima della mia sepoltura ». E Leizer - vi ho già parlato di lui? Aveva un soprannome che in questo momento mi sfugge. Leizer-il-grosso. Oppure Leizer-il-neroO forse Leizer-il-ridanciano, perché era grosso e scuro, e rideva giorno e notte senza sosta, e soprattutto senza motivo- Quanto al suo cognome, io non l'ho mai saputo. Lui nemmeno. Viso rotondo, segnato da cicatrici. Sguardo birichino. Corpo pesante, braccia enormi. Andatura strascicante, staccava Ì piedi dal suolo con fatica. Dormiva all'asilo e viveva di elemosina. Cosa strana, non entrava mai nelle case; rimaneva fuori, nel cortile o davanti al porticato, aspettando che gli portassero un pezzo di pane spalmato d'olio, alcune patate bollite, una tazza di latte, qualche soldo. Adorava giocare con i bambini che tornavano da scuola. Li incoraggiava a picchiarlo, a lanciargli dei sassi. Più lo maltrattavano, più si divertiva. D'altra parte, gli antisemiti evitavano di scontrarsi con lui. Era l'unico ebreo che se ne andasse a spasso, fuori, la notte di Natale. Incoscienza o provocazione? Fatto sta che i
monelli lo lasciavano in pace. Vedevo perciò in lui la reincarnazione del Golem, l'essere d'argilla, dotato di forza ma non d'intelligenza, che un tempo la leggenda aveva dato agli ebrei di Praga, intelligenti ma deboli, per proteggerli. Anche noi avevamo bisogno di un protettore-Durante i lunghi mesi dell'inverno, se ne stava disteso sulla stura all'ingresso del TalmudToràh, e sembrava tenersi pronto ad una chiamata. Man mano che si avvicinava la Pasqua, la sua risata si faceva nervosa, quasi convulsa. Credevo di comprendere perché: come il primo Golem, quello di Praga, Leizer si sentiva in dovere di vegliare, di stare pronto a mettersi tra noi e i nostri nemici che, da secoli, si scatenavano contro di noi, specialmente durante le festività. Lo vidi per l'ultima volta il giorno della liquidazione del ghetto. Faceva parte del primo convoglio. Quel giorno mi parve più cupo, più incollerito: qualcuno gli impediva di compiere la sua missione, di scagliarsi in avanti e calpestare al suo passaggio i portatori di odio e di sangue- II suo respiro mi sembrava più pesante, simile a quello di una bestia bastonata. Avrei dovuto notare che non rideva più. Questo avrebbe potuto servire da avvertimento. Ancora una storia di mendicanti.l'ultima.Tranquillizzate-vi: essa narra le avventure di un principe- Perché ce n'era uno tra noi. Vedrete. A ognuno il suo principe. Si caccia uno all'inferno, si fa sedere l'altro su un bianco regale destriero. Il terzo s'invola sulle ali della leggenda. Quanto al mio principe, non aveva in capo alcun diadema- Non prometteva mari e monti né favori, non esigeva obbedienza né onori, e nemmeno li cercava. Anzi, non cercava nulla. Simboleggiava qualcosa? Se si, a nessuno fu dato saperlo. Nascondeva delle meraviglie, dei tesori? A nessuno fu mai dato vederli. Il mio principe non si distingueva né per il suo splendore, né per la sua eleganza, e nemmeno per la sua giovinez
za. Era vecchio ed i suoi abiti a brandelli. Ad eccezione del suo volto, non possedeva nulla. Era un povero, il mendicante più povero della comunità. Come gli altri, dormiva accanto alla stufa, nella scuola. Ogni mattina, recandomi alla funzione, lo trovavo seduto sull'ultimo banco, perduto in un vago fantasticare, l'occhio carico di una pena senza nome. Silenzioso, solitario, mendicava raramente, e quando lo faceva non sollecitava mai l'elemosina, almeno con la parola. Se ne restava H, davanti a voi, guardandovi sottecchi. Esaudito o no, sorrideva, borbottava un ringraziamento affrettato, e proseguiva per la sua strada. Qualcosa nel suo comportamento, nei suoi gesti appena abbozzati, suscitava l'affetto più che la carità. II rispetto più che la compassione condiscendente. Lo chiamavano Shmulder. Era il suo nome o il suo cognome? Lo ignoro. Come tutti, però, sapevo che veniva da lontano- Era arrivato durante la guerra, indossando un'uniforme da ufficiale. Vincitore o vinto? Occupante o prigioniero? Le opinioni erano divise. Lui stesso le ascoltava distrattamente senza mai fare commenti. Perché aveva deciso di stabilirsi nella nostra cittadina? Perché non se ne tornava a casa sua? Il mistero che Io circondava suscitava diversi racconti a guisa di possibili spiegazioni. Era un grande industriale berlinese, un artista rinomato a Vienna. Aveva una fidanzata ricca e bellissima a Budapest: cantante o ballerina classica. No: una donna più giovane di lui, più anziana di sua madre. E si drogava. No: era lui che si drogava. Ma era veramente un ebreo? Non capiva lo yiddish, cosa che, nella nostra regione, sarebbe bastato a renderlo sospetto- Ma un mattino lo sorpresi nella sinagoga, con i filatteri sulla fronte e sul braccio sinistro; sembrava un altro uomo. Alcuni lo prendevano per un penitente, altri per un convertito. Avventuriere, santo, giusto, poeta in fuga o malfattore scarcerato: avrebbe potuto essere tutto questo.
Col passare degli anni, si smise di importunarlo. Avevamo paura che, stanco della nostra curiosità, riprendesse la strada. In effetti, gli capitava di scomparire per giorni e notti, senza dire dove andava. Presso la sua famiglia? Dalla sua fidanzata? Dai suoi soci in affari? Probabilmente si rintanava in qualche grotta sulla montagna, o errava nelle foreste, senza mèta, da uomo libero che non ha da rendere conto a nessuno. Ma ricompariva sempre nella casa di studio senza averci dato il tempo di preoccuparci veramente. Una volta lo invitai a condividere il nostro pasto di Pasqua. Mi ringraziò con effusione, ma dichiarò di aver accettato l'invito di un'altra famiglia- Quale? « Mancherei di educazione se vi rivelassi il suo nome », disse. Non potei far altro che inchinarmi. Ma durante tutta la festa restò assente dalla casa di studio- Lo cercai invano in tutti gli altri luoghi di preghiera. Allora sorse in me un sospetto: e se fosse andato a celebrare il Seder a casa sua? Quello che si raccontava era dunque vero? Il giorno dopo Pasqua lo rividi, seduto sul suo solito banco. Gli chiesi se aveva passato bene la festa. « SÌ », rispose. « Dove? ». « Oh, non molto lonano da qui ». « Un posto che conosco? ». « No, non credo. Almeno, non ancora ». « Pensate che potrei andarci con voi, la prossima volta? ». « Certamente, a patto che vi procuriate un regolare invito ». A quel tempo passava già per matto. Eppure non dava alcun segno di follia. Non lo si poteva accusare di alcun atto irrazionale, né di abitudini anormali. Non provocava scenate, non manifestava alcun gusto per la violenza, né s'immischiava in alcuna sommossa. Poco ingombrante, viveva senza far rumore. Meglio ancora: era educato, colto. Sapeva esprimersi in diverse lingue- Lo si diceva appassionato di letteratura e esperto d'arte. Tutto faceva pensare che avesse frequentato delle università, fosse cresciuto e avesse vissuto nell'agiatezza. Ma non confessava nulla. Matto, lui? Semplicemente
perché aveva abbandonato la bella vita, la grande città, per una borgata polverosa come la nostra? No, mi dicevo, non è pazzo, la sua presenza tra noi è certo dovuta a qualche disegno segreto che lo lega a noi. In un primo tempo vidi in lui un saddiq travestito la cui missione era quella di radunare le anime errabonde, le scintille sperdute, e riunirle alla primitiva fiamma sacra, quella che lega il Creatore alla sua creazione. In seguito, non so perché, mi misi a trattarlo come un principe del lontano regno delle dieci tribù perdute. Un giorno, dopo un avvenimento qualsiasi, sarebbe tornato al suo castello. Allora avremmo saputo la verità. Ma sarebbe stato troppo tardi. II principe non sarebbe più tornato nella nostra piccola città. E l'avvenimento si verificò. La Pasqua 1944 vide le nostre sinagoghe chiuse, le case di studio e di preghiera evacuate. Mi ponevo mille inquietanti interrogativi, tra Ì quali questo: dove si sarebbe rifugiato Shmukier? Cercai di informarmi ma senza alcun risultato. Interrogai gli altri pazzi, gli altri mendicanti. Nel disordine generale, ognuno aveva troppe preoccupazioni per pensare a Shmukier, Apparentemente scomparso senza lasciare traccia. Avevo anch'io troppe preoccupazioni di ordine personale per attardarmi sul suo caso. Questa volta ancora finii col ritrovarlo. Il primo convoglio stava per lasciare il ghetto. Scorsi Shmukier da lontano. La sua figura spiccava come isolata. Calmo, sereno, padrone dei suoi gesti e dei suoi sguardi. Non ricordo più se aveva in mano una valigia o un fagotto. Credo di no, poiché portava la borsa di una vecchietta che si strascinava al suo fianco. Sorrideva, e anche i suoi occhi sorridevano. Come se avesse compreso dove Io conducevano. Sapeva che Io stavano riportando a casa sua. Le altre vittime lo aspettavano già, laggiù, nel misterioso palazzo del re invisibile. Sapeva che gli avrebbero fatto cavalcare un nero de-
strierò che si sarebbe alzato molto in alto, sempre più in alto, per indicare al re gli incendiari in basso. E sapeva anche che non sarebbe mai più tornato nella città della mia infanzia. Così, venticinque anni dopo quell'avvenimento, io vi pongo la domanda: in che modo commemorare la sua morte e quella di un'intera comunità? Che cosa dire, fare? Quante candele accendere, quante preghiere ripetere e quante volte? Se qualcuno sa la risposta, quello non sono io. Io la sto ancora cercando. Continuo a non sapere come conservare viva l'immagine di una città che sono sempre meno sicuro d'avere conosciuto, Ecco perché spesso, parlandone, l'abbellisco, e spesso più di quanto sia lecito farlo. Non l'ho conosciuta nella sua bruttezza, ma in ciò che aveva di più esaltante: quale appariva ad un giovane ebreo per il quale i suoi contomi si sposavano al mondo della sua immaginazione. Ero troppo giovane per cogliere il senso delle conversazioni anodine delle persone; ascoltavo soltanto le loro preghiere. Ero troppo innocente per capire la fame e la miseria dei nostri mendicanti, lo strazio dei nostri sognatori, il supplizio dei nostri folli. Anche se adesso sono meno ingenuo, continuo a vederli come la mia fantasia me li dipinge: esseri di un paradiso dal quale era escluso tutto ciò che è umanoLi vedo ancora — e sempre li vedrò — camminare verso la stazione, le teste basse, le bocche aperte e contorte dalla sete. Camminano e camminano senza sosta, senza riposo, poiché i moni non hanno bisogno di riposo. Sono instancabili, i morti, e nessuna volontà può intralciare la loro marcia. Perfino l'angelo della morte è ormai senza alcun potere su di loro: essi sono più forti di lui, più forti di noi. E tutto quello che possiamo fare è guardarli camminare e raccontare la loro marcia, la storia della loro marcia che è la storia di una fine, una storia senza fine.
camminano e camminano, come verso un incontro nel tempo, e non nello spazio. Un incontro con chi? Per non offenderli, qualcuno dovrebbe aspettarli. Chi? Chiunque. Ma non dovunque. Solamente a Sighet. Ma Sighet non si trova solante a Sighet. Poiché questa città, inventata da loro, la portano con sé, dandole mille nomi e mille patrie. Ed essa li segue, ed anch'io li seguo da lontano, non osando avvicinarmi troppo. Seguo le loro tracce e mormoro dei salmi, poi mi metto a recitare il tjaddish una volta, dieci volte, cento volte -quante volte, ve lo chiedo, quante volte si deve recitare il qaddish per la mone di un'intera comunità inghiottita nelle proprie ceneri, quante volte bisogna ripeterlo per il venticinquesimo anniversario di questa morte? Non Io so, non lo saprò mai. Io so soltanto che è giocoforza inventare nuove preghiere, sia per i corpi che per le anime. Chiunque infatti vi dice che l'anima vola più in alto del corpo, fatelo tacere, non sa quel che dice. Non ha visto gli ebrei della mia città, gli ebrei di tutte le città come la mia, non ha visto Ì loro corpi diventare leggeri come il fuoco e le ceneri invadere il cielo.
DIALOGHI - I
Da quanto sei qui? Da ieri.
Da ieri soltanto? No. Da sempre. È come se fossi nato qui.
La parola « nascita » non è adatta a questo luogo. Questo vale per tutte le parole.
Eppure te ne servi. Sempre meno.
Ti stanca parlare? Non si tratta di questo. Le parole imprigionano, mentre io desidero evadere.
E ci riesci? A volte.
In che modo? Con delle immagini.
Quali? Quelle di una vita già vissuta.
Quando? Dove? A casa mia. Prima.
Allora, c'è stato un « prima », Sì. Credo. Lo spero.
E tu vi ritorni? Credo. Spero. Per far che cosa? Mangiare.
Tutto qui? Sì. Mangiare senza sosta. Con i miei genitori. I pasti dello Shabbat. Con gli amici, gli invitati, i mendicanti di passaggio. Pane bianco, pesce, legumi. Mangiare lentamente, molto lentamente. Masticare. Assaporare. Frutti, dolciumi. In abbondanza. Dal mattino alla sera. Non pensi che a questo? Non vedo che questo. E l'avvenire? Ci pensi mai? Sì. La minestra di questa sera, il pane secco di domani: è questo l'avvenire? Ma io ho già trangugiato la minestra col pensiero. Il pane l'ho già divorato. Non c'è più avvenire.
Chi sei? Un numero.
Il tuo nome? Sparito. Volato via. In cielo. Guarda il cielo nero, nero di nomi.
Non posso guardare il cielo. I fili spinati mi nascondono la vista, Io invece posso. Io guardo i fili spinati e so che quello che vedo è il cielo.
Ci sono dei fili spinati anche lassù? Certamente.
E tutto quello che si portano appresso? Tutto.
I torturatori? I carnefici? Le vittime che non hanno né la forza né la voglia di resistere, di sorridere alle ombre? È come qui, ti dico.
Allora siamo perduti. Soltanto noi?
Quanti anni hai? Quindici. O più. Forse meno. Non ne so nulla. E tu?
Cinquanta. Ti invidio. Sembri più giovane.
h tu più vecchio. Del resto, ci stiamo sbagliando, ne sono sicuro. Io ho cinquant'anni e tu quindici. Ti secca?
Affatto. Io o te, è la stessa cosa. Tutto è la stessa cosa. Tu, per caso, sai chi sei? No. E tu?
Nemmeno. Sei almeno sicuro di esistere?
No. E tu? Nemmeno io.
Ma Ì nostri volti? Cosa sono diventati? Maschere. Prestate a chi non ha volto.
Dormi? No. È tutt'altra cosa.
Sogni? Fai sogni a occhi aperti? Dai libero sfogo alla tua immaginazione? Ti vedi come un essere umano e soddisfatto? Now ne ho più la forza. Allora cosa fai? Hai gli occhi spalancati. Gioco. Fai cosa? Gioco. A cosa? A scacchi. E con chi? Non lo so. Chi vince? Ignoro anche questo. So solamente chi perde. Ehi, tu! Si direbbe che stai pregando. Errore.
Le tue labbra si muovono in continuazione. Questione d'abitudine senza dubbio.
Pregavi dunque tanto così? Tanto così e anche più.
Cosa chiedevi nelle tue preghiere? Niente.
Il perdono? Forse.
La conoscenza? È possibile.
L'amicizia? Sì, l'amicizia.
La possibilità di vincere il male e di allearti con il bene? La certezza di vivere nella verità, o di vivere e basta? Forse.
E lo chiami niente? Esattamente. Lo chiamo niente.
Eri ricco? Ricchissimo. Come un re. Cosa faceva tuo padre? Il commerciante. Lavorava sodo per guadagnarsi da vivere. Credevo che la gente ricca non lavorasse. Mio padre lavorava. Si alzava all'alba, andava a letto dopo mezzanotte. Mia madre lo aiutava. Lo aiutavamo tutti. Anche i bambini. Non avevamo scelta. Allora non era ricco. Sì. Nessun mendicante ci lasciava senza aver ricevuto un buon pasto, consumato alla nostra tavola, insieme a noi. Mia madre lo serviva per primo. Per le feste, la casa era piena di poveri: i nostri invitati di riguardo. Dove abitavate? In un palazzo. Grande, immenso. E bello. Lussuoso. Unico.
Quante camere? Tre. No, quattro. Si stava un po' pigiati, e non c'era acqua corrente. Però era ugualmente un palazzo.
vi tornerai un giorno;* Mai. Non esiste più, il palazzo.
Che conti di fare quando tutto questo sarà finito? Costruire una casa e riempirla di cibo. Poi inviterò tutti i poveri della terra perché vengano a condividere i miei pasti. Ma...
Sì? ...nessuno verrà, perché tutto questo non finirà mai.
Lo sai che sei fissato? Non hai che un'idea, un desiderio: mangiare a sazietà. Ho fame. Non è bello pensarci continuamente. Non è bello avere sempre fame. Vuoi dire che non c'è altro che conti? Non esiste altro. E le idee? Gli ideali? I grandiosi sogni dell'uomo che impone la sua volontà all'universo? Le gioie del vecchio che scopre il segreto dell'attesa? Te li dò in cambio di un boccone di pane. E Dio? Non parliamo di Dio. Non qui. Hai forse smesso di credere in lui? Non ho detto questo. Devo allora dedurne che la tua fede non ti ha abbandonato? Non ho detto neanche questo. Ho detto che rifiuto di parlarne, di parlarne qui. Dire sì, sarebbe mentire. Dire no, anche. Sono disposto, a rigore, a rivolgergli un grido di collera, un segno, un sussurro. Ma farne — qui — un soggetto di discussione teologica, questo noi Dio qui è la scodella di minestra che ti gettano in più, o invece ti rubano semplicemente perché l'altro, davanti a te, è più forte o più scaltro. Dio qui non è nelle frasi, umili o magniloquenti, è nel boccone di pane...
Che hai ricevuto o riceverai? ...ciò che non avrai mai.
Ti ricorderai di me? Te lo prometto.
Come farai? Non sai chi sono, io stesso non Io so. Non ha importanza: mi ricorderò della mia promessa.
A lungo? Il più a lungo possibile. Forse per tutta la vita. Ma... perché ridi?
Perché ti possa ricordare della mia risata, come pure del mio sguardo. Tu menti. Ridi perché stai diventando pazzo.
Benone! Ricordati della mia follia. Dimmi... sono io che ti faccio ridere?
Non soltanto tu. No, piccolo mio, non soltanto tu.
STORIA DI UNA PROMESSA
C'era una volta un povero visionario che voleva liberare i dannati dalla loro notte. Per costringerli a vivere, si era proclamato immortale. Non ricordo il suo nome e nemmeno la sua età; ricordo soltanto il suo viso e, soprattutto, i suoi occhi che sembravano divorarlo. Aveva il volto di un invasato e gli occhi di un santo, nemici l'uno dell'altro. Parlava e le sue labbra' si muovevano appena: la sua voce gli giungeva da lontano. Apparteneva a un uomo che, nella sua caverna, sfidava la montagna. Lo avevo incontrato da qualche parte, in un paese notturno, stregato, dove innumerevoli fantasmi, senza legami e senza destino, fuori del tempo e oltre la storia, costruivano un'immensa scala di Giacobbe, invisibile e a senso unico. Ai piedi della scala, ognuno attendeva il proprio turno per risalire lassù, purificato dai fuoco. Richiamato da Dio, l'uomo lasciava la terra. Era necessario ricominciare tutto da capo- La creazione aveva fallito; il sogno primitivo era degenerato in maledizione. Ma il nostro visionario non voleva crederlo. Pretendeva, lui, che ci trovavamo nel santuario del Messia. Mancava d'umorismo, ma non di immaginazione.
Era un Giusto, ma noi lo chiamavamo « il profeta ». Per affetto. Per prenderlo in giro, per provocarlo. Ignoro chi gli avesse affibbiato quel nomignolo e per quali motivi. Ignoro anche se gli piaceva o se lo irritava. So solamente che gli si adattava perfettamente. Il profeta si esprimeva come un profeta. SÌ attribuiva il potere di far rivivere il passato di ognuno, ci restituiva le nostre case e i nostri ricordi. Eppure Ì suoi racconti, che ascoltavamo in silenzio, la gola stretta, si riferivano sempre all'avvenire. Il fatto è che avevamo bisogno di avvenire. Alto, emaciato, scarno, la sua presenza ci rassicurava, ci dava pace. Dicevamo: se questo corpo è capace di sopportare tante prove, anche il nostro lo sarà. Lavorava come tutti e come tutti soffriva il freddo, la fame e la crudeltà dei sorveglianti. Non l'ho mai sentito lamentarsi. Ci sorprendeva per il suo buon umore, la sua vitalità. Da dove traeva la sua forza, la sua fede? Non ne sapevamo nulla. Ignoravamo anche da dove fosse venuto e cosa facesse prima della guerra. Conosceva troppe lingue, troppe cose e troppi paesi: ci disorientava. Avrebbe potuto essere originario della Polonia, della Lituania o di Salonicco: medico o scienziato, rabbino o alchimista, mendicante o filologo. Tutti i gruppi etnici lo rivendicavano, ed egli rivendicava tutti i mestieri. Quando gli facevamo qualche domanda, la eludeva sorridendo: « II mio passato non vi dovrebbe interessare, ciò che conta è il mio avvenire ». Gli perdonavamo il suo gusto per il mistero. Lo amavamo troppo per rimproverarglielo. I suoi segreti, le sue debolezze non ci riguardavano. Gli eravamo grati per ciò che faceva a viso scoperto, in quel presente che si accaniva a rendere sopportabile. Lo amavamo perché rispondeva ad ogni appello, perché combatteva il male e voleva essere umano in un universo che negava l'umano — e non se ne vantava mai. Sfuggiva Ì ringraziamenti. Diceva: « Ciò che
taccio, lo taccio a nome vostro, non sono che il vostro messaggero ». Oppure: « Ma non avete capito niente! È grazie a voi che sono quello che sono; siete voi che avete diritto alla mia gratitudine! ». Lo amavamo perché ci esortava alla dignità e al coraggio, alla fraternità delle vittime e al loro dovere di sopravvivere. Per questo rispettavamo il suo riserbo, i suoi silenzi. La sua solitudine era affar suo dopotutto. Fino al giorno in cui, trasfigurato, ci annunciò che aveva deciso di rivelarsi al mondo che non Io aspettava più. Era un sabato d'autunno. Un sabato di sangue. Stavamo eseguendo i nostri lavori di sgombero nell'officina che era stata bombardata il giorno prima. I padroni schiumavano di rabbia e si vendicavano sugli schiavi. II direttore del cantiere, indicando le macerie, ci lanciò un breve avvertimento: « Non rallegratevi troppo presto. Questa guerra sarà vinta un giorno, ma non da voi ». I guardiani si incaricarono di dimostrarcelo immediatamente assalendoci con ferocia. Colpivano nel mucchio. Il nostro gruppo ebbe tre morti e nove feriti. Il morale non era mai stato così basso. Lottare ci sembrava ormai del tutto inutile. Non saremmo stati più lì per festeggiare la disfatta della Germania. Sfiniti, col cuore greve, sentivamo avvicinarsi la fine. Non ne potevamo più. Non così il profeta, I colpi non lo avevano intaccato. Sebbene contuso, camminava eretto, la fronte alta, l'occhio duro. Andava dall'uno all'altro, pieno di brio, e ci supplicava di tenere duro, di non perdere la speranza. Invano. Non avevamo la forza di ascoltarlo. La sera, dopo l'appello, ci fece sedere sulle cuccette, mentre lui, in piedi nello stretto corridoio, ci predicava la resistenza: « Ebrei, fratelli miei, ascoltatemi. È tutto quello che vi chiedo: non rifiutate le mie parole. Non abbiamo il diritto di non sopravvivere. Chi testimonierà per noi se
non noi stessi/ Uà quale notte scoccnerà la scintilla se non dalla nostra? Un giorno bisognerà raccontare tutto, e nessuno parlerà al posto nostro. Bisognerà urlare contro Ì pazzi della morte; nessuno urlerà al posto nostro. Ora il giorno è vicino, la liberazione è in vista, ve lo dico io, ve lo prometto. Per l'amor del cielo, amici, non lasciatevi abbattere. Per l'amore della vita, fratelli, non rassegnatevi a subire la legge del carnefice; avete il potere di schernirla, di revocarla. Non arrendetevi. Aggrappatevi a me. Io vi dò l'avvenire, il mio, il vostroTenete duro, vi dico! ». La prima volta, la sua esortazione cadde nel vuoto. « E che! — esclamò indignato — non avete fiducia in me? Vi ho mai mentito? ». Qualcuno cercò di calmarlo: « Perdonaci, non è colpa nostra, e neanche tua; non ne possiamo più ». Un altro aggiunse: « L'avvenire che tu ci offri, i tedeschi lo hanno già avvelenato ». E un terzo: « Povero profeta, è proprio così; la profezia tedesca batterà la tua. Saremo tutti liquidati- Dio stesso non potrebbe aiutarci. Anche lui è impotente contro la morte ». Al che, il primo, tenne a replicare: « Impotente, dici? Balle! Dio è la morte! Ecco perché siamo tutti perduti. Non è vero, profeta? ». Questi abbassò il capo e restò a lungo in silenzio. Non potei reprimere un senso di pietà per lui: avrebbe voltato pagina, sarebbe rientrato nei ranghi? Apparentemente sì. Vinto, non ci avrebbe più consolato. Pensavo: lo abbiamo rinnegato. Dopo un interminabile silenzio, si raddrizzò con un movimento brusco; non era più lo stesso. Convulso, fremente di collera, con i tratti del volto alterati, volse uno sguardo febbrile sul suo pubblico il quale, con aria assente, non aspettava che la sua partenza per ripiombare nel conforto del torpore. Apatici, aspiravamo all'oblio, al vuoto. Un solo desiderio: cadere nel precipizio. Non pensare
più, non accumulare più progetti e miracoli gli uni più insensati degli altri, finirla con l'angoscia opprimente, soffocante, che essi generavano. Affogare nelle acque opache di un fiume che non sbocca in alcun mare. Morire prima del corpo. « Vi rifiutate di capire! », riprese improvvisamente con foga il nostro oratore. Nessuna reazione. Incapaci di capire, avevamo fretta di vederlo andar via. E poi, cosa c'era da capire? Pensavo: il narratore di storie non ha più storie da raccontare. Sembrò darmi ragione. Ebbe un gesto di stizza e, senza abbandonarci con lo sguardo, cominciò ad indietreggiare verso l'uscita, fermandosi ad ogni passo, certo che lo avremmo comunque richiamato. Non eravamo Ì suoi amici, Ì suoi fratelli? No. Muti, lo seguivamo con lo sguardo e nessuno lo pregò di tornare indietro. Ma lui tornò. « Vi rifiutate di capire, ripetè con tono ferito ma più dolce. E va bene, vi costringerò io a farlo. Sarà facile. Del resto, non mi lasciate scelta ». DÌ colpo, ogni traccia di collera era scomparsa dalla sua voce, grave e melodiosa; egli tornava ad essere il profeta, evocatore della promessa. Misurando a grandi passi il passaggio tra le cuccette, le mani annodate dietro la schiena, ci confidò la sua visione segreta: « Quando la disgrazia colpisce una delle nostre comunità disperse, è il popolo nel suo complesso che viene colpito- II nemico che ci attacca non mira soltanto ai saggi miopi, ai sonnambuli, ai commercianti o ai clienti. Chi dà la morte ad un ebreo, cerca di annientare tutti gli ebrei. Banchieri e rabbini, scribi e vagabondi, vecchi e bambini: noi rappresentiamo delle ferite nel corpo di Israele. Oscillando tra due assoluti, quello della vita e quello della morte, l'ebreo impegna con la sua scelta tutto il suo popolo. Per lui tutto è segno, e ogni segno è destino. Finché è in vita, finché uno di noi è in vita, tutto è ancora possibile... ».
Parlava, parlava, ma noi continuavamo a non capire. Dovette rendersene conto, perché si fermò e riprese con tono diverso: « Le nostre prove ci situano a livello della Storia; a noi superarla. Pensate al Messia che ne è il simbolo. Voi lo collocate in cielo, ed egli si trova tra noi. Voi lo immaginate al sicuro, al riparo, ed egli ha raggiunto le vittime. Sì, anche luì. soprattutto lui conosce il dolore che vi consuma, il pugno che vi schiaccia: la notte che ci imprigiona è anche la sua notte. Ed è lui, presente, che vi chiede di non disperare. È lui che ha bisogno di voi. Non lo abbandonate, Abbiate pietà di lui, lo merita. Non l'abbandonate. Fate che non debba ritrovarsi l'unico sopravvissuto del suo popolo ». Travolto dalla sua visione fattasi selvaggia, citò testi e leggende del Talmud: « Sta scritto: che l'umanità raggiunga l'innocenza o la colpevolezza totale, e il Messia farà la sua apparizione, Ebbene, essa è colpevole e noi ne siamo testimoni. Nessuno può pretendere di essere innocente. Noi costituiamo la prova irrefutabile che l'uomo ha tradito la propria immagine, la propria missione; ci incombe dunque l'obbligo di proclamare la fine del suo regno. Già a nostra insaputa è stata proclamata. Siamo gli emissari di una nuova era. Presto riecheggerà il suono dello shofar che dissiperà le tenebre- Si tratta quindi di resistere un giorno, una settimana, un mese, e assisterete al sorgere dell'alba; e gli uomini, in ginocchio, ci chiederanno perdono: sono io che ve lo prometto, è LUÌ che ve lo dice ». Eh si. parlava bene. Come il solito. Le frasi si susseguivano, si spezzavano, si infiammavano. Ma adesso restavamo insensibili alla loro bellezza: esse si spegnevano cammin facendo, e ricadevano in cenere prima di averci raggiunti. « La vostra incredulità non mi sorprende — concluse con tono per metà doloroso e per metà canzonatorio —. Me l'aspettavo. Ma mi state ascollando; per il momento, questo
mi basta. Perciò vi rivelerò una verità che non potete rifiutare: sapete perché mi chiamate profeta? Perché lo sono ». Quella notte, nei miei sogni, lo sentii ridere e piangere; ignoravo perché. Naturalmente, non avevamo preso sul serio il suo discorso. LUÌ sì. Se stava recitando una parte, nessuno lo sapeva, comunque la recitava fino in fondo. Assumendosi il suo ruolo, ci associava ad esso; spettatori o complici, non potevamo fare a meno di vederlo all'opera. SÌ occupava dei malati, si offriva volontario per i lavori peggiori, divideva il suo pane con chiunque glielo chiedesse: si prodigava senza sosta e non viveva che per gli altri. Alcuni Io ammiravano, altri lo compiangevano. Quando passava, le conversazioni morivano- La gente si scambiava strizzatine d'occhio e mor-morii; poveretto, sta perdendo la testa' I suoi amici, sempre più preoccupati, l'imploravano di ritornare in sé, di non buttarsi via inutilmente: tentare il destino è un peccato. Alzava le spalle e raddoppiava di zelo. Lungi dall'evitare l'eccesso, lo cercava. Gli chiedevo: « Perché affronti tanti rischi? ». Rispondeva: « Io non rischio nulla ». « Non temi la morte? ». « Perché dovrei temerla? DÌO solo mi fa paura. Alla morte quasi non ci penso ». « Ma che cosa speri di dimostrare? ». « Che non sono un bugiardo ». La fortuna che lo assisteva ci affascinava e divenne oggetto di scommesse: gli scettici perdevano sempre. In effetti il profeta sembrava indistruttibile. Un giorno ebbe a che fare con il kapò più temuto del campo, Hansil-Boia, il quale sosteneva che gli era stata rubata una scatoletta di marmellata. Proferendo minacce ed ingiurie, esigeva dalla baracca che il colpevole fosse denunciato, altrimenti sarebbero stati puniti tutti. Il profeta uscì dalla fila: « Sono io ». Allibito, Hans Io fissava senza capire. « Sì, sono io il ladro », riprese il profeta senza batter ciglio. Il boia si riscosse: « E il barattolo? - ruggì - dov'è
il barattolo? ». « L'ho mangiato », disse il profeta calmissimo. I due uomini si squadrarono a lungo. Hans corrugò la fronte. Brutto segno. Trattenni il fiato e chiusi gli occhi. Li riaprii immediatamente; Hans stava venendo meno alla propria leggenda. Si torceva dalle risate; « Tu menti! Questo furto, me lo sono inventato! La scatoletta di marmellata è nell'armadio! Vieni, te la faccio vedere! ». E gli fece dono della vita e di un grosso pezzo di pane. Non sapevamo più cosa pensare. La selezione d'inverno ebbe luogo poco tempo dopo. Per il profeta fu la prova ultima e fatale. Il medico militare lo giudicò inabile al lavoro. La notizia sconvolse il campo, che decise di venire in suo aiuto. Fu creato un comitato speciale. Aveva una settimana per tentare un'operazione di salvataggio- Una settimana per organizzare una colletta, avvicinare persone influenti, comprare complicità, stabilire un piano e metterlo in atto. Azione di solidarietà di una portata senza precedenti negli annali del campo: vi parteciparono più di cento persone. Mai tanti sforzi erano stati fatti, e da tanti detenuti, per salvare un solo ebreo. Perché lui? Perché era amato da tutti: ciascuno gli doveva un momento di tregua, un gesto di gratitudine. E anche perché, oscuramente, sentivamo che rappresentava la nostra unica possibilità di superamento. Salvando lui, era la nostra probabilità di sopravvivenza che speravamo salvaguardare. Continuavamo a non credere ai suoi doni e poteri profetici, ma ci comportavamo come se da quelli dipendesse la nostra sorte, In quanto a lui, prendeva la cosa alla leggera. Sapeva che stavamo facendo tutto il possibile per ricuperarlo? Sì. E questo lo divertiva. Prima di noi, e meglio di noi, si era reso conto che i nostri tentativi sarebbero finiti in un fallimento; la sentenza era senza appello. Sette giorni dopo la selezione, in un mattino sereno, il profeta ricevette l'ordine di restare nella baracca: per quel
giorno era dispensato dal lavoro. Sapevamo cosa voleva dire. Anche lui lo sapeva. I suoi amici avevano le lacrime agli occhi. LUÌ no. Fino all'ultimo momento esercitava, nei nostri riguardi, il suo ruolo di consolatorc. Sorrideva, dicendoci addio; « Non piangete, potrebbe indebolirvi. Di due cose l'una; o sono io, o sono Lui. In entrambi i casi, una cosa è certa: Lui non vi lascerà. Allora, perché piangere? », Qualcuno ebbe il tempo di domandargli: « Tu dici; Lui. Di chi parli? ». Il profeta non ebbe il tempo di rispondergli. Ci lasciò. Non l'abbiamo più rivisto. Ancora non so a chi si riferiva. Mi domando se lo saprò, un giorno. Spesso penso a lui. Mi capita ogni volta che sento il canto chassidico 'Ani Ma'amin, che proclama la fede dell'ebreo nella venuta del Messia. Quando ero bambino, ci credevo con fervore. Ci credo ancora, ma è soprattutto per ritrovare quel fervore. Se consideriamo i fatti, la promessa formulata dal profeta, la sera della sua « rivelazione », è stata mantenuta: tutti noi che eravamo intorno a lui, noi, siamo sopravvissuti.
PAGINE DI UN DIARIO Per Jean Halperin Vicinissime al luogo dove abito, all'angolo della 101" strada, fra Broadway e la West End Avenue a Manhattan, c'è un modesto oratorio chassidico — uno Shitbel — che mi ricorda i luoghi di preghiera della mia infanzia. Salvo che, qui, le funzioni si svolgono nel sottosuolo. I fedeli che vi si riuniscono sono per la maggior parte degli scampati. Originar! di Varsavia e dintorni, hanno vissuto nelle loro carni le ore della sua agonia. Tutti hanno conosciuto la realtà concentra-zionaria. Ne parlano soltanto durante le feste. E ascoltandoli capisco ciò che Rabbi Nachman di Brafi-slava intendeva dire quando espresse il desiderio che i suoi racconti fossero trasformati in preghiere.
Pasqua
Caffettano nero, feltro nero, sguardo luminoso dietro gli occhiali di tartaruga: Reb Avraham Zemba appartiene al mondo dei miei ricordi, se non altro per il suo modo di vestire. Amabile, direi amichevole, non vi rivolge la parola se non per condividere con voi un commento tratto dallo Sfat-Emet o dal Khidushei-Harim, pilastri del chassidismo di Guer. Non lo si vede pregare che di spalle. A volte, si indovina il fremito che Io percorre. Qui, il settimo giorno di Pesah recitavamo tutti il qad-dish, mi disse. Era il giorno del nostro arrivo a Treblinka. Eravamo stati tra gli ultimi a lasciare il ghetto in fiamme. In piena rivolta, sotto terra, sotto le macerie, avevamo nonostante tutto celebrato il Seder. Cantando.
E dopo un silenzio: — Il Midrash racconta che Rabbi Hanina ben Dossa pregava con tanto fervore che, senza accorgersene, gli capitava di afferrare una grossa pietra e di trasportarla altrove, Non conclude la leggenda. Ma c'è nei suoi occhi una pena così profonda ed un fervore così antico, che comprendo: quella pietra di Rabbi Hanina ben Dossa pesa adesso su di lui. Lo schiaccia con il suo peso e, se prega, non lo fa neppure per liberarsene. Pentecoste
Festa che commemora la rivelazione sul Sinai. L'incontro del popolo di Israele con il Dio e la Toràh di Israele. Ascoltiamo la lettura dei dieci comandamenti in piedi: non ruberai, non ucciderai. Naturalmente, sono sempre le vittime che li ripetono. Al termine della lettura, secondo le usanze, uno dei fedeli lancia un appello in favore dei talmudisti bisognosi. Oggi se ne incarica Yosseph Friedenson. Magro, febbrile, appassionato, questo militante ortodosso — redattore di un mensile in yiddish, ad alto livello — improvvisa una commovente arringa: — DÌO ha dato la Legge una sola volta — dice ~ ma ci chiede di riceverla ogni giorno. E noi, in cambio, Jion chiediamo che di esserne degni. Si interrompe per schiarirsi la gola, poi: — In linea di massima, per rispettare la tradizione, dovrei adesso decantare i meriti della Toràh. Non lo farò, sarebbe superfluo. La storia contemporanea lo ha già fatto. Essa costituisce una prova irrefutabile del fatto che, fra tutti i sistemi, tutte le ideologie, la Toràh è l'unica che non ha tradito l'uomo. Non ha prodotto né campi di concentramento, né fabbriche della morte. Questo vale anche per coloro che la rivendicano. Essi non provocano né sommosse razziali né disordini sociali, non incitano all'odio, al disprezzo. Non considerano l'uomo un oggetto o un ostacolo.
Non accusano nessuno né esigono vendetta alcuna. Hanno un solo desiderio: approfondire lo studio della Toràh, dedicarvi tutto il loro tempo. Ma non ne hanno Ì mezzi. Sta a noi aiutarli. Non sapranno da dove viene il denaro e noi non sapremo a chi sarà consegnato. Anonimato indispensabile per gli uni e per gli altri, affinchè non ne traggano né vanità né rimorsi... Strana colletta- Vi partecipano tutti. Eppure tutti qui, senza eccezione, hanno appena quanto basta per arrivare alla fine della settimana. La loro generosità mi ricorda un'umanità che non esiste più. Anno Nuovo
.. .Eravamo nel 1944. Fu deciso di organizzare un minyan, un servizio comune. Decisione pericolosa che avrebbe potuto trasformarsi in un disastro. Ma volevamo assolutamente accogliere l'Anno Nuovo come facevamo in passato, aggregandoci con la forza e la concentrazione dei nostri slanci. E i fili spinati? Li avremmo ignorati. E i carcerieri? Saremmo stati capaci di sfidarli. E la funzione ebbe luogo in una baracca colma da un capo all'altro. Perfino i kapò, perfino quelli che non credevano, in un raro slancio di solidarietà, tennero ad assistervi. Scovammo un cantore che ricordava il servizio liturgico a memoria. Lo recitò a voce alta, e il pubblico ripetè ogni versetto. La pena che provavamo per la nostra situazione era così grande che avevamo voglia di piangere. Ma riuscivamo a controllarci- Era necessario farlo, SÌ andò avanti cosi per un pezzo. Poi un uomo, mezzo curvo, non ne potè più e si lasciò andare. Un attimo dopo tutti singhiozzavano insieme a lui. Ricordavamo i parenti e i compagni del tempo in cui l'Europa ospitava rabbini e discepoli, mille sinagoghe e milioni di fedeli. Ricordavamo il tempo in cui la famiglia significava presenza e non lacerazione. Piangevamo sui morti e sui vivi, sulle case distrutte e le sinagoghe saccheggiate; piangevamo senza ritegno e senza speranza, e
sembrava che avremmo continuato a piangere così fino alla fìne di tutti gli esili, fino all'ultimo sopravvissuto... Improvvisamente dall'assemblea emerse un detenuto e cominciò a parlare: « Fratelli, ascoltatemi. Questa sera è Rosh-Hashanah, eccoci alle soglie di un nuovo anno. Anche se siamo tutti affamati, in lutto e pazzi di dolore, ritroviamo le nostre abitudini e i riti di una volta. Allora, dopo la funzione, andavamo ad augurare buon anno ai nostri genitori, figli e amici. Dove sono? Lo ignoriamo, o piuttosto lo sappiamo, il che è peggio. Pronunciamo ugualmente i nostri voti; Dio li trasmetta a chi di diritto ». Allora l'assemblea, come un sol uomo, gridò con forza, quasi volesse scuotere cielo e terra: buon anno, buon anno! E l'oratore seguitò: « Prima di separarci, dovremmo, sempre secondo l'uso, fare qiddush, benedire il pane e santificare il vino- Non abbiamo pane; quanto al vino, i nostri nemici ne sono ubriachi. Non ha importanza, prendiamo le nostre gavette e lasciamo colare dentro le nostre lacrime. In questo modo faremo giungere il nostro qiddush davanti a Dio e ai suoi messaggeri sulla terra », ...E adesso, dopo molti anni, in questo modesto oratorio chassidico, vicinissime a casa mia, osservo lo stesso oratore — Shimon Zucker — che si dondola avanti e indietro, durante lo stesso servizio di RoshHashanah. E mi dico che un giorno avrò il coraggio di andare da lui per sentirlo santificare il vino e benedire il pane. Grande Perdono
Questo racconto l'ho sentito da un ebreo anziano e triste: — La sera di Yom Kippur i morti e i vivi si mescolano gli uni con gli altri. Non ci credi? Superstizione, dici? Anch'io ero come te. E tuttavia...
È l'ultimo Yom Kippur di guerra. L'intero campo ascolta il cantore ripetere tre volte l'invocazione solenne del Kol Nidré. Segue la funzione di Ma'ariv, e quindi il Widduy, la confessione che enumera peccati e violazioni che un mortale potrebbe commettere o immaginare dalla nascita alla morte. Giunti a metà dell'enumerazione, scoppia un incidente. Un detenuto scarno, dal volto color cenere, spinge da parte il cantore con una gomitata brutale e si rivolge all'assemblea; « Fratelli, non vi permetto di mentire! No, noi non abbiamo peccato, non abbiamo tradito, non abbiamo derubato i nostri simili. Questa sera, per la prima volta dalla creazione siamo giudici e non imputati! Siamo noi che pronunceremo la sentenza! Altrimenti mancheremmo al nostro dovere! ». Un uomo, alla mia destra, mi stringe il braccio: « È... è lui! », mi sussurra, terrorizzato. Sulla punta dei piedi, osservo il detenuto che ha appena parlato e a mia volta sono colto da stupore. Lo conosciamo. Siamo dello stesso cantiere. E ieri, prima di tornare al campo, uno degli aguzzini lo ha ucciso. Il suo cadavere era stato riportato al campo e deposto davanti alla sua baracca, per l'appello. « Torno da lassù, dice, indicando il cielo con il dito. Conosco la verità. Ci hanno preso tutto. Hanno ucciso in noi perfino il gusto della gioia. Se, fin all'origine dell'avventura umana, vi sono stati uomini spogliati di ogni legame terreno, quelli siamo noi- Hanno soffocato in noi perfino la capacità di fare il male. Osserviamo tutti Ì comandamenti. Non uccidiamo, non desideriamo con bramosia, non siamo né spergiuri né ipocriti. Non assomigliamo ai nostri carnefici che invece uccidono l'uomo, e non fanno che questo, E allora, fratelli, vi domando: perché addossarci i loro crimini? Abbiamo il coraggio di proclamare la nostra innocenza, ed anche la nostra determinazione di sedere in tribunale... ». Passato il primo spavento, lo fanno tacere. Il cantore, livido in volto, ricomincia il Widduy dall'inizio. E i condan-
nati pronunciano con lui le formule rituali, menzognere, cercando di dimenticare l'interruzione. Ci dichiariamo colpevoli, e forse pensiamo di esserlo. Forse sentiamo la necessità di saperci colpevoli, perché, altrimenti, vorrebbe dire che Dio non sa quello che fa, non fa quello che vuole. Nonostante il filo spinato, e a causa di esso, ci sforziamo di credere che Dio esiste e che, nel suo libro, tutto è scritto, pesato, rettificato e compiuto. Terminata la funzione, scorgo il redivivo tornare alla caricaPercorre le file, si agita come un forsennato, supplica i compagni di non ripudiarlo, di unire i loro sguardi al suo, la loro fede alla sua collera. Lo respingono. Uno gli dice: « Pretendi di essere morto? I morti non ci fanno più alcun enetto », E un altro: « Dimentichi dove ti trovi. Dimentichi che la tua verità è anch'essa mona ». E un terzo: « Rinnegare Dio, qui, non richiede alcun coraggio, è persi-nò troppo facile, ammettilo! ». Sopraffatto dalla generale incredulità, il nostro compagno risale in cielo. Là Io trattano da indesiderabile. Lo informano che non lo vogliono più. Ha rivelato cose che non devono essere rivelate. Lo rispediscono sulla terra. E se viene alla funzione del Kol Ntdre, è per riscattarsi. ...Il vecchio ebreo ha terminato il suo racconto. Gli domando: — Quel morto-in-collera, chi era? Che ne è stato di lui in seguito? Gli occhi del mio interlocutore cambiano colore, cambiano espressione, ma rimangono vitrei: — Come osi? — esclama, visibilmente ferito. E si mette ad insultarmi, ad umiliarmi perché sono « troppo giovane per sapere tutto », Shabbat
Udito dallo scrittore israelita Moshé Prager: — Nei campi di concentramento c'erano dei kapò tedeschi, polacchi, ungheresi, cechi, sloveni, belgi, ucraini, fran
cesi e lituani. Erano cristiani, ebrei, atei. Erano stati universitari, industriali, artisti, commercianti, operai, militanti di sinistra e di destra, filosofi e esploratori dell'anima, marxisti e umanisti convinti. E, naturalmente, criminali comuni. Ma neppure uno era stato rabbinoPreghiera
Non ti chiedo più la felicità e nemmeno il paradiso; ti chiedo solo di ascoltarmi, e che io ne sia cosciente. Non ti chiedo più di risolvere i miei problemi, ma di accoglierli e farli tuoi. Non ti chiedo più il riposo e la saggezza, ti chiedo soltanto di non chiudermi alla gratitudine, anche quotidiana, alle sorprese e all'amicizia. L'amore? Non sta a te darmelo. I miei nemici, non ti chiedo di punirli, e neppure di illuminarli; ti chiedo soltanto di non prestar loro la tua maschera e i tuoi poteri. E se devi cedere loro l'una o gli altri, dà loro i tuoi poteri. Non i tuoi volti, Le mie richieste non sono esagerate. Anzi sono umili. Ti chiedo ciò che chiederei ad uno straniero incontrato al crepuscolo su una terra inospitale. Io ti chiedo. Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, fa' che sia capace di pronunciare queste parole senza tradire il bambino che me le ha trasmesse: Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, fa' che riesca a perdonarti, fa' che acconsenta, lui, a perdonarmi. Non ti chiedo più la vita per quel bambino, e nemmeno la fede. Ti imploro solamente di ascoltarlo e di far sì che io possa ascoltarlo insieme a te. Pesta chassidica
Ieri, sabato, ho assistito a un ricevimento inaspettato in onore di un giovane universitario che frequenta questo oratorio per gli stessi miei motivi: ama e ammira questi miraco-
Iati di un'altra età che si battono e contro l'oblio e contro la tristezza. L'officiante aveva già iniziato il servizio quando uno dei fedeli si avvicinò al capo della piccola comunità — Reb Leibele Cywiak — e gli bisbigliò qualche parola all'orecchio; « Sembra che il giovanotto si sposi questa settimana ». Il servizio viene interrotto e tutti Ì hasidim circondano il fidanzato per felicitarsi con lui e porgergli Ì loro auguri. Burbero, il rabbino Cywiak finge di essere offeso: — Perché non hai detto niente? Prima di tutto la tradizione esige che tu venga chiamato alla Toràh. In secondo luogo, se lo avessi saputo, avrei organizzato un ricevimento, un qiddush in piena regola. Ma hai voluto privarci di questo piacere- Non è bello, giovanotto, non è bello per niente. — Ma... perché importunarvi? Dopotutto... — Importunarci hai detto? Lo avete sentito, amici? Ci priva di una buona azione e vorrebbe anche essere ringraziato. È così, mettendoci di fronte ad un fatto compiuto, che ci importuni... non è bello, ripeto, non è bello per niente... — Perdonatemi... Non è importante... Ho orrore dei ricevimenti... — Egoista! Non pensi che a te stesso! E noi? Non contiamo più nulla? Sta scritto... — Non sta scritto da nessuna parte che si debba festeggiare il fidanzato prima del matrimonio. Durante e dopo, sì. Prima, no. Lo osservo dal mio angolo: è turbato ma si controlla bene. Sembra un po' impacciato, intimidito, tutto qui- Imbarazzato. Di fronte all'esuberanza del rabbino, deve fare uno sforzo per non arrossire. Arrossisce lo stesso. Scorgo il famoso pensatore A.-J. Heschel che, anche lui, sta osservando il fidanzato. — Perché quest'aria malinconica? — Vedo questo giovanotto qui e lo ambiento altrove, risponde. Se non ci fosse stata la guerra...
— Ma la guerra c'è stata! — ...Lo so, lo so. Ma a volte, in sogno, soffoco l'incendio in tempo. Mi ritrovo proiettato nel passato. Ricordo. Le usanze di una volta. Il sabato che precedeva il matrimonio, tutta la città accompagnava il fidanzato alla sinagoga. Trattato come un principe, gli veniva concesso il posto d'onore. Chiamato alla Toràh, ci si alzava al suo passaggio. Dopo aver recitato le preghiere d'uso, riceveva sulla testa una grandinata di nocciole, uva secca ed altri dolciumi, lanciati da ogni parte: auguri e simboli di abbondanza. Poi veniva ricondotto a casa sua in pompa magna. Per ore si cantava, si danzava e si beveva in suo onore. Gli anziani raccontavano delle storie, i trovatori componevano poesie. Adesso invece... — Che volete, risposi al posto del fidanzato, i tempi sono cambiati, ed anche le usanze. Abbiamo disimparato a fare appello alla gioia, al fervore. Entrambi rimaniamo silenziosi. Sappiamo che il giovane universitario ha perduto i genitori. Sarebbe meglio lasciarlo ai suoi pensieri. Nel frattempo s'è fatto tardi. SÌ continua il servizio interrotto. Ma Reb Leibele Cywiak e i suoi confidenti, appartati in un angolo, tengono consiglio; — E che? Se ne andrà via così, senza niente? — A mani vuote? — Inconcepibile... — Inammissibile... — Potremmo combinare... — ...un ricevimento? In un'ora? E per di più nel giorno di Shabbat? È impossibile... — Eppure.,, II giovanotto non è un frequentatore abituale dell'oratorio, ma ha diritto ai riguardi e agli onori dovuti alla sua situazione, I hasidim di Guer non usano fare discriminazioni. Tutti i figli di Israele sono uguali, devono essere amati allo stesso modo e, se è necessario,
bisogna dimostrarglielo.
— Bene — taglia corto il rabbino — non vi angustiate. Ce la caveremo. Non sia detto che le nostre tradizioni vadano perdute. Tracagnotto e agile, si toglie lo scialle rituale e scompare dietro la porta che conduce al suo appartamento privato. Dopo circa mezz'ora è di nuovo tra noi, più radioso che mai. Rapidamente riprende la funzione. SÌ è già alla lettura della Toràh. Da regista coscienzioso fa in modo di comunicare le sue istruzioni segrete ai presenti, senza che il personaggio principale se ne accorga. Secondo l'usanza, questi viene chiamato per ultimo alla tribuna. Recita la benedizione di chiusura quando, all'improvviso, ubbidendo ad un cenno del rabbino, gli astanti fanno parecchi passi indietro. Il fidanzato si ritrova solo. Smarrito, spaventato. Poi il suo volto assume un'espressione di profondo e doloroso stupore, poiché da ogni Iato piovono su di lui nocciole e uva secca, come un tempo, come se vivesse ancora in un mondo protetto da suo padre. Lo vedo chiudere gli occhi, e vedo anche il fremito che increspa dolorosamente il loro velo. Senza dubbio vede quello che la mia immaginazione mi riporta da un passato irrimediabilmente finito. Certamente si rende conto di ciò che ormai ci separa da esso. Tra un secondo avrà abbando-. nato la lotta: scaturite dalla sorgente del suo essere, le lacrime, così lungamente trattenute, scorreranno liberamente. No. Non qui. Non adesso, sembra ripetere a se stesso per darsi un contegno. Né qui, né altrove. Né mai. Pensa ad altro, distogliti dal presente. I tuoi nervi, i tuoi muscoli, non li rilassare. Attenzione. Stringi i pugni fino a scoppiare, mordi le labbra fino a farle sanguinare: nessuna lacrima sarà versata. Che diamine, non hai allenato la tua volontà Ìn tutti questi anni per giungere a questo, o no? Contratto, a prezzo di uno sforzo che spera di riuscire a nascondere, legge la Haftarah e canta le benedizioni senza che la voce lo tradisca una sola volta.
Compiuto il suo dovere, si ritira nel suo cantuccio dove rimane per tutta la seconda parte del rito- Più solitario di prima, mi sembra anche più pallido: lo sforzo deve averlo esaurito. Ma la storia non finisce qui. Dosando le sue sorprese, Reb Leibele Cywiak invita tutti a un ricevimento improvvisato, Appena si prende posto a tavola e già vengono serviti vini e liquori, vodka e tutto ciò che si ha diritto di aspettarsi Ìn una festa chassidica. Qualcuno esclama: « Rabbi Cywiak, non sapevamo che foste capace di compiere miracoli! ». E l'ospite, fiero della propria prodezza, risponde: « II perpetuarsi di una tradizione, ecco il vero miracolo! ». Si riempiono i bicchieri, si beve alla salute del fidanzato, alla sua futura felicità, si sgrana una canzone dietro l'altra. Quasi come una volta, quasi come laggiù, dall'altra parte della guerra. Ciò non toglie che il giovanotto, silenzioso e taciturno, respiri profondamente, pesantemente, come per calmare il suo cuore che batte da spezzarsi; gli manca l'aria, nuota in un bagno di sudore. Senza dubbio pensa agli assenti, poiché una nube vela la sua fronte, il suo sguardo. Se riposassero da qualche parte, andrebbe, secondo la tradizione, ad invitarli al matrimonio. Ma non sa dove andare. A tavola, i convitati si danno tuttavia da fare per tenerlo allegro. Straripanti di zelo, alcuni Io punzecchiano per rompere il suo mutismo. Altri gli parlano a voce bassa. Reb Leibele Cywiak esige il silenzio; — II Rabbi di Guer — la sua santa memoria ci protegga — interrogò un giorno uno dei suoi adepti: « Come sta Mo-shé-Yakov? ». L'interpellato non lo sapeva. « Come? — esclamò il Rabbi —. Non lo sai? Preghi insieme a lui sotto lo stesso tetto, studiate gli stessi testi, servite lo stesso Signore, cantate gli stessi cantici, e osi dirmi che non sai se Moshé-Yakov è in buona salute, se ha bisogno di aiuto, di consiglio, di conforto? ». Ecco la sostanza della nostra vita chassidica, concluse il padrone di casa. Essa esige che cia-
scuno partecipi alla vita degli altri, e non lo lasci solo né nello sconforto né nella gioia. Uno sguardo furtivo verso l'ospite d'onore : non l'ho mai visto così teso. Nel seminterrato c'è buio, ma ha messo gli occhiali scuri. Ha Ì tratti del volto disfatti, i nervi scoperti, non riesce più a controllare il fremito delle narici e delle labbra che si aprono e si chiudono a scatti: per quanto riuscirà ancora a dominarsi? Altri oratori prendono la parola. Sempre secondo l'usanza, si cantano le lodi del fidanzato. Ma questi ascolta ciò che si va dicendo? Le qualità che gli vengono attribuite? Gli auguri che vengono formulati? Cosa vedono i suoi occhi in questo preciso momento? Quali immagini rievoca, tratte da quali abissi? Perché prova questo opprimente desiderio, questo irresistibile bisogno di piangere, e perché non piange? Chi sfida reprimendo le lacrime? Intorpidito, la testa rientrata nelle spalle, sta seduto in mezzo a noi controvoglia, alla deriva: un estraneo alla propria festa. Indovinando il suo disagio, provo il desiderio di toccargli la spalla e di dirgli: scaccia la malinconia, alza gli occhi e vedi gli amici che ti circondano, non li respingere. Ma per discrezione, rimango al mio posto, rispetto il mio ruolo. Heschel invece dà prova di spirito d'iniziativa rivolgendosi ai convitati': — E allora? Non si balla qui da voi? I hasidim non chiedono di meglio. Rapidamente si rimuovono i tavoli, si spostano i banchi. Ancora non si è formato il cerchio e già un canto possente solleva la comunità. Canto rapido, torrenziale, ardente e a scatti, che dà le vertigini, canto che impone il suo ritmo alla terra. SÌ balla tenendosi per mano, spalla contro spalla, il viso in fiamme e il cuore in festa. Il cerchio di volta in volta si restringe e si allarga. Ci si allontana e ci si riavvicina, ci si perde e ci si ritrova: si diventa tutfuno con il canto, ci si trasforma in canto. La voce ha vinto il silenzio e la solitudine: si esiste
per gli altri e per se stessi. Allora si canta per coprire il fragore degli anni che si riversano nella memoria. Per riconciliare Ì vivi con Ì sopravvissuti. E per evocare gli avi: vedete, la catena non è spezzata. Si riprende lo stesso canto dieci, cento volte, per non lasciarlo, per non lasciarsi. Come un tempo a Wizsnicz, come una volta a Sighet. Si balla come un tempo a Guer. Più forte, più presto, più in alto. Che il canto si faccia danza, che il movimento si trasformi in canto. Venga la gioia, dilaghi sugli orfani e sui loro congiunti: la gioia ancestrale e primitiva, parossistica e serena, gioia che annuncia la creazione e con questa si fonde. Poiché rimango in disparte - una gamba fratturata m'impedisce di ballare — ho la possibilità di osservare comodamente Ì partecipanti. Dall'inizio della festa, il giovanotto non ha ancora aperto gli occhi, E così, palpebre abbassate, denti stretti, si abbandona ai danzatori, che lo trascinano nel loro sfrenato girotondo. Non sa più quel che fa né dove si trovi. Bruscamente si rivede in un'altra città, in un'altra sinagoga, circondato da altri convitati. Li riconosce, li conosce: genitori, zii, cugini, maestri, compagni di studi, amici. E tutti mormorano: grazie per averci invitati, grazie per averci permesso di celebrare questo Shabbat insieme a te; verremo al tuo matrimonio. In quel momento, per la prima volta dopo la loro separazione, il giovane non riesce più a trattenersi. Tutto gira intorno a lui, e dentro di lui. Crollino le difese. Non c*è più motivo di aver vergogna, di temere i rimorsi. Attraverso le palpebre, che sembrano chiuse per sempre, sente scorrere le sue prime lacrime da adulto; le lacrime scorrono, scorrono e gli bruciano il volto. Mi domando se il suo sguardo è mutato.
PRIMI DIRITTI D'AUTORE
Se qualcuno mi avesse detto, allora, che sarei diventato un romanziere, e per di più un romanziere francese, gli avrei voltato le spalle, convinto che mi stava prendendo per un'altra persona. Quando ero adolescente, mi sembrava che il mio avvenire fosse tracciato con assoluta chiarezza. Avrei continuato gli studi con il medesimo zelo e nel medesimo ambiente, avrei approfondito i testi sacri e aperto le porte della conoscenza segreta dove l'« io » si realizza abolendo se stesso. Consideravo puerili Ì romanzi: la loro lettura una perdita di tempo. Bisognava essere ben sciocchi per compiacersi dell'universo romanzesco fatto di parole, quando esisteva l'altro universo, incommensurabile e fatto di verità 9 di presenza. Preferivo Dio alla sua creazione e, alle parole, l'enigma e il silenzio. Quanto alla Francia, essa rappresentava per me una contrada mitica, senza reale valore, se non per il fatto che il suo nome figurava nei commentali sulla Bibbia e sul Talmud. C'è voluta una guerra — e quale guerra — perché cambiassi strada, se non addirittura destino. La storia di questo cambiamento, avrei potuto non viver-la. E non scriverla, I miei primi diritti d'autore furono due gamelle di minestra che ricevetti per un'opera di fantasia che non avevo scritto. A volte ne sento ancora il sapore in bocca.
...Accadde tanto tempo fa, da qualche parte, dove tutti avevano la stessa maschera sotto lo stesso voltò, e tutti i volti gli stessi occhi senza sguardo. Ero giovane, appena uscito dalla Yeshivah. Sul mio braccio sinistro erano ancora visibili i segni delle strisce di cuoio dei tefillin messi per la prima volta. Con il pensiero correvo ancora dietro ai maestri, di cui ero stato il discepolo ma non l'erede. Mentre trasportavo sulle spalle delle pietre più pesanti del mio corpo, mi vedevo, davanti alle candele tremolanti, assorbito da interrogativi formulati secoli prima, altrove, dall'altra parte del mondo e forse della storia. Più tardi, dopo qualche mese, il mio essere sarebbe diventato sinule agli altri, saturo di stanchezza, rassegnato, insensibile ad ogni appello. Come i miei compagni, nei miei sogni, sarei andato in cerca di pane, nient'altro che di pane. Ma nei primi tempi avevo ancora una sufficiente riserva di forza per resistere, e per opporre un argine. Inoltre avevo la fortuna — sì, la fortuna — di avere come vicino, in cantiere, un vecchio Rosh-Yeshivah della Galizia. Il suo nome? Non l'ho mai saputo. Avevo dimenticato perfino il mio. Quanto al suo volto, non l'ho mai neanche guardato. Solamente la sua voce è rimasta in me, indimenticata, indimenticabile: grave, cavernosa, la voce di un amico, di un amico malato. — Sei nuovo qui? Anziché darti il benvenuto, mi prefiggo di insegnarti il tuo primo dovere. Consiste in una sola parola: resistere. Mi capisci? Resistere costi quel che costi. Non piegarti. Non adorare, in te stesso e negli altri, ciò che è impuro, ignobile. Curvo, tacque come per riprendere fiato prima di continuare con una voce che mi parve più flebile e più melodiosa: — Sappi, fratellino, che l'anima conta più del corpo. Che essa conservi la sua forza, e il tuo corpo, anche lui, supererà la prova. Te lo dico perché sei appena arrivato e sei ancora capace di ascoltare. Tra un mese, sarà troppo tardi,
Tra un mese non saprai più cosa possa significare avere un'anima. - Non è dunque immortale? chiesi innocentemente. Smise di scavare e rispose con voce ancora più bassa, come per non udire le proprie parole: - Domani imparerai che questo non è né il luogo né il momento di parlare di immortalitàTemendo di averlo in qualche modo irritato, stavo per chiedergli perdono, ma lui riprese immediatamente: - Per resistere, fratellino, accetta il mio consiglio: proteggi la tua anima. I mezzi per farlo li hai, È semplice: non dovrai fare altro che studiare. SI, studiare la Toràh. È l'unico cammino che porta da qualche parte. Prendilo, seguilo. Come prima, meglio di prima, con maggiore applicazione di quando eri a casa. - Insensato, replicai, stupefatto. Siete un insensato. Come volete che studi senza libri? - Saprai fame a meno. Farai un salto indietro di duemila anni. Il Talmud lo imparerai come lo si insegnava a quei tempi a Sura e Pumbedita: oralmente. Qui, fratellino, non abbiamo scelta. Ciascuno di noi, lo voglia o no, ha l'obbligo di essere Rabbi Yochanan ben Zakkay, Rabbi Aqiba, Rabbi Yshmael... Divenne il mio maestro. - A che punto eri con i tuoi studi, prima? volle sapere. Glielo dissi: terzo capitolo del trattato sullo Shabbat. - A quale pagina? Gli dissi la pagina. - Benissimo, Continuiamo. Non c'è tempo da perdere, Conosceva l'intero trattato a memoria. Meglio: l'intero Talmud. Quello di Gerusalemme e quello di Babilonia. Con i commenti dei Ga'onim. Senza alcun dubbio, doveva essere stato un 'llluy, un grande erudito nella sua città. Un saggio prodigioso. Qui viveva segnato dalla fame, come tutti noi. Sperduto nella folla anonima. Cosa, per lui, senza importanza. L'importante per lui era poter tornare ad esse
re, grazie ad un unico discepolo, Rosh-Yeshivah, perfino qui nel campo di concentramento. Dal momento che ero pronto a ricevere, si sentiva capace di dare. E fintante che dava, sapeva di essere forte come la vita, anzi più forte. Di fronte a me, incarnava il bisogno di trasmissione che caratterizza il nostro popolo; si rendeva conto di essere fuori dal tempo, indistruttibile. Studiavamo insieme, dalla mattina fino all'appello della sera, senza interruzioni a volte, senza accorgerci della morte che infieriva intorno a noi senza sosta. Il nostro metodo: lui recitava un passo, io lo ripetevo. Poi lo discutevamo sotto tutti gli aspetti. E così imparai più con lui che negli anni di studio nella mia città. Venne il giorno della separazione. Inaspettato, irrevocabile: come tutto ciò che avveniva al campo. Il Rosh-Yeshivah non ebbe nemmeno il tempo di darmi la sua benedizione. Fu trasferito in un altro campo e di lui non seppi più nulla. Dopo la sua partenza, mi trovai costretto ad interrompere Ì miei studi per la seconda volta. Del resto, anche se fosse rimasto, non sarei più stato in grado di continuare. Le forze mi stavano abbandonando. Lo spirito finì col cedere, col seguire il corpo: indeboliti l'uno e l'altro, e l'uno a causa dell'altro. Un miserabile pezzo di pane nerastro giunse a contenere più verità, più eternità che tutte le pagine di tutti i libri messi insieme. Ridotto al livello della materia, lo spirito si trasformò in materia. Come tutti Ì corpi ormai si rassomigliavano, così anche tutti i cuori finirono con l'albergare un unico desiderio: un pezzo di pane, una minestra, possibilmente più densa di quella del giorno prima. Livellando gli esseri, la fame popolava le loro fantasie. Una sera, il capoblocco, un ebreo di origine ceca, più umano dei suoi colleghi, ci annunciò una buona notizia: nel suo paiolo erano rimaste due porzioni di mine-
stra. Le avrebbe offerte a chi avesse raccontato la storia migliore. Fu un concorso estemporaneo, al quale non mancarono i candidati, I detenuti non chiedevano che essere ascoltati. Il capoblocco presiedeva. Col dito indicava uno e questi, fatto un passo avanti, aveva tre minuti di tempo per far valere il proprio talento. Alcuni descrissero la loro passata grandezza, altri il loro supplizio presente. Qualcuno si espresse con umorismo, altri con sconvolgente, lirismo. Parole magniloquenti, balbettii da agonizzanti: tutti cercarono di suscitare pietà. Il mio turno giunse quasi alla fine. In effetti, non avendo posto la mia candidatura, la chiamata mi colse di sorpresa. Più giovane degli altri, avevo dovuto attirare l'attenzione del capoblocco, il quale, probabilmente, voleva dar prova di generosità invitandomi a tentare la fortuna: — E tu, giovanotto, cosa ci racconti? — Io? Niente. — Come sarebbe? Non hai fame, tu? — No signore, risposi, senza la minima esitazione. — Bugiardo! Non dissi nulla. Indifferente agli insulti, ai colpi. Il capoblocco alzò il tono: — Imbecille! Ti offro una possibilità e tu la rifiuti? Non hai più voglia di vivere, è così? — Voi non capite, signore. Non ho nulla da raccontare. Ho tutto ciò di cui ho bisogno, grazie. Davvero, signore, Non mi manca niente, grazie tante. Irritato, sconcertato, si mise ad interrogarmi: chi ero, da dove venivo, da quanto tempo mi trovavo 11, e perché non riuscivo ad inventare una storia che avrebbe potuto riempire il mio stomaco. — Ma perché è già pieno il mio stomaco, risposi con convinzione. Davvero, signore. Non ho bisogno di niente. Né della vostra minestra, né della vostra pietà. Se proprio lo volete sapere, ho appena finito di mangiare. Con comodo
e a sazietà. Dovete credermi. Ho mangiato meglio... meglio di voi. — Meglio di me? esclamò, aggrottando le sopracciglia. Tu? Oggi? Qui? Sei pazzo, ragazzo mio. Pazzo, quindi spacciato. Morirai. Presto. E io che volevo aiutarti... Mi scrutò con tanta dolorosa incredulità che decisi di raccontargli tutto. Mi misi a descrivergli, con tutti i dettagli, il sontuoso pasto che, nella mia fantasia, avevo appena gustato. I piatti, i vini, Ì frutti, i discorsi che si tengono a tavola, Invitandolo al mio immaginario festino, gli ricordai che era venerdì sera. Pasto di Shabbat. Tovaglia bianca, candelieri d'argento. Serenità, dolcezza. Le mani sugli occhi, mia madre benedice le candele. Mia sorellina apparecchia la tavola: attenta, sorellina, abbiamo degli invitati! Ed essa sistema nuovamente i coperti. La porta si apre, ed ecco il nonno, preceduto dal canto rituale che invita gli angeli dello Shabbat ad onorarci della loro visita. Mio padre santifica il vino, spezza il pane. La domestica serve il pesce. Il nonno mangia con appetito, canta con fervore. Suo genero tenta di avviare una discussione politica, ma lui lo interrompe: non questa sera, niente politica durante un pasto di Shabbat. Poiché, vedete, è Shabbat nella nostra casa e in quella di Dio: pace e gioia di Shabbat a tutti quelli che ne hanno bisogno, dovunque, Mi esprimevo con parole semplici: era il bambino che parlava in me e che condivideva il suo sogno. Chiudendomi in un ampio cerchio, i detenuti mi ascoltavano scuotendo il capo: per ognuno di loro ero il bambino che un giorno ciascuno era stato. Perfino il capoblocco sembrava un altro. — È lungo il pasto del venerdì sera, dissi. E intramezzato da canti. Ve ne sono molti. E poi piacciono. Per l'ardore, per la nostalgia che racchiudono: è dato all'uomo liberarli. Quindi, perché avere fretta? C'è tempo, c'è tutto il tempo, L'operaio non andrà al lavoro domani, il viaggiatore non riprenderà il treno del mattino. Il vagabondo, inattivo, non
temerà il risveglio. È Shabbat, e l'anima ha bisogno soltanto di un'altra anima per approvare la creazione e completarla. In quanto al corpo, lui non ha bisogno di niente. Non stasera, dopo un simile pasto di Shabbat... II silenzio nel blocco si protrasse oltre la durata del mio racconto. II capoblocco fu il primo a romperlo, esclamando: — Ma bravo, ragazzino! Me l'hai proprio fatta! E, volgendosi verso i detenuti; — Propongo che Io si incoroni laureato. Che ne dite? Domanda puramente retorica, beninteso. Non aveva nessun bisogno della loro approvazione. Del resto nessuno avrebbe osato negargliela. Cerimonioso, mi consegnò due gamelle di minestra densa. Ed io, sotto gli sguardi invidiosi, le presi e le portai fino al mio pagliericcio. Là, ne nascosi una e immersi il cucchiaio nell'altra. Mescolai, mescolai a lungo prima di gustarne il contenuto per attenuare la mia fame, E non mi fu possibile reprimere un sentimento di disagio. Avevo la sensazione sgradevole, opprimente, che era il mio racconto che stavo inghiottendo cosi — racconto già impoverito, sminuito, attinto ad una sorgente che, sempre più offuscata, mi apparteneva sempre meno.
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Treblinka, Birkenau, Belsen, Buchenwald, Auschwitz, Mauthausen, Belzec, Fonar, Sobibor, Majdanek: capitali notturne di un reame strano, immenso e fuori del tempo, dove la morte, sovrana, sembra aver usurpato il volto di Dio ed i suoi attributi in cielo e sulla terra, e perfino nel cuore degli uomini. Siamo nel 1941-1945. In pieno olocausto, termine che indica una dimensione mistica del fenomeno concentrazio-nario. La Germania nazista sprofonda sotto la propria maledizione, ma non per questo gli ebrei vinceranno la guerra. Molti non vedranno la vittoria. Giudicandoli di troppo, la Svizzera li respinge dal suo territorio. Nessuna potenza li accoglie sotto la propria protezione. La loro sorte non è presa in considerazione negli incontri dei Tre Grandi, non turba affatto la coscienza dei popoli. Scrittori, artisti, moralisti: alcuni si preoccupano della loro opera, della loro immortalità, altri del conflitto nel suo insieme. Tutto si svolge come se gli ebrei non esistessero, come se non esistessero più. Come se Auschwitz non fosse che una tranquilla città da qualche parte in Siesta. Il presidente Rooseveit rifiuta di fare bombardare le linee ferroviarie che conducono ad essa. Wmston Chur-chill, consultato in proposito, condivide questo rifiuto. Mosca condanna le atrocità commesse dal tedeschi ai danni delle popolazioni civili, ma passa sotto silenzio il massacro degli ebrei. Da una parte e dall'altra, gli ebrei sono sacrifica-
ti m anticipo. 51 dice: la Stona giudicherà, ài, ma giudicherà senza comprendere. Quanto ad Adolf Hitler, lui comprende. Per di più è convinto che i suoi stessi avversari gli saranno riconoscenti di aver risolto, al posto loro, l'eterna questione ebraica. Un giorno gli sarà resa giustizia, sarà proclamato benefattore dell'umanità: ne è convinto. Un'organizzazione gigantesca ed efficiente è già all'opera. Teorici, taumaturghi, giustizieri, sorveglianti, segretari, dattilografi, ingegneri, esperti e tecnici di ogni settore: tutti vi dedicano le loro energie e il loro entusiasmo. Per loro è la grande avventura, l'ideale, il sorgere esaltante della loro stella: stanno prendendo parte alla mutazione più profonda di tutti i tempi, ricostruiscono l'umanità su nuove basi. Grazie a loro, il popolo eletto e dissanguato sarà inghiottito nell'oblioII procedimento è ovunque Io stesso. Tutte le strade conducono alla notte. Respinti dagli uomini. Ì condannati non giungono a rinnegarli a loro volta. La loro fede nella Storia rimane incrollabile e ci si chiede proprio il perché. Non perdono la speranza. Prova ne è che se si accaniscono per sopravvivere non lo fanno solamente per sussistere, ma per potere raccontare. Le vittime vogliono essere dei testimoni. Avviandosi verso la fossa comune, lo storico Shimon Dubnov grida agli ebrei di Riga, suoi compagni di sventura: spalancate occhi e orecchie, ricordate ogni fatto, ogni nome, ogni bisbiglio. Il colore delle nuvole, il fruscio del vento tra gli alberi, i gesti del carnefice: colui che soprawi-verà non deve dimenticare nulla! A Birkenau, un membro del Sonderkommando — incaricato della manutenzione dei forni — redige, alla luce delle fiamme, rapporti e statistiche dettagliate ad uso delle future generazioni, Dovunque, nel cuore stesso dell'angoscia e della morte, giovani resistenti e vecchi curvi annotano, tramandano av
venimenti, aneddoti, impressioni. Alcuni sono ancora dei bambini: Davide Rubinstein ed Anna Frank. Dietro le mura del ghetto di Varsavia, Emanuele Ringel-blum e Ì cento scrivani del suo comitato hanno un solo pensiero: raccogliere il maggior numero di documenti e seppellirli; tante sofferenze e tante prove non devono andar perdute per la Storia. È impossibile salvare l'ebraismo europeo? SÌ salvino almeno le tracce e le ustioni del suo passaggio. Poemi, litanie, opere teatrali: per scriverli, per procurarsi carta e matita, ci si privava del nutrimento e del sonno. Ci si esponeva, si rischiava continuamente. SÌ affrontava il castigo, la frusta. Il sorvegliante alzava il suo nervo di bue, pronto a colpire? Tanto peggio. Si mettevano insieme le parole, i segni. Un istante prima di morire, ad Auschwitz, a Bialistok, a Buna, il moribondo descriveva la sua agonia. A Buchenwald ho assistito a serate « letterarie » e ascoltato poeti anonimi recitare versi che ero troppo giovane per comprendere. Non erano stati scritti per me, per noi, ma per gli altri, per quelli che si trovavano fuori e per quelli che non erano ancora nati. Si trattava di una vera passione nel dare la propria testimonianza per l'avvenire, contro la morte e l'oblio, passione che coinvolgeva tutti Ì generi. Documenti spogli, bilanci minuziosi e racconti di un'ingenuità infantile: tutti hanno in comune la preoccupazione di strappare alla notte la vita e la morte di quella che fu una comunità fiorente, vibrante, prima di trasformarsi in un branco inseguito, senza possibilità di scampo. Ossessionati, terrificanti, oscillano tra il grido e la collera trattenuta, repressa. Fatti autentici, episodi conosciuti, ripetuti con insistenza ed eternamente sorprendenti, episodi bum e perciò tanto più strazianti: si crede sempre di conoscere tutto su questo o quell'aspetto dell'olocausto. E si sbaglia; tutto resta ancora da scoprire. Leggendo certe opere di autori che
'*on si conoscono ci si stupisce: raccontano le stesse scene, '^ stesse partenze. Tutto inizia e tutto finisce allo stesso ^odo. Tutto è stato detto e tutto resta da direRaccontÌ autobiografici o testi immaginati, il personaggio Principale rimane il campo o il ghetto con la loro popolazione che cala sempre più, divorata dal tempo, dalla morte. , II ghetto con i suoi fantasmi, i suoi becchini, i suoi bambini dallo sguardo vuoto, fisso o demenziale. L'interno ^i un incubo: si finisce col farci l'abitudine, E molto presto etiche: il tempo di un sospiro, di un palpito. In una notte, ^ un'ora si acquista ricchezza interiore o maturità. Il bambino si scopre vegliardo. Dall'oggi al domani, strutture menta-ì e concetti scompaiono, per rinascere subito dopo sotto Differenti combinazioni. Nonostante tutto ci si fa l'abitudine. Si ama, si infoca la purezza e l'irriducibilità dell'amore, ^ì celebrano matrimoni e feste religiose, si canta, ci si na-^onde, ci si inganna, ci si prende in giro, si mendica una batata o una briciola di conforto, si finge di essere diversi e ^trove, e tanto peggio se domani si muore di fame, di Malattia, di sfinimento o semplicemente di speranza — sì, di peranza. Pazzo di dolore, torturato, un ragazzino di otto anni ^rida: voglio rubare, voglio mangiare, voglio essere tede-^o. Per poter mangiare, mangiare senza vergogna e dormi•^> dormire senza paura. Muore senza aver mangiato. Altri ^ambini, di una maturità precoce, soccombono al freddo, al ^olore di vedere Ì loro genitori percossi, calpestati. Altri ^ticora servono da bersaglio ai soldati che, da bravi combattiti, si devono esercitare al tiro. E poi ci sono i campi di concentramento. E la paura che Spirano agli abitanti dei ghetti. I bambini sono Ì primi ad 'ssere presi di mira. Poi vengono rastrellati i vecchi, i disoccupati, i malati, Ì rassegnati, tutti quelli che non possiedono ^ carta di lavoro — gialla, rossa, verde — timbrata dalle ^litorità militari, dalla polizia, dal datore di lavoro tedesco. eraltro non si sa mai quale colore sia quello giusto.
Alla hne, nessuno crede più alle carte, alle promesse. Qua e là dei giovani si armano o scappano per raggiungere i partigiani. Qua e là vengono costruiti rifugi sotterranei, bunker fortificati, linee di difesaQua e là ci si prepara all'insurrezione per dare all'umanità e alla Storia una lezione di cui non sono affatto degne. Quella di Varsavia non sarà dimenticata. Ve ne sono state altre, delle quali si parla meno. Eppure ogni rivolta ha avuto il suo poeta, ogni massacro il suo storiografo. Quanti documenti si trovano ancora sepolti in fondo a qualche buca? Un giorno saranno scoperti. Per il momento, ogni racconto di ogni ghetto vale per tutti. Li anima la medesima collera. Riuscirà un giorno a placarsi? Certi testimoni rispondono di no. Ci tengono alla loro collera. Vi si aggrappano. Costituisce il loro legame con un universo che non esiste più. Irascibili, non risparmiano né i vivi né gli scomparsi. Per illustrare meglio il male che a tutti i livelli imperava nel regno concentrazionario se la prendono perfino con le vittime rimproverandole per la loro docilità. Che il male abbia avuto un coefficiente assoluto è un fatto innegabile. Ad Auschwitz si respirava l'indegnità e il disprezzo. Un pezzo di pane valeva più delle promesse divine; una gamella di minestra trasformava l'uomo colto in bestia feroce. Principi, discipline e sentimenti difficilmente resistevano di fronte alle implacabili leggi di Majdanek. Un aguzzino, per divertirsi, simulò l'esecuzione di un ebreo: lo stordì con una randellata sparando contemporaneamente un colpo di pistola in aria. Mentre riprendeva conoscenza, l'ebreo se lo vide sopra ghignante: « Credi di poterci sfuggire morendo? Ci sottovaluti. Anche nell'altro mondo, i padroni siamo noi ». Aneddoto che racchiude la sua parte di verità: nei loro rapporti con le vittime e per demoralizzarle prima di annientarle, i carnefici giunsero persino a sostituirsi a Dio. Soltanto essi potevano, per decreto, nominare il Bene e il Male.
Le loro manie avevano forza di legge, ed anche i loro capricci. Erano al di sopra della morale, al di sopra della verità. Prigionieri di un tale sistema, numerosi deportati scelsero il facile cammino dell'abdicazione. Come giudicarli? Io non li giudico. Chiunque non abbia saputo superare prove e tentazioni, non posso condannarlo. Colpevoli o non colpevoli, i poliziotti dei ghetti, i kapò privilegiati hanno diritto a circostanze attenuanti. Suscitano pietà piuttosto che disprezzo. I deboli, i vigliacchi, tutti quelli che hanno venduto la loro anima per vivere un mattino in più, una notte d'angoscia in più, preferisco includerli nella categoria delle vittime. Più degli altri hanno bisogno di perdono. Più e diversamente dei loro compagni meritano compassione e carità. La loro colpevolezza ricade sui loro carnefici. Eppure mi capita a volte di leggere degli scritti presentati come deposizioni a loro carico- I loro autori sono duri, i loro giudizi senza pietà. Che le loro parole facciano male o lascino stupefatti, poco importa: saranno ascoltate. Necessariamente frammentarie, non rifletteranno il tutto, ma ne fanno parte. Questo del resto può servire come regola generale: ogni testimone esprime soltanto la sua verità, quella a nome suo. Per trasmettere la verità dell'olocausto nella sua totalità non sarebbe sufficiente ascoltare quelli che gli sono sopravvissuti; bisognerebbe anche potervi aggiungere il silenzio che milioni di sconosciuti hanno lasciato dietro di sé andandosene: nessuno può servirgli da interprete. Non si concepisce l'olocausto che come un mistero; dei morti l'hanno generato. Oggi ci si domanda, e a lungo ancora ci si domanderà, come possano essere stati commessi simili crimini e orrori: non si saprà mai come ciò sia stato possibile. Perché tale popolo ha scelto l'assassinio, e tal altro il martirio? Non si saprà il perché. Sul piano di Auschwitz, tutti gli interrogativi si spalancano sull'angoscia. Che la morte di un milione
di bambini abbia un senso o no, in entrambi i casi, nega l'uomo e lo condanna. Essa si sottrae al linguaggio del romanziere, all'analisi dello storico, alla visione del profeta-L'esperienza che ne deriva non è trasmissibile. Sopravvissuti e testimoni hanno fatto del loro meglio, ma forse i loro scritti non hanno sostanzialmente alcun rapporto con quello che hanno visto e vissuto. Hanno raccontato perché non potevano fare altrimenti: era pur necessario sollevare un poco la pietra tombale, uscire un poco dalla notte! Parlando, hanno perlomeno indicato che esiste un mistero. E nella misura in cui questo mistero implica un significato, esso è quello di una sconfitta. Di fronte a tale mistero, le parole suonano vuote. Nella sua ombra siamo forse degli impostori. Sapremo un giorno quale fu la realtà di Auschwitz? Forse Auschwitz non è mai esistito, tranne per coloro che vi hanno lasciato in pegno una parte del loro avvenire sotto le ceneri. Il Talmud racconta che quando il Tempio di Gerusalemme venne incendiato Ì sacerdoti interruppero l'ufficio sacro, salirono sul tetto e parlarono a Dio; non siamo riusciti a proteggere la tua dimora, perciò te ne restituiamo le chiavi. E le lanciarono verso il cielo. A volte dico a me stesso che, da qualche parte, il santuario è ancora in fiamme e i sopravvissuti sono i suoi sacerdoti. Ma conserveranno le chiavi.
ISTANTANEE
Un ebreo, in ginocchio, scava una fossa. Lo immagini stordito, quasi incosciente. Il suo viso sfocato, annerito, si intravede appena: a metà riassorbito dalla notte. Si vedono i suoi genitori, i suoi fratelli: maschere di argilla infrante, sfigurate. Dietro di loro, a gambe larghe e braccia incrociate, gli assassini in uniforme contemplano il becchino con naturalezza. Rilassati, di buon umore, si scambiano delle osservazioni. Ridono Una vecchia, con la stella gialla sul petto, si gira per gettare un ultimo sguardo sgomento sul marciapiedi, prima di venir inghiottita nel vagone dove cento corpi anonimi sono già aggrovigliati. La vediamo ancora, appoggiata al predellino, ma non