Agiredidattico (1950) [PDF]

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Zitiervorschau

DIDATTICA 8

Pier Cesare Rivoltella Pier Giuseppe Rossi (eds.)

L’agire didattico Manuale per l’insegnamento

E D I T R I C E

LA SCUOLA

La collana è peer reviewed

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org © Copyright by Editrice La Scuola, 2012 Stampa Officine Grafiche «La Scuola», Brescia ISBN 978 - 88 - 350 - 3065 - 2

Dell’uso di questo manuale

L’agire didattico. Manuale dell’insegnante consta di un volume cartaceo e di un corpus di materiali digitali, che del volume costituiscono l’estensione, disponibili on line nel sito Nuova Didattica (in Internet, URL: http://www... ). Nel corpo del testo sul volume cartaceo, i rimandi ai materiali digitali sono indicati dal ricorso al maiuscoletto. In corrispondenza di questi rimandi, un simbolo a margine, affiancato dal titolo del materiale, specifica il tipo di contenuto cui ci si sta riferendo. Di seguito l’elenco dei simboli e dei tipi di contenuto digitale cui fanno riferimento. T

Scheda Teorie e Correnti



Scheda Approfondimento

A

Scheda Autori

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Scheda Attività

In fondo al volume, l’indice dei concetti riporta i lemmi di cui viene fornita definizione all’interno del glossario disponibile sul sito Nuova Didattica, unitamente alle pagine del testo cartaceo in cui essi ricorrono.

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Introduzione

1. Una scelta di campo Nel primo decennio del nuovo millennio sono emerse alcune linee di indagine destinate a modi- Linee d’indagine nella ricerca didattica… ficare il volto della ricerca didattica. Sono evolute, dapprima, senza troppo clamore, ma ora hanno raggiunto una loro maturità. Un rinnovato interesse per il teacher’s thinking Teacher’s thinking T (Shulman) ha spostato l’attenzione sulla dialettica insegnamento-apprendimento e sulla professionalità docente, valorizzando l’analisi delle pratiche didattiche come strumento di ricerca e di formazione. Sono stati così smussati alcuni aspetti del costruttivismo e sono stati avviati tra- Costruttivismo T iettorie post-costruttivisti ed enattivisti. Contemporaneamente gli approfondimenti condotti nel settore delle teorie dell’azione e delle neuroscienze hanno alimentato percorsi che garantiscano una diversa circolarità tra teoria e pratica, da un lato, tra mente, corpo e ambiente, dall’altro, e hanno assegnato al corpo un ruolo attivo nei processi di conoscenza (cfr. infra Parte terza, cap. diciottesimo). Le nuove tecnologie, d’altro canto, stanno interagendo in modo sempre più integrato con i processi formativi. Ciò non è determinato dalla loro presenza nelle aule scolastiche, ma dall’impatto che il loro uso nella vita quotidiana ha sui processi di concettualizzazione e sulle pratiche, sia degli studenti, sia dei docenti (cfr. infra Parte prima, cap. quarto; Parte seconda, cap. decimo).

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Introduzione

La professionalità docente è, ad un tempo, risultato e causa delle modifiche precedenti. La complessa realtà socio-culturale, i nuovi bisogni nella formazione, i diversi supporti e strategie richiedono professionisti della didattica dotati di competenze esperte, così come la consapevolezza del sé professionale determina negli insegnanti nuovi modelli e modalità operative e una diversa visione della propria traiettoria formativa (cfr. infra Parte terza, cap. ventesimo). Non ultima, l’attivazione in Italia delle Facoltà di Scienze della formazione, sul finire dello scorso secolo, ha alimentato di nuova linfa la ricerca nel settore. I processi precedenti hanno fatto sì che la didattica uscisse da sterili sudditanze nei confronti di altre discipline e divenisse, nel dialogo con le altre Scienze dell’educazione, una scienza matura (Frabboni 2000; Laneve 2003), la scienza dell’insegnamento (cfr. infra Parte prima, capp. primo e secondo). Una riflessione simile a quella che sta attraversando il …e filosofica settore educativo è presente anche in altri campi del sapere. In ambito filosofico il dibattito tra neorealismo e post-modernismo nelle sue varie forme (costruttivismo radicale, pop-filosofia, decostruzionismo, realytismo) ha molti punti in comune con le riflessioni in campo educativo. Il manifesto di Ferraris (2012) e la dialettica tra realismo e post-modernismo possono essere curvati nel settore educativo, dove è iniziata una riflessione su alcuni esiti del costruttivismo, attivata anche in questo caso dall’attrito col reale, ovvero dalle dinamiche e dai problemi che gli insegnanti incontrano ogni giorno in classe. Contemporaneamente le riflessioni sull’esternalismo hanno avuto forti interazioni con la ricerca neuroscientifica, favorendo sinergie e ampliando percorsi in cui l’embodiement ha una posizione privilegiata.

2. Oltre il costruttivismo Il valore della pratica

Wilson, nel 2005, per descrivere la situazione che si era creata nella didattica dall’inizio del nuovo millennio, così si esprimeva:

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Oltre il costruttivismo

«2000s - Practitioner concerns. As the new century emerged, I found myself increasingly alienated from the constructivism-instructionism debates and from discussions that only fostered ID’s continuing dependence on psychology for insight and direction. At the present time I find myself preferring pragmatism or pragmatic realism as an underlying philosophy (e.g., House 1991; Rorty 1989), and practitioner perspectives as a needed antidote to the surfeit of high-road theory and privileging of science over other ways of knowing and doing […]. I prefer to listen to a good practitioner story than to decode a set of boxes and arrows, although I acknowledge that both have a place».

Già nel 2002 Begg, in un saggio sull’enattivi- I limiti del costruttivismo smo, evidenziava alcuni limiti del costruttivismo: – l’impossibilità di evitare risultati indesiderabili nella costruzione di conoscenza; – l’influenza della cultura dominante nel settore dell’istruzione e sulla struttura della conoscenza; – la sottovalutazione dell’accoppiamento strutturale tra insegnanti e studenti; – l’assenza di collegamenti espliciti con le teorie dell’apprendimento proposte dalle scienze cognitive e dalla neurobiologia (Begg 2002, p. 2). Nel 2003 Lesh e Doerr avevano evidenziato altre criticità del costruttivismo, riferendosi nello specifico alla didattica della matematica. Il loro ragionamento si fondava su tre elementi: – non tutto può essere costruito; – nell’apprendimento il processo e il prodotto, l’azione e il risultato dell’azione, o, nel loro linguaggio, modello e modellizzare, debbono procedere parallelamente; – la modellizzazione e la successiva verifica possono essere strategie utili nella didattica e nella formazione degli insegnanti. Negli ultimi anni sono emerse anche altre riflessioni critiche sul costruttivismo. Gli esempi precedenti sono stati scelti perché si pongono in un’ottica di superamento dialettico e non di opposizione al costruttivismo e ne recuperano alcuni elementi fondanti. Non a caso Lesh e Doerr parlano di post-costruttivismo.

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Introduzione

Pensiero sistemico e complessità

In sintesi: non è sufficiente indicare come dovrebbe essere l’insegnamento. Occorre comprendere, e la ricerca deve dare risposte a tale domanda, perché le pratiche degli insegnanti non procedono coerenti rispetto alle “intenzioni” e quali processi di regolazione sono messi in atto dagli insegnanti quando si scontrano con “l’attrito del reale”. Il che non equivale a proporre un’accettazione passiva dello status quo. La pedagogia è sempre profetica e analizza le pratiche educative per modificarle. Né, tanto meno, la proposta è quella di credere che l’esperienza quotidiana sia l’unica maestra per un insegnamento di qualità, abdicando al ruolo della formazione e della didattica come scienza. Alla scienza dell’insegnamento oggi non si chiedono modelli precostruiti da seguire in classe, ma indicazioni per progettare e gestire l’azione didattica, abbinando sguardo profetico e sostenibilità. La complessità del contesto non può essere ridotta con modalità riduzioniste. Va gestita individuando alcuni indicatori che a un tempo siano gestibili e forniscano una visione sistemica. In tale direzione un supporto può essere fornito dal concetto di semplessità  Semplessità (Berthoz 2011). Riprendendo le analisi di Begg, Wilson, Lesh e Doerr, emergono alcuni spunti comuni: – riequilibrare la relazione fra insegnamento e apprendimento; – valorizzare sia il prodotto, sia il processo, – partire dalle pratiche dei docenti, dall’azione didattica, dall’interazione mente-corpo. Il primo punto è, forse, il più significativo. L’attenzione alla centralità dello studente e al processo ha collocato in secondo piano il ruolo dell’insegnamento, nella sua dialettica con l’apprendimento, nei processi formali. Alcuni docenti evidenziano che non tutto può essere costruito, come sottolineano Lesh e Doerr, o che il costruttivismo non permette di evitare risultati indesiderabili nei processi (Begg). Anche gli insegnanti teoricamente più convinti del costruttivismo rilevano che nella loro pratica incontrano difficoltà ad ap-

La riscoperta della centralità dell’insegnamento

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Oltre il costruttivismo

plicare i dettami di tale teoria. Riequilibrare il rapporto tra insegnamento e apprendimento non equivale a recuperare teorie istruttiviste, ma propone la didattica come mediazione, valorizza la didattizzazione delle discipline, evidenzia la regolazione in azione. Significa cogliere l’azione didattica come interazione continua tra docente e studente, uno spazio-tempo in cui, grazie all’accoppiamento strutturale, co-emergono significati e apprendimenti (cfr. infra Parte seconda, cap. nono). Il terzo elemento individua la pratica dei docenti come base per la ricerca didattica. Tale riferimento ha diversi risvolti: – una maggiore attenzione al teacher’s thinking ovvero alla filosofia educativa dei docenti; – una nuova concezione della professionalità docente, figura sempre più assimilabile a quella di un professionista riflessivo; – una differente modellizzazione della progettazione. Approfondiamo la dialettica tra apprendimento e insegnamento. L’attenzione allo studente, il ruolo dello stesso nella ri-mappatura delle proprie concettualizzazioni, la necessità di un suo coinvolgimento attivo e consapevole nei percorsi di apprendimento, elementi sottolineati dal costruttivismo, non sono in discussione. Il problema centrale è la necessità di passare da una visione psicologica dell’apprendimento, a una visione pedagogica del processo educativo centrata sull’interazione insegnamento-apprendimento. Per descrivere l’apprendimento in ambito formale sembra utile prendere in esame una traiettoLa relazione ria complessa fondata sulla dialogicità ricorsiva tra docente-studente-classe docente, studente, classe. I processi di conoscenza sono attivati da situazioni di criticità che nascono nei contesti reali. Vi è innanzitutto una percezione del disagio e l’identificazione del problema, poi un’individuazione delle possibili soluzioni, infine la validazione dell’efficacia delle stesse. In questa sede ci preme sottolineare il ruolo del docente in ciascuna fase. Nella percezione del disagio per identificare il problema, il ruolo di mediazione dell’insegnante è essenziale in quanto il passaggio si basa su una polarità che solo egli padroneggia: le conoscenze inge-

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Introduzione

nue dello studente vs le conoscenze della comunità scientifica. In altri termini al docente spetta attivare/mediare il conflitto tra i concetti presenti nelle pratiche degli studenti e quelli delle comunità scientifiche (cfr. infra Parte terza, cap. sedicesimo). Successivamente gli studenti producono ipotesi ed elaborano concetti, grazie anche ai suggerimenti e ai materiali proposti dal docente, elaborazione che continua nel confronto sociale e culturale durante il quale le assunzioni vengono perfezionate (vedi schema alla pagina successiva). La traiettoria dal disagio, all’elaborazione, alla validazione è ciclica e ricorsiva. Spetta all’insegnante fare emergere il problema dal disagio, proporre conflitti cognitivi, accompagnare i singoli studenti nelle loro riflessioni, costruire processi di validazione che tengano conto del contesto, dei saperi disciplinari, dei valori sociali e culturali della collettività scientifica e/o sociale (cfr. infra Parte terza, cap. diciassettesimo). Tutto ciò è possibile se studenti e docenti sono delle L’azione didattica unità in dialogo (Damiano 2008), se esiste un accoppiamento strutturale tra di essi, se esiste un’intesa. L’azione è lo spazio-tempo per l’intesa, il luogo dove le traiettorie dell’insegnamento e dell’apprendimento si intrecciano e comunicano. Ciò che emerge dipende dall’azione e dall’interazione, oltre che dai singoli attori. L’agire complesso coinvolge mente e corpo degli attori. Si nutre delle loro intenzioni, del loro fare, dei loro sguardi, del linguaggio del corpo. L’insegnamento non deriva in modo meccanico dall’apprendimento, non dipende solo dai processi di apprendimento. Come Shulman ha evidenziato, il pensiero degli insegnanti si costituisce in base a una serie di elementi quali le conoscenze disciplinari, i valori sociali e civili, i contesti di lavoro, che costituiscono la filosofia educativa dell’insegnante, insieme a una propria visione dell’apprendimento. Al docente è richiesto di costruire in contesto e in A Laurillard base a un ampio repertorio di dispositivi e attività (Laurillard 2012) il percorso didattico e di regolare in azione il processo stesso. Così come si richiede di gestire la propria traiettoria formativa. In tal senso egli è un professionista.

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Le prime risposte

L’analisi della pratica permette di cogliere in modo olistico il processo di insegnamento e di far emergere il dialogo tra i diversi attori e tra le diverse tensioni: non a caso questo manuale è completato da un archivio di video utili non tanto a mostrare le buone pratiche, ma a evidenziare la dialettica dell’azione. L’obiettivo è quello di osservare l’azione didattica nella sua complessità, per far emergere i processi che permettono modellizzazioni complesse e sostenibili, caratterizzate dalla semplessità. Questa la scommessa oggi più intrigante su cui il progetto che supporta il presente testo vuole cimentarsi.

3. Le prime risposte L’apprendimento, come anticipato, richiede una partecipazione attiva dello studente. È una rimappatura che tiene conto dei concetti posseduti e degli stimoli esterni accettati. Ma come si sviluppa tale processo? È un percorso solo interno alla mente o interagisce con quanto accade nel mondo? E, qualora si ammettesse che tale processo abbia un legame con l’ambiente, il rapporto è deterministico, oppure il soggetto rielabora gli input in base alla propria struttura? A tali domande il testo, pur ribadendo l’autonomia della persona, risponde proponendo di superare le dicotomie di origine cartesiana esterno-interno, oggetto-soggetto, processo-prodotto, mentecorpo.

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Introduzione

Enattivismo

Una prima risposta è individuabile nelle teorie enattiviste (Rossi 2011).

«The activity of coming to know, of learning, is a modification of structure. At the same time it is the system’s structure that limits what actions it can take in the environment, and therefore what it can come to know. What a system does in response to a trigger from its medium is determined entirely by its structure» (Reid 2004).

Un sistema che apprende è «… an active self-updating collection of structures capable of informing (or shaping) its surrounding medium into a world through a history of structural coupling with it» (Varela 1987, p. 52).

L’interazione tra sistema e ambiente diviene il nodo cruciale e durante l’interazione sistema e ambiente si modificano entrambi, apprendono. «The medium triggers a change of state in the system, and the system triggers a change of state in the medium. What change of state? One of those which is permitted by the structure of the system» (Maturana - Varela 1987, p. 75).

Se utilizziamo lo stesso linguaggio per i processi formativi, insegnamento e apprendimento sono due sistemi che si confrontano e interagiscono. Seguono logiche autonome e interessi diversi, partono da concetti e conoscenze dissimili. Solo se riescono a divenire unità in dialogo, si attivano dei trigger e in tal caso un sistema offre all’altro degli input che poi l’altro accetta e rielabora, ovvero apprende. Il concetto di trigger non è nuovo e ha affinità con idee presenti in varie teorie. Senza voler banalizzare, ma solo per evidenziare alcune analogie, sicuramente la zona di sviluppo A Vygotskij prossimale in Vygotskij, la necessità di accertare le conoscenze pregresse dello studente per poi partire da A Ausubel esse, come suggerisce Ausubel (1978), la devoluzione

Il concetto di trigger

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Le prime risposte

(Brousseau 1998), l’orizzontalità vivibile e la verticalità Brousseau A significativa (Meirieu 2007), il ruolo del colloquio cliMeirieu A nico nella didattica per concetti (Damiano 1994) presentano affinità con il concetto precedentemente espresso di trigger. Inoltre le tematiche affrontate dalle neuroscienze e, in particolare, le ricerche sui neuroni specchio sembrano fornirci utili strumenti per comprendere le basi biologiche dell’“intesa” tra sistemi. L’enattivismo, infine, evidenzia quel continuum mente-corpoartefatto-mondo che non solo, come precedentemente descritto, connette il sistema all’ambiente, ma recupera concetti cari all’embodied cognition, all’augmented reality, alla distributed cognition. Non a caso Holton (2010) propone l’equazione: Constructivism + Embodied Cognition = Enactivism. Il tema Enattivismo T sarà ripreso in vari passaggi del testo. Un ulteriore aspetto qualificante il nostro approccio in questo manuale è quello relativo al rapporto tra le neuro- Neuroscienze scienze cognitive e il processo di insegnamento-apprendimento. In tale prospettiva, che possiamo definire neurodidattica (Rivoltella 2012), si tratta di mantenersi ugualmente distanti dalle opposte tentazioni che in tempo recente hanno caratterizzato le prassi degli insegnanti e della ricerca. Il primo di questi atteggiamenti è il programma forte di chi assolutizza le evidenze neuroscientifiche pensando di Programma forte conseguenza che una didattica efficace sia solo quella che si concepisca come applicazione deterministica di quanto sulla base di quelle evidenze emerge. Si collocano qui le idee diffuse riguardo alle fasi critiche dell’apprendimento in età evolutiva (quando è o non è opportuno insegnare qualcosa), al potenziamento della performance mnemonica, al ruolo del sonno in funzione dell’apprendimento, alla “programmazione” dell’apprendimento linguistico (literacy) e numerico (numeracy). L’altro atteggiamento, che chiameremo programma deProgramma bole, è invece quello di chi si appropria in maniera superfidebole ciale del lessico neuroscientifico, si sostituisce al neuroscienziato e ritiene di dare consistenza alle proprie affermazioni (di solito non controllate dal punto di vista sperimentale) supportandole con

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Introduzione

quelle che si suppone siano evidenze che dalla ricerca neuroscientifica provengono. Anche in questo caso non si contano gli esempi che si possono portare: l’idea che le tecnologie digitali stiano ridefinendo il corredo genetico degli individui (Ferri 2011), che preparino l’avvento di una nuova fase dell’ominazione (homo sapiens sapiens digital – Simone 2011), che ridefiniscano l’intelligenza (intelligenza digitale – Battro 2009). Ma analogamente si può pensare alla definizione di profili cognitivi razionali o creativi in relazione alla dominanza della parte destra o sinistra del cervello, alla fiducia di sfruttare tutto “lo spazio corticale” ancora inutilizzato, alla convinzione che ai diversi stili di apprendimento corrispondano precise configurazioni neurali. La nostra convinzione è invece che chi si occupa di didattica continui a farlo dialogando con le neuroscienze in Il dialogo tra due discipline funzione di alcuni punti fermi, gravidi di sviluppi sul piano didattico, che proprio la ricerca in questo settore ha consentito di fissare. Sul piano del metodo, l’invito è ad avere estrema cautela nel generalizzare o nel ricavare inferenze quando si tratta di apprendimento e di insegnamento: l’orientamento evidence based della ricerca neuroscientifica serve a controllare le affermazioni e a esplicitarle. Quello che in didattica probabilmente si sa con maggiore certezza è idiografico, relativo alla dimensione micro, indiziario. Sul piano del contenuto, quel che di più interessante dalla ricerca neuroscientifica proviene è l’idea dell’insegnamento come di una situazione intersoggettiva in cui il sistema corpo-cervello è protagonista di un’azione che richiede sapienza performativa, un raffinato sistema di regolazione, la capacità di testimoniare in maniera suggestiva ciò che proprio in virtù dell’efficacia di questa testimonianza può essere opportunamente appreso. L’insegnamento è corpo, azione, teatro (Gallese 2011; Rivoltella 2012; Neuroscienze  Rossi 2011).

4. Didattica come scienza dell’insegnamento Come si caratterizza in questo nuovo contesto la didattica come scienza? Nel passato la didattica ha fornito le “ricette” da applicare

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Didattica come scienza dell’insegnamento

nell’insegnamento. La ricerca evidenziava le strategie migliori, quelle che garantivano un più probabile successo e le proponeva ai docenti. Così sono nate le varie modellizzazioni didattiche. Il modello della evidence base education sembra ripercorrere tale traiettoria. Accanto a questo approccio ne sta emergendo un altro, anch’esso attento alle pratiche, all’indagine scientifica e a un esame rigoroso delle stesse. Dalla ricerca, in questo caso, derivano però quegli indicatori che occorre controllare per progettare e per regolare in azione la complessità del reale. I modelli per la progettazione esemplificano tale cambiamento (cfr. infra parte seconda, capp. settimo, Progettare la didattica undicesimo e dodicesimo). Non più e non solo la progettazione (o forse meglio la programmazione) risulta essere l’applicazione di modelli predefiniti (didattica per obiettivi, per competenze, per progetti, per concetti). Progettare richiede oggi la costruzione di un percorso didattico “su misura” per il contesto. Il riferimento al contesto non determina una rinuncia a un approccio scientifico, ma sposta a un livello “meta” il modello. Se prima i modelli erano relativi alle tipologie e alle caratteristiche dei percorsi, oggi essi indicano al docente il processo che egli compie per elaborare il progetto. I modelli attuali sono molto diversi da quelli proposti agli albori dell’Instructional Design. Dagli schemi degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (si pensi ad addie) rigidamente lineari e deterministici (waterfall), si è passati a modelli ciclici e ricorsivi che ben descrivono il modo con cui il docente opera realmente nella progettazione. Ecco il rapid prototyping nelle sue varie versioni (Tripp e Bichelmeyer 1990; Wilson et alii 1993; Botturi et alii 2007) o il modello fbs (Gero 1994; Gero - Kannengiesser 2002; Gero A Rossi - Toppano 2009) che tengono conto dei processi ciclici per approssimazioni successive e prendono in esame le simulazioni mentali e le modellizzazioni del contesto (Schön Schön A 1993) che caratterizzano il pensiero del docente come professionista. Si veda in questa direzione il moInstructional design  dello lsde proposto dalla Laurillard (2012).

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Introduzione

Formare i professionsiti

Ma come si acquistano le competenze per la progettazione e la regolazione? Ovvero come si diventa professionisti riflessivi? Un insegnante deve disporre di un ampio catalogo di strategie, conoscenze e modelli (cfr. infra parte seconda). Ma sicuramente questo non è sufficiente perché disponga della phronesis aristotelica, la saggezza in azione. D’altro canto sebbene la pratica sia alla base dell’acquisizione di competenze, la pratica da sola è monca: se il docente non attiva un processo pratica-teoria-pratica e se non mette in atto percorsi riflessivi, la pratica è cieca. L’esigenza di avere professionisti della formazione impone un nuovo rigore scientifico alla didattica che garantisca alla formazione iniziale di avviare alla professionalizzazione e alla formazione in servizio di favorire la messa a punto di un’identità professionale e personale (cfr. infra Parte terza). La terza parte del testo costruisce un ponte tra l’attività del docente per insegnare (attività produttiva) e l’attività del docente per arricchire la propria traiettoria professionale e personale (attività costruttiva). In essa sono descritti ampiamente i dispositivi per la formazione dei professionisti, motivando perché la didattica è una scienza e cercando di descrivere come declinare il concetto di scienza, secondo traiettorie innovative. Oggi non è più pensabile esaminare l’insegnamento senza l’insegnante con il suo patrimonio professionale e personale, come in generale non è possibile parlare dell’osservato senza tener conto della prospettiva dell’osservatore.

5. Struttura del testo L’agire didattico. Manuale per l’insegnamento costituisce il primo risultato tangibile del lavoro di una comunità professionale di docenti universitari (20 professori di 16 sedi) che si è raccolta immaginando di funzionare come un laboratorio permanente di ricerca e riflessione sulle pratiche di insegnamento e i problemi dell’apprendimento. Si tratta di un sicuro aspetto di novità in un panorama,

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Struttura del testo

come quello delle nostre università, in cui spesso prevalgono al contrario logiche particolari e chiusure autoreferenziali con la conseguente frammentazione degli indirizzi di ricerca e la mancanza di un’effettiva circolazione e fertilizzazione delle esperienze. Gli effetti positivi speriamo si possano registrare presto: – la definizione di un framework concettuale comune in grado, se non di uniformare, quanto meno di rendere coerenti gli standard formativi degli studenti nelle diverse sedi nel campo della didattica; – in virtù di questo framework, la costruzione di un campione di studenti rappresentativo a livello nazionale che consenta la comparazione dei dati e la definizione di protocolli e disegni di ricerca in comune; – l’allestimento di un dispositivo di aggiornamento professionale, di intercettazione del nuovo, di scouting e promozione di giovani ricercatori: una vera e propria “accademia della didattica” in cui far maturare idee, confrontarle, condividerle e affidarle alla comunità più ampia dei ricercatori; – l’adozione di modelli e materiali di lavoro comuni all’interno di un laboratorio permanente del fare didattica in grado di produrre riflessione, strumenti, orientamenti. Nello specifico, con il presente volume questo gruppo di lavoro intende promuovere un nuovo tipo di approccio alla forma-manuale. Ne indichiamo sinteticamente di seguito i punti di forza. L’agire didattico. Manuale per l’insegnamento è un prodotto editoriale transmediale, composto da una parte cartacea e da una digitale perfettamente integrate tra loro. L’obiettivo della parte cartacea è di fornire al lettore delle trattazioni monografiche agili su temi di cui gli estensori, nel campo didattico, sono portatori di competenze riconosciute. La logica che guida i singoli contributi è fortemente interpretativa: non ci interessava che essi si trasformassero in repertori bibliografici aridi, capaci di rendere conto della letteratura sull’argomento; abbiamo voluto invece che fossero letture molto personali, sguardi originali che consentano a chi legge di confrontarsi con un preciso punto di vista.

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Introduzione

La struttura di ogni singolo capitolo prevede, in conclusione, una mappa concettuale che favorisca l’esplicitazione retrospettiva del suo percorso argomentativo. Marcatori grafici indicano all’interno del testo i punti di raccordo tra la parte cartacea e le sue estensioni on line. Richiami a margine aiuteranno il lettore a individuarne le unità semantiche cogliendone i contenuti essenziali. Si tratta di elementi di semplessificazione (Berthoz 2011) della trattazione che hanno il compito di facilitare il lavoro del lettore. La parte digitale, disponibile on line, va pensata come un’estensione e un’integrazione della trattazione cartacea. In essa si possono distinguere differenti strumenti: – schede, in cui vengono sinteticamente inquadrati autori, teorie, approfondimenti; – attività, che presentano studi di caso, strumenti di ricerca e intervento; – materiali audio e video; – risorse biliografiche e sitografiche; – un lessico dei termini tecnici. Uno spazio specifico, all’interno della parte on line, vengono ad assumere le riprese video di insegnanti in situazione. Si tratta di filmati il cui obiettivo è di mettere a disposizione degli studenti uno strumento per lo sviluppo professionale e per la meta-analisi delle proprie pratiche didattiche. Sull’esempio della tradizione di ricerca francese (Altet, Vinatier), un video di questo genere riprende l’insegnante alle prese con il setting d’aula, fornendo allo studente elementi per rielaborare riflessivamente il proprio agire. A differenza del microteaching di tradizione Microteaching  anglosassone, questo approccio non parte dal presupposto che il video serva a correggere gli errori nella comunicazione didattica (supponendo di conseguenza di disporre di un modello adeguato di comunicazione didattica), ma a portare a consapevolezza degli insegnanti aspetti e problemi dell’azione didattica in contesto. L’architettura degli argomenti prevede una macrotripartizione. La prima parte (Teoria e storia) si muove entro i confini dell’epistemologia e della teoria generale della didattica lungo due princi-

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Struttura del testo

pali assi: l’asse criteriologico, lungo il quale si organizzano i problemi della definizione della didattica, della ricostruzione delle sue linee di filiazione teorica, dell’analisi prospettica di modelli (capp. primo e secondo); l’asse tassonomico, lungo il quale vengono esplicitati gli snodi della didattica generale nei suoi rapporti con le didattiche disciplinari (cap. terzo) e con i diversi contesti della sua applicazione (capp. quinto e sesto, quest’ultimo dedicato nello specifico al rapporto tra didattica e organizzazioni) e si individua nella dimensione tecnologica non un aspetto specifico dell’agire didattico, ma una dimensione trasversale alle sue diverse manifestazioni (cap. quarto). La seconda parte (Saperi e strumenti) rappresenta, se ci si consente la metafora, la cassetta degli attrezzi dell’insegnante/formatore. In essa viene definito il framework dell’agire didattico nella circolarità delle sue componenti (cap. settimo) che vengono poi analizzate contestualmente: progettazione (capp. undicesimo e dodicesimo), trasposizione (cap. nono), comunicazione e gestione dell’aula (cap. ottavo), valutazione (capp. tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo). Un rilievo particolare viene poi garantito a dispositivi, ambienti e artefatti (cap. decimo), elementi che entrano a tutti gli effetti a fare parte, nel moderno agire didattico, della progettazione e della regolazione. La terza parte del libro (Professionalità docente) costruisce un ponte tra l’attività produttiva e l’attività costruttiva. La prima è relativa alla trasformazione del reale, la seconda alla trasformazione della persona in riferimento alla sua traiettoria personale e professionale. La formazione all’insegnamento non è pensabile oggi senza la formazione dell’insegnante come professionista. Il primo contributo costruisce tale legame e affronta i temi della mediazione e delle regolazione, centrali nella logica di un approccio enattivo alla didattica come quello sviluppato in queste pagine (cap. sedicesimo). Vengono, successivamente, messi a fuoco alcuni saperi che, come quelli trattati nella seconda parte, contribuiscono a definire il profilo professionale dell’insegnante, ma che, a differenza di quelli, traducono alcune dimensioni nuove o da tempo presenti, consegnate

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Introduzione

dalla ricerca a nuova rilevanza. È il caso della dimensione riflessiva (cap. diciannovesimo), del ruolo del corpo messo in luce dalla ricerca sulla dimensione motoria di estrazione neuroscientifica (cap. diciottesimo). Ma anche l’apertura interculturale, più in generale il tema delle diversità (cap. diciassettesimo), chiede un’attenzione specifica in un contesto di crescente pluri-culturalismo nella costituzione delle classi, così come l’esigenza di dotare l’insegnante di strumenti che siano funzionali allo sviluppo di ricerca educativa (cap. ventunesimo). Da ultimo, non può mancare una visione sintetica dei problemi e delle metodiche della formazione dei professionisti (cap. ventesimo), un’urgenza non rinviabile a fronte delle sfide che i nuovi contesti e i loro assetti lanciano all’educazione. Pier Cesare Rivoltella - Pier Giuseppe Rossi

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Parte prima

Teoria e storia

Capitolo primo

Epistemologia della didattica Massimo Baldacci

1. Premessa In questo capitolo intendiamo affrontare la questione dell’epistemologia della Didattica. Per “epistemologia” s’intende sia la teoria generale della conoscenza (per la quale si usa anche il termine “gnoseologia”), sia – in un senso più circoscritto – la teoria della scienza. Noi useremo tale termine in questo secondo senso, per riferirci agli assetti teorici della Didattica intesa come disciplina scientifica1. In prima approssimazione, diremo che la Didattica è la scienza dell’insegnamento ma, come vedremo, la questione è destinata a rivelarsi più complessa. Per chiarirla, sia pure sommariamente, attraverseremo tre problemi: – il nesso tra ontologia ed epistemologia della Didattica; – le possibili concezioni epistemologiche della Didattica; – la delimitazione di un “oggetto” specifico alla Didattica come scienza. I primi due punti costituiscono una preparazione del cuore del discorso, che è sviluppato nel terzo punto, e mirano a dare alcuni chiarimenti sul genere di epistemologia che adotteremo. Difatti, poiché ogni analisi teorica muove da certe premesse, senza le quali non sarebbe possibile, è opportuno rendere esplicite tali premesse, altri-

Per evitare continue precisazioni useremo “Didattica” (con l’iniziale maiuscola) per riferirci alla scienza dell’insegnamento, e “didattica” (con l’iniziale minuscola) come sinonimo d’insegnamento. 1

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Capitolo I - Massimo Baldacci - Epistemologia della didattica

menti si corre il rischio di presentare un punto di vista dovuto a una precisa opzione teorica (sia pure provvisoria) come se fosse assoluto e privo d’alternative.

2. Epistemologia e ontologia Un primo chiarimento concerne la distinzione tra epistemologia e ontologia. Detto in modo sommario, l’epistemologia concerne il processo di conoscenza della realtà, e le condizioni di validità di tale conoscenza; l’ontologia riguarda invece ciò che esiste, la natura della realtà in sé. Questi due piani non devono essere confusi: il problema di quali cose esistano e di come esse stiano è diverso da quello di come si possa conoscerle validamente. Tuttavia, la natura della realtà non è senza conseguenza sui modi validi di conoscerla. Schematizzando, rispetto alla Didattica, si può concepire la sua ontologia di riferimento in termini naturali o in termini storico-sociali. In altre parole, si può vedere il campo delle pratiche d’inseL’insegnamento come gnamento e d’apprendimento come una realtà narealtà naturale turale, oppure storico-sociale. Nel caso dell’ontologia naturale, agirà il  Ontologia naturale postulato della stabilità e della regolarità della natura, per cui si tenderà a pensare che, di là dalle contingenze storico-sociali, la Didattica sia volta a cogliere le costanti naturali del processo d’insegnamento-apprendimento, che riposano sulla costituzione biologica dell’uomo (difatti, l’insegnamento, almeno nella forma intenzionale, è un fenomeno specifico alla specie umana [Baldacci, 2012]). Così, si tenderà a ritenere che vi siano principi o leggi perenni dell’insegnamento-apprendimento che la Didattica deve scoprire o ricostruire, e la ricerca assumerà un taglio nomotetico (= ricerca di leggi universali). Insomma, nella sua natura profonda, l’uomo è sempre il medesimo in tutte le epoche e in tutti i contesti, perciò il processo d’insegnamento-apprendimento possiede una struttura costante. Vedere il campo delle pratiche d’insegnamentoapprendimento come una realtà di genere storicoL’insegnamento come sociale muta completamente il quadro di riferirealtà complessa

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Epistemologia e ontologia

mento. Nel caso dell’ontologia storica, infatti, Ontologia storica  la costituzione biologica specie-specifica dell’uomo (che ovviamente nessuno nega) definisce solo un campo di possibilità, ed è il divenire storico-sociale a determinare le forme concrete e storico-relative assunte dai processi d’insegnamento-apprendimento. Così, si tenderà a ritenere che i principi e le categorie dell’insegnamento siano astrazioni determinate e storicamente relative, e che esse vadano comprese entro un certo quadro storico-sociale. Insomma, la natura dell’uomo è storica: l’uomo attualizza le possibilità definite dalla sua costituzione biologica in forme differenti nelle varie epoche e nei diversi contesti sociali, per cui la struttura del processo d’insegnamento-apprendimento è socialmente determinata e storico-relativa. Questa problematica ontologica è resa più acuta L’insegnamento come da due ulteriori questioni. La prima è la possibilità realtà complessa di un’ontologia di riferimento di carattere complesso (Morin, 1993), sociale e naturale al tempo stesso, perché alcuni aspetti della struttura dell’insegnamento-apprendimento potrebbero inerire al dominio naturale, altri a quello sociale, e altri ancora essere difficilmente classificabili. Di conseguenza le ontologie meramente naturali o sociali costituirebbero una semplificazione unilaterale rispetto alla realtà delle cose, e sarebbero perciò destinate a generare impostazioni riduttive. La seconda è che le assunzioni ontologiche compiute in sede epistemologica, spesso, rimangono implicite e agiscono così in modo incontrollato. Difatti, è difficile sviluppare un discorso scientifico senza compiere almeno alcune assunzioni ontologiche. Questo non implica che una concezione epistemologica debba assumere come riferimento un’ontologia completa e dettagliata. Le è però necessario almeno un orientamento circa il carattere generale di tale ontologia (naturale, sociale, complessa…), purché reso esplicito e dunque sorvegliato. Altrimenti il presupposto ontologico rischia di precipitare nella matrice epistemologica e di confondersi con le sue strutture, agendo in maniera incontrollata sull’inconsapevole ricercatore. Per il resto, una volta precisato questo orientamento generale, crediamo che ci si debba attenere al principio di austerità ontologica (ovvero, al celebre rasoio di Ockam), e

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dunque limitarsi a quelle assunzioni ontologiche minime strettamente necessarie alla coerenza del discorso (Quine, 2005). Per esempio, se si assume che l’apprendimento umano sia un processo di continua riorganizzazione dell’esperienza, e che come tale segua il principio di continuità dell’esperienza (ogni esperienza è condizionata da quelle precedenti, e influenza quelle successive), si assume implicitamente l’esistenza di un sé individuale persistente nel tempo, necessario per rendere sensato tale principio di continuità (Dewey, 1996). Per quanto ci riguarda, rispetto alla Didattica, assumeremo la cornice generale di un’ontologia di carattere complesso, sociale e naturale al tempo stesso, senza però preoccuparci di dettagliarla o tanto meno di fissare le proporzioni tra tali aspetti. Ontologia complessa Anche in questi termini generali, un’ontolo gia complessa ha conseguenze rilevanti sul piano epistemologico. Infatti, sebbene il rapporto tra questi piani non sia di tipo deduttivo (l’epistemologia non si può derivare dall’ontologia), l’epistemologia è almeno in parte vincolata dall’ontologia. In altre parole, muovendo dall’ontologia non si può determinare quale soluzione epistemologica sia valida, ma si possono escludere certi tipi di soluzioni, poiché inadeguati alla natura ontologica della realtà da conoscere. Per chiarire ulteriormente la questione, se Adeguatezza e affidabilità l’epistemologia si occupa delle condizioni di vadel processo conoscitivo lidità della conoscenza scientifica, possiamo ridurre schematicamente questo problema a due aspetti: l’adeguatezza del processo conoscitivo rispetto alla natura ontologica della realtà da conoscere, e l’affidabilità del processo conoscitivo, ossia la sua capacità di mettere capo a conoscenze vere rispetto a tale realtà. L’ontologia vincola l’epistemologia rispetto alla prima questione, all’adeguatezza del processo conoscitivo. E questo vincolo ontologico è capace di determinare decorsi epistemologici marcatamente differenti. Difatti, tornando alle conseguenze di un’ontologia complessa sull’epistemologia della Didattica, assumere una realtà simultaneamente naturale e storico-sociale dei processi d’insegnamento-apprendimento rende avvertiti (anzi: guardinghi), contro frettolose genera-

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Quadri epistemologici

lizzazioni nomotetiche. Ma qui non ci riferiamo alla classica cautela nella generalizzazione, in base alla quale si richiede un’evidenza empirica ampia e rappresentativa prima di arrischiare tale generalizzazione. Ci riferiamo invece allo stesso carattere nomotetico della generalizzazione (laddove inteso in senso puro): alla pretesa di arrivare a leggi costanti e sovra-storiche, simili a leggi naturali. Difatti, la complessità dell’insegnamento-apprendimento deve rendere molto cauti in proposito, dando consapevolezza del rischio di reificare la sua struttura, riducendo a realtà meramente naturale una realtà storico-naturale, i cui principi (o almeno una parte di essi) potrebbero essere valevoli in modo puramente storico relativo, e possedere dunque il carattere di astrazioni storicamente determinate più che quello di leggi naturali (Goldmann, 1981). Posto questo monito critico contro le tentazioni di assimilare la Didattica a una mera scienza naturale dell’insegnamento-apprendimento, non ci impegneremo però in ulteriori chiarimenti, aggiungendo soltanto che un’ontologia complessa esclude soluzioni semplicistiche del rapporto Natura/Storia. Per esempio, non si pensi di cavarsela assumendo che le forme dell’apprendimento ineriscano a un’ontologia naturale, mentre i suoi contenuti a un’ontologia storica, perché quest’ultimo assunto costituisce una banalità lapalissiana, mentre il primo potrebbe rappresentare proprio quel genere di reificazione che occorre evitare, sforzandoci di capire come tali forme, nonostante abbiano una componente naturale, subiscano una strutturazione storico-sociale. Tenuto conto di queste considerazioni, una volta posta un’ontologia complessa dell’insegnamento-apprendimento, conviene compiere una mossa trascendentale, assumendo la connessione Natura/Storia come mera idea regolativa, come puro canone metodologico rispetto al modo di pensare la realtà dell’insegnamento-apprendimento.

3. Quadri epistemologici Come si è detto, l’ontologia vincola l’epistemologia dettando l’esigenza di adeguatezza del processo conoscitivo rispetto alla na-

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tura della realtà da conoscere. La soddisfazione di questo vincolo ontologico, benché necessaria, non esaurisce però gli standard di validità del processo conoscitivo: sono in gioco anche l’affidabilità del processo e i suoi eventuali limiti. In altre parole, mentre la questione di quale genere sia la realtà da conoscere è preliminare all’epistemologia, o meglio riguarda il suo rapporto con l’ontologia, sono strettamente epistemologiche le domande circa cosa è possibile conoscere, e come è possibile farlo in modo affidabile. Anche rispetto a questo problema, ci limiteremo a un’analisi a grana grossa, compiendo una distinzione Epistemologia formale tra epistemologia formale ed episte  Epistemologia naturalizzata mologia naturalizzata. Torneremo infine sul rapporto tra epistemologia e ontologia. Epistemologia formale: L’epistemologia formale rappresenta una ricoprincipi e canoni della struzione razionale dell’assetto del sapere e dell’atdidattica tività scientifica (Giorello, 1994). Questo tipo di epistemologia si preoccupa cioè di analizzare le condizioni di validità della conoscenza, e perciò di definire un insieme di principi, criteri o requisiti che tale conoscenza deve soddisfare per essere “scientifica” nel senso di razionalmente giustificata. La strategia teorica usata da questa Epistemologia è dunque basata sull’analisi logica di tali condizioni e requisiti, e questi assumono una portata normativa rispetto ai modi di fare scienza, prescrivendo come deve essere organizzata la conoscenza e come deve procedere il suo processo per essere valido. Entro questa cornice, l’epistemologia della Didattica consiste nell’individuare i criteri di strutturazione di questo sapere (Frabboni, 2000), nonché i canoni metodologici che le consentono di elaborare una conoscenza valida circa l’insegnamento-apprendimento. L’epistemologia naturalizzata muove dalla Epistemologia naturalizzata: studio delle critica di quella formale, alla quale rimprovera di voler imporre all’attività scientifica canoni pratiche di insegnamento esterni ad essa, anziché di cercare di individuarne i criteri immanenti (Quine, 1986). Così, questo tipo di Epistemologia sostituisce l’analisi logica con l’analisi empirica della pra-

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Quadri epistemologici

tica scientifica, e più precisamente con la psicologia empirica dei processi conoscitivi concretamente messi in atto nella ricerca. In questo modo, essa diviene simile a una scienza naturale che studia il processo della conoscenza scientifica. D’altra parte, pur essendo di tipo descrittivo, il risultato non perde del tutto di portata prescrittiva, perché l’analisi dei vari tipi di strategie adottate ne può rivelare una differenza d’efficacia, e quindi acquisire anche una funzione normativa. Secondo la variante evoluzionista di questa Epistemologia, nel corso della propria storia evolutiva, la pratica scientifica seleziona i canoni che si sono mostrati più adatti a favorire la crescita della conoscenza. Entro questa cornice, l’epistemologia della Didattica consiste nell’analisi empirica delle pratiche d’insegnamentoapprendimento (Damiano, 2007a) (e in particolare di quelle che si mostrano maggiormente efficaci rispetto a certi problemi), e i correlati processi di formazione delle credenze didattiche dei docenti, allo scopo di estrapolarne i criteri immanenti. Se i “naturalisti” contestano all’Epistemologia formale di prescrivere dall’esterno standard strutturali e giustificativi alla scienza, e dunque canoni astratti definiti in modo meramente logico, i “formalisti” rimproverano a loro volta all’Epistemologia naturalizzata il fatto di minimizzare la questione della fondatezza dei criteri scientifici (Nagel, 1999), e dunque dell’effettiva garanzia di validità del sapere scientifico, oltre a quello di tendere a convertire la descrizione di ciò che si fa con la prescrizione di ciò che si dovrebbe fare2. Anche in questo caso, almeno in linea di Epistemologia critica: principio, si apre perciò lo spazio per una terza i canoni e le pratiche via epistemologica, che definiremo come Epistemologia critica (Banfi,1957). Una tale Epistemologia critica  impostazione, pur serbando un carattere formale, prevede un ruolo anche per le indagini naturalizzate. Infatti, l’analisi logica dei criteri di validità del sapere scientifico non può essere del tutto priva di rapporti con i risultati dell’analisi empirica

2 In un’analisi più articolata, si dovrebbe prendere in esame anche l’ipotesi di un’epistemologia “storicizzata”, di cui rappresenta un esempio “forte” Goldmann, cit.

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delle pratiche d’insegnamento e della elaborazione delle credenze didattiche dei docenti. A questo proposito, le stesse strutture epistemologiche formali devono essere assunte in una cornice congetturale e fallibilista: in linea di principio dovrebbero essere in grado di spiegare l’efficacia e i limiti dei canoni di fatto adottati, così come sono ricostruibili attraverso le analisi empiriche delle pratiche didattiche, e dovrebbero essere in grado d’indicare ulteriori criteri di validità. La nostra opzione teorica sarà a favore di una tale epistemologia critica, il cui assetto fondamentale è comunque quello canonico dell’Epistemologia formale (e in questo capitolo ci limiteremo a sviluppare questo aspetto). Riassumendo, avanziamo l’ipotesi teorica di un’epistemologia critica della Didattica, che assuma come quadro di riferimento un’ontologia complessa dell’insegnamento-apprendimento. Si tratta cioè di individuare gli assetti e i canoni della conoscenza didattica attraverso un’analisi logica corroborata da analisi empiriche, riferendo tale conoscenza alla realtà complessa, tanto naturale quanto storico-sociale, delle pratiche d’insegnamento-apprendimento. Nel seguito, ci limiteremo però ad alcune annotazioni generali, senza tentare una realizzazione dettagliata di questo programma di lavoro.

4. Il problema dell’oggetto della Didattica Si potrebbe ritenere di dare uno statuto scientifico alla Didattica attraverso una sua definizione univoca e precisa, ma tale strada è irta di difficoltà e si è mostrata infruttuosa (Genovesi, 2008). Per altro, ogni disciplina scientifica sconta una simile difficoltà, e d’altra parte una tale definizione non è una condizione della sua operatività, semmai vale il contrario: quando una disciplina è operativa e produce risultati validi ci si può interrogare sensatamente sul suo carattere. Le risposte rimangono però legate alle sue forme operative e ai loro esiti. Così, se si chiede (poniamo) che cos’è la matematica, le risposte tipiche sono che la matematica è ciò che fanno i matematici, oppure che è ciò che è scritto nei libri di matematica. Lo stesso vale per la Didattica: una

Una definizione della Didattica?

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Il problema dell’oggetto della Didattica

sua definizione precisa e univoca non è necessaria per farne una disciplina scientifica. Batteremo perciò altre strade. Dal punto di vista di un’epistemologia formale, le condizioni di possibilità di una Didattica come scienza sono legate alla sua capacità di soddisfare i requisiti tipici di ogni sapere scientifico. Grosso modo, tali requisiti sono quelli di possedere un proprio autonomo oggetto e un metodo rigoroso (Agazzi, 1979; Antiseri, 1976). L’indagine logico-epistemologica verte perciò essenzialmente sull’oggettualità e sulla metodologia di ricerca della Didattica. A questo compito, però, potremo qui provvedere solo a Oggettualità  grandissime linee e limitandoci alla questione dell’oggettualità. In prima approssimazione, l’oggetto di una scienza L’oggetto della Didattica: è costituito dalla “cosa” di cui essa si occupa: la Didatl’insegnamento tica è la scienza dell’insegnamento, come la Semiotica è la scienza del segno. Tuttavia, la questione non è così semplice. In primo luogo, il concetto d’insegnamento non è univocamente determinato, bensì ha un carattere polisemico, ma a questo penseremo più avanti. In secondo luogo, l’oggetto di una scienza non è identificabile con la “cosa” di cui si occupa, perché discipline differenti possono studiare la medesima “cosa” da punti di vista diversi: e difatti esiste una psicologia dell’insegnamento come una sociologia dell’insegnamento. Pertanto, si è più vicini alla sostanza della questione, se si asserisce che l’oggetto scientifico è una data cosa guardata da un certo punto di vista. Così, la Didattica costituisce una disciplina autonoma se, e solo se, si occupa dell’insegnamento da una propria specifica angolazione, che è necessario identificare per fondare tale autonomia. Ma in questo discorso l’oggetto rimane ancora indeterminato, a causa della genericità di espressioni come “cosa” e “punto di vista”, il cui valore è meramente metaforico e che devono perciò essere sostituite da formulazioni più precise. A questo proposito, in luogo di “cosa” è più appropriato usare l’espressione: “campo di esperienza” o, nel nostro caso, “campo di pratiche”. In altre parole, un primo aspetto dell’oggetto è costituito da un campo d’esperienza che cade sotto una nozione

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unificante3. Così, la dimensione oggettuale della Didattica si riferisce al campo di pratiche che cade unitariamente sotto il concetto d’insegnamento (ossia, al campo delle pratiche d’insegnamento-apprendimento4). Quanto al “punto di vista”, in senso operativo esso corrisponde alla rete concettuale adoperata dalla disciplina per dare significati scientifici ai fenomeni di un dato campo d’esperienze. Il punto di vista della Semiotica corrisponde al reticolo di categorie usato da questa disciplina per leggere il mondo (per esempio: emittente, codice, messaggio, canale, destinatario…). In questo modo, l’oggettualità della Didattica si risolve nella rete concettuale da essa adoperata per interpretare il campo di pratiche che cade unitariamente sotto la nozione d’insegnamento. Tale oggettualità perde perciò qualsiasi connotato “cosale”. Così, si può anche dire che l’oggetto della Didattica è l’insegnamento, se s’intende l’insegnamento come il concetto limite della sua rete categoriale, e sotto il quale cade il campo delle pratiche d’insegnamento-apprendimento5. Per approfondire il discorso sulla dimensione oggettuale della Didattica, occorre perciò sia chiarire il concetto d’insegnamento, sia precisare il carattere della struttura concettuale ad essa inerente. Iniziamo dal chiarimento del concetto d’inseIl concetto ordinario gnamento. Naturalmente vi è in primo luogo un di insegnamento concetto ordinario d’insegnamento, proprio del linguaggio comune, che è sufficiente per gli usi pratici quotidiani. In sede scientifica occorre però superare questo concetto ordinario, che si mantiene vago e ambiguo, per giungere a una soluzione formale. Non si tratta però tanto di pervenire a una definizione univoca, quanto di chiarire la struttura polisemica di tale concetto, così da evidenziare la problematica immanente alla Di3 Per riferirsi a questo aspetto si può usare anche l’espressione “regione ontologica”, denominando di conseguenza la rete concettuale della disciplina come la sua “ontologia regionale” (Baldacci, 2012). 4 Riteniamo insensato separare e opporre insegnamento e apprendimento: la Didattica è fondata sul loro nesso. 5 In altre parole, l’oggetto di una scienza emerge dalla sua ontologia regionale, ed è espresso convenzionalmente dal concetto limite di questa.

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Il problema dell’oggetto della Didattica

dattica6. Difatti, col termine “insegnamento” si può intendere sia il contenuto da insegnare (come quando si chiamano “insegnamenti” le diverse discipline del curricolo formativo), sia l’azione di insegnare (le condotte con cui l’insegnante cerca di favorire l’apprendimento del discente); e per altro verso ci si può riferire sia alla relazione diretta dell’insegnante col discente (si chiama “insegnamento” la comunicazione di conoscenze al discente), sia a una loro relazione indiretta (come avviene nel caso dell’esempio: quando si parla dell’insegnamento di don Milani, non ci si riferisce alle lezioni che egli teneva ai ragazzi di Barbiana, bensì al messaggio morale trasmesso dal suo esempio); su un ulteriore piano, si può intendere sia un fenomeno informale (come quando si verifica l’esigenza contingente di mostrare a un novizio come eseguire una certa operazione del corso di una data attività), sia un fenomeno formale (come l’insegnamento scolastico di un sapere disciplinare). Si potrebbe continuare, ma il carattere polisemico nel concetto d’insegnamento appare evidente. Di fronte a questa polisemia, il tentativo di imbrigliare tale concetto in una definizione univoca rischia di risultare dogmatico e unilaterale, finendo per oscurare aspetti cruciali della sua struttura. Invece di pensare all’insegnamento come a un concetto-sostanza, caratterizzato da un significato univoco si possono compiere due mosse diverse (di carattere logico diverso, e quindi complementari). La prima e più radicale mossa è quella di passare dal concetto sostanziale all’idea trascendentale (Banfi, L’idea regolativa di insegnamento 1967)7. Ciò implica la rinuncia a qualsiasi valenza ontologica o referenziale del termine “insegnamento”, per conferirgli un valore puramente regolativo verso l’insieme dei significati evidenziati dalle diverse accezioni del concetto. In questa direzione, l’idea d’insegnamento esprime un senso più astratto ma unitario che sussume i suoi diversi significati concettuali, trasformandoli

6 Per la polisemia del termine “insegnamento” cfr. Laporta, 1994; Damiano, 1993. 7 Di Banfi cfr. anche la voce “didattica”, in Enciclopedia Treccani, 1931, nella quale lo studioso tratteggia l’idea di didattica in generale. Per la cui critica cfr. Maragliano, 1988.

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Capitolo I - Massimo Baldacci - Epistemologia della didattica

in momenti del farsi dell’insegnamento stesso. In altre parole, nella concreta pratica dell’insegnamento vi è il momento formale, come quello informale; il momento diretto, come quello indiretto. L’idea compendia questi momenti in una sistematica unitaria, garantendo l’apertura all’intera trama dei suoi significati e agendo perciò da dispositivo critico contro i tentativi di chiudere il concetto in un’accezione parziale e unilaterale. Tuttavia, se questa mossa preserva il concetto d’insegnamento da chiusure dogmatiche, essa riguarda però più il modo di pensare l’insegnamento in maniera unitaria (la sua filosofia, si potrebbe dire), che non quello di conoscerlo scientificamente. Pertanto, la mossa trascendentale deve essere preparata e completata da una mossa di tipo funzionale, che mantiene la referenza empirica del concetto, e dunque la sua pertinenza in sede scientifica. La mossa in questione consiste nel passaggio Il concetto-funzionale dal concetto sostanziale al concetto funzionale8. Il di insegnamento concetto sostanziale sfronda la polisemia per giungere a un significato univoco (la “sostanza” del concetto). Il concetto funzionale assume invece i diversi aspetti della polisemia come variabili della propria struttura, serbando il loro carattere referenziale, ossia la loro capacità di denotare aspetti specifici della realtà delle pratiche d’insegnamento-apprendimento. Così, il concetto-funzione d’insegnamento può essere rappresentato in questa forma: Insegnamento (insegnante, discente, contenuto, medium, azione, contesto… x, y, z) dove le espressioni tra parentesi indicano le “variabili” (qui individuate solo sommariamente) che caratterizzano la struttura dell’insegnamento (con x, y, z come variabili da determinare). In questa forma, il concetto d’insegnamento si mantiene insaturo, perché il suo riferimento empirico (la specifica realtà d’insegnamento che denota) non è precisata finché non sono saturate almeno alcune di queste variabili. Tutto questo vuol dire che di fatto non esiste l’insegnamento in generale (pertinente all’idea): l’insegnamento è sem8

Sui concetti-funzione, cfr. Cassirer, 1973 (1910).

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Il problema dell’oggetto della Didattica

pre l’insegnamento di qualcosa (il contenuto), da parte di qualcuno (l’insegnante) a qualcun altro (il discente), in una data situazione sociale (il contesto), attraverso certi modi (le azioni d’insegnare), entro e attraverso certi media (gli ambienti della comunicazione). Saturando alcune di queste variabili si ottiene una specifica forma d’insegnamento: l’insegnamento della matematica agli studenti della scuola secondaria, per esempio. La scelta delle variabili da saturare e di quelle da lasciare indeterminate è funzione del grado di specificità dell’analisi (più generale: l’insegnamento della matematica, eliminando il riferimento al contesto; più specifico, aggiungendo all’esempio di cui sopra: attraverso esperienze di laboratorio). In questo modo, si possono caratterizzare i vari La saturazione tipi di didattica sulla base di una saturazione diffedifferenziale del renziale delle variabili inerenti al concetto-funzione. concetto di didattica Per esempio, la differenza tra Didattica generale e Didattiche disciplinari corrisponderebbe alla scelta di saturare (= specificare) la variabile relativa al contenuto d’insegnamento (nelle Didattiche disciplinari: didattica della matematica, didattica della storia…), oppure nel lasciarla insatura come nella Didattica generale (che prescinde dal riferimento a uno specifico sapere)9. La struttura del concetto-funzione si mostra però dipendente dall’ontologia di riferimento (perché, a differenza dell’idea, il concetto mantiene un portato referenziale alla realtà). La questione è particolarmente complessa, per cui ci limitiamo a schematizzarla. Diciamo che tale struttura esibisce una doppia forma di relatività: teorica e storica. Da un lato, tale struttura si mostra relativa all’ontologia interna di una data teoria (Quine, 1986). Questa forma di relatività dipende dagli aspetti dell’insegnamento assunti come rilevanti per la sua interpretazione teorica. Così, se entro un dato paradigma teorico tale struttura può avere la forma D (x, y, z), entro un altro quadro paradigmatico può assumere la forma D (x, y, t) (in altre parole, in questo secondo caso si ritiene teoricamente rilevante t invece di z). Per altro, assumendo come riferimento generale un’on-

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Sulla questione cfr. il cap. terzo di questa prima parte.

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Capitolo I - Massimo Baldacci - Epistemologia della didattica

tologia complessa, si deve preventivare anche il carattere storico relativo della struttura del concetto-funzione (Preti, 1976). Infatti, le variabili che compaiono in tale struttura sono astrazioni vuote solo a livello di un’epistemologia formale generale. Ma nel quadro di specifici momenti storici (e all’interno di paradigmi particolari), esse si saturano in forme specifiche, assumendo il carattere di astrazioni determinate storico relative. Supponiamo, per esempio, che la y rappresenti il medium didattico, ossia l’ambiente dell’insegnamentoapprendimento. Prima dell’invenzione della scrittura, il sistema dei media includeva solo l’oralità, la gestualità e l’iconicità. L’invenzione della scrittura, in particolare dopo quella del libro a stampa, ha riarticolato il sistema dei media, determinando – per così dire – il passaggio dall’astrazione determinata y1 a y2. Oggi, con l’invenzione e la diffusione dei new media, la variabile medium passa a un’ulteriore forma determinata, che include anche questi ultimi10. Come si è detto, la questione della relatività della struttura concettuale è in realtà più complessa (e meno schematica). Ma quanto detto dovrebbe essere sufficiente a mettere in guardia contro il fraintendimento di considerare la struttura dell’insegnamento in maniera dogmatica, come una struttura nomotetica pietrificata ed eterna. Riassumendo, abbiamo individuato tre livelli logici del concetto d’insegnamento: il concetto ordinario con cui ci riferiamo al campo delle pratiche d’insegnamento-apprendimento; il concetto-funzione con cui si rappresenta la struttura delle variabili costitutive dell’insegnamento, nella sua relatività teorica e storica; e l’idea regolativa connessa all’insegnamento in generale, come astrazione indeterminata che garantisce contro chiusure unilaterali del senso dell’insegnamento. La struttura del concetto-funzione d’insegnaLa struttura concettuale mento fornisce anche un abbozzo dei nodi inedell’insegnamento renti alla rete concettuale della Didattica, che costituisce l’espressione operativa del suo specifico

10 Per il problema dei media didattici cfr. tra gli altri Rossi, 2011; Rivoltella, Ferrari, 2010.

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Il problema dell’oggetto della Didattica

punto di vista epistemologico11. Attraverso tale rete, la Didattica cattura, interpreta e dirige l’esperienza relativa al campo dell’insegnamento-apprendimento. Una rete è però costituita anche dai fili che collegano tali nodi. In altre parole, essa costituisce un sistema di relazioni o una struttura Struttura concettuale  concettuale. Anche la struttura di questo sistema va concepita come relativa in senso teorico e in senso storico, e forse le va riconosciuto anche un certo grado di convenzionalità che la rende variabile in funzione della convenienza rispetto ai problemi da affrontare (per certi tipi di problemi potrebbe essere conveniente configurare tale rete in certe forme, per altri in forme diverse). Facciamo un rapido esempio, attraverso due differenti rappresentazioni grafiche (le abbiamo usate entrambe in occasioni diverse). La prima rappresentazione è quella solitamente usata nel campo delle Didattiche disciplinari (Martini, 2002): Insegnante

Discente

Sapere

Tale rappresentazione evidenzia la rilevanza della relazione del discente col sapere, della mediazione didattica del docente e della stessa relazione di quest’ultimo col sapere. Essa può essere vista come uno dei possibili dispiegamenti della struttura: Insegnamento (insegnante, sapere, discente)

11 Per una ricognizione sulla morfologia della Didattica cfr. tra gli altri Calvani, 2007a.

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Capitolo I - Massimo Baldacci - Epistemologia della didattica

La seconda rappresentazione è stata usata nel campo della Didattica generale (Baldacci, 2004): Processo Soggetto

Oggetto culturale Prodotto

In base ad essa, l’insegnamento si configura come una situazione nella quale si verifica un processo d’interazione tra un soggetto che apprende e un oggetto culturale, dando luogo a un certo prodotto d’apprendimento. Questa rappresentazione può essere vista come uno dei possibili dispiegamenti della struttura: Insegnamento (soggetto, oggetto culturale, processo interattivo, prodotto) Qui non si tratta di stabilire quale di questi schemi concettuali sia in assoluto migliore, quanto di cogliere come essi consentano di mettere a fuoco problematiche diverse e rispondano perciò a differenti esigenze teoriche. Nel primo schema, per esempio, la presenza esplicita della variabile “insegnante” e la sua relazione con il “sapere” permette di far emergere il problema di come tale relazione (assumendo la forma di un’epistemologia personale del docente) possa influenzare l’insegnamento. Questo genere di problema non si presta invece a essere posto nel quadro del secondo schema. Quest’ultimo, per altro, evidenzia la distinzione e il nesso tra processo e prodotto dell’apprendimento, e permette di capire che alcuni modelli d’insegnamento possono privilegiare il primo e altri il secondo. Tutto questo consente di cogliere come la rete concettuale tenda a essere relativa allo specifico paradigma teorico. E questo ha due implicazioni fondamentali. Da un lato, si deve evitare di identificare la rete inerente all’Epistemologia della Didattica, con la rete di un paradigma teorico specifico e particolare (come quelli presentati). Volendo essere rigorosi, non esiste una singola Didattica, vi

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Il problema dell’oggetto della Didattica

sono solo le Didattiche: differenti paradigmi teorici che esprimono specifici schemi concettuali. Così, si può parlare di una rete concettuale della Didattica in generale soltanto spostandoci al livello trascendentale, e quindi come corrispettivo dell’idea d’insegnamento, ossia solo nei termini di uno schema trascendentale che rappresenta astrattamente ma unitariamente l’insieme dei possibili schemi concettuali particolari, ponendosi come loro struttura limite. Concludendo, rispetto alla visione ingenua che identifica l’oggetto come la “cosa” di cui si occupa la disciplina, siamo pervenuti a configurare l’oggettualità come una struttura limite aperta che dà forma a un campo d’attività scientifica, garantendone la coerenza e l’apertura.

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Epistemologia della didattica. Mappa concettuale

Capitolo secondo

Teorie e modelli Loredana Perla

1. L’origine della Didattica Se non è possibile datare con precisione l’inizio della Il programma di Comenio funzione dell’insegnamento (poiché coincidente col bisogno-necessità dell’uomo, che si perde nella notte dei tempi, di tramandare il deposito di saperi e culture da una generazione all’altra), possiamo però individuare l’inizio della riflessione teorica sull’insegnamento – cioè della Didattica – nel diciassettesimo secolo, con la pubblicazione in latino della Didactica Magna di Jan Amos Komenský (1640), rielaborazione Comenio A di un precedente testo (Didactica Ceca) scritto per l’educazione del popolo ceco. Komenský (Comenio, 1592-1670) segna così l’avvio del processo di autonomizzazione teorica della Didattica (che tuttavia raggiungerà il proprio acme solo molto più tardi: nel Novecento) riuscendo per la prima volta a interpretarne l’istanza di riflessività (propria di ogni tentativo teorico) e a darle forma in quello spazio intermedio che si apre fra il discorso di senso comune e il discorso scientifico. «Didactica docendi artificium sonat: per didattica si intende l’arte d’insegnare […]. Noi osiamo promettere una grande didattica, cioè un’arte universale di insegnare tutto a tutti e di insegnare con tale sicurezza che sia pressoché inevitabile conseguire buoni risultati» (Didactica magna, 1640).

Così si rivolgeva Comenio ai lettori e in quell’incipit è il manifesto del suo programma: identificare un ambito di studio nuovo, con

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Capitolo II - Loredana Perla - Teorie e modelli

connotazioni formali proprie. La cultura della modernità ha favorito in tutta Europa il successo del programma di Comenio, in ragione anche della tradizione dell’humanitas che ne è stata il miglior fermento. Per quanto, infatti, al tempo di Comenio l’insegnamento fosse ancora legato alla precettistica privata, tanto la Riforma protestante (col sostegno di Lutero del diritto dei fedeli al libero esame e alla lettura della Bibbia), quanto l’opera dei Gesuiti, col metodo della Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, e dello stesso Calvino (1509-1564) che vedeva nell’istruzione il necessario complemento di una giusta capacità amministrativa (senza contare la posizione pedagogicamente innovativa di M. de Montaigne, 15331592), avevano posto i presupposti per la diffusione di un’offerta generalizzata di conoscenza: e dunque della realizzazione di quell’utopia comeniana dell’insegnare tutto a tutti che, dalla seconda metà del Settecento, l’Illuminismo (con la statalizzazione dei Collegi) e la Rivoluzione Francese (1789-1795) avrebbero portato a compimento. Da Comenio in poi si intensificano gli investimenti Sviluppi della Didattica dopo per la lotta all’analfabetismo e i problemi dell’istruzione diffusa diventano oggetto di teorizzazione di alcuni Comenio A Locke grandi pensatori. Prima di Locke (1632-1704) e di FéA Fénelon nelon (1651-1715) (con i Pensieri sull’educazione, 1693 e un trattatello sull’educazione delle giovinette, 1687), poi di Rousseau (1712-1778) ai quali si aggiungono A Rousseau A Pestalozzi (ma siamo già nella contemporaneità) Pestalozzi (1746-1837), Froebel (1782-1852), Herbart (1776A Froebel 1841). Questi autori marcano un punto di svolta straA Herbart ordinariamente importante nella storia della Didattica, poiché ridefiniscono ab imis ruolo e funzioni dell’insegnamento, nonché le rappresentazioni dell’allievo presenti nei modelli tradizionali dell’educazione. La svolta teorica cui essi danno impulso avviene in riferimento a quattro nuclei tematici. – l’infanzia ha caratteristiche specifiche delle quali ogni buon metodo non può non tener conto (l’insegnamento deve tutelare il nesso motivazione-apprendimento);

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L’origine della Didattica

– l’infanzia ha bisogni propri di autosviluppo (va dunque spostato il baricentro dell’azione di insegnamento dal maestro al bambino: puerocentrismo); – l’assunzione di centralità, nella relazione educativa, della dialettica autorità-libertà. Sulla corretta gestione di tale antinomia si fonda gran parte dell’efficacia del processo di insegnamento-apprendimento; – ogni insegnamento deve partire dall’intuizione e dal contatto diretto con l’esperienza. A questo proposito non si può ignorare la grande lezione di Pestalozzi, secondo la quale la formazione dell’uomo è unità di mano, mente e cuore e che questa unità può essere sviluppata attraverso l’educazione professionale, intellettuale e morale insieme. Una lezione che, ancora oggi, mentre si discute vivacemente delle urgenze dei raccordi fra Scuola, Università e mondo del Lavoro, si presenta di insuperata attualità. Queste incipienti novità influenzano significatiLa Didattica vamente lo sviluppo della Didattica nell’Ottocento e nell’Ottocento e nel primo Novecento soprattutto nel primo Novecento, quando vengono a coagularsi intorno al costrutto dell’“uomo nuovo” per la cui edificazione, sin dalla prima infanzia, lo strumento adatto viene individuato proprio nell’agire didattico (soprattutto scolastico). Quello che è stato chiamato “secolo della Didattica” (Laneve 2003), cioè il Novecento, è il frutto, è utile qui sottolinearlo, di una serie di apporti non trascurabili rivenienti dai precedenti due secoli e che il Novecento porta a catalisi nelle intersezioni fra le esperienze del movimento delle scuole nuove, gli sviluppi della normativa (seguiti alla Legge Casati, R.D. 13.XI.1859) e la complessa dinamica dei processi socio-economici connessi al tempo storico che stiamo considerando (aumento della popolazione scolastica e del numero di insegnanti, diffusione dell’associazionismo professionale e dell’editoria scolastica, sviluppo dell’economia industriale e del benessere in gran parte dell’Europa). È evidente che La didattica oggi qui non è possibile richiamare tutta l’articolata dialettica fra pratiche sociali e trasformazioni economico-politicoculturali che hanno fatto avanzare il processo di autonomizzazione

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Capitolo II - Loredana Perla - Teorie e modelli

teorica della Didattica cui ha dato abbrivo Comenio. Di certo oggi la Didattica, in ragione della celerità e della rilevanza degli sviluppi capitalizzati nella sua breve storia, si configura a pieno titolo nella cité scientifique internazionale come l’ambito privilegiato del discorso sulla prassi dell’insegnamento. Un discorso che comprende per un verso la riflessione su dispositivi, tecniche e artefatti che rendono efficace l’agire didattico ma anche, per altro verso, sulle valenze normative (cioè sulle finalità) che orientano la scelta di quei dispositivi, tecniche e artefatti, al fine di evitare il rischio del tecnicismo dal quale qualsiasi discorso didattico non è immune. Per non incorrere nel tecnicismo (che è la tendenza a ritenere giustificato l’uso di una tecnica per sé e in sé), è importante aver ben chiaro il rapporto di coerenza che connette metodi e tecniche alle finalità: queste ultime devono essere considerate immanenti ai primi che vengono giustificati solo in virtù della stretta compenetrazione col senso educativo che ne orienta la scelta. Ecco perché è assai utile la sistematizzazione del discorso didattico in “modelli”, pur con l’avvertenza richiamata all’inizio del prossimo paragrafo. I “modelli” riescono, infatti, a render chiari questi rapporti di coerenza e saldano insieme l’elemento teleologico con quello metodologico dell’agire didattico, svolgendo così una funzione analitico-descrittiva sul piano teorico e una funzione normativa o di indirizzo sul piano pragmatico (Baldacci 2004).

2. Il modello in Didattica: elementi di definizione Damiano (1993) invita alla prudenza quando si accosti la nozione di modello in ragione della sua intrinseca polisemicità. Ciò è confermato dalle numerose, diverse, accezioni rintracciabili nella letteratura di settore del nostro Paese. Mi pare utile riportarne qualcuna. Secondo lo stesso Damiano il modello didattico è la

Polisemia del concetto di modello in didattica

«rappresentazione semplificata di schemi operativi per realizzare azioni educative istituzionalizzate nella scuola. Si tratta dunque di proposte, per quanto tendenzialmente organiche, comunque riduttive rispetto all’esperienza perché mirate a suggerire – ovvero a privilegiare – determinate pratiche didat-

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Il modello in Didattica: elementi di definizione

tiche e – per ciò stesso – ridondanti per taluni aspetti e parziali per altri. Modelli, appunto, e non riscontri di esperienze didattiche, che pure hanno in varia misura e diffusione ispirato» (Damiano 1993, pp. 91-92).

Per Laneve un modello didattico è la «concettualizzazione essenziale di un complesso di proposte teoriche, organiche e coerenti» (Laneve 1993, 58). Secondo Calvani è invece un «dispositivo teorico di natura progettuale e strategica, capace di indicare una serie di possibilità operative (selezione di strategie didattiche, risorse, concrete azioni didattiche) in relazione a specifici contesti attuativi» (Calvani 2007a, p. 58).

Ma modello è anche uno «schema concettuale secondo cui possono essere connessi e ordinati i vari aspetti della vita educativa in rapporto a un principio teleologico che ne assicuri coerenza e organicità» (Bertin 1975, p. 77) e che funga da schema-guida verso le prassi (Baldacci 2010, p. 13). Facendo sintesi delle diverse interpretazioni, possiamo considerare il modello didattico come una struttura di mediazione fra teoria e pratica che promuove una rappresentazione semplificata e parziale dell’agire didattico. L’esperienza dell’insegnamento-apprendimento è infatti talmente complessa che un modello che voglia rappresentarne l’insieme di variabili deve necessariamente semplificare le cose. Per questo non è possibile considerare un modello alla stregua di una teoria: si tratta piuttosto di un’approssimazione alla teoria (mentre la modellizzazione dell’esperienza è il primo passo verso la formalizzazione teorica). Questa approssimazione si realizza compiendo le operazioni di astrazione e di semplificazione che sono le condizioni necessarie per poter padroneggiare cognitivamente l’esperienza educativa (Baldacci 2010, p. 21). A questo aggiungo una precisazione. Se nella letteratura didattica sino a tutti gli anni Novanta il modello ha costituito il principio-cardine della sistematizzazione teorica, a partire dalla svolta pratica esso va ormai modificando La “svolta pratica” le sue funzioni, assumendo quelle di una “strutin Didattica  tura in progress” della produzione teorica in Di-

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Capitolo II - Loredana Perla - Teorie e modelli

dattica. Questo per la necessità, sempre più avvertita dai teorici della Didattica, di rappresentare la logica implicita soggiacente alle pratiche (Perla 2010). Tale logica non si lascia cogliere immediatamente, è una didattica nascosta fatta di repertori latenti di habitus, di congetture, di credenze, di ragionamenti abduttivi che solo parzialmente accedono alla comprensione esplicita, restando, invece, in forma di teorie ingenue (sul funzionamento dell’insegnamento, dell’apprendimento, della mente dell’allievo). Si tratta di teorie implicite molto potenti, perché in grado di influenzare le pratiche didattiche in misura forse maggiore di quanto non vi riescano le La Nuova Ricerca teorie formali. La Nuova Ricerca Didattica (Da Didattica miano 2006) ha posto in termini espliciti il problema del ripensamento di una teoria dell’insegnamento non comprensiva di tali teorie implicite, corrispondenti a una conoscenza specifica degli insegnanti, la teachers’ practical knowledge (Cochran Smith et alii, 2008) ancora largamente ignota alla ricerca Didattica. Di qui il cambiamento di paradigma delle funzioni della ricerca didattica alla luce dell’epistemologia dell’azione e una nuova definizione di modello didattico come «rappresentazione semplificata delle azioni di insegnamento mirata a segnalare, enfatizzandoli, gli aspetti di volta in volta ritenuti rilevanti per gli intenti di chi lo produce» (Damiano 2006, p. 164). Di volta in volta, ovvero relativamente ai contesti didattici di volta in volta considerati. La definizione di modello che più si approssima alle funzioni di una teoria didattica volta a descrivere ciò che realmente accade nei contesti dell’insegnamento è dunque quella di una rappresentazione semplificata degli elementi rilevanti dell’agire didattico, riguardati nelle loro relazioni fondamentali.

3. L’agire didattico nelle teorie e nei modelli del Novecento Proverò ora a presentare una classificazione essenziale dei principali modelli didattici del Novecento seguendo più che il criterio storiografico (che mira a una ricostruzione delle caratteristiche dominanti iscrivendole entro una

Tre “classi” di modelli

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L’agire didattico nelle teorie e nei modelli del Novecento

scansione d’ordine temporale: vedi i contributi significativi di Santomauro 1953 e di Laneve 1993; 2003), il criterio epistemologico (più agevole sul piano delle sintesi) che mira a focalizzare, via via, le diverse declinazioni che l’agire didattico assume nei modelli che consideriamo. Sulla base di quest’ultimo criterio, è possibile individuare nel corso del Novecento tre “classi” di modelli didattici (ancorati a uno o più quadri metateorici). La prima comprende i modelli il cui agire didattico è process-oriented, nei quali, cioè, l’attenzione è rivolta soprattutto ai processi di apprendimento dell’allievo. Si tratta di una classe di modelli ispirati soprattutto (ma non solo) dall’attivismo pedagogico. La seconda classe comprende i Attivismo T modelli il cui agire didattico è product-oriented e teso ad accentare soprattutto gli esiti dell’apprendimento. I quadri teorici ispiratori di questa classe di modelli sono le diverse teorie dell’istruzione (da Bruner a Skinner), le teorie del curricolo (anche nelle varianti più aggiornate delle pedagogie e didattiche per competenze); le teorie del primo cognitivismo, di Cognitivismo T matrice cibernetico-informatica. La terza e ultima classe di modelli è quella che comprende tutte le forme dell’agire didattico context-oriented (o, come Damiano le definisce, dei «processi mediatori», Damiano 1998; 2006). Si tratta di modelli ispirati da quadri teorici di matrice perlopiù ecologico-interazionista-costruttivista. Il focus dell’agire didattico è qui spostato sull’organizzazione di ambienti di apprendimento e sullo sviluppo del potenziale formativo dei saperi attraverso la trasposizione didattica (cfr. infra Parte seconda, cap. nono). Specifichiamo ora salienze e tratti di ciascuna delle tre “classi” di modelli con l’avvertenza che la classificazione viene proposta soprattutto per ragioni di sistematizzazione teorica: qualora si andasse a osservare l’agire didattico in situazione, come sa ogni buon ricercatore di Didattica, ibridazioni e contaminazioni fra modelli sarebbero rilevate con altissima frequenza. La temperie culturale della prima metà del Nove- Modelli didattici cento apre una stagione fertile per la teorizzazione Di- process-oriented dattica grazie alle molteplici contaminazioni fra teorie

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Capitolo II - Loredana Perla - Teorie e modelli

e pratiche didattiche promosse dal movimento dell’attivismo, sviluppatosi in Europa e negli Stati Uniti d’America già dalla fine del xix secolo, in pieno clima positivistico. I modelli process-oriented sono inquadrabili proprio entro l’alveo teorico dell’attivismo. Questa tipologia si contraddistingue per la rilevanza assegnata al soggetto in formazione e per l’enfasi portata sui suoi processi di apprendimento, ancor prima che sui prodotti dell’apprendimento. In antitesi alle impostazioni precettistiche e nozionistiche dei modelli tradizionali, nei modelli process-oriented l’agire didattico mira a far superare le separazioni fra attività intellettuali e attività manuali, valorizzando tutte le forme di autogoverno e di integrazione degli allievi fra l’esperienza scolastica e l’esperienza sociale. La logica regolativa dell’agire didattico rappresentato in questi modelli è quella dello stimolo all’“imparare facendo” (learning by doing) e all’interscambio fra ambiente sociale e processi educativi. La Scuola è considerata il luogo privilegiato per introdurre i bambini alla vita comunitaria e per far loro ripercorrere, attraverso le tappe del percorso individuale di apprendimento, le tappe evolutive della più ampia comunità umana. Forte è qui l’influenza della filosofia pragA Dewey matista dello statunitense Dewey (1859-1952), nel cui pensiero l’etica si identifica con la socialità e l’apprendimento si qualifica per la rinuncia a qualsiasi forma di contemplativismo. L’istruzione è anche impegno morale a saper trasformare e risolvere i problemi posti dalla realtà e la Scuola è un laboratorio di democrazia, laddove gli allievi possono sperimentare, in un contesto protetto, la costruzione di una società pluralista. Conoscere, fare, riflettere sono, nelle pratiche rappresentate in questi modelli, dimensioni strettamente interconnesse. Esse sono il “cuore pulsante” di quell’apprendere attivo (con, dalla e sull’espeModelli didattici rienza) che diventerà il nucleo strutturale di tutte  process-oriented le didattiche “su misura” anche recenti (si vedano, fra gli altri, Kerschesteiner, Claparède, Ferrière, Decroly, Montessori); delle didattiche dei maestri sperimentatori di Pietralba (Agosti e Chizzolini); delle didattiche antiautoritarie (Neill), non direttive (Rogers), cooperative (don Milani, A Freinet Ciari, Freinet, Lodi, Bernardini et alii); il più recente coo-

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L’agire didattico nelle teorie e nei modelli del Novecento

perative learning, Comoglio 1996; Capoferri 2004); delle didattiche della ricerca (Giunti 1973; e lo stesso Dewey, 1965); per problemi (Scurati e Fiorin 1997); dei laboratori e dei progetti (De Bartolomeis 1978; 1989); del peer-tutoring (Ehly e Larsen 1980). Anzitutto l’opzione per il “metodo” come scoperta-ri- Il metodo flessione-sperimentazione sulla realtà delle cose. La Scuola è un laboratorio di ricerca metodologicamente controllato sul piano del rigore e della scientificità e il metodo scientifico è la procedura privilegiata del pensare riflessivo. Le esperienze didattiche contemperate da questi modelli aprono all’utilizzo ampio e pervasivo di strumenti e artefatti: il laboratorio tipografico per la costruzione di testi di Freinet; la “scrittura collettiva” di don Milani; i “contratti di lavoro” che Parkhust fa stipulare agli allievi sono esempi illuminati di come i dispositivi possano trasformare l’agire didattico. Poi la centralità assegnata al discente inteso come soggetto epi- L’alunno stemico. È l’allievo, infatti, che “definisce” i criteri dell’intervento didattico poiché solo lui – attraverso il consenso dato al voler apprendere – può trasformare le sollecitazioni dell’agire didattico in operazioni davvero significative ai fini della propria crescita. E, ancora, il ruolo della valutazione che, essendo centrata soprattutto sui processi, è formativa in senso pieno, La valutazione formativa cioè è posta a guida regolativa delle azioni didattiche e, di fatto, i criteri valutativi finiscono col coincidere con i fini medesimi dell’educazione. Infine, il richiamo insistente ai vissuti dell’allievo e alla funzionalizzazione del curricolo alla dialettica degli interessi-bisogni entro la quale l’agire dell’insegnante si fa “periferico” per lasciar spazio all’agire del discente. Una seconda classe comprende i modelli il cui agire Modelli didattici didattico è product-oriented, volto cioè a porre gli ac- product-oriented centi sugli esiti dell’insegnamento e a metterne in evidenza i “predittori” di efficacia. Detto in altri termini, la logica regolativa di questa classe di modelli è la “causazione” in base alla quale l’insegnamento interviene alla stregua di un fattore – necessario e sufficiente – per la generazione dell’apprendimento (Damiano 1998, p. 37). Basterebbe cioè studiare le relazioni fra la misura dei comportamenti degli insegnanti in classe (processi) e la misura dell’ap-

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Capitolo II - Loredana Perla - Teorie e modelli Schemi Dunkin  and Biddle, 1974

 A T A

prendimento degli allievi (prodotti) per arrivare a capire il “funzionamento” dell’agire didattico (Dunkin - Biddle 1974; Shulman 1986). In realtà la ricerca didattica più matura ha dimostrato che le cose non stanno in termini così “linearmente” semplificati. I modelli riconducibili a tale classe sono quelli Instructional che vanno sotto il nome di id (Instructional DeDesign sign), nati negli anni Sessanta con Gagné; quelli Gagné delle tecnologie dell’istruzione (prima versione); Mastery Learning del mastery learning di Bloom, («apprendimento per la padronanza»); della Pedagogia per ObietBloom tivi; della Pedagogia per competenze (Pellerey 2004). Modelli epistemocentrici, del cosiddetto “post-attivismo”, inquadrabili cronologicamente fra gli anni Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta, in questi modelli viene rifiutato tanto l’ideale educativo come “mero” adattamento sociale quanto la prospettiva centrata sulle attività spontanee del bambino. Viene invece prestata una più puntuale attenzione all’insegnamento delle discipline di studio e assegnato un primato all’istruzione formale (intesa come formazione di abilità metodologiche per interpretare la realtà: il cosiddetto habitus dell’“imparare a imparare”). Qui l’agire didattico diventa ingegneria dell’istruzione. È facile riconoscere fra i quadri metateorici di questi modelli la teoria dell’istruzione di Bruner e la teoria neo-comportamentista di Skinner nella quale il problema dell’apprendimento viene risolto attraverso la connessione fra stimolo e risposta. Skinner e la sua équipe, come è noto, elaborarono un sistema di programmazione degli insegnamenti articolato in sequenze parcellizzate di attività al termine delle quali l’allievo riceveva un rinforzo positivo o negativo a seconda della giustezza o meno della risposta fornita. Tale impostazione chiedeva una definizione diversa degli obiettivi didattici: non più nei termini di processi mentali da promuovere, bensì nei termini di ottimizzazione delle procedure al fine di ottenere comportamenti osservabili, prestazioni (verificabili) dell’apprendimento. Le “macchine per insegnare” seguivano la mede-

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L’agire didattico nelle teorie e nei modelli del Novecento

sima logica di impostazione programmata (affidata però a un software) e, pur se fortemente avversate all’epoca della loro comparsa, sono state l’annuncio della rivoluzione tecnologica dell’apprendimento dei nostri giorni. Nel solco delle teorie cognitiviste fioriscono invece i modelli didattici della mente (siamo alla fine degli anni Settanta) e due dei campi di applicazione più produttivi sono quelli delle competenze metacognitive (le cosiddette key competencies: competenze di base, considerate oggi quanto mai rilevanti per lo sviluppo del lifelong learning; Flavell e Wellman 1977; Brown Scardamalia e Bereiter A 1987) e delle competenze di scrittura (Bereiter - Scardamalia 1987). I tratti significativi di questa classe di modelli sono anzitutto la centralità assegnata nuovamente all’insegnante in ragione della direttività imposta dai tragitti programmatori e del richiamo ai criteri di efficacia ed efficienza della trasposizione didattica. Poi la sottolineatura delle componenti sommative della valutazione didattica che viene configurata soprattutto in termini di coerenza fra il “prima” e il “dopo” del processo di insegnamento-apprendimento, al fine di verificare gli esiti effettivamente conseguiti a percorso compiuto. L’ultima classe che consideriamo, la più recente in termini cronologici, include tutti i modelli context- Modelli didattici oriented. Qui il focus dell’agire didattico è spostato dalla context-oriented “mente” di chi insegna e apprende e dai “prodotti” all’organizzazione dei contesti e degli ambienti di apprendimento (la cosiddetta «pedagogia degli ambienti», Damiano 2006) e, naturalmente, agli strumenti di sviluppo del potenziale formativo dei saperi. I quadri teorici che vi fanno da sfondo sono soprattutto due: il paradigma ecologico (Bronfenbrenner 1979) e quello costruttivista (von Foerster 1987; Morin 1993; Maturana - Varela 1992). Maturati entrambi nell’alveo delle scienze biologico-fisiche ed ecologiche (ma anche dell’epistemologia genetica di impronta piagetiana), essi introducono un cambio di passo decisivo nello studio dell’insegnamento alla luce del cambiamento post-epistemologico che sostituisce il concetto di “causazione” con quello di sistema circolare di azioni e relazioni.

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Capitolo II - Loredana Perla - Teorie e modelli

Didattica della situazione

Nella prospettiva inaugurata da tali modelli didattici, pensare e apprendere equivalgono sostanzialmente a “situarsi”, sincronizzando tutte le risorse interne ed esterne disponibili. Gli indirizzi che declinano meT Costruttivismo glio principi e funzioni dei modelli context-oriented sono il costruttivismo socio-culturale (Vygotskij 2007) e il costruttivismo sociale (Brown et alii 1993; Brown e A Brown - Duguid 1991; Brown - Campione 1994; Campione Wenger 2006). Si tratta di prospettive assai distanti da quelle dei modelli product-oriented, figli dell’illusione scientista di poter costruire una “solidarietà” fra la conoscenza logico-sperimentale e la gerarchizzazione dei saperi. In realtà la conoscenza è “distribuita” (Salomon 1993), così come distribuito è il curricolo (Frabboni 1989; 2004). E “distribuita” è anche l’intelligenza, in Gardner A forme diverse (Gardner 1987). E nell’insegnamento-apprendimento nessuna “variabile” può essere isolata, né ritenuta fonte “esclusiva” di spiegazione o di guadagno di un certo risultato. È evidente la posizione antirealista di questa classe di La conoscenza modelli: la realtà non è “predata” alla conoscenza, ma si come attività costruisce mano a mano che viene conosciuta e, aspetto di costruzione assolutamente non trascurabile, il soggetto che apprende viene accreditato come parte attiva del processo di questa costruzione, come nella tradizione del miglior attivismo pedagogico. Damiano definisce tali modelli del «Processo-processo» o della “mediazione”, poiché essi rappresentano la realtà dell’agire didattico libera dai lacci e dai lacciuoli della “causazione”, dalle concezioni gerarchiche dell’insegnamento nonché, aspetto non marginale oggi, nell’era dei test di valutazione di sistema, dall’ansia del prodotto. E il polo del sapere viene qui rafforzato dalla processualità di una mediazione (trasposizione) attivata in relazione a una triplice tipologia di saperi: – i saperi di cui i soggetti che apprendono sono portatori e che possono legarsi più o meno alle sollecitazioni didattiche ricevute; – i saperi impliciti embodied nelle biografie del soggetto e nella cultura dei contesti specifici;

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Orientamenti emergenti

– i saperi incorporati negli artefatti culturali materializzati nelle forme di oggetti, pratiche, riti, strumenti e che esercitano un ruolo potentissimo nella regolazione dell’agire didattico. L’apprendistato cognitivo (Brown - Collins - Duguid Collins A 1989); le classi-comunità (Brown - Campione 1994); la Comunità di Pratica (Wenger 2006); la narrativa nelle pratiche didattiche (Bruner 1990; Smorti 1994); l’e-learning della (Galliani 1999; 2003; 2004; Rossi 2011); la didat- Didattica scrittura  tica della scrittura (Boscolo, 2002; Cisalto, 2006; Laneve, 2009; Perla, 2007, 2012) e la Media Education (Rivoltella 2003; 2007; 2008); l’insegnamento orientativo (Zanniello 2003), costituiscono fronti di un lavoro teorico e pratico context-oriented che consegna al nuovo secolo, siamo Modelli context  ormai all’alba del Duemila, modelli innovativi ma anche le molte domande emergenti dai contesti di una realtà insegnativa fattasi oggettivamente più complessa. La Didattica, scienza empirica dell’insegnamento, si lascia interpellare. Anche perché il suo impegno teorico resta quello di darsi un profilo epistemologico sempre più autonomo e riconoscibile. E questo è possibile solo con l’avanzamento della conoscenza ottenuto attraverso la ricerca.

4. Orientamenti emergenti Siamo agli approdi del nostro rapido viaggio nella storia dei modelli teorici della Didattica. Entrati nel nuovo secolo e monitorate le tendenze di avanzamento della conoscenza didattica in questo primo decennio, è possibile registrare l’emergere di un interesse culturale diffuso, non più soltanto di settore, per i temi specifici della Didattica. È questo, evidentemente, l’effetto del cambiamento profondo (anche culturale) che sta investendo il sistema dell’istruzione formale, informale e non-formale del nostro Paese e, con esso, le funzioni stesse dell’agire didattico. La ricerca del difficile equilibrio fra qualità della formazione e razionalizzazione di Scuola e Università (Calvani 2011; Perla

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Capitolo II - Loredana Perla - Teorie e modelli

2004, 2011); le trasformazioni incoative (almeno nel nostro Paese) nei modelli della formazione dell’insegnante1 e del sapere professionale (Calidoni 2000); l’attenzione per lo sviluppo delle key competencies e in specie di quelle digitali (propiziata dalle molte iniziative dell’oecd); le richieste emergenti dai tanti campi delle Didattiche particolari (Didattica della scrittura, Didattiche disciplinari, Didattica degli adulti, Didattica delle organizzazioni, Didattica professionale, Didattica speciale, Didattica interculturale, Didattica transmediale, Didattica dello Sport), sono elementi che disegnano l’orizzonte di un lavoro notevole per i ricercatori di Didattica. Da dove partire? Anzitutto dall’eredità che il Novecento ci ha lasciato: un cantiere di indirizzi plurimi di ricerche empiriche in pieno fermento che prefigurano il superamento dei modelli teorici della Didattica così come li abbiamo intesi sino ad oggi (cioè nei termini di “parole per” gli insegnanti, visti come destinatari di saperi sostanzialmente estranei alla loro esperienza, Damiano 1998, p. 30). A questa modellistica della pratica, frutto di un approccio prescrittivo allo studio dell’insegnamento, vanno progressivamente affiancandosi i tentativi di alcune linee di ricerca che, nell’alveo della ricca tradizione della metodologia empirica del nostro Paese, tentano di studiare l’insegnamento in situazione e per quel che accade nelle pratiche effettive. Si tratta di studi orientati a indagare il lavoro degli insegnanti analizzandolo in profondità, avvalendosi di dispositivi plurali (Altet 2003; Altet - Vinatier 2006; Mortari 2010; Cerri 2008a) e a partire dall’ipotesi che l’insegnante è un produttore di sapere pratico. La direzione seguita da questa linea di ricerche è duplice, come in una medaglia a due facce: per un verso l’analisi-comprensioneinterpretazione dell’insegnamento (l’obiettivo è la formalizzazione di 1 A questo proposito cfr. il Regolamento concernente «Definizione della disciplina dei requisiti e delle modalità della formazione iniziale del personale docente del sistema educativo di istruzione e formazione», ai sensi dell’art. 2, comma 416, della L. 244/2007.

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Orientamenti emergenti

una conoscenza dell’insegnamento); per altro verso l’individuazione delle forme di accompagnamento professionale più adeguate a favorire la comunicazione del sapere pratico da insegnanti veterani a insegnanti novizi (l’obiettivo è la messa-a-punto di dispositivi e strumenti per una formazione dell’insegnante a partire dalle pratiche educative). Mai come in questa fase della nostra storia i programmi di ricerca più promettenti in Didattica appaiono quelli che propiziano connessioni tra fare e conoscere, fra teorie e pratiche, fra ricercatori e insegnanti (Desgagné 1997; Desgagné et alii 2001; Donnay et alii 2001). Le linee di ricerca che cominLa ricerca  collaborativa ciano a solcare i versanti sino a oggi inesplorati della transdisciplinarità – dalla didattica enattiva alla neurodidattica (Rossi 2011; Rivoltella 2012) – orientano lo sguardo verso l’orizzonte di un post-costruttivismo destinato a ridefinire l’interazione mente-corpo-ambiente nei termini di una conoscenza teorica probabilmente ancora in gran parte da scrivere: il cantiere della Didattica è aperto e operoso.

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Teorie e modelli. Mappa concettuale

Capitolo terzo

Didattica e saperi disciplinari: un dialogo da costruire Elisabetta Nigris

1. Il rapporto fra didattica e didattica delle discipline La questione del rapporto fra didattica e didattica delle discipline è molto dibattuta e fonte spesso di contrapposizioni radicali apparentemente inconciliabili. Da un lato si sostiene la supremazia della didattica generale quale scienza in grado, da sola, di delineare le condizioni contestuali migliori e di individuare strategie, metodologie, strumenti idonei ad assicurare che tutti gli allievi acquisiscano contenuti, abilità e competenze indispensabili per padroneggiare i diversi saperi. In questo senso, le didattiche disciplinari altro non sarebbero che le applicazioni della didattica generale ai singoli casi concreti. Sul fronte opposto, troviamo studiosi appartenenti ai diversi campi disciplinari che sostengono l’inconsistenza della didattica generale in sé che, se avulsa da un campo del sapere a cui essere applicata, rischia di condurre a ragionamenti talmente privi di un qualsiasi aggancio con la realtà che si intende esplorare da risultare sterili. Questa posizione assume che si insegna sempre qualcosa e dunque la didattica non può che essere la didattica “di qualcosa”(Frabboni - D’Amore 1996; D’Amore 1999). La didattica generale, che mette al centro del suo discorso scientifico il soggetto che apprende nella sua Didattica generale globalità in uno specifico contesto dato, può a pieno titolo sostenere un suo autonomo campo di ricerca relativo sia ai modelli teorici di riferimento sia all’analisi di quella che Damiano

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

definisce «azione didattica». La didattica generale infatti individua e prende in esame le variabili che caratterizzano il contesto di apprendimento-insegnamento, e le loro possibili interconnessioni, facendo luce su: – le dinamiche relazionali, fra pari così come fra adulto e ragazzi; – le dinamiche comunicative che sostengono o ostacolano le azioni didattiche; – la varietà di materiali strutturati e non strutturati a cui allievi e insegnanti possono ricorrere e manipolare; – le possibili metodologie connesse agli obiettivi che via via vengono prefissati (il lavoro di gruppo, la discussione, il role play, l’analisi di caso); – i processi e le azioni di valutazione. Se da un lato, la ricerca didattica ha di volta in volta Ricerca didattica fatto riferimento ad altri ambiti disciplinari come la e pratiche di insegnamento psicologia, la sociologia, la statistica, costruendo un a scuola dialogo di diversa intensità ed efficacia a seconda dei periodi storici, dei modelli teorici e dei contesti, dall’altro lato un sempre più ampio numero di docenti e di ricercatori proveniente dall’ambito della Didattica generale si rende conto della sua non autosufficienza e della necessità di aprirsi a un confronto sempre più serrato e rigorosamente fondato con i saperi delle diverse discipline anche per colmare lo scollamento fra il mondo dei ragazzi e le proposte scolastiche, che producono allontanamento e insuccessi in studenti provenienti dalle diverse classi sociali. D’altro canto, diventa sempre più chiara ed esplicita la difficoltà degli insegnanti che si appellano solo alle loro conoscenze disciplinari come fonte di ispirazione in classe: sempre meno allievi dimostrano di impegnarsi e/o apprendere solo perché l’insegnante glielo chiede, sono sempre di più le situazioni in cui risulta evidente la mancanza di senso di molte proposte scolastiche agli occhi delle nuove generazioni, a cui si aggiunge la perdita di prestigio della scuola e della figura dei docenti agli occhi di una grossa porzione della società. Inoltre, in ambiti quali quello della matematica e delle scienze si assiste in tutto il mondo industrializzato e in particolare in Italia a un aumento della disaffezione degli studenti, che scelgono

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Il rapporto fra didattica e didattica delle discipline

sempre meno queste materie come ambiti elettivi di vocazione e impegno appassionato. Nel mondo non scolastico, peraltro, il successo di buone esperienze di divulgazione scientifica, ad esempio in ambito televisivo, così come in quello museale – soprattutto nel mondo anglosassone, ma recentemente anche in Italia – ha portato alla ribalta l’importanza di riflettere sul modo in cui viene presentata una certa disciplina, sulla scelta di contenuti e concetti da proporre, sulle modalità comunicative più efficaci (ad esempio l’utilizzo di immagini, del registro narrativo, delle simulazioni): «La continua domanda di formazione e il cambiamento degli scenari nei quali i processi formativi vengono pensati e progettati reclamano una riflessione pedagogica aggiornata sul nesso fra cultura e educazione» (Martini 2005).

Tale nesso ci interroga sul mandato della scuola ri- L’indagine delle spetto alla formazione degli individui, sul ruolo che i di- pressi scolastiche versi saperi disciplinari possono ricoprire nella preparazione dei futuri cittadini e, dunque, sulle scelte che risulta necessario operare sia rispetto alla selezione dei contenuti da proporre a scuola sia la formazione dei futuri insegnanti. Già cinquant’anni fa Bruner sosteneva che in una società complessa la cultura produce conoscenze e abilità che «sorpassano di molto le possibilità conoscitive di ciascun individuo» quindi si sviluppa una «tecnica economica di istruzione basata in gran parte sull’esposizione orale, al di fuori del concreto contesto, anziché sulla dimostrazione diretta nel contesto stesso» (Bruner 1995, p. 230).

La scuola è il luogo dove tale pratica viene istituzionalizzata e l’insegnante ne è l’emblema in qualità di rappresentante e trasmettitore della cultura al di là delle condizioni dei contesti di vita, formando all’uso dei linguaggi come strumenti di comprensione e trasformazione tipici di una società dell’informazione, della conoscenza

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

e della tecnica. Bruner individua quattro problemi essenziali oggetto di indagine delle prassi scolastiche: – la psicologia della materia di studio; – la stimolazione del pensiero nella scuola; – la personalizzazione della conoscenza; – la valutazione del lavoro che si svolge. Le materie di studio sono specifiche metodologie di pensiero e di indagine e sono specifiche modalità del discorso applicabile a certi fenomeni. «In una disciplina non c’è nulla di più essenziale della sua metodologia, e perciò nulla è così importante nell’insegnamento della disciplina stessa, come offrire al più presto l’occasione di apprendere tale metodologia: le forme di connessione, gli atteggiamenti, le speranze, i giochi mentali e le frustrazioni che ad essa si accompagnano» (Bruner 1995, p. 234).

Negli anni Ottanta si sono delineate due grandi correnti in seno alla didattica interessate allo studio delle situazioni didattiche: i lavori che si muovono nella prospettiva delle didattiche delle discipline in senso stretto (ad esempio matematica e scienze, prima lingua e lingue straniere) e quelli relativi allo studio delle pratiche di insegnamento in senso lato. Entrambe queste prospettive hanno come oggetto le situazioni didattiche, di insegnamento e apprendimento nel loro svolgersi in contesi “naturali” e mirano a fondare un corpus di conoscenze teoricamente ed empiricamente fondato (Marchive 2011). Negli ultimi anni si sta sviluppando un’emergente nuova area di ricerca che presuppone la necessità di un confronto stretto e costruttivo fra questi due ambiti di riflessione, che sicuramente partono da prospettive differenti e adottano approcci diversi, ma sono entrambi indispensabili sia per illuminare i processi che conducono i soggetti nelle diverse età della vita verso la conoscenza della realtà, sia per individuare strategie di insegnamento che possano facilitare e sostenere questi percorsi di apprendimento. Uno degli snodi concettuali essenziale nel confronto tra le due prospettive è l’ipotesi di una lettura e interpretazione (Bagni 2009)

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Il rapporto fra didattica e didattica delle discipline

delle epistemologie dei saperi in chiave pedagogica e in vista di una loro trasmissione. La chiave pedagogica consente a insegnanti e allievi il superamento della logica esclusivamente trasmissiva focalizzando l’attenzione sull’intenzionalità pedagogica che dà risposta a bisogni formativi e apre la strada alla progettazione di percorsi di “senso” per la formazione scolastica ed extrascolastica (Martini 2005). La sfida consiste nel coniugare gli aspetti più propriamente connessi a obiettivi formativi con quelli relativi alla trasmissione/costruzione dei saperi e con le dimensioni strettamente pedagogiche di un fenomeno educativo (le routine, contratto formativo, le relazioni, la comunicazione, gli spazi e materiali, i tempi). Tale sfida può essere raccolta se si prende come oggetto di studio la situazione di insegnamento articolando l’analisi intorno ai tre poli: insegnante, allievo, sapere, così come sono stati delineati in ipotesi di modello da studiosi di diversa matrice culturale (il triangolo pedagogico di Houssaye 1992; il triangolo didattico di Develay 1992; la modellizzazione del processo di insegnamento-apprendimento di Altet 1994a, la teoria delle situazioni didattiche di Brousseau A Brousseau 1988). Secondo Marchive (2011) le situazioni di insegnamento includono aspetti metodologici, aspetti relazionali-affettivi, forme interattive e comunicative, organizzazione sociale degli allievi, regole e rituali, e costituiscono le unità di base per l’analisi delle pratiche. Le situazioni di insegnamento possono essere studiate quindi da un triplice punto di vista: – i saperi in gioco e le condizioni di trasmissione (logica didattica); – le relazioni interpersonali e l’organizzazione della classe (logica pedagogica); – l’appartenenza culturale, ossia il peso dei valori morali e delle convinzioni personali, “epistemologia spontanea” del docente (logica antropologica). Si tratta di prospettive che nelle pratiche didattiche sono strettamente interrelate, pratiche che si definiscono in “azioni situate” (Durand 1998), cioè azioni nel loro essere e divenire, processi in corso determinati dall’interrelazione delle diverse variabili in gioco,

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

storicamente situate; azioni come “imprevisti attesi” (La Borde D’Amore 1999).

2. Il “mandato” della scuola rispetto all’acquisizione di saperi disciplinari Pedagogia  istituzionale

La possibilità di restituire alle conoscenze che sono espressione della nostra cultura un ruolo formativo forte e aggiornato passa attraverso una riflessione attenta sulla natura dei diversi saperi e sull’intenzionalità pedagogica con cui li guardiamo. Con il termine “saperi” ci si riferisce in genere prevalentemente a saperi codificati e trasmissibili, saperi “formati”, come quelli disciplinari o “non ancora formati” come quelli che emergono dalle contaminazioni interdisciplinari e, più in generale, dalle prassi sociali. Attribuire centralità ai saperi nei processi formativi che si svolgono all’interno delle istituzioni impone una riflessione sulle “forme” culturali dei saperi stessi e su come queste vengono definite (Martini 2005). Di fatto, dall’Illuminismo in poi, i saperi si sono organizzati in discipline scientifiche convenzionalmente accettate e codificate nell’ambito della comunità degli esperti che, in un certo periodo storico e in un certo contesto socio-politico, hanno costituito il pensiero dominante. Come afferma Foucault, «entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false. […] La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso. Occorre concepire il discorso come una violenza che noi facciamo alle cose, in ogni caso come una pratica che imponiamo loro; e proprio in questa pratica gli eventi del discorso trovano il principio della loro regolarità» (Foucault 1971, p. 27).

L’ordine di controllo e la regolarità variano a seconda dei periodi storici, delle epistemologie condivise dal pensiero dominante di una certa comunità di scienziati, ma anche della società nel suo complesso. Ad esempio, ci si può chiedere con Foucault:

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La scuola rispetto ai saperi disciplinari

«Come mai i botanici e i biologi del xix secolo non hanno mai visto quel che Mendel vedeva… Mendel diceva il vero, ma non era nel “vero” del discorso biologico del suo tempo […]; è occorso tutto un mutamento di scala, il dispiegamento di tutto un nuovo piano d’oggetti nella biologia, perché Mendel entrasse nel vero e le sue proposizioni apparissero allora (in buona parte) esatte. Mendel era un mostro vero e per questo la scienza non poteva parlarne» (Foucault 1971, p. 18).

L’organizzazione “enciclopedica” dei saperi e Multi, inter, trans, co-disciplinarietà  dei discorsi è stata considerata in modo rigidamente frammentario per lungo tempo, richiamandosi a un’idea della conoscenza lineare, statica e cumulativa che non considera la morfologia sistemica e complessa della realtà che di per sé non contempla una tale segmentazione. Tale suddivisione convenzionalmente condivisa dalle comunità degli scienziati, spesso impedisce un’analisi completa della realtà, che si presenta nella sua globalità e complessità e, dunque, nella sua multidisciplinarietà e interdisciplinarità intrinseca. Come sostengono Callari Galli e Londei (2005) «il pensiero, costretto all’interno delle singole discipline, ha evidenziato sintomi di malessere […] l’interdisciplinarietà non si accontenta di giustapporre, ma fa interagire più discipline con lo studio di un oggetto, di un campo, di un obiettivo; la terza (la transdisciplinarietà), più ambiziosa, tenta di estrarre da questa collaborazione un filo conduttore, fino a pervenire ad una filosofia epistemologica completamente nuova rispetto alle epistemologie delle singole discipline chiamate alla collaborazione».

Veniamo a qualche esempio che rende evidente lo sguardo pluridisciplinare a contenuti specifici. Se studio il sistema delle marcite, sistemazione agraria messa a punto dai monaci cistercensi nel Medioevo, dovrò prendere in considerazione e integrare conoscenze storico-geografiche, con quelle biologiche, ma anche con quelle fisiche e matematiche. Inoltre, se prendiamo in considerazione questo tema da un punto di vista concettuale di tipo eco-sistemico, dovrà inerire anche altri ordini di fattori. Così come se affronto il

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

tema delle carte geografiche, dovrò integrare la conoscenza geografica del territorio con quella matematica, relativa ai modelli con cui vengono costruite le rappresentazioni, con quella filosofica che mi aiuta a inquadrare il concetto di rappresentazione, con quella storico-geografica. La diversa tipologia delle rappresentazioni cartografiche è relativa alle conoscenze possedute da una certa popolazione in un certo contesto storico, all’evoluzione di tali conoscenze nel tempo, alla storia delle diverse visioni ideologiche e filosofiche del mondo; si pensi a come sono cambiate le carte da quella di Mercatore che faceva riferimento a un mondo di commerci e di navigazione poco più vasto del Mediterraneo fino alla carta di Peter, che si sforza di superare la visione europacentrica del mondo. Un altro esempio illuminante vienedalle ricerche più avanzate sulla percezione visiva, studi che intrecciano le conoscenze acquisite nel campo della fisica con quelle biologico-anatomiche sulla conformazione dell’occhio con teorie psicologiche: ad esempio, dalla Gestalt in poi è risultato chiaro come quello che vediamo dipenda da quello che ci aspettiamo di vedere. Ragionando in termini pedagogici, la formazione Formazione ai ai saperi che adotta un modello organizzativo di sesaperi, formazione parazione disciplinare, come ha evidenziato bene di competenze Morin, è funzionale all’accumulazione di conoscenze, che sottende un approccio deterministico, trasmissivo, dunque cumulativo-informativo della conoscenza; considerare invece l’interconnessione dei diversi saperi, in un’ottica di costruzione autonoma e originale di conoscenze di cui ci si appropria in modo critico e spendibile nella realtà, può condurre a quella che Morin definisce la «testa ben fatta» (Morin 2000). Perciò, la trasposizione in campo formativo dei saperi disciplinari specializzati e separati «richiede di analizzarne criticamente sia i limiti, sia le potenzialità» in modo che il soggetto diventi in grado di contestualizzare i saperi e assegnarvi un senso. Morin individua proprio nella separazione dei saperi l’incapacità di cogliere il carattere pluridimensionale dei problemi che l’umanità si pone e quindi intravede nella logica inter e transdisciplinare una chiave di volta della trasposizione didattica, mentre nell’ambito della ricerca la complessità si traduce in una logica più pro-

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L’esperienza d’apprendimento e la trasposizione didattica

priamente co-disciplinare (Rossi 2011) da cui può emergere la ricchezza di un dialogo a partire da epistemologie, paradigmi e metodi differenti intorno a uno stesso oggetto di studio. Di fatto, dagli anni Sessanta, in tutti gli ambiti scientifici è stato messo in discussione un approccio epistemologico lineare e causale, per lasciare il posto a un approccio complesso e sistemico. Ciascuna delle parti del sistema secondo il paradigma della complessità, cioè ciascun sapere scientifico o, meglio, ciascuna prospettiva da cui viene guardato un certo fenomeno sistemico, trattiene in sé un ideale costitutivo, un progetto cognitivo fondante, un orientamento di valore che funge da guida, cioè una specifica intenzionalità formativa. È interessante chiederci se di questa relazione sia possibile rintracciare, oltre a un significato epistemologico, anche un senso pedagogico. Se si assume la complessità come una caratteristica strutturale dei saperi nella loro incompletezza e incertezza, nel loro dinamismo, allora si accetta che non esiste una forma unica “universale” dei saperi, ma diverse forme di organizzazione, storicamente fondate, che vengono di volta in volta contestualizzate e adeguate ai contesti d’uso. Come ci dice la psicologia culturale, l’attribuzione di significati costituisce la modalità specifica del funzionamento della mente dentro una cultura e, se i saperi sono “modi di fare significato” convenzionalmente accettati in un certo mondo culturale, allora la pluralità e le connessioni tra saperi non costituiscono un ostacolo alla formazione, bensì un campo potenzialmente fertile per apprendimenti di senso e di ricostruzione o reinterpretazione, ermeneutica, delle conoscenze, e questo è ciò che orienta verso la formazione del pensiero critico e dialettico.

3. L’esperienza d’apprendimento e la trasposizione didattica Proprio per la natura polimorfica e storicamente siDal sapere tuata dei saperi, D’Amore (1999)afferma come – per sapiente al sapere insegnante un insegnante – conoscere l’epistemologia della disciplina sia altrettanto importante che conoscere la disciplina stessa. Questa affermazione è, secondo l’autore, riconducibile almeno a due ordini di fattori: uno di carattere culturale in senso

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

ampio e uno di carattere specificamente pedagogico-didattico. Dal punto di vista culturale, lo sviluppo della disciplina richiede una continua revisione di senso e di significato che la disciplina stessa ricerca all’interno di sé e che il docente è chiamato a ricostruire. Ad esempio l’insegnante di matematica non è un creatore di teoremi e/o di teorie, ma un professionista, al quale la società propone di far sì che giovani cittadini costruiscano e apprendano a usare competenze matematiche. Il docente non può dunque limitarsi a ripetere la matematica appresa all’università (suo luogo di formazione culturale, per quanto concerne la specifica materia); egli deve trasformare la matematica (il sapere matematico elaborato dall’accademia) in un sapere adatto agli allievi affidati alle sue cure; deve trasformare il sapere in un sapere da insegnare (D’Amore 1999); questa trasformazione non è affatto banale, anzi, al contrario, è ampiamente creativa e fa strettamente parte, condizionandola, della professionalità del docente (Fandino Pinilla 2002). Come afferma Morin «la missione dell’insegnamento non è di trasmettere del puro sapere, ma una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiutarci a vivere […] aiutandoci a pensare in modo aperto e libero» (Morin 2000, p. 3.). Saperi sapienti e trasposizione didattica

Questa trasformazione dei saperi scientifici che Chevallard (1985) chiama sapienti (savoir savant) in saperi da insegnare, avviene innanzitutto grazie a un’azione di selezione, di scelta dei contenuti che il docente – in quanto esperto della disciplina – ritiene irrinunciabili dal punto di vista epistemologico e più idonei dal punto di vista del senso che possono acquisire rispetto al mondo esperienziale e alle cosiddette enciclopedie dei ragazzi. Tale selezione passa attraverso la ricostruzione, che il docente opera per lo studente, degli sforzi e delle difficoltà che gli esseri umani hanno incontrato nel costruire una certa disciplina così come si presenta oggi, nel definire concetti, nello scoprire teorie. Uno degli errori che ha allontanato e, a volte disamorato i ragazzi rispetto ad alcuni ambiti del sapere (ad esempio, la matematica e le

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L’esperienza d’apprendimento e la trasposizione didattica

scienze) è stato proprio il fatto di averli presentati come se fossero atemporali e impersonali, ossia avulsi dall’esperienza di coloro che hanno dato loro forma e anche di chi si accinge ad apprenderli. Inoltre, illustrare lo sviluppo storico di una disciplina permette di ripercorrere gli errori commessi nel passato dagli studiosi e utilizzarli per ricostruirne i concetti fondamentali. Le forme scientifiche dei saperi – che si danno all’interno della comunità scientifica e corrispondono a modalità di struttura formale codificata – si declinano via via in forme didattiche che si delineano all’interno delle istituzioni formative e corrispondono a modalità di trasposizione didattica, ossia in base a una costruzione di senso contestualmente e didatticamente situata. Come afferma Martini operare una trasposizione didattica significa «situare altrove» (Martini 2005, pp. 64-65) a due livelli: nell’intreccio di relazioni sociali e culturali che il sistema formativo intrattiene con i suoi sottosistemi e con il mondo esterno; nelle situazioni concrete della didattica. Secondo l’approccio «antropo-didattico» (Mercier - SchubauerLeoni - Sensevy 2002), la trasformazione che il docente può cercare di compiere avviene a due livelli di lettura e interpretazione, appunto, antropologici: quello delle forme del discorso scolastico (Sarrazy 1998), in senso linguistico-gergale ma anche simbolico-rappresentazionale, e quello più specificamente contestuale, legato alle condizioni didattiche. Secondo D’Amore (1999), praticare questa doppia let- Epistemologia realista e tura antropologica delle discipline comporta un cambio pragmatista epistemologico: si abbandona quella che l’autore definisce epistemologia “realista”, che sceglie i concetti, in questo caso matematici, come punto di arrivo finale e ideale, esposti con linguaggio appropriato, per adottare invece un’epistemologia cosiddetta pragmatista, in cui il concetto viene costruito e acquisito gradualmente in modo personale e situato. Questo approccio si declina dunque nelle seguenti direzioni: – situare i punti di riferimento fondamentali e gli assi d’intelleggibilità (concetti, postulati e metodi) dei saperi della propria disciplina per rendere possibili gli apprendimenti significativi per gli alunni;

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

– assumere una distanza critica nei confronti della disciplina insegnata; – stabilire relazioni fra la cultura prescritta nel programma di formazione e quella degli alunni; – trasformare la classe in un luogo culturale aperto alla pluralità delle prospettive in uno spazio comune; – portare uno sguardo critico sulle proprie origini e pratiche culturali e sul proprio ruolo sociale. In altre parole, integrare i saperi con la vita, i saperi L’integrazione del passato con quelli del presente perché i saperi non dei saperi possono essere disconnessi né dalle grandi domande universali, né dalle domande collettive culturalmente ancorate, né dalle domande più individuali. I saperi non sono neanche immutabili, ma rappresentano realizzazioni umane in evoluzione costante per rispondere agli interrogativi che pone la vita. «Le discipline scientifiche, letterarie ed artistiche possono essere comprese come altrettante risposte a domande che gli uomini si pongono sul mondo per capirlo e per capire se stessi» (Simard cit. in Sorin 2011).

Per fare ciò è necessario superare la frammentazione e la specializzazione crescente dei saperi, così come la disparità stessa dei saperi, costruendo «legami fra le conoscenze stesse e fra le conoscenze e le varie sfere dell’attività umana, perché ci sia più coerenza negli apprendimenti. L’integrazione dei saperi significa (Simard cit. in Sorin 2011): – trapiantare i nuovi saperi su quelli anteriori; – strutturare o ristrutturare i saperi; – ricollocare i saperi in un contesto storico di emergenza; – stabilire relazione fra i saperi; – trasferire i saperi, cioè applicarli consapevolmente in contesti diversi da quelli in cui sono stati acquisiti e aggiornarli continuamente per rilevare le sfide del presente. In sintesi, il concetto di trasposizione didattica, Contenuti disciplinari e il filone di ricerca ad esso connesso, ritiene che le e contenuti insegnati condizioni che regolano i sistemi di insegnamento

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Verso un apprendimento critico e consapevole: il ruolo del docente

siano molto differenti da quelli che regolano i diversi ambiti scientifici, socio-umanistici, artistici in cui questi i concetti disciplinari sono stati formulati; perciò, insegnare complessi concetti elaborati in un certo ambito disciplinare a soggetti non esperti, richiede una trasformazione dei “contenuti da insegnare” che parta innanzitutto da una selezione essenziale dei concetti fondamentali su cui si fonda una certa disciplina (nodi o snodi concettuali, nuclei concettuali) e che questi ultimi vadano tradotti in “contenuti insegnati” grazie a strategie e metodologie adeguate, che li ricolleghino al mondo esperienziale e alle enciclopedie degli allievi, evidenziandone il senso e la ricaduta che può avere per loro.

4. Verso un apprendimento critico e consapevole: il ruolo del docente Iscrivere il proprio modo di intendere la didattica delle discipline in questo quadro teorico-metodologico, richiede una rivoluzione copernicana rispetto al modo di intendere il processo di insegnamento-apprendimento in un certo ambito disciplinare. Innanzitutto, come abbiamo già affermato, accettare la pluralità delle epistemologie delle discipline comporta che l’insegnante collochi le sue conoscenze acquisite durante il percorso universitario e la sua eventuale esperienza professionale fuori dalla scuola, all’interno dei differenti stadi di sviluppo e alla continua ricerca di senso che quella specifica disciplina ha operato nei diversi periodi storici; inoltre, è chiamato a situarsi nell’ambito dei diversi modelli epistemologici che contemporaneamente convivono in questo momento storico e scientifico. Un approccio didattico che non considera i saperi scientifici come statici e monolitici, ma che li guarda attraverso gli occhi della loro storia evolutiva e che al tempo stesso si preoccupa di formulare una trasposizione didattica di questa evoluzione agli allievi, intende non presentare un solo modello della conoscenza e dell’informazione, ma orienta gli insegnanti, e la ricerca didattica stessa, a quella creativa trasformazione che permette agli allievi di avvici-

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

narsi a un mondo conoscitivo estraneo, senza diffidenza o soggezione, mettendoli in grado di comprendere a partire dal loro punto di osservazione. Di fatto, questo cambiamento chiama in causa il Contratto didattico concetto di contratto didattico. La nozione di cone rappresentazioni tratto didattico è stata sviluppata congiuntamente degli insegnanti nell’ambito della psicologia cognitiva (Orletti 2000) e della didattica disciplinare, in particolare, della didattica della matematica (Brousseau 1986). Il contratto didattico è una metafora della vita quotidiana in classe, secondo cui i soggetti che partecipano al processo di insegnamento-apprendimento non sono più semplici parlanti o interlocutori, ma assumono ruoli ben precisi all’interno di azioni in gran parte condivise. Secondo l’idea del contratto didattico, i comportamenti socio-cognitivi degli insegnanti (richieste, criteri di valutazione, azioni specifiche, dinamiche relazionali e comunicative) e degli allievi (modo di atteggiarsi, di interagire con i pari e con gli adulti, di rispondere al compito richiesto, di cercare o meno la prestazione) dipendono dalle regole implicite ed esplicite del docente e, dunque, dalla sua concezione della scuola, del suo ruolo, ma anche dall’idea che hanno della loro disciplina. Attraverso il contenuto proposto, l’insegnante costruisce, consapevolmente o meno, un rapporto con l’allievo e con la disciplina, un’immagine della disciplina, una situazione di successo o di insuccesso che influenza le concezioni personali dell’allievo su di sé e sulla materia studiata, costituisce un processo di motivazione allo studio. Queste concezioni sono determinanti per le scelte future dell’allievo, per la sua maturazione personale e sociale, per la motivazione ad apprendere e per il sentimento di autoefficacia in essa implicata. In una situazione d’insegnamento l’allievo ha generalmente come compito quello di comprendere e di risolvere un problema che gli viene presentato e l’accesso a tale compito avviene attraverso un’interpretazione delle domande poste, delle informazioni fornite, degli obblighi imposti che sono costanti del modo di insegnare di quel determinato insegnante. Queste abitudini specifiche del maestro attese dall’allievo e i comportamenti dell’allievo attesi dal docente costituiscono il contratto didattico (D’Amore 2007, pp. 1-2).

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Verso un apprendimento critico e consapevole: il ruolo del docente

Spesso queste attese non sono dovute ad accordi espliciti, imposti dalla scuola o dagli insegnanti o concordati con gli allievi, ma alla concezione della scuola, della matematica, ai giudizi, pregiudizi e attese reciproche oltre che alla ripetizione di abitudini didattiche. Secondo Bendefa e Lafortune (2011) le rappresentazioni degli insegnanti influenzano le pratiche di insegnamento della propria disciplina come emerge dagli studi sulla microcultura della classe. In particolare questi studi evidenziarono come le consegne date dagli insegnanti possono essere fortemente segnate dal rapporto che esse intrattengono con la propria disciplina e dalle idee che si sono costruiti rispetto all’apprendimento e all’insegnamento della disciplina stessa. Le rappresentazioni degli insegnanti determinano il loro modo di “vedere” ciò che è la comprensione degli studenti (Gattuso 1993; Bednarz - Gattuso - Mary 1995; Robert - Robinet 1989). Dal punto di vista dei modelli di insegnamento Concezioni ingenue, adottabili, accettare l’incompletezza e l’incertezza dei mis-concezioni, saperi e del sapere richiede a chi insegna un cambio concetti formali di prospettiva rispetto ai modelli di progettazione1: non solo infatti si supera l’idea di programma che risponde a un paradigma lineare, ma anche quello di programmazione in cui si determinano tempi e attività in base a schemi predefiniti, che non comprendono quelli che Perticari (1996) chiama «gli attesi imprevisti» o quella che De Vecchi (????) definisce la «tolleranza del caos». Il caos apparente e temporaneo può nascere dal fatto di adottare un’epistemologia che contempli l’errore, come percorso di conoscenza degli scienziati, così come degli allievi in classe e, per questo, parta dalle conoscenze informali degli allievi per arrivare a quelle formali, convenzionalmente formulate e accettate dagli esperti della disciplina. Un contratto didattico che considera l’apprendimento formale in una certa disciplina come un obiettivo a lungo termine, richiede dunque una temporanea accettazione totale delle conoscenze e soprattutto delle mis-concezioni degli allievi, quali condizioni e stru-

1

Cfr. la seconda parte di questo volume.

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

menti per arrivare all’acquisizione dei concetti formali. La scelta di partire comunque dalle conoscenze che i ragazzi hanno già precedentemente acquisito in modo informale e non formale, valorizzando autenticamente il percorso di conoscenza ad esse legato corrisponde a un duplice obiettivo: da un lato quello di motivare i ragazzi allo studio, grazie al legame di fiducia basato su un autentico riconoscimento della loro esperienza fuori dalla scuola; dall’altro lato, ancora più significativo soprattutto in un’ottica “disciplinarista”, l’assunzione dei precedenti mondi esperienziali e conoscitivi dei ragazzi risponde a finalità strettamente cognitive e meta-cognitive essenziali nei processi di comprensione (Aa.Vv. 2011). Già secondo Piaget (1975), infatti, l’allievo messo a “contatto” con una formazione nuova la interpreta a partire dalle proprie conoscenze, competenze, esperienze e dai propri comportamenti. Gli alunni riorganizzano dunque quello che conoscono in funzione di nuove conoscenze per poterle evocare e usare in modo appropriato. Questo processo di appropriazione delle conoscenze porta gli alunni a capire i concetti propri di un certo ambito disciplinare, in modo più o meno approfondito, in relazione ai processi di costruzione precedentemente sviluppati. In didattica della matematica, per esempio, il concetto di rappresentazione – entro cui si devono situare i nuovi concetti che un soggetto si accinge ad affrontare/acquisire – viene espresso mediante i seguenti termini: “concezione”, “credenza”, “percezione”. Nella stessa direzione si muove De Vecchi (????), studioso che opera nell’ambito della didattica generale, che distingue i termini ”concezione” e “costrutto” rispetto a quello di rappresentazione perché i primi diffondono l’idea della costruzione autonoma di conoscenze, il secondo invece rimanda a un modello mentale di portata sociale, che fa riferimento a costrutti precedentemente formulati a livello collettivo. Per Viennot: «quando un gruppo di alunni mette in opera una stessa rappresentazione in una situazione data e quella rappresentazione presenta una certa stabilità, si parla di concezione» (Conquin - Viennot 1988, p. 70).

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Verso un apprendimento critico e consapevole: il ruolo del docente

Gilbert Arsac (cit. in Artigue 1990) definisce le rappresentazioni come delle ipotesi implicite non teorizzate. Più specificamente, partendo ed elaborando lo schema delineato da Piaget, la costruzione di significati, a partire dall’esplorazione e dalla conoscenza che ciascuno ha della realtà implicita in ogni processo di acquisizione di nuove conoscenze, avviene attraverso tre passaggi: – il riferimento alla rappresentazione (concezione) della realtà, che passa attraverso diverse forme di apprendimento formale e informale e che sottende implicazioni culturali e concettuali di cui non sempre il soggetto è consapevole; – l’individuazione dei legami fra la precedente rappresentazione e la nuova realtà fenomenica a cui ci si accosta, così come delle connessioni e inter-connessioni fra le differenti parti costituenti di una totalità (i diversi elementi di un sistema complesso); – la capacità di ricostruire un ordine gerarchico fra i diversi elementi di un sistema e fra i diversi concetti a cui si ricorre per comprendere il funzionamento e le leggi che regolano il sistema stesso. Procedere in questa direzione, a partire dalle conoscenze informali per arrivare a quelle formali, chiama in causa la mediazione didattica dell’insegnante. Ci vorrà, dunque, un lavoro di «ascolto paziente e appassionato» dell’insegnante per capire come gli allievi «provino per la prima volta a darsi conto delle cose, cerchino di trovare relazioni da connettere fra loro per capire modi di esistere» (la realtà che vanno studiando), per comprendere intrecci e complessità di cui questa realtà è costituita. Ed è in questo modo che i ragazzi «possono arricchire di significati parole, costruendole/facendole e capendole dentro le esperienze» ed essere, viceversa, stimolati ad acquisire linguaggi e terminologie adeguati a descrivere fenomeni complessi (Raimondi 2003, p. 13). In ultima istanza, inoltre, la comprensione della La dimensione realtà e la costruzione di nuovi significati attraverso emotiva ed estetica della conoscenza cui interpretarla include in modo pervasivo la dimensione emotiva sia in quanto correlata alle dinamiche affettive e relazionali che si generano nel gruppo di apprendimento, sia come dimensione che ci informa sul nostro modo di appropriarci conoscitivamente della realtà. Come Longo sostiene,

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Capitolo III - Elisabetta Nigris - Didattica e saperi disciplinari

«siamo essere viventi […], mangiamo, beviamo, consumiamo energia, cresciamo, ci riproduciamo, obbediamo a stimoli che vengono dall’esterno o dal nostro interno […] la maggior parte degli scienziati ritiene che tutte le forme di vita abbiano un’origine comune. Proviamo per gli esseri viventi le stesse emozioni che proviamo per i nostri simili e questo influenza in modo determinante il modo in cui li conosciamo: tenerezza, empatia per gli esseri che assomigliano a noi, repulsione-schifo, repulsione-paura, paura-paura» (Longo 1995, pp. 59-60).

Longo invita dunque a un approccio allo studio della biologia che integri il metodo scientifico dell’osservazione per imparare a distinguere, differenziare, classificare e ipotizzare spiegazioni con un atteggiamento “empatico”, di riconoscimento di sé come “essere vivente” nell’incontro con le differenti forme di vita. In modo analogo Giordano e Samek Ludovici invitano a un’esperienza globale nello studio dei fenomeni fisici o astronomici, un’esperienza che tiene connesse le dimensioni cognitive, emotive ed estetiche come altamente “informative” oltre che formative. «Prima di imparare qualcosa relativamente al cielo bisogno re-imparare ad osservarlo, alzando gli occhi al di là e al di sopra dell’orizzonte ristretto a cui le costruzioni umane spesso ci racchiudono. Prima di tutto dovremmo poterci riappropriare del piacere di osservare cosa fa il sole durante il giorno, di cercare la luna e di osservarla con pazienza magari leggendo Saffo, Leopardi o Galileo» (Giordano - Samek Ludovici 2003, p. 61).

Da bambini iniziamo a porci domande sul senso delle cose, della vita e di ciò che ci circonda: cosa vuol dire vita? Come funzionano le cose? Come fanno a vivere nell’acqua i pesci? Quale meraviglia dello stare sospesi senza cadere e senza che nessuno ci sostenga se non la gravità sia sulla terra sia in relazione al sole? Dove va il sole la sera? Domande che nascono e mantengono in modo intrinseco curiosità intellettuale, stupore e sentimento di meraviglia, atteggiamenti e disposizioni fondamentali per avvicinarsi alla conoscenza di ciò che è scienza, di ciò che non lo è e dei modi, delle domande e dei percorsi attraversati dagli scienziati per comprendere, conoscere, de-

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Verso un apprendimento critico e consapevole: il ruolo del docente

scrivere e rappresentare. L’approccio “inesperto e ingenuo” al mondo e alle parole, apre la strada dell’apprendimento agli insegnanti che non solo stanno in ascolto, che è solo un presupposto imprescindibile, ma che continuano a interrogare i significati della loro disciplina “dall’interno”, riscoprendone epistemologie ed evoluzioni storiche e le originarie fonti di scoperta. Le idee ingenue, le mis-conoscenze o gli errori dei ragazzi possono essere accostati ai percorsi che gli scienziati, i letterati e gli artisti hanno attraversato nelle loro ricerche? Secondo un proverbio marocchino «la luna e le stelle non sono sopra di noi, è la Terra a essere sotto i nostri piedi» (Lanciano 2011). È possibile immaginare un modo di trasmettere che coniughi la naturale predisposizione all’attribuzione di senso degli esseri umani, la curiosità e l’interpretazione con la necessità di insegnare metodi specifici di conoscenza dei saperi? L’insegnante che tenta “risposte” progetta le proprie azioni didattiche affrontando incoerenze, contraddizioni, contrapposizioni e ostacoli che nascono dall’azione di mediazione costante verso la ristrutturazione continua delle conoscenze dei ragazzi, con la fatica cognitiva e relazionale che questo comporta. La ricerca didattica, generale e disciplinare, affianca la scuola e gli insegnanti nel dipanare e fare luce sulla complessità di ogni situazione di insegnamento nella sua unicità e, contemporaneamente, all’interno di più ampi orizzonti di significato, sulle relazioni con il sistema scolastico e con l’ambiente sociale (D’Amore - Frabboni 1996) che la dimensione formativa non può eludere.

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Didattica e saperi disciplinari: dialogo da costruire. Mappa concettuale

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Capitolo quarto

Le tecnologie dell’educazione Floriana Falcinelli

1. Definizione ed evoluzione delle tecnologie dell’educazione Definizione Per tecnologie dell’educazione si intende un comdi tecnologie plesso sistema di artefatti che possono potenziare la codell’educazione municazione didattica e come tale intervenire nei processi di insegnamento/apprendimento. Sono dispositivi artificiali che assumono la funzione di mediatori per la gestione delle informazioni tra un emittente e un ricevente, agendo sulle modalità con cui l’informazione viene trasmessa e soprattutto su come l’utente la riceve, la gestisce, la rielabora (Mc Luhan 1967). La formazione è l’esito di un processo di comunicazione e per questo ha sempre utilizzato mediatori per cui la storia dell’uso delle tecnologie nell’azione didattica è legata da un lato all’evoluzione tecnologica, dall’altro al cambiamento che nel corso del tempo ha caratterizzato il paradigma epistemologico della didattica, definita oggi, anche alla luce delle ultime conquiste delle neuroscienze (Rivoltella 2012), scienza dei processi di insegnamento/apprendimento, integrati in un’azione vista come un unico sistema complesso (Rossi 2011). Il Novecento è stato giustamente definito “secolo dei La diffusione della cultura media” perché ha visto la nascita e soprattutto la diffudei media sione di tutti i mezzi tecnologici deputati alla trasmissione di informazioni e alla comunicazione. Si è assistito infatti allo sviluppo e consolidamento di radio, cinema e televisione, in quanto forme comunicative, tecnologiche, sociali ed eco-

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Capitolo IV - Floriana Falcinelli - Le tecnologie dell’educazione

nomiche che, uscendo dalla dimensione artigianale, sono entrate a pieno titolo nel sistema industriale e diventate mezzi di comunicazione di massa, tanto che i media precedenti come telegrafo, telefono, fotografia e stampa sono stati costretti a riqualificarsi e a ridefinire il proprio ruolo e la propria funzione. Contemporaneamente si è affermata la cultura dei media, caratterizzata dall’integrazione sensoriale-linguistica e tecnologica tra parola, suono e immagine, da un’esperienza conoscitiva per immersione, dalla percezione globale del messaggio, dalla codificazione degli elementi di conoscenza secondo la logica del sensorio integrale (partecipazione, senso del qui e ora, nello spazio e nel tempo, coinvolgimento emozionale), da un tipo di apprendimento per intuizione (Galliani 1998). Nella tradizione didattica, specialmente italiana, la cultura dei media è stata vista come alternativa, talvolta opposta alla cultura della scuola, caratterizzata dalla preminenza della comunicazione verbale, scritta e orale, da monomedialità sensoriale linguistica e tecnologica, da astrazione e razionalizzazione dell’esperienza, da codificazione formalizzata dei saperi della cultura tradizionale del passato, da un tipo di apprendimento concettuale secondo una logica analitica, lineare, sequenziale. Invece di promuovere l’integrazione tra i due approcci come risorsa per l’apprendimento significativo degli allievi, la ricerca didattica ha indugiato spesso a letture che ne hanno evidenziato la contrapposizione, esaltando in genere la cultura scolastica librocentrica e attribuendo a quella dei media una valenza prevalentemente negativa. Generalmente gli insegnanti hanno considerato i media come sussidi audiovisuali per trasmettere il sapere in modo più efficace, coinvolgente e motivante, senza modificare per nulla l’impostazione dell’azione didattica. Una svolta importante si è avuta nella seconda metà L’avvento delle del Novecento, quando si è cominciato a pensare che tecnologie l’uso della tecnologia potesse cambiare, riorganizzare, otdell’istruzione timizzare il processo di insegnamento-apprendimento. Con la pubblicazione, nel 1954, del famoso articolo di A Skinner Skinner The science of learning and the Art of Teaching

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Definizione ed evoluzione delle tecnologie dell’educazione

nasce un nuovo settore di ricerca che indaga come l’impiego delle tecnologie possa favorire e supportare la programmazione didattica di percorsi di apprendimento, pianificati in relazione a specifici stimoli e articolati in sequenze progressive e graduali, organizzate in relazione a obiettivi operazionalizzati e verificati costantemente (istruzione programmata). Il tutto in riferimento a un paradigma comportamentista orientato al Comportamentismo T controllo degli stimoli e al rinforzo delle risposte esatte. Verso la fine degli anni Cinquanta si sviluppa la rivoluzione cognitiva per cui, come rileva Calvani, «attraverso orientamenti diversi, in certi casi anche contrapposti, quali il comportamentismo skinneriano, lo sviluppo dell’orientamento tassonomico-curricolare e la nascita della scienza cognitiva con i suoi risvolti cibernetico-informatici e psico-linguistici, prendendo le distanze da una tradizione didattica prevalentemente ispirata all’atti- Attivismo T vismo deweyano, si dà vita ad un intenso fervore di applicaDewey A zioni curricolari e tecnologiche» (Calvani 2001, p. 98).

Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta con l’avvento del computer si assiste allo sviluppo di una grande stagione di ricerca pedagogica e didattica incentrata sulla programmazione dei processi di apprendimento e sulla possibilità di trattare l’informazione in modo più o meno “intelligente”. La possibilità di avere a disposizione computer L’uso del computer a scopi didattici sempre più amichevoli e di tradurre in linguaggio digitale ogni simbolo analogico (convergenza digitale) diffonde nella ricerca didattica tre concetti che cambiano radicalmente l’approccio alla formazione. Termini come multimedialità, interattività, ipertestualità entrano nel linguaggio didattico, sollecitando mutamenti non solo nell’uso di alcuni strumenti tecnologici, ma soprattutto nell’approccio alla cultura, alla sua produzione e diffusione. Si afferma così l’idea di “tecnologie aperte” cioè tecnologie che, favorendo un uso flessibile, esplorativo, attivo, partecipato e creativo, permettono all’utente di introdurre elementi personali nella conoscenza.

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Capitolo IV - Floriana Falcinelli - Le tecnologie dell’educazione

Interattività

Si parla di interattività genericamente come possibilità di intervenire sull’informazione modificandola: Calvani ne individua varie forme: – transitiva diretta, intesa come retroazione fisica sul programma del computer; – transitiva esplorativa come le attività di navigazione libera su Internet; – transitiva cooperativa quando il computer è strumento di lavoro (Calvani 2001). La multimedialità permette la fruizione integrata di Multimedialità diversi linguaggi; il dialogo uomo-macchina può essere reso più ricco e completo proprio perché si possono utilizzare in modo integrato e simultaneo le conoscenze veicolate da più media attraverso un unico sistema di comunicazione. Si realizza così l’integrazione tra i diversi linguaggi, tra i diversi temi e tra i diversi media che non coinvolge soltanto l’intelligenza e la mente ma, comportando proiezioni, identificazioni e ulteriori coinvolgimenti emotivi, è come se portasse l’intero corpo a immergersi in tale dimensione. Ma la multimedialità dà anche la possibilità di intraprendere percorsi di apprendimento personalizzati dal momento che gli uomini apprendono, rappresentano e utilizzano le conoscenze in sistemi simbolici diversi (Maragliano 2004). Assumere il multimediale come ambiente di lavoro sollecita a ripensare-ridefinire i contenuti e le forme dell’insegnamento in un’ottica di integrazione piena tra l’autorevolezza della macchina del sapere per eccellenza (il libro) e la forza d’urto delle macchine dello svago e del coinvolgimento (tv, cinema, ma soprattutto videogioco). Compare dunque la parola Edutainment come integrazione di formazione e intrattenimento (Cangià 2009) con rilievo e dignità pari, come ben ricordava Mc Luhan quando diceva che coloro che fanno distinzione tra intrattenimento ed educazione forse non sanno che l’educazione deve essere divertente e il divertimento educativo (Mc Luhan 1967). Tipico dell’edutainment è il videogioco: opportunamente scelto, mette nella condizione di apprendere, di compiere dei sacrifici per raggiungere obiettivi chiari e dichiarati, di sopportare e superare la

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Definizione ed evoluzione delle tecnologie dell’educazione

frustrazione che viene dai fallimenti per progredire, favorisce la consapevolezza delle proprie azioni, il problem solving induttivo e il pensiero critico, lo sviluppo della capacità di scelta e di decisione, la capacità di osservazione e di analisi situazionale (Greenfield 1985; Antinucci 2001; Felini 2012; Prensky 2008). Per ipertesto si intende un software che consente una Ipertestualità gestione non lineare delle informazioni che sono organizzate tramite associazioni chiamate links o nodi. Tali nuclei di informazione, collegati ad altri nodi per mezzo di legami basati su nessi logici, permettono al fruitore di navigare da un nucleo all’altro, da un concetto all’altro, da un oggetto a un altro con grande libertà (Landow 1993). L’ipertesto, oggi anche ipermedia, grazie alla possibilità di integrare in modo non lineare testi e media diversi, rende possibili itinerari e tempi individualizzati e personali di apprendimento (fruizione), permette un controllo consapevole dei propri processi di riorganizzazione del sapere che avvengono mediante una ricerca costante e in risposta a esigenze personali, permette l’acquisizione e il rafforzamento di competenze fondamentali quali: la progettualità, la determinazione dei nuclei essenziali di un argomento, la sintesi, la capacità di realizzare relazioni logiche tra i concetti (costruzione). Il computer dà all’utente la possibilità di interagire con l’informazione costruendola e decostruendola continua- Computer e scuola mente. Esso permette di: conservare, organizzare, trasmettere, ricevere, ricercare, trasformare un’enorme quantità di informazione di tutti i tipi in tutte le modalità percettive e comunicative e di interagire con grande facilità e versatilità con chi è seduto davanti allo schermo (Papert 1994); è uno strumento multifunzionale che permette di svolgere i più svariati compiti, di sviluppare percorsi creativi, di mettersi in gioco. Tra le molte risorse che un computer mette a disposizione, particolare diffusione ha avuto l’uso del word processor. La videoscrittura permette la digitalizzazione ovvero la potenzializzazione del testo, l’integrazione dei ruoli di autore, realizzatore, lettore, la virtualizzazione della scrittura (Lévy 1997); induce e facilita la riflessione di chi scrive sulle possibilità e caratteristiche del linguaggio scritto, fa per-

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Capitolo IV - Floriana Falcinelli - Le tecnologie dell’educazione

cepire il senso dello scrivere per comunicare, la scrittura diventa processo di produzione creativa in perenne movimento, grazie alla possibilità di rivedere, manipolare il testo, favorisce inoltre la cooperazione tra gli allievi, impegnati nel comune progetto di composizione. Grazie al computer nella scuola è stato possibile utilizzare molti programmi applicativi pensati appositamente per il raggiungimento di obiettivi didattici: tali software comunemente chiamati software didattici sono entrati prepotentemente nel mercato, in modo spesso caotico, rendendo indispensabile la costruzione di griglie di valutazione della qualità per permettere agli insegnanti di orientarsi. Il computer può infine favorire la possibilità dell’apprendimento attraverso l’esperienza perché esso può simulare la realtà e quindi consente di apprendere osservando la realtà e agendo su di essa, cogliendo le conseguenze delle proprie azioni. Nel tempo, il computer si è caratterizzato come vero e proprio ambiente di apprendimento in cui esaltare la curiosità dell’allievo, il suo desiderio di esplorare, di ricercare, di scoprire cose nuove, di costruire oggetti significativi di conoscenza attraverso un processo di creazione realizzato in collaborazione con altri allievi e insegnanti disposti a mettersi in gioco e ad accogliere la “sfida” della ricerca. È interessante notare come lo sviluppo del computer si collochi in un contesto storicoculturale nel quale vari orientamenti culturali (erT Connessionismo meneutica, decostruzionismo, connessionismo, teoria della complessità) confluiscono nel consolidare un nuovo paradigma, al cui interno la conoscenza è vista come processo di esplorazione e costruzione attiva di significati, nel quale maggiore attenzione viene data alle relazioni, al contesto, alle dissonanze più che alle concordanze. Si afferma la logica costruttivista secondo la quale l’apprendimento è significativo quando è costruito dall’allievo in modo esplorativo, riflettendo su situazioni reali: è dunque situato, cioè legato a un contesto, e distribuito, cioè condiviso con altri attraverso la ricerca di significati comuni (Bruner 1990). In ambito didattico si verifica così un graduale spostamento di attenzione dalla macchina e dalla sua programmazione all’utente e a come egli può apprendere in modo significativo; vengono realizzati

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Tecnologie di informazione e comunicazione: risorsa per la didattica

nuovi software che rendono il computer utensile, tool amplificatore di un processo di formazione che deve essere gestito sempre più dallo stesso soggetto in apprendimento (Jonassen Jonassen A 2000). L’attenzione viene dunque spostata sul processo di apprendimento dell’allievo e sulle condizioni che lo rendono possibile, mentre si affacciano nell’universo delle scienze dell’educazione settori di ricerca nuovi che manifestano interessanti intersezioni con la pedagogia e la didattica (teoria della comunicazione, tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento, scienza dei processi cognitivi, informatica). Intanto la rivoluzione digitale impone ai media tradizionali di rivedere obiettivi e strategie di approccio all’informazione e alla comunicazione, nella logica di un sistema mediale integrato. Si rende necessaria dunque una riflessione sul sistema complessivo dei media visti come nuovi contesti di conoscenza e nuovi ambienti formativi (Galliani 1998).

2. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione come risorsa per l’azione didattica Ma una nuova rivoluzione nei processi formativi Internet, il web viene prodotta dalla realizzazione del Web e dalla dif- e la cybercultura fusione di Internet (Falcinelli 2003). Il cyberspazio non è solo il luogo virtuale in cui tutti potenzialmente possono accedere all’informazione e comunicare fuori dai vincoli spazio temporali, è soprattutto l’avvento di una nuova cultura caratterizzata dall’idea che il sapere non è chiuso e definito, patrimonio di pochi, ma è aperto a tutti e si arricchisce grazie al contributo di ogni persona che è in grado di partecipare a comunità virtuali che si strutturano in questo amnios comunicativo, in cui si costruiscono e si condividono nuovi sistemi di significato, secondo una logica reticolare (Levy 1999). Le nuove tecnologie vengono denominate Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (tic o ict nella dizione inglese), proprio a sottolineare come i due aspetti non possano più essere sepa-

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Capitolo IV - Floriana Falcinelli - Le tecnologie dell’educazione

rati e come anche nei processi formativi la conquista del sapere possa avvenire attraverso modalità comunicative mediate che integrino la tradizionale relazione docente-allievo (Calvani 2007b). Si assiste all’avvento di una multimedialità interattiva di rete in cui viene esaltata la possibilità per il soggetto di essere protagonista della sua crescita culturale, in un Web 2.0 che sempre più è spazio sociale, contesto di costruzione collaborativa del sapere, ambiente partecipato e condiviso, luogo di apprendimento informale diffuso (Jenkins 2010). Emerge addirittura la definizione di una nuova intelligenza digitale (Battro - Denham 2010) diventa centrale la questione relativa ai possibili mutamenti che un cervello, sollecitato dai nuovi media, potrebbe subire (Wolf 2009). A rendere più complesso lo scenario, negli ultimi I dispositivi anni si sono diffusi nuovi dispositivi, per lo più momobili bili: notebook, tablet (iPad), smartphone, consolle connesse a Internet (Wii, PlayStation3) piattaforme software 2.0 come i social network (Facebook, Twitter, MySpace), i blog, YouTube, Wiki e il pianeta Google; tutto ciò può essere considerato come risorsa a disposizione dell’azione didattica e, pur con specifiche diversità, può essere ricondotto alla grande categoria delle ict. In questo contesto tutti gli applicativi si trovano in rete e possono essere espansi attraverso le opportunità che la rete offre nella direzione dei social network: repository e banche dati dei software sono molto diffusi e la qualità è data dalla modalità dello sharing e del passaparola degli insegnanti (Petrucco 2010). La rete ha inoltre diffuso la logica del software open o free, della dimensione del floss (Free/Libre/Open Source Software) termine che indica contemporaneamente e collettivamente il software libero e quello a codice sorgente aperto. Si aprono continuamente spazi nuovi di condivisione tra ragazzi e docenti: «così diviene possibile per un insegnante condividere in Scribd i propri documenti, rendere disponibili in Slideshare le proprie presentazioni, in-

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Tecnologie di informazione e comunicazione: risorsa per la didattica

vitare i propri alunni a pubblicare in Anobii le loro recensioni letterarie» (Rivoltella - Ferrari 2010, p. 81). lim  Altri strumenti possono essere i servizi di instant messaging (come Skype, Msn Messenger o Google Talk) e i media digitali. Tra questi una sottolineatura merita la Lavagna Intelim e altri rattiva multimediale (lim), supporto che, grazie all’uso media digitali integrato di proiettore e computer, consente di visualizzare e navigare i contenuti del computer e del web, integrarli con osservazioni e commenti, importare e modificare oggetti, salvare e rendere disponibili i contenuti di una sessione di lavoro. La lim è sostanzialmente una periferica di un computer che può essere utilizzata usando semplicemente il sistema operativo e i software tradizionalmente installati nel computer e rendendo, grazie all’uso dello schermo visivo, percettivamente evidenti ed emozionalmente coinvolgenti i contenuti di studio; pur rimanendo una lavagna a supporto del lavoro dell’insegnante rivolto collettivamente alla classe, si differenzia dalle lavagne tradizionali in termini di multimedialità, ipertestualità, connettività e memoria. Pertanto un contenuto, preparato in anticipo dal docente o costruito collaborativamente in classe, può essere ricostruito, arricchito dagli alunni in momenti successivi ma anche

«riutilizzato, aggiornato, o migliorato dal docente in future applicazioni, scambiato con i colleghi, distribuito in versione digitale o stampata dagli alunni, ripreso per un recupero delle conoscenze e così via» (Faggioli 2010, p. 79).

La lim può essere usata in modo molto versatile dal docente: permette di svolgere lezioni più coinvolgenti e motivanti, ma dovrebbe sempre più diventare una superficie di interazione tra docente e allievi e tra gli allievi, spazio di costruzione condivisa della conoscenza, per proporre contenuti aperti, accedere a realtà esterne alla classe, visualizzare e analizzare informazioni, documenti ed esperienze, realizzare forme di lavoro per gruppi, approcci euristici per

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Capitolo IV - Floriana Falcinelli - Le tecnologie dell’educazione

scoperta guidata, permettere di valorizzare le 3X dell’apprendimento digitale eXplore, eXchange, eXpress (Biondi 2008). La lim risulta particolarmente utile per i soggetti disabili dal momento che facilità processi di scrittura e lettura e di comprensione di concetti matematici in modo da poter condividere con gli altri percorsi di apprendimento. Altri sono invece dispositivi portabili come il lettore Mp3 e Mp4, lo smartphone o l’iPod che costituiscono importanti terminali attraverso i quali gli studenti possono condividere risorse e comunicazione, anche dialogando con la lim pensata come spazio collaborativo, costruendo le basi per una cultura transmediale. A questa categoria possiamo ricondurre anche gli e-book (letteralmente testo elettronico) tool attraverso i quali è possibile caricare e leggere contenuti digitali, in numero quantitativamente elevato rispetto alle possibilità offerte dall’editoria classica (Roncaglia 2010); attraverso device dedicati, gli e-reader, attualmente dotati della tecnologia e-ink ovvero l’inchiostro digitale che non affatica la vista, o generalisti come l’iPad, oggi è possibile avere a disposizione dovunque un considerevole numero di testi, a basso costo (Rotta -Bini Zamperlin 2010). Le potenzialità didattiche di tali strumenti, che secondo recenti norme dovranno lentamente sostituire nella scuola i tradizionali libri di testo, sono interessanti purché non ci si limiti alla lettura elettronica di pdf, ma ci si muova nella logica del “testo espanso” (Darnton 2009). La ricerca applicata già oggi ci mette a disposizione strumenti che hanno la possibilità di connettersi in rete aprendo la lettura a inedite modalità di condivisione; il pdf prevede link che esemplifica delle astrazioni con l’impiego di linguaggi multimediali tali da consentire una ibridazione tra lineare e reticolare, che si possano aggiungere note a margine al testo e farle apparire nel device di persone che appartengono alla cerchia di amici creando delle vere e proprie comunità di pratica. Si potrebbe infine arrivare all’idea della creazione di libri digitali aperti, costruiti dai ragazzi e dai docenti attraverso percorsi di ricerca. Siamo all’inizio dunque di un promettente futuro.

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Spazi, tempi, relazioni: flessibilità e innovazioni

3. Spazi, tempi, relazioni: progettare ambienti di apprendimento flessibili, tecnologicamente innovativi L’azione didattica sembra voler attrezzarsi con di- Mutamento del verse tecnologie anche per rispondere in modo più ef- setting didattico ficace alle richieste dei cosiddetti «nativi digitali» (Prensky 2001) e costruire raccordi con le modalità diffuse di apprendimento informale in rete caratterizzato da multitasking, autorialità e socialità. La portabilità e la integrabilità delle diverse tecnologie favorisce infatti la capacità di attendere a più compiti nello stesso tempo, «parcheggiare e riprendere con grande rapidità compiti cognitivi su cui stiamo lavorando: non è capacità di lavorare in parallelo su più compiti allo stesso tempo ma di rendere talmente veloce il passaggio da un compito all’altro da restituire l’impressione della contemporaneità» (Rivoltella - Ferrari 2010, p. 48).

L’avvento degli strumenti del web 2.0 e la diffusione web 2.0  dei dispositivi mobili d’altra parte ha favorito la possibilità per ciascuno di essere autore diretto di messaggi, senza particolari mediazioni, di esprimere attraverso linguaggi diversi propri pensieri, proprie emozioni, propri vissuti e di condividere tutto questo con altri, in spazi di socialità virtuali carichi però di valore emozionale (Papert 2006). La diffusione nelle scuole delle nuove tecnologie e la loro facilità d’uso ha permesso una introduzione delle ict nelle quotidiane attività di classe e non solo nelle ore riservate all’informatica, in laboratori appositamente dedicati (Ferri 2008): ciò al fine di motivare maggiormente gli allievi verso l’attività scolastica, favorendo atteggiamenti emozionali positivi, sostenere processi di memorizzazione e approfondimento delle informazioni, promuovere una migliore capacità di studio autonomo e di metacognizione, sviluppare capacità socio-relazionali e infine promuovere lo sviluppo della competenza digitale.

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Capitolo IV - Floriana Falcinelli - Le tecnologie dell’educazione

Questo è stato sostenuto dal miur in alcuni progetti come Cl@ssi 2.0, progetto che ha richiesto una trasformazione profonda dell’azione didattica in classe e una diversa concezione della progettazione didattica, più centrata sull’idea di percorsi di costruzione della conoscenza aperti e sull’allestimento di ambienti di apprendimento caratterizzati da lavoro cooperativo. In questo scenario gli insegnanti, in quanto sogLe ict come fattore getti ermeneutico-critici che cercano di attribuire di innovazione senso al proprio agire didattico e al sistema complesso didattica in cui esso avviene, debbono considerare le ict come nuovi contesti/ambienti di insegnamento apprendimento, come risorse per l’azione formativa, cogliendo però gli elementi di diversità che essi introducono nella tradizionale relazione didattica: il processo di apprendimento si avvale di esperienze multidimensionali, diviene sempre più costruttivo e reticolare, condiviso socialmente, sperimenta le dimensioni del gioco, dell’immaginario, dell’espressività emozionale, è alimentato da eventi comunicativi informali (Ferri 2011). Le tecnologie vengono così considerate strumenti per la trasformazione del contesto formativo in ambiente di apprendimento, nel quale sia possibile la costruzione condivisa di conoscenza, la interazione con il contenuto dell’informazione, la personalizzazione dei percorsi e delle strategie di apprendimento, l’acquisizione dei diversi sistemi simbolici culturali, rappresentati dalle discipline in modo attivo e creativo (Rossi 2009). Particolarmente importante è risultato l’uso delle ict come strumenti compensativi in situazione di difficoltà di apprendimento (dsa) o di specifiche disabilità. In tutti i casi le ict possono essere utilizzate in modo integrato con gli altri strumenti tradizionali come il libro a stampa e con la sapiente mediazione dell’insegnante che deve scegliere quali tecnologie utilizzare e per quali attività, in relazione a una progettazione didattica consapevolmente elaborata e a principi di ergonomia didattica (Ranieri 2011). Il rapporto continuo e diffuso con le tecnologie ridisegna i contesti di apprendimento, tende a riconfigurare lo stesso spazio didat-

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Spazi, tempi, relazioni: flessibilità e innovazioni

tico e la gestione dei tempi scuola; la posizione dei banchi e della cattedra cambia, per prevedere la gestione di attività organizzate per moduli flessibili e l’adozione di diverse strategie didattiche funzionali alla migliore efficacia degli apprendimenti (lezione collettiva, argomentazione e discussione, attività di ricerca in gruppo, attività di rinforzo a piccoli gruppi o individuale). Lo spostamento progressivo della cattedra verso l’angolo dell’aula, la trasformazione della sua funzione a tavolo d’appoggio, la presenza della lim e di altri dispositivi tecnologici a disposizione di ogni ragazzo o per più ragazzi impone anche un diverso modo di intendere le relazioni insegnante/allievi e le tradizionali routines scolastiche: gli allievi, sempre più autonomi e alfabetizzati tecnologicamente, procedono nell’apprendimento in modo intuitivo per scoperta e l’insegnante li accompagna come facilitatore, co-ricercatore, quando non diventa solo osservatore di allievi nella sperimentazione di nuovi percorsi di conoscenza. Si affermano modalità diverse di gestire il gruppo di allievi e di gestire il rapporto con i colleghi, sperimentando forme di progettazione e di lavoro interdisciplinare. La possibilità di accedere facilmente in rete grazie al Oltre lo collegamento wireless presente in molte scuole ha reso spazio/tempo inoltre abbastanza diffuso il web-based learning, cioè la della classe possibilità di utilizzo di Internet per attività in classe di Web-based learning  studio e ricerca di informazioni. Le possibilità offerte oggi dal Web 2.0 inoltre consentono di avvalersi, in modalità open, di social network per costruire gruppi di condivisione delle conoscenze fino a sostenere veri e propri processi di costruzione di sapere (Laici 2007). Si possono stabilire forme di comunicazione a distanza in forma sincrona e asincrona con altri contesti formativi e altre persone al fine di costruire comunità di apprendimento o di pratica. Si può anche utilizzare una piattaforma dedicata (lcms) per espandere l’attività di classe online superando i vincoli di spazio e tempo, spesso molto restrittivi nella attività didattica in presenza e per attivare forme di comunicazione più ampie, fino a parlare di elearning, o di blended learning, un tipo di formazione a distanza, integrata con le attività in presenza, che pone l’accento sull’ap-

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Capitolo IV - Floriana Falcinelli - Le tecnologie dell’educazione

prendimento dell’allievo, visto al centro dell’azione formativa, protagonista e co-costruttore del processo di conoscenza (Falcinelli Laici 2009). Un progetto formativo in cui la dimensione classe si espande in rete, superando i limiti spazio/temporali permette di: integrare e sviluppare le attività didattiche in presenza con attività on-line da svolgere sia con modalità di lavoro autonomo, sia collaborativo a piccoli gruppi; facilitare l’accesso aperto ai materiali di studio e a momenti di problematizzazione degli argomenti di studio attraverso la discussione in rete; favorire momenti di interazione costante tra i docenti e gli allievi per il necessario scaffolding; consentire una espansione dei contenuti attraverso la costruzione da parte degli studenti di specifici materiali e la condivisione di mappe dei saperi; attivare percorsi di ricerca favorendo modalità di partecipazione attiva degli studenti alla costruzione della conoscenza; sviluppare spazi di comunicazione, di discussione e di riflessione condivisa sull’esperienza formativa anche con genitori ed esperti fuori dell’ambiente scolastico; permettere una verifica costante dei processi di apprendimento e una auto-valutazione da parte degli studenti del loro percorso di conoscenza.

4. Competenze digitali per l’e-democracy L’educazione all’uso delle ict diviene una dimensione fondamentale del progetto formativo della scuola, nel quadro anche di un’educazione alla cittadinanza, un’esperienza non occasionale e separata dalle altre attività, ma congruente con le finalità della scuola e integrata nel suo progetto formativo. La scuola deve assumere un approccio “colto” verso i media e le nuove tecnologie, conoscere l’esperienza diffusa dei ragazzi (Rivoltella 2006) e aiutarli a organizzare, riflettere, attribuire a essa un senso e un significato per la loro esistenza. Deve soprattutto guidare i ragazzi perché si orientino verso una nuova ecologia dei media, che preveda un’integrazione virtuosa delle diverse esperienze mediali e

Definizione di competenza digitale

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Competenze digitali per l’e-democracy

tecnologiche con le molteplici esperienze con altri linguaggi e altre modalità di approccio alla realtà. Deve inoltre favorire un uso non passivizzante del mezzo tecnologico; il tutto nel quadro di una media education intesa anche come educazione alla cittadinanza che vuol dire non proteggere i minori dai media ma aiutarli a conoscere, comprendere, utilizzare i media in modo consapevole per interpretare la realtà in cui vivono e prepararsi alla responsabilità di cittadini adulti, capaci di intervenire nelle decisioni pubbliche che governano le loro condizioni di vita (Buckingham 2006). Un progetto formativo in tale ambito significa elaborare percorsi di media literacy (Jenkins 2010) che, lavorando sulle ict e con le ict, permettano agli allievi di conquistare la competenza digitale. Nella Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, rispetto alla competenza digitale si dice: «La competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (tsi) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da abilità di base nelle tic: l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet. La competenza digitale presuppone una solida consapevolezza e conoscenza della natura, del ruolo e delle opportunità del tsi nel quotidiano: nella vita privata e sociale come anche al lavoro […] Le persone dovrebbero anche essere consapevoli di come le tsi possono coadiuvare la creatività e l’innovazione e rendersi conto delle problematiche legate alla validità e all’affidabilità delle informazioni disponibili e dei principi giuridici ed etici che si pongono nell’uso interattivo delle tsi».

È evidente quindi che la nozione di competenza digitale, se vuole avere una rilevanza educativa, deve implicare una visione di quadro, la capacità di saper valutare una varietà di soluzioni tecnologiche e il possesso di un’attrezzatura cognitiva e culturale di riferimento.

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Le dimensioni della competenza digitale

Capitolo IV - Floriana Falcinelli - Le tecnologie dell’educazione

Nella competenza digitale vanno quindi considerate tre dimensioni: – la dimensione tecnologica comprende la conquista di abilità e nozioni di base che consentono di valutare, produrre, presentare e scambiare informazioni, integrate con la capacità di scegliere le tecnologie opportune per affrontare problemi reali; – la dimensione cognitiva riguarda la capacità di leggere, selezionare interpretare e valutare dati, costruire modelli astratti e valutare le informazioni considerando la loro pertinenza e affidabilità; – infine la dimensione etica che implica il saper interagire con gli altri in modo responsabile e corretto stabilendo impegni e accordi nei confronti di se e degli altri (Calvani - Fini - Ranieri 2010). A queste dimensioni se ne può aggiungere un’altra definita partecipativa/relazionale, che implica il saper gestire le relazioni interpersonali online in modo costruttivo, negoziando la condivisione della conoscenza, rispettando il punto di vista degli altri e sapendo gestire efficacemente gli inevitabili conflitti (Petrucco 2010). La competenza digitale è alla base della cittadinanza digitale che è l’estensione naturale, il completamento e l’interpretazione globale delle nuove forme di interazione e di vita sociale e politica. La cittadinanza digitale non è una forma diversa di cittadinanza, ma l’estensione della cittadinanza come finora abbiamo inteso con le competenze a essa connesse (imparare a imparare, progettare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile, comunicare, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire e interpretare l’informazione) che debbono realizzarsi nel contesto virtuale allo stesso modo che nella vita reale. Questo implica avviare i giovani a una comprensione critica, a una presa di coscienza della complessità sociale e informativa proposta dai nuovi media affinché possano vederli anche come veicolo dei valori pedagogici della cittadinanza come il dialogo, la partecipazione alla realizzazione di una società migliore centrata sul valore della persona, la costruzione e la condivisione di attività orientate al bene comune (Fiorin 2009).

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Competenze digitali per l’e-democracy

Per promuovere l’e-democracy (Ministero per l’In- Superamento del digital divide novazione e le Tecnologie 2004) essere cittadini nella e avvento società dell’informazione non significa solo poter acce- dell’e-democracy dere ai servizi di una amministrazione pubblica più efficiente, capace di disegnare i propri servizi sui bisogni degli utilizzatori (e-government) ma anche poter partecipare in modo nuovo alla vita delle istituzioni (e-democracy). La e-democracy si articola in varie dimensioni: la e-inclusion, l’accesso all’informazione con particolare riferimento a quella prodotta da soggetti pubblici, l’accesso alla sfera pubblica per produrre informazione, la partecipazione alla formazione delle opinioni, il dialogo tra cittadini e istituzioni, l’assunzione di iniziativa da parte dei cittadini, la possibilità di voto, il coinvolgimento dei cittadini e delle loro forme associative in specifici processi decisionali. L’acquisizione della competenza digitale permette il superamento del digital divide (sociale, geografico, generazionale) e offre ai cittadini la possibilità di esercitare i propri diritti, anche nella prospettiva delineata da Horizon 2020, il Framework Programme for research and innovation della Commissione Europea.

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Le tecnologie dell’educazione. Mappa concettuale

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Capitolo quinto

Ricerca didattica e contesti di apprendimento Nuovi costrutti epistemologici Loretta Fabbri

Una riflessione sulla ricerca didattica chiede oggi di esplicitare gli ancoraggi teorici e le implicazioni operative che rappresentano i punti di riferimento condivisi da coloro che a diversi livelli e da diverse prospettive si occupano di studiare i processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza nei diversi contesti lavorativi e di vita quotidiana. Si tratta di situare la ricerca didattica dentro un vocabolario condiviso da una comunità scientifica paradigmaticamente impegnata ad affrontare in maniera più sistematica il tema dell’apprendere e del conoscere nei diversi contesti sociali. Le discipline e le aree di ricerca che si occupano di questi territori di confine – dalle scienze sociali a quelle psicologiche fino agli studi organizzativi – sono sempre più impegnate a costruire framework concettuali utili a delimitare nuove traiettorie di specificazione epistemologica, in cui poter legittimare nuove alleanze e scambi tra i saperi scientifici e quelli professionali. Il capitolo chiama in causa un impianto argomentativo che offre alcune traiettorie di lettura a partire dalle quali cercare di dipanare alcuni fondamenti della ricerca didattica. A me l’impegno di delineare i percorsi che vale la pena di privilegiare.

1. Studiare oggetti situati. Dai modelli alle pratiche Nell’ultimo ventennio nel panorama internazionale ha avuto luogo una significativa svolta epistemologica che ha sottolineato la

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Capitolo V - Loretta Fabbri - Ricerca didattica e contesti di apprendimento

necessità di adottare un diverso approccio allo studio degli eventi e dei fenomeni sociali. Dentro un quadro teorico e metodologico in cui non è diventato ancora scontato interrogarsi su “che cosa debbono studiare gli scienziati sociali e come possono farlo”, studiosi diversi hanno introdotto l’idea che la ricerca debba focalizzarsi su “oggetti situati”, siano essi il lavoro, la formazione, l’apprendimento o le organizzazioni. Si tratta di prospettive che con il termine “situato” intendono evidenziare due aspetti che caratterizzano l’oggetto indagato. Esso è “socialmente situato”, cioè prodotto dalla storia di un ambiente, dai suoi sistemi di significato, dalle consuetudini e dalle routine sedimentate nel contesto sociale. Parallelamente, il termine “situato” indica anche una pratica che è sempre “emergente”, cioè aperta al cambiamento e all’innovazione. Quando in un processo di indagine vengono circoscritti degli oggetti di interesse connessi a dei soggetti, a un gruppo o a un’organizzazione, questi devono essere avvicinati e studiati in relazione alle variabili situazionali e ambientali, ai vincoli materiali e immateriali che definiscono il sistema di attività nel quale sono immersi (Engeström - Miettinen - Punamäki 1999; Wertsch 1991). Tradotto in termini metodologici, ciò significa misuDidattica degli rarsi con le difficoltà di un’attività condotta in un «amambienti biente ordinario» (Clot 2006, p. 127). La ricerca si avvi“ordinari” cina allo studio delle condizioni di vita del quotidiano, quelle che nascono nell’ambiente naturale. Come studiosi siamo chiamati a confrontarci con le abilità anonime, le rappresentazioni di senso comune, le analisi della ragione pratica e soggettiva di chi è coinvolto nel processo euristico. L’istanza che ha caratterizzato negli ultimi decenni le scienze sociali di assumere come oggetti di indagine fenomeni storicamente e socialmente connotati si è tradotta in dispositivi metodologici in Dispositivi  metodologici grado di indagare la complessa fenomenologia degli eventi umani cogliendone la dimensione idiografica. La ricerca didattica condivide da tempo traiettorie teorico-metodologiche interessate ad analizzare le pratiche di vita quotidiana, a studiare come l’agire si realizza all’interno dei contesti sociali, pro-

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Studiare oggetti situati. Dai modelli alle pratiche

fessionali e lavorativi, ridimensionando approcci di ricerca individualistici, decontestualizzati e universalistici. Tuttavia, si registra come gli studi didattici abbiano spesso privilegiato la ricerca sulle pratiche educative formali. Sia sufficiente ricordare le ricerche riguardanti la progettazione o i modelli didattici. La riflessione sui modelli formali della programmazione e dei curricula ha, per lungo tempo, avuto la meglio sullo studio delle pratiche reali di insegnamento-apprendimento. La ricerca sui modelli didattici, per esempio, ha avuto come focus comune l’implementazione di pratiche formali costruite sulla base di rappresentazioni diverse dell’insegnamento-apprendimento. La focalizzazione sullo studio delle pratiche di progettazione reali, così come della Pratiche di gestione delle attività educative, ha segnato la crisi progettazione  non solo delle loro descrizioni formali ma anche dell’idea di poter interpretare il rapporto tra teorici e pratici attraverso un paradigma applicativo. Al pari di quanto successo in altri ambiti scientifici, gli studi sulle pratiche educative hanno consentito di scoprire la specificità e la diversità delle strategie reali con cui le persone affrontano uno stesso compito lavorativo. Sia che si tratti di progettare traiettorie di apprendimento o di gestire processi di costruzione della conoscenza, l’osservazione delle pratiche reali mostra un’enorme eterogeneità nelle modalità di problem solving. Soprattutto ha fatto emergere forme di intelligenza individuale e organizzativa che sostengono l’elaborazione di pratiche non canoniche, “diversamente esperte”, flessibili (Stenberg 2000). A partire dalla tematizzazione di questi argomenti e dall’evidenza empirica dei limiti di un approccio basato sullo studio dei processi di adozione ad arte dei professionisti di modelli ritenuti promettenti da parte della comunità dei ricercatori, si è aperto un lungo processo di riflessione intorno ai correttivi e alle trasformazioni che avrebbero dovuto caratterizzare i nuovi paradigmi della ricerca didattica, soprattutto nella sua declinazione di ricerca-formazione. Il crescente interesse verso lo studio della conoscenza professionale confluisce, per esempio, verso un comune sforzo di condivisione di quelle epistemologie professionali che muovono dalla legit-

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Capitolo V - Loretta Fabbri - Ricerca didattica e contesti di apprendimento

timazione della pratica come processo in grado di produrre conoscenza. In particolare, il paradigma riflessivo (Schön 1993), il costrutto di comunità di pratica (Lawe - Wenger 1991), la teoria dell’apprendimento trasformativo e situato (Mezirow 1991; Marsick Cederholm - Turner - Pearson 1992) hanno definito lo sfondo teorico-concettuale o, in altri termini, i nuovi campi tematici, su cui si stanno riscrivendo non solo le pratiche formative, ma anche i modi con cui studiarle (Fabbri - Striano - Melacarne 2008). Studiare le pratiche significa incontrarsi con l’auConoscenza tonomia teorica della conoscenza pratica. La forza  pratica epistemologica della pratica sta nel riconoscimento del suo ruolo nei processi di costruzione della conoscenza e il conseguente riconoscimento delle persone come soggetti che apprendono da ciò che fanno e producono saperi capaci di interpretare e risolvere i problemi che incontrano. La condivisione di questi assunti invita a spostarsi verso lo studio delle interazioni di specifici attori in azione nei contesti quotidiani, nei luoghi di lavoro, all’interno dei setting non formali di apprendimento. Le attività educative e formative sono realizzate da più attori sociali in situazioni di intersoggettività che si muovono dentro organizzazioni nelle quali la produzione di significato varia a seconda dei contesti interattivi a cui l’attore organizzativo partecipa. Il sempre più diffuso riconoscimento della funzione di mediazione della cultura ha contribuito a discutere e a problematizzare la possibilità di studiare gli individui e le loro azioni come soggetti isolati dalle reti di significato che connotano le comunità di cui fanno parte. Risulta alquanto difficile continuare a tematizzare i processi educativi e formativi in termini decontestualizzati, come processi “individuali”. Ciò che si è chiamati a rivalutare è la dimensione collettiva, socialmente distribuita e organizzata dentro la quale si situano e, quindi, si interpretano rapporti, relazioni e azioni educative e formative. Le pratiche professionali, i saperi situati, i processi di costruzione della conoscenza da parte delle comunità professionali, i processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza nelle organizzazioni, sono altrettante sfide che interrogano oggi la ricerca didattica e educativa.

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Teoria e metodologia per l’apprendimento

Insieme all’investimento e all’impegno tradizionale di costruire teorie generali, la finalità della ricerca in ambito educativo e formativo è sempre più quella di focalizzarsi anche sulla costruzione di local theory che sappiano rendere conto di azioni situate, che siano l’esito di un approccio dialogico e partecipativo alla costruzione della conoscenza e che siano in grado di generare trasformazioni condivise.

2. Sfondi teorico-metodologici per la progettazione e la gestione dei contesti di apprendimento I costrutti di apprendimento e di costruzione della co- Teoria della noscenza rappresentano nell’attuale scenario socio-econo- coltivazione riflessiva mico la risposta più condivisa a una società che riconosce tali fattori come i propulsori emancipativi dello sviluppo personale, sociale e organizzativo. L’attenzione attuale è a una traiettoria strategica definibile come ricerca dei dispositivi in grado di sollecitare, coltivare, indirizzare gli apprendimenti che abitano le organizzazioni e caratterizzano, durante l’arco della loro vita e nello svolgimento delle diverse funzioni, le persone e le loro comunità. L’interesse della ricerca didattica verso l’apprendimento adulto e lo studio dei contesti organizzativi hanno facilitato l’incontro, e in alcuni casi la contaminazione, con l’educazione degli adulti, con gli studi sull’apprendimento organizzativo e con le traiettorie di ricerca che oggi chiedono di ripensare lo stesso apprendimento scolastico a partire da un confronto con le forme di apprendimento che avvengono nei contesti lavorativi. Da qui sono discesi alcuni assunti oggi largamente condivisi: 1. L’apprendimento non è identificabile solo con Apprendimento quello che avviene in quei particolari contesti formali come apprendistato che sono le scuole, non è più visto come un’acquisizione mentale individuale, ma come acquisizione sociale nella cornice complessa della partecipazione a pratiche che caratterizzano le comunità di appartenenza. La metafora dell’apprendistato – nata per altro in ambito socio-educativo – aiuta a comprendere meglio l’idea di apprendimento (Ro-

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Capitolo V - Loretta Fabbri - Ricerca didattica e contesti di apprendimento

goff 2006) come una pratica contestualizzata, graduale, inserita in un contesto significativo di attività. L’apprendistato diventa la metafora attraverso la quale l’apprendimento si configura come traiettoria di partecipazione progressiva e situata dei novizi alle comunità di riferimento (Wenger 2006). 2. Da campi diversi emerge una problematizzazione Apprendimento della concezione rappresentazionale e cognitiva della cosociale noscenza, la quale è collocata metaforicamente “nella testa delle persone” ed è vincolata agli stadi di sviluppo dei processi mentali. L’esplosione del tema dell’apprendimento sociale e organizzativo ha dato luogo a una letteratura ampia e diversificata che ha promosso una rinnovata concezione della conoscenza come attività situata in una ecologia relazionale (Gherardi - Bruni 2007). Dentro questa prospettiva il focus è dato dalla valorizzazione e dallo sviluppo della conoscenza che si genera emergente in situ dalla dinamica delle interazioni (Suchman 1998). Si delineano elementi significativi che definiscono nuove piste di lavoro fondate su una “epistemologia relazionale” della conoscenza in cui il conoscere diventa un processo che coinvolge l’intera persona e l’apprendere implica quindi il divenire una persona diversa in relazione alle possibilità aperte da questi sistemi di relazioni. 3. Un’altra sottolineatura importante da fare riguarda la Conoscenza nuova idea di “sapere” che si è affermata. Il “sapere” non si negoziale riduce alla scienza e nemmeno alla conoscenza, non è costituito soltanto da un insieme di enunciati denotativi. In esso convergono le idee di saper fare, saper vivere, saper ascoltare. Conoscere non significa acquisire solo un sapere, ma essere in grado di generarlo attraverso il confronto con gli altri, l’apprezzamento di punti di vista diversi dal proprio, la capacità di accettare soluzioni condivise. Ciò che risulta da queste posizioni è l’idea della conoscenza come attività socialmente costruita che rimanda a processi conversazionali, scambi, confronti dialettici tra una pluralità di attori che sono alle prese con problemi da risolvere, con questioni da elaborare, con criticità da capire e decifrare. Si sottolinea inoltre il ruolo dell’imprevedibilità, della situazionalità come fattori in grado di attivare nuove forme di sapere derivanti da processi riflessivi capaci di conversare

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Teoria e metodologia per l’apprendimento

con le situazioni (Schön 1993) e generare conoscenze utili a risolvere questioni caratterizzate da ambiguità e imprevedibilità chiamando in causa le conoscenze in uso, depositate nelle azioni dei soggetti. 4. Un altro punto di riferimento è dato dal riconosciComunità mento che l’apprendimento e la conoscenza sono proprietà di pratica delle comunità in quanto processi situati e incarnati nelle persone. È a partire dal modello dell’inquiry deweyana, Dewey A dall’accento posto da molte ricerche sul ruolo giocato dalla razionalità riflessiva, che gli studi legati all’ambito dell’educazione degli adulti si sono legati agli studi sulle epistemologie professionali e alla svolta epistemologica del professionista riflessivo che fa capo a Schön. Gli studi sulle Comunità di pra- Comunità tica (CdP) hanno messo in evidenza una notevole crea- di pratica  tività e capacità di apprendimento da parte di diversi attori organizzativi. Una misura di intelligenza individuale, ma soprattutto organizzativa è data proprio dal grado di creatività delle strategie con cui ognuno svolge e affronta il proprio lavoro. II termine CdP è maturato dentro un settore di ricerca nato in un ambito di confine tra studi educativi sull’apprendiTeoria sociale mento e studi organizzativi. Questa prospettiva, T dell’apprendimento infatti, parte da una definizione sociale di apprendimento per analizzare come le organizzazioni dipendano dai sistemi sociali di conoscenza e ciò delinea nuove piste di lavoro orientate a valorizzare e apprezzare i processi di costruzione di conoscenza generati dalle comunità sia per imparare ciò che devono imparare sia per validare e sviluppare i propri sistemi di conoscenza. Dal versante della ricerca psicopedagogica, una visione dell’apprendimento come processo costruttivo, sociale e contestuale ha permesso così di studiare i contesti di lavoro come luoghi privilegiati per capire i processi di acquisizione delle conoscenze negli adulti, oltre a fornire chiavi di lettura innovativa per trattare in modo efficace il problema dell’apprendimento organizzativo. Come accompagnare le comunità professionali a sviluppare, validare, trasformare il proprio agire è la sfida a cui devono rispondere

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Capitolo V - Loretta Fabbri - Ricerca didattica e contesti di apprendimento

gli studi didattici. La ricerca di strategie di sostegno alle traiettorie di apprendimento dei singoli e delle comunità rappresenta il focus trasversale ai diversi paradigmi disciplinari. Sia per quanto riguarda i processi di costruzione della conoscenza nei contesti scolastici che in quelli lavorativi si condivide una svolta paradigmatica. Incrementare i processi di acquisizione della conoscenza significa apprezzare il lavoro di costruzione delle comunità e adoperarsi perché i partecipanti possano accedere alle risorse necessarie per imparare ciò che devono imparare allo scopo di intraprendere azioni condivise e validate. Dal versante metodologico la ricerca didattica è sempre Metodologie più chiamata ad adottare approcci capaci di accompadi ricerca gnare, sostenere o trasformare le traiettorie di sviluppo immersive delle persone e delle organizzazioni. La ricerca-azione, la ricerca partecipativa, le metodologie qualitative sono alcune delle strade che hanno segnato una svolta nell’apprezzamento di indagini interessate a rintracciare i legami che collegano le scienze al mondo sociale. Dentro questo sfondo alcune traiettorie di ricerca tendono a situare la costruzione della conoscenza didattica dentro la complessità del reale, delle sue dinamiche e relazioni. Quando la ricerca si avvicina alle sedi “dove nascono i fatti” si entra nel cuore delle controversie. Passando dalle teorie alle pratiche quotidiane, aumenta il rumore, si moltiplicano le questioni, si complessificano i problemi. Si apre uno spazio conoscitivo altrimenti non raggiungibile: immergersi, intervenire è anche conoscere. La ricerca si configura come un’attività che, non potendo svolgersi in un laboratorio sperimentale o far ricorso a teorie generali per giustificare le proprie tesi, deve spostare la propria attenzione sulle dinamiche sociali e sulle situazioni ambientali del contesto preso in esame, in quanto variabili decisive per la comprensione del fenomeno studiato e per la progettazione del progetto di ricerca.

2.1. (Ripensare le) Pratiche scolastiche Parlare di scuola significa oggi tematizzare alcune criticità che chiedono di ripensare l’apprendimento scolastico e il modo di stu-

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Teoria e metodologia per l’apprendimento

diare le pratiche educative. Nel suo discorso presidenziale Pratiche tenuto nel 1987 all’American Educational Research As- educative  sociation, Lauren Resnick (1995) ha sollevato la questione della discontinuità tra apprendimento a scuola e conoscenza fuori dalla scuola sottolineando in particolare l’astrattezza delle conoscenze e delle capacità acquisite a scuola rispetto al loro uso nel mondo. La soluzione auspicata non è certo quella di addestrare gli studenti a particolari lavori, un compito che tutti ormai concordano sia meglio lasciare a forme perfezionate di addestramento sul lavoro. La scuola dovrebbe concentrare piuttosto i suoi sforzi nel preparare le persone a essere capaci di imparare in modo adattivo, così che possano produrre prestazioni efficaci quando le situazioni sono imprevedibili e il compito richiede dei cambiamenti. Al riguardo Resnick crede che sia possibile prefigurare soluzioni a partire dalla promozione di linee di ricerca diversificate sull’apprendimento in contesti scolastici ed extrascolastici. Molti studi hanno documentato come le pratiche di insegnamento e apprendimento che prendono forma dentro la scuola esprimano un alto grado di eterogeneità delineando traiettorie di apprendimento più o meno promettenti. Alcune ricerche si sono focalizzate sulla capacità di scrittura muovendosi sia in ambienti educativi che lavorativi. Queste mostrano come le persone considerate scrittori abili in un contesto spesso siano giudicate scrittori inesperti in un contesto nuovo. Ne sono esempi quegli studenti di Giurisprudenza più brillanti che scrivono con successo sulle riviste di giurisprudenza durante il corso di studio, i quali sono successivamente giudicati scrittori di poco conto quando entrano negli studi legali e devono preparare un memorandum riassuntivo. Parallelamente, gli studi di Lave mostrano come quegli apprendisti macellai, che dentro una scuola professionale imparano a tagliare la carne secondo procedure appartenenti a “protocolli” che caratterizzano i negozi di macelleria, risultano del tutto inadatti per svolgere tale lavoro nei supermercati. Questo studio ci dà la cifra di come alcuni curricoli scolastici possano configurarsi come marginali e insignificanti rispetto a quanto sarà centrale nella vita professionale. Lo scollamento tra conoscenza scolastica e conoscenza extrascolastica sollecita la ri-

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Capitolo V - Loretta Fabbri - Ricerca didattica e contesti di apprendimento

cerca a produrre sapere sulle pratiche didattiche in uso ma anche a delineare le condizioni per la loro trasformazione. Gli studenti sono tenuti lontani dal mondo sociale professionale in cui dovranno andare a collocarsi. Da una parte la scuola e le sue pratiche conoscitive rischiano di non consentire l’accesso al senso di ciò che si fa in funzione di dove lo si fa – il caso degli studenti di giurisprudenza o più in genere il significato del saper scrivere bene dipende dai contesti dentro i quali si esercita quella pratica – dall’altra si propongono attività decontestualizzate e marginali costruite su paradigmi autoreferenziali che accentuano la distanza tra conoscenza scolastica e conoscenza extrascolastica. Gli sfondi teorico-metodologici richiamati suggeriscono di parlare delle persone che apprendono come di apprendisti, di apprendistato cognitivo, della possibilità di riconsiderare l’educazione scolastica secondo la prospettiva offerta dal concetto di partecipazione periferica legittima. L’apprendimento scolastico viene ripensato alla luce di discipline diverse che hanno contribuito a delineare un insieme di costrutti teorici che si coniugano da un lato con l’ampliamento di prospettiva con cui si considera il fenomeno “apprendimento” con altri fenomeni della vita sociale e, dall’altro, con una ridefinizione della problematica dell’acquisizione della conoscenza a scuola (Pontecorvo - Ajello - Zucchermaglio 1995). Ad una esigenza epistemologica di contaminazione tra gli studi sull’apprendimento dentro e fuori la scuola si accompagna l’istanza di sviluppare ricerche partecipative che riscrivano i rapporti tra conoscenza professionale e conoscenza scientifica. Queste indagini dimostrano come lo studio emApprendimento pirico e situato dei processi di costruzione della co sociale noscenza e di apprendimento possa fornirci una conoscenza più circostanziata di ciò che accade nei contesti reali. L’educazione scolastica ha a che fare con il modo in cui gli adulti intendono riprodurre se stessi e quindi si configura come un problema sempre aperto. Quale comunità di pratica si sta riproducendo nella scuola? Quali relazioni i nuovi arrivati possono trovare in tale comunità? E quali relazioni si istaurano con la vita culturale della co-

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Teoria e metodologia per l’apprendimento

munità? Sono domande cruciali che impegnano la ricerca educativa internazionale quale che sia l’opzione teorica adottata. La ricerca di approcci alternativi alla tradizionale dicotomia fra l’apprendere attraverso l’esperienza e l’apprendere a distanza, l’apprendere facendo e l’apprendere per astrazione ha aperto molteplici piste di ricerca che tentano di guardare, studiare e comprendere le pratiche educative così come prendono forma nelle comunità scolastiche. Dal versante procedurale della ricerca didattica si tratta di guardare alla scuola, agli insegnanti, ai soggetti in formazione, ai gruppi, ai contesti, ai contenuti e ai metodi come oggetti di studio e non come campo di applicazione di ricerche svolte in altri campi. La scuola cambia in relazione anche alla capacità delle comunità scientifiche di riconoscere in essa un’organizzazione che produce sapere didattico. I ricercatori che si occupano di scuola sono tenuti a conoscere gli oggetti di cui si occupano, ad aprire le proprie teorie alla ricerca. Nessuna teoria può ritenersi o dirsi conclusiva rispetto al campo o ai problemi che questo pone. Spesso l’attenzione verso lo studio dei modelli ha concentrato il focus della ricerca sui processi di implementazione di nuove pratiche didattiche piuttosto che sulla loro conoscenza ed eventuale negoziazione dei processi di sviluppo e cambiamento. In questi ultimi decenni la ricerca didattica ha condiviso un’attenzione verso lo studio delle culture professionali ed educative che poi ha significato lavorare per la costruzione di teorie didattiche empiricamente fondate. L’idea di una pratica come contesto generatore di conoscenza ha cambiato e riscritto i rapporti tra ricerca scientifica e ricerca professionale. La ricerca didattica inizia a ridefinirsi a partire dal dibattito intorno a quella che si è delineata come vera e propria zona critica tra attività d’indagine e sviluppo professionale. Ciò che è emerso sono i limiti di approcci euristici che non sono riusciti a tematizzare un’intesa simmetrica tra le attese necessariamente diverse dei professionisti e dei ricercatori, che non sempre è riuscita a valorizzare le conoscenze prodotte dentro le comunità professionali. In questo senso la ricerca, che ha obiettivi di intervento o intende es-

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Capitolo V - Loretta Fabbri - Ricerca didattica e contesti di apprendimento

sere finalizzata allo sviluppo professionale, è una ricerca dialogica che consente di attivare le diverse competenze di cui il ricercatore e gli attori coinvolti sono portatori per poter co-costruire e condividere i processi di cambiamento. La dialettica tra i saperi professionali e i saperi scientifici è la base che legittima la compartecipazione alla costruzione di teorie pratiche generate dal contesto e potenzialmente in grado di generare nuovi corsi di azione.

2.2. Le pratiche organizzative Dal versante della ricerca educativa e didattica, emerge un impegno sempre più rilevante e diffuso a tracciare traiettorie in grado di indagare in maniera specifica e sistematica il mondo delle organizzazioni e i contesti lavorativi accreditandoli e interpretandoli come luoghi dentro i quali i soggetti hanno la possibilità di prendere forma e trasformarsi apprendendo, costruendo conoscenza, strutturando identità capaci di partecipare a sistemi sempre più complessi in cui è più stretto il rapporto tra innovazione organizzativa e processi di apprendimento (JoA Jonassen nassen - Land 2000; Fabbri 2008; Rossi 2011; Alessandrini 2004). In questo senso, i temi tradizionali dell’apprendere e del conoscere si ridefiniscono dentro nuove trame concettuali e soprattutto “traslano” verso i contesti lavorativi e le comunità di pratiche (CdP). I termini di comunità e di pratica hanno introdotto un promettente punto di vista nell’interpretazione delle organizzazioni come sistemi sociali di apprendimento ponendo al centro dell’attenzione la ricerca di dispositivi in grado di sostenere e accompagnare di tali sistemi. Condividere un’idea, lavorare, prendere decisioni, costruire progetti con altri colleghi sono processi che quotidianamente caratterizzano e definiscono i contesti organizzativi che abitiamo. L’organizzaUna nuova idea di organizzazione zione è tematizzata come un’attività collettiva non riconducibile né a una struttura astratta, né alle singole persone che vi lavorano. Essa si configura come un bricolage collettivo orientato a dare una forma all’esperienza tale da renderla utile alla soddisfazione dei diversi bisogni, interessi e obiettivi che

Comunità di pratica

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Teoria e metodologia per l’apprendimento

circolano al suo interno (Zucchermaglio - Alby 2006). Tale bricolage non è imposto. Esso emerge come prodotto dell’interazione tra persone, artefatti e sistemi di significato e si configura come forma peculiare di apprendimento sociale. I co- Cognizione distribuita  strutti di “cognizione distribuita”, di “intelligenza pratica”, di “learning organization” permettono di vedere i contesti organizzativi come luoghi sociali di produzione di conoscenza e invitano così a studiarli come luoghi di formazione e autoformazione. Ciò richiede lo studio empirico delle modalità mediante le quali le persone producono e trovano nello svolgimento della loro attività criteri ed elementi per la realizzazione dell’azione situata in corso. Queste sono le sfide che spingono la ricerca didattica a studiare le pratiche lavorative in una prospettiva di sviluppo trasformativo. Le attività svolte quotidianamente, e la ricerca di dispositivi metodologici che ne consentano lo sviluppo, diventano così legittimi oggetti di ricerca anche dal punto di vista didattico in quanto le nuove prospettive epistemologiche tematizzano il conoscere come un processo non solo euristico ma anche trasformativo. Pensiero pratico Il quadro interpretativo e metodologico che viene proposto dal campo dei practice-based studies offre nuove categorie di analisi del lavoro e dei processi di conoscenza che in esso si attivano, ricomponendo dicotomie quali mente/corpo e materialità/immaterialità, nell’assunto dell’equivalenza tra fare e pensare. «Lavorare è uno stare nel mondo» (Gherardi - Bruni 2007, p. 54) legato alla realizzazione di un progetto e ha a che fare con la partecipazione a sistemi sociali di apprendimento. Il concetto di pensiero pratico, che guida questi approcci, non implica alcuna presupposizione circa la sua relazione con il pensiero teorico, né una dicotomia tra la sfera intellettuale e quella manuale dell’azione umana. Il pensiero pratico si riferisce a tutto il pensiero che fa parte di attività più ampie e che agisce per realizzare gli scopi di quelle attività (Scribner 1986). È il sapere pratico a costituire il valore del lavoro: lavorare non è conoscere una serie di pratiche, bensì sapere in pratica come fare un mestiere o una professione, è un saper fare in situazione, un saper lavorare insieme che intesse relazioni tra per-

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Capitolo V - Loretta Fabbri - Ricerca didattica e contesti di apprendimento

sone, oggetti, linguaggi, tecnologie, istituzioni, norme. Una visione non razionale e astratta di ciò che accade nei contesti organizzativi e più attenta alla dinamicità e generatività delle comunità professionali riscrive l’agenda degli impegni della ricerca didattica.

2.3. Le pratiche formative Gli studi organizzativi e le nuove epistemologie professionali hanno contribuito a mettere in crisi una visione della formazione come impresa di knowledge delivery, come dispositivo separato dal contesto lavorativo. Per molti anni la formazione è stata pensata e organizzata con gli stessi criteri con cui venivano progettati i setting educativi dei contesti scolastici tradizionali. Tali studi hanno sollecitato la ricerca di nuovi dispositivi formativi capaci di valorizzare i saperi degli attori organizzativi e il ruolo della pratica nei processi di costruzione della conoscenza. In particolare la teoria dell’apprendimento trasformativo (Mezirow 2003; Marsik 2012) e la teoria della coltivazione (Wenger 2006) hanno contribuito ad aprire un filone di ricerca sui dispositivi di sostegno, di sviluppo e di trasformazione dei processi di apprendimento situati e generati dagli scambi tra attori che condividono un problema, un interesse e si confrontano per cercare di trovare una soluzione a partire dalle conoscenze e dai saperi di cui sono portatori. Il confronto, lo scambio, la messa in comune, la capacità di imparare dagli altri diventano gli strumenti per costruire conoscenza e per accrescere le proprie capacità di apprendimento. Un punto di riferimento, specificatamente educaApprendimento tivo, raccoglie le indicazioni di Mezirow (2003) sultrasformativo l’apprendimento trasformativo, ovvero sui dispositivi formativi e auto-formativi che consentono ai soggetti di esercitare un’azione di validazione/trasformazione dei processi, dei contenuti e delle premesse dell’esperienza personale e professionale (Watkins - Marsick 1992). È dentro questo quadro che la formazione si è precisata così come progettazione delle risorse di apprendimento attraverso la promozione di transizioni riflessive (Fabbri 2008). La riflessività ha assunto il significato sia di una metodologia per l’anaComunità riflessive

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Teoria e metodologia per l’apprendimento

lisi del sapere pratico sia di una forma di competenza che consente alle comunità di pratiche un controllo riflessivo del sapere che generano e degli effetti che questo produce. Essa ha offerto strumenti concettuali e operativi per sviluppare attività di autointerpretazione, sviluppo e trasformazione del pensiero e delle pratiche lavorative. Si sono affermate così linee di ricerca che hanno aperto molte piste di lavoro promettenti risolvendo alcune questioni ma lasciandone aperte altre. Wenger rende bene l’idea della zona dentro la quale è chiamata a muoversi la formazione: «Nessuna comunità può progettare compiutamente l’apprendimento di un’altra comunità. E nello stesso tempo nessuna comunità può progettare compiutamente il proprio apprendimento» (Wenger 2006, p. 27). Affermare che le comunità di pratiche sono già coinvolte nel progetto del loro stesso apprendimento, perché alla fine saranno loro a decidere cosa devono imparare, non significa affermare che una prospettiva localmente situata sia intrinsecamente valida. Se è vero che una comunità include l’apprendimento come fatto scontato nella storia della sua pratica, che l’apprendimento appartiene al mondo dell’esperienza e della pratica e segue la negoziazione dei significati e si sviluppa con le sue regole, ovvero si determina ovunque, con o senza la formazione, è altrettanto vero che apprendere nella pratica non significa affermare che tutto ciò che si muove dentro una comunità di pratica è apprendimento. Le comunità di pratiche hanno bisogno anche di disapprendere, trasformarsi, evolvere. Al riconoscimento e alla legittimazione del sapere pratico come patrimonio delle comunità professionali si è accompagnata la questione di come consentire a questi saperi di validarsi, di diventare visibili, di circolare in contesti più ampi, di trasformarsi. Marsick, lavorando con il costrutto di comunità di pratica e di apprendimento trasformativo nei contesti di vita e di lavoro, sottolinea nei suoi recenti lavori come le comunità o le organizzazioni si trovino a sperimentare in momenti diversi della loro storia, vincoli e quindi possibilità di innovarsi differenti. Nei contesti di lavoro, come negli altri contesti sociali, la questione di fondo è “che cosa

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Capitolo V - Loretta Fabbri - Ricerca didattica e contesti di apprendimento

renda l’apprendimento così profondo ed efficace, dato che non è organico” (Marsick 2011, p. 19), che non è l’esito di soli processi naturali e spontanei di generazione di conoscenza. Da questi e altri studi una grande enfasi viene posta così sullo studio dei setting formativi che possono agevolare l’innovaInnovazione  organizzativa zione organizzativa e lo sviluppo personale e professionale, evidenziando interessanti piste di lavoro in cui si enfatizza a volte il legame stretto tra i bisogni di innovazione e le condizioni di sviluppo organizzativo, altre volte il legame tra riconoscimento e motivazione al cambiamento (Cooperrider - Sorensen - Whitney - Yaeger 2000), altre volte ancora i limiti stessi dell’apprendere dall’esperienza quando questa viene ricondotta alla sola esperienza del soggetto in formazione (Taylor 2011). Al grande guadagno culturale e professionale, quello cioè di riconoscere la rilevanza dei saperi situati dentro le pratiche, ha corrisposto la sfida di individuare i modi attraverso cui tali saperi in azione vengono messi in circolazione, viaggiano nel tempo e nello spazio, diventano parti di repertori e mutano in modo sostanziale nel corso di tale processo. Sicuramente il paradigma dell’apprendimento situato coniugato con quello dell’apprendimento trasformativo ha prefigurato set formativi dove l’attività lavorativa diventa oggetto di parola e di pensiero con l’obiettivo di riconsegnare ai soggetti in formazione una consapevolezza critica del loro agire e una competenza che consenta loro di partecipare e co-costruire i processi di cambiamento e innovazione che ogni professione richiede e porta con sé.

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Ricerca didattica e contesti di apprendimento. Nuovi costrutti epistemologici. Mappa concettuale

Capitolo sesto

Didattica e apprendimento nelle organizzazioni Franco Bochicchio

1. Didattica e postmodernità Nella prospettiva didattico-pedagogica l’attuale realtà è teorizzata come una collettività globale, socialmente interconnessa ed evoluta, dove le conoscenze sono riconosciute fattore strategico per lo sviluppo dei processi produttivi e l’apprendimento è condizione per il funzionamento e l’innovazione dei sistemi sociali (Paparella 2012). Un ambiente dove le nuove tecnologie, nell’ampliare spazi di azionedecisione-scelta favoriscono nuove opportunità di crescita per le persone. Valicando un costume culturale ancora diffuso dominato da pregiudizi ereditati da un passato dal quale la didattica si è da tempo affrancata (Calonghi 1993), la presenza del tema in questo manuale rimarca che nella postmodernità, il campo della didattica non è identificabile né con l’istruzione né con il mondo della scuola, ma abbraccia le esperienze umane in senso life-wide: apprendimento durante tutto il corso della vita e in ogni luogo. Esperienze che, pertanto, comprendono anche la formazione continua e la formazione degli adulti. Dal punto di vista pedagogico, postmo- La postmodernità: significato dernità in negativo significa presa di distanza dalla conformità, rifiuto di spinte omologanti, abbandono di concezioni ideologiche. In positivo, il termine enfatizza la capacità dell’uomo di affrontare l’incertezza, di adattarsi il meglio possibile al mutare degli eventi, di essere protagonista attivo della propria vita,

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Capitolo VI - Franco Bochicchio - Didattica, apprendimento, organizzazioni

di acquisire maggiore autonomia e responsabilità in vista di raggiungere gli auspicati traguardi di vita e di lavoro (Bochicchio 2011b). Nella postmodernità anche il termine “organizzazione” assume originali connotazioni di significato, superando il tradizionale richiamo a comunità produttive dove decisioni, scelte e valori sono strumentali al business. In particolare, l’organizzazione è considerata un ambiente sociale (che comprende aziende private, pubbliche amministrazioni, scuole, imprese che operano nel settore dei servizi alle imprese e alle persone ecc.) produttore di soggettività, dove è possibile favorire l’educabilità degli adulti coniugando processi produttivi e processi formativi. In questa prospettiva muta anche Il lavoro nella il tradizionale significato del lavoro, per lungo tempo postmodernità considerato un’esperienza negativa, alienante e frustrante, dove adesso prevalgono connotazioni più positive: «Lavoro come esperienza che coinvolge il pathos, il logos e l’ethos, ovvero il corpo, la mente, le emozioni, i sentimenti, i significati e i valori della persona, permettendo alla personalità di realizzarsi compiutamente» (Rossi 2008, p. 11).

Conseguentemente, il lavoro e la professione si connotano come dimensioni realizzativo-trasformative del sé, assumendo centralità nel progetto educativo (Galliani 2003). La realtà quotidiana sembra tuttavia molto distante dalla realtà teorizzata. Sul piano delle decisioni, delle scelte e dei valori, l’oggettività (organizzativa) sembra travalicare la soggettività (individuale). Da un lato il lavoro è un privilegio riservato a pochi al quale molti legittimamente aspirano; dall’altro, l’esperienza del lavoro – sul piano identitario – non sembra pienamente realizzare le aspirazioni degli occupati ma, viceversa, alimentare ansia e incertezza in coloro che sono preoccupati di perderlo. Gli ambienti di lavoro, luoghi del “convivere” Convivere nelle  organizzazioni tra soggetti cui non è dato scegliersi, da un lato

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Didattica e postmodernità

sono contenitori di emozioni, bisogni, desideri e vicende personali, dall’altro sono produttori di diseguaglianze, conflitti, ingiustizie e manipolazioni (Bochicchio 2011a). In breve, la postmodernità non sembra aver risolto contraddizioni e ambiguità. L’individuo sembra trovare considerazione e riconoscimento principalmente nelle categorie economiche della produzione e del consumo, soggiogato ai disegni dei grandi poteri finanziari (Giddens 1991). Il quadro delineato, inoltre, sembra ostacolare anziché favorire la transizione dalle organizzazioni che producono alle “organizzazioni che apprendono”. Come la didattica può contribuire a ridurre le Le sfide della didattica distanze tra realtà effettiva e realtà teorizzata? Come l’agire formativo deve connotarsi in vista di rendere praticabile la teoria? Sembra questa una tra le sfide più impegnative che attendono la didattica dal confrontarsi con il tema dell’apprendere nelle organizzazioni in modo esente dalla retorica, dove questo termine non designa il contesto del post-lavoro ma, piuttosto, il contesto del lavoro della conoscenza e delle professioni riflessive, aperto nel coniugare crescita umana e sviluppo delle organizzazioni. Su quali giustificazioni poggia l’assumere in carico tale sfida da parte della didattica? L’oggetto della didattica è l’insegnamento, assunto in coessenziale rapporto con l’apprendimento. In particolare: «…Tutto ciò che si fa perché un soggetto che intenda imparare, apprenda conoscenze relative ai diversi saperi, nella scuola e non, rendendo il processo di insegnamento – nei fini e nei mezzi – da casuale a organizzato» (Laneve 1997, p. 207).

La vocazione pragmatica della didattica trova altresì La vocazione pragmatica conferma nel proporsi come criteriologia del sapere (che della didattica privilegia la ricerca “in situazione”) e dell’agire (che punta a risolvere problemi pratici) ricercando continue mediazioni tra la teoria e la pratica (Paparella 1993). Didattica come scienza regolativa

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Capitolo VI - Franco Bochicchio - Didattica, apprendimento, organizzazioni

che elabora criteri di azione che operativamente si definiscono nei processi della decisione e della scelta, prospettando “sistemi di senso” utili sia per rispondere a criteri funzionalistici di efficacia/efficienza, sia per consolidare l’idea dell’azione razionale rispetto allo scopo (Galliani 1993, p. 91). In tempi recenti, la didattica è stata anche definita disciplina del sapere professionale (Calidoni 2000), dove la presenza di questo termine (“professionale”) non intende evocare il desueto paradigma empirico-praticista ma riaffermare il principio del conoscere in vista di agire (ovvero, l’improduttività dell’agire in assenza di informazioni pertinenti), dove decisioni e scelte non sono mai le migliori in assoluto ma piuttosto quelle possibili. Ambienti dove insegnanti e formatori agiscono La formazione come professionisti riflessivi, capaci di rendere conto ! dei formatori delle decisioni e delle scelte compiute, di personalizzare le strategie modellizzando ogni specifica situazione per come essa emerge nel processo formativo.

2. Apprendere nelle organizzazioni tra teorie e prassi Apprendere nelle organizzazioni è un concetto che può essere interpretato in modo duplice. Sul versante pratico sta a indicare esperienze educativo-formative intenzionali che hanno luogo in particolari ambienti sociali (le organizzazioni, appunto). Sul versante teorico sta a indicare condizioni strutturali e processuali dell’apprendere tipiche della postmodernità, incrociando due correnti di pensiero che per lungo tempo hanno proceduto di pari passo: – l’organizational learning (apprendimento orOrganizational learning ganizzativo) dove l’attenzione è focalizzata sul e learning organization processo dell’apprendere, con un orientamento più descrittivo; – la learning organization (organizzazione che apprende), dove l’attenzione è focalizzata sulla struttura dell’apprendere – considerata condizione regolativa del cambiamento e fattore endogeno di sviluppo di singoli, gruppi e comunità – con un orientamento più prescrittivo (Tsang 1997).

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Apprendere nelle organizzazioni tra teorie e prassi

Sull’assunto empirico-induttivo – tipico della ricerca didattica – secondo cui nessuna teoria trova applicazione in un preesistente “vuoto sociale” di convinzioni, linguaggi, modelli ed esperienze, anche se nell’apprendere nelle organizzazioni prevalgono istanze teoriche, è ingenuo ignorare che nei contesti produttivi le pratiche che a tale concetto si richiamano hanno una consolidata tradizione. Esperienze che per lungo tempo hanno seguito – o per meglio dire, “inseguito” – i cambiamenti privilegiando logiche di adattamento alle esigenze del sistema produttivo (Nanni 1996), anche se negli ultimi tempi si registra una positiva attenzione verso i bisogni delle “persone”, che fino al recente passato erano considerati “dipendenti” di nome e di fatto. Transizioni da non interpretarsi come fasi che temporalmente si succedono l’un l’altra escludendosi a vicenda, ma come chiavi di lettura che permettono di comprendere la varietà delle pratiche formative nelle organizzazioni e le teorie alle quali si ispirano, spesso in modo implicito: – il paradigma modernista, caratterizzato dall’adattamento dell’individuo agli imperativi del sistema sociale – tipico di attività addestrative – dove la principale preoccupazione è sui contenuti, ovvero sul che cosa insegnare; – il paradigma neomodernista, interessato a ricomporre la frattura fra l’individuo e l’organizzazione prospettando possibili mediazioni sul piano dei bisogni e delle attese. In queste pratiche dal che cosa insegnare il pensiero si amplia al come insegnare e, inoltre, a chi; – il paradigma postmoderno, dove la formazione tende a configurarsi come un processo dialetticamente, riflessivamente e soggettivamente aperto, per meglio fronteggiare l’imprevedibilità dei problemi. La preoccupazione dei formatori abbraccia qui dimensioni tipiche dell’approccio complesso nello studio dei fatti della realtà: che cosa insegnare, come, a chi, in quali ambienti, e con quali risorse e tecnologie.

2.1. Il paradigma modernista L’elemento dominante del paradigma modernista – dove prevalgono logiche deterministe e posi-

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La formazione come trasmissione di saperi

Capitolo VI - Franco Bochicchio - Didattica, apprendimento, organizzazioni

tiviste – è la “fedeltà”: agli imperativi del sistema sociale, ai bisogni di coloro che finanziano gli interventi (i committenti), ai contenuti “trasmessi” ed “esposti” dagli insegnanti (i formatori). Una formazione fedele, per definizione, è necessariamente esterna (e spesso anche estranea) al soggetto che apprende, poco interessata anche ai suoi bisogni. Nel nostro Paese queste pratiche si sono affermate soprattutto a partire dal secondo dopoguerra per rispondere alla crescente richiesta di mano d’opera qualificata proveniente dalle grandi aziende manifatturiere localizzate nel cosiddetto “triangolo industriale” (Torino, Genova e Milano). Si tratta di esperienze dove si impongono a qualcuno le risposte alle domande che altri hanno formulato e voluto, qualificandosi per finalità meramente “addestrative”, dove prevale la razionalità tipica del modello di organizzazione del lavoro fordista-taylorista. Il bisogno di formazione è “autocentrato”, considerato un requisito di funzionamento del sistema rispetto a regole stabilite dal sistema stesso. La progettazione privilegia la costruzione di sequenze di programmi addestrativi-istruttivi. Nella comunicazione didattica prevale la trasmissione di contenuti “esposti” dal formatore (che nella relazione educativa accentua la “sovra-esposizione” dell’insegnante) e la valutazione è interessata soprattutto ad accertare l’avvenuta acquisizione di capacità tecnico-operative.

2.2. Il paradigma neomodernista A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si sono affermate nuove correnti di pensiero – anche favorite dai significativi mutamenti avvenuti nella società, che nel denunciare i limiti dei precedenti approcci e delle pratiche correlate, hanno insistito sull’opportunità di restituire centralità al soggetto che apprende e di tenere conto delle influenze dell’ambiente, evitando alla formazione di assumere i caratteri della conformazione secondo un risultato atteso che ha valore soltanto nell’esecuzione e nell’applicazione. L’affermazione del paradigma neomodernista va dunque interpretata come la risposta a nuove istanze socio-educative, anche se

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Apprendere nelle organizzazioni tra teorie e prassi

non sembra pienamente superare limiti e ambiguità ereditati dal passato. L’apprendimento da un lato è funzionale alle esigenze di sviluppo organizzativo (e i bisogni seguitano nel privilegiare le esigenze del sistema produttivo, anche quando non lo dichiarano apertamente), dall’altro è strumentale a quanti intendono migliorare condizioni e possibilità di inserimento lavorativo (e i bisogni si correlano alle esigenze del sistema sociale). In questa prospettiva, la formazione si propone La formazione come e si dispone, si ingegna e si prova come luogo del- elaborazione di saperi l’elaborazione della conoscenza, dove la competenza è assunta come il nuovo traguardo educativo, anche se poi nella realtà tale concetto oscilla tra visioni tradizionali (di base e tecnicoprofessionali) e innovative (trasversali e strategiche). Nelle pratiche si accentua l’attenzione sulle dimensioni affettive, relazionali ed emozionali del lavoro e della vita organizzativa, e la complessità viene riconosciuta fattore costitutivo del processo formativo, anche se l’idea viene spesso tradotta in modo deterministico come input-trasformazione-output (Lipari 2002). Analisi dei L’analisi dei bisogni viene presentata come una prabisogni di  tica capace di mediare tra differenti istanze: dell’indiformazione viduo e dell’organizzazione. La progettazione privilegia sequenze di obiettivi tassonomicamente ordinati. La comunicazione didattica si apre all’ascolto e al dialogo, anche favorita dall’uso di strategie e di metodologie “attive” (problem solving, studio di casi, simulazioni…), dove il formatore assume il ruolo di facilitatore di apprendimento. La valutazione è interessata a verificare i risultati rispetto agli obiettivi prefissati, configurandosi come raccolta di informazioni sull’esperienza formativa (reazioni, apprendimento, trasferimento, cambiamento) con una prevalente attenzione al «controllo del processo» (Hamblin 1974). Un quadro che testimonia una sostanziale innovazione pedagogica che riguarda tanto i sistemi scolastici quanto la formazione aziendale. Seppure rinunciando a configurare l’esperienza come luogo dove il sapere viene esposto dal formatore, le affermazioni (dei formatori)

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Capitolo VI - Franco Bochicchio - Didattica, apprendimento, organizzazioni

continuano a prevalere sulle interrogazioni (dei discenti), finendo con «l’affermare senza formare» (Maggi 1988). Pratiche dove «…l’intelligenza è piegata agli interessi dell’azienda per poi scoprire che l’individuo più apprezzato è colui che sa servirsi dell’intelligenza con modalità più innovative, flessibili e creative rispetto a quelle per cui l’azienda lo ha formato» (Demetrio 1994, p. 25).

2.3. Il paradigma postmoderno La nascita del paradigma postmoderno è conseguenza dell’emergere di problemi tipici di una realtà sociale globalizzata, più interconnessa e tecnologicamente evoluta, definita, appunto, postmoderna. Una realtà dove la nuova filosofia costruttivista (e, più di recente, post-costruttivista) sembra farsi pienamente carico delle nuove sfide. La conoscenza è considerata il prodotto di una costruzione attiva, consapevole e responsabile del soggetto, che ha carattere situato nel contesto. Un processo che si realizza attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale, dove gli individui costruiscono nuove conoscenze sia sulla base di quelle già possedute, sia attraverso la negoziazione e la condivisione dei significati con altri. A questa corrente di pensiero si correlano nuovi La formazione come modelli educativi dove le tecnologie si inseriscono co-costruzione dei prepotentemente nella scena dell’educazione come saperi strumenti di mediazione delle nuove forme di interazione sociale. In queste nuove comunità di apprendimento il discente è considerato un costruttore attivo della propria conoscenza, anziché un recettore passivo di saperi posseduti da altri (Calvani 2000; Cattaneo - Rivoltella 2010). Il processo di formazione è tematizzato come un evento “aperto” all’imprevedibilità di una realtà meno controllabile, dove la qualità della formazione (come “prodotto sociale”) non riguarda esclusivamente la relazione educativa, perché sono in gioco variabili istituzionali, organizzative e di sistema (Galliani 2003). Le differenze tra progettazione e comunicazione didattica tendono a sfumare in un divenire che si costruisce nel corso dell’azione tra dichiarato ed emer-

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Tra retorica e progettualità

gente, esplicito e tacito, reale e virtuale. Nell’assumere la formazione come una ricerca-azione, anche la valutazione viene tematizzata come ricerca orientata alla comprensione e all’apprezzamento dei risultati, nel quadro di approcci meno condizionati da preoccupazioni burocratiche. All’interno di tale quadro maturano nuove forme di consapevolezza sulla possibilità di sintonizzare pratiche formative e pratiche organizzative nel quadro di sinergie tra differenti sistemi, come pure l’utilità di dialogare con differenti culture, valori e linguaggi privilegiando un approccio complesso e sistemico allo studio dei fenomeni della realtà. Trova così cittadinanza anche la possibilità di assumere l’organizzazione come un ambiente dove l’apprendimento è situato in una rete di memorie e significati sedimentati tanto negli individui quanto nei sistemi sociali che apprenGovernance dono, “processando” le conoscenze che quotidiadei servizi e  nuove tecnologie namente producono. La formazione In sintesi, è nel paradigma postmoderno che il partecipata  lavoro e la professionalità sono riconosciute dimensioni identitarie della persona, dove l’apprendere nelle organizzazioni tende a ridurre le distanze tra realtà effettiva e teorizzata nel quadro di nuove forme di partecipazione.

3. Tra retorica e progettualità Anche se imprese, scuole, associazioni, manifestano da tempo interesse per il tema dell’organizzazione che apprende, nel tradurre in pratica tale concetto si registrano posizioni non del tutto convergenti, dove la retorica è sempre in agguato. Con un atteggiamento più realista molti studiosi si interrogano da tempo sulle condizioni che possono favorire la transizione di organizzazioni tradizionali in learning organization, spaziando dai modi di appropriazione delle conoscenze (da parte di individui e organizzazioni) alla gestione manageriale della conoscenza (knowledge management), dove è necessario adeguare strutture, procedure, risorse e pratiche formative.

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Capitolo VI - Franco Bochicchio - Didattica, apprendimento, organizzazioni

In tempi recenti, l’attenzione vira soprattutto sulle tecnologie che possono favorire la produzione, l’utilizzazione e la diffusione delle conoscenze, sull’assunto che il sapere sia “archiviabile” per mezzo di adeguati sistemi tecnologici e informativi, e inoltre che tale sapere sia “riusabile” e “capitalizzabile” al pari di altre risorse (Scarbrought et alii 1999). Posizioni che non sono state esenti da critiche, a causa di una visione semplicistica e oggettivante della conoscenza che sembrerebbe assurgere al ruolo di generica merce di scambio, finendo con il confondersi con una semplice informazione. In modo ottimistico, altri studiosi hanno osserOltre ottimismo e vato che numerose imprese – tra quelle più sensibili idealismo: ai processi di innovazione – da tempo si sono evol’organizzazione lute in learning organization, citando numerosi che apprende esempi: Motorola, Shell, Rover, Eni. Realtà produttive che hanno costituito Corporate University, Business School con l’obiettivo di vendere all’esterno le conoscenze prodotte internamente. In tal modo – secondo l’opinione degli studiosi – le suddette imprese sembrano avere compreso che il rapporto tra conoscenza e produzione di nuova ricchezza dipende dal grado di efficienza con il quale le prime vengono capitalizzate (Garratt 1994). Da posizioni più idealiste, altri ancora hanno sostenuto che tutte le organizzazioni sono “di fatto” learning organization, perché nell’assumere decisioni rispetto alla variabilità dei problemi che quotidianamente affrontano, le organizzazioni – in modo anche inconsapevole – modificano comportamenti abituali e convinzioni radicate. Inoltre, anche le logiche collaborative tipiche dell’organizzazione che apprende sono la naturale conseguenza del fatto che nessun individuo, singolarmente considerato, possiede tutte le informazioni necessarie per assumere decisioni efficaci. Ottimisti e idealisti hanno una visione riduttiva e ingenua della learning organization. Nel primo caso, tendono a circoscrivere le conoscenze prodotte dai membri di una comunità a una pura questione commerciale; nel secondo caso non sembrano tenere conto che l’organizzazione che apprende non è un evento naturale o spontaneo, ma intenzionale, dove la partecipazione attiva degli attori presuppone una consapevolezza matura.

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Tra retorica e progettualità

Senge (1990) ha affermato che la learning organization è un «sistema aperto» dove gli individui sono «agenti di azione» e «agenti di apprendimento organizzativo». Un sistema dove il processo di apprendimento organizzativo richiede una visione condivisa sull’obiettivo da raggiungere e sulle direzioni da seguire, dotando i soggetti di adeguate risorse in vista di conseguire risultati a vantaggio dell’intera comunità (Weick 1991). Ad esempio, gli insegnanti di una scuola – o i dirigenti di un’impresa – hanno consapevolezza di operare in una learning organization piuttosto che in una organizzazione di tipo tradizionale? Quali guadagni ricavano dal partecipare a un progetto che si “nutre e si alimenta” dei loro comportamenti quotidiani? Gli alunni di una scuola hanno la percezione di studiare in un’organizzazione che apprende piuttosto che in una scuola tradizionale? Sono più motivati? Hanno performance superiori rispetto a quelli di una scuola tradizionale? Interrogativi che ottimisti e idealisti sembrano del tutto ignorare. I tratti che distinguono una learning organization da un’organizzazione tradizionale, sono stati oggetto di numerosi studi. Per citare i più noti: la teoria dell’azione di Argyris e Schön (1993), la «quinta disciplina» di Senge (1990), la teoria della creazione della conoscenza di Nonaka (1994). Da questi studi trova conferma che l’apprendiDai saperi individuali mento organizzativo non è un evento naturale perché richiede precise condizioni. Tra queste: flessibilità nel- all’apprendimento diffuso l’organizzazione del lavoro, disponibilità al cambiamento e all’innovazione, relazioni dinamiche, collaborative e partecipative tra le persone. Inoltre, se la natura multidimensionale dell’innovazione implicita nella learning organization è considerata il prodotto dell’interazione fra tutti i membri, diffondere le conoscenze non significa limitarsi a favorirne l’incontro, ma allestire adeguate condizioni sul piano progettuale, metodologico, comunicativo, tecnologico e valutativo. Infine, nella learning organization le unità elementari per l’apprendimento sono rappresentate dai gruppi e non dai singoli individui. Per questo motivo la “comunità di pratica” è considerata da

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Capitolo VI - Franco Bochicchio - Didattica, apprendimento, organizzazioni

molti studiosi una modalità di apprendere e di produrre conoscenze funzionale alla learning organization, che nell’incentivare l’innovatività e la creatività dei membri favorisce la trasformazione dell’apprendimento individuale in apprendimento organizzativo. Comunità orientate al “fare”, dove la pratica assume aspetti espliciti e taciti, codificati e non, favorendo la costruzione, lo sviluppo e il mantenimento delle identità individuali e sociali attraverso un costante lavoro di condivisione e coproduzione di senso tra i membri della comunità (Wenger 2006; Illeris 2004).

4. La scuola come organizzazione che apprende L’esigenza di innovazione e di cambiamento, i bisogni emergenti tipici di una società globalizzata e più interculturale, la “modernità liquida” dei saperi e delle relazioni, sono questioni che impongono a qualunque organizzazione di confrontarsi e misurarsi, ricercando originali risposte. Una situazione che la scuola sembra avere compreso da tempo, com’è altresì testimoniato dall’accresciuto interesse verso studi, modelli e linguaggi esterni rispetto ai suoi tradizionali riferimenti. L’attenzione della scuola verso l’organizzazione che apprende, in particolare, è giustificato da numerose ragioni, ampiamente legittime: l’esigenza di ammodernare i tradizionali dispositivi in vista di migliorare la qualità dell’istruzione, eliminare il manto di autoreferenzialità dove per lungo tempo questa istituzione si è auto-confinata confrontandosi dialetticamente con bisogni e istanze reali della società, promuovere sinergie con altri sistemi, cogliere nuove opportunità di sviluppo. Esigenze che in modo indiretto confermano la volontà della scuola di valicare una concezione estetico-ideologica a vantaggio di altre, più pragmatiche ed efficientistiche. Una situazione apprezzabile e, al tempo stesso, Nuove integrazioni non esente da insidie, perché la scuola non deve “ine contaminazioni seguire” logiche iperfunzionaliste tipiche delle organizzazioni produttive, che finirebbero per compro-

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Apprendere nelle organizzazioni come “scuola della vita di lavoro”

metterne la matrice identitaria. La scuola, infatti, procede con una velocità di marcia più lenta rispetto all’economia; non potrebbe essere altrimenti. L’avvicinamento tra i due mondi è auspicabile, tuttavia le distanze vanno mantenute. Un conto sono le integrazioni, altro le contaminazioni: l’armonica integrazione di valori, modelli, cultura e linguaggi crea nuova ricchezza, mentre le seconde (assunte nel significato negativo del termine) provocano disagio e disorientamento. Termini come “valore”, “risorsa”, “efficienza”, “efficacia”, solo per citarne qui alcuni, sono presenti da tempo nel lessico scolastico. Ciò nonostante, hanno una diversa valenza secondo che si faccia riferimento a un contesto educativo-scolastico piuttosto che produttivomanageriale. Nella scuola, ad esempio, anche il termine learning assume connotazioni peculiari, che rinviano a come apprendere e fare apprendere in vista di vivere e far vivere una situazione di espansione, di arricchimento culturale e di crescita continua, incentivando sinergie tra differenti mondi attraverso dispositivi e strumenti flessibili e adattivi capaci di favorire la collaborazione e l’integrazione (Scurati 1999). Analogamente alle imprese, viceversa, una scuola La scuola come learning organization richiede la presenza di profesLearning  sionisti riflessivi. Insegnanti capaci di favorire, con Organisation i loro comportamenti, innovazioni organizzative virtuose, di selezionare individualmente e collegialmente (sul piano delle strategie, dei modelli, dei contenuti, dei metodi, dei linguaggi e dei valori) ciò che è funzionale rispetto ad altro; di interrogarsi criticamente sulle decisioni e sulle scelte compiute e da compiere, dove ogni azione è preceduta e seguita da una ricerca sulle condizioni e sulle modalità più idonee per agire.

5. Apprendere nelle organizzazioni come “scuola della vita di lavoro” Come aiutare le tradizionali organizzazioni (la scuola, le imprese, le pubbliche amministrazioni) a evolvere in comunità che appren-

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Capitolo VI - Franco Bochicchio - Didattica, apprendimento, organizzazioni

dono, evitando di incoraggiare la diffusione di personalità socialmente desiderabili e/o convenienti? Dal punto di vista della formazione, pratiche genericamente efficaci, per quanto apprezzabili, non sembrano possedere forza e direzione necessarie per determinare quel cambiamento più radicale implicito nella suddetta transizione. Si intravvedono necessarie pratiche capaci di proporsi e di disporsi come “scuola della vita di lavoro”, un deciso “cambio di marcia” anziché un generico restyling. Sul piano didattico, l’uso del termine scuola assicura coerenza con la dimensione life-wide che caratterizza l’apprendimento umano nella postmodernità, mentre il termine “vita di lavoro” assume il lavoro come esperienza di vita nella pluralità di declinazioni operative (integrate e inseparabili) che guidano il progetto educativo: lavoro come convivenza, partecipazione, condivisione, collaborazione, cooperazione. Infine, la dimensione soggettivo-esistenzialeidentitaria implicita nel suddetto concetto, riporta la “persona” al centro del processo formativo in modo inequivocabile. L’ipotesi prospettata poggia su assunti condivisi, in L’ipotesi della parte già richiamati nelle precedenti pagine: “scuola di vita – la complessità come approccio capace di interpretare di lavoro” e di affrontare i problemi della postmodernità (Morin 1990) che assume la formazione (e l’agire didattico) sul piano della processualità e delle relazioni tra differenti sistemi (Galliani 2003); – la formazione come pratica educativa che sollecita l’identità dei soggetti nel rapportarsi riflessivamente con i molteplici campi delle esperienze umane, dove i processi di differenziazione e di integrazione si svolgono in un complesso gioco di scambi in vista di ristrutturare produttivamente il sé (Paparella 2012); – la centralità del lavoro e della professione nel progetto educativo dove l’agire didattico promuove la volontà e la capacità del soggetto di apprendere da altri, da sé e di sé. Condizioni che nei soggetti adulti richiedono l’attivazione di un impegno personale e gruppale che intreccia molteplici dimensioni dell’apprendere: transformative (Mezirow 1991), reflective (Schön 1993) e self-directed (Candy 1991), assunte nel quadro della specificità andragogica (Knowles 1980).

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Apprendere nelle organizzazioni come “scuola della vita di lavoro”

Esperienze educativo-formative capaci di proporsi come “scuola della vita di lavoro” devono necessariamente privilegiare logiche collaborative e partecipative, assumendo l’incertezza e l’ambiguità come vincoli rispetto ai quali la relazione educativa è chiamata a confrontarsi. Condizioni che giustificano nuove istanze di pluralismo progettuale, metodologico e tecnologico, dove la soggettività è assunta nella molteplicità delle declinazioni qualificative del cambiamento: creatività, riflessività, trasformatività, innovatività. Esperienze dove il professionista riflessivo dialoga Riflessività e valore del dubbio in modo critico-ricorsivo con la situazione, confrontandosi con bisogni che emergono sia prima sia nel corso dell’azione (Bochicchio 2012b). Riflessività che si configura come esperienza del vissuto (anziché esperienza vissuta) interessata ai pensieri del passato, del presente e del futuro. Un rispecchiamento che precede lo svolgimento di operazioni pratiche determinando un ribaltamento del campo interpretativo dei pensieri, permettendo ai soggetti anche di svelare ambiguità e doppiezze del pensare in modo condizionato, tipiche del «vivere di riflesso» (Quaglino 2010). Sul principio che le cose non valgono se non nella loro interpretazione, che è sempre soggettiva, l’individuo tende a diffidare dal manifesto e plausibile a vantaggio del dubbio, dirigendosi verso aspetti più celati e profondi racchiusi nel mondo dei significati individuali e organizzativi. Nella “scuola della vita di lavoro” la trasformazione è osservabile soprattutto nell’arretramento iniziale del soggetto (e di gruppi, comunità) rispetto a convinzioni radicate, al quale segue un avanzamento che poggia su nuove convinzioni, con conseguenze che sul piano dell’apprendimento non sono del tutto prevedibili come si conviene per ogni autentica “ricaduta” della formazione esente dalle preoccupazioni della verifica e del controllo (Bochicchio 2012a). Da questa prospettiva, la narrazione è uno strumento privilegiato che permette di ormeggiare l’identità personale a nuovi approdi, mettendola al riparo dalle temperie della vita, dove il formatore ha soprattutto il compito di sollecitare l’individuo a fare della propria vita una ricerca permanente di senso.

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Capitolo VI - Franco Bochicchio - Didattica, apprendimento, organizzazioni

Una ricostruzione che impegna la memoria non più come “luogo” dove si celano ricordi da inventariare, ma come spazio dove il sé lavora come formatore di sé stesso fra teorie ed esperienze, impegnato ad attribuire senso costante all’esistenza (Demetrio 1997).

6. Il ruolo dell’Università L’intento di questo capitolo non è di creare “suggestioni”, ma di prospettare ipotesi operative originali. Promuovere pratiche capaci di proporsi e di disporsi come “scuola della vita di lavoro” nella logica di favorire la transizione da organizzazioni tradizionali in learning organization, è una possibilità che richiede la presenza di una volontà matura delle organizzazioni a innovarsi, che tuttavia non può limitarsi a questo: richiede un progetto strategico di ampio respiro, sostenuto anche dall’esterno. A mio avviso sono le Università che devono e possono, in prima istanza, assumere tale compito, dove le comunità didattico-pedagogiche (sird e sirem, anzitutto)1 potrebbero rivestire un ruolo di primo piano sul versante della promozione e della sperimentazione. Sul piano istituzionale, peraltro, sembrano sussistere condizioni favorevoli al riguardo. Nel Convegno di Praga organizzato nel marzo 2009 dall’eua (European University Association), gli Atenei associati, tra cui quelli italiani, hanno stabilito di costituire al proprio interno “Centri per l’apprendimento permanente” (cap) con il compito, tra gli altri, di promuovere accordi-quadro con ministeri, regioni, scuole, imprese, associazioni professionali, per organizzare percorsi formativi “mirati”, destinati a lavoratori adulti, con l’obiettivo di favorire una piena integrazione tra formazione universitaria e attività professionale. All’interno di tale quadro, strategie volte a favorire la costruzione di learning organization attraverso le traiettorie sino a qui delineate, sembrano pienamente coerenti e altrettanto auspicabili.

1 La sird è la Società Italiana di Ricerca Didattica, la sirem è la Società Italiana di Ricerca sulla Educazione Mediale.

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Didattica e apprendimento nelle organizzazioni. Mappa concettuale

Parte seconda

Saperi e strumenti

Capitolo settimo

Progettazione, azione, valutazione e documentazione Unitarietà e articolazione dell’agire didattico Renza Cerri

1. L’essenza della didattica La didattica, in quanto dominio scientifico, è la scienza dell’insegnamento correlato all’apprendimento. Poiché è assunto condiviso che l’apprendimento in sé non può essere progettato (Wenger 2006) e resta sempre intimamente non determinabile (Calvani 2000), l’elemento su cui insistere per un’azione che tenda a risultati apprenditivi è l’insegnamento. A supporto di questa difficile operazione sta una declinazione della didattica come sistema di saperi che prende forma esclusivamente nella pratica e che ha forte marcatura progettuale, metodologica, valutativa (Cerri 2002, 2007). È quanto avviene in una logica sistemica e riflessiva che si dispone quale reagente per l’innesco dell’intero percorso, articolandosi costantemente fra teoria e prassi, tra processo e prodotto, polarità che hanno sintesi nell’agire che si rende visibile nella pratica didattica.

2. Sapere didattico e agire didattico In didattica la modalità di congiunzione fra saperi, pro- Un approccio connettivo cedure, strumenti, non è consequenziale ma connettiva. Ovvero, non risponde a una logica di causa-effetto – che si è dimostrata non realistica nella prassi e non in grado di superare il vaglio dell’indagine teorica applicata ai contesti formativi della contemporaneità (Morin 2000, 2001) – ma, piuttosto, si collega a

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Capitolo VII - R. Cerri - Progettazione, azione, valutazione, documentazione

procedure che vengono illustrate nel contesto delle indagini sull’evoluzione del concetto di “intelligenza” (Levy 1996 - De Kerkhove 2001; Cerri - Parmigiani 2005). Gli stessi costrutti di circolarità e ricorsività, input e frutto degli studi sul curriculo, se sono esplicativi del processo a posteriori, hanno bisogno – in fieri – di qualche più ampio e preciso elemento di comprensione del meccanismo in cui si articolano. Come e in virtù di che cosa il processo avanza in forma ricorsiva, procede senza interruzione agganciando a provvisori esiti un nuovo inizio o una ristrutturazione? Come “si connettono” gli elementi implicati nel progetto didattico e nell’azione didattica, entro il progetto, entro l’azione, fra l’uno e l’altra? Ovvero: per quali strade e attraverso quali dispositivi il sapere dell’insegnare si traduce/trasforma in precise decisioni, azioni, relazioni, strategie? È interessante annotare che, nel definire descrivendola l’intelligenza connettiva, De Kerkhove fa riferimento principalmente al fatto che questa si presenta quando tanti soggetti – che rimangono assolutamente distinguibili – dialogano fra loro raggiungendo, attraverso scambi consapevoli, livelli più elevati e significativi di conoscenze condivise. Nel connettivo si conserva, anzi si enfatizza, quel dato singolare che nel collettivo si perde. Di più: saperi connessi ed esperienze connesse “esplodono” saperi ed esperienze che, singolarmente considerati, lascerebbero sotto traccia numerose potenzialità. Come leggere queste suggestioni nell’enjeu fra sapere e agire didattico? Su due piani: quello dei soggetti implicati e quello del processo. Il primo considera la connessione fra insegnante, insegnanti, istituzione e attività progettuale che si oggettivizza nell’azione didattica (Parmigiani 2010); il secondo rinvia alle caratteristiche costitutive, strutturali, della dinamica progettuale nell’educazione, nella formazione e nell’insegnamento. Un’emblematica chiave interpretativa che, a sua volta, connette i due piani, si rinviene già nell’approccio della responsive evaluation (Stake 1975, 1988) che mettendo l’accento sulla singolarità e unicità del progetto, sulle azioni che contempla, sulla significatività delle medesime azioni per i soggetti coinvolti, disegna un modello «logico-situazionale» (Guasti

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Sapere didattico e agire didattico

1996) in grado di esprimere bene l’inscindibilità dei tre passaggi: progettazione, azione, valutazione. Attori, progetto, processo declinano i rispettivi ruoli richiamandosi a vicenda. Così, sul piano della connessione fra soggetti e attività progettuale, assume valore la specificità di ogni contributo, nonché dell’interazione delle dinamiche collaborative e decisionali (Cerri 2004). Si connettono conoscenze, esperienze, riflessioni, competenze, interessi ma anche schemi mentali, hidden curricola, precognizioni, immaginazioni. Ciò che ne deriva è una «intelligenza connettiva» del problema e della situazione didattica, multidimensionale e multistrategica (Rossi - Toppano 2009), che non potrebbe generarsi al di fuori di questa dimensione plurale. Il declinarsi del sapere teorico, nonché del sapere d’azione, entro l’azione stessa, acquista significato e qualità proprio nel comporsi dialogico di confronti e consapevolezze. Una logica situazionale è radicata, quindi, nel contesto e Antinomie nell’azione che vi si svolge; non esclude i passaggi analitici, produttive ma li ri-assume, così come la prospettiva ermeneutica non si contrappone ma inter-agisce, senza mai confondersi, sia nella prassi sia nella fase riflessiva, con la dimensione empirica. L’osservazione della realtà porta in evidenza alcuni dati che possono essere indagati con una pluralità di approcci e strumenti, sempre all’interno di uno sfondo connettivo riconosciuto come generatore di significati. In questo modo gli elementi analitici sono funzionali alla lettura e alla comprensione della situazione e si inseriscono nella dinamicità di un processo che non ne prescinde ma li supera interpretandoli e “collocandoli”. L’azione didattica non ne è “diretta” ma orientata, sollecitata, poiché chi agisce può avvalersi di informazioni e schemi concettuali non astratti ma originati nel contesto e utilizzabili in virtù di processi riflessivi e decisionali autonomi e condivisi. L’articolarsi dell’azione didattica, a partire dal momento progettuale, si gioca all’incrocio di sistematicità e sistemicità. Infatti, se c’è una dimensione didattica legata alle procedure, ai linguaggi, ai contenuti, che trae giovamento dalla sistematica organizzazione dei diversi elementi in vista di traguardi definiti, essa è tuttavia sempre, necessariamente, accompagnata da una visione sistemica dell’intero processo didattico, della sua dinamica interna, delle relazioni e re-

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Capitolo VII - R. Cerri - Progettazione, azione, valutazione, documentazione

azioni esistenti. È, ancora una volta, una forma d’intelligenza connettiva che si avvale dei due processi alternativi ma complementari (logico-deduttivo e intuitivo-olistico) frutto della struttura cerebrale e della mente umana nel suo complesso, attraverso le localizzazioni note fin dagli studi del premio Nobel Roger Sparry e amA Bruner piamente discusse e impiegate nelle scienze dell’educaA Gardner zione (Bruner 2005, 2009; Gardner 2005). Gli studi neuroscientifici offrono in proposito ulteriori e più ricche informazioni (Gazzaniga et alii, 2005) esplorabili e declinabili opportunamente in relazione al processo di insegnamento/apprendimento (Rivoltella 2012). Le indagini sulla professionalità didattica connessa alla pratica e alla ricerca si avvalgono spesso del meccanismo della congiunzione di aspetti antinomici: così l’articolazione di teoria e prassi (Damiano 2004, 2006), riflessione e azione (Mortari 2004, 2009), proiezione del pensiero e azione che lo realizza, significati soggettivi dell’esperienza e attribuzione di valore “oggettivo” ad essa, non sono opzioni alternative o stadi necessariamente susseguenti: è l’antinomia stessa a costituire l’oggetto intorno al quale l’azione didattica si dipana, “immersa nel sapere didattico perché lo genera” (Cerri 2004). È la prospettiva che Damiano descrive come «antropologica» in quanto «non ha bisogno di arrivare dal sapere all’agire, perché comprende in sé l’azione che costituisce il nucleo intorno al quale si è sviluppata come conoscenza» (Damiano 2006; Geertz 1988), si tratta di conoscenza per l’azione e dell’azione (Scurati 2000), quindi sapere che genera dall’azione professionale e consente l’azione professionale (Calidoni 2000) nel recinto di una processualità che comprende in sé – olisticamente e analiticamente – il pensiero che precede l’azione, l’azione stessa col pensiero che l’accompagna, infine il pensiero che la segue e la rilancia. Si giustifica così l’assunto che l’agire didattico non coincide con la seconda fase della triade progettazione-azionevalutazione, ma ne traduce la totalità. La “documentazione” si aggiunge (entro la totalità) come condizione di disponibilità creativa dei dati di esperienza verso la novità di ogni ulteriore esperienza e assume valore proattivo, liberandosi della connotazione burocratica che troppo spesso la caratterizza. Cambia faccia: non solo descri-

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L’agire didattico: progetto, azione, valutazione

zione dell’azione per lasciarne testimonianza, ma avvaloramento dell’azione didattica attraverso un “sostarvi” riflessivo e critico, ri-progettuale, situato e insieme aperto a nuove contestulizzazioni.

3. L’agire didattico: sintesi effettuale di progetto, azione, valutazione Il costrutto di agire didattico identifica, pertanto, un Logica olistica approccio specifico, una opzione concettuale e pratica che rinvia alla dimensione epistemologica della didattica come scienza, il cui oggetto è per sua natura complexum, quindi intellegibile solo secondo logiche in grado di non frantumarlo, olistiche. La didattica è azione che ha gradi di possibilità correlativi ai gradi di pensieroconoscenza-riflessione da cui è accompagnata. Ma è solo la pratica didattica l’oggetto su cui il sapere didattico può interrogarsi e costruirsi, «in quanto sapere sull’azione di insegnare» (Damiano 2006). Ciò che collochiamo entro quel costrutto, e che interpretiamo in senso dinamico attraverso la forma verbale agire, descrive e rappresenta la complessità di un’azione che si declina come unitaria e articolata, che ha bisogno, per risultare efficace, di riconoscersi entro una dimensione «ecologica» (Morin 2000), connessione di pensiero, strategia e scommessa. In altri termini: una pre-visione che prende forma nelle azioni e reazioni che la sua messa in atto comporta, con gli adattamenti e le invenzioni relative. Progettazione, azione, valutazione come strategia complessiva di un agire didattico che non è solo quello dell’insegnante, ma è piuttosto rappresentabile come l’insieme dei vettori presenti in situazione. Si tratta di leggere il susseguirsi organico di azioni intenzionali la cui distinzione trova ragione d’essere in vista dell’esito operativo pensato nella sua interezza. Da questo punto di vista è interessante riflettere Dal modello I-A… sull’analogia esistente tra il modello processuale I/A e il modello ricorsivo P/A/V: in termini di struttura e dinamica, unità e articolazione. Ovviamente identifichiamo il processo insegnamento/apprendimento in coerenza con quanto fin qui esposto: un processo in cui gli attori sono in relazione sistemica fra

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Capitolo VII - R. Cerri - Progettazione, azione, valutazione, documentazione

loro e con i mediatori e le medi-azioni che ne fanno parte. L’apprendimento non discende direttamente dall’insegnamento, può avere luogo persino a prescindere da un’azione insegnativa intenzionale, ma si realizza in un contesto attrezzato perché le operazioni mentali e non – esclusivamente dirette dall’apprendente – che conducono a cambiamenti significativi siano facilitate e rese possibili. La processualità – in quanto dinamica progressiva esistente fra attori, informazioni, tempi, esperienze, è condizione di successo. Si tratta di un pro-cedere che rigetta semplificazioni e linearità consequenziale per arricchirsi costantemente anche dell’imprevisto. L’appreso si presenta immediatamente disponibile a innescare nuovi processi, a sollecitare nuove occasioni, ad aprire nuovi scenari. Non solo: i feedback che l’insegnante riceve, in forma implicita o esplicita, richiesti o meno, hanno esiti che a loro volta si possono definire apprenditivi. Infatti sono funzionali alla regolazione didattica, in altri termini vi introducono elementi di cambiamento. …al modello P-A-V Non diversamente il modello progettazione-azionevalutazione: anch’esso processuale, anch’esso aperto e, sulla base delle scelte professionali, orientato prevalentemente verso criteri di razionalità o di incertezza (Fasce 2007; Cerri 2004) ma comunque “ricorsivo” perché ogni elemento che lo compone non è definibile e comprensibile senza riferimento agli altri. Ogni elemento, infatti, è direttamente collegato agli altri, vi influisce e ne è modificato. Al punto che possiamo parlare di progettazione in sé, progettazione nell’azione, progettazione dopo l’azione entro la logica valutativa; ma anche di azione del progettare (che non prescinde dal riferimento all’agire didattico sperimentato), azione didattica in senso proprio, azione rivisitata in funzione valutativa; e infine di valutazione/i preliminare/i alla fase progettuale, valutazione come riflessione e giudizio sull’azione in atto, valutazione ex post sulle diverse componenti dell’azione stessa (vedi figura alla pagina seguente). Anche in questo caso, quindi, si disegna un campo aperto di azioni e reazioni che si vanno componendo in vista di obiettivi consapevoli e variamente cogenti, il cui esito non può essere totalmente predeterminato, ma dipende dalla fenomenologia dell’azione stessa.

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L’agire didattico: progetto, azione, valutazione

(da Fasce M., in Cerri R. 2007)

È la logica della complessità dalle cui derive di Una logica semplessa senso comune, tuttavia, occorre proteggersi. Potrebbe tornare utile anche alla didattica ragionare su quella che Berthoz (2011) definisce una possibile teoria della semplessità, una sorta di «semplicità complicata» di cui individua alcuni principi fondamentali: – l’inibizione e il principio del rifiuto; – il principio della selezione e della specializzazione; – il principio dell’anticipazione probabilistica; – il principio della deviazione; – il principio della cooperazione e della ridondanza. La loro combinazione “attiva” mira a evitare quella forma di semplificazione che renderebbe impossibile comprendere e agire nei sistemi complessi, per sostituirla, appunto, con strategie più coerenti alle dinamiche in atto, non diversamente da come fanno tutti gli organismi viventi, compreso il cervello umano. Le capacità di inibire, selezionare, collegare, immaginare, cui Berthoz fa riferimento, fanno parte del repertorio di base dell’agire didattico, come la capacità di anticipare le conseguenze dell’azione leggendo il mondo con i pro-

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Capitolo VII - R. Cerri - Progettazione, azione, valutazione, documentazione

pri schemi interpretativi è assimilabile a quella mentalità valutativo progettuale (Cerri 2004) che costituisce l’ossatura del sapere e dell’agire didattico declinato in unitarietà e articolazione. Osservando l’agire didattico nelle pratiche professionali Versante (Altet 2003; Perrenoud 2006) si nota che: unitarietà – ne è condizione il collegamento fra i diversi passaggi, elementi, piani; – è costantemente riferito alla totalità dei soggetti coinvolti; – esiste in ragione di una dinamica che connette l’oggetto/i (sapere/i) implicato al processo personale di apprendimento (Hadji 1995) e alle relazioni intersoggettive presenti; – si dispone in termini di ricorsività e complessità, ove il reciproco articolarsi di ogni azione (sia essa riferita all’insegnare o all’apprendere) genera feedback a valenza valutativa e regolativa. Pertanto il modello dell’azione didattica si disegna solo in un quadro unitario proprio in quanto multidimensionale, pena la non sussistenza. Secondo il design del modello multidimensionale (che possiamo assumere come ipotesi di ricerca sulle pratiche e come input di strutturazione di competenze) si intersecano quantomeno i piani della relazione, dell’azione, delle connessioni strutturali, la cui sussistenza è correlativa. Ciò che si dispone su ogni piano si organizza e si compone in funzione di ciò che sta dentro agli altri (vedi figura alla pagina seguente): – piano della relazione: soggetto/i – oggetto/i; – piano dell’azione: prima, durante, dopo; configurazione di ambienti; modalità interattive, ecc.; – piano delle connessioni strutturali: sapere esperto, sapere insegnato, sapere appreso, macrodidattica-micro didattica, contesti istituzionali-contesti aperti. Si tratta di elementi tutti che possono essere indagati sia in funzione delle loro connessioni, sia in funzione delle loro specificità, lungo tutto il percorso che va dalla progettazione alla valutazione e ritorno. In questo quadro l’insegnante è “snodo” perché contemporaneamente progettista (concepteur) ed esecutore (Perrenoud 2010) che, non essendo in grado di conoscere in anticipo i “reali” problemi che incontrerà nella pratica, non può che costruirla in situazione,

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L’agire didattico: progetto, azione, valutazione

facendo unità dei “saperi” generali, scientifici, esperti, d’esperienza, mettendo in dialogo l’azione e il pensiero sull’azione, precedente, in atto, susseguente. È evidente che stiamo parlando di una unitarietà artiVersante colata intellegibile, comprensibile e concretamente “ope- articolazione rabile” solo mantenendo connesse le – apparenti – contrapposizioni, ma non dimenticando di esaminarne le molteplici pieghe. Per essenzializzare ragioniamo su una struttura interpretativa minima, articolata su due livelli: quello a prevalenza dinamica e intersoggettiva; quello a prevalenza strutturale. Ad un primo livello: se la totalità dell’agire didattico si articola nei passaggi che delimitiamo come progettazione, azione, valutazione, la prassi nella sua complessità include i comportamenti visibili e direttamente analizzabili (l’azione dell’insegnante, le azioni degli allievi) ma anche le intenzioni interne dei soggetti che riguardano il futuro e il passato e che si dispiegano in momenti progettuali e valutativi, in fasi a carattere di volta in volta prevalentemente proattivo o reattivo. Non solo: l’azione didattica rimbalza contro le sponde costituite da tutti gli elementi del contesto, in parte debitamente progettati e controllati, in parte assolutamente non governabili né conoscibili a priori.

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Capitolo VII - R. Cerri - Progettazione, azione, valutazione, documentazione

A un secondo livello: progettazione, azione, valutazione e documentazione nel loro articolarsi si dispongono in corrispondenza di: a) sfondi e scenari delineati in rapporto a modelli e teorie (Baldacci 2004; Blankertz 1977); b) declinando al loro interno aspetti relazionali, comunicativi, relativi alla mediazione (Damiano 2006, 2007b), trasposizione (Hadji 1995; Develay 1992; Chevallard 1991; Perrenoud 2002), trasduzione didattica (Parmigiani 2004); c) secondo una “drammaturgia dell’agire didattico” che ne costruisce la scena attraverso specifiche opzioni progettuali; d) entro spazi riconoscibili e attraverso strumentazioni dedicate fra cui sono compresi quei e) dispositivi di innesco e controllo dell’agire stesso che identifichiamo con i termini valutazione e documentazione. I citati cinque passaggi sono costruttori e descrittori di ciascuna delle quattro fasi dell’agire didattico: “passaggi” e “fasi” sono analizzabili e comprensibili secondo linee di reciprocità, in chiave sistemica, a partire dalla loro esplicitazione. Per calibrare al meglio quanto espresso in queste pagine con l’intera parte relativa a Saperi e strumenti (cfr. infra) e con l’idea-chiave che i processi apprenditivi si realizzano in quel continuum mentecorpo-artefatto-mondo (cfr. supra, Introduzione) che è lo spazio effettivo dell’azione didattica, è opportuno espandere brevemente i punti c) ed e). Parlare di «drammaturgia dell’agire didattico» rinvia da un lato alla pregnanza del paradigma narrativo in didattica (Bruner 2001, 2005), d’altro lato alla possibile lettura dell’«esperienza didattica» come evento, qualcosa che emerge, pure all’interno di un quadro progettuale, con le caratteristiche dell’esperienza personale, significativa, coinvolgente, anche sulla linea della gratuità, dell’immersione, della totalità mente-corpo, dell’intersoggettività e della condivisione sperimentata concretamente (Cerri 2008b). L’evento culturale, descritto negli studi sul project management, necessita di una drammaturgia che rappresenti e connetta spazi, tempi, azioni, at-

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L’agire didattico: progetto, azione, valutazione

traverso la risposta all’interrogazione sul chi, cosa, perché, come, quando (Argano - Bollo - Dalla Sega - Vivalda 2005), e di cui la sceneggiatura è l’aspetto dichiarativo. Così è per l’evento didattico: la chiamiamo progettazione. Ma, secondo questa prospettiva, essa è di segno particolare: consente di superare i limiti tecnicistici recuperando piuttosto le potenzialità del canovaccio che attraverso codici narrativi si riempie di significati fruendo di un naturale approccio olistico, che si può ragionevolmente ipotizzare capace di eliminare il gap fra istruzione e cultura, fra dimensioni formali e informali dell’apprendimento. È questo un campo che la riflessione didattica deve ancora esplorare appieno, e che si presenta di notevole interesse e di grande valenza strategica nella prospettiva della Knowledge Society. L’ultimo punto considera le due fasi valutativa e documentale in termini di “innesco” e “controllo” dell’agire didattico. L’azione del valutare (nella composizione di: analizzare, monitorare, attribuire valore) e quella del raccogliere e conservare traccia del progetto tradotto in pratica, sono azioni e momenti distinti, ma entrambe concorrono a regolare il processo attraverso procedure che, mentre forniscono elementi di controllo, originano e liberano contestualmente energie in grado di innescare nuove fasi del processo e/o di supportarne l’implementazione e lo sviluppo. La documentazione, cioè, non è l’atto conclusivo del processo didattico, momento amministrativo/burocratico di scarso significato per gli attori. È invece la «terza vita» dell’artefatto progettuale (Rossi - Toppano 2009), l’operazione con cui alla fine dell’attività il professionista «riflette sul percorso attuato e rivede l’artefatto progettuale iniziale alla luce dell’azione conclusa». La documentazione pertanto accompagna l’intero processo: c’è documentazione della fase progettuale (progetto/sceneggiatura), documentazione dell’azione (appunti, diario di bordo), documentazione della conclusione del percorso, che tiene conto dei passaggi precedenti e del momento valutativo, configurandosi essa stessa come riflessione/valutazione/autovalutazione (vedi figura alla pagina successiva).

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Capitolo VII - R. Cerri - Progettazione, azione, valutazione, documentazione

La si potrebbe definire un habitus professionale, orientato alla costante assunzione di consapevolezza rispetto al pensare e all’agire didattico. Avvalorato anche dalla caratteristica che Bruner (1997) disegna come intrinseca di ogni forma di “documentazione” intesa quale ricostruzione del passato, del presente o del possibile: è sempre frutto di un processo interdialogico.

4. Sintesi proattiva La chiusura di questo capitolo apre, in realtà, la seconda parte del volume con l’intento di offrire un framework ai singoli elementi dell’agire didattico che di seguito avranno trattazione. Come dire che ogni “sapere” necessario all’insegnante si inscrive entro una prospettiva sistemica e processuale. Contestualmente gli strumenti impiegabili non sono né dati quali oggetti, né recuperabili in modo del tutto empirico dalla situazione, né prodotti soggettivi della coscienza e della competenza del singolo. Attingono contemporaneamente alle tre dimensioni e si costruiscono nella dinamica concreta dell’agire didattico: pensare e agire convivono e interagiscono lungo

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Sintesi proattiva

tutto l’estendersi dell’azione didattica – come suggerito a partire da Dewey (1996) fino ai più recenti studi sull’ena- Dewey A zione (Begg 2002) – prendendo via via la forma del progetto, dell’interazione/mediazione, della riflessione. In ogni fase e rispetto a ogni concreta esperienza è utile mettere a fuoco tre snodi che risultano centrali nella prassi didattica come nell’elaborazione teorica ad essa collegata. In asse con la caratteristica complessa dei processi Progetto ed evento apprenditivi e delle dimensioni formative dell’esperienza umana l’agire didattico si dispone, contestualmente, lungo la linea del progetto e lungo quella dell’evento. Caratteristica saliente dell’azione didattica è la sua intenzionalità, quindi la sua connotazione progettuale. Il progetto tuttavia non esaurisce le potenzialità della situazione, dell’esperienza, dell’ambiente di apprendimento, dei soggetti protagonisti. L’evento, per sua natura, emerge sempre nel contesto didattico: ora come interesse, ora come imprevisto, ora come soggettività, ora come scoperta, ora come emozione. Una progettazione didattica “competente” non rinuncia alla prefigurazione del progetto e non esclude la potenziale creatività e formativa dell’evento. Si tratta di qualcosa di più della flessibilità progettuale, pur importante. È piuttosto la capacità di scovare, sollecitare, connettere, far “esplodere” lungo il sentiero rappresentato dal progetto la ricchezza dell’evento in cui chi apprende sperimenta appieno la propria totalità. Quanto fin qui espresso può facilmente rimanere un semplice enunciato. La pratica didattica, e i pratici in essa, sono chiamati a interrogarsi e sperimentare, fino a far emergere un pensiero didattico “ulteriore” che avrà i caratteri della pratica e della riflessione. I passaggi Progettazione-Azione-Valutazione-Docu- Processualità mentazione sono sintesi proattiva e attiva della connessione e retroazione progetto/evento; nello stesso tempo sono incroci multidimensionali della didattica in atto. Il gioco continuo fra proazione e azione dà conto dell’unitarietà e circolarità del processo e richiama l’insegnante anche a competenze di attenta sorveglianza sulla dinamica osservabile del proprio agire didattico. Ad esempio è importante annotare:

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Capitolo VII - R. Cerri - Progettazione, azione, valutazione, documentazione

– cosa registro nel passaggio dal progettato all’agito in me, nel contesto, negli allievi? – Quali rinvii ho dall’evolversi della situazione didattica in corrispondenza delle mie azioni progettate, delle risposte ad esse, della gestioni dell’imprevisto, della messa in atto di meccanismi di regolazione? Ciò che definiamo retroattivo potrebbe, malauguratamente, restare solo retro-, cioè non tradursi in spinta a una azione di ritorno – in carico ora all’insegnante, ora all’allievo – capace di incidere sul presente dell’azione e sul futuro del processo. Disporsi quali soggetti attivi entro l’intero processo di Sviluppo professionale progettazione-azione-valutazione-riflessione è condizione di professionalità e di sviluppo professionale. Saper governare le fasi e i passaggi implica il ricorso, non solo a saperi e competenze che vanno a comporre l’expertise didattica, ma anche a strategie di metacognizione, riflessione, autovalutazione, rimodulazione dell’intero processo a partire dalla ricerca della congruenza e della coerenza interna della propria azione didattica. Nel primo caso la competenza professionale si esplicita in attenzione al grado di appropriatezza tra prefigurazione, azione, valutazione, e al grado di adeguatezza dell’agito rispetto all’atteso. Nel secondo caso misurerà il grado di conformità, la connessione logica, con cui si dipana l’intero processo. È, in estrema sintesi, un “movimento” che supera la dimensione della teoria come quella della prassi prendendo forma situata di consapevolezza personale e professionale.

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Progettazione, azione, valutazione e documentazione. Unitarietà e articolazione dell’agire didattico. Mappa concettuale

Capitolo ottavo

La comunicazione e le relazioni didattiche Pier Cesare Rivoltella

1. In cerca di una definizione Il dibattito sulla comunicazione didattica (o formaIl dibattito recente sulla tiva) ha vissuto negli ultimi anni una stagione di vivace attività. Ad esso hanno partecipato, oltre naturalmente comunicazione: linee agli studiosi di didattica, anche psicologi, sociologi, ingegneri – tutte categorie professionali sempre più incalzanti nel sostituirsi alla pedagogia e ai suoi compiti (almeno tanto quanto nel rivendicare rispetto ad essa la esclusività dei loro). In questo dibattito si possono registrare alcune chiare linee di tendenza: – lo spostamento da modelli trasmissivi e tendenzialmente unidirezionali a modelli costruttivi e collaborativi, interattivi e circolari; – l’inclusione sempre più esplicita e significativa dei media e delle tecnologie; – l’affermarsi di una visione della comunicazione didattica per così dire “a largo spettro”, di cui vengono evidenziate le valenze gestionali (nella direzione del management e della gestione della classe), relazionali, organizzative (setting, soluzioni tecnologiche), istituzionali, cliniche, nonché gli aspetti che riguardano l’interfaccia con il territorio, le altre agenzie educative che operano in esso, le famiglie. La complessità di una simile situazione richiama Indefinibilità quella che ha caratterizzato il dibattito sulla comu- della comunicazione nicazione in generale lungo l’ultimo decennio del didattica. Livelli e dimensioni secolo scorso. Quel dibattito (Fiske 1990; Lever -

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Capitolo VIII - Pier Cesare Rivoltella - Comunicazione e relazioni didattiche

Rivoltella - Zanacchi 2002; Littlejohn 1992; Morcellini - Fatelli 1994; Piromallo Gambardella 2001; Rivoltella 1998) evidenziò come, nella misura in cui la comunicazione tende a imporsi come un ombrello semantico estremamente duttile, in grado di adattarsi a ogni aspetto della nostra vita, il rischio è di non poterla più definire in termini univoci: infatti, ogni definizione se ne vorrà tentare, risulterà sempre riduttiva e semplificatoria rispetto alla complessità e alla plurivocità del fenomeno. Consapevoli di questo fatto, riteniamo sia interessante, piuttosto che cercare una definizione sintetica che verosimilmente non si riuscirebbe a trovare, costruire un framework grazie al quale individuare quali siano gli elementi strutturali che alla comunicazione didattica non possono mancare (Rivoltella 2010). Tali elementi corrispondono ai livelli ai quali l’analisi del processo della comunicazione didattica può essere condotta e alle dimensioni in cui è possibile articolarlo. Quando parliamo di “livelli” facciamo riferimento a dei tipi logici, cioè ai piani di analisi della comunicazione didattica. Come vedremo questi piani sono tre, come la semiotica (Morris 1954) ha da tempo indicato per la comunicazione in generale: sintattico, semantico, pragmatico. Le dimensioni della comunicazione didattica, invece, sono ambiti, domini ontologici, modi di pensare e agire la comunicazione didattica cui è possibile ricondurre, in fondo, quanto nel corso del tempo le diverse teorie della comunicazione didattica hanno detto di essa. Queste dimensioni sono quattro: informazione, relazione, esplorazione, partecipazione. L’analisi di questi livelli e di queste dimensioni fornisce al capitolo la sua organizzazione interna.

2. Sintassi della comunicazione didattica I codici della comunicazione didattica

Quando Morris (ma anche i teorici dell’informazione) parlano di sintassi della comunicazione fanno riferimento ai suoi codici. In linguistica, il codice è un’istruzione, una regola, che consente di far corrispon-

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Sintassi della comunicazione didattica

dere a un significante un significato. Se noi non disponessimo di codici non potremmo articolare i suoni che il nostro apparato fonatorio ci consente di emettere così da consentire a un altro di comprendere quello che vogliamo dire. Allo stesso modo le pagine di questo libro sarebbero solo carta su cui sono organizzati strani segni neri. Detto in altri termini: una qualsiasi materia espressiva senza la presenza di codici non servirebbe a significare nulla. Apprendere la sintassi della comunicazione didattica, dunque, per un insegnante vuol dire imparare a usare i codici grazie ai quali la comunicazione didattica diviene possibile. Questi codici sono sostanzialmente di tre tipi: – verbali, e cioè la voce; – non verbali, e cioè il corpo; – i segni grafici e iconici. Il corpo e la voce sono da sempre gli strumenti essenziali Comunicare attraverso i quali l’agire didattico si esprime. Essi svolgono con il corpo: una funzione evolutiva importantissima: se già al tempo la funzione dei neuroni dei cacciatori-cercatori, nel Neolitico, i nostri antenati non specchio avessero disposto del loro corpo e della loro voce per trasmettere ai giovani del clan le competenze che sarebbero servite loro a sopravvivere, non ci sarebbe stato futuro per la specie. L’apprendimento e di conseguenza la comunicazione didattica sono antichi quanto l’uomo. Se proviamo a pensare a questa situazione didattica originaria, quel che ci viene spontaneo immaginare è una forma di apprendistato basato sull’apprendimento per imitazione o nel momento stesso in cui l’azione da apprendere si svolge, o grazie alla simulazione della stessa. In entrambi i casi è il corpo che insegna, è l’azione a svolgere una funzione modellizzante essenziale per l’apprendimento. La ricerca neuroscientifica suffraga questa ipotesi: la scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti - Sinigaglia 2006) spiega come questa particolare categoria di neuroni ubicati nella zona dorsale e ventrale della corteccia parietale e temporale si attivino ogni volta che noi compiamo un’azione, la vediamo compiere, o immaginiamo di compierla (come insegna la Teoria della simulazione incarnata di Gallese: Gallese - Magone - Eagle 2006; vedi Fig. 1 alla pagina seguente).

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Capitolo VIII - Pier Cesare Rivoltella - Comunicazione e relazioni didattiche

Figura 1 – In grigio scuro le regioni della corteccia dove sono ubicati i neuroni specchio

L’evoluzione del linguaggio, in epoca di oralità primaria (Ong 1986), garantisce a questo dispositivo didattico un importante strumento di supporto. La parola parlata ha la capacità di descrivere in forma sintetica e comunicativamente efficace anche azioni molto complesse e, abbinandosi al potere comunicativo del corpo in situazione, rende la comunicazione didattica molto simile a quella che ancora oggi in sostanza è. Lo spazio entro cui il sistema parola-corpo si affina in funzione dell’insegnamento è quello entro cui nasce il teatro (Gallese - Morelli 2011; Rivoltella 2012). Il bardo, l’aedo, il griot, il cantastorie, trasversalmente alle diverse culture rappresentano proprio il modello originario di insegnante-attore, di educattore: col suo dire, con la sua parola incarnata, egli agisce plot narrativi che rappresentano il canovaccio su cui annodare i fili dell’ethos e del ghenos del popolo (Havelock 2006), dei comportamenti e delle leggi, ovvero di ciò che rende una società e una cultura quello che sono. Il compito della scuola è già fissato e con esso il compito del teatro. Fin dalle origini il teatro è insegnamento e l’insegnamento teatro.

Insegnamento e/è teatro

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Sintassi della comunicazione didattica

Qui troviamo un primo nucleo di competenze dell’inse- Il corpo gnante. Esse hanno a che fare con i codici verbali e paraverbali e la voce e con i codici della comunicazione corporea non verbale. Saper comunicare didatticamente per l’insegnante significa, anzitutto, avere il controllo della voce e dei suoi tratti sovrasegmentali. In classe posso sussurrare o gridare (altezza), posso fare affermazioni assertive o in forma di ipotesi (tono), posso esporre con voce metallica, profonda, calda (timbro). Avere il controllo di questi codici paraverbali significa poter gestire meglio l’attenzione degli studenti, enfatizzare alcuni concetti, controllare i flussi conversazionali nella classe. Chiaramente l’uso della voce non può essere disgiunto dall’attivazione degli altri codici non verbali: la mimica del volto, la gestualità, la prossemica (ovvero la capacità di fare uso del proprio corpo in relazione allo spazio e alla posizione che nello spazio gli altri corpi occupano). Passa da questi codici quella che gli studiosi di Palo Alto chiamano la metacomunicazione: se dico cose che ritengo importantissime con voce bassa e monotona, con una smorfia stampata sul volto, una postura che comunica partecipazione scarsa o nulla, di fatto i modi della mia comunicazione (la metacomunicazione) dicono tutto il contrario di ciò che il contenuto della mia comunicazione dovrebbe veicolare. Per l’insegnante è importante riscoprie la natura drammaturgica e performativa della comunicazione didattica, saper usare il corpo in situazione, saper stare in scena: da questo dipende in larga Gestione parte la gestione della classe con i problemi ad essa della classe  connessi – l’attenzione, il rumore, la disciplina. Altrettanta attenzione dei codici verbali e non verbali Sapere è vedere meritano i codici grafici: il testo scritto, il disegno, gli schemi (e poi, in tempo più recente, le immagini fisse e in movimento, le mappe concettuali, le ontologie) hanno sempre rappresentato per la comunicazione didattica un supporto e un complemento di fondamentale importanza. A questa dimensione della comunicazione didattica si associa il problema della conoscenza e della sua rappresentazione. Affidare alla sola esposizione verbale la spiegazione di un concetto significa chiedere allo studente di fare gioco esclusivamente sulla sua capacità di comprensione linguistica (Gar-

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Capitolo VIII - Pier Cesare Rivoltella - Comunicazione e relazioni didattiche

dner 1987) e di lavorare su qualcosa di astratto e decontestualizzato. Uno schema, un disegno, pochi tratti su una lavagna servono ad ancorare la comprensione a qualcosa di visivo. La spiegazione di questo ricorso a elementi della rappresentazione visiva si può trovare probabilmente a due livelli. A un primo livello, di apprendimento, esso risponde a un’esigenza di moltiplicazione dei punti di accesso al sapere (Gardner 2004): presentare un contenuto non solo dal punto di vista linguistico, ma anche cinestesico, corporeo, logico…, significa aumentare le probabilità che il destinatario lo comprenda. A un secondo livello, storico, il ricorso ai supporti visivi trova invece giustificazione nell’orientamento visivo di tutta la cultura occidentale all’interno della quale, fin dalla comparsa della scrittura, si può dire che sapere abbia sempre voluto dire vedere come stiano le cose. Ecco perché la storia della didattica ha dovuto registrare ben presto la comparsa nel setting di superfici e strumenti di rappresentazione della conoscenza: tabulae di diversi materiali su cui incidere segni, lavagne, in tempi più recenti diaproiettori con cui mostrare immagini e grafici precedentemente preparati nel proprio computer o Lavagne Interattive Multimediali (lim). La sintassi della comunicazione didattica implica la padronanza di questi supporti da due punti di vista: quello dei codici tecnici e quello dei codici grafo-visivi grazie ai quali costruire disegni e schemi. Saper disegnare è stata sempre una delle competenze professionali chiave del maestro la cui scatola dei gessetti colorati abita ancora oggi i ricordi di scuola di molti di noi.

A Gardner

3. Semantica della comunicazione didattica La teoria dell’informazione era convinta che la conoscenza e la corretta applicazione della sintassi della comunicazione da parte di emittente e ricevente fosse sufficiente a garantire successo alla comunicazione stessa. Quindi, se in una classe regna un religioso silenzio, l’insegnante si esprime in modo chiaro e i suoi studenti dimostrano di capire cosa stia dicendo, dovremmo disporre di tutti

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Semantica della comunicazione didattica

gli elementi che decretano il successo di quella comunicazione. Di fatto le cose sono un po’ più complicate. All’insegnante non è sufficiente controllare il processo di codifica della propria comunicazione: egli deve garantirsi che questa sia funzionale alla comprensione dei significati da parte dei suoi allievi. La semantica della comunicazione didattica trova qui il proprio spazio: essa ha a che fare con la ricerca e la gestione delle informazioni, la costruzione della conoscenza a partire da esse, l’appropriazione del sapere. La prima questione, in un contesto come quello attuale Information Literacy caratterizzato da una massiccia presenza del Web, già vede spostarsi i termini “classici” in cui di solito viene posta. L’insegnante nel nostro sistema socio-culturale non è più il detentore pressoché unico delle informazioni come invece tradizionalmente è sempre accaduto. Questo significa che i suoi studenti, già ai livelli più bassi della scolarizzazione, vivono immersi nelle informazioni che a scuola riceveranno spesso molto tempo prima di riceverle. Si tratta di un fatto doppiamente critico: per l’insegnante, poiché comporta una radicale ridefinizione dei suoi compiti; per gli studenti, poiché nel diluvio delle informazioni (Levy 1999) da cui sono travolti è molto difficile distinguere le informazioni affidabili da quelle che invece rischiano di alimentare delle misconception. Il problema è particolarmente evidente nel caso di quelle informazioni che sono veicolate e reperite nel Web. Internet, nell’esperienza quotidiana di scuola, ha sostituito di fatto la biblioteca e l’enciclopedia, ponendo il problema di come rendere proficuo il suo uso senza ridurlo a un semplice taglia-eincolla. A ben vedere le questioni sono almeno due. Vi è anzitutto un problema di efficacia della ricerca. Nor- La ricerca efficace malmente si accede alla rete da Google, il più diffuso motore di ricerca; si analizzano le prime pagine dei risultati di ricerca e a quelle ci si ferma. Occorrerebbe, invece, “incrociare” la ricerca in Google con quelle svolte servendosi di altri motori (ve ne sono almeno 600 disponibili, ciascuno con il proprio algoritmo) e renderla più raffinata facendo ricorso alle modalità della ricerca avanzata. Con queste attenzioni si ottiene di separare l’in- Valore e gerarchia formazione da ciò che informazione non è, ma non si delle fonti Internet

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Capitolo VIII - Pier Cesare Rivoltella - Comunicazione e relazioni didattiche

risolvono né il problema della pertinenza (rispetto agli obiettivi di ricerca) né della gerarchia delle fonti. Nel Web la pratica del link, del calco, del mirroring, sono frequenti. Questo significa che determinare chi sia il vero autore di un’affermazione è complicato, dato che la stessa viene spesso ripresa e rimbalzata più volte da un sito all’altro senza cura di citare chi ne sia l’autore originario. E ancora, si pensi a come cambi nel Web il modo in base al quale riconosciamo autorevolezza a un’informazione. Sono problemi che richiedono attenzione e un training specifico e che afferiscono a quel che in un contesto internazionale si definisce Information Literacy: un compito che il sistema formativo oggi non può più evitare di assumersi. Recuperare in modo intelligente le informazioni non Il Web 2.0 è sufficiente: occorre costruire e gestire conoscenza a pare il Knowledge tire da esse. Anche in questo caso, lo studio della comuManagement nicazione didattica non può ignorare il ruolo delle tecdi classe nologie e in particolare delle applicazioni 2.0. Quest’ultime rappresentano anzitutto un supporto alle pratiche attraverso le quali la conoscenza viene costruita, spesso in forma collaborativa: che sia attraverso un blog di classe (Friso 2009; Bruni 2009), nello spazio più tradizionale di un Learning Management System come Moodle, o grazie alla mediazione di un Google Group, sempre più l’insegnante sente la necessità di estendere la propria comunicazione con la classe oltre lo spazio dell’aula. Tale comunicazione, nella misura in cui si apre a generare contenuti, vive il problema della loro archiviazione e ricercabilità. Qui si colloca la funzione dei repository come Dropbox o come Google Drive: applicazioni cloud che consentono di sincronizzare on line e sul proprio device i contenuti, essi ne favoriscono la condivisione attraverso i principali social network, da Facebook, a Twitter, a Google +. Queste forme di gestione della conoscenza sono, inMetacognizione fine, la premessa all’appropriazione del sapere. Qui troe pensiero critico vano spazio tutti quegli aspetti della comunicazione didattica che sono maggiormente finalizzati allo sviluppo del pensiero critico e alla metacognizione. In un contesto come quello della cultura attuale, segnato dal pluralismo e dalla perdita dei punti di vista centrali, compito del sistema formativo è proprio

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Pragmatica della comunicazione didattica

quello di fornire strumenti di controllo dei processi cognitivi che ne consentano l’attraversamento. Qui si ritaglia lo spazio per il proprio intervento la Media Literacy. Media Literacy  Di fronte ai discorsi circolanti che inneggiano al valore democratico della Rete, al fatto che in essa sarebbero garantiti l’accesso e il diritto alla libera espressione, la scuola ha il dovere di richiamare gli studenti a un supplemento di senso critico, perché la dittatura degli script, di là dal facilitare l’accesso al Web, ne favorisce l’omologazione (Toschi 2011). Analogamente non si può essere sicuri che la voce di un blogger in Twitter sia veramente libera o che la moltiplicazione indiscriminata dei punti di vista sia espressione di pluralismo o non piuttosto di disorientamento. Anche dopo il passaggio dai media mainstream, controllati dai grandi apparati, ai personal media che rendono possibile a ciascuno di prendere la parola nel Web, occorre che la comunicazione didattica vigili sulla salvaguardia della consapevolezza e si adoperi per fornire agli studenti gli strumenti che servono loro a esercitare il dubbio sulle forme testuali.

4. Pragmatica della comunicazione didattica Uso dei codici e costruzione dei significati non si possono disgiungere dall’attività in contesto: la pragmatica della comunicazione didattica riguarda questo specifico aspetto. In essa è possibile distinguere specifiche dimensioni che consentono di declinare teorie e metodi della comunicazione didattica stessa. La prima di queste dimensioni è quella informativa. Informazione, Trasferire contenuti è una delle funzioni originarie della istruzionismo, trasmissione comunicazione didattica poiché abilita la trasmissione culturale culturale, da sempre una delle principali ragion d’essere del sistema formativo. Fin dalle culture a oralità primaria, questo compito è andato di pari passo con il conformismo sociale: consentire all’allievo di sviluppare pensiero divergente significa, infatti, consentirgli di modificare la propria ricezione (e di conseguenza la propria ritrasmissione) del patrimonio culturale proveniente dalla tradizione. Viene da qui la forte parentela che esiste tra la comunica-

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Capitolo VIII - Pier Cesare Rivoltella - Comunicazione e relazioni didattiche

zione informativa, la centratura della didattica tradizionale sui contenuti e sulle discipline e le teorie che si riconoscono nel paradigma dell’istruzionismo, nel bene e nel male il più longevo nella storia delle didattica. Per mantenere intatto il patrimonio della tradizione e favorire la riproduzione sociale e culturale occorre formare “teste ben piene”: la lezione frontale, lo studio mnemonico, una valutazione basata sulla restituzione dei contenuti appresi e sul Veridical Decision Making sono gli strumenti principali di T Costruttivismo questo approccio. La stagione del costruttivismo ne ha avuto in larga parte ragione con alcune unilateralità che occorre denunciare. La prima è l’indebita identificazione dell’istruzionismo con la trasmissione culturale: se il primo è un modo di pensare il processo di istruzione passivizzante e poco efficace ai fini dell’apprendimento, la seconda è sempre stata ed è bene che rimanga il compito principale della scuola. Si tratterà quindi di sostituire all’istruzionismo altri modelli didattici ma senza rinunciare al compito della trasmissione culturale senza del quale una società non può avere futuro. Una seconda osservazione merita la lezione frontale, la situazione didattica tipica di questa dimensione dell’agire comunicativo in classe. Se è vero che assunta come unica forma della comunicazione didattica essa verosimilmente non può produrre grandi risultati negli studenti (se non noia, scarsa attenzione, bassa motivazione e ancor più basso coinvolgimento), è altrettanto vero che mantiene se ben condotta un proprio valore didattico. Tale valore va cercato nella sua funzione modellizzante e nella possibilità che essa offre allo studente di confrontarsi con una messa in forma esemplare del sapere. Il trasferimento di contenuti non è l’unica dimenComunicazione sione originaria dell’agire comunicativo dell’insegnante: e relazione altrettanto presente è la relazione con l’alunno. Indicata come momento qualificante della magistralità già da Platone per il quale – sull’esempio di Socrate e dei Pitagorici – il modello di insegnamento più efficace era quello improntato alla convivenza di maestro e allievi (bìos theoretikòs), la relazione sposta lo specifico della comunicazione didattica dalla veicolarità alla interazione profonda, facendone un momento di orientamento, di modellamento, di in-

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Pragmatica della comunicazione didattica

vestimento degli strati profondi della personalità. Come si ricorderà, la lezione socratica e platonica insiste su una doppia consapevolezza: da una parte l’accezione “vocazionale” dell’insegnamento, che porta Socrate a screditare i Sofisti proprio perché, contrariamente a questo orientamento, ricevevano denaro dai loro allievi; dall’altra, la centralità dell’esempio, della testimonianza, che è ciò che fa scegliere a Socrate di morire ingiustamente pur di non smentire con la propria fuga il rispetto delle leggi che più volte aveva promosso nei suoi allievi con il suo insegnamento. In un simile modello si apprende per modellamento, facendo quel che il proprio maestro insegna a fare: l’apprendistato, una delle forme didattiche più antiche, si costruisce esattamente su questa relazione in cui il novizio, affiancando il professionista esperto, apprende da lui quasi per osmosi, modellando la propria pratica alla sua (ne resta traccia nel cosiddetto “anno di prova” che l’insegnante neoassunto è tenuto a fare sotto la guida di un collega-tutor). Nella tradizione didattica occidentale si iscrivono in questo modello di insegnamento tutte le forme di didattica one-to-one: il discepolato nel mondo classico, la direzione spirituale nella tradizione cristiana, nonché le forme più recenti di tutorato, di coaching, di mentoring. Gli strumenti di cui queste strategie didattiche si servono sono l’orientamento, la lezione dialogica, le diverse forme dell’accompagnamento (come nel doposcuola, o nelle “ripetizioni”). In tutte, lo specifico è rappresentato dall’interazione individualizzata dell’allievo con il maestro. Essa rappresenta allo stesso tempo il maggior pregio e il principale limite della relazione didattico-educativa. Il pregio sta nella possibilità che essa garantisce al maestro di incidere in profondità sull’animo dell’allievo: se, come dice Platone, in-segnare vuol dire “scrivere sull’anima” di qualcun altro, si ricava da questa immagine tutta la forza e la portata che la dimensione relazionale della comunicazione didattica reca con sé. E tuttavia, proprio per questo, essa si espone al rischio del plagio, della manipolazione, del reciproco investimento libidico (come nel celebre caso di Abelardo ed Eloisa), di un narcisismo – quello del maestro – che si nutre della dipendenza dell’allievo (Steiner 2003) mentre invece lo dovrebbe ren-

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Capitolo VIII - Pier Cesare Rivoltella - Comunicazione e relazioni didattiche

dere progressivamente sempre più libero (Perrenoud 2001). Di qui la grande responsabilità che alle professioni educative proviene dal fatto di entrare in relazione in profondità con gli allievi nella fase delicatissima della loro crescita. Le altre due dimensioni – quella esplorativa e quella parEsplorare, partecipare tecipativa – sono meno tradizionali ma non per questo si può dire che non portino in gioco forme importanti della comunicazione didattica. Il viaggio costituisce una potentissima metafora della comunicazione (Braudel 2002) e dell’educazione (Moscato 1994). Quando si viaggia si meticciano le culture e si ampliano i punti di vista: essere all’estero comporta per chi viaggia di abbandonare il proprio sguardo sulle cose e di guadagnarne uno diverso. Si tratta di quel pensiero posizionale di cui Martha Nussbaum (2011) parla fondando su di esso la tolleranza interculturale e quella che lei chiama «istruzione per la democrazia». La logica della scoperta che è propria della comunicazione esplorativa si alimenta di questo tipo di sguardo. In didattica essa ha a che fare in prima istanza con Metodi esplorativi le attività outdoor, visite didattiche e viaggi di istruin didattica zione. Novità dell’attivismo pedagogico (prima del T Attivismo Novecento non si era soliti accompagnare gli studenti fuori della classe) queste pratiche hanno la funzione di far incontrare agli studenti la vita nelle sue diverse forme: vale per la bottega dell’artigiano, per l’ambiente e per le forme dell’arte. Ma la dimensione esplorativa nella comunicazione didattica ha a che fare anche con le attività indoor, ovvero con tutto ciò che riguarda l’adozione del problem solving e dei metodi investigativi nella propria didattica. Il valore di tutte queste forme di attività didattica va cercato nella funzione che la scoperta ha in relazione all’apprendimento e con la possibilità che viene offerta allo studente di fare ipotesi, verificarle, scrivere testi a ridosso della vita lì dove essa si svolge. In questo caso quel che viene sviluppato è l’Adaptive Decision Making, ovvero una presa di decisione che non si confronta con un problema che prevede una sola soluzione vera, ma più soluzioni adeguate tra le quali si tratta di scegliere sulla base di differenti indicatori di opportunità.

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Tecnologie della comunicazione didattica

I metodi attivi, la simulazione, il role playing e tutte Apprendimento partecipativo le forme di didattica immersiva (si pensi allo stage e ai tirocini) si possono infine ricondurre alla dimensione partecipativa della comunicazione didattica. In questo caso l’apprendimento passa attraverso la partecipazione dello studente a una determinata esperienza come accade nei clinic, o nelle summer school, dove il carattere residenziale porta i partecipanti a vivere insieme ottimizzando come momenti di apprendimento anche i tempi informali non finalizzati all’attività didattica. Ma anche il lavoro di gruppo nelle sue diverse forme appartiene a tutti gli effetti alle forme della didattica partecipativa.

5. Tecnologie della comunicazione didattica Da qualche anno le politiche educative e le scelte dei dirigenti scolastici mettono a tema in maniera sempre più convinta la preTabella 1 – Le dimensioni della comunicazione didattica Dimensioni

Centratura

Apprendimento

Didattica

Informativa

Contenuti, discipline

Mnemonico

Lezione frontale

Relazionale

Esempio, testimonianza

Imitativo

Dialogo

Esplorativa

Problemi, ambienti real life

Per scoperta

Visite didattiche, problem solving, metodi investigativi

Partecipativa

Situazioni immersive

Esperienziale

Metodi attivi, lavoro di gruppo

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Capitolo VIII - Pier Cesare Rivoltella - Comunicazione e relazioni didattiche

senza delle tecnologie didattiche all’interno della classe. Si pensi al programma «One laptop per child», promosso dal mit di Boston, al programma di diffusione delle lim, alle iniziative del miur Cl@assi 2.0 e Scuola 2.0, alle tante iniziative finalizzate all’adozione di un tablet per ogni studente. Si tratta di iniziative che, al di là della loro condivisibilità (risentono ancora di un orientamento fuzionalista e si basano su un presupposto in definitiva determinista in base al quale l’innovazione pare dipendere dall’introduzione fisica della tecnologia in scuola), stanno modificando la concettualizzazione stessa delle tecnologie didattiche e del loro luogo in classe. Tale modificazione si può cogliere parlando di uno spostamento in corso da una rappresentazione festiva della tecnologia a una rappresentazione feriale. L’idea festiva della tecnologia era propria della scuola delle aule informatiche e multimediali. Veri e propri santuari in cui si poteva entrare solo poche volte la settimana, a prezzo di prenotazioni e lunghe contese con i colleghi, queste aule inducevano negli studenti la percezione che la tecnologia non fosse integrata nelle pratiche ordinarie di scuola e che poterci lavorare rappresentasse per loro una sorta di premio. La tecnologia diventa feriale, invece, quando la copertura wireless rende disponibile la connessione in ogni classe e la dotazione di netbook o di tablet emancipa lo studente dalla necessità di accedere a una postazione fissa. Questi dispositivi, inoltre, sono poco ingombranti e possono essere tenuti sul banco insieme agli altri materiali scolastici. La tecnologia perde la sua aura di eccezionalità, diventa ordinaria, entra nelle pratiche routinarie degli studenti e degli insegnanti. Il risultato è che per gestire la comunicazione didattica l’insegnante si trova oggi a dover sviluppare nuove competenze, in modo particolare a livello di trasposizione e regolazione. Nel primo caso si deve pensare al formato di quella che sempre più spesso viene chiamata “lezione digitale”, una lezione che fa leva su tre principali caratteristiche: – il primato dell’azione (muove sempre da una microattività di produzione degli studenti);

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Tecnologie della comunicazione didattica

– la metacognizione (strutturandosi per Episodi di Apprendimento Situato, la lezione digitale trova nel debriefing, cioè nel momento della riflessione sul processo attivato il proprio momento qualificante); – la lezione a posteriori (così definiva la lezione Freinet, Dewey A una lezione che “viene dopo” l’attività di indagine preparatoria dei materiali che è compito dello studente). Quanto alla regolazione, essa viene chiamata in causa dalla presenza di dispositivi “centrifughi” come quelli mobili. Centrifughi perché possono favorire la distrazione e aumentare il rumore della classe rendendola più difficile da gestire.

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La comunicazione e le relazioni didattiche. Mappa concettuale

Capitolo nono

La trasposizione didattica Pier Giuseppe Rossi - Ljuba Pezzimenti

1. Introduzione Il processo di trasposizione didattica è centrale per l’insegnamento. Il termine “trasposizione didattica” è stato introdotto negli anni Ottanta da Chevallard per indicare quel processo di ristrutturazione attraverso cui il “sapere sapiente” diviene “sapere insegnato” e, poi, appreso (Chevallard 1985). Tale processo è stato interpretato in modo diverso da vari autori. Ab- Quattro prospettive per la trasposizione biamo raggruppato le posizioni di alcuni di essi sedidattica condo quattro prospettive: – coloro che pongono a fondamento del processo di trasposizione l’epistemologia del sapere e la psicologia dell’apprendimento; – coloro che mettono l’accento sulla filosofia educativa del docente; – coloro che leggono la trasposizione come mediazione; – coloro che focalizzano l’attenzione anche sulla situazione didattica.

2. L’epistemologia del sapere e la psicologia dell’apprendimento Includiamo nel gruppo di coloro che pongono a fondamento della trasposizione didattica l’epistemologia del sapere e la psicologia dell’apprendimento Jerome S. Bruner, Yves Chevallard, JeanLouis Martinand, Michel Develay, Jean-Pierre Astolfi. Già all’inizio degli anni Sessanta Bruner dichiarava che Bruner A

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Capitolo IX - P.G. Rossi - L. Pezzimenti - La trasposizione didattica

«il primo e più ovvio problema è costruire programmi che possano essere insegnati da maestri comuni ad alunni comuni e che, nello stesso tempo, riflettano chiaramente i principi basilari delle varie discipline» (Bruner 1978, p. 43).

Bruner rilevava come questo problema avesse due aspetti: – come ricostruire le discipline basilari affinché le idee fondamentali e più feconde avessero un posto centrale; – come adeguare le difficoltà dei contenuti di studio alle capacità degli alunni di classi diverse. Bruner aveva dunque individuato il fulcro della trasposizione didattica nell’adattamento di contenuti disciplinari a strutture cognitive in formazione (quelle del giovane “pubblico” della scuola), badando a non perdere, in questa attività di riorganizzazione, gli aspetti strutturali del sapere. Per lo psicologo la struttura disciplinare ha insite le forme della cultura, la quale «permette di formare esseri umani più capaci e più attivi» (ibi, p. 227). L’elemento formativo delle discipline risiede dunque nella loro struttura. Bruner si chiede come sia possibile fare acquisire al diLa teoria dell’istruzione scente, fin dalla prima infanzia, il modo di pensare proprio di una disciplina. Chiama tale problema «problema della conversione» (Bruner 1997, p. 235). Da qui nasce la teoria dell’istruzione con quattro caratteristiche: – deve «stabilire quali esperienze siano più atte a generare nell’individuo una predisposizione ad apprendere»; – deve «specificare il modo in cui un insieme di cognizioni debba essere strutturato perché possa essere efficacemente compreso dal discente»; – deve «specificare la progressione ottimale con cui va presentato il materiale che deve essere appreso»; – deve «specificare la natura e il ritmo delle ricomTeoria  dell’istruzione pense e delle punizioni nel processo dell’apprendimento e dell’insegnamento» (ibi, pp. 75-76). Ci soffermiamo sulla seconda caratteristica. Essa è relativa alla ristrutturazione dei contenuti affinché possano essere appresi dal discente. Per Bruner

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L’epistemologia del sapere e la psicologia dell’apprendimento

«ogni idea, ogni problema o insieme di cognizioni possono essere presentati in termini sufficientemente semplici da consentire ad ogni scolaro di comprenderli» (ibi, p. 79).

Nella ristrutturazione dei contenuti occorre considerare tre criteri: il “modo” di rappresentazione, l’“economia” della rappresentazione, la sua “efficacia”. Questi criteri variano in relazione alle diverse età, al diverso stile dei discenti, alle diverse materie. Bruner propone tre modi di rappresentazione1 del I modi di sapere, conformi alle concezioni del mondo del di- rappresentazione scente: del sapere – mediante un insieme di azioni atte al raggiungimento di un certo risultato (rappresentazione attiva); – mediante un insieme di immagini riassuntive o di grafici che rappresentano un concetto senza definirlo completamente (rappresentazione iconica); – mediante un insieme di proposizioni simboliche o logiche (rappresentazione simbolica) (ibi, p. 80). L’utilizzo di questi tre modi di rappresentazione della conoscenza è essenziale per coniugare la struttura delle discipline con la psicologia dell’apprendimento (ibi, p. 235). Chevallard, nel testo La trasposizione didattica. Dal Yves Chevallard sapere sapiente al sapere insegnato, conia il termine “tra- e il concetto di trasposizione sposizione didattica”2 con il significato di «lavoro che di didattica un oggetto del sapere da insegnare fa un oggetto di insegnamento» (Chevallard 1985, p. 39). Per il disciplinarista ogni progetto sociale d’insegnamento e di apprendimento si costituisce grazie alla designazione di contenuti di sapere come contenuti da insegnare. Tuttavia la trasposizione didattica non è solo un processo di “designazione”, ovvero di scelta, ma di trasformazione. In questo processo i passaggi sono i seguenti:

1 La rappresentazione «è il modo in cui il bambino si libera dagli stimoli immediati e conserva l’esperienza passata in un modello» (Bruner 1999, p. 29). 2 In realtà il primo a usarlo è Michel Verret nel testo Le temps des études (1975) a cui Chevallard si rifà.

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Capitolo IX - P.G. Rossi - L. Pezzimenti - La trasposizione didattica

– un contenuto del sapere3 viene scelto come oggetto da insegnare, ovvero viene considerato degno di essere inserito in un programma di istruzione; questa designazione è stabilita in base a esigenze sociali; – il contenuto scelto come oggetto da insegnare subisce un insieme di trasformazioni adattative che lo fanno diventare oggetto di insegnamento. Nel processo di trasposizione didattica si verificano dunque due passaggi: oggetto del sapere -> oggetto da insegnare -> oggetto di insegnamento. La trasposizione didattica si divide in esterna e inTrasposizione terna: la prima è quella realizzata dalle commissioni ideaesterna e trici dei programmi ministeriali e da coloro che redigono trasposizione i manuali scolastici; la seconda è quella compiuta dagli interna insegnanti. La trasposizione didattica interna si divide a sua volta in una fase di linearizzazione del sapere, che Chevallard chiama “cronogenesi” e che corrisponde alla pianificazione o progettazione dei contenuti da insegnare, e nella fase dell’insegnamento in atto, fase della “topogenesi”. Cronogenesi e topogenesi definiscono due modalità di rapporto al sapere che sono differenti per insegnante e discente. La prima è una differenza temporale e quantitativa, ovvero l’insegnante “sa prima”, sa di più e anticipa; la seconda è una differenza qualitativa: l’insegnante “sa altrimenti” perché usa “registri di atti epistemologici” differenti da quelli adottati dagli studenti (ibi, p. 75). Chevallard mette in luce come gli oggetti di insegnaGli oggetti di mento, quelli che vengono “creati” dagli insegnanti, siano insegnamento degli oggetti costruiti ad hoc per essere insegnati e pertanto siano diversi dagli oggetti del sapere. A questo riguardo egli cita il «principio di vigilanza epistemologica» che consiste nel chiedersi quale rapporto esista tra l’oggetto di insegnamento e l’oggetto del sapere al quale si riferisce. Il disciplinarista parla di una vera e propria «responsabilità epistemologica» degli insegnanti nei confronti dell’oggetto di insegnamento. 3 Il sapere da cui ha avvio il processo di trasposizione didattica è definito “sapere sapiente”: esso è il prodotto delle comunità scientifiche e di ricerca.

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L’epistemologia del sapere e la psicologia dell’apprendimento

Il processo di Non sempre, secondo Chevallard, il sapere “linearizapprendimento zato” e progressivamente proposto agli alunni incontra il loro naturale modo di apprendere, che ha natura reticolare ed è caratterizzato da fasi di progressione e regressione. Per Chevallard nei processi di apprendimento vale la teoria freudiana dell’après-coup (ibi, p. 77), in base alla quale le esperienze presenti gettano nuova luce sulle passate, modificandone l’interpretazione. Così per Chevallard i processi didattici non possono essere «concepiti secondo il modello dominante di una freccia temporale irreversibile» (ibi, p. 88), proprio perché al discente, nel suo incedere apprenditivo, capita di “voltarsi indietro”, di comprendere in ritardo grazie alla luce prodotta da una conoscenza successiva. Develay espone la sua concezione della trasposizione Develay A didattica in un testo del 1995, intitolato Savoirs scolaires et didactiques des disciplines. Egli concorda con Chevallard sull’idea della distanza che si crea tra il sapere insegnato o scolastico e quello universitario o sapiente, tuttavia ritiene che la nozione di trasposizione proposta da Chevallard «meriti […] due estensioni e un complemento» (Develay 1995, p. 26). La prima estensione è a monte e riguarda l’origine del sapere scolastico. Per Develay il sapere da insegnare ha una doppia derivazione: non proviene solo dai saperi sapienti, ma anche dalle pratiche sociali di riferimento. Il disciplinarista afferma infatti che i contenuti che si insegnano, «prima di corrispondere a dei saperi sapienti sono conformi ad attività e a ruoli sociali» (ibidem). Il concetto di pratica sociale trova la sua paternità in La pratica sociale di Martinand (1986; 1995), disciplinarista anch’egli e docente riferimento di tecnologia. È a partire dall’insegnamento di questa disciplina che Martinand elabora il concetto di pratiche sociali di riferimento: l’insegnamento delle tecnologie prevede attività laboratoriali quali ad esempio la costruzione di oggetti al fine di dare agli studenti un’idea delle tecniche di fabbricazione. Alla base di tali attività non vi sono solo dei saperi teorici, ma anche dei saperi che si esprimono nella pratica e che hanno rilevanza in campo sociale.

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Capitolo IX - P.G. Rossi - L. Pezzimenti - La trasposizione didattica

Il riferimento alle pratiche sociali dà ragione di un modo altro di pensare le discipline scolastiche influenzato dal rapporto che la scuola intrattiene con la società. Lo stesso Chevallard, La soggettività tuttavia, parlava di “progetto sociale d’insegnamento e dell’insegnante apprendimento” per sottolineare come i contenuti da ine il lavoro segnare siano scelti in base alle esigenze della società di degli alunni un dato tempo e di un dato luogo. Tornando a Develay, la seconda estensione al concetto di trasposizione didattica di Chevallard concerne le ultime fasi del processo. Develay dichiara che «la trasposizione didattica riguarda tutte le trasformazioni che saperi sapienti e pratiche sociali di riferimento subiscono al fine di dar luogo non solo a saperi da insegnare, ma a saperi insegnati e, per finire, a saperi appresi dagli alunni» (Develay 1995, p. 26).

Il disciplinarista mette dunque l’accento sul fatto che la trasposizione continui in azione chiamando in causa sia il lavoro di mediazione degli insegnanti che quello di apprendimento degli alunni. Develay, a differenza di Bruner e Chevallard, include la soggettività dell’insegnante nel processo di trasposizione: essa si manifesta nella concezione della disciplina del docente, nei tagli al programma che decide di compiere, nel curricolo nascosto che emerge proprio nel momento dell’azione. Definite le due estensioni, il complemento alla teoTrasposizione come ria di Chevallard è relativo a tutto il processo di rididattizzazione e assiologizzazione strutturazione del sapere. Per Develay il passaggio dal sapere sapiente e dalle pratiche di riferimento al sapere insegnato e appreso è caratterizzato da due attività: «un lavoro di didattizzazione (che punta a rendere operazionali le situazioni di apprendimento con scelte operate nella logica dei contenuti, attraverso i materiali proposti, i compiti da scegliere, le consegne date, i criteri di valutazione) e […] un lavoro di assiologizzazione (in base al quale vengono scelti i contenuti che racchiudono certi valori relativi al rapporto dell’alunno con il sapere, degli alunni tra loro, degli alunni con l’insegnante, dei saperi con il progetto della società)» (ibi, p. 26).

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L’epistemologia del sapere e la psicologia dell’apprendimento

Lo schema Per Develay la trasposizione include dunque una proposto da dimensione propriamente didattica e una dimensione Develay valoriale. Ad esse si affianca la dimensione che chiamiamo epistemologica, la quale implica l’attenzione Astolfi, Sadei sadell’insegnante alla struttura del sapere da insegnare pore peri, 2008) anche in funzione della sua significatività agli occhi degli alunni. Martini parla di una doppia istanza, epistemologica e Martini A pedagogica, che nel processo di trasposizione occorre rispettare al fine di mantenere una “distanza-vicinanza” adeguata degli oggetti insegnati sia alla forma scientifica del sapere, sia alle esigenze dei soggetti in apprendimento (preconoscenze, stili) e della società nella quale sono inseriti (realtà culturale e richieste formative di quella realtà). Un’opportuna prossimità al sapere esperto fa sì che il sapere trasposto mantenga le caratteristiche della pertinenza, ma anche dell’accessibilità (Martini 2012, p. 44), tenendo così fede al criterio della “formatività” (ibi, p. 45). Le istanze, epistemologica e pedagogica trovano “Essenzializzazione” e concretizzazione nei processi di “essenzializzazione” “problematizzazione” e “problematizzazione”, a cui si aggiungono quelli di “completezza” e “controllabilità”. Il processo di “essenzializzazione” consiste nell’individuazione degli elementi di conoscenza che hanno un ruolo essenziale nell’architettura complessiva di un sapere: il riferimento è agli oggetti o concetti propri di una disciplina, al suo linguaggio, al metodo di ricerca, i quali dovrebbero essere distribuiti in maniera omogenea nel tempo e nelle situazioni didattiche, per rispettare il principio della “completezza”. Il processo di problematizzazione prevede invece che il docente strutturi situazioni problematiche intorno agli elementi essenziali della disciplina. Tali situazioni devono permettere la ricostruzione della genesi del sapere, a partire dagli interrogativi che gli alunni dovrebbero porsi come alcuni uomini hanno fatto nel corso della storia. In questo modo il processo di apprendimento acquisisce quel carattere che Meirieu definisce «verticalità significativa» (Meirieu 2007, p. 86).

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Capitolo IX - P.G. Rossi - L. Pezzimenti - La trasposizione didattica

3. La soggettività del docente Shulman e Fenstermacher, pur non parlando esplicitamente di trasposizione didattica, pongono in particolare risalto due aspetti: il ruolo della soggettività dell’insegnante nel processo di trasposizione, Shulman, il fatto che le finalità educative dell’insegnamento hanno priorità rispetto ai saperi, Fenstermacher. Shulman parla della pedagogical content knowledge per Shulman e la indicare la conoscenza specifica che posseggono gli insePKC gnanti e che consiste in «una miscela di contenuto e peA Shulman dagogia» (Shulman 1987, p. 8). In quanto comprensione e rappresentazione, prima ancora che adattamento, la pedagogical content knowledge (pkc) dipende dalle conoscenze già possedute dall’insegnante e dal modo in cui ne apprende di nuove, nonché dalla sua filosofia educativa, ovvero dalle sue convinzioni, dalle sue concezioni, dai suoi valori. Da essi il docente fa emergere i concetti di apprendimento, di insegnamento e di formazione, da cui derivano poi le scelte che opera nella trasposizione. Il modello elaborato da Shulman, la pkc, coinvolge ragioT pkc namento e azione e si compone di sei operazioni che l’insegnante svolge per trasformare il contenuto di conoscenza in contenuto d’insegnamento. Innanzitutto vi è la comprensione personale del docente dei contenuti da insegnare. La seconda operazione consiste nella trasformazione dei contenuti studiati al fine di farli comprendere ai discenti; tale operazione risiede essenzialmente nell’individuazione di modi alternativi per rappresentare le idee chiave. Con la terza operazione (istruzione) si passa all’atto pedagogico, ovvero alla presentazione dei contenuti in classe e dunque all’interazione con gli studenti. Segue una fase di valutazione degli apprendimenti dei discenti e dell’efficacia dell’azione insegnante e una riflessione post azione al fine di una nuova comprensione di finalità, argomenti, processi pedagogici. Fenstermacher, filosofo dell’educazione, mette in Gary Fenstermacher luce come la trasposizione dei contenuti a scuola sia e la trasposizione inevitabilmente influenzata da una dimensione momorale delle rale implicita o esplicita: la prima è legata a quella discipline

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La mediazione

che egli definisce “manner” (Fenstermacher 1986; 1992; 1999a; 1999b), ovvero al comportamento dell’insegnante. Il modo in cui questi si rapporta agli alunni nelle varie situazioni scolastiche fa trasparire valori quali l’equità, il rispetto, la stima. La dimensione morale esplicita è quella che accompagna, e spesso determina, la scelta dei contenuti e la metodologia attraverso la quale sono proposti per il raggiungimento di certe finalità educative (1999b). Queste ultime sono per Fenstermacher le finalità principali dell’insegnamento; esse consistono nello sviluppo di virtù morali, quali «la correttezza, il rispetto, l’apertura, l’onestà» (Fenstermacher 1986, p. 47) e intellettuali, quali «l’umiltà, la creatività, la riflessività, l’imparzialità» (ibidem).

4. La mediazione Per Damiano la mediazione corrisponde all’ultima fase Le fasi della trasposizione della trasposizione, preceduta dalla “legittimazione sodidattica ciale”, cioè dalla designazione degli oggetti culturali da in- in Damiano segnare in quanto socialmente rilevanti, e dalla “ricostruzione socio e psico-genetica”, cioè dalla ristrutturazione dell’oggetto culturale in base alla sua genesi storico-epistemologica4 e alla sua genesi nella mente del discente (Damiano, 2007a). La mediazione didattica consiste nella strutturazione Il concetto di mediazione del “campo pedagogico”, ovvero nell’insieme degli interdidattica venti che l’insegnante mette in atto al fine di «offrire occasioni di tirocinio delle strutture cognitive attraverso la mediazione delle strutture disciplinari rappresentandole secondo i codici – prassici, iconici, simbolici – congrui alle fasi evolutive del soggetto in apprendimento» (Damiano, 2004, p. 40).

4 Ricostruire socio-geneticamente un sapere o un concetto significa partire dalle domande fondamentali che si sono posti gli sviluppatori di quel sapere, seguirne le evoluzioni, gli ostacoli superati interni ed esterni, la metodologia adottata, le relazioni instaurate con altri saperi (Damiano 2007a).

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Capitolo IX - P.G. Rossi - L. Pezzimenti - La trasposizione didattica

La mediazione didattica consiste in un processo di «metaforizzazione» o «analogazione» dell’oggetto culturale (Damiano 1999), cioè nella rappresentazione dell’oggetto in “forme” che possano essere comprese dalle strutture cognitive dei soggetti in apprendimento, pur mantenendo le caratteristiche “reali”. I mediatori didattici – attivi, iconici, analogici e simbolici – permettono di atFasi di tuare i processi di “sostituzione” dell’oggetto cultu simulazione rale e di “simulazione” da parte del soggetto in fore sostituzione mazione. Il processo di mediazione esige un approfondimento. In ambito didattico-formativo il termine “mediare” si oppone a quello di “trasmettere”. Quest’ultimo contiene in sé il significato di inviare, consegnare qualcosa di completo e concluso da accogliere passivamente. La trasmissione di contenuti da parte dell’insegnante è spesso associata all’idea di discente come vaso da riempire. Chiaramente il concetto di trasmissione indica quali siano i contenuti da trasmettere. Se insegnare significa trasmettere conoscenze, è il sapere sapiente che va “comunicato” e non “trasposto” nella didattica. Di qui l’importanza nell’approccio gentiliano di docenti solo padroni della disciplina. Il concetto di mediazione, invece, è riconducibile all’immagine di un ponte che facilita non tanto il passaggio della conoscenza, quanto piuttosto la messa in relazione tra entità distinte al fine della costruzione, o meglio della ri-costruzione, della conoscenza. La mediazione didattica può essere intesa secondo due accezioni, che in ultima istanza coincidono. In base alla prima accezione la mediazione è la messa in relazione del soggetto in apprendimento con la realtà esterna, in base alla seconda è riferibile alla messa in relazione di una conoscenza ingenua con una conoscenza esperta o scientifica. Damiano, ne L’Azione Didattica, spiega la funzione Mediazione della scuola come ambiente protetto, eterotopia direbbe come relazione Foucault, in cui sperimentare la realtà ricostruita, tratra soggetto e realtà esterna sposta. L’insegnante decontestualizza l’oggetto culturale da apprendere e lo «ricontestualizza nella scena didattica» (Damiano, 1999, p. 207). Così epoche millenarie

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La mediazione

vengono trattate in alcune settimane, l’atomo invisibile a occhio nudo viene rappresentato mediante un modellino definito in tutte le sue parti. L’insegnante compie un’attività di metaforizzazione in cui la realtà rappresentata dagli oggetti culturali cambia forma pur non perdendo le sue caratteristiche strutturali, producendo dei “analogati” (ibidem). In questa situazione l’oggetto culturale viene “sostituito” dal suo analogato senza essere snaturato; il soggetto in formazione compie un movimento di allontanamento dalla realtà immediata per rappresentarsi l’oggetto culturale e simularne il funzionamento in una realtà alternativa, quella costituita dalla “scena didattica”. Sperimentare e manipolare l’oggetto culturale nella finzione protetta permette al discente di distanziarsi dalla “realtà reale” per costruirsi una rappresentazione mentale dell’oggetto, per poi tornare nella realtà non protetta con una nuova comprensione di esso. La mediazione si realizza attraverso la messa in campo, da I mediatori didattici parte dell’insegnante, di mediatori didattici. Essi: – si dispongono fra la realtà e la rappresentazione; – trasferiscono l’esperienza diretta dal contesto originario esterno all’interno dello scenario predisposto per l’insegnamento; – non valgono per sé, ma per loro natura rimandano a qualcos’altro; – stanno a garantire condizioni di sicurezza alla libera manipolazione degli oggetti culturali; – regolano la distanza analogica tra il Soggetto in Apprendimento e l’Oggetto Culturale (ibi, p. 214). Già Bruner parlava di rappresentazioni attive, iconiche e simboliche; Damiano ne aggiunge un’altra, quella analogica. I mediatori più vicini alla realtà esterna sono quelli I mediatori didattici  attivi, ovvero l’esperienza diretta. Il secondo mediatore, in ordine di distanza dalla realtà, è quello iconico. Esso è rappresentato da disegni, foto, carte geografiche, modellini e plastici, ma anche film, videotape, ovvero immagini dinamiche. Il terzo mediatore è quello analogico ovvero i giochi di ruolo. Infine, in ordine di distanza dalla realtà esterna, si pone il mediatore simbolico: «Lettere, numeri e altri tipi di simboli per rappresentare delle variabili e le loro relazioni» (ibi, p. 226).

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Damiano insiste sull’utilizzo integrato di tutti i mediatori e su un percorso non lineare dall’attivo al simbolico, ma reticolare, ovvero che implichi ritorni ai mediatori più prossimi alla realtà, anche una volta utilizzati i più distanti. Come detto precedentemente vi è una seconda acceMediazione zione del concetto di mediazione. In questo caso la relacome messa zione è tra una conoscenza ingenua e una conoscenza in relazione tra conoscenza esperta o scientifica. ingenua Centrale è il concetto di ostacolo. Gli ostacoli epistee conoscenza mologici (Bachelard 1934; Develay 1995; Brousseau esperta 1983; D’Amore et alii 2006; Fandiño Pinilla 2006) non sono una mancanza di conoscenza da parte del discente, ma piuttosto una conoscenza costruita attraverso un’esperienza limitata, spesso quella quotidiana. Tale conoscenza, che potremmo chiamare di “prim’ordine”, impedisce di interiorizzare la conoscenza scientifica in quanto funziona bene come spiegazione dei fenomeni della vita di tutti i giorni. Affinché la conoscenza esperta possa essere costruita, occorre innanzitutto che la conoscenza ingenua, o preconoscenza, sia decostruita. Se nella prima accezione di mediazione l’insegnante è colui che decontestualizza l’oggetto del sapere per ricontestualizzarlo in una situazione accessibile al discente, in questa seconda accezione il docente ha il compito di favorire la decostruzione di una conoscenza al fine della ricostruzione di un’altra. La decostruzione consiste nella messa in crisi dell’idea ingenua.

5. La situazione di insegnamento-apprendimento. La regolazione Come si sviluppa la trasposizione durante l’azione didattica? Alcuni autori riattraversano la tematica della trasposizione anche nello studio delle situazioni di insegnamento-apprendimento. Si parla in questo caso di trasposizione didattica in atto. Sebbene Tochon scinda la trasposizione didattica, relativa alla fase di preparazione della situazione didattica, dalla trasformazione pedagogica, il momento della comunicazione e costruzione del sa-

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pere in situazione, che definisce “fatto pedagogico”, Elisabeth Chatel, criticando tale separazione, sostiene che la fase della trasformazione dei contenuti non si ferma al momento dell’anticipazione o preparazione della lezione, bensì continua durante il suo svolgimento: «La trasformazione del sapere è legata al corso stesso dell’insegnamento effettivo in classe» (Chatel 1995, p. 13). Se nella pianificazione l’insegnante deve adeguare la disciplina insegnata all’epistemologia disciplinare La regolazione  o alle pratiche sociali di riferimento, nell’azione realizza l’adattamento tra i suoi atti e la sua comunicazione da un lato, e le risposte degli allievi dall’altro. Altet definisce regolazione questo passaggio che si sviluppa su quattro piani: cognitivo, pedagogico, della comunicazione, affettivo (2003). La tematica verrà articolata nel contributo primo della Parte terza a cui si rimanda per un approfondimento. L’attività di regolazione (Rossi 2011) si riferisce alla necessità di trovare un equilibrio tra differenti logiche e tensioni, e riguarda il modo in cui l’insegnante accoglie e gestisce gli eventi che si producono per via dell’incontro di diverse soggettività in un dato contesto. L’attività di regolazione è alla base della mediazione tra le conoscenze ingenue che emergono dagli interventi degli studenti e il sapere sapiente.

6. Una sintesi. Le quattro logiche Dall’analisi delle prospettive con cui vari autori analizzano la trasposizione didattica, ci è sembrato possibile identificare quattro logiche, presenti in quasi tutti gli autori esaminati e utili per analizzare le pratiche docenti. Esse sono: la Quattro logiche. Esempi  logica epistemologica, la logica valoriale, la logica dell’apprendimento e quella dell’ingegneria didattica. Tali logiche si mescolano e interagiscono nel processo di trasposizione e sono presenti nell’azione didattica. La loro definizione, infatti, nasce oltre che dall’analisi della letteratura, anche dall’osservazione delle pratiche didattiche di alcuni insegnanti di scuola pri-

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maria, nel corso delle quali era percepibile un intreccio di elementi di natura differente. Nella trasposizione il docente fa riferimento all’epiLogica epistemologica stemologia disciplinare storicamente dominante in un determinato periodo. Gli elementi costitutivi dell’epistemologia sono la metodologia di ricerca della disciplina, i suoi concetti e le sue teorie fondamentali, il suo linguaggio specifico. Per fare un esempio riportiamo gli elementi strutturali o indicatori epistemologici relativi alla disciplina storia: – il rapporto tra passato e presente; – la concezione delle fonti; – l’attenzione al tempo (logica cronologica) e allo spazio; – la messa in relazione tra gli eventi (logica delle interconnessioni e delle scale); – la concezione del e l’attenzione al metodo storico; – le tipologie di comunicazione della storia (narrativa, argomentativa…). A dimostrazione dell’interazione fra le logiche va sottolineato che gli elementi epistemologici sono rinvenibili attraverso il linguaggio dell’insegnante, le sue scelte didattiche, la scelta dei mediatori, la strutturazione di certe situazioni di apprendimento. I valori entrano a scuola innanzitutto attraverso le finalità Logica educative, o abiti mentali (Baldacci 2012, p. 15), le quali covaloriale stituiscono la dimensione specifica in cui gli aspetti valoriali e culturali di una società trovano concretizzazione nell’istituzione scolastica. Esse sono infatti l’oggetto delle premesse ai programmi ministeriali5 e definiscono l’idea di cittadino che la società di un dato momento storico ha fatto propria. Concretamente le finalità sono le virtù morali e intellettuali di Fenstermacher e comprendono i valori civili che Damiano divide in: – «procedurali», ovvero «vuoti di significato», «deboli» (Damiano 2007b, pp. 182-183); essi sono il pluralismo, la tolleranza, la laicità,

5 I programmi di insegnamento sono «un testo dove molte mani definiscono una sorta di contratto tra scuola e società» (Damiano 2007b, p. 184)

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valori del sapere scientifico moderno, i quali non affermano un principio, bensì lasciano spazio alla pluralità dei principi; – pieni o densi di significato: essi sono la giustizia, la libertà, la pace, che tuttavia, per non capovolgersi nel loro opposto, necessitano delle condizioni assicurate dai valori procedurali (ibi, p. 182). L’insegnante, nella sua azione didattica quotidiana, dà voce ai valori attraverso: – alcune scelte didattiche e di contenuto (mediatori, strutturazione di situazioni di apprendimento, contenuti stessi); – alcune affermazioni nel corso di spiegazioni, discussioni, concettualizzazioni; – la sua «manner» (Fenstermacher 1986), ovvero il suo comportamento, i suoi atteggiamenti nei confronti degli alunni durante lo svolgimento delle attività didattiche. Generalmente l’insegnante ha consapevolezza dei valori che traspone attraverso le scelte didattiche e di contenuto o tramite la comunicazione, mentre ciò che comunica col suo comportamento rientra per lo più in una dimensione implicita dell’insegnamento. Il docente, nella trasposizione, tiene conto di Logica quello che gli studenti possono apprendere, dei loro dell’apprendimento livelli di maturazione cognitiva. Piaget parla di stadi di sviluppo psico-motorio e cognitivo, in relazione ai quali l’insegnante può definire, per ogni età, la complessità dei contenuti, concetti, argomenti che, ritiene, i discenti possano comprendere. Bruner non condivide gli stadi di Piaget e afferma che qualunque concetto può essere compreso a ogni età, purché la modalità di comunicazione sia adeguata a quell’età e ai soggetti che si hanno di fronte (Bruner 1978). Il mancato rispetto dei livelli potrebbe causare, nella trasposizione dei saperi, quelli che vengono definiti ostacoli ontogenetici (D’Amore et alii 2008, p. 43), i quali si identificano con l’insufficienza a ricevere e comprendere determinati contenuti da parte di soggetti con strutture cognitive non ancora mature per recepire e decodificare quei contenuti. La stessa mediazione (utilizzo di certi

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mediatori) potrebbe risultare non adatta a un certo livello di sviluppo cognitivo (ostacoli didattici6). È Guy Brousseau a coniare l’espressione ingegneria Logica dell’ingegneria didattica per indicare la metodologia usata dall’insegnante per trasporre in classe i contenuti del sapere scelti. didattica Prendiamo dunque in prestito l’espressione di Brousseau A Brousseau e includiamo in questa dimensione quegli elementi che si riferiscono alla “cassetta degli attrezzi” dell’insegnante. Essi sono: i mediatori didattici descritti da Damiano (1999), le strategie (Calvani 2009) o procedure didattiche (Baldacci 2012), le Elementi condizioni organizzative (Altet 2003; Baldacci 2012),  dell’ingegneria didattica) degli aspetti della comunicazione (Altet 2003; Altet Vinatier 2008). L’idea di trasposizione didattica che abbiamo voluto affermare è di un processo di scelta e ristrutturazione di saperi che non si ferma alla fase progettuale, ma continua in azione. È influenzato dalla cultura storicamente dominante e anche dalla sogLe quattro logiche. gettività dei singoli docenti, e non riguarda solo ! Analisi dei video contenuti, ma anche valori.

Gli ostacoli didattici dipendono da una forma di incoerenza che può prodursi anche in relazione all’epistemologia disciplinare e non solo al livello di sviluppo delle strutture cognitive. 6

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