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Italian Pages 277 Year 2008
A RC H I V I O DI FILOSOFIA A RC H I V E S O F P H I L O S O P H Y
MARCO MARIA OLIVETTI U N F I LO S O F O D E L L A R E L I G I O N E
Editor Stefano Semplici Associate Editors Enrico Castelli Gattinara · Francesco Paolo Ciglia · Pierluigi Valenza Editorial Board Fr ancesco Botturi · Bernhard Casper · Ingolf Dalferth · Pietro de Vitiis Adriano Fabris · Piergiorgio Gr assi · Jean Greisch · Marco Ivaldo Jean-Luc Marion · Virgilio Melchiorr e · Stéphan Mosès† · Adriaan Peperzak Andrea Poma · Richard Swinburne · Fr anz Theunis Managing Editor Stefano Bancalari Editorial Assistant Fr ancesco Va lerio Tommasi Si invitano gli autori ad attenersi, nel predisporre i materiali da consegnare alla Direzione, alle norme specificate nel volume Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipografiche & redazionali, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2004 (Euro 34,00, ordini a : [email protected]). Il capitolo Norme redazionali, estratto dalle Regole, cit., è consultabile Online alla pagina «Pubblicare con noi» di www.libraweb.net. The authors are prayed to observe, in preparing the materials for the Editor, the rules stated in the Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipografiche & redazionali, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2004 (Euro 34,00, ordini a : [email protected]). Our editorial Rules are also specified at the page «Publish with Us» of www.libraweb.net
A RC H I V I O D I F I LO S O F I A archives of philosophy a j o u r na l f o u n d e d i n 1 9 3 1 b y e n r i c o c a s t e l l i f o r m e r ly e d i t e d b y m a r c o m . o l i v et t i
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marco maria olivetti un filosofo della religione
pisa · roma fa b r i z i o s e r r a e d i t o r e mmix
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sommario S. Semplici, Presentazione
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Tavola rotonda del 4 gennaio 2008 Marco M. Olivetti: il pensiero, l’opera, la persona B. Casper, Marco Maria Olivetti P. Kemp, The Exceptionality of the Ought. Olivetti and eco-ethica J. L. Marion, L’inconnaissabilité ou le privilège de l’homme S. Semplici, La speranza del filosofo P. Valenza, I Colloqui «Castelli»: una filosofia della religione attraverso gli Avantpropos
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* S. Bancalari, La teoria dell’intersoggettività. Prolegomeni ad un’interpretazione F. V. Tommasi, Dallo « schematismo dell’analogia » al « trascendentale senza illusione ». La riflessione « con » Kant e « al di là » di Kant F. P. Ciglia, Differenza e analogia. Percorsi dell’umano fra Levinas e Olivetti S. Micali, L’equivocità della soggettivazione: bisogno, riconoscimento e terzietà. Il colloquio pensante con Levinas G. Di Salvatore, Olivetti e l’avventura della fenomenologia L. Diotallevi, La spirale della secolarizzazione. Cercando ancora nella sociologia di Luhmann T. Hünefeldt, Olivetti e la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » S. Marini, Tra analitici e continentali. Per una lettura unitaria della modernità P. De Vitiis, Filosofia della religione come problema storico D. Collacciani, Spinoza e lo spinozismo nel pensiero di Olivetti A. Iacovacci, A colloquio con Jacobi E. Pistilli, L’esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi A. Gentile, « Limiti » e « confini » della ragione F. Ferraguto, Filosofia della religione, intersoggettività, rivelazione. Il confronto con Fichte C. Melica, Pro memoria. Olivetti lettore di Hegel E. Castelli Gattinara, Il nessun luogo dell’ogni dove F. Fraisopi, Orizzonte del sacro e analogia subjecti G. Cogliandro, Della modernità e del problema della filosofia della religione F. Morlacchi, Profilo di un filosofo credente P. Zordan, Intersoggettività e teologia filosofica A. Meoli, Enrico Castelli: il maestro
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* F. V. Tommasi, Nota biografica S. Bancalari, Bibliografia
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PRESENTAZIONE
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uello di Marco Maria Olivetti è un pensiero difficile. Per l’originalità del suo tentativo di sostituire l’etica all’ontologia come filosofia prima, anzi anteriore, come aveva scritto nella Prefazione ad Analogia del soggetto, il suo libro più importante. Per la sua capacità di spiazzare anche gli storici più eruditi e raffinati con nuovi e sempre intriganti punti di vista sugli snodi decisivi del moderno e, in particolare, delle ‘immagini’ della soggettività prodotte a partire dal primato del cogito. Per la garbata, penetrante ironia con la quale lasciava irrompere i gesti e le parole del quotidiano nella rarefatta professionalità degli addetti ai lavori, con il risultato di una cifra espressiva audace, inconfondibile, sorprendente. Ma anche e forse soprattutto per lo sforzo di tradurre la consapevolezza dell’esaurimento della tradizionale circolarità di essere e logos in una nuova opportunità di ‘fare filosofia’. Olivetti afferma quasi provocatoriamente che non esiste un’essenza dell’essere umano e che per questo vale la pena di rilanciare la domanda sulla persona e su ‘chi’ sia persona, troppo a lungo occultata dalla precedenza della « fatale questione ti esti ». Accetta senza sconti la sfida della differenza e cerca l’alternativa al silenzio della rinuncia nelle pieghe dell’origine ‘analogica’ di ogni logica, a partire dall’esperienza del loquor : sum, prae-es e abest, a significare che ogni ‘soggetto’ viene messo al mondo grazie ad un altro e ad altri e che questa catena delle mediazioni, estendendosi ‘a perdita d’occhio’, incorpora necessariamente nella relazione l’orizzonte della totalità sociale, la terza persona di un immemorabile sempre presente e tuttavia sempre presente come assente. Lascia risuonare in questo inter-esse che scompone la presenza e l’illusione di autosufficienza della riflessione l’imperativo di una responsabilità ineludibile : l’irriducibile diacronia che segna il congedo da ogni definitivo-definitorio e riapre in questo modo alla filosofia una via non per poter pensare a Dio come oggetto, ma certamente per poter e dover pensare a Dio. Aveva ragione il suo maestro Enrico Castelli nell’Introduzione a Il tempio simbolo cosmico, con il quale Olivetti si affacciò non ancora venticinquenne sulla scena filosofica italiana : già nel problema dell’architettura sacra nell’età della tecnica si leggeva la filigrana di una più profonda tensione fra il benessere dell’agio e il malessere, il disagio che ci fa sentire « tutte le assenze », l’impossibilità di trasformare il totalmente altro, attraverso il gioco di una grossolana mediazione idealistica, in totalmente questo. Ritrovando in questa impossibilità la centralità dell’ultimo, grande interrogativo kantiano : che cosa ci è lecito sperare ? I contributi che raccogliamo in questo volume hanno così un duplice obiettivo. Da una parte si tratta di ricostruire la rete concettuale e il ‘metodo’ sottesi alla proposta teorica di un intellettuale che può ben dirsi a tutto tondo europeo e che si è confrontato con le linee di pensiero più feconde e influenti del novecento : la fenomenologia, con tutte le sue nervature antropologiche e fino alle suggestioni del tournant théologique ; la ripresa dell’istanza trascendentale a valle del linguistic turn ; la teoria della società e la sociologia configuratasi come sociologia del sapere e insieme come sociologia della religione ; l’opera di Levinas come pietra di paragone di ogni tentativo di ‘costituire’ la soggettività come soggezione, dunque come un soggetto che non è originariamente pensiero, che non è originariamente il nominativo ‘io’ ma l’accusativo ‘me’, che non è originariamente soggetto ontologico, causa sui. Dall’altra occorre rendere conto della
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presentazione
convinzione che Olivetti ha vissuto come una vera e propria vocazione. La filosofia della religione non è stata per lui semplicemente una fra le tante filosofie seconde, ma la prospettiva privilegiata per dipanare l’intera vicenda del moderno e della filosofia nach der Auf klärung. Di qui l’interesse per i passaggi cruciali della sua categorizzazione come esito dell’estenuarsi della metafisica ontologica e della onto-teo-logia e per autori come Jacobi, Schleiermacher, Fichte e soprattutto Kant. Di qui, ancora, l’intuizione che è proprio nella temperie culturale post-kantiana, una volta verificata l’impraticabilità di una pura e semplice riduzione della religione ‘entro i limiti della ragione’, che vanno rintracciati le premesse e i primi sviluppi di quel nesso fra filosofia della religione e filosofia della storia che solo rende comprensibili prima il tentativo hegeliano di una soluzione ‘speculativa’ del problema dell’assoluto e poi i diversi percorsi nei quali il pensiero si è fratturato e ‘complicato’. Questo libro, tuttavia, non cerca solo di restituire lo spessore del contributo di Marco Maria Olivetti alla filosofia, alla filosofia della religione e ad alcuni capitoli della storia della filosofia. Si apre con le testimonianze che lo hanno ricordato in occasione del Colloquio Castelli che si è svolto nel gennaio del 2008 e dedicato, come lui aveva voluto, al tema del sacrificio. È stato quasi interamente scritto, per il resto, dai suoi allievi. Da quanti, nel corso di diverse generazioni, hanno ascoltato le sue lezioni, frequentato il suo studio, camminato con lui per le vie di Roma parlando di filosofia e delle cose piccole e grandi degli uomini. Il lavoro di uno studioso è quello di leggere libri e, ogni tanto, di scriverne qualcuno. Un professore raccoglie giovani intorno a sé e – quando sa e vuole – li aiuta a crescere. Con la generosità della correzione e magari, più avanti, con la fatica e la condivisione di un impegno di ricerca e di un’analoga responsabilità. Molte persone, nei lunghi anni di insegnamento di Olivetti, hanno avuto la fortuna di vivere da vicino la lezione della sua assoluta onestà intellettuale e della sua profonda, sempre rispettosa passione per il pensare ‘bene’. Continuare a confrontarsi con la sua filosofia significa anche questo. Mantenere il tratto dell’amicizia nel rigore dell’intelligenza, perché è così che il logos, che non è la Ragione, ‘chiama a raccolta’ la ricchezza imprevedibile e per questo bella della vita. Stefano Semplici
MARCO MARIA OLIVETTI Bernhard Casper
Ü
ber einen Menschen zu sprechen, der uns sehr nahe stand, mit dem wir befreundet waren und der für unser eigenes Sinnen und Trachten und Denken viel bedeutete, ist sehr schwer. Denn, will man nicht das Entscheidende verfehlen, kann man nicht kategorisierend über ihn sprechen, – etwa ihn einordnend in Epochen oder Schulen der Geschichte des Denkens. Vielmehr kann man im Grunde nur Zeugnis geben von dem, was uns im Geschehen der Begegnung mit ihm anging und uns selbst zum Denken herausforderte. Ich habe das Glück gehabt, dass ich Marco Maria Olivetti sehr früh kennen lernen durfte. Das war bei einem Besuch bei Enrico Castelli in den aufgewühlten und zugleich fruchtbaren 68-Jahren in einem langen Gespräch über die Bedeutung des Philosophierens und der Universitätdisziplin Philosophie für die gegenwärtige Gesellschaft. Und das hieß für mich eben auch : die Bedeutung von Philosophieren für heute mögliche Theologie. Zu diesem Gespräch zog Castelli sehr bald Marco Olivetti bei. Dieser hatte damals gerade sein Erstlingswerk Il tempio simbolo cosmico über die «Transformation des Horizontes des Heiligen im Zeitalter der Technik» veröffentlicht. Und er hatte als Motto über dieses Werk Prov. 8,27 gesetzt : «Aderam, quando certa lege et gyro vallabat abyssos». Die Weisheit war zugegen als alles aus dem Abgrund in die für die Vernunft deutliche Wirklichkeit trat. Dieser biblisches und griechisches Denken paradigmatisch verbindende Satz wurde für Marco Olivetti zu dem Ausgangspunkt für sein Fragen nach dem Heiligen in der Epoche unseres immanentistisch-szientistischen Verständnisses von Welt und Mensch. Dabei ging Marco Olivetti aber keineswegs etwa von Rudolf Otto aus, wie das sich damals hätte nahe legen können. Vielmehr stellte er die Frage nach dem Heiligen als die von Anfang an ontologische Frage. Und dabei ging er über Heideggers «ek-statisches Wohnen in der Nähe des Seins» im Humanismusbrief 1 sofort hinaus indem er die Geschichte des Heiles des Menschen in den Mittelpunkt seiner Überlegungen stellte, nämlich in der Frage nach dem Eschaton, welches sich für das Dasein im Augenblick der Entscheidung zeigt. Es ist hier nicht der Ort dieses, wie ich meine mit seinen Analysen von gelebter Zeit und endlicher Vernunft auch heute noch bedeutsame, sehr eigenständige erste Werk Marco Olivettis im einzelnen darzustellen. Aber von dessen Intentionen her wird bereits verständlich, warum sich Marco Olivetti beinahe zugleich noch in den 60er Jahren der Sprachphilosophie Friedrich Heinrich Jacobis zuwandte und der ganzen Epoche zwischen Herder, Hamann, Jacobi, Kant und Schelling, die dann im engsten Sinn, wenn man so will – aber eben ausdrücklich bezogen auf die Fragestellungen unserer Gegenwart das Gebiet seiner Forschungen wurde. Diese waren, obwohl von dem Philologischen her immer exakt fundiert, jedoch keine historischen Spezialforschungen, sondern immer ein auf unsere Gegenwart bezogenes im ursprünglichsten Sinn authentisches philosophisches Fragen nach dem «on he on», nach dem umfassenden einen Ganzen von Mensch und Welt. Wenn man in diesem Fragen bei Marco Olivetti dabei überhaupt von einer Wende
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Martin Heidegger, Über den Humanismus, Frankfurt, Klostermann, 1947, 29.
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sprechen will im Hinblick auf das Motto aus Prov. 8,27 mit dem er zunächst den Horizont des Denkens anzeigte, – den Horizont der einen Weisheit als der Sophia des Logos, der zugegen ist in allem Begreif baren, – so kann man diese Wende vielleicht in dem Motto finden, das er nun seiner Jacobiarbeit L’esito teologico della Filosofia del linguaggio di Jacobi 1 voranstellte : «Der Mensch wird angeredet … Nur wer auszulegen weiß versteht». Der Ort des philosophischen Fragens erweist sich vom Beginn der 70er Jahre an für Marco Olivetti in einem Sich-vertiefen in das Hamannsche «Vernunft ist Sprache» immer intensiver als das Geschehen von Sprache zwischen Menschen, nämlich als dem logos, der sich nicht einschränkt auf eine autosuffiziente monadische ratio, sondern logos vielmehr im Sinne von verbum, sermo und locutio versteht. In diesem Verständnis von Rationalität ging es ihm aber um sehr Grundlegendes. Es ging ihm um das mit dem ganzen Dasein denkende Suchen nach den – um mich kantisch auszudrücken – Bedingungen der Möglichkeit von in Sprache wirklich werdender Vernunft überhaupt. Diese gründet nicht im Akt eines bloß autoreferentiell ständig sich überschreitenden Subjekts sondern sie gründet bei aller notwendigen Autoreferentialiät der Subjektivität als Freiheit in einer letzten unhintergehbaren «non autonomia», einer «non indipendenza dell’uomo». 2 Denn zum Sprechen bedarf ich des Anderen. Ich kann nur sprechen, weil ich angeredet werde und auszulegen, das heißt zu ant-worten weiß. Marco Olivetti kann einerseits zusammen mit anderen Autoren von Jacobi als einem «esistenzialista ante litteram» sprechen. 3 Es geht in dessen Sprachphilosophie um das Problem der Freiheit qua Autonomie als das Zentralproblem, das die Moderne an den Tag gebracht hat. Andererseits aber arbeitet Marco Olivetti die grundlegende «non indipendenza» der Vernunft heraus, zu dem er durch Jacobi Zugang findet. Es geht ihm um die Vernunft als Sprache in ihrem Sich-ereignen zwischen füreinander Anderen und in einem darin um Sprache entspringend aus der Begegnung der Subjekte mit dem aus einem unerschöpflichen abyssos heraus begegnenden welthaften Anderen ; und derart um das Ent-sagen in dem, was gesagt wird. 4 Es geht ihm um das Intervall, aus dem heraus ich immer schon zweite Person bin. 5 Es geht ihm in diesem Sinn um Sein als Geschichte, um Sein als Zeit : nicht als Sein «nel tempo», sondern um das «divenire del tempo stesso». 6 In diesem Licht wird für mich Marco Olivettis Denken und Forschen seit den 70er Jahren in seiner inneren Konsequenz zugänglich. Insbesondere wird derart für mich aber auch die Weise deutlich, in der er unsere Convegni gestaltete. Überschaut man deren Themen, so wird deutlich, dass sie sich einerseits in einem Antworten auf die großen Themen des überlieferten Philosophierens halten, diese andererseits allerdings kritisch fragend angehen. Im Sinne einer Hermeneutik der Faktizität könnte man darin die jeweils zunächst nötige Destruktion sehen, das zunächst einmal im Umgang mit dem in der Überlieferung des Denkens schon Gedachten skeptisch aufmerksame Freilegen der Probleme als solcher, einem geduldigen Sich-durchfragen zu der Sache als solcher als der «qua maius videri hic et nunc non potest». Diese konnte dann in den Convegni jeweils ein Stück deutlicher werden. Und das wurde dann
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Padova, Cedam, 1970. Im folgenden abgekürzt : L’esito. 3 L’esito, 42. L’esito, 41. 4 Religion und Intersubjektivität, in Markus Enders und Holger Zaborowski (Hg.), Phänomenologie der 5 Ibid. Religion. Zugänge und Grundfragen, Freiburg, Alber, 2004, 130. 6 So schon in Il tempio simbolo cosmico, Roma, Abete, 1967. 2
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vielfach im weiteren Forschen und Publizieren derer fruchtbar, die an den Convegni teilnahmen. Die Einsicht in die diachron-responsorische Grundkonstitution endlichen menschlichen Denkens ermöglichte es Marco Olivetti dabei einerseits Themen durchaus unter den für sie überlieferten klassischen Titeln in den Mittelpunkt zu stellen, die dann aber andererseits in den Convegni in ganz in neuer Weise als für uns heute entscheidende aufgedeckt und bedacht werden konnten. Ich brauche hier nicht eigens Beispiele zu nennen. Zugleich aber machte es diese Grundeinsicht für Marco Olivetti ganz selbstverständlich, zu den Convegni Kollegen einzuladen, die, wenn man dieses schlechte Wort hier denn verwenden will, ganz unterschiedlichen «Schulen» angehörten. Im Grunde war so etwas wie «Schule» für Marco Olivetti überhaupt keine letzte leitende Hinsicht ; wie es ihm denn auch ferne lag, so etwas wie eine eigene Schule zu gründen. Was für ihn zählte, war, ob jemand fähig war, denkend – und freilich in Kenntnis der überlieferten Gedanken – ein Problem zu erschließen. Es zeigte sich darin, so scheint mir, eine große Demut, in der sich Marco Olivetti dessen bewusst war, dass das eigentliche Verhältnis eines Menschen zur Wahrheit nie das Verhältnis zu einem bornierten Objekt sein kann, sondern immer nur das SichHalten in einem Suchen, das in eine Infinition hineinführt. Es beschränkt sich nie auf ein Behaupten und Rechthaben, das immer nur in einem bornierten Zusammenhang möglich ist und dort dann auch sein relatives Recht haben mag. Das Verhältnis zur Wahrheit bestand für Marco Olivetti vielmehr in einem denkenden Sich-hingeben an die unendlich sich schenkende Wahrheit und derart dem Verhältnis einer logike thusia. Die nur andere Seite dieses nie erschöpf baren Bedürfens sich gebender Wahrheit darf man aber in dem Respekt vor dem anderen Denkenden sehen. Es ist mir aufgefallen, dass ich Marco Olivetti eigentlich nie über einen anderen Kollegen ein böses und verurteilendes Wort sagen hörte. Ironie oder gar Zynismus waren seinem Wesen fremd. Es hing offensichtlich mit dieser innersten existentiellen Vollzugsweise von inkarnatorischem Denken zusammen, dass er, – dafür allerdings auch mit herausragenden natürlichen Gaben ausgestattet, – sehr häufig im Vollzug seines Denkens übersetzend dachte, d.h. sich im Denken selbst schon fragte, wie der gedachte Gedanke außerhalb etwa der romanischen Sprachwelt, – also z.B. im Deutschen oder Englischen –, formuliert werden müsste. Er dachte häufig sofort mit zwei oder vielleicht sogar noch mehr Köpfen. Seine hohe Sensibilität für Sprache führte ihn dabei zuweilen zu Entdeckungen in fremden Sprachen, die in diesen für das Denken so noch gar nicht auffällig geworden waren. Ich denke hier z.B. an das, was er im Achten auf das Verb «falten» zu «Einfalt» und deren diachron-responsorischem Wesen im Deutschen gesagt hat. Marco Olivettis Denken verstand sich in diesem Sinne als eine «nuova razionalità», nämlich als eine «razionalità della responsabilità». 1 Aber diese darf nun gerade nicht als eine Beliebigkeit des Denkens und des Handelns missverstanden werden. Vielmehr war mit dieser neuen Rationalität für Marco Olivetti gerade die Bestimmtheit und Entschiedenheit des eigenen Einsehens und Handelns verbunden. Als Marco so früh starb, kam für mich, der ich ihm relativ nahe stand, die bange Frage auf, ob ich nicht als der das zweite Mal zum Dekan der Philosophischen Fakultät der Sapienza gewählt wurde, – hätte ich denn etwas davon gewusst, – die Pflicht gehabt
1 Le problème de la communauté ethique, in Qu’est-ce qu l’homme. Hommage à Alphonse de Waelhens (1911-1981), Bruxelles, Facultés universitaires Saint Louis, 1982, 334.
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hätte, ihn davon zurückzuhalten, dieses Amt anzunehmen. Damals sagte mir jemand, der ihn sehr gut kannte : «Wenn Marco eingesehen hatte, dass er etwas tun sollte, dann hätte ihn auch die Armee der Vereinigten Staaten nicht davon zurückhalten können, dies zu tun». Hier rühren wir nun freilich an das innerste Geheimnis des anderen Menschen, das sich jedem Ausgesagt-und-veröffentlicht-werden widersetzt ; das jedoch wahrgenommen werden kann und wahrgenommen werden will als Zeugnis. Aber solches Zeugnis hatte für Marco Olivetti gerade nicht den Sinn einer Selbstbehauptung, sondern den der Hingabe. Es hatte den Sinn der Hingabe, die, wie er in dem Aufsatz Die Ernährung des Anderen. Vorüberlegungen zu einem dankenden – „eucharistischen“ – Denken 1 ausführte, ihren intentionalen Sinn darin hat, Anderen Leben zu geben. Und dies war für ihn letzten Endes auch der – zumindest der christliche – semantische Gehalt des Wortes «sacrificio». Als das Consiglio direttivo des Castelliinstitutes sich im Sommer 2006 aus Anlass der von Irene Kajon konzipierten Tagung zum 100.Geburtstag von Emmanuel Levinas traf und dort danach gefragt wurde, welches denn das Thema des Convegno 2008 sein solle, sagte Marco Olivetti mit einer Entschiedenheit, die ich in dieser Weise bei ihm vorher nicht wahrgenommen hatte : «Il sacrificio». Ich war davon betroffen und hatte den Eindruck, dies könne für ihn nicht nur irgendein Thema sein. Es war, aber das kann man nur im Nachhinein und mit großer Zurückhaltung und Scheu sagen, sein höchstpersönliches Thema. Und wenn es ein Vermächtnis Marco Olivettis für das Istituto Castelli gibt, dann ist es, so meine ich dieses. Das Istituto Castelli, noch zur Zeit des Faschismus gegründet und ganz offensichtlich kontrafaktisch gegen den damals das geistige Leben an den Universitäten beherrschen wollenden Geist, wurde in den Jahren unmittelbar nach dem II.Weltkrieg von Enrico Castelli, der denn ja auch in der Sektion Philosophie der Unesco tätig war, zu einer Institution ausgebaut, das der mit aller Deutlichkeit als Schicksal herauf kommenden einen Welt dienen sollte «sich im Denken zu orientieren», um hier Kants Bestimmung des Philosophierens zu benutzen. Aber konnte dies bislang (freilich wider Kants Einsicht in den Primat der reinen praktischen Vernunft) als eine rein akademische Angelegenheit verstanden werden, so hatte diese Aufgabe des Sich-im-Denken-orientierens durch den II.Weltkrieg und die Atombombe einen noch einmal sehr viel ernsteren und ganz unmittelbar existentiellen Lebenssinn bekommen. Orientierung im Denken und durch das Denken, das konnte nun – und kann heute – in letzter Bedeutung nur heißen : am Rande eines heute immerhin möglichen Gattungsselbstmordes die äußerste Frage nach dem bejahbaren Sinn eines Weges in eine für das Miteinander von Menschen auf diesem einen Planeten Erde lebbare Zukunft hinein zu stellen. Bei meinem Besuch 1969 sagte mir Castelli, – und er wurde dabei sehr erregt – : «Wir schicken den Völkern Asiens und Afrikas Schiffe mit Weizen. Und natürlich ist das notwendig und gut. Aber wir begreifen nicht (und, so fügte er hinzu, das habe ich auch meinem Schulfreund Montini gesagt), dass sie von uns noch etwas ganz anderes und viel mehr erwarten, dass sie nach etwas ganz anderem hungern : nämlich danach, dass wir mit ihnen denkend und im Ernstnehmen des Reichtums ihrer Kulturen den Sinn eines menschlichen Weges in die Zukunft hinein suchen». Das verstand er unter «Studi
1 In Klaus Kienzler, Josef Reiter, Ludwig Wenzler (Hg.), Das Heilige im Denken. Ansätze und Konturen einer Philosophie der Religion, Münster, lit, 2005, 147-158.
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umanistici». Und dafür wollte er eine herausfordernde in der Praxis des Denkens sich vollziehende Möglichkeit schaffen – non tantum urbi, sed et orbi. Marco Olivetti hat diese Gründungsidee Castellis in der Praxis des Archivio und der Convegni mit großem Engagement umsichtig, nüchtern, zielstrebig und auch unter Inkaufnahme von manchem persönlichen Verzicht für sich und seine Familie in die konkrete Wirklichkeit unserer schwierigen Geschichte umgesetzt. Und wenn es ein Vermächtnis für das Istituto gibt, dann kann es nur dies sein, dies nun auch mit der vertrauenden und freudigen Zuversicht, die wir an Marco Olivetti erleben durften, miteinander und in unseren Bedingungen fortzusetzen. Die Sache, um die es dabei geht, ist die wichtigste, um die es denkenden Menschen heute gehen kann. Das Castelli-Institut ist, so meine ich, heute noch nötiger als es dies bisher schon war. Marco Olivetti hat sein Leben und Denken in diesem Horizont ausdrücklich als ein «être pour autrui» verstanden. Man kann deshalb die Schlusspassage seines Aufsatzes Die Ernährung des Anderen. Vorüberlegungen zu einem dankenden – „eucharistischen“ – Denken als sein philosophisches wie zugleich geistliches Testament lesen. Dem abendländischen Denken ging es, seit es dieses gibt, immer wieder um das Eine, nämlich um Identität, so wird dort ausgeführt. Aber was heißt Identität ? Versteht man sie nicht als leblose, sondern als lebendige Identität – und hier nimmt Olivetti nun Levinas auf, so wie dies in seiner Weise auch Derrida getan hat, – so zeigt sich im Vollzugssinn dieses «être pour autrui» das «a-dieu». Versteht man Identität als lebendige Identität, so erweist sie sich als die in der eigenen Hingabe geschehende Ernährung des Anderen. Sie bedeutet, dass einer durch sein eigenes Leben dem Anderen das Leben gibt und so sein eigenes Leben fruchtbar wird. Lebendige Identität bedeutet wie Marco Olivetti auf unserem Freiburger Weltekongress 2003 Phänomenologie der Religion. Zugänge und Grundfragen ausführte, dass ein Mensch sich in der einen Schuldigkeit hält, die nie aufgehoben werden kann : «Das aber bleibt ihr einander immer schuldig, dass ihr einander liebet» (R 13,8). Aber solches Sich-halten in der einen unauf hebbaren Schuldigkeit bedeutet – ich zitiere nocheinmal aus Ernährung des Anderen – «Ja, ohne Rückkehr» Es gibt hier dann nur noch das Wagnis der Hingabe und insofern keine spekulativ-identitätsideologische «Rückkehr der Reflexion zu sich selbst»: «Die Ver-änderung von sich-selbst, die Alteration ist ein Abschied, ein Lebe-wohl-Rufen, ein a-dieu». Und, so fährt Marco Olivetti dann fort, «Aber die Alteration ist kein Tod, sondern der Sieg des Lebens.… Deswegen geht das Leben durch den Tod endgültig hindurch». 1 Ich meine, dass dieses Wort uns Mut machen kann, den Weg des Istituto Castelli weiterzugehen.
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Die Ernährung des Anderen, ibid., 158.
THE EXCEPTIONALITY OF THE OUGHT. OLIVETTI AND ECO-ETHICA Peter Kemp
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arco M. Olivetti was from the beginning a participant in the international symposia of philosophy on eco-ethica that began in 1981. During the first 20 years it was sponsored by the Toyosaburô Tanigushi Foundation and held in Japan in a conference house called Kyûze-sô (« The House for Search of Affirmation ») at the shore of lake Biwa north of Kyoto. L’eco-ethica was the concept used by Professor Tomonobu Imamichi, the organizer of the symposia, to direct attention to « problems of ethics in the technological society », the theme of the first colloquium. It was an ethics concerned with the environment, but not only the environment understood as the nature we live in, but also by the environment as the technological world that is the second nature of the human being in modern times. Marco Olivetti came to Japan nearly every year for the symposium of eco-ethica, and he died two days before he should have participated in the 25th symposium held in Copenhagen. It was a great loss for all the members of the eco-ethica symposium, and Professor Imamichi, who for health reasons could not join our colloquium today, (but is represented by professor Noriko Hashimoto, the secretary general of eco-ethica) has asked me to say that together with all the members of the group he prays for Marco Olivetti. At the first colloquium in 1981 Marco Olivetti spoke in English and later he gave four other papers in English : five were given in French and the rest in German. These were the three languages that were allowed at the symposia, and Marco mastered them all. He considered many aspects of eco-ethics, but his most important papers focussed on the foundation of ethics in our scientific and technological world. Whereas Imamichi was the guiding thinker of the new situation of ethics in its many aspects, Marco was the thinker par excellence of the foundation of ethics in this new situation, a thinker always on the way, never closed in a fixed system. And the main problem he considered was the tendency in our scientific and technological age to reduce ethics to a science of facts, reduce duty to knowledge, in short, reduce Ought to Being. I can recommend all the papers he presented at the eco-ethica symposia since 1981 but in particular I shall refer to three papers : Versuch Ethik neu zu Denken (Attempt at a rethinking ethics) from 1982, 1 Analogie du Sujet, Universalité des Droits et Exceptionalité du Devoir (Analogy of Subject, Universality of Rights and the Exceptionality of Duty) from 1995, 2 and Incarnation of the Ought from 1997. 3 Finally I shall try to show how the
1 Versuch Ethik neu zu Denken, in «Revue Internationale de Philosophie Moderne, Acta institutionis philosophiae et aestheticae», Edited by Tomonobu Imamichi, Centre International pour Étude Comparée de Philosophie et d’Esthétique, Tokyo, Japan, Vol. 1, 1983, pp. 117-123. 2 Analogie du Sujet, Universalité des Droits et Exceptionalité du Devoir, in «Revue Internationale de Philosophie Moderne, Acta institutionis philosophiae et aestheticae», Edited by Tomonobu Imamichi, Centre International pour Étude Comparée de Philosophie et d’Esthétique, Tokyo, Japan, Vol. 4, 1996, pp. 147-153. 3 Incarnation of the Ought, in «Revue Internationale de Philosophie Moderne, Acta institutionis philosophiae et aestheticae», Edited by Tomonobu Imamichi, Centre International pour Étude Comparée de
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idea of an ethical community was his guiding idea from the first paper at the symposium in 1981 at Kyûze-sô to his last paper at the eco-ethica symposium held in Copenhagen in October-November 2005. In an ethical community you ought to do something in order to become a person. Therefore Marco Olivetti was from the beginning opposed to the reduction of Ought to Being. He was opposed not only to the positivism claiming that all reality was empirical, but also to the subscription of ethics into political philosophy by theories of the collective subject, into meta-ethics by analytic description of language behaviour, and into nihilism by the postulation of the death of the subject. Moreover, from the second paper in the eco-ethica symposia he opposed the more sophisticated linguistic pragmatics of Karl-Otto Apel or the socio-phenomenological theory of communicative action of Jürgen Habermas ; both these thinkers who belong to the younger generation of the Frankfurt School had tried since the sixties to deduce the norm from certain kind of facts : the Ought should emerge from the factual necessity of speaking and communicating. The sheer fact of being entangled in discourse and communication commits human being and calls them to responsibility. Thus, according to Apel a linguistic play of unlimited community should be a transcendental foundation of ethics in the same way as the intuition of time and space in Kant’s philosophy is a transcendental foundation of things. The scientific community should even be the model of the ethical community. A kind of being should be the basis of the ought. In Habermas’ early writings ought is also reduced to being when he considers that the «ideal speech situation» should be ethical by being completely symmetrical and transparent. However, in this situation not only misunderstanding and doubt, but opposition, refusal and doom would be unthinkable. Thus, according to Marco Olivetti, in the «ideal speech situation» real communication about ethical issues would be impossible. In 1982 he finds support for this criticism in the philosophy of Emmanuel Lévinas, in particular in his work Otherwise than Being or Beyond Essence (Autrement qu’être ou au-délà de l’essence, The Hague, Nijhoff, 1974). Lévinas, for whom ethics is “first philosophy,” refuses to take symmetrical inter-subjectivity as the model for ethics. The face-to-face of ethics that he develops is not rooted in a synthetic activity, in the said about things and relationships that may be symmetrical, but in the saying, in the personal encounter where the other expresses care and command in asymmetrical relationships. This also means that the experience of the absolute is not disclosure of being, but the appearance of the face of the other. And subjectivity is not self-created by self-position, but sub-jected, i.e. made by the other, created by the ought. Therefore every attempt to transform the ought to a being is condemned to fail. This is the higher meaning in the claim of the so-called naturalistic fallacy. The real being, our being as human being is made by the ought, not the inverse. Marco Olivetti characterises the status of the ought as exceptional. This means neither exceptional in the sense of human power, like the power of Prometheus, since the
Philosophie et d’Esthétique, Tokyo, Japan, Vol.16, 1998, pp. 155-163 ; reprinted in «Revue Internationale de Philosophie Moderne, Acta institutionis philosophiae et aestheticae», Special Issue for the xxi st World Congress of Philosophy, Introduction to Eco-ethics, Edited by Tomonobu Imamichi, Centre International pour Étude Comparée de Philosophie et d’Esthétique, Tokyo, Japan, 2003, pp. 11-19.
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ought is given before any human power relation, nor in the sense of an exception to a rule ; the ought is rather the exception that founds every rule. But the ought is exceptional as unique, as totally personal by the fact that it concerns my self and no other, as an appeal to me, only to me, demanding me to be responsible by asking me and no other to respond ; it creates me as the subject of my actions, as a person, and offer me thereby identity. The vocation of the ought is a uni-vocation. This seems to exclude the universality of rights. But the opposite is true. First of all because the rights are fundamentally rights of others. These rights of others are ascribed to them by me because I ought to respect them. They are justified as rooted in my sense of duty. Moreover, they are universally valid to the extend that I assimilate the others to a humanity despite plurality of cultures and despite differences between white and black, man and woman, citizen and barbarian, the normal and the abnormal etc. Finally I belong myself to this humanity that is present in my person as in every other person. It is not my work, but beyond every human individual ; it is not given by my cogito, I think, but by my loquor, I speak, i.e. by my belonging to a discourse community. At this stage symmetry becomes true. It is not true as a transcendental basis, as a starting point, but it becomes true as the terminal point of a process that arises from the exceptionality of the «you ought» addressed to me and then, by an analogy of thinking beyond all knowledge of facts, arrives at the universality of human rights. Thus, it starts in absolute asymmetry : I am duty, and the others have all the rights and are «ends in themselves». In that respect I am only a tool for the others and there is no symmetry to our responsible relationships. Furthermore, I have no right to consider the other person as only the possessor of duties and not of rights, because I have no right to consider the other as a slave and thereby abolish every real community with the other. The other must have rights but I cannot claim that I have rights only because the others have rights. However, at the end of the whole ethical process I cannot exclude myself from humanity, from the human community in which there is reciprocity. So, we can put it this way : The ought is not valid for me because it is valid for all, but it is valid for all, because it is valid for me. This position allowed Marco Olivetti to extend the validity of rights from human beings to non human livings beings. As human persons we are not only living beings, but responsible beings. Non-human living beings are not responsible, at least not in the sense that we are able to respond to the call : who is the author of this or that action ? And precisely because there is fundamentally no symmetry and reciprocity between duty and right, as there are on the political and legal levels, such as Hegel describes them in his Philosophy of Right § 155 («a man has rights in so far as he has duties, and duties in so far as he has rights»), we can ascribe rights to non human living beings without supposing that they have duties. Indeed, we cannot claim that they must show responsibility, because we give them rights ; but we can give them some rights in order to protect them, because we are responsible for them. It follows that rights are relative, i.e. relative to my duty to respect them. But the way from the I ought to the rights of the other is a one-way street. Animals have rights, but they do not give me any rights. All rights must be founded in the exceptionally of the ought, of the duty. And therefore the rights of animals must be founded in the human responsibility, in the responsibility that makes us human.
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Marco Olivetti said : «You ought, therefore you are – this is humanism». 1 Humanism does not derive from belonging to the human species. Human dignity is always personal. Also the rights of future generations are founded in the ought. The other human beings come first, even if they are still to come. Marco Olivetti claimed that the human species ought to be preserved and continued in order to permit the incarnation of the ought in other persons. Therefore he considered, that the human species has rights in itself ; it makes possible the incarnation of the ought beyond my personal life. Thus, my responsibility is radical ; it is a responsibility for responsibility, i.e. for maintaining responsibility for ever, also beyond the limits of my own life and personal identity. This responsibility constitutes the ethical community on which Marco Olivetti focus from his first eco-ethical paper in 1981 The Problem of the Ethical Community. 2 He there defines the ethical community as «that situation of life in society in which the relationships between subjects are governed by ethical laws in the form of public laws». 3 And the question is : How can one say that this community exists when, as is the case today, physical law are claimed to be able to explain all things and in which moral laws apparently are not obeyed ? The answer according to Marco Olivetti is first that non-compliance with ethical laws does not necessary imply the non-existence of the ethical community ; on the contrary the possibility of infringement is a raison d’être for prescriptive laws. Moreover, although we can not deduce «ought» from «is», we can pass from «ought» to «is». This does not commit the naturalistic fallacy. It means that we can pass from the prescriptive law to the existence of the ethical community, i.e. to its existence as guiding idea. In this way the ethical community exists as the intelligible and non-empirical fact, or what Kant called a «Faktum der Vernunft». But then the question is : Why should this intelligible fact be a community, i.e. an intersubjective situation ? Apparently modern civilization has no need for the other subject ; if anything the other is a disturbing factor that has to be reduced ad unum. And the intersubjectivity in the «community of investigators» that many theorists of science since C. S. Peirce focus on is purely functional in order to constitute objectivity of knowledge ; there is no real need of plurality, but science is valid even for Robinson on his island ; in principle it is solipsistic. However, duty demands the other ego, or a group of other egos, because only in this way intersubjectivity is not transformed into a symmetrical and synallagmatic (mutual binding) one. The duty maintains an infinite openness in such a way that the subject that recognizes the other as alter ego «remains infinitely dis-posed as me, in the accusative, as a total answer and at one’s total disposal (me voilà, to quote Levinas) which is not bound up in the synallagmatic and symmetrical movement, so that also the me could be declined in the nominative». 4 But how can the ethical community or the law setting up the ethical community be public ? Today ethics is often claimed to be purely private, doomed to remain confined
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Incarnation of the Ought, p. 160. The Problem of the Ethical Community, in «Journal of the Faculty of Letters», The University of Tokyo, Aesthetics, Volume 6. Problema ethica et Eco-Ethica, Edited by Tomonobu Imamichi, published by the Journal of the Faculty of Letters, The University of Tokyo, 1981, pp. 13-24. 3 Ibid., p. 13. 4 Ibid., p. 20. 2
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to the private life of the feeling subject. This claim is apparently confirmed by Kant’s moral philosophy where the universal moral law is absolutely private, because each time the law is afresh in each subject. Certainly, late in his life in his work on Religion within the bonds of mere reason, where he presents and theorizes the ethical community, the moral law is conceived of as a public law. But Kant then entrusts God with the foundation and fulfilment of the ethical community, which according to Marco Olivetti in this first paper for the eco-ethica symposium did not fit well into a systematic and rigorous development of Kant’s critical philosophy. Instead of following Kant Marco Olivetti here refers to Karl-Otto Apel’s idea of a «transcendental synthesis of communication» that replaces Kant’s «transcendental synthesis of apperception». According to this idea the speaking subject is posited together with the other subjects and acknowledged as virtual partners in his discourse. Thus, Olivetti concludes his paper from 1981 by declaring that this idea «could be the way to give ethical law a contemporary formulation». 1 However, as mentioned above, already in the paper from the following year (1982) now more influenced by Lévinas, he criticizes the transcendentalism of Apel, and the question for him remained how to conceive the ethical community. In his last paper from 2005 he returned to this question and reconsidered his interpretation of Kant’s idea of the ethical community. 2 This paper is based on a careful study of Descartes, Leibniz and Kant, and in particular of the development of Kants practical philosophy from Träume eines Geistersehers (Dreams of one who sees spirits) from 1766 to the book on Religion from 1793 in order to better understand the Kantian concept of das ethische gemeine Wesen or the ethical republic (res publica) that is his name for the ethical community. In the Dreams of one who sees spirits Kant warns, that «in a dream each individual lives in a separate world, but in wake we share a common (gemeinschaftlich) world». Thus, Kant was from the beginning opposed to solipsism, and to him two forces move the human heart : on the one hand the «intimate» force which regards everything as a means to its «private needs», on the other a force which operates within «as though it were an external will», ensuring not only that we seek the approval of other people, but that we recognize that the point of convergence that our desires are aimed at lies «outside ourselves», in «other people’s will». The problem for Kant is how under these conditions the ethical community is possible. Originally Kant spoke about an interplay (Wechselwirkung) between to two forces. Later in Groundwork of the Metaphysics of Morals (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, 1785) he adopted the concept of kingdom of ends to express the formation of a common will by the fact that every rational being regards itself «as giving universal laws through all the maxims of his will» (4 : 433). But seen from the idea of the ethical community in Religion, as Marco Olivetti asks us to do, the concept of the kingdom of ends represents two reductions. Firstly, it completely abstracts from the contents of private ends and only on this condition can be seen as a systematic connection of all ends. Secondly, it is only based on the freedom of will of every member of the kingdom, and this is considered to be sufficient to give
1
Ibid., p. 24. The Kantian Ethical Community and the Aporias of Intersubjectivity in Modern Philosophy. The Community of minds, in «Revue Internationale de Philosophie Moderne, Acta institutionis philosophiae et aestheticae», Edited by Tomonobu Imamichi, Centre International pour Étude Comparée de Philosophie et d’Esthétique, Tokyo, Japan, Vol. 23, pp. 23-35. 2
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it objective reality as a practical idea. But it does not explain how the kingdom of ends or what he with Leibniz in Critique of Pure Reason calls «kingdom of grace» (Kritik der reinen Vernunft, 1781, A 812), could be unified with the kingdom of nature, and as Kant says, in Groundwork of the Metaphysics of Morals (1785) «obtain true reality» (4 : 439). Kant in his work on Religion draws the conclusion from these aporia that in the true ethical community the people cannot itself be regarded «as legislator», since the human public laws only invest the «outward legality» of behaviour, not its «internal morality» or what Marco Olivetti calls the exceptionality of the Ought. It follows that only a divine mediation can ensure that rational beings may communicate amongst themselves qua rational beings. The realization of the ethical community is not in our power, but must be granted to us by a higher grace. Finally we recognize that Marco Olivetti’s whole work needs a philosophy of religion in order to support our hope of a true ethical community and in this way answer the Kantian question : What may I hope for ?
L’INCONNAISSABILITé OU LE PRIVILEGE DE L’HOMME. Jean-Luc Marion i.
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’ho mmage que nous rendons aujourd’hui à notre collègue Marco M. Olivetti ne saurait embrasser toutes les dimensions d’une personnalité et d’une pensée, qui furent complexes parce qu’elles étaient subtiles à fort d’être scrupuleuses, d’autant plus scrupuleuses qu’elles restaient étonnement modestes, peut-être trop modestes. Cette modestie contrastait d’ailleurs avec l’autorité personnelle et scientifique que Marco M. Olivetti déployait dans sa présidence des colloques de l’Istituto di Studi Filosofici «Enrico Castelli». J’ai gardé le souvenir encore vivace de ma première invitation pour débattre d’ « Intersogettività, Socialità, Religione », en janvier 1986, où je découvrais ce qui me sembla le plus prestigieux des colloques de philosophie, puisque s’y cotoyaient, chacun parlant dans sa langue et étant supposé entendre celle des autres, les plus grands penseurs de l’époque. Je garde l’émotion d’avoir soutenu, en janvier 1986, le paradoxe de L’unique ego et l’altération de l’autre chez Descartes, devant les plus hautes figures de la philosophie de ces jours. Mais notre ami n’aurait pourtant pas pu, malgré tous ses dons linguistiques, son érudition en philosophie allemande et française, analytique, phénoménologique et pragmatique, en théologie et sociologie, réunir le meilleur de la recherche mondiale pour le faire vraiment débattre, si ne l’avait guidé et soutenu la puissance spéculative de sa propre pensée. D’autres, la connaissant depuis plus longtemps, en feront une meilleure exégèse que je ne le puis. Pourtant, je voudrais en identifier deux points à mes yeux essentiel, pour y trouver l’appui d’un éventuel prolongement.
ii. Le premier point concerne le statut de la philosophie de la religion. Dès son premier travail, L’esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi (Padova 1970), se mettaient en place deux thèmes essentiels, le langage et la philosophie de la religion, pour nouer une seule question, celle précisément du rapport entre la religion et la philosophie. Dans son ouvrage suivant, le classique Filosofia della religione come problema storico (Padova 1974), il dégageait remarquablement comment la philosophie de la religion, telle qu’elle se déploie avec Kant, Fichte et tout l’idéalisme allemand, ne peut prétendre englober, ni définir la religion, comme elle le prétendait pourtant. Car la philosophie de la religion n’atteint que la religion telle que la philosophie la comprend ; autrement dit, la philosophie de la religion ne connaît que ce que la philosophie peut comprendre de la religion, ou plus exactement de ce qu’elle nomme religion, concept lui-même profondément étranger à toute théologie qui se respecte, c’est-à-dire à toute théologie qui prétend naître d’une révélation. La philosophie de la religion, par le simple emploi non critique du terme de religion, tend à masquer, évacuer ou manquer ce dont il s’agit.
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Et Schelling le savait bien, qui, en réponse longuement attendue à la critique de toute révélation déployé par Fichte (Versuch einer Kritik aller Offenbarung, 1793), qui d’ailleurs ne faisait ainsi que tirer l’inévitable conséquence du concept de religion de Kant (Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, 1793), tenta de re-penser spéculativement à fond une philosophie de la révélation (Philosophie der Offenbarung,1841). En montrant la dimension elle-même historique d’une telle entreprise de philosophisation, si l’on peut ainsi dire, de la révélation, Marco M. Olivetti ouvrait la question que paradoxalement la philosophie de la religion fermait, au nom de toute la métaphysique. Nul mieux que lui avait compris à quel point la philosophie de la religion définissait moins une discipline philosophique et académique, qu’une crise introduite par la philosophie dans le système académique lui-même. Reprenons cette question, en demandant comment et de quel droit s’impose, dans le champ des disciplines universitaires, quelque chose comme une philosophie de la religion. Ou bien, il ne s’agira pas de philosophie, mais bel et bien de religion, donc exactement d’une religion qui se renvendique comme révélée. Dans ce cas, elle définira son objet en toute autonomie, comme l’ensemble organisé des articles d’une croyance (credo, creed), qu’il convient de se reporter à la sacra doctrina, c’est-à-dire à la scientia theologica, qui outrepasse par définition le champ de la stricte philosophie. Ou bien, la supposée philosophie de la religion réclamera une place dans la philosophie proprement dite. Mais on demandera alors si la « religion » peut revendiquer un statut si particulier, qu’elle fasse l’objet d’une philosophie à part, à elle réservée en propre ? En effet, ce dont il s’agit avec la « religion » en question ne se résume-t-il pas déjà à l’un des trois objets de la metaphysica specialis, le divin, sans plus de spécialité que ses deux autres objets (l’âme et le monde) ? N’appartient-elle pas, elle aussi, aux philosophies secondes, comme la psychologie rationelle, la cosmologie rationnelle, voire la physique, etc. ? En ce sens, toute « philosophie de la religion » se réduirait à l’une des philosophies inscrites dans la metaphysica specialis, elle-même soumise à la metaphysica generalis, donc au système de la metaphysica comme tel. Pour éviter ce dilemme, entendra-t-on par « philosophie de la religion » la science des comportements culturels et cultuels, que provoque en tout homme (y compris celui qui professe l’athéisme) l’irréductible instance qu’il faut finir par nommer « Dieu » ? Mais, dans ce cas, il conviendra de renoncer à l’a priori de la metaphysica specialis, pour développer a posteriori la figure polymorphe non plus d’une science, mais d’une histoire, non plus de la, mais des religions. Et cette dernière devra aussitôt renoncer a son identité et à son unité, pour prendre modestement place, parmi d’autres sciences, dans ce qu’on nommera plus simplement l’anthropologie. Mais, en se réduisant ainsi à l’anthropologie, la philosophie de la religion, loin de perdre son autorité, se retrouve au cœur de ce qui reprend et remplace la metaphysica elle-même. Tant il est vrai que, selon Kant, les trois questions résument tout le système de la philosophie (en fait de la métaphysique), respectivement « Que puis-je savoir ? », autrement dit la metaphysica generalis, ou ontologia réduite à la science des premiers principes de la connaissance humaine ; 1 ensuite « Que dois-je faire ? », c’est-à- dire la mo
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I. Kant, Critique de la raison pure, A 247/B303 : « Ses [sc. l’entendement] sont simplement des principes de l’exposition des phénomènes, et le nom orgueilleux d’une ontologie, qui prétend donner des choses en général des connaissances synthétiques a priori, dans une doctrine systématique (par exemple le principe de causalité), doit faire place au nom modeste d’une simple analytique de la raison pure ». La question estant cependant ouverte de savoir si l’ontologia mise en place un siècle plutôt par Clauberg ne constituait pas déjà une simple analytique de la raison, puisque son objet se définissait non comme un ens ou une substantia, mais comme un cogitabile.
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rale ; et enfin « Que m’est-il permis d’espérer ? », à savoir le religion elle-même. Or ces questions « ...pourraient toutes se rapporter à l’anthropologie, car les trois premières questions se rapportent à la demière ». Bref, la dernière question, « Qu’est-ce que l’homme ? », deviendrait finalement en droit la première. 1 Ainsi l’acception métaphysique de la « philosophie de la religion » rejoindrait son acception empirique, celle d’une anthroplogie, soit philosophique, soit de l’histoire des religions. En sorte que, face à la théologie révélée, ne s’opposerait qu’une double acception de l’unique anthropologie.
iii. Cette anthropologie, comment l’entendre ? Evidemment comme la science de l’homme ; ou plutôt, puisque toute science par définition revient à l’homme (comme science par et pour l’homme, comme « science humaine » selon le premier sens de ce syntagme), on spécifiera l’anthropologie comme la science instruite par l’homme sur l’homme luimême. Kant le formule nettement : « ... le plus important objet (Gegenstand) du monde, auquel il [sc. l’homme] puisse les [sc. les connaissances et les techniques] appliquer est l’homme : car il est sa fin propre fin dernière. Le connaître donc, conformément à son espèce, comme étant terrestre doué de raison (mit Vernunft begabtes Erdwesen), mérite tout particulièrement d’être désigné comme connaissance du monde, quand bien même l’homme ne constitue simplement qu’une partie des créatures terrestres ». Il s’agit d’ailleurs d’autant plus d’une connaissance prise par l’homme sur lui-même au sens radical, qu’elle se déploie, précise Kant, « du point de vue pragmatique » ; c’est-à-dire que, par opposition à une anthroplogie du point de vue physiologique, qui « ... vise l’exploration de ce que la nature fait de l’homme », celle-ci vise « ... ce que l’homme, comme étant (Wesen ) agissant par liberté, fait ou peut et doit faire de lui-même ». 2 Cette connaissance de l’homme par lui-même ne peut se réduire, notons-le, à une simple connaissance empirique (la psychologie rationelle l’exige d’ailleurs aussi, même si elle « agit par liberté » en un sens différent). La question demande donc si l’homme peut appliquer à lui-même ses propres connaissances pour devenir alors son propre « objet » et, plus généralement, de quel droit il peut « faire de lui-même » une chose, quelle qu’elle ce soit. Car, par ce rang de « chose », l’homme s’inscrit bel et bien au nombre des étants du monde, puisque sa connaissance devient (et reste aussi) « tout particulièrement » celle de ce même monde, auquel il appartient sans plus. Ainsi sommes-nous conduits à substituer à la question d’une définition de la « philosophie de la religion », une autre question, qui la soutient et la détermine d’avance, qui demande si l’homme peut et doit se connaître lui-même. Dans cette situation, la question (tant celle de l’anthropologie, que, par elle, celle de la philosophie de la religion) revient à comprendre si je me connais et surtout à quel titre je me connais. Ou plutôt, il s’agit moins de savoir si je me connais, que de comprendre, dans le cas où je me connaîtrais, quel statut (et donc quel mode d’être) reviendrait à ce moi connu. Kant répond nettement : « Moi (Ich), en tant qu’intelligence et que sujet pensant, je me connais moi-même en tant qu’objet pensé (gedachtes Objekt), pour autant
1 I. Kant, Cours de logique, a.k.ix, p. 25. Voir aussi les parallèles dans la Critique de la Raison pure, A 804/B 832 et la Lettre à Stäudlin, 4 mai 1793, a.k., t.xl, p.429. – Commentaire de Heidegger : « L’instauration kantienne du fondement fait découvrir que fonder la métaphysique est une interrogation sur l’homme, est anthroplogie » (Kant et le problème de la métaphysique §6, G.A. 3, p. 205, tr. fr. A. deWaelhens et W. Biemel, Paris 1953, p. 262). 2 I. Kant, Anthropologie du point de vue pragmatique, Préface, a.k., vii, p. 119 (nous soulignons).
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que je suis donné encore à moi-même dans l’intuition, seulement, exactement comme tout autre phénomène (gleich anderen Phänomenen), non pas comme je suis devant mon entendement, mais comme je m’apparais – dire cela, n’offre en soi ni plus, ni moins de difficulté que [celle de savoir] comment je puis être pour moi-même en général un objet (überhaupt ein Objekt), et un objet de l’intuition et des perceptions internes ». 1 En d’autres termes, je ne me connais pas en tant que je connais (suivant le privilège unique d’être à titre de l’unique connaissant, parce que l’unique pensant), mais en tant précisément que simplement connu, donc au même titre que n’importe quel autre connu, c’est-àdire de n’importe quel autre objet. Etrangement, je ne me connais donc jamais comme je connais, mais toujours seulement comme un moi connu, donc comme un objet. Je ne me connais que comme ce que je ne suis pas, comme l’objet-moi. La distinction qui en résulte – entre d’une part le Je transcendental, forme vide qui accompagne toute autre connaissance, mais reste lui-même ni représentable ni connaissable, et de l’autre le moi empirique, qui appartient au monde des phénomènes, donc des objets connus – ne manifeste rien de ma spécificité (la propriété de connaître) pour mettre en évidence ce qui ne me caractérise précisément pas (le statut de connu), ainsi me masquer et me ravaler au rang sans honneur d’un objet. Loin que cette distinction entre le Je et le moi me donne accès à l’homme que je suis, elle m’interdit d’approcher de l’homme que je suis et défigure l’enjeu même de l’anthropologie – le soi de chaque homme. 2 Non seulement l’homme éclate en deux instances irréconciliables, mais la seule connaissable, l’objet du moi empirique, le définit précisément par ignorance de la propriété la plus extrême et inaliénable de l’étant que je suis, celle d’exercer une pensée pensante et l’inverse en une pensée pensée, c’est-à- dire en fait et en droit lui substitue la définition même de l’objecti[vi]té. Ravalé au rang d’un simple objet de l’anthropologie, l’« homme », cette invention récente, pourrait bien devoir inévitablement disparaître, comme un château de sable fragile, qu’efface la marée montante (Foucault). Et en fait, il a déjà disparu. Cette réduction, d’abord dans le style de Kant, de la question de la philosophie de la religion à celle de l’anthropologie, puis dans le style de Foucault, de la définition de l’« homme » à sa disparition, fut aussi et très exactement le chemin de Marco M. Olivetti. Du moins, cela apparaît-il aujourd’hui comme l’enjeu central de son ouvrage le plus constructif, Analogia del soggetto : « La tesi di questo libro è che non esiste un’essenza dell’essere umano. Tale essenza è “immaginata”, e senza siffatta immaginazione l’essere e l’umano non si copparterrebbero ». 3 Il faut donc comprendre ce que signifie, pour lui, mais aussi en soi, l’inexistence de l’essence de l’être humain.
iv. Tout l’effort de Marco M. Olivetti, une fois diagnostiquée la crise de la philosophie de la religion comme symptôme de la fin de la métaphysique (ce fult le premier point), fut de penser l’absence d’une essence et donc de définition de l’homme (ce sera le second point). En particulier, lorsqu’il reprit et critica (en discussion avec J. Habermas, K.-O. 1
Critique de la raison pure, Déduction transcendentale, §24, B 156 (nous soulignons). Une telle application au je des processus de connaissance appropriés aux seuls objets (à titre de moi empirique) se retrouve souvent ailleurs, jusque, par exemple, chez Husserl, où « ...il n’y a pas plus de difficulté » à connaître ce qui pense que tout autre objet, précisément parce que ce je redevient « ... le même .. » qu’un objet – « ... comme partout, l’objet intentionnel identique de vécus séparés, qui lui restent immanents sur un mode seulement irréel » (Cartesianische Meditationen, V, Husserliana 1, p. 154 et 155). 3 Analogia del soggetto, Roma-Bari 1992, p. 1. 2
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Appel, N. Luhmann, etc.), la tentative d’une fondation sociale et communicationnelle de la rationalité, en donc de l’humanité de l’agent rationnel, il aboutit à « l’impossibilità di avere un eidos della società », parce que « la società rimane sempre e soltanto un orizzonte ». 1 En sorte que la « …società non é mai una presenza […] ma sempre un’assenza », 2 qui ne peut donc en rien se substituer à l’anthropologie ou à la métaphysique pour définir l’essence de l’homme. On pourrait même définir la plupart des thèmes retenus pour les colloques de l’Istituto «Enrico Castelli» comme des entreprises de déconstruction de toutes les possibles déterminations dogmatiques de l’essence de l’homme. Reste à comprendre ce que cette indétermination elle-même peut indiquer, : se réduit-elle à une aporie ? Mais cette aporie offre bien plus qu’une impasse – elle laisse apparaître un paradoxe. Si l’homme que je suis (me) reste inaccessible, cela ne résulte pas de ce que je ne le connaîtrais pas, mais au contraire de ce que je ne le connaîtrais que trop, parce que je ne parviens à le connaître qu’au titre de l’objet. L’homme m’échappe dans la mesure où le mode même de sa connaissance possible (qui en fait un objet pensé) contredit et dissimule sa caractéristique première, celle d’un pensant pur, qui pense sans devenir un pensé. Faudrait-il en conclure que le je n’a accès à lui-même en tant que tel, que s’il ne peut, au contraire, jamais se confondre avec un objet pensé, bref que s’il peut non pas se connaître, mais ne pas se connaître ? Autrement dit, mon accès à ce je que je reconnais seul pour moi demanderait-il que j’admette ne pas m’apparaître comme une connaissance (un objet), mais comme une définitive question (sans réponse d’objet) ? Aussi surprenante qu’elle paraisse, cette hypothèse pourrait nous rendre intelligible un paradoxe répété souvent par saint Augustin : « Factus eram ipse mihi magna quaestio – j’étais devenu moi-même pour moi-même une grande question ». 3 Il ne s’agit pas ici d’une formule jettée au fil de la rhétorique et comme en passant, car le contexte lui fixe au contraire une signification précise. Augustin constate que la disparition d’un ami très cher lui fait haïr ce qu’il aimait auparavant (sa ville et la maison paternelle) et le conduit à ne plus rien voir autour de lui que mort (« ...quidquid aspiciebam mors erat ») ; cette perte d’un autrui provoque donc rien de moins et rien d’autre que la perte de soi, de ma connaissance de moi, submergée par la mise en question de moi-même pour moi. Je m’éprouve en tant que je me découvre inintelligible à moi-même. Une autre formule confirme cette occurrence : même une fois converti (« ...in primordiis recuperatae fidei meae... »), en écoutant des chants résonner dans l’église (les hymnes d’Ambroise à Milan), Augustin constate qu’il se laisse attirer et affecter plus par les chants eux- mêmes que par ce qu’ils chantent, les Psaumes (« ...me amplius cantus, quam res, quae canitur, moveat... »), en sorte qu’il péche au sein même de la prière. Ainsi « ... je suis devenu, sous tes yeux [sc.de Dieu], une question pour moi-même (mihi quaestio factus sum) ». 4 Je me deviens une question, une aporie à moi-même, parce que je découvre que je ne peux régler ma propre prière, donc ma propre perception correctement, c’est-à-dire volontairement ; si elles, qui me définissent au plus intime, m’échappent, alors ce sont elles qui m’aliènent à moi-même. De cet écart de moi avec moi-même, de cette quaestio, deux autres textes confirment
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2 Ibid., p. 37. Ibid., p. 29. Confessiones iv, 4, 9, éd. James J. O’Donnell, Oxford 1992, t. 1 p. 36. 4 Confessiones x, 33.50, p. 139. Cet écart de moi avec moi-même sert même de conclusion au livre ii : « ... et factus sum mihi regio egestatis » (11, 10, 18, p. 22), où cette « région d’indigence » définit mon aliénation à moi-même (lors du premier vol) par la force du groupe des mauvais amis. 3
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jusqu’où elle m’aliène. – Rien ne me définit plus intimement que ma mémoire (« ... ipsum me non dicam praeter illam ») ; 1 comment donc puis-je non seulement oublier, mais (et comment le saurais-je sinon ?) me souvenir que j’ai oublié ce que pourtant j’ai oublié, que j’ai oublié ce dont je ne me souvient plus (« ...mihi certum est meminisse me oblivionem », « ...ipsam oblivionem meminisse me certus sum ») ? Il serait aussi absurde de répondre que j’ai oublié ce que j’ai oublié dans une autre mémoire que la mienne en gardant mémoire de l’oubli dans ma mémoire, que de prétendre que l’oubli reste dans ma mémoire pour que je ne l’oublie pas comme j’ai oublié ce que j’y ai oublié. Il ne me reste donc plus qu’à admettre que j’ai gardé en mémoire de l’image de l’oubli, mais non pas ce que j’ai oublié. Mais alors je dois en conclure que ma mémoire, mon intimité même, m’échappe et que « ... factus sum mihi terra difficultatis – je suis devenu pour moi-même une terre de difficulté », en sorte que je ne peux que m’interroger, interroger Dieu : « ...hoc animus est, et hoc ego ipse sum. Quid ergo sum, Deus meus ? Quae natura sum – ceci est mon esprit, et ceci je le suis moi- même. Que, suis donc mon Dieu, quelle nature suis-je ? » 2 – Et donc enfin, si ma propre mémoire m’aliène à moimême, comment ne deviendrai-je pas aussi autre que moi-même jusque dans ma volonté ? En effet, lors de mes rêves nocturnes, comment puis-je céder involontairement à une jouissance effective, alors qu’en état de veille, je peux repousser des images érotiques ? Une seule réponse : « A ce moment, ne serais-je pas moi-même, Seigneur mon Dieu ? Et cependant quelle différence entre moi-même et moi-même dans un [seul] moment – Numquid tunc ego non sum ? Et tamen tantum. interest inter me ipsum et me ipsum ipsum intra momentum ». 3 Dans seul moment, je me découvre décidément un autre que moi-même, je ne suis pas ce que je suis, je me deviens une quaestio pour moi- même. L’expérience de soi n’aboutit ni à l’aporie de substituer un objet (le moi) au je que je suis, ni au fantasme métaphysique de l’identité pure à soi, mais à l’aliénation de soi à soi – Je suis à moi- même un autre que moi. Quelle portée reconnaître à cet impossible accès par soi à soi ? S’agit-il d’une défaillance de la connaissance, d’une limitation de la conscience de soi, bref d’une anticipation des critiques habituelles du cogit, à la manière de Malebranche : « L’on, n’a point d’idée claire de l’âme, ni de ses modifications » ? 4 Cette interprétation purement négative ne vaudrait pourtant qu’à une seule condition : qu’il soit préférable dans le cas du je de l’homme que je le connaisse par une telle « idée claire », ou, ce qui en découle, par un concept. Or cette condition ne suscite pas seulement la question de sa possibilité – puis-je connaîÎtre mon je par une idée claire et distincte, par concept ? –, mais aussi et d’abord la question de sa légitimité. Légitimité d’ailleurs en deux sens : d’abord, est-il possible ou bien contradictoire de prétendre atteindre le je, qui seul comprend (et produit) les concepts, par l’un de ces mêmes concepts ? Ensuite, serait-il licite, admissible et souhaitable de connaîÎtre le je par concept, si d’aventure cela s’avérait possible ? Et si, au contraire, une telle entreprise finalement contredisait et détruisait le je même qu’il s’agit d’atteindre, alors la quaestio qui lui oppose saint Augustin deviendrait non plus une aporie, mais une voie vers un tout autre mode de conquête de ce que je suis comme tel.
1 Confessiones x,16,25 (ibid., p.128). Voir x, 25, 36 : « ... intravi ad ipsius animi mei sedem, quae illi est in memoria mea, quoniam sui quoque meminit animus » (ibid., p. 133). 2 Confessiones x, 16, 25 et x, 17,26 (ibid., pp. 128 et 129). 3 Confessiones x, 30, 41 (ibid., p. 135). 4 Recherche de la Vérité, X’ Eclaircissement, in Œuvres Complètes, éd. A. Robinet, t.3, Paris 1964, p. 168.
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v. A ce moment de la question, nous pouvons encore nous appuyer sur une autre thèse de Marco M. Olivetti, qui relie le nom à l’appel. « E proprio la mancanza di proposizionalità […] che porta a pensare originariamente la referenza del nome – e precisamente come nome proprio – non nel nominativo, bensi nel vocativo. […] Ogni referenza è conferenza tra interlocutori. […] La situazione […] in cui questa referenza oggetiva puo aver luogo presuppone il vocativo esattamente come vocazione, o come appello ». 1 Le vocatif devient, ici pour Olivetti, comme pour Lévinas et quelques autres, le cas originel, en lieu et place du nominatif. « La dimensione vocativa » 2 suppose que je ne peux dire je que parce que je me découvre appelé, donc évidemment appelé par autrui, quelqu’il soit. Je suis non pas ce que je sais et dis que je suis, mais en réponse à ce qui m’appelle. Pour le dire comme Jacobi, « Der Mensch wird angeredet », 3 l’homme se fait interloquer. Ce que souligne l’ambiguïté de la formulation (au moins en français) s’appeler : car, je ne peux pas dire, en toute rigueur, que je m’appelle de mon nom, puisqu’en fait ce nom m’a été donné par un autre (ou des autres), auquel je réponds, précisément en admettant que quand ce nom se trouve lancé par autrui, il s’agit bien de moi ; je me laisse appeler, mais toujours par autrui, en acceptant pour mien le nom qu’il m’impose. 4 Dès lors, il devient possible de s’interroger sur le privilège de l’homme – connaître en nommant. Hegel, commentant d’ailleurs le récit de la Genèse, où Dieu fait défiler les animaux devant l’homme, Adam, pour qu’il les nomme et donc domine, insiste sur le fait que le nom établit un concept, qui supprime l’immédiateté intuitive et s’y substitue, « l’homme parle à la chose comme à ce qui est sien ; et tel est l’être de l’objet ». L’être de l’objet ne consiste qu’à recevoir son être de l’homme, qui l’aliène en tant même quil le nomme : « L’homme parle de à la chose comme à ce qui est sien ; et tel est l’être de l’objet ». Autrement dit, « ... par le nom, l’objet comme étant est né de moi. Telle est la première faculté créatrice qu’exerce l’esprit. Adam a donné un nom à toutes choses ». 5 Evidemment, ce privilège, Adam ne l’exerce que sur les animaux, aucunement sur Dieu, ni non plus sur lui-même. Que Dieu échappe à la nomination, on le
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Analogia del soggetto, p. 13. Analogia del soggetto, p. 162. A l’occasion d’une description de l’enfance, elle se trouve développée en quatre moments : (a) l’enfant se trouve reconnu ; (b) l’enfant reconnaît autrui (sa mère) qui le reconnaît ; (c) il se reconnaît reconnu par autrui ; (d) il se reconnaît enfin lui-même (op. cit., p. 151). 3 Jacobi, Werke, iii, p.209 (cité dans Analogia del soggetto, p. 162). Il s’agit de l’ « …allocuzione originaria, che assume il tu come persona capace di risposta » (p. 140). C’est sur la base de ce dialogue originaire (en fait un dialogue inégal, sous forme d’appel), que l’analogie peut rétablir la logique qu eni la métaphysique, ni les sciences sociales ne peuvent plus garantir. Ce n’est que parce que « l’appaiamento analogico […] l’analogia è si e attua (west) come dialogo » (p. 187), qu’il y a une « …ri-velazione analogica della logica » (p. 196). 4 Voir un développement plus détaillé dans Etant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, §28, Paris 19971, 20033, p. 401sq. 5 La philosophie de l’esprit, 1805 (original dans la tr.fr. G. Planty-Bonjour, Paris 1982, p.16). Voir aussi : « Le premier acte par lequel Adam a établi sa maîtrise sur les animaux consista à leur donner un nom, c’est-àdire à les anéantir en tant qu’étants et à en faire des [étants] idéels pour soi [...]. Dans le nom, la réalité étant pour soi du signe est anéantie » (Gesammelte Werke, éd. H. Kimmerle, Bd. 6, Hambourg 1975, p.288, voir traduction française de M. Bienenstock, Le premier système. La philosophie de l’esprit (1803-1804), Paris 1999, p. 68), ou de G. Planty-Bonjour, La première philosophie de l’esprit (Iéna, 1803-1804), Paris 1969, p.82). Nous suivons ici l’interprétation classique d’A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Paris 1949, p. 326 sq. (et aussi A. Koyré, Hegel à léna, in Etudes d’histoire de la pensée philosophique, Paris 1961, pp. 135sq.). 2
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conçoit sans difficulté. Mais pourquoi l’homme ne se nomme-t-il pas lui-même ? Aucun interdit ne s’impose ici. A moins, qu’il n’en faille pas d’autre que le second commandement, qui interdit « ... de faire aucune image sculptée, rien qui ressemble à ce qui est dans les cieux » (Exode 20,4), c’est-à-dire rien donc qui prétendrait représenter Dieu par compréhension. L’homme serait-il aussi « dans les cieux » ? Certes – et voici le paradoxe décisif : ce qui vaut pour Dieu (que nul nom, nulle image et nul concept ne prétende le comprendre), vaut aussi pour l’homme : lui seul entre toutes les autres vivants, fut créé noir pas « selon son espèce », mais « selon l’image et la ressemblance » de Dieu (Genèse 1, 24 et 26). Du moins est-ce en ce sens que saint Augustin commente le texte : « ...réformezvous dans le renouvellement de votre esprit, non plus selon l’espèce (secundum genus), comme si nous imitions le prochain qui nous précède, ou comme si nous vivions d’après l’autorité d’un homme meilleur [que nous] ; car tu n’as pas dit : “que l’homme soit selon son espèce (secundum genus)”, mais “faisons l’homme à notre image et ressemblance”, afin que nous puissions éprouver par nous-mêmes quelle est ta volonté ». 1 Ainsi, l’homme reste inimaginable, précisément parce qu’il se trouve formé à l’image de Celui qui n’admet aucune image. En droit, l’homme ne ressemble donc à rien, puisqu’il ne ressemble à rien d’autre qu’à Celui qui se caractérise en propre par son incompréhensibilité. Ou encore, si Dieu reste incompréhensible, l’homme, qui ne ressemble à rien d’autre qu’à lui, portera aussi la marque et le privilège de son incompréhensibilité. Autrement dit, l’homme ne se réfère à aucune espèce, ne renvoie à aucun genre, ne ne se laisse comprendre par aucune définition de 1’[in-]humanité, mais, libre de tout paradigme, il apparaît immédiatement dans la lumière de Celui qui surpasse toute lumière. Son visage porte la marque de cette incompréhensibilité d’emprunt dans la mesure précise où il se révèle aussi invisible 2 que Dieu même. L’homme se sépare donc radicalement de tout autre étant du monde par une différence insurmontable et définitive, non plus ontologique, mais sainte. Il diffère du reste du monde, non plus ontologiquement, comme le « lieutenant du rien – Platzhalter des Nichts » 3 ou « le gardien de l’être – Hirt des Seins », 4 mais comme l’icône de l’incompréhensible. Son invisibilité sépare l’homme du monde et le consacre comme saint pour le Saint. Cet argument se trouve d’ailleurs formalisé comme tel, par Grégoire de Nysse, entre autres auteurs : « L’icône n’est parfaitement icône, que pour autant qu’elle ne laisse rien échapper de ce qui se connaît dans l’archétype. Or, puisque l’incompréhensibilité de l’essence se trouve parmi ce que l’on voit dans la nature divine, il faut nécessairement que toute [icône] garde en cela aussi la ressemblance avec son archétype. Car si l’on comprenait la nature de l’icône, mais que celle de l’archétype surpassait la compréhension, l’opposition de ce qu’on y voit trahirait la défaillance de l’icône. Mais, puisque la nature de notre esprit, qui est selon l’icône du Créateur, échappe à la connaissance, elle garde exactement sa ressemblance avec ce qui la domine en gardant l’empreinte de l’incompréhensible [fixée] par l’inconnu en elle ». 5 Connaître l’homme demande de
1 Augustin, Confessiones xiii, 22, 32 (op. cit., p. l96), citant successivement Romains 12, 2 et Genèse 1, 24 et 1, 26. 2 E. Lévinas : « Le visage est signification et signification sans contexte. En ce sens, on peut dire que le visage n’est pas « vu ». Il est ce qui ne eput devenir un contenu, que notre pensée embrasserait ; il est l’incontenable, il vous mène au-delà » (Ethique et infini. Entretien avec Philippe Nemo, Paris 1982, pp. 90-91). 3 M. Heidegger, Was ist Metaphysik ? in Wegmarken, G.A. 9, p. 118. 4 M. Heidegger, Brief über den „Humanismus“, in Wegmarken, G.A. 9, p. 342. 5 Grégoire de Nysse, De la création de l’homme xi, P.G., t..44, col. 156b sq. Voir la traduction française J. Laplace (corrigée), « Sources Chrétiennes », n°6, Paris 1943,1 20022, p.122. Voir un semblable argument chez
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le référer à Dieu en tant que l’incompréhensible et d’en fonder par dérivation l’incompréhensibilité, au titre de l’image et de la ressemblance. L’anonymat de l’homme, qui doit toujours recevoir au vocatif son nom par un appel, repose, en dernière instance et positivement, sur le privilège même de Dieu – l’incompréhensibilité. vi. Il s’ensuit donc des caractères de la connaissance par concept, que l’homme ne peut nommer, c’est-à-dire définir, l’homme, sauf à connaître non pas un homme, mais un objet, éventuellement animé, toujours pourtant aliéné. Aussi n’y-a-t-il aucune contradiction entre, d’une part, la connaissance de l’homme comme objet de l’anthropologie et, de l’autre, l’impossibilité de cette définition de soi. Connaître le moi comme un objet, constitué par alinéation ainsi que tous autres objets, n’ouvre aucun accès au je, qui seul connaît les objets parce qu’il se les oppose. Leur distinction manifeste simplement sur le cas que je suis, un homme, l’infranchissable différence entre les deux faces de la cogitatio, l’ego et l’objet. – D’où il s’ensuit une autre conclusion : si l’on s’obstine à prétendre que l’homme peut (et donc doit) devenir un objet pour l’homme (homo homini objectum), on ne fera que déplacer cette distinction : car ce qui sera connu comme objet, même affublé du titre d’homme, n’en sera précisément pas un et ne pourra se faire reconnaître comme tel. Et chacun peut en faire, sous des modes divers, l’experientia crucis : définir un homme équivaut à en finir avec lui. Non parce qu’on ne le penserait pas, mais précisément parce qu’on le pense, lui (comme objet), en ne pensant pas à lui (comme alter ego), parce qu’on le pense sans le penser à partir de lui- même, mais à partir d’un autre que lui, à savoir moi qui le définit en l’aliénant. Ou encore : classer un homme équivaut à le déclasser comme homme, parce qu’on ne saurait le classer autrement que selon un ordre et une mesure (des modèles et des paramètres) qui lui adviennent d’ailleurs – à savoir de la mise en œuvre de ma rationalité. Cette aliénation qui fait déchoir l’homme défini, classé et compris au rang d’un simple objet, nous la constatons chaque fois, que nous en finissons par admettre que, pour avancer une définition par concept de l’« homme », il faut d’abord poser la question « Qu’est-ce que l’homme ? ». Or cette simple question, même (et surtout) si nous n’y apportons aucune réponse, comporte déjà en elle une autre question, de beaucoup plus dangereuse, parce qu’elle demande « Qu’est-ce qu’un homme ? ». Plus dangereuse en effet, parce que, même (et surtout) si nous ne pouvons y répondre, nous nous autorisons pourtant aisément à la renverser négativement, en la transformant en une ultime question « Ceci est-il [encore, vraiment] un homme ? » Prétendre connaître et définir par concept l’homme conduit inévitablement à décider de son objectivation, ou plutôt à décider de son humanité à la mesure de l’objectivation que nous en aurons produite. Définir l’homme par concept ne conduit pas toujours, ni immédiatement à le tuer, mais remplit déjà la première condition requise pour éliminer tout ce qui ne ne correspond pas à cette définition. Ce danger – en finir avec certains d’entre les hommes parce qu’on peut définir l’« homme » – n’a rien d’exagéré, ni d’extravagant. Nous l’expérimentons directement, comme une possibilité évidente, dans toutes les pratiques de son objectivation. – Un
Basile de Césarée, Contre Eunome iii, 6, P.G. t.29, col.668b sq. et éd. B. Sesboüé, « Sources Chrétiennes », n°305, Paris 1983, p.166sq. ; ainsi que J. Chrysostome, Sur l’incompréhensibilité de Dieu, v, 259 sq., éd. J. Daniélou, A.-M. Malingrey et R. Flacelière, « Sources Chrétiennes », n°28bis, pp. 294sq.
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seul exemple suffira. Lorsque je me découvre en situation de médicalisation (entrée à l’hôpital, mise à nu, passage au bloc opératoire, lecture des résultats d’examens, soumission à un traitement), je deviens objet médical. Plus exactement, l’inévitable prise de pouvoir sur moi de la technique hospitalière élimine en moi tout ce qui ne se réduit pas à un objet médical. Au regard du personnel médical, puis rapidement au mien propre, le traitement de mon corps malade va conduire à l’interpréter selon les paramètres des corps physiques (étendue, quantification, mesures, etc.), de telle sorte que ma chair vivante va disparaître. Je ne sentirai bientôt plus que le fait quel je me sens : l’anesthésie me délivrera non seulement de ma douleur, mais de ma douleur de soi, donc de l’épreuve de moi par moi. Par suite, toute fonction non objective va faire disparaîÎtre de ce moi et ma chair, donc l’animé en moi, deviendra un animal-machine. Cette définition médicale de mon corps comme un objet permettra aussi de distinguer la santé de la maladie en termes de normes. Alors s’ouvre la redoutable région, où l’homme peut décider de la normalité, donc de la vie et de la mort d’autres hommes – parce que ceux-ci sont devenus de simples objets d’hommes. Il en va de même lorsque l’on me définit comme un objet réduit aux paramètres qu’y voit la théorie économique – lorsque je deviens le trop fameux « agent économique». Il en va encore ainsi avec la détermination politique de l’homme, qui lui en impose le traitement technique de son « numérisée » selon des paramètres sans limite. Tous ces processus d’objectivation, rendus aussi nombreux que les techniques, non seulement radicalisent la définition de l’homme comme animal social (vivant social), jusqu’à en faire un objet politique, mais surtout accomplissent ce que E. Jünger nommait la « mobilisation » 1 sans reste de l’humanité de l’homme. Et inévitablement cette définition compréhensive finit par autoriser, voire exiger de distinguer entre les hommes – entre ceux qui satisfont aux conditions politiques de cette citoyennenté et ceux qui en sont exclus ou qui doivent l’être (« exclusion », d’abord des chômeurs, des homeless, des émigrés illégaux, des a-sociaux, des délinquants, enfin des malades mentaux, des embryons réputés non encore humanisés ou surnuméraires, etc.). De la carte d’identité à la liste de proscription, la conséquence, pour n’être pas bonne, n’en est pas moins possible, aisée et rapide. La sagesse politique consiste d’abord à y résister. Faute de quoi, il n’y aura pas jusqu’à l’idéologie ou le racisme, qui produiront leurs définitions de l’homme et, par conséquence inversée, proscriront ceux qui n’y conviennent, avant de passer à l’arrestation, voire à l’extermination des sous-hommes, des non hommes ainsi identifiés. 2 Prétendre définir ce qu’est un homme conduit ou du moins ouvre la possibilité de conduire à éliminer ce qui ne correspond pas à cette définition. Toute proscription politique, toute extermination raciale, toute purification ethnique, toute détermination de ce qui ne mérite pas de vivre repose sur une prétention à définir (scientifiquement ou idéologiquement) l’humanité de l’homme ; sans cette garantie prétendue, personne ne pourrait les mettre en oeuvre. Même les pires tyrans modernes ont besoin de raisons et
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Nous l’entendons au sens de Ernst Jünger, Die totale Mobilmachung, 1931. P. Lévi a parfaitement vécu et décrit le moment où le nombre, devenu l’outil le plus efficace de la définition (en l’occurrence idéologique et raciste) de l’homme, donc de la stigmatisation du nonhomme (le juif ), tue le nom d’un homme en s’y substituant : « C’est Null Achtzehn. On ne lui connaît pas d’autre nom. Zéro-dix-sept, les trois derniers chiffres de son matricule : comme si chacun s’était rendu compte que seul un homme est digne de porter un nom et que Null Achtzehn n’était plus un homme » (Si c’est un homme, Turin 1947, Nelan 1959 ; cité d’après la traduction française, Paris 1987, p.44). Et une fois supprimé le nom d’un homme, donc une fois niée son humanité, il devient possible et même beaucoup plus facile de le supprimer physiquement, comme un « chien » ou un « cochon », donc comme une bête. 2
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de concepts. Il se trouve ici une nouvelle experientia crucis : pour tuer un homme, il faut avoir le permis de tuer ; mais pour l’avoir, il faut d’abord pouvoir dénier à tel homme (le bien nommé Untel) son visage, donc son humanité ; et on y parvient en définissant et comprenant par concepts l’humanité, donc en lui fixant des limites et en découvrant ainsi celui qui ne peut y prétendre et donc peut ou doit mourir. Ici, une proposition métaphysique en apparence parfaitement neutre prend l’allure d’une silencieuse menace : toute détermination est une négation montre ou plus exactement (puisqu’il s’agit en l’occurrence de la seule étendue) « ... figura non aliud quam determinatio, et determinatio negatio est ». 1 Déterminer revient à nier (non pas l’inverse, car, si la détermination suffit à nier, une négation ne suffit pas toujours déterminer). Déterminer l’humanité de l’homme revient donc bien à en terminer avec l’homme.
vii. D’ailleurs, cette experientia crucis peut se confirmer en s’inversant : en effet, je ne peux aimer (le contraire de tuer) qu’un autrui que je ne connais précisément pas, du moins au sens de pouvoir le comprendre comme un objet et le définir par concept. Je ne peux aimer que celui qui me reste sans définition, et aussi longtemps qu’il le reste, c’est-àdire aussi longtemps que je n’en aurai pas fini avec lui. Il s’ensuit que la philosophie aurait pour tâche, dans le cas particulier de l’homme, non pas de corriger son incompréhensibilité pour lui-même comme une défaillance à surmonter, mais de la préserver comme un privilège à renforcer. Le travail de Marco M. Olivetti l’avait conduit à dégager la crise de la philosophie de la religion, ou plutôt la crise de la métaphysique que rend manifeste la notion même de philosophie de la religion, et il avait aboutit à constater l’absence d’essence de l’homme. Par une renversement ironique, cette incompréhensibilité même s’avère une défense forte de l’humanité de l’homme, et elle repose sur une thèse théologique radicale, l’incompréhensibilité de ce dont l’homme porte l’image et ressemblance.
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B. Spinoza, Epistula 50, à J. Jalles (éd. J. van Vloten et J.P.N. Land, La Haye 19143, t.3, p. 172).
LA SPERANZA DEL FILOSOFO Stefano Semplici
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ra la fine di settembre. Appuntamento in una piazza romana per partire tutti insieme per un convegno su « Religione e spazio pubblico ». Stavo discutendo con Stefano Bancalari l’ultimo saggio di Marco quando lo vedemmo arrivare, con il suo passo rapido e insieme discreto. Come sempre sorridente. Quelle pagine su Universalità e molteplicità personale ci avevano fatto molto faticare, soprattutto nella seconda parte. Glielo dicemmo, come eravamo abituati a fare. Lui ci rispose con una sfida bonaria : « è lì – disse – che ci sono delle cose nuove ». Abbiamo dovuto cercarle da soli, scavando fra le righe la traccia di una citazione, di un’allusione in un colloquio, di un interrogativo restato ironicamente in sospeso. La novità, è vero, c’era. Quel che soprattutto mi colpì, riprendendo il testo a distanza di qualche mese, fu però la conclusione. Poche frasi, che intrecciano in modo brachilogico e per questo più incisivo i grandi temi del suo impegno filosofico. Il richiamo alla comunità etica di Kant vale come pietra di paragone della sua interpretazione della filosofia della religione come prospettiva privilegiata per la comprensione dei fondamentali passaggi e cesure del moderno, che diventano la condizione di una originalissima teoria dell’intersoggettività : universalità e (come ?) molteplicità personale, appunto. Allo stesso tempo, il suggerimento di una « riflessione filosofica sulla speranza » come « quadro critico » del giudizio morale, inteso non più come giudizio determinante e neppure riflettente, bensi profetico. 1 È quasi il controcanto di una domanda posta in un passaggio cruciale di Analogia del soggetto, senz’altro il suo libro più importante. È possibile – si chiedeva in quel caso Marco – non solo una speranza, ma una filosofia « che non sia nostalgia », cioè programma di reintegrazione di quel che è ‘primo’ in quanto semplicemente passato ? Solo una speranza non nostalgica è la parola « che conviene alla pensabilità dell’etica come filosofia “prima” ». 2 Questa conclusione sembra esporsi alla facile critica di tutti coloro per i quali non può essere la speranza la ‘virtù’ del filosofo e che a questo Olivetti preferiscono probabilmente il maestro del rigore filologico quasi ascetico e straordinariamente erudito di ricostruzioni storiografiche sulle quali si sono formate generazioni di studenti e che sono diventate un punto di riferimento per tutti gli studiosi di Jacobi, Kant, Fichte. Insomma : la speranza come wishful saying di un discorso edificante nel quale ritrovare semmai l’esito ultimo del suo confronto con il multi-verso del pensiero contemporaneo e soprattutto con Levinas ? Certo, il registro della speranza rimane quello più facilmente utilizzabile quando si tratta di continuare il dialogo con coloro che non ci sono più, salvando la loro parola dalla cancellazione, dalla « mancata registrazione negli archivi della memoria ». 3 La mia tesi – sul filo della suggestione di quest’ultimo lavoro di Marco – è però che si può puntare a verificare la tenuta tutta filosofica di questa indicazione, che certo corrisponde ad un modo di fare filosofia. Senza illusioni, come dichiarava nel titolo di
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M.M. Olivetti, Universalità e molteplicità personale, in Universalismo ed etica pubblica, a cura di F. Botturi e F. Totaro, Milano, Vita e Pensiero, 2006, p. 34. Gli scritti di Olivetti saranno citati d’ora in poi senza indicare ogni volta il nome dell’autore. 2 3 Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 123. Ivi, p. 26.
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un saggio scritto pochi anni fa sul trascendentale con l’esplicito obiettivo di rinunciare « alla filosofia come consolazione » senza rinunciare « alla consolazione della filosofia ». 1 Sarebbero possibili evidentemente altri percorsi. Riconosco senz’altro in questa scelta il mio debito all’uomo e all’amico di tante passeggiate e interminabili lezioni tele-foniche, non meno che al professore. La prima tappa è il suo primo libro, Il tempio simbolo cosmico. Il punto di partenza è costituito da una ricognizione di alcune figure nelle quali si evidenzia la specificità del gesto del temnein : l’edificazione del tempio, la delimitazione del suo perimetro, non corrispondono ad un’azione simbolica nel senso della mera immagine o metafora : il tempio è il cosmo, luogo del sacro e non semplicemente luogo sacro. Di qui la problematicità del rapporto fra caos e cosmo (materia e forma, non essere ed essere), in esso evocati. Da un lato il tempio è e non può non essere « totalmente separato da ciò che lo circonda » ; dall’altro, proprio in quanto ha la proprietà di cosmizzare ciò che lo circonda, « diviene il centro del cosmo ». Insomma : qualcosa che è nel mondo senza tuttavia essere del mondo. Una problematicità che si rinnova e approfondisce quando il cristianesimo intende « come sia proprio l’uomo, l’esistente, il “luogo” in cui la domanda circa quel rapporto fra essenza ed esistenza sorge, dacché è egli stesso, l’esistente, che costituisce, in quanto tale, un simile problema (è il tempio) ». Il motivo per cui si edifica quest’ultimo diventa così l’angoscia e, più precisamente, l’angoscia non di un semplice itinerare spaziale come quello della tribù australiana degli Achilpa, che portano sempre con sé il palo bagnato dal dio col proprio sangue e che pianteranno al centro del territorio che di volta in volta abitano, bensì quella che nasce dalla consapevolezza che l’eschaton si differisce in un futuro sempre più lontano e dunque si dovrà « procedere indefinitamente lungo il cammino ignoto della storia ». 2 Il vero innesco della riflessione di Olivetti, sulla quale già si imprime il segno della sua inconfondibile originalità, è interno alla questione della soggettività che così, ineludibilmente, si pone : il tempio è sacrificio della soggettività e del suo tempo, in quanto radicalità dell’alterità del sacro. E tuttavia è proprio la civiltà che equivocamente si definisce cristiana ad essere civiltà dell’avventura nel senso etimologico del termine, cioè dell’ad-venturum. Il graduale passaggio dalla fides quae creditur alla fides qua creditur, che culmina nell’episodio Riforma-Controriforma (la sfida della sola fides che si converte in sola ratio), non investe solo la storia dell’architettura sacra e la disputa sui sacramenti, sulla Chiesa come sacramento (l’affermazione della forma, del soggetto, di fronte alla Chiesa come contenuto non formalizzabile, come sacramento appunto, che diventa il tripudio d’oro e di luce del barocco, ultimo tentativo di trattenere il razionalismo dirompente entro il temenos del cosmo tradizionale). Ne va di una essenziale questione antropologica. Il temnein non elimina il tempo e la storia. Per questo il tempo che porta in sé la traccia dell’operazione temenica anche quando la fede si è convertita in ragione è il tempo della speranza, intesa – si badi bene – come virtù ontologico-esistenziale e non teologale, cioè come possibile piega della connessione razionalismo-soggettivismo nel momento in cui implode in quest’ultima l’antica metafisica e, al tempo stesso, come qualificatore di una frattura che non si toglie in un autotrascendimento che valga
1 Trascendentale senza illusione. Ovvero : l’assenza della terza persona, in La persona e i nomi dell’essere. Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, a cura di F. Botturi, F. Totaro e C. Vigna, vol. i, Milano, Vita e Pensiero, 2002, p. 429. 2 Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Roma, Edizioni Abete, 1967, pp. 138-140.
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un’autoassoluzione. Sono così poste almeno le premesse di due temi che saranno cruciali per il percorso tracciato da Olivetti appunto nelle pieghe della filosofia moderna e contemporanea : la praticabilità e le aporie della metafisica della soggettività che si è dispiegata come alternativa alla metafisica della onto-teo-logia e la verifica sul piano filosofico, entro i limiti della ragione, della tesi che la speranza risulta inscindibile dalla affermazione della colpa d’origine. L’uomo, come il tempio, è « segno di contraddizione ». 1 Nella ripresa della celebre domanda kantiana su quel che ci è lecito sperare – è questo il secondo spunto sul quale fermerò la mia attenzione – Olivetti individuava una vera e propria cartina di tornasole della vicenda che porta al costituirsi e consolidarsi della filosofia della religione. La categorizzazione di quest’ultima è « un fatto che definisce la modernità al pari della “scienza” », nel senso che solo in epoca moderna la religione diventa « oggetto di sapere che si assume possibile e necessario acquisire indipendentemente dagli eventuali atteggiamenti valutativi nei confronti della religione in generale » 2 (e a maggior ragione di alcune religioni positive in particolare). Il fondamentale presupposto teorico di questa operazione è precisamente il nesso appunto « epocale » fra metafisica della soggettività e universalità. Non è più nell’essere o nell’ente che il pensiero colloca « l’oggetto delle proprie “meditazioni di filosofia prima” e il fondamento della verità, della certezza e della validità universale della conoscenza ». 3 L’ultimo dei tre interrogativi della citatissima lettera a Stäudlin del 4 maggio 1793 non allude semplicemente, in questo contesto, ad una regione della metaphysica specialis, che nel passaggio dalla teologia alla religione si consegnerebbe al definitivo esito del rapporto fides/ ratio, ma all’impossibilità di chiudere quel nesso nella circolarità e autoriflessività del sapere. La filosofia non può non sperare – seguendo la traduzione che Marco ipotizzava rileggendo, su sollecitazione dell’amico Thomas Hünefeldt, il was darf ich hoffen alla luce di significativi passi kantiani nei quali effettivamente il dürfen sembra valere l’aver bisogno di un bedürfen – perché non si può non pensare il suo rapporto con la religione in termini di trasgressione. Mai, come vorrebbe uno pseudo-illuminismo di maniera, di deduzione o riduzione. La filosofia come trasgressione, che è poi un altro modo di dire l’ad-venturum, era anche un tratto peculiare di un’attività di ricerca nella quale l’esattezza alimentava ogni volta la curiosità, di un impegno di insegnamento nel quale la banalità era esclusa e quel che più sorprendeva era l’improvvisa irruzione nella sfera ristretta di un pensiero raffinato e magari un po’ elitario dell’immediatezza del quotidiano, della sfera ampia dei colori, degli odori, dei suoni, del nascere e del morire degli uomini. Nella sua Introduzione alla Religione di Kant la trasgressione è però, questa volta senza equivoci o sic et non, il destino della filosofia che sa e vuole se stessa. E dunque religione innerhalb e non aus der Vernunft, limiti (Grenzen) che aprono e non confini (Schranke) che si chiudono. Si spera, di conseguenza, perché la religione della ragione si infrange contro l’impossibilità di ‘teorizzare’ il male radicale. Ciò che è ideale ha bisogno di essere schematiz
1 Ivi, p. 86. Questa contraddizione non va naturalmente intesa nel suo significato strettamente logico. Nell’« ecumenismo architettonico » che caratterizzerebbe per Olivetti la fenomenologia contemporanea del tempio tale tensione si traduce in quel disporsi intorno che fa nascere il ‘centro’ e dunque può essere inteso come una straordinaria accentuazione della soggettività, senza però che ciò precluda la comprensione di tale disporsi come conseguenza di una centralità che preesiste (nelle chiese cattoliche post-conciliari, non a caso, il cerchio rimane comunque aperto, l’altare è il centro). 2 Filosofia della religione, in La filosofia, a cura di P. Rossi, vol. i, Torino, utet, 1995, p. 149. 3 Ivi, p. 180.
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zato, di Vorstellungen che lo traducano in concreti ed efficaci riferimenti storico-pratici. Ma il cristianesimo non offre soltanto questi schemi. Esso mette anche a disposizione le dottrine che possono integrare il residuo di opacità che comunque resta nelle tappe del dramma male-conversione-bene. Fra la fede dogmatica e l’ambizione della sola ratio si apre lo spazio della fede riflettente, risultato di una ragione che, consapevole dell’impotenza a soddisfare le sue più profonde esigenze morali, si estende fino a quelle idee trascendenti che potrebbero compensare tale deficienza. Sia sul piano della rappresentazione storica, sia su quello di una sorta di metafisica dell’ulteriorità che, proprio raccogliendo uno spunto dell’ultima Critica, include le potenzialità del discorso simbolico-analogico. Si spera, soprattutto, 1 perché rispetto all’esigenza di realizzare l’unione universale di tutti gli uomini come omnitudo collectiva la soggettività autonoma segna il passo e deve riconoscere la necessità di un rapporto intersoggettivo che essa non può né fondare né garantire nel suo risultato. Non si tratta dunque più della semplice esigenza di una commisurazione della felicità al merito. La coincidenza in Kant di filosofia della religione ed ecclesiologia filosofica (la comunità etica come popolo di Dio), una volta sganciata la prima dal suo ruolo di semplice setaccio della rivelazione, non è occasionale e rappresenta il punto cruciale della crisi di ogni illusione trascendentale, di ogni tentativo di riduzione della originaria e originante molteplicità personale nella « riflessività come autofondazione ». 2 Una delle tesi più forti di Olivetti, che profila l’orizzonte di tanti suoi scritti e di tanti suoi corsi, è appunto che il problema di Dio è tutt’uno con il problema dell’intersoggettività, che non si può pensare all’intersoggettività senza pensare a Dio. 3 È il contesto della sua interlocuzione con il pensiero contemporaneo e in particolare con la sfida dell’etica come filosofia prima. L’autoreferenzialità della prima persona, anche quando non ricade nel realismo ingenuo dell’io-sostanza, ripete la tentazione proto-logica della onto-logia ed è per questo diventata l’ultimo nome della causa sui. Hic Rhodus, hic saltus, si sarebbe tentati di dire. Fichte o Levinas, per citare una delle pagine più incisivamente efficaci di Analogia del soggetto. Solo nel gesto inaudito del rovesciamento della soggettività in soggezione (il soggetto che non è originariamente pensiero ; il soggetto che non è originariamente il nominativo grammaticale, ma l’accusativo : me voici) si realizza la denucleazione di ogni stance, « di ogni “stanza” della pretesa sostanza » : assoluzione dalla totalità e processo di « infinizione » (infinition). 4 Ed è questo che avviene in quell’ultimo scritto che discutevamo un anno e pochi mesi fa, senza tuttavia che ciò consenta di concludere per una scansione in fasi distinte e magari anche metodologicamente distanti del pensiero di Olivetti. Il suo è stato piuttosto un continuo gioco di sponda fra le diverse esperienze e proposte teoriche nelle quali si è giocata l’istanza fondamentale della filosofia moderna : uscire dall’aporia essere-dover essere passando progressivamente da una normatività dell’esterno ad una normatività dell’interno. 5
1
Quello della fede riflettente – preciserà successivamente Olivetti – resta in fondo un dominio che Kant chiama in causa una sola volta. Cfr. Religione e rivelazione nel giovane Fichte e in Kant, in La filosofia come santità della ragione. Scritti in onore di Xavier Tilliette, a cura di A. Russo e J. L. Vieillard-Baron, Trieste, Edizioni 2 Analogia del soggetto, cit., p. 115. Università di Trieste, 2004, p. 86. 3 Pensare a e non semplicemente pensare Dio : « Il pensare-a non raggiunge ciò che lo attrae, non lo costituisce intenzionandolo, ma è costituito dalla attrazione da parte di ciò che lo trascende » (Teologia e Analogia subjecti, in Colloquium philosophicum, Annali del Dipartimento di Filosofia, iii, Firenze, Leo Ol4 Analogia del soggetto, cit., p. 75. schki Editore, 1998, p. 278). 5 Ivi, pp. 100-102.
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La speranza come trasgressione, la speranza come ironia del loquor, che già traspare nella constatazione che i verbi dei fatti ‘essenziali’ della vita sono deponenti : parlare, nascere (nascor), morire (morior). Nel nuovo medium dispiegato nella svolta linguistica Olivetti vede il rischio che la trasformazione della appercezione trascendentale in sintesi della comunicazione (Apel, Habermas) continui a fare di quest’ultima nulla più che l’oggetto « reso possibile da un soggetto così è così costituito, o da più soggetti che rappresentano l’iterazione del modello o dell’essenza del soggetto umano ». 1 Non esiste un’essenza dell’essere umano. Per uscire definitivamente dalla uni-versalità uni-vocante del cogito si deve riconoscere una volta per tutte l’impossibilità di dire la Selbstständigkeit senza riconoscere in essa la presenza, la precedenza dell’altro e degli altri. La speranza diventa così l’interfaccia non solo di una concezione della temporalità inclusiva della dinamica generativa, ma anche di una interpretazione dell’esser logos dell’universale. Un logos che si dispiega (si amplia ?) come leghein di una parola moltiplicante e sempre in contraddizione con se stessa, specie quando ne va della « questione personale ». Contraddizione fra moltiplicazione e raccolta : la schiuma dell’infinità trabocca dalla coppa hegeliana del regno degli spiriti. Contraddizione fra la validità che si raggiunge per consenso unanime e quella che si regge invece su una unione universale. Insomma : omnitudo distributiva e omnitudo collectiva, ancora una volta. Hegel e Kant, perché si fa filosofia e non edificazione retorica. La persona esce dalle aporie dell’intersoggettività e dal recinto coscienziale sapendosi istituita nella sua stessa interiorità dall’esterno, dalla parola rivolta. È anche per questo che « chi parla, talora non sa che cosa dice ; anzi, sempre il significato del dire non è padroneggiato, o non è solo padroneggiato, dalla coscienza e dalla intenzionalità cosciente ». 2 La citazione dell’agostiniano factus sum mihi quaestio magna è a questo punto inevitabile, 3 ma ciò non comporta affatto la rinuncia al giudizio. Si tratta semmai dell’ultima variazione della contraddizione come filigrana dell’omologia uomo-tempio. Il giudizio morale può aspirare ad un universale nel quale il reale non « subisce » riduzione perché non pretende di essere determinante e neppure riflettente. Il giudizio morale non lascia in armonia e in pace con se stessi e talvolta nemmeno con gli altri. Per questo sarà sempre soltanto un giudizio profetico, che non può dismettere il dubbio come si fa con la scala a pioli usata per salire sul tetto (anche perché non si vive sui tetti). In un altro dei suoi ultimi scritti, Olivetti sceglie l’espressione di « comunità delle menti » per richiamare quella ricca famiglia di nomi attraverso i quali, dicendo la sua esigenza di universale, la filosofia moderna dice il suo limite : l’assemblage de tous les esprits di Leibniz, il Geisterreich schilleriano oltre che hegeliano, la société spirituelle di Laberthonnière, fino alla monadologische Intersubjektivität husserliana. Ed è ancora in Kant che si assiste all’infrangersi del « culmine » della ragione nelle tante figure, nei tanti intervalli delle sue discontinuità : tra mondo naturale e morale, tra fenomeno e noumeno, tra certezza (conoscitiva e/o morale) e fede-speranza di ragione. Il Kant della Religione, annotava qui Marco, dimostra di conoscere bene le epistole neotestamentarie. La speranza del filosofo include quella di Ebrei 11,1. Nella traduzione di Dante in Paradiso : « Sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi ». 4
1
Ibidem. 3 Universalità e molteplicità personale, cit., p. 26. Ivi, p. 29. La comunità delle menti come problema della filosofia moderna, in Per una storia del concetto di mente, a cura di E. Canone, Firenze, Leo Olschki Editore, 2005, p. 354. 2
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I COLLOQUI « CASTELLI » : UNA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE ATTRAVERSO gli AVANT-PROPOS
Pierluigi Valenza
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uando, circa due anni e mezzo fa, Marco Olivetti mi affidò la relazione, che era stata richiesta a lui, su « Archivio di Filosofia » per un convegno dedicato alla filoso fia italiana del secondo dopoguerra attraverso le riviste, affermando che era tempo che, oltre a dedicarmi ai miei studi di filosofia tedesca, mi prendessi cura del ‘patrimonio di famiglia’, scelse anche il titolo di quella relazione, sul quale mi trovai d’accordo e che assunsi anche a guida della mia esposizione : « Archivio di filosofia. L’internazionalizzazione di una rivista italiana ». 1 Quel titolo sottolineava come una rivista che, fino al primo dopoguerra, era stata una sede pressoché ufficiale di pubblicazione dell’accademia italiana, si era via via trasformata, attraverso l’opera di Castelli, la coltivazione dei contatti, scientifici e personali, con la filosofia europea, in un foro internazionale, fino a sfociare nell’istituzione dei colloqui sulla demitizzazione, nel 1961. 2 Se oggi ragioniamo sulla presenza del pensiero di Marco Olivetti nelle diverse aree linguistiche e in diversi orizzonti filosofici, è anche perché i Colloqui organizzati da Enrico Castelli sono stati, in quegli anni di formazione, il luogo di confronto sulla demitizzazione, l’ermeneutica, sulla filosofia della religione dell’epoca. Olivetti stesso, nel rievocare il suo maestro in diversi saggi pubblicati su « Archivio di Filosofia », ha sottolineato la peculiarità di quest’esperienza, per la sua natura cooperativa, per la permanenza degli interlocutori nel tempo, sì da fare dei seminari un circolo di intellettuali con crescente familiarità, anzi ‘circolo di amici’. Come Enrico Castelli, così anche Olivetti nella sua lunga conduzione dei Colloqui e della rivista, ha tessuto il filo del dialogo con la comunità filosofica internazionale interrogandola e facendosi interrogare sulla concezione della filosofia della religione come osservatorio significativo del senso stesso della filosofia contemporanea. Così, nell’Introduzione ai lavori del Colloquio dedicato all’argomento ontologico, Olivetti fissava il senso, per lui, di quest’impresa cooperativa :
Le thème de ce colloque me paraît avoir une importance particulière par rapport à l’entreprise que les colloques « Castelli » poursuivent dans leur ensemble. Après une expérience ininterrompue depuis exactement trente ans, cette entreprise peut raisonnablement être décrite comme la recherche d’une mise au point constante de la situation faite à la philosophie de la religion, et cela grâce à la thématisation d’un problème qui soit à même de rassembler à chaque fois des approches philosophiques différentes et de jouer un rôle de catalyseur pour faire converger ces approches, ou, pour le moins, pour une meilleure compréhension de leurs traits irréductibles. Cette entreprise suppose la conviction – bien fondée, je crois, [...] que la philosophie de la religion est une perspective spécialisée, mais pas moins significative et même privilégiée, pour saisir le sens de l’aujourd’hui philosophique. 3
1 Cfr. P. Valenza, « Archivio di Filosofia ». L’internazionalizzazione di una rivista italiana, in La cultura filosofica italiana attraverso le riviste, a cura di P. Di Giovanni, Milano, Angeli, 2006, pp. 229-247. 2 Cfr. « Archivio di Filosofia », 1-2, 1961, Il problema della demitizzazione, cfr. in particolare l’introduzione di Enrico Castelli. 3 M. M. Olivetti, L’argument ontologique et la philosophie contemporaine. Introduction aux travaux, in « Archivio di Filosofia », 1990, L’argomento ontologico, pp. 13-18, qui p. 13.
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In quella relazione sull’internazionalizzazione di « Archivio di Filosofia », avevo fatto oggetto d’indagine soprattutto la vicenda della rivista sotto la direzione di Castelli e la temperie culturale ed i contatti che avevano portato alla gestazione dei Colloqui sulla demitizzazione. Soltanto nell’ultima parte avevo ragionato, epidermicamente, sui cambiamenti più vistosi portati dalla conduzione di Olivetti, segnati evidentemente dalle prospettive filosofiche delle sue più importanti pubblicazioni teoriche, Filosofia della religione come problema storico e Analogia del soggetto, e connotati da un percorso di rivisitazione di questioni più classiche di filosofia rispetto al filo dell’ermeneutica e della demitizzazione, visibile fin nei titoli dei Colloqui (Teodicea oggi ?, L’argomento ontologico, Filosofia della rivelazione, Incarnazione). Erano considerazioni sparse ed embrionali su una vicenda intellettuale aperta, ancora così tanto da svolgersi pur nella piena chiarezza e maturazione dei temi. Mi sia permesso oggi, ancora in forma embrionale e introduttiva, di ritornarvi su, e di farlo assumendo come guida principale quel particolare genere letterario che Olivetti, nell’introduzione ai Colloqui, aveva ereditato da Castelli : le brevi pagine, dense di interrogativi, che costituivano la provocazione al colloquio, e le introduzioni ai Colloqui stessi. Particolare genere letterario, perché precipitavano in forma ellittica, brachilogica, i temi della meditazione olivettiana, estremamente coerente se si seguono i ragionamenti tra una proposta tematica e l’altra. Certo, è emblematico che nel Colloquio di quest’anno il foglio dell’Avant-propos, della premessa al Colloquio, sia sostituito dall’annuncio di una celebrazione in memoria, come a dire l’unica meditazione possibile, quella del raccoglimento individuale e comunitario prima di questa memoria colloquiata, di natura filosofica, che stiamo compiendo in questa sessione. Elementi di questa meditazione intrecciata con gli amici dei Colloqui si ritrovano anche in quei volumi di atti nei quali gli interventi di Olivetti figurano come Remarques preliminaires, controcanto alle introduzioni proposte da Vittorio Mathieu. Così negli atti di Neoplatonismo e religione, riconoscendo la riserva potenziale di ispirazione nel neoplatonismo, soprattutto in direzione della teologia negativa, in chiusura delle note premilitari si trova l’interrogativo se non si debba ricercare l’eterogeneità dell’ineffabile « su un terreno radicalmente differente da quello della gnosi ». 1 E nel Colloquio su Ebraismo, Ellenismo, Cristianesimo, nell’articolare il trinomio del titolo, la posizione del problema dell’ebraismo nella diade Atene-Gerusalemme, con la proposta di un’interpretazione non ontologica del nome rivelato rispetto alla violenza identitaria della dialettica passata attraverso la morte di Dio. 2 La riflessione sulla crisi dell’onto-teologia e l’assunzione del primato dell’etica, evidentemente alieno da ogni considerazione edificante, ma nell’interrogazione radicale dei percorsi della fenomenologia così come dell’ermeneutica, appare al fondo delle riflessioni proposte in ogni introduzione. Il primo Avant-propos nella forma che poi ha accompagnato tutti i colloqui successivi fino a Le tiers del 2006, introduce al Colloquio Intersoggettività, socialità, religione, del gennaio 1986 : nel trinomio c’è il filo del rapporto tra filosofia della religione e teoria della società, come intuizione che lega insieme le due principali opere di Olivetti sopra richiamate : l’intersoggettività, così nell’Avant-propos, non si sovrappone alla
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Idem, Alles Vergängliche ist nur ein Gleichnis. Rémarques préliminaires, in « Archivio di Filosofia », 1983, Neoplatonismo e religione, pp. 15-16, qui p. 16. 2 Idem, Judaïsme, Hellénisme, Christanisme. Remarques préliminaires, in « Archivio di Filosofia », 1985, Ebraismo, Ellenismo, Cristianesimo, pp. 17-18, in particolare p. 18.
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socialità, specie se dagli approcci contemporanei al superamento della soggettività si arrivi a guadagnare una nuova comprensione della religione come funzione essenziale dell’agire comunicativo. Questo cenno si intende alla luce della successiva introduzione al Colloquio nella quale, mettendo in guardia dal tema della socialità come riflesso dello stesso soggettivismo, Olivetti articola la scomposizione della presenza in prima, seconda e terza persona, quest’ultima come assenza componente fondamentale della presenza, nei termini che ritornano in Analogia del soggetto. 1 È quell’inter diacronico e non sincronizzabile per il quale Olivetti ricorre al rapporto parentale, alla messa al mondo linguistica dell’infante, dell’infans, di colui che non ha parola e per l’appunto è destinatario dell’allocuzione che lo fa parlante : vi ricorre qui, in questo stesso contesto, e ancora una volta il parallelo con passaggi centrali di Analogia del soggetto dice del carattere programmatico, nella visione di filosofia della religione di Olivetti, del trinomio titolo di questo Colloquio del 1986. L’intersoggettività, così riletta, diviene il luogo di un ripensamento non ontologico di Dio :
Il se peut qu’un paradigme éthique du langage nous permette une pensée non plus ontologique de Dieu : un Dieu avant l’être, qui nous constitue en personnes et nous donne l’être en s’adressant à nous comme parole. Ce qui, en tout cas, est certain, c’est que repenser l’intersubjectivité implique la nécessité de repenser Dieu. 2
Su questo nesso dovrò ritornare perché su di esso si dipana la riflessione in un altro Colloquio al quale si può forse riconoscere altrettanto valore programmatico che a questo citato, con la differenza di non avere uno sviluppo depositato in un testo, come qui il caso con riferimento ad Analogia del soggetto. Nel breve spazio di quest’intervento non potrò seguire lo sviluppo delle riflessioni sulla filosofia della religione attraverso i temi dei Colloqui. Noterò soltanto che uno stesso carattere programmatico, del resto emerso anche nelle brevi considerazioni fin qui fatte, può essere riconosciuto al Colloquio su Filosofia della religione tra etica e ontologia, di dieci anni dopo (1996), come spostamento d’asse caratteristico della stessa definizione moderna della religione e della relativa disciplina filosofica e accademica, con la proposizione della possibilità che si sia in presenza di una costruzione, « un concetto elaborato dalla stessa storia intellettuale moderna ». 3 Prima di venire, e saranno le considerazioni conclusive di questo mio intervento, ad un ulteriore momento programmatico forte nel pensare i temi dei Colloqui, mi soffermerei su quella che ho indicato come rivisitazione di questioni classiche della teologia filosofica e della filosofia della religione, per illustrare come, sempre nella proposta del tema e nell’introduzione ai lavori, venga fissata in poche battute la prospettiva innovativa alla luce della quale ripercorrere una tradizione. Nell’introdurre a Teodicea oggi ? Olivetti ne rilevava il carattere riflessivo evidente nel ruolo della ragione come istruttrice dell’accusa, soggetto accusato e anche giudice dell’intero dibattimento, ma l’accento posto sull’oggi spostava l’obiettivo su come fare i conti con il pensiero moderno a partire dal tema della teodicea : come declinare non riflessivamente la responsabilità ? Come non abbandonare, con la riflessività come ulti
1 Cfr. Idem, Introduction au colloque : Intersubjectivité, Socialité, Religion, in « Archivio di filosofia », 1986, pp. 13-15, in particolare p. 14 e Idem, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, Prefazione (snp) e p. 14. 2 Idem, Introduction au colloque : Intersubjectivité, Socialité, Religion, cit., p. 14. 3 Cfr. Idem, Philosophie de la religion entre éthique et ontologie. Introduction aux travaux, in « Archivio di Filosofia », 1996, Filosofia della religione tra etica e ontologia, pp. 15-17, in particolare p. 17.
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mo portato del soggettivismo, l’umanesimo, sia esso pure quello dell’altro uomo ? Così nella formulazione olivettiana nell’Avant-propos :
Comment se rapportent au concept subjectiviste de « responsabilité » (en raison duquel Dieu, lui aussi, peut être appelé à répondre du contresens) les projets contemporains d’une éthique libérée de toute autofondativité ? Est-ce que de cette façon l’on garde l’impensé de la théodicée et la possibilité d’oser une répétition du problème de Dieu ? Ou se trouve-t-on, au contraire, en face d’un résidu subjectiviste extrême, quoique difficilement reconnaissable ? Le dépassement de la métaphysique onto-axiologique entraînerait-il alors la fin de tout humanisme, fût-ce même celui « de l’autre homme » ? 1
Nell’introduzione ai lavori quest’interrogativo trova un tentativo di risposta : interrogandosi sulla misura in cui un’ontologia rinnovata soddisferebbe all’istanza di giustizia contenuta nella domanda sulla teodicea, nel nesso di male e trascendenza Olivetti vede nella crisi della coscienza riflessiva e intenzionale l’apertura ad un’alternativa alla teodicea degli amici di Giobbe, come possibilità di un bene non speculare, nella sua opposizione, al male. La chiave di quest’alternativa è la sofferenza non come sofferenza per sé, ma sofferenza per la sofferenza :
Le caractère réflexif de la souffrance, en tant que souffrance pour la souffrance, serait alors le signe d’un retour sur soi-même qui reconnaît une antériorité transcendante et diachronique par rapport à la présence (remémorative et anticipante) de la conscience réflexive. 2
Quest’anteriorità etica in base alla quale continuare a declinare la responsabilità si preciserà, come vedremo, proprio in quel nuovo momento programmatico forte di cui si diceva. Un altro esempio emblematico in questa stessa direzione viene da un altro tema classico della tradizione filosofica : l’argomento ontologico. Come per la teodicea siamo in presenza di una messa in questione riflessiva della ragione e come per la teodicea siamo in presenza di una messa in questione che è al cuore stesso della vicenda culturale moderna. Non per nulla, come ricordavo in apertura, in occasione di questo Colloquio nella sua introduzione Olivetti dà una panoramica e un bilancio dell’esperienza dei Colloqui «Castelli» : nella sua interpretazione della filosofia della religione questa nasce in corrispondenza con la crisi dell’ontoteologia, ma, come esplicita una delle appendici di Analogia del soggetto, Filosofia della religione e teoria della società : ancora un capitolo della storia dell’argomento ontologico, la filosofia della religione continua a consistere nella meditazione della crisi dell’argomento ontologico : fare i conti con la storia dell’argomento ontologico, secondo la tesi di quest’appendice che riprende un saggio pubblicato nel 1988, significa riflettere sul fatto che una comunità religiosa non pare poter prescindere da un qualche senso da dare al divino, non pare cioè poter fare a meno di un rimando alla teologia e questo, nella critica della metafisica come onto-teologia si configura come un pensare la crisi dell’argomento ontologico nel suo carattere perenne, cioè nel significato di esame dei limiti della ragione. 3 In questo senso, rilevava
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Idem, Avant-propos, in « Archivio di Filosofia », 1988, Teodicea oggi ?, pp. 11-12, qui p. 12. Idem, Théodicée aujourd’hui ?, in « Archivio di Filosofia », 1988, cit., pp. 15-18, qui p. 17. 3 Cfr. Idem, Analogia del soggetto, cit., pp. 223-240, in particolare, per il nucleo dell’argomentazione anche per ciò che riguarda il nesso tra filosofia della religione e un’etica pensata come filosofia prima, pp. 236-237 : « Quale può essere allora il senso e il compito di una filosofia della religione oggi ? Quello di non dimenticare la sua origine (la crisi dell’ontoteologia, soltanto grazie alla quale, del resto, essa può continuare ad esistere) e dunque di mostrare che l’inevitabile “secolarizzazione” della teoria della società non è una 2
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Olivetti nell’Avant-propos del Colloquio sull’argomento ontologico, l’argomento ontologico configura tutt’altro che una posizione solipsistica, per cui la stilizzazione heideggeriana dell’ontoteologia non coglierebbe l’apertura presente nella chiusura circolare e riflessiva della metafisica ontoteologica. La diacronia della chiusura-apertura, così sempre Olivetti nelle sue riflessioni inviate nell’invito al Colloquio, peut aussi orienter vers une reformulation interlocutive de l’argument, qui permettrait de relire sur un niveau pragmatique l’actuelle renaissance sémantique de la métaphysique. Il s’agirait de creuser dans les plis ambigus, solipsistes-interlocutifs et ontologiques-méontologiques du biblique dixit-in-corde-suo insipiens : non-est-Deus, d’où l’argumentation anselmienne sur la preuve ontologique était partie. 1
In ragione di quest’interpretazione Olivetti nell’introduzione ai lavori proponeva la domanda, alla quale la richiamata appendice di Analogia del soggetto dà una risposta in senso negativo, se sarebbe possibile pensare una filosofia della religione senza teologia filosofica. 2 Questo punto ci rimanda all’altro momento programmatico forte che annunciavo prima come presente in questa sommaria ricostruzione di un percorso teorico attraverso i temi dei Colloqui «Castelli» : forse non casualmente anch’esso si presenta, come il primo dei Colloqui programmati da Olivetti, con al centro l’intersoggettività. Faccio riferimento al Colloquio del 2000, Intersoggettività e teologia filosofica. L’Avant-propos prospetta l’idea di Dio come modo, nella stessa filosofia moderna, di pensare la pluralità dei soggetti, da cui la tesi che, in chiave contemporanea, pensare Dio non sarebbe tanto un residuo ontoteologico quanto la possibilità di uscita della filosofia della soggettività dall’ipoteca ontoteologica. 3 Ma la natura programmatica di questo Colloquio mi pare possibile coglierla nell’impegnativa introduzione ai lavori, che non si può che considerare, per lunghezza e proposta di tesi, una vera e propria relazione, direi l’unica tenuta da Olivetti nella cornice dei Colloqui, se si escludono delle relazioni proposte a commento di interventi d’altri, com’è il caso negli atti del Colloquio Intersoggettività, socialità, religione per i brevi saggi sulle relazioni di Ricoeur e Marion : 4 Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre. 5 La relazione non figura annunciata così nel programma del convegno, ma fu distribuita in forma già compiuta e strutturata così com’è pubblicata negli atti. È questa relazione a connotare, a mio avviso, come programmaticamente forte la proposta del tema : Olivetti parte qui dal nesso strettissimo tra pensiero dell’intersoggettività e pensiero di Dio, nei termini già prima ricordati, per poi sgombrare il campo dalla possibile assunzione di un oggetto di pensiero, essendo qui il pensare non un ‘pensare cosa’, ma un ‘pensare a chi’ ; e ancora un pensare che non risponde ad una curiosità intellettuale, ma a un bisogno che è anzitutto un bisogno di essere nutrito. 6
Verwindung che consenta di andare oltre – o di compiere un “passo indietro” – rispetto all’epoca – all’epoché – dell’essere. In tal modo la filosofia della religione diviene una sorta di propedeutica all’etica come filosofia prima, o meglio – poiché l’ontologia non si lascia destituire dal suo rango protologico, e poiché “protologia” è il nome proprio dell’ontologia – come filosofia “anteriore” ». 1 Idem, Avant-propos, in « Archivio di Filosofia », 1990, cit., pp. 11-12, qui p. 12. 2 Idem, L’argument ontologique ..., cit., p. 18. 3 Idem, Avant-propos, in « Archivio di Filosofia », 2001, Intersoggettività e teologia filosofica, pp. 11-12, qui p. 11. 4 Idem, Reponse à l’exposé de Paul Ricoeur (su Ipséité, Altérité, Socialité), in « Archivio di filosofia », liv, cit., pp. 35-40, e Über J.-L. Marions Beitrag zur neueren Religionsphilosophie, ivi, pp. 625-636. 5 Idem, Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, in « Archivio di Filosofia », 2001, cit., pp. 13-20. 6 Cfr. ivi, pp. 13-14.
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pierluigi valenza
Questo è un primo tema chiave che percorre questo testo e che forse risponde ad un problema contenuto nella tesi di fondo di Analogia del soggetto, la nota tesi dell’essenza umana come essenza soltanto immaginata : 1 come questa tesi si confronterebbe con l’inevitabile consistenza naturale dell’essere umano, anzitutto con la sua stessa fisicità, pur potendo assumere il carattere di costruzione del corpo e del corpo proprio ? La risposta sarebbe nel bisogno, nella messa al mondo che prima ancora, vista dal lato dell’essere di bisogno, di essere interlocuzione, donazione della parola all’infans, donazione e apprendimento del nome a chi è senza nome, è nutrimento, latte materno. Questo tema del nutrimento è anche connesso, però, allo sviluppo della domanda sul “chi” esattamente nei termini della negazione di una natura umana come data. Perché la domanda sul “chi” non è domanda da parte di un’identità costituita, non è un « Wer bist Du ? » o un « Wer bist Du denn ? », bensì risposta ad un imperativo. Per chiarire questo Olivetti lavora sul testo dell’Esodo della chiamata di Mosè e del nominarsi di Dio : la risposta è anzitutto obbedienza, rendersi disponibile, è un « Eccomi » (Es. 3, 4) rivolto al terzo, presente come assente, che autorizza. Siamo al tema della scomposizione della presenza prima richiamato a proposito dell’introduzione a Intersoggettività, socialità, religione e tesi chiave di Analogia del soggetto, qui riproposta nel trinomio « loquor ergo sum, praees, abest », 2 ma rispetto a quell’analisi la presenza assente si scompone, in vista di un primato ancora più radicale dell’etica, in un terzo che autorizza e manda e in un terzo che è il destinatario di quest’invio : qui l’identità, l’identità di me che chiedo il nome e l’identità di chi manda che risponde « Sono colui che sono » è in vista soltanto del terzo cui sono inviato : « Ma se mi domandano qual è il suo nome che cosa risponderò ? » (Es. 3, 14). Idea ardita, nella quale anche il nominarsi di Dio è soltanto in vista del terzo immagine di Dio cui sono inviato, non io immagine di Dio, o forse, semmai, immagine soltanto se capace di rispondere all’appello, se capace di essere nutrimento nella completa oblazione di me stesso. Ancora nelle parole dell’introduzione di Olivetti :
Denn ich werde je nur sein ; ja, ich werde nur sein, wenn ich sein werde ; denn ich werde nur unter der Bedingung sein, daß ich mich bedingungslos zur Verfügung stelle. Ich werde nur sein unter der Bedingung, daß ich mich als Nahrung zur Ver-fügung stelle. Ich werde nur sein, wenn ich mein eigenes Leben lassen werde. 3
In questa chiave, in cui l’ispirazione levinasiana si coniuga con una riflessione che potremmo definire eucaristica, come via per il nesso tra intersoggettività e teologia filosofica, come via alla proposizione di quella teologia necessaria per il costituirsi stesso di una filosofia della religione nell’epoca presente, si possono forse leggere le ultime proposte tematiche, sempre di intonazione levinasiana, da Il dono e il debito a Il terzo fino a quella che ci accingiamo a svolgere senza la sua guida, su Il sacrificio, chiaramente evocato nella radicalità dell’essere nutrimento espressa nelle righe or ora citate. Non è questa la sede, né avrei il tempo, per suffragare questa linea di lettura con la coeva produzione saggistica di Olivetti, le considerazioni fatte spero siano sufficienti a illustrare in che modo e, nelle ipotesi fatte, con quali punti nodali, Olivetti attraverso la proposta dei Colloqui e le sue introduzioni, abbia fatto filosofia della religione negli anni di sua conduzione di quest’attività. In conclusione vorrei però riportare queste ul1 Cfr. Idem, Analogia del soggetto, cit., Premessa : « La tesi di questo libro è che non esiste un’essenza dell’essere umano. Tale essenza è “immaginata”, e senza siffatta immaginazione l’essere e l’umano non si coapparterrebbero ». 2 3 Cfr. Idem, Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, p. 18. Cfr. ivi, p. 19.
i colloqui «castelli»
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time espressioni di Olivetti proprio al senso dell’impresa filosofica collettiva sulla quale si è mosso il mio ricordo/riflessione : ho ricordato all’inizio come Olivetti nel propormi una riflessione storiografica su « Archivio di Filosofia » mi avesse richiamato alla cura del ‘patrimonio di famiglia’. Sia pure in termini diversi, anche la tradizione si può prospettare come un movimento da un terzo assente ad un terzo assente, movimento soltanto entro il quale può avere un senso e una consistenza un nome : se essa nel suo momento di rapporto diretto ha un volto noto che si rivolge, parla, affida, ad un altro volto noto, nello sviluppo temporale della trasmissione diventa opera nella quale nomi e volti sfumano, forse guadagnano consistenza soltanto nella consistenza e nella cura dell’opera stessa. Vorrei allora concludere richiamando delle parole di Olivetti temporalmente lontane dalle ultime citate, però significative per il momento di passaggio dell’impresa filosofica che cominciava a curare, perché cadevano nel primo tema di un Colloquio proposto dopo la morte di Castelli, tema esso stesso legato alla situazione : Filosofia e religione di fronte alla morte. Rispetto al lavoro al quale ci accingiamo esse possono suonare a conforto, sia pure parziale, ma ben più a impegnativo imperativo :
En enjambant le fossé dans le quel est engloutie toutefois chaque vie individuelle, la culture, en tant que système social et interprétatif de symbolisation, joint et suture les morceaux des vies individuelles en empêchant qu’ils s’effondrent totalement avec la disparition physique, et tresse un filet qui se maintient sur l’abîme et qui se dilate sans fin, rivalisant avec la mort dans la tentative d’être plus ample qu’elle-même, dans la tentative de l’englober, au lieu de s’y laisser engloutir. 1
Qui forse, sul terreno della cultura e della tradizione, la diacronia non sincronizzabile del dipendere e dell’essere nutrito da chi ha messo al mondo, conosce un singolare rovesciamento, tenendo al mondo e in vita, sul filo della memoria e della continuazione del lavoro intellettuale, chi, sul piano fisico, non è più al mondo. 1
M.M. Olivetti, Philosophie et Religion face à la mort. Remarques préliminaires, in « Archivio di Filosofia », 1981, Filosofia e religione di fronte alla morte, pp. 15-17, qui p. 16.
LA TEORIA DELL’INTERSOGGETTIVITÀ. PROLEGOMENI AD UN’INTERPRETAZIONE Stefano Bancalari
L
’es pressione « teoria dell’intersoggettività » non è tipica di Olivetti : et pour cause, vien fatto di aggiungere con un modo di dire che invece è caratteristicamente suo. I testi olivettiani consegnano, infatti, seri motivi di cautela nei confronti tanto del termine (e del concetto di) « teoria », quanto, soprattutto, del termine (e del concetto di) « intersoggettività ». Nonostante questo, o meglio : anche e proprio per questo, si può a buon diritto sostenere, a nostro avviso, che uno dei contributi più significativi del pensiero di Olivetti nel suo complesso consiste nell’elaborazione di una vera e propria teoria dell’intersoggettività ; e che solo in seguito ad un serio confronto con quest’ultima tale pensiero può esser incontrato all’altezza che gli è propria. Soffermiamoci innanzitutto sul primo termine : « teoria » è certo parola troppo univocamente sbilanciata sul piano cognitivo, troppo compromessa con la fiducia ingenua nella possibilità di uno sguardo puro, di una presa diretta su una realtà riducibile senza residui all’oggettività, per poter esser utilizzata a cuor leggero da parte di chi, come Olivetti, ritiene di dover sostituire all’« arroganza » teoreticistica del « pensare qualcosa » il pudore di un’espressione « non tecnica », affètta dall’imprecisione tipica del linguaggio ordinario, come « pensare a » qualcosa o qualcuno. 1 E dunque : perché forzare interpretativamente in direzione del theorein un pensiero che intenzionalmente si vieta l’appagamento nel proprio complemento oggetto, ossia nel proprio correlato intenzionale, comple(ta)mento naturale e qualificante di ogni « teoria di... » ? Ci sono almeno due buone ragioni per far ciò : a) in Olivetti la messa in evidenza dei limiti intrinseci alla teoria non è in nessun caso conseguenza o premessa di un abbandono, ma semmai di una iperbolizzazione della teoria medesima e del suo potenziale critico ; 2 b) quanto Olivetti viene elaborando sul tema dell’intersoggettività si presenta come un insieme organico e articolato di riflessioni, che discutono teorie concorrenti (la teoria sistemica, per esempio, o quella dell’agire comunicativo), che tentano di offrire soluzioni alternative alle difficoltà che quelle incontrano : che avanzano, insomma,
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« Di proposito ho usato l’espressione indiretta e non tecnica “pensare a” (“pensare all’intersoggettività”, “pensare a Dio”) e non quella diretta, tecnica, in cui il verbo pensare è costruito con il complemento oggetto » ; Marco Maria Olivetti, Trascendentale senza illusione. Ovvero : l’assenza della terza persona, in Carmelo Vigna (a cura di), Etica trascendentale e intersoggettività, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 127-140 ; qui p. 129. Risuona qui evidentemente il levinasiano « penser à Dieu » : cfr. Emmanuel Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, Paris, Vrin, 1992, p. 9. 2 Paradigmatico, a questo proposito, il modo in cui Olivetti legge la « crisi » dell’argomento ontologico, ossia di ciò che può essere interpretato a buon diritto come l’espressione più radicale delle pretese cognitive e teoreticistiche della ragione : « Il riconoscimento dei limiti della ragione è pur sempre affare della ragione. E proprio ciò rilancia, per così dire, le pretese dell’argomento ontologico nell’istante stesso della sua messa in crisi », Marco Maria Olivetti, Filosofia della religione e teoria della società : ancora un capitolo della storia dell’argomento ontologico, ora in Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 231.
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in tutta franchezza la pretesa di proporsi come una teoria migliore di quelle, ossia più capace di render giustizia (in tutti i sensi) a quanto è in questione. In altri termini : insistere – come tenteremo di fare qui – sulla « teoria dell’intersoggettività » di Olivetti significa richiamare con forza l’attenzione su quella pars construens del suo pensiero, che rischia di risultare assai meno evidente, ad una lettura men che scrupolosa, del continuo disdirsi di un periodare difficile e tormentato dal rigore estremo di un ferreo autocontrollo. La considerazione del secondo dei termini in questione richiede innanzitutto una delimitazione più precisa, sotto il profilo tematico e cronologico, del campo d’indagine. In un certo senso, nel senso più vago e più ampio possibile dell’espressione, la questione dell’« intersoggettività », variamente declinata, accompagna l’intero arco del pensiero di Olivetti ; il che, del resto, non stupisce in un allievo di Enrico Castelli, il quale, come è noto, aveva trovato uno dei motivi ispiratori decisivi del proprio pensiero proprio nella critica agli esiti solipsistici dell’idealismo. In un senso più stretto e più tecnico, tuttavia, il termine « intersoggettività », che rimanda di per sé ad un contesto problematico in prima istanza fenomenologico-trascendentale, prende piede nel lessico olivettiano a partire dagli anni Ottanta, ossia nel decennio di elaborazione dell’opera nella quale viene disposta ed esposta la struttura portante della teoria olivettiana dell’intersoggettività : Analogia del soggetto. 1 Sembrerebbe di poter individuare con sicurezza il terminus a quo di questo percorso nel saggio su Ecclesiologia filosofica e teoria della società del 1980, 2 il primo, in ordine di redazione, dei testi poi ripresi in Analogia. Ma questa osservazione è troppo bisognosa di messe a punto per essere sottoscritta : in tale saggio, infatti, che viene successivamente incorporato nel primo capitolo di Analogia, ma non senza modifiche ed integrazioni sostanziali, Olivetti non pone ancora il problema dell’intersoggettività come questione specifica e distinta da quella della società e dell’ecclesiologia. 3 È solo nel momento in cui si confronta direttamente con la fenomenologia, e soprattutto con quella peculiarissima versione di quest’ultima rappresentata dal pensiero di Levinas, che il termine e il problema dell’« intersoggettività » assumono un rilievo decisivo e un senso via via più tecnico. La questione sembra letteralmente esplodere a partire da tre testi del 1984, tutti ripresi in Analogia : un saggio sull’etica comunicativa, 4 uno relativo al rapporto tra fenomenologia e filosofia analitica 5 e uno dedicato a Levinas. 6 Proprio in quest’ultimo, Oli
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Roma-Bari, Laterza, 1992. « Archivio di filosofia », xlviii, 1980, pp. 429-427. 3 È molto significativo che le variazioni più rilevanti tra il testo originario del 1980 e il primo capitolo di Analogia consistano sostanzialmente in : a) una nettissima presa di distanza dalla possibilità di una « fenomenologia della religione » ; presa di distanza che in tutta evidenza è conseguenza di un confronto diretto con la fenomenologia propriamente detta ; b) un’analisi critica del problema dell’osservatore nell’ambito della teoria sistemica, che si avvale, in particolare, della discussione della posizione luhmanniana proprio sulla questione dell’intersoggettività, la cui esplicitazione era stata sollecitata da Olivetti medesimo con l’invito al colloquio « Castelli » del 1986 su Intersoggettività, socialità, religione (cfr. Niklas Luhmann, Intersubjektivität und Kommunikation. Unterschiedliche Ausgangspunkte soziologischer Theoriebildung, « Archivio di filosofia », liv, 1986, pp. 41-60). 4 Etica comunicativa e asimmetria della comunicazione, « Archivio di filosofia », lii, 1984, pp. 595-612, ripreso nel capitolo v di Analogia del soggetto. 5 Fenomenologia e analisi linguistica in filosofia della religione, testo di una conferenza tenuta all’Università di Chicago nel 1984, ripubblicata nell’« Archivio di filosofia » del 1986 e quindi inserita come appendice in Analogia. 6 Philosophische Fragen an das Werk von Emmanuel Levinas, in Hans Hermann Henrix (a cura di), Verant2
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vetti offre un’indicazione preziosa circa la continuità e insieme l’evoluzione dei propri interessi storico-teorici, rilevando un’analogia di proporzionalità tra il ripensamento fichtiano della filosofia trascendentale di Kant e il ripensamento levinasiano della filosofia trascendentale di Husserl, che stabilisce, a ben guardare, una cerniera teorica tra la Filosofia della religione come problema storico 1 e, appunto, l’Analogia del soggetto. Possiamo, a questo punto, porre in maniera diretta la domanda che ci interessa : che cosa significa il termine « intersoggettività » nell’ambito del lessico e del pensiero di Olivetti ? La risposta appare subito assai meno semplice e diretta della domanda. Dalle pagine olivettiane emergono, infatti, ben tre diversi strati di significato del termine, ovvero tre modi in cui Olivetti lo utilizza : a) un significato di base, in cui il linguaggio ordinario prevale su quello tecnico e per cui « intersoggettività » indica semplicemente una pluralità di « soggetti » in relazione tra loro (a prescindere dalla pensabilità filosofica di tale pluralità) ; 2 b) un significato tecnico, con forte connotazione critica, per cui « intersoggettività » è il nome di un’aporia che il pensiero contemporaneo eredita dalla modernità e che attesta nell’idea stessa che veicola (ossia un’iterazione del soggetto solipsistico) l’impossibilità di una soluzione dell’aporia medesima ; 3 c) un significato inedito, conferito dalla specifica « teoria » olivettiana e più precisamente dalla tesi che di quest’ultima rappresenta il precipitato ; la tesi della cosiddetta « scomposizione della presenza », centrale nell’Analogia, ma enunciata già nell’Introduzione al fondamentale convegno del 1986 su Intersoggettività, socialità, religione : « intersoggettiva » è quella dimensione di eccedenza della presenza, quella piegatura della presenza, che ne constesta l’apparente semplicità – ossia, etimologicamente, l’assenza di pieghe – e l’apparente sincronicità ; quell’eccedenza, tale per cui « la costituzione di questo “nello stesso tempo” della presenza come fenomeno sintetico – come sum, praees, ab-est, è dunque essenzialmente diacronica e intersoggettiva [corsivo mio, c.m.] ». 4 Comprendere e interpretare la teoria dell’intersoggettività di Olivetti significa né più, né meno, che comprendere e interpretare questa tesi, che a tutta prima appare decisamente criptica. Non potrà certo esser così ambizioso l’obiettivo di queste poche pagine, che aspirano, assai più modestamente, a proporre nulla più che « prolegomeni » ad un’interpretazione, affrontando soltanto una questione preliminare, ancorché decisiva : i tre significati appena enunciati del termine « intersoggettività » sembrano
wortung für den Anderen und die Frage nach Gott. Zum Werk von Emmanuel Levinas, Aachen, Einhard Ver., 1984, pp. 42-70 ; ripubblicato in una versione italiana più ampia col titolo Intersoggettività, alterità, etica. Domande filosofiche a E. Levinas, « Archivio di filosofia », liii, 1985, pp. 265-287, infine ripreso nel capitolo iv di Analogia del soggetto. 1 Padova, cedam, 1974. 2 Non altrimenti possono essere intese le occorrenze del termine presenti, per esempio, nel capitolo I di Analogia, nel quale esso viene bensì utilizzato, ma in modo evidentemente ancora non tecnico, visto che la tecnicizzazione avviene, come vedremo, solo a partire dal capitolo ii. 3 È questo l’uso prevalente, per esempio, nell’ultimo, densissimo saggio di Olivetti : Universalità e molteplicità personale, in F. Botturi e F. Totaro, Universalismo ed etica pubblica, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 23-34. Ma cfr. anche quanto dice sulla « tendenza irresistibile, ma nello stesso tempo aporetica, dell’idea del soggetto a prolungarsi – e forse a contraddirsi – nell’intersoggettività », nell’Avant-propos a Intersoggettività e teologia filosofica, « Archivio di filosofia », 2001, p. 11. 4 Introduction au colloque « Intersubjectivité, socialité, religion », « Archivio di filosofia », liv, 1986, p. 14. Paradigmatico di questa accezione è anche (come si vede sin dal titolo) il saggio Intersoggettività e religione, in F. S. Trincia e S. Bancalari (a cura di), Perspectives sur le sujet, Hildesheim, olms, 2007, pp. 21-29.
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francamente incompatibili. Olivetti si serve della medesima parola per identificare sia il bersaglio polemico della pars destruens della teoria (significato b), sia l’obiettivo della pars construens (significato c), sia – come se non bastasse – il fenomeno quale appare ad uno sguardo ingenuo, prima e indipendentemente da ogni teoria (significato a). Non è un caso che Paul Ricoeur, nella relazione presentata proprio al convegno del 1986, dichiari esplicitamente la propria resistenza ad accettare l’impostazione veicolata dal titolo stesso proposto da Olivetti – intersoggettività, socialità, religione –, sostenendo che « il rapporto tra intersoggettività e socialità fa problema soltanto in una prospettiva filosofica che ha preliminarmente fatto della soggettività la pietra angolare del pensiero filosofico, che ha posto l’“io” del Cogito nella posizione di fondamento ». 1 Ricoeur preferisce dunque lasciar cadere senz’altro il termine quasi ossimorico di « intersoggettività » : « È in considerazione di queste aporie, che mi sembrano insormontabili, che propongo di sostituire un’altra sequenza [...] : ipseità, alterità, socialità ». 2 In effetti, la posizione di Ricoeur sembra inappuntabile. Delle due l’una : o il termine « intersoggettività » è utilizzato nel senso aporetico che gli deriva dalla appartenenza alla storia del soggettivismo, e allora è opportuno sostituirlo con un termine meno compromesso con tale storia ; oppure può essere legittimamente utilizzato, e allora almeno il significato b), per restare alla nostra tripartizione, deve essere lasciato cadere. Come bisogna intendere questa apparente incongruenza, che – se fosse davvero tale – minerebbe alla radice la teoria olivettiana nel suo complesso ? E, di nuovo, cosa significa veramente « intersoggettività » per Olivetti ? Va osservato innanzitutto che la scelta di utilizzare equivocamente il termine è inequivocabilmente intenzionale da parte di Olivetti, come dimostra, tra l’altro, il fatto che l’obiezione di Ricoeur è anticipata sin dall’Introduzione : « Sono del tutto consapevole del fatto che, per molti tra noi, la parola “intersoggettività” non suona molto gradita » ; 3 ed è una scelta che, nella Risposta alla relazione di Paul Ricoeur, Olivetti giustifica provvisoriamente (ma vedremo quanto il discorso sia assai più complesso) rilevando come sbarazzarsi troppo rapidamente della nozione di « intersoggettività », affidarsi troppo in fretta ad una prospettiva immediatamente linguistico-ermeneutica senza chiedersi « cosa implica – o quale piega nasconde – veramente questa struttura “apertamente” linguistica », 4 rischia di provocare una ricaduta, per un eccesso di ottimismo, nel temuto paleosoggettivismo metafisico. 5 Ora, al di là del contesto specifico della discussione con Ricoeur, quanto ci interessa mettere in evidenza è che per Olivetti lo svincolamento da quella che, nella Risposta, egli definisce « intersoggettività in senso classico » 6 (nella nostra terminologia : significato b) non avviene semplicemente sostituendo la parola con un’altra (magari « socialità »), ma facendosi carico dell’aporia fino in fondo ed elaborando un metodo adeguato a gestirla. Ci proponiamo di mostrare, in altri termini, che la teoria olivettiana non soltanto non è minata all’origine da quella che a tutta prima ci è parsa come un’incongruenza, ma ne vive : vive, cioè, della coesistenza e dell’apparente incompossibilità tra i livelli di significato del termine « intersoggettività », al punto che comprendere la ne
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Paul Ricoeur, Ipséité, altérité, socialité, ivi, p. 18. 3 Ivi, p. 19. Ivi, p. 13. 4 Marco Maria Olivetti, Réponse à l’exposé de Paul Ricoeur, ivi, p. 38. 5 « Non è troppo ottimista, per esempio, concedere a Grice che la struttura della sua analisi del significato sia veramente dialogale ? L’intersoggettività che essa implica non è in fondo veramente un’intersoggettività nel senso classico del termine, a giusto titolo criticata da Ricoeur all’inizio del suo discorso ? » ; ivi, p. 39. 6 Ibidem. 2
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cessità del loro trascorrere l’uno nell’altro è uno dei percorsi più efficaci per accostarsi alla teoria medesima. A questo proposito risulta particolarmente chiarificatrice una lettura accurata del capitolo II di Analogia del soggetto : non soltanto perché in esso (più che in qualsiasi altro) la questione dell’intersoggettività è centrale, ma anche perché esso offre una chiave d’accesso privilegiata all’intera opera (e alla teoria che questa mette in opera), esibendone la struttura portante e, per dir così, la grammatica generativa : una sorta di metatesto esplicativo all’interno del testo. In realtà, in Analogia il problema dell’intersoggettività è introdotto in seconda battuta rispetto a quello della « società » (anche se, come vedremo subito, ciò non implica affatto una subordinazione dell’uno all’altro problema sul piano logico). Anche il capitolo II infatti, come già il primo, prende le mosse da un’analisi delle questioni connesse ad una teoria della società. Solo che, rispetto all’ardua trattazione contenuta nel capitolo I – nel quale la questione della secolarizzazione trapassa senza soluzione di continuità in un confronto serrato con la teoria sistemica, e nel quale la tesi della scomposizione della presenza viene enunciata, ma non discussa 1 –, il problema che apre il secondo rinfranca il lettore riportandolo su un terreno assai più concreto e familiare : il primo nodo che qualsiasi teoria sulla società deve affrontare è che il suo « oggetto », a differenza di quanto normalmente accade, non si vede. È a partire da questa constatazione, empirica quant’altre mai, che Olivetti formula una considerazione che si rivelerà fondamentale : « la società non è mai una presenza [...], ma sempre un’assenza ». 2 Quel che si può vedere, e che dunque è presente, sono « comportamenti soggettivi e/o rapporti intersoggettivi », 3 ossia azioni di un soggetto e/o interazioni tra più soggetti, ma non « la società ». La presenza di un elemento visivo (una divisa, un badge o quel che sia) può all’occasione segnalare esplicitamente il fatto che un certo soggetto incarni in quel momento una funzione istituzionale e dunque sociale, ma non è mai condizione necessaria, né, a fortiori, condizione sufficiente perché un certo rapporto intersoggettivo si caratterizzi anche come un rapporto sociale. Olivetti enuncia da subito la tesi che intende proporre come soluzione del problema : se certi rapporti intersoggettivi possono apparire anche come sociali è « in virtù di una loro inserzione in un orizzonte che li configura come tali, insieme delimitandoli e ampliandone la connessione fino alla totalità ». 4 Prima di impegnarsi in una disamina più precisa di questo passaggio al limite in direzione della totalità, in virtù di cui l’intersoggettivo appare come sociale, Olivetti avverte l’urgenza di giustificare il proprio ricorso al concetto di « orizzonte » ; il che – ed è questo che ci interessa – lo porta ad una decisiva chiarificazione della nozione di intersoggettività, che fino a questo punto di Analogia è stata utilizzata senza ulteriori precisazioni, ossia nel primo dei significati enumerati sopra. Olivetti comincia osservando, di passaggio, che è la fenomenologia ad aver conferito massima rilevanza teorica alla nozione di « orizzonte », quale orizzonte della coscienza che vive l’esperienza. Non deve sfuggire questo introdursi quasi di soppiatto, con un’osservazione poco più che lessicale, nel contesto teorico e linguistico della fenomenologia, la quale pur con tutte le necessarie messe a punto e prese di distanza, costituisce l’ossatura dell’intero discorso sviluppato da Olivetti nel capitolo che stiamo analizzando : quasi che il problema dell’ingresso alla fenomenologia non costituisse per
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Cfr. Analogia del soggetto, cap. i, p. 14. Ibidem.
Ivi, cap. ii, p. 29. Ivi, p. 30.
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quest’ultima un punto dolente e assolutamente decisivo, come dimostra la pletora di riduzioni che Husserl (e non solo lui) si è trovato costretto a teorizzare. Con una strategia del tutto consapevole, la cui motivazione teorica si verrà chiarendo via via, Olivetti aggira il problema del passaggio dall’« atteggiamento naturale » a quello trascendentale e continua a lavorare sulla base di considerazioni ed evidenze in linea di principio accessibili senza che sia necessaria alcuna radicale conversione epistemologica. È la fenomenologia, dunque, che teorizza ed utilizza la nozione di « orizzonte ». Ciò accade però, secondo Olivetti, solo in seguito ad una significativa correzione della movenza fenomenologica originaria, la cui analisi diviene occasione per proporre in poche, lucidissime battute una lettura fortemente interpretativa dell’intero itinerario teorico husserliano. Il primo Husserl muove dalla convinzione di potersi assicurare, in virtù della percezione, una via d’accesso diretta alla presenza piena delle « cose stesse », cioè innanzitutto degli oggetti nella loro oggettività : è la posizione delle Ricerche logiche, in cui la presenza sensibile diviene, per il tramite dell’intuizione categoriale, fondamento e modello della presenza tout court, anche di ciò che sensibile non è, come appunto le determinazioni categoriali dell’oggetto. Oggettivazione (intuizione diretta dell’oggetto sensibile) e categorizzazione (attribuzione di predicati concettuali all’oggetto medesimo) sono due operazioni distinte e organizzate gerarchicamente in modo tale che la seconda presuppone la prima. Tuttavia, questa fiducia nella datità « semplice e fondante » 1 dell’oggetto sensibile viene progressivamente erosa dalla scoperta di un più originario livello genetico, che conduce nell’ultimo Husserl (Olivetti fa riferimento alla Crisi e a Esperienza e giudizio) ad una nozione di un « orizzonte percettivo » tale per cui la presenza sensibile appare costituita da « atti relazionali e associativi, sicché si trova in continuità con le determinazioni categoriali ». 2 L’orizzonte, insomma, smentisce l’originarietà e la semplicità di una percezione sensibile, che si rivela esser sempre già complicata da operazioni che propriamente percettive non sono : tra le determinazioni precategoriali e quelle categoriali dell’oggetto, tra il livello antepredicativo e quello predicativo, c’è continuità e non frattura ; c’è un rapporto di reciproca implicazione e non di semplice fondazione. Ma, secondo Olivetti, c’è di più : il termine stesso di « orizzonte » allude ad un ingiustificato privilegio della visione rispetto agli altri sensi che co-fungono nella percezione e che contribuiscono alla costituzione di una presenza ben diversa da quella piena e ideale garantita da una visione presuntamente pura ; l’olfatto, per esempio, non assicura affatto dell’effettiva presenza di ciò cui la traccia olfattiva rimanda : « la presenza dischiusa dall’orizzonte percettivo è dunque sinestetica e bisognosa di costante integrazione ; è una presenza che non esclude l’assenza ». 3 Queste considerazioni retroagiscono sull’impostazione iniziale del problema, così che deve essere ridiscussa la distinzione di partenza tra i rapporti intersoggettivi e quelli sociali, e, in particolare, l’idea che i rapporti intersoggettivi, a differenza di quelli sociali, siano iscrivibili senza residui nell’ambito della presenza e dunque siano senz’altro passibili di oggettivazione. In effetti, quel che è emerso rispetto all’oggetto di percezione come tale, l’impossibilità di separare e gerarchizzare oggettivazione e categorizzazione, risulta vero anche – e a maggior ragione – per quella classe speciale di « oggetti » percepibili che sono gli altri soggetti. Ma con ciò si è ancora ben lontani dal cogliere il nucleo essenziale del problema rappresentato dall’« intersoggettività », che appare an
1
Ivi, p. 33.
2
Ibidem.
3
Ibidem.
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cora come una sottoclasse del problema dell’oggettività : il punto è che lo strumentario concettuale messo sin qui in campo, la distinzione tra oggettivazione e categorizzazione, così come quella tra presenza e assenza, è ancora largamente insufficiente. Scrive Olivetti : « i rapporti intersoggettivi possono essere delle oggettività e dunque possono – essi sì – venire categorizzati, ma il fatto che tali oggettività vengano interpretate come soggettive non è una vera e propria categorizzazione ». 1 Olivetti non ha difficoltà a riconoscere che l’altro soggetto o il rapporto intersoggettivo sono fenomeni oggettivi, accessibili in virtù di una semplice percezione che di volta in volta mostra un corpo, un movimento di questo corpo, magari una fonazione. Il problema è che l’interpretazione di questi fenomeni come « altro soggetto » o « rapporto intersoggettivo » non consiste nell’attribuzione di un predicato concettuale, speciale quanto si voglia, a quelle oggettività, ma richiede un’operazione del tutto sui generis che, appunto, non è una categorizzazione : « Si tratta piuttosto di una analogazione per cui si assume che ciò che appare al punto di vista del soggetto sia a sua volta punto di vista soggettivo [c.m.] ». 2 Possiamo tentare di esplicitare il ragionamento olivettiano, che, come di consueto, non indulge in glosse chiarificatrici, nel modo seguente. Proviamo ad operare una normale categorizzazione e a chiederci quale sarebbe l’attributo concettuale in virtù di cui il corpo altrui può essere interpretato come altro soggetto. La risposta possibile è in realtà una sola : si tratta di quello che Olivetti definisce un « punto di vista soggettivo » ; formulazione, si noti, particolarmente efficace, che ha il duplice vantaggio di cogliere l’essenziale, evitando però, al contempo, di impegnarsi con nozioni che sembrerebbero funzionalmente equivalenti (anima, coscienza, mente, ecc.) e che però sono molto più compromesse sotto il profilo teorico e soprattutto ontologico. Se questo è vero non è difficile verificare che « punto di vista soggettivo » non è propriamente un concetto : non definisce una classe di individui, ciascuno dei quali possiede il medesimo attributo nel medesimo modo, né in un senso empirico (quello per cui tutte le cose rosse possiedono la proprietà « rosso »), né in un senso logico (quello per cui tutti i triangoli isosceli possiedono identicamente l’ugaglianza degli angoli alla base), e nemmeno in un senso trascendentale (quello per cui tutti gli « io » empirici ordinano l’esperienza grazie all’identica sintesi operata, identicamente in tutti, dall’« io trascendentale »). Il punto di vista soggettivo (dove l’aggettivo va inteso anche nell’accezione più debole, propria del linguaggio ordinario) non è trasferibile da un individuo ad un altro senza subire un’alterazione essenziale, che non consente di stabilire a priori, e con certezza, se e fino a che punto tale operazione riesca (come è evidente negli esempi fin troppo facilmente reperibili di fallimenti nella comunicazione) e persino se e fino a che punto sia legittima (come nel caso, per esempio, dell’attribuzione di un punto di vista soggettivo agli animali). È per questo che Olivetti definisce « analogazione » il trasferimento di questo quasi-attributo che è il « punto di vista soggettivo » : trasferimento simile, ma in nessun modo identico ad una categorizzazione, il quale non consiste nell’apprensione immediata di un dato di fatto semplice, ma in una laboriosa e incerta operazione di immaginazione. 3
1
2 Ivi, pp. 34-35. Ivi, p. 35. Olivetti esamina il ruolo dell’immaginazione nell’analogazione nel cap. vi (cfr. ivi, pp. 130-131). È, in ogni caso, a partire da queste considerazioni che deve esser compresa la tesi brachilogicamente enunciata nelle primissime battute dell’opera, secondo cui « la tesi di questo libro è che non esiste un’essenza dell’essere umano. Tale essenza è “immaginata”, e senza siffatta immaginazione l’essere e l’umano non si coapparterrebbero » (cfr. Prefazione). 3
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È lo stesso Olivetti a sottolineare, ancora una volta, il parallelismo con il percorso husserliano : 1 e, in effetti, le considerazioni che stiamo esaminando potrebbero essere a buon diritto lette come una riscrittura della Quinta meditazione cartesiana, tutta centrata sul processo mediante il quale l’ego primordiale costituisce per analogazione alter ego. Ma, ancora una volta, la patente somiglianza tra l’« analogazione » di Olivetti e il « trasferimento analogizzante » di Husserl 2 non deve impedire di misurare la distanza tra le due impostazioni, che Olivetti avverte a tal punto decisiva da ritenere che l’« approccio fenomenologico » rappresenti « dal principio e per principio l’esclusione rigorosa della risolvibilità del problema stesso » dell’intersoggettività. 3 Tra i frequentatori del pensiero fenomenologico Olivetti non è certo voce isolata nel sostenere la tesi di una aporeticità intrinseca al tentativo husserliano di costituzione di un’intersoggettività trascendentale : del tutto originale, invece, e ancora tutta da sfruttare nelle sue potenzialità teoriche, è l’interpretazione del vizio d’origine dell’aporia : « L’altro punto di vista non può essere ridotto perché non appare ». 4 Questa affermazione è decisiva e contiene in nuce un modo radicalmente nuovo di praticare la fenomenologia e di intendere il rapporto di quest’ultima con il « senso comune ». 5 Il problema, per Olivetti, non è tanto che il punto di vista soggettivo per eccellenza, quello di un soggetto ormai divenuto propriamente trascendentale, non riesce a recuperare sul suo terreno il punto di vista altrui, che perciò è condannato a dover restare sul piano di ciò che Husserl definisce « atteggiamento naturale ». Questo è soltanto una conseguenza del problema vero, che consiste piuttosto nel fatto che il punto di vista altrui è già sempre inaccessibile anche sul piano dell’atteggiamento naturale e dunque non rientra in ciò da cui l’aspirante soggetto trascendentale prende le distanze in virtù della riduzione. Per questo motivo Olivetti complica la dicotomia classicamente fenomenologica ridotto (trascendentale)/non-ridotto (naturale) con un terzo elemento, quello dell’« irriducibile » : « La nostra tesi non implica una “tesi naturale” non tanto perché sarebbe una tesi fenomenologicamente o eideticamente ridotta, bensì perché è una tesi irriducibile ». 6 Né riduzione, né non-riduzione, ma irriducibilità : la diffusa presenza della figura retorica della litote nel periodare olivettiano trova in questa situazione concettuale, più che in un mero tratto stilistico personale, la sua spiegazione. L’analogazione del punto di vista altrui, che non appare e che può essere soltanto immaginato, ha luogo in questa terra di mezzo dell’irriducibile, non propriamente trascendentale, ma nemmeno banalmente empirico : con un gesto quant’altri mai fedele ad un’ispirazione (più che ad un’ortodossia) autenticamente fenomenologica, Olivetti « accetta [...] tale con-fusione per quel che è » ; 7 il che gli consente di porre la questione della costituzione del punto di vista altrui con una radicalità che alla fenomenologia ortodossamente husserliana non è concessa. A differenza dello husserliano ego primordiale, infatti, che deve presupporre (in vari sensi) la pre-datità di alter sul piano naturale, il « “metodo” [...] tutt’altro che puro » 8 praticato da Olivetti consente di pensare il fungere dell’analogazione non soltanto nella situazione (troppo) semplice dell’interazione simmetrica tra punti di vista già autocoscienti e soggettivati ; 9 ma anche in quella
1 « C’è bisogno di far presente che anche qui la fenomenologia husserliana ha incontrato un massimo problema, il quale ne segna essenzialmente l’evoluzione ? ! » ; ivi, p. 35. 2 Cfr. Edmund Husserl, Cartesianische Meditationen, « Husserliana », i, §50, p. 141. 3 4 Analogia del soggetto, cap. ii, p. 35. Ibidem. 5 Su questo tema è fondamentale il già citato Universalità e molteplicità personale, cit.. 6 7 8 Analogia, cap. ii, p. 35. Ivi, p. 46. Ibidem. 9 Proprio sull’ingiustificato privilegio metodologico di una situazione troppo semplificata per essere assunta come normativa si fonda la critica olivettiana alla teoria dell’etica comunicativa.
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situazione estrema in cui il punto di vista altrui non possa ancora essere assunto e immaginato come presente ; nella situazione estrema, cioè, in cui l’analogazione risulta costituente nel senso fenomenologicamente più radicale del termine. Si tratta di quella che Olivetti definisce « situazione interlocutiva originaria », nella quale un adulto alloquisce un infante non ancora in grado di parlare (in-fans) e non ancora soggettivato, immaginandone il punto di vista non ancora costituito, anticipandone e soddisfacendone i bisogni (immaginati anch’essi dall’adulto), e conducendolo gradatamente alla soggettivazione. Non è qui il caso di seguire nel dettaglio l’accurata descrizione olivettiana delle diverse fasi di questo processo (una descrizione volutamente empirica, consapevolmente esposta ad eventuali correzioni che dovessero venire dall’osservazione empirica) : quel che ci interessa osservare è che l’assunzione di questo modello empirico innesca un processo iterativo che inevitabilmente assume un significato trascendentale. Nessun osservatore, infatti, può ritenersi davvero esterno alla situazione osservata, perché nessun osservatore presuntamente trascendentale può evitare di tener conto del fatto che la sua propria osservazione, ma dunque anche l’osservazione tout court, è geneticamente resa possibile dal fatto di esser stato – in un tempo per principio in eccesso sulle facoltà rimemorative dell’osservatore medesimo – dalla parte del non (ancora) costituito. Che qualunque osservatore sia stato una volta un infante, sia stato messo al mondo e alloquito da qualcuno che ne ha avviato e accompagnato il processo di soggettivazione, è un fatto. Ma questo fatto di una situazione interlocutiva originaria, essendo costitutivo di un’osservazione che ex post si autodefinisce trascendentale, si impone curiosamente come principio : non nel senso del fondamento trascendentale (e come potrebbe, se è un fatto ?) ; ma nel senso che si presenta come irriducibile, ossia « inaggirabile », « intrascendibile », « irregredibile ». 1 Di fatto e/o per principio nessuna osservazione è pura : dunque nessuna osservazione è in grado di dare accesso (se non per mezzo di una provvisoria e fittizia messa tra parentesi di ciò che è e resta inaggirabile) ad una presenza pura quale luogo di ciò che è definitivamente oggettivabile e categorizzabile : la presenza, dunque, è sempre impastata di assenza e deve esser scomposta secondo le diverse dimensioni di quest’ultima. Il costituente originario, infatti, che in un tempo immemorabile (per chi si collochi di volta in volta nel punto di vista della prima persona) ha alloquito il futuro osservatore, il quale una volta adulto e soggettivato può fingere di autocostituirsi come presuntamente neutrale, resta per principio al di qua della scena dell’osservazione e della presenza : è strutturalmente assente, strutturalmente precedente la presenza. È quella seconda persona – alla quale l’infante impara progressivamente a rispondere – che praees già sempre, e come un « tu », rispetto a qualsiasi presenza. Olivetti condensa questa affermazione della precedenza costituente della seconda persona nella tesi seguente : « l’analogazione è più originale rispetto all’oggettivazione, e la determina ». 2 Si tratta di una tesi che riecheggia il lessico e il movimento fondativo trascendentale, ma che trova conferme robustamente empiriche, in mancanza delle quali – Olivetti è molto chiaro in proposito – non avrebbe il diritto di costituirsi essa stessa come tesi : « L’animismo delle culture primitive – a livello filogenetico-culturale – non meno del senso di onnipotenza di cui l’infante investe le figure parentali, ritenute capaci di modificare la realtà – a livello ontogenetico-psicologico – confermano empiricamente quello che l’indagine
1
Cfr. ivi, cap. vi, p. 134.
2
Ivi, cap. ii, p. 40.
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fenomenologica non può non incontrare come suo limite (sicché la conferma non può che essere empirica e immersa nell’“atteggiamento naturale”), e cioè che la presenza altrui si annuncia prima dell’oggettivazione e della sua stessa oggettivazione ». 1 Questa « fibrillazione » 2 tra fatto e principio è quanto Olivetti chiama la « crisis del fenomenologico », ossia l’esigenza metodologica di « lasciare valere l’approccio empirico accanto a quello trascendentale », in un « equivoco » che deve essere mantenuto come tale, perché « l’eliminazione dell’equivoco a favore di uno degli approcci ha comunque e inevitabilmente un esito solipsistico ». 3 Non è difficile vedere come questa affermazione rappresenti la risposta alla domanda dalla quale siamo partiti : la « con-fusione » tra i tre significati del termine « intersoggettività » nel lessico di Olivetti – un significato empirico, uno trascendentale e uno inedito e relativo alla specifica teoria olivettiana, che si è precisato come fibrillazione tra il primo e il secondo – si rivela essere tutt’altro che casuale : è la pratica del tutto consapevole di un metodo equivoco e dell’equivoco, che Olivetti ritiene l’unico metodo legittimo di una teoria dell’intersoggettività. Con ciò di tale teoria si è detto molto poco : prolegomeni ad un’interpretazione, appunto. Un’interpretazione vera e propria richiederebbe che, tenendo conto non soltanto di Analogia nel suo complesso, ma anche di evoluzioni assai significative successive all’opera maggiore, 4 si esaminassero tutte le articolazioni della teoria medesima, che qui sono rimaste sullo sfondo ; richiederebbe, in particolare, che si affrontassero almeno le seguenti implicazioni che Olivetti ricava dall’analisi della situazione interlocutiva originaria : a) la possibile totalizzazione del movimento di analogazione, che arriva a quell’ulteriore, irregredibile componente della presenza che è la società come terza persona (ab-est) ; 5 b) la reinterpretazione su base analogica della logica, 6 che comporta una diversa lettura di figure logiche come la contraddizione e il paradosso ; 7 c) il significato linguistico e dunque etico dell’irriducibilità o irregredibilità dell’intersoggettività ; 8 d) la risoluzione su questa base dell’aporia costitutiva di altre teorie etiche, che inconsapevolmente vivono dell’illusione trascendentale che confonde fatto del dover essere
1
2 3 Ivi, p. 36. Ibidem. Ivi, cap. v, p. 110. Oltre ai già citati Trascendentale senza illusione (nota 1), Intersoggettività e religione (nota 12) e Universalità e molteplicità personale (nota 11), possono essere considerati come tappe significative dell’evoluzione ad Analogia : Il corpo che siamo e l’ambiguità delle categorie ontologiche : l’alimentazione dell’altro, in D. Antiseri e D. Conci (a cura di), Il desiderio di essere. L’itinerario filosofico di Pietro Prini, Roma, Studium, 1996, pp. 173-184 ; La persona come debito ontologico, « Protestantesimo », li, 1996, pp. 174-192 ; Compassione o teodicea. L’appropriazione religiosa del problema del male nella filosofia contemporanea, in Bene, male, libertà, Milano, Mondadori, 1999, pp. 219-238. 5 « Non il “noi”, ma la “terza persona”, non la comunità, ma la società è – come la « prima persona » e la « seconda persona » – una forma irregredibile e compresente in quel fenomeno irriducibilmente complesso che è la presenza » ; Analogia, cap. II, p. 49. 6 « Sempre prima di ogni identità e di ogni differenza (c’è) la somiglianza », ivi, cap. viii, p. 188. 7 « In un quadro di pensiero in cui l’equivoco estenua il paradosso, impedendogli di far esplodere il discorso, la contraddizione può avere un posto non disprezzabile (e tuttavia non tale da lasciar sperare che la dialettica risani quella ferita che essa stessa avrebbe procurato) » ; ivi, cap. iii, p. 57. Cfr. anche : ivi, cap. viii, p. 188 : « Il paradosso è, insomma, quello di una Vorstellung che analoga a immagine e simiglianza dell’irrappresentabile e innominabile. Il paradosso ? ! Piuttosto l’equivoco : l’equivoco senza o prima della contraddizione » ; e in generale Comment on J. Hintikka, Contemporary Philosophy and the Problem of Truth, in « Acta Philosophica Fennica », lxi, 1996, pp. 41-47. 8 « Il linguaggio – in quanto comunicazione linguistica – e l’etica – di cui vedremo la connessione con il linguaggio come allocuzione – divengono allora oggetto di filosofia prima, non in quanto fondativi, ma in quanto, se possiamo rischiare l’espressione, irregredibili » ; Analogia, cap. ii, p. 35. 4
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e dover essere del fatto ; e) il nesso tra etica e morte di Dio. Il lavoro è ancora tutto da fare.
1
2
1 Illusione di cui è senz’altro vittima, secondo Olivetti, l’etica comunicativa (Analogia, cap. v), ma in cui incapperebbe anche il pensiero di Levinas se amputato del tema del « terzo » : « Evidentemente, per evitare ciò si deve trovare un rapporto tra fatto del dover-essere e dover-essere del fatto, tale che non sia un rapporto necessariamente alternativo. [...] Nel pensiero di Levinas le premesse per una ricerca di questo genere sono presenti : il motivo del “terzo” e il motivo della “fraternità” » (ivi, cap. iv, p. 89) 2 Ivi, cap. viii, p. 175 : « Per questo l’etica può essere detta solo come morte di Dio »
DALLO « SCHEMATISMO DELL’ANALOGIA » AL « TRASCENDENTALE SENZA ILLUSIONE ». LA RIFLESSIONE « CON » KANT E « AL DI LÀ » DI KANT
Francesco Valerio Tommasi Al filosofo compete – ahimé – il ruolo « inutile » di « guastafeste » ; e se qualche festa o possibilità di festa o utilità residuasse dopo il suo lavoro critico, questo, per dirla con Kant, potrà essere solo finis in consequentiam veniens. 1
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ant è evidentemente una figura centrale nel pensiero di Olivetti. Già altrove abbiamo tentato di metterlo in luce, evidenziando diversi aspetti, sia formali che contenutistici, di un profondo debito intellettuale. 2 La filosofia di Kant infatti ha costituito, come linguaggio tecnico utilizzato anche nel quotidiano, una sorta di « testo di riferimento » per la speculazione personale di Olivetti e per il confronto con altri pensatori, spesso chiariti grazie a categorie, o letti attraverso termini specifici, del criticismo. In Kant Olivetti trovava, magari in embrione, ma comunque già presenti, pressoché tutti i temi a lui più cari : la preminenza dell’etica sull’ontologia ; la centralità della nozione di persona ; l’ontoteologia ; il rapporto di contemporanea continuità e iato tra religione e filosofia ; i limiti della ragione ; l’impossibilità di una filosofia della storia ; la comunità e l’intersoggettività ; il possibile rovesciamento linguistico del soggetto etc… Su tali basi, inoltre, a Kant egli riconosceva un approdo speculativo capace di rispondere anche a problemi presentati dalla filosofia del novecento, o quantomeno di porre le basi corrette su cui impostarli. Si può parlare di un carattere pervasivo della presenza di Kant in Olivetti ; e tuttavia, tracciare in termini che non siano meramente compilativi un quadro dai contorni definiti del suo ruolo rappresenta un compito tutt’altro che agevole. Olivetti è stato sicuramente un attento studioso di Kant, le cui analisi storico-filologiche, punto di riferimento inaggirabile per la ricerca specialistica, si sono esercitate soprattutto sul testo della Religione entro i limiti della sola ragione. Cionondimeno esse non sono certo in grado di rendere ragione di un rapporto di pensiero che, come detto, travalica il mero interesse di ricostruzione per assumere anche una validità speculativa significativamente anacronistica. Anche proprio la Religione, infatti, è spunto per indagini dal marcato carattere speculativo. La riflessione personale di Olivetti procede per larghi tratti assieme a Kant, e a lui si affida spesso come ad un’autorità. Abbozzare perciò uno schema che divida l’opera dello storico da quello del teoreta costituisce un’ipotesi di lavoro inadeguata a restituire i tratti di un « colloquio pensante »
1 M.M. Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992 (da ora AS), p. 103. Nel riferirsi a testi olivettiani, citeremo sempre direttamente l’opera, tralasciando di ripetere il nome dell’autore. 2 Cfr. F.V. Tommasi, Le persone, infiniti fini in sé. Un ricordo di Marco Maria Olivetti lettore di Kant, « Studi Kantiani », xxi, 2008, pp. 121-126.
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in cui la diacronia dell’indagine di ricostruzione – pur nel rigore della distinzione di approcci e nella ricerca costante del quadro di legittimità del discorso di volta in volta condotto – non è mai disgiunta dalla sincronia dell’analisi della cosa in sé. Proprio per questo, sarebbe improduttivo anche tentare di ordinare semplicemente secondo una scansione in fasi temporali quello che è un interesse ininterrotto, sempre già presente, costantemente ripreso, anche a seguito di impegni contingenti, riattualizzato ogni volta alla luce di nuove sollecitazioni. L’approccio che ci sembra proficuo seguire, dunque, è cercare di leggere in filigrana kantiana lo spettro dell’intera produzione di Olivetti, mostrando come essa possa venir descritta – utilizzando vocaboli a lui cari – quale riflessione « con » Kant e « aldilà » di Kant. Abbiamo individuato nelle espressioni menzionate nel titolo – una direttamente kantiana : « lo schematismo dell’analogia », e l’altra costruita da Olivetti su elementi evidentemente kantiani : il « trascendentale senza illusione » – i due snodi più efficaci per abbozzare un filo conduttore, e per far emergere come la filosofia di Olivetti abbia trovato nel pensiero di Kant sia una patria, sia un punto di partenza per un esodo verso nuovi lidi, utili a restituire al criticismo stesso un valore profetico.
1. Schematismo dell’analogia. Questa espressione, ripresa da una nota della Religione, era per Olivetti di importanza capitale. Kant vi sostiene la contemporanea necessità ed insufficienza di schemi sensibili per rappresentare il soprasensibile, e afferma :
dipende certo dalla limitatezza che ha e non può non avere la ragione umana se noi non possiamo mai attribuire un valore morale di rilievo agli atti di una persona, senza rappresentarci contemporaneamente in maniera umana questa persona o la sua manifestazione […] . Anche la Scrittura si adatta a questo modo di rappresentare […] . Questo appunto è lo schematismo dell’analog ia (che serve alla spiegazione), di cui non possiamo fare a meno. Ma trasformarlo in uno schematismo della deter minazione og gettiva (per l’estensione della nostra conoscenza) è cadere nell’antropomorf ismo che, dal punto di vista morale, (nella religione) ha le più funeste conseguenze […] . Ora, fra il rapporto di uno schema col suo concetto ed il rapporto di questo schema del concetto con la cosa stessa non vi è per nulla analogia, ma un salto formidabile (metábasis eis állo génos). 1
Queste righe sono emblematiche dell’intera impostazione della filosofia trascendentale come filosofia del limite, che investe il rapporto tra facoltà diverse, tra logica e metafisica, tra conoscenza e morale, tra filosofia e religione. Non solo : Kant ripropone nel proprio linguaggio tecnico (« schematismo ») una questione centrale per la tradizione della metafisica, sia « speciale » che « generale ». Ossia, da un lato, il problema specifico della teologia di predicare correttamente e quindi univocamente su Dio ; e, dall’altro, quello dell’ontologia relativo alla propria scientificità generale, che anche richiede concetti univoci. Non a caso, dunque, un occhio attento e vivo come quello olivettiano si è soffermato su questa nota a margine, e l’ha potuta leggere con tutta la profondità della propria lente speculativa. Chi ha frequentato i corsi dedicati a quello che egli definiva una sorta di « manuale di filosofia della religione », ossia il testo della Religione, può testimoniare l’importanza che egli attribuiva a queste righe. Ma traccia scritta della loro centralità è da rinvenirsi in modo esplicito nella Introduzione alla sua revisione della tra
1 I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di M.M. Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 68-9 (pp. 64-65 dell’edizione dell’« Accademia »).
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duzione italiana del testo, dove Olivetti, parlando dell’« importanza, talvolta fondamentale, delle note a piè di pagina », definisce la questione dello schematismo dell’analogia « di grande significato » ; 1 così come, ancora direttamente ed esplicitamente, in Analogia del soggetto :
su questa nota e sul vortice in essa creato dalla confluenza di motivi diversi varrebbe la pena di scrivere qualche libro, anche solo per ragioni di filologia kantiana. 2
Traccia invece indiretta ed implicita – ossia con riferimenti generici – dell’importanza dello « schematismo dell’analogia », è da rinvenire in innumerevoli passi della produzione olivettiana. Proprio tale importanza « indiretta » è decisiva per capire il « vortice creato dalla confluenza di motivi diversi ». Sulla scorta di quello che forse è il problema centrale della sua riflessione giovanile, il costituirsi del significato tra identità e differenza (vale dunque a dire la questione in cui si inscrive anche l’analogia), la risposta kantiana, la risposta dello « schematismo », rappresenta per Olivetti sia un approdo che un punto di partenza, paradigmatico del pensare « con » Kant e « aldilà » di Kant. Il suo primo volume, Il tempio simbolo cosmico, reca in Appendice un saggio che si conclude proprio con un passaggio dedicato a questo tema, nel quale Olivetti riassume il senso della sua riflessione sull’architettura sacra nell’età della tecnica in termini di un necessario superamento dell’analogia entis e di un’apertura all’analogia fidei. 3 Il tempio, come « tutto dell’essere » che però al contempo « separa » l’essere sacro ed ordinato dal caos, costituendo così il « totalmente altro », riproduce in sé proprio la dialettica dell’onto-teo-logia : « il senso della problematica simboleggiata dal tempio è il rapporto tra essere ed enti ». 4 Per questo, l’epoca in cui giunge al culmine la possibilità di riprodurre l’essere altro, trasformando la differenza in tautologia, mette in crisi ogni tentativo di conciliare identità e differenza in una analogia.
Il riferimento al totalmente altro, la comprensione dell’esistenza stessa come totalmente altro, perde di senso nella mediazione, ove nel questo presentato dall’esperienza, e nella stessa esistenza come propria alterità, si riconosce il totalmente. 5
Si tratta del problema del « simbolo » : problema evidentemente legato, dal Kant del noto § 59 della terza Critica, allo schematismo e all’analogia ; ma che già nel giovanissimo Olivetti che recensiva i convegni di Castelli era chiave per mostrare la necessità di una comprensione non univocante del linguaggio (« nessuna macchina potrà mai rendere conto del valore simbolico delle parole. C’è incompatibilità tra automatismo e simbolismo »). 6 Olivetti si sofferma quindi sull’« unicità ontologica del problema dell’immagine e di quello del temenos » da cui deriva che « il tempio resta perché c’è l’immagine rappresentativa » ; 7 ed egli lega queste considerazioni al tema quanti altri mai analogico del sacramento, che « richiede per la sua stessa essenza l’immagine rappresentativa ». 8 Immagine, schema, simbolo, sacramento, analogia : tutte categorie che indicano dunque la questione della mediazione tra due ambiti separati da un limite. Ossia la questione che abbiamo visto essere primariamente racchiusa nella nota sullo « schematismo dell’analogia ». Non sembri che ciò introduca una genericità troppo vaga : a questo
1
2 Introduzione a I. Kant, La religione…, cit., pp. v-xlv, qui xix. AS, p. 165, nota 19. Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Roma, Abete, 1967, 4 5 Ivi, p. 35. Ivi, p. 143. p. 147. 6 Simbolismo e surrealismo, in « Studi cattolici », x, 58, 1966, pp. 62-63, p. 62. 7 8 Il tempio simbolo cosmico, cit., 127. Ivi, p. 123. 3
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grado di ampiezza, infatti, va ricondotto il discorso per comprendere l’orizzonte con cui si confronta Olivetti sin da giovane. Né si deve ritenere che ciò rappresenti un allontanamento dalla problematica immediatamente kantiana : non solo per i legami già individuati tra immagine, schema, analogia e limite, che naturalmente sono temi macroscopicamente kantiani ; ma anche perché a livello storico il termine « ontoteologia » trova com’è noto la propria origine proprio nella Critica della ragion pura, di cui quello che, ancora a partire da Kant, si definisce « argomento ontologico », costituisce nella lettura olivettiana successiva un paradigma esemplificativo privilegiato. 1 Ma siamo già andati molto avanti. Limitiamoci per ora a notare come una prima conferma dettagliata di ciò che abbiamo anticipato sia da rinvenirsi ancora agli esordi della produzione olivettiana, quando analizzando il saggio heideggeriano Kants These über das Sein, e rinvenendovi prova della inevitabile « istanza critica » insita nella « domanda ontologica », egli muove alla messa in evidenza di una necessario risalimento dell’ontologia alla persona.
È chiaro come in un discorso di questo tipo resti esclusa però ogni possibilità di un discorso teologico in chiave ontologica : la personalizzazione della domanda, in quanto è il segno della possibilità originaria e dell’essere come orizzonte della finitezza […] esclude la possibilità stessa di un ente pensato come essere. 2
E in conclusione :
è da notare infatti che i termini « cosa posso sperare ? » stanno ad indicare, nella Critica, l’articolazione teologica della domanda antropologica. È chiaro però che nell’orizzonte della pura possibilità questa risposta non può essere data che in termini di un discorso assolutamente negativo : ontologicamente negativo, perché condotto all’interno dell’orizzonte dell’essere, che è l’orizzonte della possibilità. In questo senso, il discorso kantiano è ancora in gran parte da scoprire e totalmente da riproporre. 3
Ulteriore e più dettagliata conferma alla necessità della prospettiva kantiana per inquadrare e rispondere alla questione ontoteologica è da rintracciare nel volume Filosofia della religione come problema storico. Sin dalle primissime righe, l’analisi di Romanticismo e idealismo romantico è condotta sotto il segno della « crisi dell’identità » e Olivetti trova nel Kant della Religione una prospettiva particolarmente feconda per muovere all’analisi del problema ontoteologico. Nella sua ottica, che si rivela ancora poderosamente ampia, Olivetti riconduce alla dialettica di identità e differenza il rapporto tra visibile ed invisibile, e quello tra forma e materia.
L’opposizione che in Kant si instaura tra religione e storia corrisponde, in ultima analisi, a quella serie di opposizioni – tra forma e contenuto, ideale e reale, soggettivo e oggettivo, invisibile e visibile, privato e pubblico, esoterico ed essoterico ; e poi : infinito e finito, spirito e lettera – che l’aspirazione romantico-idealistica all’assoluto tenterà di superare. La generalizzazione di queste non coincidenti, ma reciprocamente implicantesi opposizioni, può dirsi rappresentata dall’opposizione di identità e differenza, che le sintetizza in quell’aspetto in cui esse sembrerebbero meno facilmente unificabili e che può essere individuato nella incerta sovrapponibilità che caratterizza l’opposizione forma-contenuto rispetto a quella finito-infinito. 4
1 Cfr. L’argument ontologique et la philosophie contemporaine, in « Archivio di filosofia », lxviii, 1990, pp. 13-18. 2 L’istanza critica nella domanda ontologica, in « Archivio di filosofia », xxxvi, 1, 1968, pp. 103-121, qui p. 118. 3 Ivi, p. 121. 4 Filosofia della religione come problema storico. Romanticismo e idealismo romantico, Padova, cedam, 1974, p. 88.
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Sono ripresi implicitamente, dunque, i temi della nota sullo « schematismo dell’analogia ». Kant, come affermerà Olivetti citandolo direttamente, pone la « questione della differenza » : 1 una « differenza » che, nel testo della Religione, è tra fede storica e fede razionale ; ma che, soprattutto nel terzo capitolo, viene descritta con tratti teorici che, per Olivetti, possiedono le potenzialità per una nuova impostazione della questione in generale. La sua attenzione si sofferma in particolare sul nesso tra ecclesiologia e filosofia della storia, letto ancora come chiave per affrontare lo snodo identità-differenza.
Riflettere […] sull’ecclesiologia kantiana significa portare l’attenzione su di una ecclesiologia che, pur configurandosi in funzione della pretesa totalizzazione dell’identità, non lascia tuttavia che tale pretesa sia soddisfatta […] . Ma tornare indietro al trascendentalismo e intrattenersi nello spazio che intercorre tra visione critica e visione idealistica è forse l’unico modo per non cedere, o non ammettere il trionfo della differenza, in attesa che il significato si manifesti. 2
Un previsto e mai pubblicato secondo volume dell’opera avrebbe dovuto concludersi con questo « ritorno al trascendentalismo ». 3 Traccia più dettagliata della probabile trattazione progettata da Olivetti si può però rinvenire nel saggio coevo Chiesa ed ideologia. Un problema di filosofia della storia.
Riflettendo adeguatamente sul fatto che proprio a proposito del problema ecclesiologico emerge, nell’opera kantiana ricordata [la Religione], la questione della storia e della sua fine, ci si potrà rendere conto di come, nonostante la comprensione moralistica palesata da Kant riguardo al concetto di Chiesa, questo coinvolga una problematica altamente speculativa riconducibile, come vedremo, ai termini di identità e di differenza. 4
Il Kant che Olivetti ritiene veramente interessante in rapporto allo snodo tra identità e differenza, dunque, è quello nel quale si può giungere alla tesi della « coincidenza del problema ecclesiologico con il problema della totalizzazione della storia ». 5 Proprio la necessità di una chiesa visibile accanto alla comunità etica ideale è ciò che impedisce una filosofia della storia compiuta, pur non rappresentando una mera dissoluzione nella differenza pura.
La totalità che si trova al termine della storia è la sola che effettivamente consente di totalizzare ed identificare la storia nel suo differire, dando luogo ad una storia universale ; ma poiché questa totalità è morale, la sua realizzazione, in questa nuova fase del pensiero kantiano, dovrà essere affidata ad uno strumento storico omogeneo che differisce da essa non come pura ed irriducibile differenza, ma come non-identità. Tale strumento è appunto la Chiesa (visibile). 6
Olivetti procede quindi evidenziando la necessità formale dello schema :
il decomporsi della differenza e la glaciale immobilità dell’identità sarebbero due aspetti di una medesima morte, se lo schema non intervenisse ad unirle, dando a quella forma, a questa materia e per tal maniera producendo la vita. Lo schema è la visibilità dell’invisibile e l’invisibilità del visibile. 7 1
Cfr. Introduzione a I. Kant, La religione…, cit., p. xxxi. 3 Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 10. Cfr. ibidem. 4 Chiesa e ideologia : un problema di filosofia della storia, in « Archivio di filosofia », xlii, n. 2-3, 1973, pp. 103133, qui p. 103. 5 Ivi, p. 128. In quest’orizzonte, inoltre, Olivetti rintraccia il sorgere e l’affermarsi della « filosofia della religione » : cfr. soprattutto Filosofia della religione, La filosofia, a cura di P. Rossi, Torino, utet, 1995, vol. 1, pp. 6 Chiesa e ideologia, cit., p. 112. 137-220. 7 Ivi, pp. 125-6. 2
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Perciò, l’ecclesiologia della Religione offre un ambito privilegiato per affrontare il discorso sul rapporto tra identità e differenza che la nota sullo schematismo dell’analogia dello stesso testo, pur inquadrando correttamente da un punto di vista astrattamente formale, non arriva a cogliere in tutte le sue inevitabili implicazioni anche storiche e comunitarie. Vedremo come proprio sulla scia di questo filone di considerazioni si renderà necessaria un ripensamento dell’analogia stessa, tale da coinvolgere un ripensamento del suo soggetto : « con » Kant, « al di là » di Kant. Un altro tema dominante i primi anni della riflessione olivettiana è in grado di confermare la cornice in cui abbiamo iscritto il discorso : la questione del significato, che viene letta come orizzonte linguistico (univocità-equivocità) del problema identità-differenza. « Se non c’è significato senza ricostruzione dell’identità, non c’è nemmeno significato senza la scissione che consente l’instaurazione del rinvio », sostiene Olivetti in quella stessa pagina che abbiamo citato di Filosofia della religione come problema storico. 1 Il problema del significato, affrontato a partire dall’intervallo tra identità e differenza, è centrale nella riflessione dell’Esito « teologico » della filosofia del linguaggio di Jacobi, in cui sono contrapposti Hamann, che ritiene possibile la coincidenza di significante e significato, a Jacobi, che si trova invece senza soluzione razionale di fronte all’abisso del caos. 2 In questo volume Kant non gioca un ruolo rilevante, ma la stessa tematica, con riferimento esplicito anche al criticismo, si ritrova invece nel saggio su Filosofia della religione e significato della storia in prospettiva ermeneutica, che declina in senso linguistico l’interrogativo circa l’identità. 3 Questo testo è particolarmente interessante, anche perché anticipa molti temi della speculazione futura olivettiana : con riferimento alla disamina dell’« io parlo » di La pensée du dehors di Foucault, Olivetti sostiene che l’impossibilità di totalizzare l’accadere storico in un concetto conduce a passare dal cogito al loquor : in questo senso, Olivetti si ritiene allo stesso tempo « molto vicino, ma anche molto distante » dai pensatori della differenza come Deleuze e Derrida. 4 Già in queste pagine, inoltre, Olivetti nota una affinità tra la sua prospettiva e la teoria dei sistemi luhmannianna, proprio nella direzione di evidenziare una impossibilità della riduzione della differenza all’identità, senza per questo che il pieno riconoscimento della differenza significhi la « definitiva esclusione del trionfo dell’identità » : 5 mentre in Habermas, al contrario, viene individuata una significativa vicinanza con Hegel. 6 Nel saggio Ecclesiologia filosofica e teoria della società, 7 poi, oltre ad essere delineata in modo estremamente interessante (e certo in modo kantiano, anche se il discorso è svolto con interlocutori contemporanei) la reciproca implicazione tra religione ed etica nella direzione di un primato dell’etico a livello individuale e del religioso a livello sociale, si fa riferimento già all’« etica come filosofia prima », per « impostare una considerazione contemporanea del problema della teodicea ». 8 Proprio la questione della
1
Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 88. Cfr. L’esito « teologico » della filosofia del linguaggio di Jacobi, Padova, cedam, 1970. 3 Filosofia della religione e significato della storia in prospettiva ermeneutica, in « Archivio di filosofia », xlv, 2-3, 1977, pp. 37-54. 4 Cfr. ivi, p. 48. Tale accenno si rinviene anche in un saggio dell’anno precedente, il cui titolo tradisce, sulla scorta di quanto detto sinora, un’impostazione implicitamente kantiana : Il problema della secolarizzazione inesauribile, in « Archivio di filosofia », xliv, 2-3, 1976, pp. 73-86, p. 76. 5 6 Filosofia della religione e significato della storia, cit., p. 46. Cfr. ivi, pp. 46-47. 7 Ecclesiologia filosofica e teoria della società, in « Archivio di filosofia », xlviii, 2-3, 1980, pp. 429-447. 8 Ivi, p. 442, nota 22. 2
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teodicea costituisce un altro argomento kantiano che Olivetti in generale rilegge sotto l’ottica della messa in crisi dell’ontoteologia. 1 Mentre l’etica come filosofia prima è al centro di un saggio su Kant composto in occasione del bicentenario della Critica della ragion pura e dunque di quel periodo. 2 Sarebbe estremamente interessante potersi dedicare ad una disamina più accurata della maturazione olivettiana di questo torno di anni, tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, in cui nuovi temi ed autori si incrociano con gli interessi precedenti. Limitiamoci però ad osservare come di importanza capitale sia la già citata Introduzione alla Religione, altresì apparsa per la prima volta in quell’epoca. Nelle sue pagine, Olivetti ha l’occasione per fare il punto della situazione su diverse questioni, oltre a quelle tematiche già evidenziate, anche di struttura : la collocazione dell’opera nel contesto della produzione kantiana, ed in particolare il suo essere uno scritto al confine tra critica e dottrina, la sua posizione simmetrica rispetto alla Critica del giudizio, e il suo essere una sorta di completamento negativo del percorso critico, nella progressiva differenziazione dello stesso. Inoltre, Olivetti rende ragione alla complessità e al valore speculativo dell’opera, anche proprio nelle sue sfasature (« un’opera pasticciata » diceva a lezione, « ma l’alta cucina è sempre pasticciata »), e non manca infine di descrivere la storia della sua ricezione. 3 Per argomento e per tipologia, il testo può essere letto in continuità con l’Introduzione che Olivetti dedica ad un’altra opera di traduzione, quella del Saggio di una critica di ogni rivelazione di Fichte. Essa costituisce un ulteriore capitolo storiograficamente molto importante, e di nostro interesse in particolare per lo sguardo che getta sugli ultimi anni di Kant e sulla direzione idealistica che assume la filosofia critica proprio a partire da questioni di filosofia della religione. Al giovane discepolo di Kant, che pone a tema la rivelazione, radicalizzando il passaggio dalla teologia alla religione, Olivetti ascrive il merito di aver portato alla luce le questioni della comunicazione e dell’intersoggettività, mai affrontate sino in fondo da Kant, che pur ne intuisce l’importanza sin dai Sogni di un visionario. 4 È allora un approfondimento ulteriore della questione intersoggettiva, ispirato anche da un confronto con il ripensamento del trascendentale operato da Fichte, la direzione che prende il percorso successivo olivettiano, portando a compimento le esigenze descritte. « l’universalizzazione non può aver luogo al prezzo della univocazione del soggetto » : 5 in questa fulminante espressione, formulata proprio a proposito dei paradossi del terzo capitolo della Religione, si può leggere una sintesi del passaggio alla nuova prospettiva dell’analogia subjecti, maturata a seguito delle esigenze descritte. In continuità con le prime riflessioni che qui abbiamo sottolineato, l’« analogia del soggetto »
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Cfr. Théodicée aujourd’hui ?, in « Archivio di filosofia », lvi, 1988, pp. 15-18. Cfr. Comunità etica e chiesa in Kant, in Kant oggi nel bicentenario della Critica della ragion pura, Saint Vincent, Edizioni Centro Culturale e Congressi, 1981, pp. 19-22. 3 Cfr. Introduzione a I. Kant, La religione…, cit.,. Per quanto riguarda la composizione del testo e la complessa vicenda della sua censura, l’introduzione olivettiana va oggi integrata dalla acquisizioni storiografiche di B. Stangneth, in I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, Hamburg, F. Meiner, 2003, Einleitung pp. ix-lxxv, in particolare xiv-lix. 4 Cfr. Introduzione a J.G. Fichte, Saggio di una critica di ogni rivelazione, a cura di M. M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. v-lx. Cfr. anche Zum Religions- und Offenbarungsverständnis beim jungen Fichte und bei Kant, in « Fichte-Studien », xxiii, 2003, pp. 192-201. Sulla storia del problema comunitario nella filosofia moderna, cfr. in particolare La comunità delle menti come problema della filosofia moderna, in Per una storia del concetto di mente, a cura di E. Canone, Firenze, Olschki, 2005, pp. 343-362. 5 Analogia del soggetto, analogia dei diritti, in Pluralità delle culture e universalità dei diritti, a cura di F. D’Agostino, Torino, Giappichelli, 1996, pp. 99-108, p. 103.
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è presentata proprio come « concezione in grado di superare la dicotomia tra analogia entis filosofica e analogia fidei teologica ». 1
2. Trascendentale senza illusione Ancora una volta, Kant è strumento efficace per abbordare il significato della nuova proposta. Se si pone attenzione all’indice di Analogia del soggetto, si può notare come la parola che ricorre più spesso nei titoli dei saggi che costituiscono i capitoli del volume – ben tre volte – è « trascendentale » : si riscontra nei due testi della seconda parte, Inversione dell’appercezione trascendentale e Trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale, e in quello che apre la terza, Unificazione trascendentale e alterità ; ovvero : l’uno e l’altro. Nei primi due, Olivetti si sta confrontando in modo particolare con quelle che possono essere interpretate come riprese contemporanee del kantismo – Levinas, Apel e Habermas – mentre nel terzo scritto il suo discorso prende già vie più autonome. Inutile dire come soprattutto Levinas sia decisivo. Ma particolarmente rilevante per noi è come Olivetti pensi Levinas anzitutto in rapporto a Kant – il che è certo meno scontato rispetto agli altri due pensatori – sottolineando che la novità del filosofo francese non va rinvenuta solo in una presa di distanza dall’ontologia, ma anche in un ribaltamento della soggettività dell’io penso e dell’appercezione trascendentale. 2 Levinas, quindi, è giocato per andare « al di là » di Kant, in una radicalizzazione della questione intersoggettiva, di cui si diceva. Ma Levinas è giocato anche « con » Kant : a lui infatti vengono poste « domande filosofiche », 3 che sono impostate sulla scia di un esplicito riferimento a Kant. Olivetti rimarca come l’inversione dell’appercezione trascendentale sia un « trascendere », un movimento « metafisico », di risalita a ciò che « rende possibile », al trascendentale ; 4 e in questo senso, egli appaia il tentativo levinasiano a quello di Fichte, perché entrambi – rispetto evidentemente a Husserl l’uno, e a Kant l’altro – tenterebbero una « trasformazione protologica della filosofia trascendentale », 5 per risalire ad un piano che si sottragga alla determinazione reciproca degli opposti. Il confronto allora è necessario, secondo Olivetti, per vagliare quanto la proposta levinasiana non rischi di essere un mero déjà vu. Se sia Husserl, che Fichte, che parzialmente anche Kant, procedevano nella direzione di trasformare intersoggettivamente l’appercezione trascendentale, la strada per affrontare compiutamente questa necessità passa, secondo Olivetti, non attraverso una mera reiterazione dei soggetti su di un piano simmetrico, ma per una trasformazione del soggetto stesso in senso asimmetrico. Su questo tema, Olivetti dà vita ad un serrato confronto con Apel e Habermas, che certo non è possibile seguire nel dettaglio, ma di cui si deve nuovamente rilevare l’orizzonte di impostazione kantiano. Cercando di unire piano descrittivo e normativo, le proposte di « comunità trascendentale della comunicazione » o di « situazione comunicativa ideale » rischiano la fallacia naturalistica, riuscendo a giustificare al limite il dover essere del fatto, ma non il fatto del dover essere. 6
Ogni Faktum der Vernunft, che in quanto fatto sarebbe ancora un essere a cui si potrebbe rivolgere l’accusa di fallacia naturalistica, trova nella esteriorità del senso la propria origine assente, la quale comanda il dover-essere del « fatto ». […] . L’esteriorità del senso rispetto ad ogni essere,
1
2 Ivi, pp. 98-99. Cfr. AS, pp. 73-74. Cfr. il saggio, di cui queste pagine di Analogia del soggetto sono una rivisitazione, Intersoggettività, alterità, etica. Domande filosofiche a E. Levinas, in « Archivio di filosofia », liii, 1985, pp. 265-287. 4 5 6 AS, p. 76. AS, p. 78. AS, pp. 99 e ss. 3
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anche rispetto a quello normativo che si esprime nel « fatto della ragione » e negli imperativi storicamente formulati, non solo fornisce l’imperatività al modello comunicativo simmetrico […] , ma rappresenta anche la vera riserva critica che impedisce a quel modello di trasformarsi in strumento ideologico di dominio. 1
Non a caso, l’originale utilizzo olivettiano in senso antifondativo dell’espressione « filosofia anteriore », anziché « filosofia prima », per l’etica, inizia a riscontrarsi in un periodo immediatamente successivo alle prime analisi approfondite di Apel e Habermas. 2 La trasformazione dell’appercezione trascendentale in sintesi della comunicazione non può non comportare, secondo Olivetti, anche un distacco da un soggettivismo classico in cui l’apriori è staticamente antecedente al fatto. L’asimmetria dei soggetti è decisiva per non compromettere la sostituzione della sintesi della comunicazione alla sintesi dell’appercezione, e dunque non ricadere in una riflessione paleosoggettivistica che, pensando nuovamente una auto-fondazione, non costituirebbe altro che una nuova forma di Schein trascendentale, oltre che ad autocontraddirsi, perché non più comunicativa.
Se la soggettività autonoma e il suo dovere hanno bisogno di allargarsi – come vide il tardo Kant – alla dimensione comunitaria, e se questo Gemeinwesen – sempre secondo il tardo Kant – non può essere autofondante, ma deve nominare Dio come fondatore, ciò è dovuto al fatto che la voce è effrazione della coscienza e del Bewußtsein. 3
Un’effrazione della coscienza che porta il primato della morale kantiana ben « al di là » di Kant (anche se già il dovere di natura speciale rappresentato dalla necessità di costituire la comunità etica travalicava esplicitamente, nella Religione, il potere individuale).
Antecedente al bisogno altrui che deve (nel senso del Sollen) essere soddisfatto è un mio dovere che non può (nel senso del Können) mai venir soddisfatto : « devi dunque non puoi », si potrebbe dire, profanando ciò che kantianamente solo è veramente sacro o santo. 4
L’istanza critica moderna in certo modo inaugurata o comunque resa paradigmatica dalla soggettività riflessiva kantiana viene però mantenuta in tutta la sua portata, e anzi, radicalizzata. Si procede quindi anche « con » Kant, e Olivetti scorge in Levinas movenze profondamente « razionalistiche ». 5
Non si sarà mai abbastanza insistito sul carattere non edificante, bensì critico, di una visione siffatta : carattere radicalmente critico e compitore della riflessione critica in un movimento che, nel tornare su di sé, non si chiude su di sé autologettimandosi. Se vogliamo fare riferimento alla domande in cui Kant riassumeva l’impresa critica alla quale attendeva – « cosa posso sapere », « cosa debbo fare », « cosa mi è lecito sperare » – si può dire che esse rappresentino un clímax culminante nell’ultima domanda : la domanda in cui, appunto, il movimento riflessivo, nel tornare su di sé, e per il fatto di questo ritorno, si apre all’esterno della soggettività, oltre il limite del sapere-potere. 6
Se dunque avevamo detto di come proprio una riflessione sull’intersoggettività, all’interno della filosofia trascendentale, chiariva la necessità di travalicare una posizione pur ritenuta decisiva quale quella dello « schematismo dell’analogia », ora vediamo come l’esigenza intersoggettiva conduca ad un riguadagno dell’istanza originaria dell’analo
1
AS, p. 109. Cfr. ad esempio Premessa, in « Archivio di filosofia », lv, 1987, pp. 11-12, p. 11 e nello stesso volume, L’etica 3 AS, p. 112. tra tecnica e mito, pp. 167-181. Nel volume. 4 5 6 AS, p. 114. Cfr. AS, p. 84. AS, p. 115. 2
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gia stessa, ossia all’asimmetria. Si postula allora « l’“origine” analogica di ogni logica », 1 che altro non è, con esplicita ripresa delle letture di Simon, se non la « katastrophé della filosofia trascendentale in filosofia del segno ». 2 Anch’essa va pensata, ancora una volta, con riferimento storico a Kant, perché già anticipata, secondo Olivetti, dall’obiezione metacritico-linguistica di Hamann e Herder al purismo del pensiero critico. 3 Analogia del soggetto è dunque pluralizzazione necessaria dei soggetti dell’analogia, ma anche, allo stesso tempo, trasformazione del soggetto in senso analogico. Possiamo a questo punto leggere per intero le righe olivettiane sullo « schematismo dell’analogia » cui avevamo fatto riferimento in apertura.
Bisogna dire, peraltro, che l’utilizzazione della teoria dello schematismo dell’analogia a proposito della persona umana e della morale, da parte di Kant, è altamente problematica ; e ciò proprio perché Kant pensa in termini di simmetria e di universalizzazione della massima : si veda la nota sullo schematismo dell’analogia della Religion […] , dove l’affermazione della necessità di schematizzare la persona morale rappresentandola umanamente viene esemplificata con la schematizzazione cui si « accomoda » la Scrittura al fine di rendere « afferrabile » l’amore divino « anche per gli indegni » (ma qui siamo nel campo della supererogazione, non della morale e della simmetria kantiana !), laddove è inconcepibile per la nostra ragione come un « essere totalmente bastevole a sé » possa sottrarsi (berauben) qualcosa di ciò che possiede (ma ciò ha a che vedere con un discorso ancora diverso, e cioè con la teologia razionale, anzi con l’« ontoteologia », anche nel senso kantiano del termine, non con la morale !). 4
Secondo questa nuova comprensione dell’analogia, un rapporto ed una commisurazione tra i due investiti di analogazione – tra « l’uno e gli altri » di identità e differenza, uomo e Dio etc… – va cercato nella terza persona. Su quel piano, derivato, si può recuperare il trascendentale : un « trascendentalismo sui generis perché […] dominato da un gioco di asimmetrie », 5 e dunque ormai privo della costitutiva illusorietà di ogni fondazione. La terza persona è derivata. Ciononostante, è imprescindibile :
per quanto radicale sia la passività etica, essa non lo sarà mai al punto di esimere la vittima, o l’eletto, dalla responsabilità attività per i diritti del terzo. 6
Si apre così una questione particolarmente complessa, che ha molto impegnato la riflessione olivettiana degli ultimi anni. Possiamo qui osservare solo come la terza persona, e quindi il recupero del trascendentale, non significhino semplicemente l’introduzione di una mediazione nel rapporto asimmetrico. Mediazione certo presente in Olivetti, sin dalla scelta di leggere Levinas sotto il titolo dell’analogia ; o, ancora, nella lettura in termini kantiani, tramite la distinzione tra « stato civile giuridico » e « stato civile etico », proprio della distinzione tra la fraternità e l’ordine sociale ; 7 ma rintracciabile anche nel ruolo nuovamente fondamentale dell’immaginazione. Mediazione presente, nel solco di una ispirazione, anche per quanto riguarda la lettura specifica di Kant, tipicamente cristiana e, particolarmente, cattolica : 8 si pensi alle riflessioni, incentrate proprio attor
1
AS , Prefazione. AS, p. 196. Sulla lettura di Simon cfr. anche Wort, Schrift, Religion, in Zur Philosophie des Zeichens, a cura di T. Borsche, W. Stegmaier, Berlin-New York, De Gruyter, 1992, pp. 40-55. 3 4 Cfr. AS, p. 105 e p. 207. AS , pp. 164-5, nota 19. 5 6 7 P. 133. P. 90. Cfr. AS, p. 91. 8 Il saggio citato di « domande filosofiche » a Levinas era stato raccolto negli atti di un Colloquio « Castelli » intitolato significativamente : Ebraismo, Ellenismo, Cristianesimo. Quale diretta presa di distanza dalla lettura trascendentalista di Olivetti, inoltre, può essere letta la levinasiana presa di distanza da Fichte e dal trascendentale che si riscontra in un suo saggio presentato l’anno dopo nel contesto dei Colloqui « Castel2
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no al trascendentale ed all’analogia, di interpreti quali Rigobello, ma già anche a quella della scuola di Maréchal, di Rahner o di Przywara. In Olivetti non si tratta, però, di mettere in luce, mediante l’analogia, la possibilità di un « oltre il trascendentale » per ridare validità alla metafisica teorica. Non a caso, un altro autorevole esponente kantiano di scuola cattolica, Mathieu, è letto da Olivetti nei termini del rischio della simmetrizzazione. 1 Dunque non si tratta solo di una sia pur presente esigenza di mediazione : Olivetti lega infatti tra loro i temi levinasiani della terza persona e dell’illeità, il « da sempre non più soggetto della società oggettivata […] con l’anteriorità da sempre ritrattasi di quel volto che ne rivela la traccia ». 2 Per questo la terza persona è ciò a cui si nega lo statuto di persona nel senso dell’analogazione simmetrica portata avanti dal soggetto, ma che proprio per il suo essere al di fuori dell’orizzonte è anche possibilità di far perseverare il mondo, oltre il limite soggettivo : 3 terza persona è allo stesso tempo più e meno del soggetto. Non a caso, Olivetti si sente forse meno distante da quelle letture kantiane di marca cattolica che problematizzano la nota sullo schematismo dell’analogia nella direzione di una « cristologia filosofica », come in Tilliette, o nella direzione di uno « schematismo storico », come in Melchiorre ; 4 oppure che, più in generale, introducono un necessario carattere temporale nella considerazione dell’analogia, come in Casper ; 5 o che tengono conto in modo più appropriato la questione del male, e dunque dello iato irriducibile che esso comporta rispetto ad ogni riconduzione ad identità, come in Caracciolo, 6 e in Pareyson. 7 In ogni caso, terza persona come mediazione inevitabilmente intrecciata con l’asimmetria è di certo, per Olivetti, « trascendentale senza illusione ». Questo il titolo di un contributo che, inserito anche in un volume dedicato proprio a Melchiorre, si sarebbe potuto intitolare, dice Olivetti, Razionalità della terza persona, 8 e che viene ripreso e riproposto molte volte, anche in saggi ancora raccolti da, o dedicati a, studiosi cattolici, come Vigna o Jacques. 9
li » : cfr. E. Levinas, De l’unicité, in Intersoggettività, socialità, religione, « Archivio di filosofia », liv, 1986, pp. 301-307, p. 305. Il riferimento a Fichte, infatti, è piuttosto estrinseco rispetto alla produzione levinasiana. Devo questa preziosa osservazione ad Irene Kajon. 1 Cfr. Simmetria e asimmetria : sull’interpretazione mathieuana del Kant pratico, in « Archivio di filosofia », lxiii, 1-3, 1995, pp. 317-326. In questo saggio lo « schematismo dell’analogia » è chiamato in causa in modo interessante per rendere ragione della questione della definizione dell’umanità. 2 3 4 AS, p. 90. Cfr. AS, pp. 65-6. Cfr. AS, p. 165, nota 19. 5 Cfr. Die Ernährung des Anderen. Vorüberlegungen zu einem dankenden – „eucharistischen“ – Denken, in Das Heilige im Denken. Ansätze und Konturen einer Philosophie der Religion, zu Ehren von Bernhard Casper, a cura di K. Kienzler, J. Reiter, L. Wenzler, Münster, lit, 2005, pp. 147-158. 6 Cfr Istanza trascendentale e problema del male. A proposito della seconda edizione di « La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza », in Ermeneutica e destinazione religiosa, a cura di D. Venturelli, Genova, Il Melangolo, 2001, pp. 263-273. 7 Cfr. Compassione o teodicea. L’appropriazione religiosa del problema del male nella filosofia contemporanea, in « Seconda navigazione. Annuario di filosofia », Milano, Mondadori, 1999, pp. 219-238, in particolare le pp. 224-226. 8 Cfr. Trascendentale senza illusione. Ovvero : l’assenza della terza persona in La persona e i nomi dell’essere, Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, a cura di F. Botturi, F. Totaro, C. Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2002, vol. 1, pp. 429-441, p. 429. 9 Cfr. Teologia e analogia subjecti, in L’Occidente della verità, a cura di C. Ciancio e F. Vercellone, Milano, Guerini, 1998, pp. 15-23 ; Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, in « Archivio di filosofia », lxix, 2001, pp. 13-20 ; Metaphysik, Intersubjektivität, Theologie, in Metaphysik. Herausforderungen und Möglichkeiten, a cura di V. Hösle, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 2002, pp. 117-131 ; Trascendentale senza illusione. Ovvero : l’assenza della terza persona, in Etica, trascendentale e intersoggettività, a cura di C. Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 127-140 ; Transcendantal sans illusion ou : l’absence de la troisième personne, in Du dialogue au
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« Trascendentale senza illusione » vorrebbe significare dunque il carattere radicalmente responsivo e responsabile del soggetto […] . Si tratta di una responsabilità così radicale che può essere detta con l’espressione « responsabilità per la responsabilità ». Si è responsabili non tanto e in primo luogo di qualcosa, ma di qualcuno, e ciò vale a dire dei responsabili, per i responsabili, perché vi siano i responsabili. 1
L’« universalità » non è solo messa in questione dalla « molteplicità personale » : le sue esigenze sono, al contempo, radicalizzate dalla molteplicità stessa. La reduplicazione della responsabilità, lungi dal chiuderla in una riflessività, la apre all’infinito dell’istanza religiosa, quant’altre mai universale e « cattolica ». Proprio la reduplicazione era il segno, agli esordi kantiani di Olivetti, della già descritta necessità di rinvenire l’« istanza critica » nella « domanda ontologica » (« possibilità della possibilità », « metafisica della metafisica ») : movimento che conduceva alla necessità di trattare il « chi », la « persona » e la « speranza », al di fuori dell’essere. 2 L’istanza critica, come l’istanza religiosa, sono appunto « in-stanze », incalzano la « stanza » analgesica dell’essere, e l’illusione del trascendentale. Il giudizio profetico della speranza, che con « singolare duplicazione » la riguadagna ad « un solo corpo, un solo spirito », 3 « con » colui che fu riconosciuto come uomo quanto a « schema », 4 al di là dello « schema di questo mondo », 5 trova perciò – queste le righe con cui si conclude forse l’ultimo testo scritto da Olivetti – « in una riflessione filosofica […] il proprio quadro critico » :
« che cosa mi è lecito sperare », come si suole tradurre, ma anche « che cosa non posso non sperare », come pure è possibile ed opportuno tradurre. La risposta kantiana alla domanda, che inizialmente era « il sommo bene » (« derivativo »), si precisò poi come « comunità etica », ossia « popolo di Dio ». 6
texte. Autour de Francis Jacques, a cura di F. Armengaud, M.-D. Popelard, D. Vernant, Paris, Kimé, 2003, pp. 235-247 ; Transcendental without Illusion : Or, The Absence of the Third Person, in Contemporary Italian Philosophy. Crossing the Borders of Ethics, Politics, and Religion, a cura di S. Benso e B. Schroeder, New York, State University of New York, 2007, pp. 149-160. 1 Trascendentale senza illusione, cit., p. 430. 2 3 Cfr. L’istanza critica nella domanda ontologica, cit. Ef. 4,4. 4 5 Fil 2,7. 1 Cor. 7, 31. 6 Universalità e molteplicità personale, in Universalismo ed etica pubblica, a cura di F. Botturi, F. Totaro, C. Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 23-34, 34.
DIFFERENZA E ANALOGIA. PERCORSI DELL’UMANO FRA LEVINAS E OLIVETTI Francesco Paolo Ciglia
L
’in contro con Emmanuel Levinas ha rappresentato uno degli eventi più decisivi che si siano mai prodotti all’interno dell’itinerario speculativo di Marco M. Olivetti. Esso ha dato impulso ad una ricca gamma di approcci diversi al pensiero levinasiano, da parte dello stesso Olivetti, che vanno dalla ricostruzione « panoramica » alla disamina esegetico-ermeneutica, dall’interrogazione speculativa fino alla massiccia metabolizzazione all’interno di una prospettiva teoretica personale. Un’indagine dettagliata sui tempi, sui luoghi testuali e sulle modalità dell’approccio di Olivetti al pensiero di Levinas assumerebbe certo una rilevanza notevole nell’ambito di una ricerca sulla genesi, sulle fonti e sull’evoluzione della meditazione dello stesso Olivetti. La stessa indagine in questione occuperebbe un posto non trascurabile nel contesto di una ricostruzione della storia della recezione del pensiero levinasiano negli ultimi quarant’anni. Ma l’interesse di una tematizzazione dell’interrogazione ermeneutica e speculativa a cui Olivetti ha sottoposto la meditazione di Levinas travalica certo l’orbita disegnata dagli ambiti settoriali appena evocati. L’interrogazione in questione, infatti, ha coinvolto una serie di orizzonti storici e problematici ulteriori, di filoni di pensiero del passato e del presente, e di figure di pensatori di grande spessore speculativo, tutti convocati, all’interno della stessa interrogazione, in funzione ora di contesti, ora di coordinate di riferimento, ora di concreti interlocutori. Nello spazio aperto dal dialogo di Olivetti con Levinas può così riflettersi una trama di nodi teoretici cruciali, che emergono, con grande risalto, dal dibattito filosofico prodottosi, negli ultimi decenni, all’interno del nostro continente europeo, ed anche al di fuori di esso. Il dialogo intessuto da Olivetti con la meditazione di Levinas sembra dunque poter assurgere al rango di testimonianza emblematica di una fase decisiva della nostra storia più recente. Il presente contributo non intende battere né la strada della ricostruzione filologica della presenza di Levinas all’interno del pensiero di Olivetti, né quella della contestualizzazione di quest’ultimo all’interno del quadro della storia della « fortuna » di Levinas. Esso si cimenterà in un esperimento diverso, vale a dire, nel tentativo di stabilire un confronto teoretico diretto fra la meditazione dei due pensatori, allo scopo di lasciarne interagire l’una sull’altra le rispettive dinamiche speculative interne. Si tenterà, dunque, di saggiare attentamente le consonanze e le dissonanze fra le singolari armoniche che si sprigioneranno nel momento in cui le due prospettive in questione saranno lasciate risuonare nella cassa armonica dello stesso spazio problematico. Cominceremo con uno schizzo delle linee di fondo del pensiero di Levinas, il quale sarà ricostruito con la preoccupazione di farne emergere gli elementi che assumono una rilevanza maggiore ai fini di un confronto con la meditazione di Olivetti. Seguirà una sintetica ricostruzione dell’ultimo stadio evolutivo del filosofare di Olivetti, quale si riflette, principalmente, nel capolavoro filosofico Analogia del soggetto (Laterza, Roma
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Bari 1992). La ricostruzione in questione si propone essenzialmente di lumeggiare il complesso gioco di opzioni speculative di fondo che, via via, fa convergere e divergere la prospettiva di Olivetti nei confronti di quella di Levinas. Nella conclusione del saggio ci permetteremo di tratteggiare alcuni spunti critici che intendono rilanciare il prezioso lavoro filosofico compiuto dai due pensatori al di là degli orizzonti della « lettera » delle formulazioni nelle quali esso si è espresso. 1
i. Differenza La meditazione di Levinas trova uno dei suoi contrassegni identitari più pregnanti nella sua intonazione di fondo marcatamente umanistica. L’orizzonte dell’umano, tuttavia, non rappresenta soltanto il focus tematico fondamentale sul quale si concentra l’intera sua impresa teoretica. Esso viene compreso da Levinas, molto più impegnativamente, come la sede entro cui si colloca la sorgente originaria ed unica da cui promana e si irradia il senso primo ed ultimo dell’intera realtà. L’universo dell’umano viene pensato da Levinas come uno spazio sconfinato, che appare solcato da una serie di preziose linee di frattura, le quali lo differenziano in maniera radicale ed incessante. In polemica contro un’intera tradizione di pensiero precedente, l’universo dell’umano viene posto da Levinas sotto il segno privilegiato di una differenza irriducibile, che apre gli orizzonti di un impareggiabile dinamismo relazionale. Con una scelta speculativa cruciale, che conferirà al filosofare levinasiano la sua cifra più caratteristica, al dinamismo relazionale in questione il pensatore attribuirà una fisionomia di fondo essenzialmente etica. In conseguenza di questo gesto teoretico, anche la fonte originaria del senso, che, come si diceva, campeggia al centro dell’universo levinasiano dell’umano, assumerà una connotazione radicalmente etica. Il ripensamento dell’intera realtà in chiave umanistica e l’attribuzione di una connotazione etica ai dinamismi che scandiscono l’universo dell’umano e al suo stesso senso ultimo, produrranno, insieme, la promozione dell’etica ad un rango marcatamente protologico, o, per esprimerci con gli stessi termini utilizzati dal pensatore, la sua elevazione alla dignità di filosofia prima. 2 Lo scenario etico ed umanistico, entro cui si dipana la meditazione levinasiana, appare dominato interamente da due figure antropologiche fondamentali, radicalmente asimmetriche l’una nei confronti dell’altra. La prima di queste due figure – prima solo nell’ordine che scandisce la dinamica interna del filosofare levinasiano – è rappresentata dalla soggettività umana coniugata alla prima persona singolare, e perciò concepita come io identico a sé stesso e come potenza di identificazione e di assimilazione a sé. La comprensione levinasiana del soggetto costituisce il precipitato di un accanito confronto polemico con la tradizione moderna e contemporanea dell’appercezione trascendentale, un confronto che approda ad esiti fortemente originali. 3 La seconda 1
Il testo verrà citato, d’ora in poi, con la sigla AS, seguita dall’indicazione del numero della pagina. La comprensione dell’etica in termini di « filosofia prima » appare ribadita incessantemente in quasi tutti i testi della maturità di Levinas. A titolo esemplificativo citiamo qui soltanto : E. Levinas, Éthique comme philosophie première, nel vol. coll. : Justification de l’éthique, Éd. de l’Université de Bruxelles, s. d., pp. 41-51 (il testo, in traduzione italiana, è poi confluito in : E. Levinas, A. Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Napoli, Guerini e Associati, 1989, pp. 47-59). 3 In AS, Olivetti caratterizza interpretativamente il gesto polemico di Levinas nei confronti della tradizione moderna e contemporanea dell’appercezione trascendentale nei termini di una vera e propria « inversione » (si vedano, in proposito, le pp. 73-97). 2
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figura antropologica che domina la scena speculativa levinasiana – la prima, in ordine di importanza – è rappresentata dall’altro uomo, compreso come prossimo, vale a dire, come l’obiettivo intenzionale di una considerazione di carattere etico. La comprensione levinasiana dell’altro uomo come prossimo rappresenta il risultato della peculiare recezione, in chiave filosofica, di alcune dimensioni basilari della tradizione spirituale biblica e talmudica. La relazione etica – assolutamente asimmetrica – che si instaura fra la soggettività umana e l’altro uomo costituisce il pilastro portante principale dell’intera meditazione levinasiana, che non cesserà mai di pensarne e ripensarne la configurazione di fondo. i. 1. La soggettività « separata »
La comprensione levinasiana del soggetto appare giocata sul filo di un equilibrio dinamico particolarmente delicato, dai tratti francamente paradossali. Il soggetto levinasiano si presenta infatti come un campo di forze abitato da due polarità contrapposte, ma legate l’una all’altra da una stretta relazione funzionale. A queste polarità fondamentali attribuiremo i nomi, di origine levinasiana, di « separazione » e di « responsabilità ». Il polo dinamico della responsabilità viene attivato dall’impatto traumatico che l’apparizione dell’altro uomo esercita sul soggetto, un impatto che produce una radicale ripolarizzazione complessiva dell’assetto della stessa separazione. Per questa ragione, il nostro tratteggio delle due polarità del soggetto umano, sarà intercalato da uno schizzo del profilo che il pensatore attribuisce alla figura dell’altro uomo. La comprensione levinasiana del soggetto in termini di separazione è il risultato di una manovra speculativa piuttosto complessa. Quest’ultima inizia con un taglio netto nei confronti delle velleità autofondative che contrassegnavano alcune configurazioni moderne e contemporanee del soggetto. La soggettività levinasiana non può più pretendere di pensarsi come causa sui. Ma la riduzione delle pretese autofondative avanzate da una certa soggettività moderna e contemporanea non appare certo motivata, in Levinas, dall’intenzione di tornare ad ancorare fondativamente la soggettività in questione ad una qualsivoglia realtà esterna rispetto ad essa. La teorizzazione levinasiana del soggetto mira invece a valorizzare speculativamente proprio lo spazio vuoto che si dischiude in seguito alla doppia negazione della auto- ed etero-fondatività del soggetto stesso. Il soggetto può dunque presentarsi, nella comprensione levinasiana, come, semplicemente, non fondato affatto. Esso sembra così prodursi come un evento assolutamente infondato, radicalmente inesplicabile e perciò gratuito. In questa prospettiva, può ben risaltare la fisionomia ambigua che contrassegna costitutivamente la soggettività levinasiana. Essa, infatti, in quanto infondata, assume uno statuto speculativo particolarmente « debole ». Il soggetto di Levinas si presenta come precario, sospeso in una sorta di no man’s land ontologico, ed esposto proprio per questo alle vicissitudini speculative più imprevedibili. Lo stesso soggetto, tuttavia, proprio in quanto infondato, si configura, d’altra parte, come del tutto libero da qualsiasi legame, come indipendente ed autonomo da tutto e da tutti o, alla lettera, come ab-soluto. La soggettività levinasiana si configura, in definitiva, come un intreccio inestricabile ed impareggiabile di labilità e di autonomia, di caducità e di libertà, di precarietà e di sovranità. 1 Il paradosso di una soggettività concepita nei termini appena delineati viene espresso
1 Lo statuto paradossale che Levinas, fin dal primo ventennio della sua ricerca, attribuisce alla soggettività umana viene esplorato in dettaglio, con un costante riferimento ai testi del pensatore, nel nostro volume : Un passo fuori dell’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, Padova, cedam, 1988, alle pp. 115-144.
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da Levinas, in alcuni testi – per la verità piuttosto rari –, in termini di creaturalità. La parola, sovraccarica di implicazioni teologico-religiose, viene proferita dal pensatore con una cautela estrema. Un’utilizzazione incauta della categoria della creaturalità nell’ambito di una riflessione sul soggetto, infatti, esporrebbe lo stesso soggetto al rischio mortale di una sorta di ricaduta all’indietro, nel momento in cui sembrerebbe tornare ad ancorarlo di nuovo ad una rete di legami eterofondativi del tutto indesiderati. Proprio allo scopo di schivare il rischio appena evocato, il pensatore si impegna in una rielaborazione radicale delle nozioni tradizionali della creazione e della creaturalità. L’evento creativo sembra dunque essere ripensato da Levinas nei termini di un evento relazionale paradossale, la cui peculiarità essenziale consisterebbe nel porre un irrelativo o un assoluto, cioè un essente contrassegnato costitutivamente dalla capacità di sciogliersi dalla relazione che lo ha posto. Levinas sintetizza lapidariamente la sua comprensione complessiva dell’evento creativo nei termini seguenti : « è certamente una grande gloria per il creatore », egli scrive, « il fatto di aver messo in piedi un essere capace di ateismo ». 1 Il soggetto inteso come separazione non si presenta come un blocco statico e monolitico. Esso si configura come un gioco dinamico di articolazioni differenziate, di cui il pensatore sviluppa la fenomenologia in una serie di analisi estremamente suggestive, sensibilmente diverse nelle varie fasi della sua ricerca. Il soggetto si caratterizza, ad esempio, nella seconda metà degli anni Quaranta del secolo appena trascorso, come ipostasi, vale a dire, come contrazione sostantivale – in quanto essente – della pura transitività verbale dell’essere. 2 All’inizio degli anni Sessanta dello stesso secolo, il soggetto verrà caratterizzato come interiorità o economia, vale a dire, nei termini di una trama di strutture libidiche che trovano il loro centro propulsore nel fenomeno del godimento (jouissance). 3 Sulla base delle analisi fenomenologiche rapidamente evocate, l’evento del soggetto si configura come un dinamismo centripeto ed avvolgente, come un movimento egopoietico, dalla fisionomia, alla lettera, ego-centrica o egoistica. In questo contesto, l’esito solipsistico del movimento stesso di soggettivazione del soggetto non rappresenta un rischio malaugurato da evitare, ma la possibilità più propria del soggetto in quanto separato. La separazione rappresenta tuttavia soltanto il terminus a quo o la conditio sine qua non della soggettività umana, e non la sua intenzionalità più profonda e il suo senso ultimo. Questi ultimi potranno profilarsi soltanto nella prospettiva dell’incontro cruciale del soggetto umano con l’altro uomo.
i. 2. L’altro uomo La figura dell’altro uomo si presenta, al livello della sua apparizione originaria, come la figura di una differenza radicale, irriducibile al soggetto identitario. L’altro uomo – e 1
E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, La Haye, M. Nijhoff, 1961, p. 30 (ed. it. : Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, a cura di A. Dell’Asta, Milano, Jaca Book, 1980. Una ricostruzione analitica della comprensione levinasiana della creazione e della creaturalità del soggetto umano è stata da noi articolata nel nostro volume, già citato, Un passo fuori dall’uomo, alle pp. 99-114. 2 Si vedano, ad esempio, a questo proposito : E. Levinas, De l’existence à l’existant, Paris, Fontaine, 1947, pp. 115-145 (ed. it. : Dall’esistenza all’esistente, a cura di F. Sossi, Casale Monferrato, Marietti, 1986, pp. 61-78) ; e Idem, Le Temps et l’Autre, in J. Wahl et alii, Le Choix – Le Monde – L’Existence, Grenoble-Paris, Arthaud, 1948, pp. 125-196 (si vedano, in particolare, le pp. 140-144) ; 2a ed., in vol. autonomo, Montpellier, Fata Morgana, 1979 (si vedano, in particolare, le pp. 31-34) ; ed. it. : Il Tempo e l’Altro, a cura di F.P. Ciglia, Genova, Il Melangolo, 1987 (si vedano in particolare, le pp. 25-27). 3 Si veda, in proposito, l’ampia Section II, intitolata : Intériorité et Economie, di : E. Levinas, Totalité et Infini, cit., pp. 79-158 (trad. it. cit., pp. 107-177).
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solo lui – è davvero, per Levinas, assolutamente altro o alterità assoluta. Di fronte all’alterità dell’altro uomo impallidisce ogni forma di alterità mondana, mai veramente altra. Persino l’alterità di Dio, se vuol farsi presente all’interno dell’orizzonte umano, deve annunciarsi, per Levinas, nella forma di una traccia che riluce sul volto dell’altro uomo. In questo contesto problematico, non sembra casuale il fatto che una delle primissime tematizzazioni levinasiane dell’alterità risulti contestualizzata all’interno di una meditazione sulla relazione che il soggetto umano intrattiene con l’alterità imprevedibile, inimmaginabile ed inassumibile della morte. 1 Ed anche nel momento in cui l’alterità enigmatica della morte sarà riempita dal volto di alcune figure concrete dell’umano, come accade nel caso della femminilità, nel contesto della relazione erotica, e nel caso del figlio, nell’ambito della relazione della paternità, l’alterità dell’altro uomo conserverà per sempre il traumatismo dirompente della morte. Il discorso vale anche e soprattutto per le figure più classiche dell’alterità levinasiana, come quelle, di evidente ispirazione biblica, della prossimità interumana, vale a dire, quelle del povero, dello straniero, della vedova e dell’orfano. In queste figure, il traumatismo dell’alterità svelerà la sua fisionomia più tipicamente levinasiana, vale a dire, una fisionomia etica. 2 Nella prospettiva speculativa appena schizzata non sembra casuale neppure il fatto che il pensatore, nel corso dell’intero arco della sua ricerca, eviti con la massima cura di utilizzare il termine « soggetto » per indicare l’altro uomo o il prossimo della relazione etica. L’altro uomo, infatti, così come il soggetto lo incontra nella relazione etica originaria, non si presenta mai, per Levinas, come un altro soggetto. L’altro uomo non è un alter ego, non è una reduplicazione puramente numerica del soggetto identitario. Nella prospettiva di Levinas viene posta un’asimmetria radicale fra il soggetto identitario e il suo prossimo. Nell’ambito del nostro confronto fra la proposta speculativa di Levinas e quella di Olivetti, ci sembra fondamentale sottolineare il fatto che, nell’orizzonte teoretico dello stesso Levinas, non sembra assolutamente possibile alcuna forma di analogia fra il soggetto identitario e l’altro uomo, o, almeno, essa non è possibile al livello della relazione etica originaria. L’altro uomo, dunque, non può essere pensato come analogo al soggetto : il soggetto e il suo altro non sono assolutamente analogabili l’uno nei confronti dell’altro. L’analogia fra gli esseri umani, come si dovrà accennare, potrà nascere solo a partire da un complesso gioco di riflessioni speculari, del tutto derivato, e perciò non originario, che si innesca nel momento in cui il terzo uomo fa il suo ingresso nell’orizzonte della relazione etica duale. La comprensione levinasiana dell’altro uomo ha suscitato perplessità e critiche, anche perché sembra essere contraddetta da alcune innegabili evidenze fenomenologiche quotidiane. Per poter coglierne il senso più profondo, tuttavia, è necessario contestualizzarla all’interno della peculiare prospettiva speculativa entro cui il pensatore ha voluto collocarsi. La situazione etica originaria, assolutamente fondante, si produce, infatti, per Levinas, nel momento in cui il soggetto umano, separato da tutto e da tutti, si imbatte inopinatamente nel volto dell’altro uomo. Da questo volto si leva un’intimazione etica, muta ed inerme, ma di un’autorevolezza assoluta, che impone al soggetto
1 Si veda, in proposito, Le Temps et l’Autre, già cit., alle pp. 162-172 (pp. 55-64 dell’ed. 1979 cit., e alle pp. 40-46 dell’ed. it. cit.) 2 Le Temps et l’Autre, cit., pp. 183-193 (pp. 77-87 dell’ed. 1979 cit., e pp. 54-60 dell’ed. it. cit.). Una dettagliata ricostruzione della comprensione levinasiana della morte, dell’eros, della fecondità, e della prossimità interumana, soprattutto così come essa si articola nel primo ventennio della ricerca del pensatore, è stata elaborata nel nostro volume, già citato : Un passo fuori dall’uomo, alle pp. 180-213.
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di non uccidere e di non lasciar morire il suo prossimo. L’intimazione in questione ha un effetto dirompente sul soggetto « separato », poiché, dopo aver frantumato il guscio solipsistico entro cui esso tende a rinchiudersi, scardina e ribalta l’assetto libico del conatus essendi che lo costituisce. Il volto dell’altro uomo chiama il soggetto egoista ed egocentrico a dismettere totalmente e senza alcuna riserva l’impegno pressante della cura per se stesso e ad addossarsi il peso schiacciante della cura dell’altro. L’apparizione dell’altro uomo strappa il soggetto all’orbita centripeta della sua pur sacrosanta soddisfazione egoistica, lo decentra radicalmente e lo immette all’interno della traiettoria eterocentrica della diaconia etica nei confronti del suo prossimo. All’interno di questa prospettiva, l’altro uomo non potrà certo presentarsi come un altro soggetto, analogo al soggetto identitario, ma solo come un’alterità assoluta.
i. 3. La soggettività responsabile La polarità della separazione del soggetto, sotto l’impatto dell’apparizione dell’altro uomo, si ripolarizza e si trasforma nella nuova polarità della responsabilità etica per il prossimo. Un singolare vettore etico erompe dalle profondità della separazione egoistica del soggetto e si protende intenzionalmente nella direzione dell’altro. Il punto nodale della teorizzazione levinasiana della relazione fra il soggetto e l’altro è dato dal fatto che la direzione del vettore della responsabilità etica per il prossimo, almeno nella situazione che il pensatore ritiene originaria e fondante, viene posta come assolutamente irreversibile e perciò come non reciprocabile. Nell’ambito della situazione etica originaria, infatti, il soggetto si presenta solo ed esclusivamente come il terminus a quo del vettore in questione, e l’altro uomo solo ed esclusivamente come il terminus ad quem di esso. Nella situazione etica originaria sarebbe scorretto, per Levinas, porre il soggetto come il destinatario del dinamismo etico della responsabilità, o, viceversa, porre l’altro come il portatore della stessa responsabilità etica nei confronti del soggetto. La reciprocazione della responsabilità etica, infatti, nell’ottica di Levinas, distruggerebbe totalmente l’intensità, il mordente e infine il senso complessivo che la responsabilità in questione assume nel suo assetto originario. Il genitivo originario della responsabilità etica dell’altro è, per Levinas, esclusivamente oggettivo. Nella prospettiva della relazione etica originaria diventa ora possibile inquadrare il gioco sottile che il pensatore instaura fra le due polarità fondamentali che articolano il profilo del soggetto, vale a dire, quella della separazione e quella della responsabilità. La separazione del soggetto umano, infatti, può ora chiarirsi come una sorta di imprescindibile piattaforma vitale o di trampolino di lancio, dai quali soltanto potrà poi dipartirsi il vettore della responsabilità etica per l’altro uomo. La separazione in questione sembra dunque profilarsi come conditio sine qua non della responsabilità etica, o come l’imprescindibile fondo irresponsabile della responsabilità per il prossimo. È vero, tuttavia, che la meditazione più matura del pensatore mostrerà una tendenza pronunciata a comprimere drasticamente gli ampi spazi riservati in precedenza alla separazione. Il processo di corrosione della separazione del soggetto, tuttavia, non può spingersi fino alla dissoluzione totale di essa, pena la dissoluzione corrispettiva dello stesso vettore della responsabilità etica che vi trova il suo punto di appoggio ineliminabile. La generosità dello strapparsi di bocca il pane, da parte del soggetto, per sfamare il prossimo, infatti, perderebbe totalmente la sua illimitatezza e il suo significato più autenticamente etico se lo stesso soggetto non trovasse nell’appagamento della sua propria fame la piattaforma vitale della sua costituzione originaria. Si potrebbe forse
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dire che solo un soggetto capace di godere può costituire il presupposto indispensabile per quella rinuncia al godimento alla quale chiama la responsabilità etica per i bisogni vitali dell’altro uomo. Nella prospettiva dell’ultimo Levinas, è come se l’impianto libidico della separazione del soggetto egoistico fosse programmato fin dall’inizio per essere scardinato dalla diaconia etica nei confronti del prossimo. In questa prospettiva, l’enfasi levinasiana sulla chiusura solipsistica ed egoistica del soggetto sembra dunque del tutto funzionale alla sottolineatura del carattere traumatico della relazione con l’altro ed all’esaltazione del valore etico del superamento della chiusura in questione. i. 4. Il terzo uomo L’assetto paradossale che Levinas conferisce alla relazione etica fra il soggetto umano e il suo prossimo, tuttavia, soprattutto negli ultimi sviluppi della riflessione del pensatore, si svelerà inadeguato a fornire un corretto inquadramento speculativo delle relazioni intersoggettive di carattere macro-collettivo o societario. Una semplice estensione alla dimensione societaria delle dinamiche attivate dalla relazione etica duale, infatti, minaccia di ledere gravemente la dignità di tutte le figure dell’alterità interumana che non riescono ad entrare, in contemporanea, all’interno dell’orizzonte duale. Per questa ragione, Levinas si impegnerà, nell’ultima fase della sua meditazione, in una stringente problematizzazione della figura del terzo uomo, vale a dire, nella problematizzazione di un’alterità ulteriore rispetto a quella che già si profila all’interno della relazione etica duale. 1 La figura del terzo uomo rappresenterà allora il fondamento primario della dimensione più propriamente pubblica della vita umana, e di tutte quelle strutture e istituzioni – di carattere sociale, politico, giuridico, istituzionale, statuale e culturale – che questa stessa dimensione sostanziano. In questo nuovo contesto, proprio a causa della necessità di salvaguardare la dignità e i diritti dell’altro uomo, il vettore etico della responsabilità unidirezionale ed illimitata del soggetto umano nei confronti del suo prossimo potrà e dovrà essere invertito, in una reciprocazione che trasforma tutti gli interlocutori in gioco, compreso il soggetto, in soggetti equivalenti e portatori di uguali diritti e doveri. In questo stesso contesto, dunque, la generosità illimitata della diaconia etica del soggetto umano nei confronti del suo prossimo dovrà cedere il passo alla giustizia da rendere a tutti indistintamente. Il pensatore sottolineerà il fatto che l’omogeneizzazione dei differenti esseri umani che viene a compiersi in questo modo implica una quota inevitabile di violenza, che minaccia di precipitare le macrostrutture sociali in una deriva barbarica. La violenza in questione, tuttavia, potrà e dovrà essere incessantemente corretta e minimizzata attraverso una rimemorazione costante del fatto che l’orizzonte giuridico della giustizia si fonda sull’orizzonte della responsabilità etica asimmetrica e ad esso deve essere costantemente ricondotto. 2 ii. Analogia La meditazione di Olivetti, nella configurazione che essa assume nelle sue fasi più mature, si sviluppa sotto il segno, del tutto consapevole, di una solidarietà teoretica note1 È possibile, tuttavia, dimostrare, testi alla mano, che la questione del terzo uomo comincia ad affiorare, seppure in una posizione subordinata, fin dalle primissime fasi della ricerca del pensatore. Si vedano, in proposito, le analisi articolate nel nostro volume, già citato, Un passo fuori dall’uomo, alle pp. 213-220. 2 Sulla questione del terzo nella fase più matura della ricerca del pensatore, si veda : E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, La Haye, M. Nijhoff, 1979, pp. 195-207 (ed. it. : Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, Milano, Jaca Book, 1983, pp. 191-203).
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volmente profonda nei confronti della meditazione di Levinas. Anche la riflessione di Olivetti, infatti, come quella di Levinas, appare contrassegnata da un’ispirazione profondamente umanistica, ed anch’essa, inoltre, individua nel cuore stesso dell’universo dell’umano la sorgente originaria ed ultima del senso complessivo dell’intera realtà. Comune ai due pensatori è anche la lettura dell’orizzonte dell’umano in una chiave eminentemente etica, ed anche l’attenzione privilegiata per le relazioni intersoggettive asimmetriche. La formula riassuntiva dell’etica come filosofia prima può dunque venir assunta come una sorta di parola d’ordine e di programma speculativo anche per la riflessione filosofica di Olivetti. All’interno di un orizzonte speculativo in larga misura convergente nei confronti di quello entro cui si contestualizza la meditazione di Levinas, tuttavia, Olivetti batte dei sentieri che si discostano talora in maniera sensibile da quelli che erano stati percorsi in precedenza dallo stesso Levinas. La messa a fuoco della peculiarità irripetibile della via di Olivetti all’etica come filosofia prima – o anche come filosofia anteriore – coinvolge delle problematiche speculative di grande complessità e di rilevante spessore teoretico. Ci limiteremo, in questa sede, ad un approccio complessivo e sintetico. La peculiarità del filosofare di Olivetti verrà condensata schematicamente in un gesto teoretico articolato in tre mosse, reciprocamente concatenate ed essenzialmente funzionali l’una nei confronti dell’altra. ii. 1. La soggettività in-fante La nostra ricostruzione deve prendere le mosse dalla figura del soggetto umano, inteso come io e come identità, che gioca un ruolo cruciale all’interno della meditazione di Olivetti. La riflessione sul soggetto umano identitario elaborata da Olivetti si differenzia radicalmente dalla meditazione levinasiana sullo stesso argomento, nel momento in cui essa pone al centro della sua attenzione speculativa la questione decisiva della genesi di esso. La prima mossa teoretica del filosofare di Olivetti, che ci sembra importante sottolineare, è rappresentata da un’enfatizzazione del carattere radicalmente « costituito » di quello stesso soggetto che, nella tradizione filosofica moderna e contemporanea, assumeva una fisionomia fondante. Il soggetto identitario, nel momento stesso in cui viene pensato come « costituito », giunge a ribaltarsi in punto di approdo di un itinerario genetico che lo precede e, a sua volta, lo fonda. La manovra speculativa viene compiuta nel contesto di una riflessione, di notevole suggestione, sulla genesi neonatale o infantile del soggetto umano. 1 In questa singolare prospettiva, il soggetto umano moderno, che pretendeva di autofondarsi e di fondare l’intera realtà, si svela, ora, come « messo al mondo » da altri, da un altro soggetto già adulto e costituito, e poi da quest’ultimo soggettivato attraverso amorevoli cure parentali, e soprattutto attraverso una serie di sollecitazioni linguistiche assolutamente imprescindibili. Il gesto filosofico di Olivetti non può certo non apparire scandaloso. Esso potrebbe infatti essere accusato di scambiare grossolanamente il soggetto trascendentale con il soggetto empirico, la funzione sovrapersonale dell’appercezione con il piccolo ego che si incarna in ognuno di noi. Olivetti appare fin troppo consapevole del carattere paradossale della sua mossa speculativa, la quale assolve alla funzione polemica di far esplodere le tensioni interne della comprensione trascendentalistica del soggetto umano. Il pensatore, infatti, sottolinea il fatto che la questione del rapporto fra il soggetto trascendentale e il soggetto empirico
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Si veda, in proposito, AS, alle pp. 139-165.
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abbia rappresentato da sempre una delle questioni più problematiche e nevralgiche che ogni teorizzazione del soggetto in chiave trascendentale si sia trovata dinanzi (cfr. AS, 80). In questo stesso contesto, il pensatore rileva il fatto che la questione dell’origine del soggetto abbia sempre segnato « la crisi di ogni approccio criticistico » (AS, 140). Lo scandalo prodotto da un approccio sfacciatamente empiristico alla questione del soggetto, in funzione critica nei confronti di ogni prospettiva trascendentalistica, appare, dunque, del tutto consapevole e voluto. Olivetti utilizza qui la spada dell’indagine empirica – affilata fino all’estremo attraverso una recezione personale della tradizione analitica anglosassone, da un lato, e degli studi più recenti di psicologia neonatale, dall’altro – per tranciare di netto il nodo gordiano delle origini stesse del soggetto, un nodo che gli approcci trascendentalistici alla questione si erano dimostrati cronicamente incapaci di sciogliere. La spada dell’indagine empirica viene qui utilizzata dopo una provocatoria trasfigurazione di essa in chiave metafisica. Ma l’approccio di Olivetti alla questione del soggetto, inteso come io e come identità, nell’orizzonte di un’indagine sulle sue origini neonatali o infantili segna un distacco molto netto anche nei confronti dell’impostazione levinasiana della stessa questione. L’approccio in questione, infatti, nel momento stesso in cui interpreta il soggetto come una realtà radicalmente costituita, sembra minacciare seriamente la separazione assoluta che, come si è accennato, costituiva, per Levinas, una dimensione imprescindibile del soggetto stesso. La separazione del soggetto e la tensione solipsistica che vi è connessa rappresentavano, per Levinas, la conditio sine qua non dell’evento della responsabilità etica, il quale proprio sulla separazione e sul solipsismo del soggetto si appoggiava per spiccare il suo volo verso l’alterità del prossimo. La questione dell’origine del soggetto, tuttavia, era stata presa in considerazione da Levinas, come si è già rilevato, nella sua reinterpretazione personale della figura biblica della creazione. Ma l’estrema circospezione di Levinas sull’argomento la diceva molto lunga sulla consapevolezza, da parte del pensatore, del rischio mortale implicito in una teorizzazione troppo diretta della creaturalità del soggetto. Nella teorizzazione di Olivetti, invece, la questione dell’origine del soggetto viene affrontata in una maniera del tutto esplicita, costituendo una delle strutture portanti dell’intera sua riflessione sul soggetto stesso. In quest’ottica problematica, la meditazione di Olivetti sulle origini neonatali del soggetto sembrerebbe configurarsi come un corrispettivo dello stesso nucleo problematico che Levinas condensava nella sua comprensione della genesi creaturale del soggetto. La meditazione di Olivetti in proposito potrebbe ben essere letta allora come una trasfigurazione in chiave umanistica delle parallele teorizzazioni levinasiane. Questa stessa meditazione insiste infatti sull’atto pro-creativo parentale, con il quale il soggetto umano viene alla luce per la prima volta. Al tema della creaturalità del soggetto levinasiano corrisponderebbe, dunque, anche se su di un piano speculativo ben diverso, il tema della pro-creaturalità del soggetto pensato da Olivetti.
ii. 2. L’alterità responsabile Il rovesciamento della soggettività separata di Levinas in una soggettività procreata da un soggetto già compiutamente soggettivato sembra tuttavia denunciare un rovesciamento molto più profondo, ed anche, dal punto di vista di Levinas, più rischioso. In questo stesso rovesciamento consiste la seconda mossa speculativa nella quale vorremmo stilizzare la manovra teoretica in cui si condensa la peculiarità della via di Olivetti all’etica come filosofia prima. L’enfatizzazione della genesi neonatale della soggettività
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umana, da parte di Olivetti, e l’importanza fondante, nei confronti della stessa soggettività, da lui attribuita alle cure parentali e all’interlocuzione linguistica da parte di un altro soggetto già costituito, non possono fare a meno di rivoluzionare profondamente l’assetto speculativo che Levinas aveva attribuito alla dinamica della relazione etica sussistente fra la soggettività in questione e l’alterità del prossimo. Nella prospettiva della genesi neonatale della soggettività umana – una prospettiva che Olivetti ritiene originaria –, infatti, la stessa soggettività viene dislocata dalla posizione di punto di origine o di terminus a quo del dinamismo del vettore etico della responsabilità per il prossimo – una posizione tenuta ferma da Levinas – alla posizione di obiettivo intenzionale o di terminus ad quem del vettore in questione. In questa nuova prospettiva, la responsabilità etica originaria, che costituisce l’intima identità del soggetto, non si configura più – o non si configura soltanto –, come accadeva in Levinas, come la responsabilità che lo stesso soggetto è chiamato ad esercitare nei confronti dell’altro uomo, ma, al contrario, come la responsabilità che l’altro uomo, vale a dire, il soggetto adulto, è chiamato ad esercitare nei confronti del soggetto ancora in-fante, nel momento in cui lo mette al mondo e si prende cura di lui. Olivetti sembra dunque assumere come punto di partenza della sua riflessione filosofica sul soggetto un assetto di fondo della direzione del vettore della responsabilità etica radicalmente invertito rispetto all’assetto originario che al vettore in questione aveva voluto attribuire Levinas. Si è già accennato al fatto che anche Levinas ammettesse, seppure con mille cautele, una qualche forma di inversione del vettore della responsabilità etica. Il luogo legittimo dell’inversione in questione era rappresentato, infatti, per Levinas, dalla dimensione, assolutamente non originaria, eppure fondamentale, delle relazioni etiche nelle quali è coinvolto il terzo uomo. Solo nell’ambito dell’intersoggettività societaria, infatti, e proprio allo scopo di evitare le ingiustizie che potrebbero derivare da una generalizzazione dell’asimmetria che contrassegna la relazione etica duale originaria, Levinas ammetteva come legittima la considerazione del soggetto umano identitario anche nei termini di un destinatario dell’esercizio della responsabilità etica da parte dell’altro uomo. Nella prospettiva di un confronto speculativo fra Levinas e Olivetti, si potrebbe allora affermare che lo stesso Olivetti finisca per dislocare la considerazione del soggetto umano identitario nei termini di un destinatario dell’esercizio della responsabilità etica dal piano – per Levinas – non originario delle relazioni etiche « terziarie » o societarie al piano – assolutamente originario per ambedue – delle relazioni etiche duali. La direzione peculiare che Olivetti attribuisce al vettore della responsabilità etica originaria può assumere tuttavia il suo significato più profondo soltanto alla luce di una congiuntura speculativa fondamentale, che deve essere evocata immediatamente.
ii. 3. Il terzo presente/assente La terza ed ultima mossa che dischiude la via di Olivetti all’etica come filosofia prima è rappresentata, nella nostra schematizzazione interpretativa, da una radicale dislocazione dell’intera dimensione del terzo uomo dal livello derivato entro cui lo aveva contestualizzato Levinas allo stesso livello originario della relazione etica duale originaria. Nell’allocuzione linguistica che la soggettività adulta rivolge alla soggettività in-fante è presente, per Olivetti – e fin dall’inizio – l’intero orizzonte delle relazioni intersoggettive societarie. L’orizzonte in questione vi è presente, a suo avviso, nella forma della mediazione linguistica, e, dunque, nella forma di una paradossale assenza. In questo modo, il terzo uomo, pur assente di persona dalla relazione etica duale che la sogget-
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tività adulta intrattiene con la soggettività infante, si insinua, tuttavia, con un ruolo fondante, nel più profondo di questa stessa relazione, rendendola possibile e fecondandola costantemente. La relazione etica originaria risulta così fondata, in Olivetti, fin dal suo primissimo sorgere, dal concorso sinergico di tre interlocutori fondamentali – tutti e tre indispensabili. I primi due interlocutori sono presenti nella relazione di persona nell’interazione corporea e linguistica. Il terzo, invece, vi risulta presente solo nella forma, non meno reale, per quanto inafferrabile, della presenza-assenza che caratterizza il medium linguistico necessario affinché la relazione fra i primi due interlocutori possa realmente prodursi. 1 ii. 4. I quattro stadi della genesi del soggetto Sul fondamento dei tre gesti speculativi appena tratteggiati, Olivetti impianta una descrizione fenomenologica della genesi e delle diverse tappe evolutive dell’interlocuzione intersoggettiva fra la soggettività adulta e la soggettività in-fante (cfr. AS, 151 e segg.). L’interlocuzione in questione viene scandita da Olivetti in quattro stadi, i quali si svelano poi come gli stessi stadi della genesi e della dinamica del processo della soggettivazione del soggetto umano. Il processo della soggettivazione del soggetto incomincia nel momento in cui la sua persona fisica, non ancora soggettivata e non ancora parlante (in-fans), viene messa al mondo, accudita fisicamente e fatta segno di allocuzione linguistica, ad opera di una soggettività umana già costituita, cioè, già adulta, parlante ed eticamente responsabile. Il soggetto umano sembra dunque costituirsi come tale nel momento in cui si ritrova nella posizione di obiettivo intenzionale del vettore della responsabilità etica esercitata da un altro nei suoi confronti. La fondazione del soggetto umano sulla base della responsabilità esercitata da un altro nei suoi confronti imprimerà, nella prospettiva di Olivetti, un sigillo indelebile sulla fisionomia del soggetto in questione, determinandone in profondità il profilo identitario ed il senso ultimo. È già stata rilevata la profonda solidarietà fra Olivetti e Levinas su questo punto : per ambedue i pensatori è l’evento della responsabilità etica ciò che costituisce la stessa identità e umanità dell’uomo. Si è già sottolineata anche la differenza delle modalità attraverso cui i due pensatori declinano la stessa intuizione di fondo. In Levinas, infatti, il soggetto nasce come portatore della vocazione alla responsabilità etica nei confronti dell’altro, mentre, in Olivetti, esso nasce come destinatario dell’esercizio di una responsabilità etica nei suoi confronti a cui è vocato l’altro uomo. Ci sembra tuttavia fondamentale notare subito che la direzione più peculiarmente levinasiana del vettore della responsabilità etica non verrà certo lasciata da parte da Olivetti, il quale la recupererà poi ad un altro livello della sua prospettiva speculativa. La rielaborazione, effettuata da Olivetti, dell’assetto vettoriale levinasiano della dinamica della responsabilità etica sembra dischiudere la possibilità di un ripensamento creativo, da altra prospettiva, della fisionomia an-archica che lo stesso Levinas aveva attribuito alla responsabilità etica in questione. Anche nell’orizzonte speculativo di Olivetti, infatti, la responsabilità etica che costituisce intimamente la soggettività umana presenta una fisionomia essenzialmente anarchica. La responsabilità etica, esercitata
1 Si potrebbe forse ipotizzare una rilettura della dinamica interattiva – linguistica e intersoggettiva – che, secondo Olivetti, fonda l’universo dell’umano in una chiave trinitaria ? La provocazione, che pure meriterebbe di essere approfondita, deve essere lasciata completamente aperta in questa sede.
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da altri, che costituisce il soggetto umano identitario, infatti, si radica, in profondità, nell’atto, per così dire, eterogenetico, non rimemorabile da parte del soggetto stesso, attraverso il quale l’altro uomo lo mette al mondo e lo soggettiva. L’eterogenesi del soggetto non appare ricostruibile archeologicamente, perché situata al di qua di ogni memoria possibile, al di qua dell’autocoscienza soggettiva. Quest’ultima, anzi, non può non presentarsi, essa stessa, come il risultato di un processo an-archico, attivato dall’altro uomo. All’interno di questa prospettiva speculativa, Olivetti impianta le sue riflessioni sul tema della narrazione. La genesi del soggetto identitario, non ricostruibile e non rimemorabile con un atto teoretico, può essere parzialmente recuperato, nello specchio limitato dell’autocoscienza, solo grazie alla mediazione altrui, vale a dire, nella narrazione di un altro che è in grado di rievocare, per il fatto di averla vissuta in prima persona, la stessa genesi parentale del soggetto in questione (cfr. AS, 157 e segg.). Il secondo stadio del processo di soggettivazione del soggetto e della connessa interlocuzione intersoggettiva è rappresentato, per Olivetti, dall’atto con il quale la soggettività in-fante riconosce colui (o colei) dal quale è stata riconosciuta originariamente. Il terzo stadio dello stesso processo si produce invece nell’istante in cui il soggetto in fieri diventa capace di riconoscere se stesso, anche se solo in quanto e nella misura in cui egli è riconosciuto dalla soggettività altra. Ma il compimento più pieno dell’intero processo della soggettivazione del soggetto si realizza, secondo Olivetti, nel momento in cui il soggetto acquisisce la capacità di riconoscere interamente se stesso a prescindere dalla mediazione del riconoscimento altrui. Nel quarto stadio – il più maturo – dell’itinerario della soggettivazione del soggetto, dunque, quest’ultimo giunge a porsi come ipse e come idem, come ego cogito e come autocoscienza ormai pienamente padrona di sé. In questo stadio peculiare, il soggetto identitario arriva finalmente a percepire se stesso come un soggetto assolutamente simmetrico rispetto a tutti gli altri soggetti. Il quarto stadio del processo di soggettivazione del soggetto, tuttavia, è anche quello in cui, secondo Olivetti, diventa possibile – e si produce di fatto – la nascita di una pericolosa illusione trascendentale. Essa sorge dal superamento dell’asimmetria intersoggettiva dalla quale, pure, era stato generato il soggetto e consiste nell’illusione, nutrita dal soggetto in questione, di poter costituirsi a prescindere dalla relazione con l’altro. Il soggetto è ora in grado di mettere totalmente fra parentesi la sua eterogenesi intersoggettiva ed anche l’allocuzione originaria dell’altro che lo ha destato al linguaggio. In questo singolare gesto speculativo si potrebbe forse riconoscere un’originale trasfigurazione della tematica heideggeriana della Seinsvergessenheit da parte dell’esserci umano, nella tematica olivettiana di una non meno grave Allokutionsvergessenheit da parte del soggetto identitario. Sulla base della fenomenologia, appena schizzata, del processo evolutivo della soggettivazione del soggetto umano, la meditazione di Olivetti sembra essere in grado di recuperare, in una chiave originale, alcune fondamentali istanze levinasiane. Le esigenze speculative connesse con la nozione levinasiana di « separazione », infatti, sembrano riaffiorare nella prospettiva del quarto stadio del processo di soggettivazione del soggetto. L’autoriconoscimento e l’autoposizione del soggetto umano che ha raggiunto la sua piena identità, anche a prescindere dal riconoscimento altrui, possono ben produrre l’effetto di disattivare e di spingere nell’oblio tutti i legami eterologhi che, pure, lo avevano generato come soggetto. Il soggetto, generato da altri e costituito linguisticamente dall’interlocuzione altrui, può separarsi decisamente da tutto ciò che lo circonda per fare parte per se stesso. La piattaforma solipsistica che sembrava di
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strutta dall’eterogenesi del soggetto sembra, così, sorprendentemente, ricostituirsi su di un altro piano. La differenza fra la posizione di Levinas e quella di Olivetti sul tema, tuttavia, è data dal fatto che, per l’uno, la separazione costituisce il punto di partenza della vicenda etica del soggetto, mentre, per l’altro, essa rappresenta l’approdo di un complesso itinerario di carattere eterogenetico. La costituzione della soggettività pienamente matura, d’altra parte, rappresenta, nella prospettiva di Olivetti, un vero e proprio punto di svolta. Essa si configura, infatti, da una parte, come il punto di approdo del processo di soggettivazione del soggetto, e, dall’altra, come il punto di partenza della chiamata del soggetto stesso all’impegno etico della soggettività matura nei confronti dell’alterità intersoggettiva. Il soggetto al quarto stadio del suo sviluppo potrebbe dunque rappresentare il punto in cui il vettore della responsabilità etica, il quale, negli stadi precedenti, si era mosso dal soggetto altro al soggetto identitario, inverte radicalmente la sua direzione, ripartendo dal soggetto identitario e volgendosi in direzione delle soggettività altre. In questa nuova prospettiva, Olivetti sembra poter recuperare finalmente la direzione privilegiata che Levinas attribuiva al vettore della responsabilità etica originaria. Il soggetto di Olivetti, analogato in precedenza dal soggetto altro, si trova chiamato ad analogare altri soggetti, con la stessa dedizione assoluta, con la stessa generosità illimitata che erano state teorizzate in precedenza da Levinas. Gli « eccessi » supererogatori che contrassegnavano la responsabilità etica levinasiana riaffiorano, dunque, in tutta la loro potenza dirompente anche all’interno della meditazione di Olivetti. Questi stessi « eccessi », tuttavia, in Olivetti assumono una fisionomia del tutto originale, nel momento in cui risultano ripensati in una chiave sorprendentemente « cristologica » o anche, più precisamente, « staurologica » (cfr. AS, 135, 137, 162, 188-189, 237).
ii. 5. Reciprocazione asimmetrica della responsabilità etica Sarebbe tuttavia legittimo chiedersi, a questo punto, se la reciprocazione della responsabilità etica che viene propugnata da Olivetti, nello scambio dei ruoli della soggettività analogante e della soggettività analogata, non finisca poi per compromettere la fisionomia asimmetrica che Levinas attribuiva alla responsabilità in questione. Ci si potrebbe chiedere ancora se, all’interno della prospettiva di Olivetti, la responsabilità etica da cui resta investito il soggetto già costituito come adulto e parlante nei confronti degli altri soggetti non finisca per configurarsi come una sorta di contraccambio, dalla fisionomia più o meno larvatamente « economica », per le cure parentali ricevute dall’alterità adulta nelle fasi infantili della genesi del soggetto stesso. La proposta speculativa di Olivetti ci sembra in grado di fronteggiare le istanze critiche appena formulate, sia a partire dalla sua « lettera », sia a partire da un prolungamento del suo « spirito » al di là della sua « lettera ». Il tema dell’asimmetria che contrassegna le relazioni etiche fondanti sembra conservato integralmente all’interno della meditazione di Olivetti, anche se in una forma del tutto originale. La reciprocazione dei ruoli rivestiti dai diversi soggetti all’interno dell’orizzonte della responsabilità etica, infatti, non sembra dover confliggere necessariamente con l’asimmetria che contrassegna essenzialmente i ruoli in questione. L’analogia del soggetto, che Olivetti propone, si presenta, infatti, come un’analogia che non è meno asimmetrica per il fatto di essere reciproca, e che non è meno reciproca per il fatto di essere asimmetrica. L’asimmetria che contrassegna l’esercizio della responsabilità etica, infatti, non viene affatto ridotta nella reciprocazione : essa si limita soltanto
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a cambiare direzione con l’invertirsi dei ruoli etici rivestiti, via via, dalle soggettività implicate nella relazione. 1 L’interpretazione della reciprocazione della responsabilità etica nella chiave di un contraccambio « economico », d’altra parte, sembra poter essere esclusa dal fatto che l’inversione della direzione del vettore etico si produce sul limitare dell’abisso diacronico che separa il succedersi delle generazioni sulla faccia della terra. Il soggetto, un tempo in-fante, e poi adulto, non potrà mai saldare il debito contratto con la messa al mondo da parte di altri, con le cure parentali godute e con il dono della parola ricevuto. Esso è chiamato ad accogliere liberamente l’appello a ridonare gratuitamente quello che gratuitamente ha ricevuto.
iii. La mondanità vacante I due diversi sentieri battuti da Levinas e da Olivetti sul terreno comune di un’etica compresa in termini di filosofia prima rappresentano due modulazioni originali del dibattito sull’umanismo moderno e sulla sua crisi post-moderna, che è esploso, con grande clamore, nel corso del xx secolo. Essi dischiudono delle prospettive speculative che meritano di essere esplorate e sviluppate. In quest’ottica, desidereremmo formulare, conclusivamente, alcune rapidissime interrogazioni critiche. Vorremmo domandarci, innanzitutto, se il recupero, del tutto sacrosanto, della costitutiva vocazione intersoggettiva dell’essere umano, così com’è formulato dai due pensatori, sia sufficiente ad immunizzare il nuovo soggetto aperto all’alterità da un’altra illusione trascendentale, certo meno grave di quella a cui è esposta la soggettività moderna, ma non esente da insidie inquietanti. Intendiamo riferirci alla dimenticanza delle radici mondane del soggetto, una dimenticanza che sembra contrassegnare ugualmente la prospettiva dei due pensatori. La piattaforma soggettiva della responsabilità etica, infatti, che Levinas pensa in termini di « separazione », e di cui Olivetti esplora finemente la complessa eterogenesi intersoggettiva, rappresenta il punto di approdo di una dinamica evolutiva mondana quanto mai complessa, che si produce al di qua della vicenda, sia soggettiva, sia intersoggettiva che la costituisce. La carne della persona umana separata da tutto e da tutti o non ancora soggettivata non può essere scambiata per puro materiale biologico che si lascerà riplasmare docilmente in vista della sua finalizzazione etica ed intersoggettiva. La piattaforma carnale della responsabilità etica intersoggettiva è portatrice di una logica mondana intriseca, assolutamente originale, che si muove in una direzione diversa, talora opposta, rispetto a quella che essa assumerà all’interno della relazione etica. Questa stessa piattaforma carnale subirà certamente una trasfigurazione radicale nel momento in cui sarà presa nel gioco, per alcuni versi contro natura, della responsabilità etica. Ma essa costituisce pur sempre la conditio sine qua non assolutamente imprescindibile – anche se certo non sufficiente – dell’esplicarsi della responsabilità etica. Si può anzi dire che tutta la drammaticità della responsabilità etica risiede proprio nella lotta a seguito della quale la carne dell’uomo vede trasfigurata in responsabilità etica la sua animalità innocente originaria. Senza la pressante biochimica della fame e della sete, della stanchezza e del sonno dell’essere umano fatto di carne, infatti, la diaconia etica della rinuncia al mangiare, al bere, al riposare e al dormire, per
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La proposta di una reciprocazione dell’asimmetria che contrassegna la responsabilità etica era affiorata in precedenza anche all’interno di un puntuale saggio di A. Peperzak (Altrui, Société, Peuple de Dieu. Quelques réflexions à partir d’Emmanuel Levinas, in « Archivio di Filosofia », 1-3, 1986, pp. 309-318), rispetto alle cui posizioni il pensiero di Olivetti sembra molto vicino.
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prendersi cura dell’altro uomo, risulterebbe totalmente risibile. Senza l’urgenza di un conatus essendi che si sostanzia di dinamiche assolutamente indipendenti da ogni orizzonte soggettivo ed intersoggettivo, il dis-inter-esse a cui la responsabilità etica chiama il soggetto non potrebbe avere alcun senso. Senza la complessa piattaforma neuronale e fonatoria, che predispone le condizioni di possibilità dell’interazione linguistica, assolutamente costitutiva per la genesi del soggetto, nessuna interlocuzione sarebbe possibile fra gli esseri umani. Ci sembra allora importante chiederci se non sia necessario ipotizzare uno scenario ontologico più ampio e complesso di quello che viene dischiuso dall’interlocuzione etico-linguistica fra i soggetti umani, proprio affinché questa stessa interlocuzione assuma il suo senso più pieno. Ci sembra importante chiederci ancora se la riduzione dell’orizzonte dell’essere al rango di puro e semplice epifenomeno della relazione etico-linguistica fra gli esseri umani (cfr. AS 128) sia veramente all’altezza della sfida che questa stessa relazione porta inscritta al suo interno.
L’EQUIVOCITÀ DELLA SOGGETTIVAZIONE : BISOGNO, RICONOSCIMENTO E TERZIETÀ. IL COLLOQUIO PENSANTE con LEVINAS
Stefano Micali
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ell’ambito della filosofia continentale contemporanea il problema della genesi della soggettività e degli originari processi di soggettivazione è diventato oggetto di primario interesse. La tesi della morte del soggetto sembra aver lasciato posto ad una riconsiderazione della soggettività come istanza irregredibile. L’Ereignis non può essere pensato come evento del tutto impersonale nel senso di l’arrive-t-il ? (Lyotard), ma implica sempre un riferimento ad un soggetto che viene pensato nella forma grammaticale del dativo o dell’accusativo. L’istanza della soggettività riemerge sebbene essa non sia più considerata fondamento dell’essere e della conoscenza. Il soggetto ha un’origine fuori di sé, non è principio ma risultato di un complesso processo che implica sempre la mediazione di quanto è esteriore, estraneo e di chi è irriducibilmente alter. Questo movimento è ravvisabile in contesti di pensiero differenti : gli scritti tardi di Foucault, che mirano ad evidenziare la produttività del potere e illustrare il processo di assujetissement attraverso molteplici dispositivi, hanno inspirato le analisi della Butler sulla soggettazione in The Psychic Life of Power 1 e le recenti riflessioni di Agamben sull’originario processo di soggettivazione in Che cosa è un dispositivo?. 2 Nell’ambito fenomenologico Bernhard Waldenfels ha tentato di attuare attraverso la figura della diastasi originaria una radicale fenomenologia genetica evidenziando come il soggetto abbia origine da un’affezione che lo precede e che è principio irrecuperabile. 3 In ambito psicanalitico Laplanche ha affermato la priorità dell’altro rispetto al soggetto descrivendo il processo dell’implantazione. 4 In questo contesto teorico, le riflessioni di Olivetti si segnalano per profondità ed orginalità. Il presente saggio intende sottolineare la rilevanza del contributo di Olivetti per l’analisi dei processi della soggettivazione soprattutto in rapporto alla complessa relazione che sussiste tra la seconda e la terza persona. In Analogia del soggetto, Olivetti evidenzia la radicale trasformazione della soggettività operata dalla filosofia levinasiana.5 La portata di questa trasformazione diventa pienamente intellegibile all’interno del quadro della filosofia trascendentale : negli scritti di Levinas si manifesta una nuova e forse decisiva configurazione della soggettività intesa come inversione/denucleazione della appercezione trascendentale. Il rapporto tra il pensiero di Olivetti e quello levinasiano è particolarmente complesso. A partire dai primi anni ’80, la filosofia di Levinas costituisce probabilmente la fonte d’ispirazione più importante per le riflessioni di Olivetti. Tuttavia questo rapporto non deve essere
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Judith Bulter, The Psychic Life of Power, Standford 1997. Giorgio Agamben, Che cosa è un dispositivo ?, Roma 2006. 3 Bernhard Waldenfels, Bruchlinien der Erfahrung, Frankfuhrt am Main 2002. 4 Jean Laplance, Le primat de l’autre, Paris, 1999. 5 Marco Maria Olivetti, Analogia del Soggetto, Bari 1992. 2
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pensato sotto forma di dipendenza, come se le finissime analisi di Olivetti ricche di riferimenti alle scienze empiriche si esaurissero in una certa urbanizzazione del pensiero levinasiano. Il rapporto tra Levinas e Olivetti – come Olivetti stesso afferma nel suo confronto con Heidegger nel capitolo conclusivo di Analogia del Soggetto : L’equivoco metafisico – deve essere pensato nella forma di un «colloquio pensante» (denkendes Gespräch). La distanza che separa il pensiero di Olivetti da quello di Levinas non si annuncia soltanto in alcune critiche esplicite, ma soprattutto nell’originale rielaborazione dello stesso quadro teorico volto ad affrontare il tema del soggetto. Nel presente saggio intendiamo mostrare l’originalità del pensiero di Olivetti misurando la distanza dalla prospettiva levinasiana in rapporto al tema fondamentale della genesi della soggettività. In questo senso ci soffermeremo sul nesso tra conato, riconoscimento e allocuzione (i.) e sulla rielaborazione del tema del terzo (ii.).
i. Interessamento : bisogno e riconoscimento
Nella filosofia di Olivetti avviene una trasformazione del concetto di conatus e di interessamento rispetto alla filosofia di Levinas. Totalità ed infinito ha come punto di partenza il concetto di psichismo. Lo psichismo è interpretato come un evento ontologico che significa un’assoluta separazione dalla totalità e al tempo stesso una continua opera di identificazione, opera in cui il soggetto si appropria di tutto ciò che incontra. L’io viene declinato qui come dimora, come godimento, come corpo o, nella terminologia di Spinoza, come conatus essendi. Questa opera di identificazione viene messa in discussione dal volto dell’altro : nel momento stesso in cui incontro l’Altro nella sua nudità e si manifesta la mia naturale indifferenza nei suoi confronti, mi vergogno della mia libertà. L’Altro non è più intenzionato ma mi è dinanzi come giudice ; avviene, così, una curvatura dello spazio intersoggettivo che trasforma la distanza in altezza. 1 In Altrimenti che essere non è più ravvisabile quel movimento complesso che caratterizza Totalità ed infinito per cui all’inizio ‘avviene’ l’evento dello psichismo che si separa dal c’è, e poi si incontra l’Altro, che mette in discussione il mio conatus essendi. In Altrimenti che essere l’io è sin dall’inizio per l’altro, votato all’altro : è espulso da sé prima ancora che si insedi in sé, è « costretto prima di cominciare ». 2 « L’io accostato a partire dalla responsabilità è per l’altro, è denudazione, esposizione all’affezione, pura susceptio. Esso non si pone possedendosi e riconoscendosi, si consuma e si lascia andare, si de-situa, perde il suo posto, si esilia […] esposto alle ferite e all’oltraggio, svuotandosi in un non-luogo, al punto di sostituirsi all’altro, non trattenendosi in sé che come nella traccia del suo esilio ». 3 Si manifesta qui un movimento di de-nucleazione del sé per l’Altro che arriva a offrirsi incondizionatamente all’Altro, a sostituirsi a lui, a pagare le conseguenze della sua libertà e ad affermare la scandalosa identità tra essere vittima ed essere eletti. In Analogia del Soggetto, Olivetti propone un’analisi dell’intersoggettività che si differenzia dalla prospettiva levinasiana. Il rapporto tra me e l’altro è interpretato nel senso del conatus : non vi è una contrapposizione tra bisogno e desiderio come in Totalità ed Infinito, ma il desiderio dell’altro è già bisogno, bisogno fondamentale e allo stesso tem
1 Emmanuel Lévinas, Totalité et infini, Den Haag 1961 ; tr. it. a cura di Adriano dell’Asta, Totalità ed infinito, Milano 1998, p. 299. 2 3 Ivi, p. 129. Ivi, p. 173-174.
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po questo bisogno non arriva mai allo scandalo dell’elezione della vittima. Deve essere rimarcato come Olivetti interpreti, in modo sottilmente polemico nei confronti del linguaggio levinasiano, 1 l’atteggiamento morale come conato « di far preservare l’altro nel proprio essere, e nell’essere come proprio dell’altro ». 2 Se la prima parte di questa formulazione è chiara – il prendersi cura dell’adulto mira a far sì che l’altro sia e si mantenga nell’essere –, la seconda parte è più ambigua : cosa significa far preservare l’altro nell’essere come proprio dell’altro ? Questa affermazione intende riferirsi all’originario processo in cui avviene un’appropriazione dell’essere da parte dell’altro. Questo può accadere soltanto linguisticamente ovvero attraverso quel processo di soggettivazione e di riflessività reso possibile da una costituzione semiotica del bisogno, costituzione che ha il suo punto di origine nell’essere interpellato dall’altro. 3 Il concetto di interesse non significa più in senso levinasiano la dimensione ontologica contrapposta alla dimensione dell’altrimenti che essere. In Analogia del soggetto, nella scena interlocutiva l’essere è interesse sia nel senso di un interim, implicante la preesistenza dell’altro, sia nel senso ordinario di interesse ovvero di conatus, ma qui il conatus è conatus per il conatus dell’altro : lo specifico dell’uomo consiste nel fatto che « l’interesse del logos come interlocuzione è riflessivo, è l’essere come interesse esso stesso, come interesse trascendentale ». 4 Olivetti attua una radicale trasformazione del concetto di conatus evidenziando l’essenziale nesso che unisce il riconoscimento e il bisogno : il bisogno di riconoscimento è, in ultima analisi, bisogno del riconoscimento del bisogno. 5 L’accurata descrizione fornita da Olivetti del rapporto infante-adulto nella forma di « riconoscimento-essere riconosciuto » è, a nostro avviso, della massima rilevanza per comprendere la genesi del processo di soggettivazione. Il rapporto di riconoscimento-essere riconosciuto è articolato in quattro momenti che sono essenzialmente interrelati : 1) In primo luogo l’infante è riconosciuto dall’altro. L’inizativa interattiva è detenuta dall’adulto, che interpreta in senso analogico i comportamenti dell’infante. 2) In secondo luogo attraverso i ripetuti atti interlocutivi dell’altro (risposta prima della domanda), il bisognato riconosce il bisognante, riconoscimento che avviene secondo il celebre verso virgiliano risu incipit cognoscere matrem. Stricto sensu soltanto in questo stadio emerge la stessa differenziazione tra bisognante e bisognato. Il rapporto tra i due termini non può essere ancora interpretato in questo stadio come un rapporto di fine e mezzo né di soggetto e oggetto. 3) In terzo luogo il bisognato si riconosce come riconosciuto. Si pensi da un punto di vista linguistico a come inizialmente il soggetto si designi con il nome con cui gli altri lo chiamano : non dice io, ma ‘chiama’ il suo nome proprio. Si rapporta a se stesso partendo dall’altro. In relazione alla corporeità deve essere sottolineato come il corpo del bambino può apparire come metastrumento soltanto attraverso il riconoscersi come riconosciuto, « in cui la soggettività dell’autoriferimento mi è data solo attraverso la mediazione del riconoscimento analogante dell’altro ». 6 4) Infine l’io si riconosce come autocosciente. A questo livello emerge la simmetria della relazione io-tu in cui i ruoli diventano interscambiabili e si istituisce la contem
1 Come già detto, conatus è il termine spinoziano utilizzato da Levinas per definire il movimento centripeto della soggettività che si appropria di tutto ciò che è altro. 2 Marco Maria Olivetti, Analogia del Soggetto, cit., p. 145. 3 4 Ibidem. Ivi, p. 150. 5 6 Ivi, p. 153. Ivi, p. 152.
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poraneità degli interlocutori che si riferiscono a oggetti presenti in un orizzonte comune. L’ultimo stadio dà origine ad una serie di illusioni trascendentali – come l’apparenza disinteressata degli oggetti e l’autonomia del soggetto –, in cui si è obliata la scena dell’interlocuzione. Queste diverse modalità di transzendentaler Schein nascondono e confondono le distinte forme di diacronia che caratterizzano la scena dell’interlocuzione. La diacronia empirica (i) in cui appunto il rapporto tra sé e l’altro è compreso come dialogo tra due soggetti contemporanei può indurre a pensare l’altro come identico a me, a supporre una ragione monologica universale : l’immaginazione dell’uno cerca di proiettare sull’altro se stesso. Nei tentativi di proiezione emerge la strutturale inaccessibilità dell’altro che rivela una specifica forma di diacronia (ii). Questa diacronia che attesta l’abisso tra le soggettività deve essere distinta dalla diacronia originaria implicante un’inversione della intenzionalità per cui il soggetto intenzionale si fa oggetto dell’altro (iii). La nascita del soggetto avviene da un prima che è prima di ogni durata e di ogni richiamo : « Questo irrichiamabile prima-ancora rispetto all’interlocuzione è il prima-ancora dell’essere stati chiamati al mondo dall’allocuzione-prendente-cura rivolta all’adulto, è la presenza già sempre passata dell’altra coscienza rispetto alla presenza, al sum, della coscienza che immagina l’altra coscienza nel proprio presente ». 1 L’appello dell’adulto è interpretato, pertanto, come una risposta prima della domanda che rende possibile la domanda stessa dell’infante. Mi sembra qui rilevante confrontare i risultati raggiunti da Olivetti a riguardo della genesi del soggetto con le analisi di Waldenfes compiute in Bruchlinen der Erfahrung. In questo testo l’esperienza viene interpretata attraverso la figura della diastasi originaria (Urdiastase), che è costituita dall’esser-colpito da qualcosa (Wovon des Getroffenseins) e il nostro rispondere a quanto ci ha già colpito (Worauf des Antwortens). Le analisi di Waldenfels giungono per certi versi a dei risultati analoghi a quelli di Olivetti : l’appello dell’altro è una risposta che anticipa e genera la domanda dell’altro : « Per il bambino, che risponde all’appello, l’appello diventa appello che egli stesso intende attraverso la replica successiva dell’altro che gli viene data e, pertanto, anche sottratta ; poiché il dato può diventare possesso e consumo, ma non così il dare. L’appello dell’altro si fa valere come risposta alla mia propria risposta, che essa produce. Esso si fa valere successivamente, ritornando su se stesso ». 2 D’altra parte, secondo Waldenfels, l’appello non è il fenomeno originario dell’esperienza, ma si costituisce a partire da un’affezione. 3 Proprio l’analisi dei rapporti madre-figlio evidenzia, secondo Waldenfels, in modo concreto come l’appello presupponga sempre un’affezione precedente, affezione che può mostrarsi come appello soltanto con un certo ritardo. A questo punto una domanda sembra essere ineludibile : come pensare o conciliare la differenza tra l’impostazione di Waldenfels che parte da una affezione originaria e l’impostazione di Olivetti che afferma la priorità dell’appello ? Si potrebbe affermare che tra queste due prospettive vi sia una differenza metodologica : la posizione di Waldenfels si mantiene fedele al metodo fenomenologico, descrivendo l’esperienza così
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Ivi, p. 132 Bernhard Waldenfels, Bruchlinien der Erfahrung, cit., p. 117. 3 L’appello dell’altro ha peculiari caratteristiche che la differenziano dall’affezione. Tra queste rileviamo le seguenti : 1) l’appello è rivolto proprio a me, in senso singolare ; 2) il dire dell’altro è allo stesso tempo un dire qualcosa e un pretendere un mio rispondere a quanto è stato da lui detto. Vi è una pretesa da parte dell’altro che la mia risposta entri nel merito della questione. Cfr. Idem, Bruchlinien der Erfahrung, cit., p. 74. 2
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come originariamente accade al soggetto, mentre la posizione di Olivetti compie un passo ulteriore, un trascendimento di tipo metafisico. Questa affermazione travisa tuttavia lo status quaestionis. In realtà non è possibile – sia nella prospettiva di Waldenfels che in quella di Olivetti – portare a datità da un punto di vista fenomenologico la situazione originaria, in quanto la genesi della soggettività presuppone una diacronia ineliminabile. La distanza tra le due posizioni si assottiglia, inoltre, se si considera che nella prospettiva di Waldenfels soltanto attraverso i ripetuti appelli dell’altro (e il riconoscimento dell’infante di questi appelli) emerge la distinzione tra l’altro, sé e la cosa. 1 Lo schema illustrato da Olivetti riguardante il rapporto genetico tra infante e adulto alla luce del riconoscimento si avvale della ricerca empirica, ma ha un significato che deborda l’empiria. Essa ha un valore trascendentale in quanto identifica le condizioni stesse che rendono possibile l’autocoscienza : il soggetto come autocoscienza è reso possibile dall’allocuzione originaria che assume l’altro come tu, facendolo così nascere come soggetto e come autocoscienza. Senza quest’allocuzione non diventerebbe mai autocoscienza. D’altro canto, Olivetti sottolinea il carattere aporetico del rapporto tra trascendentale ed empirico, termini che si rapportano reciprocamente in forma circolare. Lo schema ha inoltre un valore metafisico. L’analisi genetica del rapporto infanteadulto non deve indurre a sorvolare l’aspetto originariamente etico che riguarda il processo di soggettivazione. Il soggetto costituito allocutivamente, vocativamente è chiamato a rispondere dell’altro : « L’interpellante sguardo altrui, in cui si rivela la traccia del senso, anteriore ad ogni dimensione conoscitiva ed ontica, è il luogo di una dimensione etica “originaria” […], a cui corrisponde il riguardo che io gli debbo ». 2 Olivetti afferma in questo senso l’orignarietà dell’imperativo. Questa tesi sfugge alla critica della fallacia naturalistica perché la dimensione qui descritta precede la stessa distinzione tra essere e dover essere. Il dover essere del fatto precede la dimensione neutra in cui si annuncia l’esigenza o il fatto del dover essere : la prescrittività è originaria. 3 Questa effrazione dell’altro che costituisce il soggetto è intesa come apertura metafisica (e non ontologica) all’esteriorità.
ii. L’equivoco rapporto tra le due forme di terzietà L’appercezione trascendentale non è pertanto origine, ma è risultato del darsi del volto dell’altro che dona il mondo e genera il soggetto. Il rapporto tra me e l’altro non può essere totalizzato da un osservatore esterno attraverso una visione sinottica. Ma non può essere, per così dire, neanche totalizzato dall’interno. Nel volto dell’altro si manifesta la traccia della terza persona. La stessa relazione del faccia a faccia è sempre già mediata dal terzo sia in rapporto al dire dell’altro (a) sia in rapporto al mio rispondere (b). (a) « Egli – il terzo – ha una importanza decisiva nel determinare il dire dell’altro nella sua stessa immediatezza anteriore al detto, ossia nel determinare lo sguardo non (ancora) oggettivato del “volto” ». 4 Questo aspetto diventa particolarmente chiaro se si considera che la stessa memoria – il noi della comunità – ha la sua origine nel fatto
1 In questa sede ci limitiamo ad evidenziare le importanti analogie che sussistono tra la prospettiva di Olivetti e quella di Waldenfels. Un’analisi approfondita del rapporto tra affezione come Pathos nel senso di Waldenfels e l’appello nel senso di Olivetti merita una trattazione separata. 2 Marco Maria Olivetti, op. cit., p. 111. 3 4 Ivi, p. 153. Ivi, p. 90.
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dell’interlocuzione e rimanda al terzo. Nell’elementare processo di analogazione attraverso il linguaggio, la memoria dell’adulto si trasmette all’infante anche e soprattutto a riguardo di esperienze ed eventi che l’infante non può aver esperito e che pertanto si sottraggono alla dimensione del ricordo. D’altronde, all’adulto stesso è stata trasmessa una memoria di eventi senza esperienza che appartiene al noi della comunità. In relazione alla memoria del noi Olivetti evidenzia che « l’estendersi a perdita d’occhio delle mediazioni dell’origine lungo la catena interlocutiva infante-parlante è lo stesso estendersi della comunità fino all’orizzonte della totalità sociale, presente come assente ». 1 Il noi rimanda necessariamente alla terza persona presente come assente : « La memoria – la comunità, il noi – è delimitata costitutivamente – è costituita dall’immemoriale : dalla società, dalla terza persona, sempre assente dall’interlocuzione ». 2 (b) Al tempo stesso il terzo svolge un ruolo decisivo in rapporto al mio rispondere all’altro perché la mia responsabilità per l’altro è sempre misurata dalla mia responsabilità per il terzo e per il terzo del terzo.3 La presenza assente del terzo media il rapporto asimmetrico che sussiste tra me e l’altro. A questo punto Olivetti suggerisce la possibilità di un rapporto tra il terzo come società e il terzo come Illeità : « E se la terza persona del terzo, nella immediatezza del rapporto che essa connota, avesse una qualche relazione con quella terza persona assoluta che Levinas chiama illéité ? » 4 Queste due forme di terzietà in Levinas non solo sono rigorosamente distinte, ma sono letteralmente senza rapporto. La domanda sul rapporto tra le due forme di terzietà non trova seguito nelle analisi di Analogia del soggetto. In uno degli scritti più densi dell’ultimo periodo dal significativo titolo Trascendentale senza illusione, Olivetti tenta di approfondire la relazione tra queste due forme di terzietà. 5 In questo testo Olivetti intende mettere in discussione la tesi heideggeriana implicante un’inclusione del Chi nel dominio ontologico e sottolineare, al contrario, l’irregredibile funzione del Chi. L’essenziale si apre nello spazio dell’interlocuzione in cui avviene una personificazione dell’essere : l’essere ha voce, prende voce e appare nel dialogo in persona ovvero nell’intervallo dell’interlocuzione. L’interlocuzione è una scena che sì presuppone la sincronia funzionale della percezione sinestetica, ma detta sincronia tradisce sempre quella diacronia in cui emerge la preesistenza del tu e la presenza assente del terzo. Il passaggio dal paradigma del ‘cogito’ al paradigma del loquor implica pertanto una scomposizione della presenza in sum ? – prae-es – ab-est. Il passo ulteriore compiuto nel saggio Trascendentale senza illusione rispetto ad Analogia del Soggetto non si manifesta soltanto nella significativa aggiunta del punto di interrogativo dopo il sum, ma si rivela soprattutto nella rielaborazione dell’assenza del terzo, o meglio, nella determinazione del rapporto tra le due forme di assenza del terzo a cui si rapporta il soggetto. È opportuno premettere che le posizioni di Olivetti si muovono su uno sfondo teologico-religioso, e più precisamente, fanno costante riferimento ad una scena di interlocuzione esemplare, eminente : la vocazione di Mosè. L’ambiguità tra etica e teologia nel pensiero di Olivetti è un’ambiguità ancorata all’esperienza stessa, che nasce nell’inquietudine del soggetto, inquietudine della responsabilità che deborda la stessa soggettività : profondità più profonda del soggetto. 6 L’inquietudine del soggetto
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2 Ibidem. Ivi, p. 56. 4 Ivi, p. 90. Ibidem. 5 Marco Maria Olivetti, Trascendentale senza illusione. Ovvero : l’assenza della terza persona, in Etica, trascendentale e intersoggettività, a cura di Carmelo Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 127-140. 6 In relazione alla tesi della persona prima dell’essere, Olivetti afferma che «ciò che viene evocato è la 3
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responsabile, che rimanda alla dimensione religiosa-teologica, ha in questa prospettiva un’eminente pertinenza filosofica. Nell’opera di Levinas, l’Infinito inteso come Illeità mi distoglie da sé per mandarmi agli Altri, « mi costringe alla bontà » per servire Altri e per sostituirmi a loro. Soprattutto nel testo Dio e la filosofia viene chiaramente alla luce l’intimo rapporto che lega il concetto di Dio, inteso come Illeità, alla soggettività nel senso della sostituzione : « Perché il disinteressamento sia possibile nel Desiderio dell’Infinito […], occorre che il Desiderabile o Dio resti separato nel Desiderio ; come desiderabile – prossimo ma differente – Santo. Questo è possibile soltanto se il Desiderabile mi ordina a ciò che è il non-Desiderabile, all’indesiderabile per eccellenza, ad altri. Il rinvio ad altri è risveglio, risveglio alla prossimità la quale è responsabilità per il prossimo, fino alla sostituzione ad esso ». 1 Nel testo Trascendentale senza illusione non solo viene meno il tema della sostituzione, ma soprattutto viene specificato il modo in cui il soggetto risponde all’essere inviato al terzo da parte dell’Illeità. Questa specificazione, che marca la distanza dalla posizione di Levinas, significa al contempo una problematizzazione ed una concretizzazione della risposta del soggetto : essa si problematizza perché il mio essere inviato al terzo comporta un problema di autorizzazione, di legittimità (« chi sono io per essere mandato al terzo ? ») ; si concretizza perché la mia risposta assume la forma specifica di diventare alimento del e per il terzo. La situazione descritta da Olivetti è letteralmente complicata. Situazione complicata che inizia dal non-luogo precedente l’essere della chiamata e che mi invia all’essere per il terzo : il soggetto si ritrova ad essere inviato al terzo, ad alimentarlo infinitamente senza sapere con quale autorità può rivolgersi in verità al terzo e « mantenerlo in vita ». 2 Assalito dai dubbi sulla propria auctorictas, urge la domanda ‘Chi sono io ?’. L’autorità che giustifica la mia autorità non si ritrova in me ma al di fuori di me nella chiamata a cui io rispondo ‘eccomi’. E al contempo questa autorità « è gia presso di me ». Egli dice « Io sarò con te » (Es. 3, 12) promessa e garanzia alla domanda stessa che essa provoca, che istituisce l’alleanza. Olivetti sottolinea qui l’analogia sostanziale che sussiste tra queste due forme di terzietà : il loro non aver volto. La preoccupazione sull’autorità delle mie parole prende la forma nella domanda « Che cosa dirò al terzo quando mi chiederà chi mi ha mandato ? » Il terzo rimane assente, irrappresentabile come il comando che mi invia a lui. L’analogia tra il terzo a cui sono inviato e il terzo che mi invia consiste proprio nel loro non poter avere volto. In relazione alla rielaborazione di Olivetti della terzietà mi sembra importante fare due osservazioni. La prima considerazione riguarda il fatto che « Io sarò con te » è promessa, alleanza e garanzia, ma al contempo rimanda a qualcosa di successivo, ovvero richiede la presenza di segni che confermano l’alleanza. « Io sarò con te. Eccoti il segno che Io ti ho mandato : quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte ». (Esodo 3, 12) La presenza ritardata di un certo segno conferma l’essere
dimensione religiosa e, ancor più, la dimensione teologica, come dimensioni del chi ? e come dimensioni in cui la domanda relativa al significato e la richiesta di significato è in ogni senso orientata al “chi”, anzi a “chi ?». Marco Maria Olivetti, Intersoggettività e religione, in F. S. Trincia e S. Bancalari (ed.), Perspectives sur le sujet, olms, 2007, pp. 21-29, p. 24. 1 Emmanuel Lévinas, De Dieu qui vient à l’idée, Paris 1982 ; tr. it. a cura di Giulio Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Milano 1997, p. 91. 2 Olivetti utilizza il termine «alimentare» per riferirsi ad una dimensione antecedente alla differenzazione tra spirituale e materiale : alimentare significa dire parole di verità al terzo e al contempo mantenerlo in vita.
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insieme, l’alleanza, la legittimità dell’autorità. Questo aspetto non è un aspetto inessenziale, ma centrale. L’alleanza è caratterizzata – per usare la terminologia di Derrida – da una struttura supplementare. La seconda osservazione può essere vista come una precisazione del luogo da cui Egli parla. Il comando non deve necessariamente provenire da un non luogo (il rovo) o dal volto dell’altro, ma può anche provenire dalla propria voce. Non è possibile a priori stabilire da dove proviene la chiamata : le stesse parole della nostra preghiera, che tentano di rispondere a quanto ci inquieta e ci chiama, possono manifestare in sotto-traccia l’Altro.
OLIVETTI E L’AVVENTURA DELLA FENOMENOLOGIA Giuseppe Di Salvatore
L
’im barazzo di scrivere qualcosa sul proprio maestro, su colui che ti ha insegnato le principali vie del pensare filosofico, è l’imbarazzo di partecipare ad un movimento circolare, autoriflessivo. Per quanto, come vedremo, questo movimento sia inerente per più di motivo all’idea di fenomenologia stessa, l’imbarazzo è lenito dal fatto che essere allievo di Marco Maria Olivetti non significa, esemplarmente nel suo caso, essere un ripetitore, bensì tentare di proseguire quel lavoro di maieutica del pensiero che lo stesso Olivetti riconosceva nel suo maestro Enrico Castelli. In questa sede, perciò, non si tratterà solo di tentare di restituire ad Olivetti il suo quanto al tema della fenomenologia, ma di operare anche alcune scelte interpretative nell’intento di descrivere meglio il territorio liminare della filosofia di Olivetti. Si metterà dunque l’accento su alcuni aspetti pertinenti alla sua idea di fenomenologia, che vedremo toccano il proprio e dunque i limiti della filosofia stessa. È difficile parlare della fenomenologia nel pensiero di Marco Maria Olivetti, dal momento che non vi sono testi in cui egli affronti la fenomenologia tematicamente, esplicitamente e soprattutto esclusivamente. Inoltre, il confronto diretto con l’autore più importante della fenomenologia, Edmund Husserl, si presenta sempre solo sotto forma di riferimenti sostanzialmente occasionali o strategici. Eppure, siamo convinti della pertinenza di una riflessione sul rapporto tra Olivetti e la fenomenologia, forse proprio in virtù del fatto che non si tratta di un rapporto con una disciplina particolare all’interno della filosofia. Nel pensiero di Olivetti, infatti, la fenomenologia – e non solo lei – si sottrae ad un trattamento ‘regionale’ (per usare appunto un termine fenomenologico), inserendosi a pieno titolo in un discorso unico, ma non univoco, che abbraccia tutte le discipline. Ora, questo potremmo chiamarlo un discorso di ‘storia delle idee’, laddove il momento storico e il momento ideale si nutrono a vicenda, senza asservimento dell’uno all’altro – come invece spesso accade. Cultura, società, estetica, religione, sono tutti discorsi strettamente interrelati e il cui senso non può prescindere dalla loro evoluzione storica. Ed è nella narrazione di questa storia delle idee che emerge l’elemento che rende questo discorso unico un discorso ‘speciale’, speciale rispetto ai discorsi generalisti a cui infine addivengono le singole discipline : questo elemento è il problema costituito dalla vicenda della filosofia della religione, cioè la faccenda della filosofia della religione. ‘Faccenda’ perché si tratta di una filosofia della religione che a un certo punto della storia si è fatta e che resta ancor oggi ‘da farsi’, essendo per definizione una filosofia che dinanzi al divino o al sacro pensa radicalmente i suoi propri limiti e il suo proprio rigore, fino al paradosso della disdetta e della conferma allo stesso tempo della sua forma prima : la metafisica. A questo punto, non stupirà osservare come in Olivetti l’interrogazione fenomenologica finisca per confrontarsi in modo privilegiato con la questione del religioso, del sacro, dei loro ‘fenomeni’, delle loro manifestazioni. In particolare rispetto a questo discorso unico e speciale, il pensiero di Olivetti pre
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senta una straordinaria coerenza nell’arco della sua vita, per quanto non manchino evoluzioni nell’articolazione interna del discorso che descrive il suo pensiero. Crediamo che il suo atteggiamento nei confronti della fenomenologia abbia assunto nel tempo un carattere sempre più definito, nel senso peculiare che alla fenomenologia egli ha dato sempre più credito, per cui il dominio della fenomenologia si è allargato, il suo ruolo si è approfondito. E sarà dunque qui questione di esibire questo progressivo approfondimento del ruolo della fenomenologia all’interno del discorso unico e speciale del pensiero di Olivetti. Il percorso di questo approfondimento del ruolo della fenomenologia in un certo senso potrebbe coincidere con un percorso storico che ha riguardato la fenomenologia. Seguendo una lettura che si è andata via via consolidando soprattutto in molti fenomenologi contemporanei francesi, si potrebbe dire che la fenomenologia ha vissuto tre tappe storiche che con tratti caricaturali possiamo delineare nel modo seguente : la prima tappa è quella husserliana, in cui un approccio esclusivamente epistemologico della fenomenologia si rivela privo dell’adeguata interrogazione ontologica e ancora bisognoso di appoggiarsi sulla metafisica della sostanza e su un soggettivismo di stampo cartesiano. La seconda tappa è quella heideggeriana, che stabilisce la definitiva emancipazione ontologica della fenomenologia, la quale travolge la separatezza cartesiana del soggetto nell’analitica del Dasein. Si tratta qui di un’emancipazione storica (o ‘epocale’), nel senso che permette di restituire alla metafisica classica il suo senso di ‘oblio della questione dell’essere’ : è così che la fenomenologia si lega a doppio filo con la questione dell’ontoteologia. La terza tappa è quella lévinassiana, in cui si radicalizza la riflessione ontoteologica heideggeriana mettendo in questione l’ultimità della stessa questione dell’essere : con un gesto ancora e/o diversamente metafisico e a partire dalla stessa mossa heideggeriana che pensa l’essere secondo il regime dell’Ereignis, si passa dal privilegio dell’essere (anche nella sua forma iperbolica, l’hyperousía) all’‘altrimenti che essere’, vale a dire al privilegio di un’ingiunzione etica anteriore all’essere stesso. Anche quest’ultima tappa va detta ‘fenomenologica’, per quanto essa richieda una radicalizzazione originale dei principi husserliani della fenomenologia. In quest’ultima direzione si sono mossi dalla metà degli anni Ottanta i lavori di Jean-Luc Marion, un pensatore che presenta molti punti di contatto con Olivetti, tanto da render difficile l’esatta comprensione della loro reciproca influenza. Comprendere la misura esatta in cui Olivetti accoglierebbe o si distanzierebbe da questa visione in tre tappe del percorso di approfondimento della fenomenologia implica un confronto serrato tra Olivetti ed autori chiave come Husserl, Heidegger, Lévinas. Oltre a esser questo un compito spropositato in questa sede, sarebbe anche un compito particolarmente difficile, considerata la quasi totale mancanza di un confronto diretto e testuale (nel senso dell’esegesi del testo) da parte di Olivetti nei confronti di questi autori. Sarà utile però segnalare un punto a nostro avviso decisivo : non si tratterebbe per Olivetti di tre tappe storiche separate e successive, ma di tre momenti di un unico movimento di approfondimento fenomenologico. A questo proposito, siamo convinti che il motore di questo movimento è l’attività tematizzante e quindi riflessiva propria della fenomenologia, nel senso di quel movimento di « crescita in riflessività » che Olivetti ribadisce discutendo la fenomenologia di Paul Ricoeur. 1 Siamo indotti a mettere in risal
1 Vedi Réponse à l’exposé de Paul Ricoeur, « Archivio di filosofia », liv, 1-3, 1986, Intersoggettività, socialità, religione, a cura di Marco Maria Olivetti, p. 35.
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to il carattere della riflessività nella lettura olivettiana della fenomenologia anche, tra l’altro, per la fortissima enfasi che Olivetti pone su questo carattere in uno dei pochissimi testi esplicitamente dedicati alla fenomenologia, Fenomenologia e filosofia analitica. 2 In questo testo si mette particolarmente l’accento sul fatto che la riflessione è iterativa, cioè può divenire riflessione della riflessione, riflessione doppia – per cui anche auto-riflessione. Infatti, il referente dell’intenzionalità fenomenologica, per esempio una cosa (nel mondo) a cui ci si riferisce nella relazione intenzionale, è di fatto trascendente : non si può riflettere su di essa, perché sfugge alla tematizzazione da parte dell’intenzione ; essa non è l’oggetto intenzionale ma il referente di tale oggetto, ovvero ciò a cui tale oggetto si riferisce, meglio : ciò a cui con tale oggetto ci si riferisce nella relazione intenzionale. Non potendo di fatto riflettere su di essa, non possiamo che riflettere su questa riflessione, sulla possibilità/impossibilità di questa riflessione. Quando il referente della relazione intenzionale è il referente dell’esperienza religiosa, trascendente per eccellenza, allora si mostra chiaramente la necessità della doppia riflessione, cioè del carattere iterativo della riflessione. Rispetto a questo carattere di riflessività doppia della fenomenologia, dunque, possiamo dire che la fenomenologia figura nel discorso speciale di Olivetti (la cui specialità – lo ricordiamo – è data dalla questione filosofica della religione e del religioso) come il momento riflessivo, tematico, dunque il momento determinante – e lo diremo in un senso letterale e non. Se la riflessività doppia si volge a se stessa, se è auto-riflessione, allora essa descriverà un movimento di ‘inversione’. Questo significa che con la riflessività doppia la dimensione trascendentale stessa si apre alla sua ‘inversione’ : per esempio, l’immanenza dell’orizzonte fenomenologico si apre alla trascendenza di cui l’orizzonte è limite ; o anche : il gesto soggettivo-costruttivo dell’oggettivazione e della tematizzazione si apre al gesto (auto-)distruttivo e decostruttivo che rende periferico il soggetto oggettivante e tematizzante – quest’ultimo gesto permetterebbe una paradossale descrizione del soggetto dal punto di vista dell’oggetto. E ancora, questa inversione del trascendentale può radicalizzarsi fino a delineare un’inversione della trascendenza implicata nella dimensione trascendentale : con il movimento della riflessività doppia, infatti, lo stesso trascendimento proprio del momento referenziale nel dispositivo intenzionale (il fatto che il referente è trascendente rispetto alla relazione intenzionale che si riferisce a quello) si apre all’‘auto-trascendimento’ 3 da parte del referente stesso. Quest’ultima inversione significa che la trascendenza del referente non è qui un assunto deducibile dalla logica della relazione intenzionale, ma anticipa questa logica, si impone a lei, ne apre lo scenario. 1
1 « L’entreprise hégélienne est certainement la tentative la plus grandiose de rendre justice à ce mouvement », il movimento circolare della doppia riflessività, che chiude ed apre allo stesso tempo, cioè il movimento dell’argomento ontologico (L’argument ontologique et la philosophie contemporaine. Introduction aux travaux, in L’argomento ontologico, a cura di Marco Maria Olivetti, Padova, cedam, 1990, p. 16). In questo senso potremmo osservare come questo carattere della riflessività, pur essendo proprio della fenomenologia, ha una storia ben più antica, che dunque lega la fenomenologia alla tradizione della filosofia moderna (infatti, il famoso argomento ontologico nella sua formulazione ancor oggi abituale è detto giustamente risalire più a Kant che ad Anselmo). 2 Fenomenologia e filosofia analitica : una nuova relazione ? Questioni di filosofia della religione, testo di una relazione tenuta a Chicago nel 1984 ; poi pubblicata in « Archivio di filosofia », liv, 1-3, 1986, Intersoggettività, socialità, religione, a cura di Marco Maria Olivetti, pp. 761-778 ; in seguito in Analogia del soggetto, Bari-Roma, Laterza, 1992, da cui citiamo. 3 Su questa nozione olivettiana, vedi a partire dalla sua introduzione ne Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Roma, Abete, 1967, pp. 57 sgg.
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Sarebbe interessante, ma certamente laborioso, mostrare come secondo l’andamento di questa inversione propria del movimento della riflessività doppia si potrebbe seguire l’approfondimento della fenomenologia indicato in linea di massima dai tre autori : Husserl, Heidegger, Lévinas. Lo lasciamo qui a mo’ di spunto per un’indagine ulteriore. In particolare, si segnalerà che, se il movimento della riflessività doppia si incentra sulla questione della referenza nell’intenzionalità fenomenologica (e evitare l’interrogazione sulla referenza significherebbe per Olivetti limitarsi a una dimensione solo ‘illusoria’ del trascendentale), 1 la questione della referenza è un accesso privilegiato alla dimensione ontologica della fenomenologia. Ora, esattamente questa dimensione ontologica viene giustamente ribadita come il momento cardine dell’approfondimento della fenomenologia, almeno nel senso di una problematizzazione dell’impianto epistemologico della fenomenologia husserliana, e nel senso di un’assunzione della sfida heideggeriana che inizialmente pone la domanda ontologica proprio al cuore del dispositivo fenomenologico. Se il carattere di riflessività va di pari passo con il carattere di tematicità, la questione della riflessività doppia – abbiamo visto – mette in crisi quest’ultimo carattere, almeno nel senso che mette in mostra anche l’eventuale impossibilità di tematizzare. A questo proposito, ci sembra utile precisare che tipo di posizione, posizionamento, postura è in gioco nel movimento della riflessività doppia. Ripetutamente, Olivetti ribadisce che a ciò che è posto non è contrapposto il suo contrario : non si tratta di una determinazione reciproca degli opposti – anche perché, se applicata a termini opposti, l’iterazione della riflessione diverrebbe antinomica o aporetica, e descriverebbe un cattivo infinito. Si tratta piuttosto di articolare i contraddittori, 2 non i contrari : perciò all’antinomia e all’aporia si sostituisce il paradosso (in coerenza con quanto originalmente proposto già da Fichte, quindi Husserl, quindi Lévinas 3). I caratteri di riflessività e tematicità della fenomenologia, dunque, non vanno articolati secondo una dialettica oppositiva, almeno nel senso di una dialettica che muove a partire dalla contrapposizione includente ed escludente di tesi e antitesi, o ancora a partire dal vecchio adagio spinoziano determinatio seu negatio. Il carattere di tematicità della fenomenologia non andrà trattato nel senso ‘semplice’ (sine plica – ci ricorda Olivetti) per cui il posto è opposto al non posto, e il posto topico è opposto all’assente, secondo la logica del bianco e del nero, del pieno e del vuoto, del sì e del no, logica che fornisce la sola alternativa all’univocità attraverso il silenzio dell’aporia o la cacofonia dell’antinomia. Si tratta piuttosto di mettere in luce la logica contraddittoria del paradosso : è questa a descrivere il limite della fenomenologia con la questione della referenza. Il carattere di tematicità, allora, sarà necesariamente complesso, di modo che nelle pieghe del suo (com-)plesso possano convivere i contraddittori. In definitiva, la messa in crisi della tematicità (nella riflessività doppia) non significherà il suo scacco, ma la necessità di una sua complessificazione. Questo punto è importante perché permette di legittimare la pertinenza fenomenologica della questione della referenza e con essa della questione della trascendenza. Nel carattere complesso
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A questo proposito, Olivetti si riferisce al transzendentale Schein kantiano, cfr. Trascendentale senza illusione. Ovvero : l’assenza della terza persona, in La persona e i nomi dell’essere, a cura di Francesco Botturi, Francesco Totaro, Carmelo Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2002, vol. 1, p. 430. 2 Ne Il tempio simbolo cosmico (cit.) i contraddittori tenuti insieme dal tempio sono l’‘essenza dell’ente’ e il ‘totalmente altro’ ; vedi anche l’esplicito passaggio che distingue tali contraddittori dai contrari a p. 31. 3 Cfr. Analogia del soggetto, cit., pp. 76-77 ; qui Olivetti fa comunque notare che sulla questione del ‘soggetto’ i tre autori non possono essere accomunati.
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della tematicità, il referente trascendente non va espulso dall’orizzonte fenomenologico, ma integrato come momento paradossale e contraddittorio. Per mostrare come possa essere descritta questa complessità della tematicità, 1 si può richiamare l’originale riflessione di Olivetti su Il tempio simbolo cosmico – sua opera prima estremamente densa e ricca – che mette al centro dell’attenzione un esempio e allo stesso tempo un fatto straordinariamente pregnante : il tempio. Il tempio è il luogo, il posto del sacro, del ‘totalmente altro’ (per seguire la proposta di Rudolf Otto), è il luogo delle inversioni dei contraddittori, pietra dello scandalo perché edificazione dell’inedificabile. Allora come simbolo, come esempio, 2 la sua dimensione ‘posizionale’ (‘temenica’ – dice qui Olivetti, secondo il témnein greco, ‘separare’, che fa il témenos, il ‘recinto’, cioè il tempio) esibisce visibilmente l’impossibilità di rendere visibile l’invisibile. Ciò significa che esso non descrive un fenomeno, e giammai il fenomeno del divino, né quello della sua profanazione, ma descrive precisamente i limiti della fenomenalità del fenomeno, 3 descrive fin dove il fenomeno è ancora (e già) fenomeno. Il tempio, termine di contrasto, e dei contrasti delle contraddizioni, fa apparire il mondo per quello che è ; 4 di qui il suo carattere cosmico. Il tempio esibisce l’orlo fenomenale del cosmo proprio nell’articolazione paradossale del carattere di tematicità. Questa capacità di esibire i limiti della fenomenalità si realizza anche sul piano temporale : esso si pone come punto di orientamento, come la caesura del tempo, e allo stesso tempo è un fatto (anche manufatto), un’opera diacronica che conta nella misura dell’insieme di tutte le vicende storiche che ne segnano la fatticità. Non è perciò casuale che del tempio Olivetti analizzi la storia, la storia architettonica che allo stesso tempo è già un’ecclesiologia filosofica. 5 I caratteri di riflessività e di tematicità marcano la fenomenologia con la loro originalità : riflessività doppia da una parte, tematicità complessa dall’altra. La fenomenologia, così, trova una sua importante occasione di approfondimento nell’integrazione paradossale della questione della referenza e della trascendenza. Tutto ciò non solo implica
1 A questo proposito, per quanto non sviluppato in questo senso da Olivetti, si può rimandare al tema fenomenologico husserliano della sinteticità. Criticando l’inevitabile ‘teticità’ (posizionalità) del giudizio brentaniano (affermativo o negativo), Husserl non gli contrappone una nozione di giudizio che faccia a meno della teticità. Al contrario, coerentemente con il ‘programma filosofico’ meinonghiano, che sostituiva la priorità della sintesi sulla tesi a quella della tesi sulla sintesi, Husserl afferma l’essenziale sinteticità del giudizio e di tutta l’epistemologia fenomenologica. Tale sinteticità va intesa nel senso mereologico della priorità e dell’eccedenza dell’intero sulla somma delle sue parti (su cui tanto rifletterà la psicologia della Gestalt) : la sintesi del giudizio è prima e irriducibile alla posizione dei suoi termini. Nel vocabolario più specificamente fenomenologico : la correlazione intenzionale è prima ed irriducibile ai suoi due correlati, il polo soggettivo dell’intenzione e quello oggettuale del riempimento intuitivo. È anche per questa irriducibilità mereologica (tipicamente gestaltica) della correlazione ai correlati che la correlazione è detta ripetutamente da Husserl come a priori. 2 Tra simbolo ed esempio sarebbe bene operare una distinzione ; per quanto la peculiare lettura olivettiana della nozione di esempio, che qui non abbiamo modo di enucleare, permetterebbe l’accostamento con la nozione di simbolo più di quanto si immaginerebbe normalmente. 3 La questione del tempio, come qui posta, fa evidentemente il paio con la questione filosofica della rivelazione : più tardi Olivetti affermerà che tale questione può essere riformulata esemplarmente nel momento in cui « la phénoménologie se pose le problème d’autrui et même de la phénoménalité du phénomène », Avant-propos, in Filosofia della rivelazione, a cura di Marco Maria Olivetti, Padova, cedam, 1994, p. 14 ; cfr. anche Analogia del soggetto, cit., p. 94. 4 Su questo « far apparire il mondo per quello che è », cfr. direttamente Martin Heidegger, Holzwege, Frankfurt am Main, Klostermann, 1950, p. 31. 5 E la storia architettonica del tempio e l’ecclesiologia filosofica sono scandite dal movimento ‘storico’ della secolarizzazione (e della demitologizzazione), il problema della filosofia della religione.
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la riproposizione dell’interrogazione ontologica al cuore del dispositivo fenomenologico, ma apre direttamente a un posto paradossale, quello dell’assente, che disdice l’ontologia nel senso di una teoria dell’ente presente e allo stesso tempo la ribadisce nella misura della sua differenza dall’ente presente. Il referente è presente in quanto assente, meglio : funge da presente in quanto assente. Olivetti ha discusso a lungo, e su più registri, questa presenza dell’assenza nei termini del funzionalismo, il quale dunque è considerato come una maniera possibile di integrare quel posto paradossale che è al limite della fenomenologia. L’integrazione di un approccio funzionalista ai limiti della fenomenologia 1 rompe l’incantesimo del solipsismo minando il sostanzialismo della libertà e della causa sui (in questo Olivetti si appoggia molto alla teoria sistemica della società di Niklas Luhmann) : la dimensione plurale del sociale scalza il privilegio moderno attribuito al soggettivismo. Olivetti riassume questa tensione critica introducendo la formula dell’abest : questa esprime l’anonimato funzionale della terza persona e allo stesso tempo l’esclusione dell’essere della presenza attraverso il posizionamento dell’essere alla terza persona ; in questo modo l’abest corrode il primato dell’ego sum. La distinzione tra ego sum e abest si concretizza nella distinzione tra due modalità di pensiero, rispettivamente la modalità del ‘pensare x’ e la modalità del ‘pensare a x’. 2 La virtù di quest’ultima modalità sta tutta nel non coincidere, nel passare accanto (e attraverso) alla modalità di pensiero della tematizzazione, dell’oggettivazione : nel ‘pensare a’ l’oggetto del pensiero non è delimitato e dominato dal pensiero stesso, motivo per cui la modalità del ‘pensare a’ costituisce una seria critica al pensare rappresentativo, o per rappresentazioni. 3 Nel ‘pensare a’, l’oggetto a cui pensiamo non è ob-jectum, non è tema : esso resta in ritardo o in anticipo rispetto all’eventuale prevalere della tematicità. È chiaro che la modalità del ‘pensare a x’, articolata a quella del ‘pensare x’, aderisce perfettamente al dispositivo referenziale insito in ogni intenzionalità : se la questione del referente è complementare a quella dell’oggetto intenzionale, allora potremmo dire che ‘pensare a’ è l’esito (preterintenzionale) di ogni pensiero intenzionale. 4 Il punto di vista ubiquitario dell’abest mostra l’inconsistenza di risolvere la coordinazione tra presenza e assenza, ego sum e abest, nei termini dell’analogia entis. L’analogia entis resta tutta all’interno del recinto dell’essere, dell’esser posto e del posto dell’essere. L’analogia entis analoga i presenti, tenendo escluso il terzo, l’assente. Una volta posto il terzo come assente, invece, l’analogia entis non funziona – letteralmente. La sua architettura statica (tematica : i due analogati sono qui e lì) si inceppa dinanzi al funzionare sistemico, sintetico, assente perché ubiquitario.
1 La pertinenza di questa integrazione ci sembra confermata dalla stessa fenomenologia husserliana : la nozione di ‘fungere’ primeggia sin dalla preistoria della fenomenologia, se si pensa a come la gestazione della nozione husserliana di intenzionalità poggi le sue basi sull’operatività e sulla funzionalità delle « rappresentazioni inadeguate » (vedi la Philosophie der Arithmetik del 1890 e i testi a quella coevi). Più tardi, ancora, la nozione di « intenzionalità fungente » (fungierende Intentionalität) giocherà un ruolo cardinale nella fenomenologia di Husserl per la sua valenza sintetica, irridicibile ai due termini della correlazione intenzionale. 2 Per quanto questa distinzione sia estremamente ricorrente nei testi di Olivetti, cfr. in particolare Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, in Intersubjectivité et théologie philosophique, a cura di Marco Maria Olivetti, Padova, cedam, 2001, pp. 13-20. 3 Su questo punto vedi l’ultimo capitolo di Anaologia del soggetto, cit. 4 A questo proposito sarebbe forse corretto tradurre ‘pensare a x’ nell’inglese ‘thinking about x’ : e cosa esibisce la struttura dell’aboutness se non esattamente la reference propria di ogni object of thought ?
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Ne Il tempio simbolo cosmico all’inefficienza della statica analogia entis Olivetti sostituiva la performance dell’analogia fidei, che coordina l’assente e l’ubiquitario tramite il sacramento e la liturgia : la risposta alle deficienze architettoniche della tematicità dinanzi all’esito dell’auto-trascendimento proprio del tempio non poteva che mettere l’accento sulla dimensione dinamica, fungente (nel senso della funzione liturgica), performativa (nel senso dell’evenemenzialità sacramentale) del nuovo tempio, quello contemporaneo e temporaneo. A partire dagli anni Ottanta, in cui la riflessione fenomenologica si fa più esplicita nel pensiero di Olivetti, l’analogia entis è raddoppiata dall’analogia subjecti – cuore e programma del suo opus majus – per la quale l’accento è vigorosamente posto sul significato oggettivo del genitivo. Il genitivo è rigorosamente equivoco, per cui il significato soggettivo di analogia subjecti non è affatto superato o eliminato. L’analogazione che oseremmo dire classica, quella costruttivista che proietta la soggettività nell’altro, alter ego, non è scartata da Olivetti, bensì levata e riconosciuta, ridotta e ripetuta, vi si ritorna congedandosi da lei. E così si apre all’altro significato, quello per cui il soggetto è il prodotto dell’analogazione da parte dell’altro, è – con il Lévinas della sujétion – ‘assoggettato’ : 1 lo è non da parte dell’altro soggetto (previamente analogato dal soggetto primo, alla prima persona), ma da parte di altri, dell’altro-tu, della seconda persona. Così, la seconda persona pre-esiste, analogandomi come soggetto, pre-esiste a quell’ontologia che pure spesso si vuole prima, quella retta dalla prima persona. Tu non è assente, ma esiste, ed esiste anteriormente, nel senso radicale di ‘anteriormente all’esistenza’, nel senso che non posso mettermi nei suoi panni per dire come esiste, e non posso dire se esiste se non a posteriori, perché è lui a farmi esistere. Olivetti assume pienamente le analisi lévinassiane sull’ingiunzione etica per descrivere questo punto centrale della analogia subjecti nel suo aspetto di genitivo oggettivo, dimensione che egli stigmatizza nella formula prae-es. Qui non ci soffermeremo su queste analisi lévinassiane, ma sugli aspetti più originali della loro ripresa da parte di Olivetti. In particolare, vogliamo mettere l’accento su due aspetti cruciali di quest’ulteriore ‘inversione’ nel prae-es che riguarda l’analogia : il carattere linguistico dunque interlocutivo e il carattere normativo e fattuale insieme. L’interesse di questi due caratteri sta nel fatto che entrambi sono esplicitamente connessi alla fenomenologia, e pertanto permettono di comprendere come anche quest’ultima radicale inversione che apre alla dimensione etica può e deve essere pensata in termini fenomenologici. Essi descrivono il più estremo approfondimento della fenomenologia pensato da Olivetti. Che la fenomenologia sia costitutivamente destinata ad una necessaria apertura alla dimensione linguistica è un punto che Olivetti ripete instancabilmente in tutti i suoi testi che incrociano la questione dello statuto della fenomenologia, ed in particolare nel suo Fenomenologia e filosofia analitica. 2 In parte seguendo la pista battuta da Ricoeur, Olivetti mostra come proprio la riflessività sia direttamente e non inversamente proporzionale al linguaggio : l’interiorità della riflessione e l’esteriorità del linguaggio si accrescono reciprocamente. 3 In particolare, « l’insuperabilità del linguaggio e l’irraggiungibilità di una riflessione pura sono la conseguenza della doppia riflessività » stessa : 1 è
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Peraltro l’analogia fidei che Olivetti proponeva nel 1967 era già in un certo modo l’anticipazione di questa analogia subjecti nel senso dell’‘assoggettamento’, visto che l’analogia fidei era infine definita come « realizzazione del soggetto come sacrificio del soggetto » (Il tempio simbolo cosmico, cit., p. 147). 2 3 Testo citato alla nota 1 di p. 99. Cfr. Réponse à l’exposé de Ricoeur, cit., p. 37.
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quest’ultima ad essere la ragione dell’equilibrio dinamico della comunicazione in quanto linguistica. Qui Olivetti non fa che rinnovare l’obiezione ‘metacritico-linguistica’ di Hamann e Herder contro il purismo kantiano mostrandone la necessità : l’eventuale carattere dialettico della riflessione si precisa allora in carattere dialogico 2 ed interlocutivo. « Se l’intenzionalità della conoscenza è pensabile, o ha potuto esser pensata, come intenzionalità cogitativa, l’intenzionalità del riconoscimento [che implica la riflessività] non è pensabile che come interlocutiva ». 3 Le citazioni in questo senso potrebbero facilmente moltiplicarsi ; è qui importante sottolineare come l’apertura alla dimensione linguistica significa al contempo « la restituzione dell’essere al linguaggio », secondo un movimento inverso a quello operato da Heidegger. 4 L’ontologia fondamentale si trova così articolata (e frammentata, sfondata, esplosa) nell’interlocuzione delle tre persone ego sum – prae-es – abest : al cuore dell’interlocuzione v’è l’allocuzione che assoggetta l’ego analogandolo. 5 La parabola (anche storica) della fenomenologia husserliana che parte dalla dimensione cognitiva per introdursi in quella linguistica crea un chiasmo con la parabola (anche storica) di direzione inversa della filosofia analitica. Distanti ma complementari, le due filosofie si ritrovano insieme non tanto nell’esito funzionalistico (sul cui piano pure troverebbero tanti punti di contatto), quanto in una critica all’a priori e al trascendentale : il linguaggio si impone come fatto prima ancora di porsi nella sua dimensione comunicativa come l’ennesimo trascendentale. In questo senso, Olivetti ribadisce più volte come ciò che accomuna fenomenologia e filosofia analitica non sia solo la dimensione linguistica, ma più precisamente quella ‘pragmatico-linguistica’, dunque la comunicazione come situazione pratica di interlocuzione. Ora, questa situazione dell’interlocuzione è certamente una conditio sine qua non, un trascendentale, forse il più irrisalibile dei trascendentali. Eppure l’agente muto di questa situazione, la comunità dei comunicanti come comunità possibile, è sempre anticipata, geneticamente, dal fatto e dal fenomeno dell’allocuzione da parte di tu che analoga il soggetto chiamandolo per nome, dandogli (o prestandogli) il nome. Qualcuno potrebbe qui rilevare che Olivetti non rispetti il rigore descrittivo e funzionale del trascendentale, vale a dire della sfera solo immanente della fenomenologia la quale riduce, mette tra parentesi l’interrogazione genetica, l’interrogazione sui fatti. Ma questa accusa non terrebbe conto di quanto è stato già detto : che la questione della trascendenza, ovvero della referenza, è ben pertinente nella fenomenologia ; pertanto, la necessaria coordinazione di tale questione con la sfera immanente della fenomenologia riapre le porte proprio a un’interrogazione genetica. In una discussione del ‘principio dei principi’ husserliano, che Olivetti ha tenuto nelle sue lezioni universitarie del 2004 (e nella discussione privata che ne è seguita), troviamo un’ulteriore legittimazione della pertinenza di questa apologia del fatto e dell’interro
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Analogia del soggetto, cit., p. 207. Sull’appaiamento di dialogico ed analogico, cfr. Pensare senza rappresentazione ?, in La ricezione italiana di Heidegger, a cura di Marco Maria Olivetti, Padova, cedam, 1989, p. 542. 3 4 Analogia del soggetto, cit., p. 148. Cfr. Ivi, p. 212. 5 Tra le molteplici vie tracciate da Olivetti per introdurre la dimensione linguistica a partire dalla fenomenologia, riteniamo importante citare quella che parte da una considerazione fenomenologica della nozione di ‘corpo’ nel senso del Leib husserliano. Vedi a tal proposito le acute analisi nel quarto capitolo di Analogia del soggetto e la ripresa lévinassiana della questione dell’incarnazione nei termini della « carne (chair) che si fa verbo » (secondo l’inversione dell’affermazione del Vangelo di Giovanni ; vedi l’Introduction a Incarnation, a cura di Marco Maria Olivetti, Padova, cedam, 1999, p. 18). 2
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gazione genetica all’interno del paradigma di una fenomenologia fedele ai principi husserliani. Secondo Olivetti, il principio dell’‘intuizione originariamente donatrice’ come sorgente ‘di diritto’ della conoscenza spiega il paradosso della coincidenza del primato della possibilità – si tratta di un principio di diritto, una condizione di possibilità, un trascendentale, un a priori – e del primato della datità (Gegebenheit), vale a dire del primato del fatto. Per quanto ci possiamo preoccupare di distinguere il fatto metafisico costituito dalla datità trascendente e il fatto dell’intuizione costituito dalla datità sensibile, l’ambiguità modale tra possibilità ed effettività non si risolve : l’intuizione comunque sembra porre al centro della fenomenologia un fatto nella sua irriducibilità che si vuole irriducibilità di diritto. Scorgiamo ancora una volta quell’inversione ricorrente nella fenomenologia olivettiana : al cuore dell’a priori e del trascendentale dimora un fatto, un a posteriori. Il de dicto della teoria è necessariamente abitato dal de dicto fattuale, de re, dell’interlocuzione. E questa modalizzazione del detto nel fatto del dire, questa modalizzazione che riguarda il linguaggio, è già presente nell’inversione olivettiana dal cognitivo al linguistico : il passaggio – su cui Olivetti tanto insiste – dal cogito al deponente loquor si precisa infatti come passaggio « vom “Prinzip” cogito zur “Tatsache” loquor ». 1 Ma a questo punto dobbiamo di conseguenza rimettere in discussione l’altro principio cardinale della fenomenologia, quello della riduzione, dal momento che ci troviamo dinanzi all’apologia di un fatto irriducibile ? Non si arretra con ciò la fenomenologia a un privilegio della datità : del dato sensibile, rischiandone un tradimento neo-empirista, o del dato trascendente, rischiandone un tradimento neo-metafisico ? Nient’affatto, secondo Olivetti, perché l’apologia del dato non cancella e non assolve i diritti e i doveri che il principio trascendentale ha sul dato. Quest’ultimo, dono che rinvia a una donazione, è difficile da pensare per quanto sia inevitabile pensare a lui. 2 C’è qui un rispetto della lontananza del dono a cui si pensa e non che si pensa, di una lontananza che descrive lo spazio della diacronia in cui il dono, il ‘presente’, non può che essere pensato. In questo spazio diacronico l’indicativo presente del fatto della datità si converte nell’imperativo che dice il debito : « al di là della filosofia del soggetto e della fondatività, si tratta di far risuonare nel ‘sempre già’ la diacronia non sincronizzabile, facendo cadere l’accento, semmai, sul ‘già’ più che sul ‘sempre’. Questo non significa ridurre il trascendentale al dato, bensì ricondurlo al debito ». 3 Ecco in che senso la riduzione fenomenologica è mantenuta, nel senso di un mantenimento, accanto al primato del fatto, non tanto del primato della possibilità quanto del primato della normatività. 4 La normatività, così, si impone come carattere centrale della fenomenologia. All’imbricazione modale (non oppositiva) già considerata di de dicto e de re si sovrappone la ancor più importante imbricazione di de jure e de facto. Olivetti riprende l’analisi e la logica dell’ought 5 non tanto per mostrarne l’inaggirabile fattualità, vale a dire per rivendicare il fatto della simmetria, della reciprocità, della reversibilità – con una movenza che sarebbe naturalizzatrice più che fenomenologica. Anche discutendo criticamente le
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Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, cit., p. 15. Introduction, in Le don et la dette, a cura di Marco Maria Olivetti, Padova, cedam, 2004, p. 14. 3 La persona come debito ontologico, « Protestantesimo », 51, 1996, 2, p. 182. 4 Nella critica all’argomento ontologico, non solo l’esistenza è riabilitata rispetto al primato dell’essenza, ma anche – rispettivamente – il de re rispetto a quello del de dicto, l’a posteriori a quello dell’a priori e – aggiunge Olivetti – la necessità (più che l’effettività) a quello della possibilità ; cfr. L’argument ontologique, cit., e già Filosofia della religione e teoria della società : la crisi dell’argomento ontologico, in La ricezione italiana di Heidegger, cit., pp. 601-618. 5 Vedi, per esempio, Incarnation of the ought, in Incarnation, cit., pp. 171-179. 2
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riflessioni di Karl Otto Apel, Olivetti sottolinea la primitività del ‘dover essere del fatto’ rispetto ad ogni ‘fatto del dover essere’ : in questo senso la normatività è accolta nella sua purezza – oseremmo dire –, e non come fenomeno, come dato. In una prospettiva lévinassiana, è un’illusione che il fatto del dover essere, se non coincide, sia almeno ‘fenomeno’ del dover essere del fatto. 1 La normatività implicata dalla fenomenologia è irriducibile, è il limite irrisalibile della fenomenologia stessa. Fenomeno esemplare di questa irriducibilità della normatività è il paradossale comandamento dell’amore, in cui l’imperativo disturba la spontaneità del soggetto e la normatività si libra senza l’appoggio ad una ragione : esso è quasi una legge senza perché. Con tale normatività la simmetria della giustizia presente è corretta dall’asimmetria del giusto futuro, quello a cui guarda ogni imperativo come tale : « le présent impératif, le don impératif ouvre le futur de l’espérance ». 2 Questo carattere di normatività della fenomenologia, infine, è capace di correggere anche l’eventuale primato linguistico almeno se attribuito alla fenomenologia nel momento del suo approfondimento più radicale, quello etico. Infatti, Olivetti a più riprese critica la sola linguisticità di questo momento : in particolare, egli prende le distanze dal primato ricoeuriano della promessa, e avanza piuttosto il primato normativo del rispetto. 3 In questo nostro scritto, invece della trattazione esaustiva di un solo aspetto della fenomenologia, abbiamo privilegiato la proposizione di una serie di aspetti della nozione di fenomenologia nel pensiero di Marco Maria Olivetti. Li si è presentati qui a mo’ di spunti di riflessione, in uno stato ancora approssimativo, nella convinzione e nell’urgenza almeno di avviare una rivalutazione complessiva del suo approccio speciale, perché globale, ma non specialistico alla fenomenologia. Le tematiche della riflessività, della tematicità, della referenza e della trascendenza, della funzionalità, della linguisticità e infine della normatività, descrivono un percorso di possibile approfondimento della nozione di fenomenologia ; approfondimento che – come detto – trova nel caso dell’esperienza fenomenologica della religione e nel problema della filosofia della religione la sua necessità. Secondo il rigore della logica instabile del paradosso, insidono al cuore della fenomenologia l’allocuzione, la diacronia, l’asimmetria da una parte, e l’interlocuzione, la sincronia, la simmetria dall’altra. « Compresenza diacronica, simmetria ‘corretta’ dalla asimmetria, complessità interlocutiva dell’individualità » sono tutti momenti non di aporia, ma di paradosso da un punto di vista logico. Da un punto di vista storico non possono che essere descritti secondo il rigore della via negationis – aggiunge Olivetti – e « da un punto di vista teoretico vi si ravvisa il retaggio problematico della fenomenologia e, più in generale, della filosofia della soggettività trascendentale, in quanto impossibilitata per principio a risolvere l’aporia dell’intersoggettività ». 4 Alla tematica dell’intersoggettività, così, non possiamo che rimandare per una finale composizione del piano su cui si avventura l’estrema radicalizzazione della fenomenologia. Quanto ad essa, Olivetti loda come preziose le difficoltà contro cui Husserl non si è mai stanca
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Analogia del soggetto, cit., p. 88. Introduction, in Le don et la dette, cit., p. 15. 3 Réponse à l’exposé de Paul Ricoeur, cit., p. 38, dove Olivetti critica contestualmente anche il privilegio che Paul Grice attribuisce alla dimensione linguistico-comunicativa. Sul carattere non primo ma responsoriale della promessa, cfr. La persona come debito ontologico, cit., p. 178. 4 Ivi, p. 179 (sottolineatura nostra). 2
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to di lottare, nel tentativo impossibile di fare dell’intersoggettività un trascendentale : in questo modo Husserl non ha fatto che esibire indirettamente l’impossibilità di tale tentativo, i limiti della soggettività trascendentale, disturbata dall’irriducibilità fattuale dell’asimmetria dell’allocuzione come unica fonte (di diritto – ci viene da aggiungere…) per l’intersoggettività stessa. Ma prima ancora di potersi volgere alla complessa tematica fenomenologica dell’intersoggettività, 1 riteniamo che l’accento debba esser posto specialmente sulla dimensione normativa, per la sua centralità assolutamente strategica nel pensiero di Olivetti e nella sua accezione più radicale di fenomenologia. L’interesse di questa accentuazione sta, tra l’altro, nel fatto che l’apertura diacronica di cui si fa carico la dimensione normativa ci permette di rimettere al centro dell’attenzione quel carattere performativo che già abbiamo rilevato nel momento culminante della originale riflessione di Olivetti sul tempio (in particolare nella finale sottolineatura della sua portata liturgica e sacramentale). Se egli è attento a non dare all’azione l’ultima parola (sulla scia di Lévinas), 2 essa non è l’ultima parola del soggetto, ma è ben una parola che si incunea nella tensione (ultima, meglio : prima, o anteriore) tra il fatto e la sua normatività. La portata dell’imperativo è più che pratica, sì, ma nel solo senso che essa è più che presente, nel solo senso che essa è futura, apre a un’azione come avventura e non come generica attività pratica. 3 Possiamo dunque dire che l’approfondimento (e radicalizzazione) della fenomenologia di cui abbiamo parlato descrive l’orlo avventuroso della fenomenologia : in questo luogo paradossale, che è il luogo di un’ecclesiologia filosofica, temporanea e contemporanea, la tensione tra il fatto e la sua normatività si coniuga come un rispondere all’allocuzione di altri. Solo in questo senso la fenomenologia ha, per modo di dire, voce nel capitolo della filosofia prima, o anteriore, cioè l’etica. Il ‘modo di dire’ della sua voce è quello dell’immaginazione, non rappresentativa, ma avventurosa, che si avventura nel futuro di una risposta all’imperativo che la convoca. Solo in questo senso essa può poi pensare un’intersoggettività, una reciprocità, uno spazio e un tempo interlocutivi. Ovvero : essa è fenomenologia fino in fondo solo nel momento della sua avventura.
1 Rispetto a questa tematica abbiamo il piacere di rinviare alla problematizzazione dell’intersoggettività fenomenologica proposta da Stefano Bancalari in Intersoggettività e mondo della vita. Husserl e il problema della fenomenologia, Padova, cedam, 2003. Oltre alle fini analisi husserliane, si rinvia in particolare all’esito teoretico generale, che assume e prosegue criticamente l’approccio di Olivetti. 2 Cfr. in particolare Analogia del soggetto, cit., p. 74, in cui con Lévinas si nega in particolare al soggetto il fatto di essere originariamente azione. 3 Questa accentuazione sulla dimensione futura ed avventurosa è in perfetta coerenza con l’esito della riflessione di Olivetti di filosofia della religione – non potrebbe essere altrimenti, d’altronde, vista la congruenza di fenomenologia e filosofia dalla religione. Il tempio simbolo cosmico già terminava con una ‘partecipazione all’avventura’ come condizione della possibilità attuale del tempio (e della possibilità dell’ecclesiologia stessa, cfr. p. 147). E ripetutamente, al termine dei suoi scritti, Olivetti menziona la kantiana ‘comunità etica’ oggetto della speranza, o la schellinghiana ‘religione dell’avvenire’ (riallacciandosi così anche a una significativa parte della teologia protestante del xx secolo, da Bultmann a Pannenberg, da Moltmann a Küng).
LA SPIRALE DELLA SECOLARIZZAZIONE. CERCANDO ANCORA NELLA SOCIOLOGIA DI LUHMANN Luca Diotallevi Nonostante […] la sua erudizione in filosofia tedesca e francese, analitica, fenomenologica e pragmatica, in teologia ed in sociologia, il nostro amico non avrebbe potuto riunire il meglio della ricerca mondiale per farlo dibattere veramente se non fosse stato guidato e sostenuto dalla forza speculativa del suo pensiero personale. 1
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on queste parole, ad un anno dalla morte, Jean Luc Marion siglava l’esordio del suo omaggio pubblico a Marco M. Olivetti. A queste stesse parole ci rifacciamo come ad autorevole e solenne testimonianza. Della forza speculativa di Olivetti era parte essenziale e riconosciuta l’attenzione alla questione del sociale e della società. Una attenzione che egli sapeva esprimere magistralmente anche con gli strumenti propri della analisi sociologica. Nello sviluppo di questa attenzione Olivetti incontra l’opera di Niklas Luhmann (1927-1998). Le pagine che seguono intendono offrire un contributo allo scopo di rammemorare teoreticamente questa circostanza e di sondarne potenzialità eventualmente ancora non del tutto riconosciute. L’incontro di Olivetti con l’opera ed il pensiero di Luhmann : tempi, luoghi, contesti teoretici
1. Innanzitutto, non possono essere trascurati i tempi di questo incontro, che si sviluppò come vero ed intenso dialogo intellettuale. Documento ne sono fra l’altro le numerose presenze del sociologo di Bielefeld ai « Colloqui Castelli » e le originali, dense ed importanti pubblicazioni che N. Luhmann offrì all’« Archivio di Filosofia ». A dimostrazione ennesima della serietà e della intensità dell’impegno del ricercatore M.M. Olivetti, possiamo ancora oggi osservare che il riferimento ad un’opera di Luhmann compare per la prima volta nei suoi scritti alla fine degli anni ’70. 2 Così, se consideriamo la storia della ricezione di Luhmann in Italia, non solo nella letteratura filosofica ma anche in quella sociologica, ci rendiamo conto che Olivetti è tra i primi avvertiti della ricerca di quello e forse tra i pochi ad esserlo della attenzione che vi aveva la questione religiosa. 3
1 Jean–Luc Marion, L’inconoscibilità o il privilegio dell’uomo. Omaggio a M.M. Olivetti, dal testo del discorso tenuto a Roma il 29 Ottobre 2007 presso la Facoltà di Filosofia della Università La Sapienza; cfr. supra, p. 23. 2 Marco M. Olivetti, Sociologia della religione, in Lessico universale italiano, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, ad vocem. 3 E che conserverà e forse persiono incrementerà sino alla fine : cfr. il postumo ed incompleto Niklas Luhmann, Notes on the Project ‘Poetry and Social Theory’, « Theory, Culture & Society », xviii, 2001, pp. 15-27.
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Come mostrano le pagine di Analogia del soggetto e degli scritti successivi, il confronto con Luhmann resterà una costante del pensiero di Olivetti. 2. In secondo luogo, se queste considerazioni possono risultare ancora meramente indiziali, è passando al merito che ci si rende conto del carattere non marginale che assume per Olivetti l’incontro con Luhmann. Decisivo, a questo proposito, è il luogo teoretico nel quale si verifica l’incrocio tra i due itinerari di pensiero. Tale luogo, poi, resta sostanzialmente stabile 1 e riveste un carattere decisivo. Più esplicitamente, il punto di intersezione è costituito dalla questione della società e dalla non scontata possibilità di una teoria della società. Come è noto, per Olivetti si tratta di una questione cruciale. 2 Nella sua prospettiva, il problema della società appare per un verso come problema della relazione tra il costituirsi della società ed il costituirsi del senso e, per altro verso, come problema del rapporto (eventuale) tra la relazione appena citata e la religione. 3 Ora, lo spartiacque della modernità, la crisi della modernità ovvero la modernità come crisi, separa il fatto e la condivisa legittimità di questo rapporto, in quanto rapporto di fondazione (nel senso più ovvio del termine), dall’affermarsi della critica rivolta al valore fondativo di questo rapporto, e, a volte, alla sua possibilità tout court. Con il verificarsi delle trasformazioni sociali e culturali della modernità, quelle stesse che tra l’altro hanno ridotto l’influenza sociale della religione, per Olivetti si dà un’opportunità che il pensiero non deve lasciarsi sfuggire. Il fatto che mi sembra degno di considerazione – scrive – è che proprio le teorie contemporanee della società pongono il problema del senso al centro della definizione, o quantomeno della comprensione della società ; e questo avviene nel momento in cui la società secolarizzata elimina la pronunzia pubblica del nome di Dio come condizione della propria fondazione e costituzione.
Ovvero : attraverso quelle trasformazioni la chiesa diviene « l’unico luogo pubblico in cui ha luogo, appunto, la pronunzia del nome di Dio ». 4 È per tale via che il problema della società appare come problema della relazione tra società e costituzione del senso, ma anche come problema che rivela una qualche relazione, poco importa se (apparentemente) positiva o (apparentemente) negativa, con la pronunzia pubblica del nome di dio, o con la religione più in generale. In sintesi, il problema della società non è altro dalla questione ecclesiologica o dalla questione della secolarizzazione. 5 La ecclesiologia filosofica incontra la teoria sociale
1 Ciò è facilmente osservabile mettendo a confronto i riferimenti che si susseguono dal momento della comparsa della attenzione per N. Luhmann (cfr. Marco M. Olivetti, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, « Archivio di filosofia », xlviii, 2-3, 1980, pp. 429-447) sino alle ultime opere di Olivetti (ad es. il primo capitolo di Analogia del soggetto). 2 E non tale solo per la sociologia e per una singola tradizione filosofico/teologica, per la sola tradizione fenomenologica o per la sola tradizione analitica (cfr. Idem, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 223-225). 3 Idem, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., pp. 433-434. 4 Ivi, p. 434. Cfr. anche Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 15. 5 Cfr. ivi, p. 19. In termini molto diversi da quelli che saranno poi di John Milbank, Theology and social theory, Oxford, Blackwell, 1990.
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perché nominar-dio, autoreferenza e totalità sociale sono per il pensiero questioni impossibili da isolare ed allo stesso tempo impellenti. Così si giunge all’interrogativo : è possibile una teoria della società ? Ed è per questa eventualmente possibile comprendere la relazione tra costituzione del senso e religione, ed in quali termini ?
3. La filosofia della religione è dunque chiamata a fare i conti con la questione della società, comunque etichettata, e ciò spiega il confronto con le teorie della società in cui Olivetti si impegna. La sua sintesi, assai efficace, individua alla fine due alternative. Sarà il caso di dedicarci al problema della società come sistema di senso in relazione specificamente alla questione della secolarizzazione, dell’autofondazione e dell’illuminismo. Ciò comporterà che il discorso si svolga, poi, in dialogo critico con alcune importanti proposte del pensiero contemporaneo : la teoria sistemica della società e la teoria critica della società nella sua configurazione habermasiana, alla quale si è apparentata la teoria della comunità di comunicazione di Apel. 1
Dunque : Luhmann da un lato ed Habermas (ed Apel) dall’altro. Agli occhi di Olivetti, è attraverso queste voci che la teoria contemporanea della società offre i suoi contributi migliori e – nell’alternativa – tipici. Dagli inizi degli anni ’80, 2 nel pensare di Olivetti Niklas Luhmann riceve e conserva questo rango 3 e questo ruolo di interlocutore privilegiato. Ciò sarebbe sufficiente a giustificare una attenzione seria al confronto tra Olivetti e Luhmann, ma c’è dell’altro e di più. Pur non esentando da critiche la riflessione del sociologo di Bielefeld, Olivetti non si limita a riproporre la Auseinandersetzung tra questi ed Habermas, 4 ma esprime una chiara preferenza per Luhmann.
Le buone ragioni della teoria sistemico-funzionale della società tornano a farsi valere nei confronti delle affascinanti suggestioni della comunità di comunicazione […]. La sostituzione – operata dalla teoria sistemico-funzionale – della riflessività (del sistema) alla riflessione (trascendentale) sembra più realistica e teoreticamente più consistente. 5 1
Idem, op. cit., p. 14. Idem, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., pp. 435 ss. 3 Un altro segnale del valore attribuito a Luhmann da Olivetti è costituito dal porlo immediatamente accanto a quella che riteneva l’opera che aveva ridato piena dignità teorica alla impresa sociologica, chiudendo la parentesi segnata dalla egemonia della sociografia (cfr. Idem, Sociologia della religione, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, ad vocem, p. 364), l’opera di Berger e Luckmann dedicata alla realtà come costruzione sociale, affiancamento che resisterà fino all’Analogia del 1992 (p.235). In seguito, sarà Luhmann a prevalere offrendo l’esempio di una impresa sociologica che, muovendosi nella stessa direzione, riconnette sociologia della religione e sociologia della conoscenza e riconferisce centralità sociologica alla questione religiosa, spingendosi ancora oltre i risultati pur notevoli in questo senso conseguiti dai due autori più in alto ricordati. 4 Cfr. Jürgen Habermas, Niklas Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale ?, Milano, Etas Kompass, 1973 (ed il successivo, intenso e partecipato confronto : cfr. innanzitutto Franz Maciejewski (hrsg. v.), Theorie der Gesellschaft oder Sozialtechnologie ? Beitraege zur Habermas-Luhmann-Diskussion. Supplement i, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1973, e Idem, Theorie der Gesellschaft oder Sozialtechnologie ? Beitraege zur Habermas-Luhmann-Diskussion. Supplement ii, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1974). È come se Olivetti, da subito a conoscenza di quel confronto, riuscisse a rendere più nitide le differenze tra i due autori (cfr. Marco M. Olivetti, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., pp. 435-436). 5 Ivi, p. 439. Olivetti troverà in Luhmann poi anche una critica al motivo habermasiano ed apeliano della intersoggettività ed alla pretesa di un suo uso fondativo e regolativo analoga alla propria (cfr. Idem, Analogia 2
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Insomma, l’incontro di Olivetti con Luhmann ha luogo all’altezza di uno snodo teoretico considerato cruciale dal filosofo italiano : il problema della società, a causa di questo la filosofia della religione deve incontrare la teoria sociale. Nelle pagine che seguono ci concentreremo su alcune delle critiche che Olivetti rivolge a Luhmann. 1 Lo scopo di questa scelta è intenzionalmente funzionale al programma teoretico di Marco M. Olivetti. Esso non viene in alcun modo messo in discussione. Piuttosto, ci si chiede se almeno una parziale riconsiderazione, o forse una revisione, della lettura olivettiana di Luhmann non possa dare ancora più forza a quel programma, non possa, per usare una metafora paolina, mostrare qualche spanna magari sinora non còlta della sua ‘larghezza’ e forse anche della sua ‘profondità’. A questo scopo, è necessario fare almeno alcuni cenni a quanto Olivetti invece accoglie della teoria sistemico-funzionale nella particolare versione elaborata da Luhmann.
Filosofia della religione e teoria sistemico-funzionale Nella versione luhmanniana della teoria sistemico-funzionale Olivetti trova almeno tre elementi convergenti rispetto alle istanze della propria ricerca filosofica. 1. La prospettiva più generale con la quale è compresa la secolarizzazione è quella della differenziazione. La secolarizzazione […] non va interpretata come semplice eliminazione della funzione costitutiva che la pronunzia del nome di Dio aveva in ordine alla società non secolarizzata, bensì come differenziazione che, nella evoluzione di un sistema sociale dotato di alta complessità, assegna quella medesima funzione ad un sistema particolare. 2
È proprio questo che consente a Luhmann, ma non ad Habermas (ed ad Apel), di liberarsi del paradigma hegeliano della secolarizzazione come Auf hebung. Qui il pensiero accettava l’illusione di vedere nella secolarizzazione solo e semplicemente la sostituzione di un ordine sociale chiuso e religiosamente fondato con un ordine sociale altrettanto chiuso e solo altrimenti fondato. Ma ciò che il protrarsi di questa illusione da società moderatamente differenziata – l’illusione che la società totale possa essere regolata dalla estensione di un contesto o di un sistema di senso particolare – occulta, è che « il ritrarsi della nominazione pubblica di Dio nella chiesa corrisponde alla consa
del soggetto, cit., pp. 21-22 e 99 ss.). Ma, « ciò naturalmente non significa che la teoria sistemico-funzionale non vada incontro alle sue difficoltà… », chiarisce Olivetti sin dal 1980. 1 Nel far ciò prescindiamo dal sottolineare l’inasprimento che la critica che Olivetti rivolge a Luhmann subisce dopo la (presunta, anche da Olivetti) Kehre autopoietica di Luhmann. Una analisi di questo inasprimento richiederebbe una previa trattazione delle ragioni e dei limiti (a mio avviso questi ultimi molti e molto forti) presenti nella enfatizzazione delle differenze tra un eventuale primo ed un eventuale secondo Luhmann, il che però appesantirebbe di molto il discorso. Peraltro, nonostante l’inasprimento, dal punto di vista di Olivetti il pensiero di Luhmann non cambia né di rango né di valore, di modo che non ci sembra indispensabile affrontare tale nodo in questa sede. 2 Idem, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., p. 434.
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pevolezza della società altamente differenziata di non potersi identificare con l’ideale regolativo della società totale ». 1 Il giudizio è molto forte, si riferisce ma non si esaurisce ad Habermas (ed Apel).
Come l’illusione della società non secolarizzata era quella che nasceva dallo scambio della totalità indifferenziata delle funzioni con la funzione della totalità (il senso generale delle regole), così anche l’illusione illuministica nasce da uno scambio e da un approfondimento critico ancora insufficiente di ciò che, peraltro, rispetto ad una situazione precedente, rappresenta un indiscutibile rischiaramento. 2
2. La versione luhmanniana della teoria dei sistemi consente di pensare in modo non ontologico, non sostanzialistico, non ontoteologico, la relazione di fondamento tra un differenziato nominar dio ed il processo di costituzione del senso, detto più brevemente : la relazione tra religione e società. Il modello di pensiero usato per dire la referenza al fondamento è invece quello di funzione, 3 che però non può essere menzionato senza la raccomandazione di non trascurare l’abisso che separa il significato di questo concetto in Luhmann da quello reperibile in Durkheim o Parsons. Basti semplicemente dire che è nell’idea di una « fondazione funzionale » – semmai di fondazione ancora si possa parlare – che Olivetti trova rispettata l’esigenza che il « fondamento » – e l’inciso precedente andrebbe ripetuto – mantenga rigorosamente ed ogni volta la forma dell’atto che mentre è posto sfuma, come tipicamente, ma non esclusivamente, avviene per l’atto linguistico. 4
3. In Luhmann Olivetti incontra una sociologia della chiesa. 5 E non una qualunque sociologia della chiesa, od una sociologia della religione che, diligentemente, ad un certo punto venga ad occuparsi anche di chiesa o di chiese. Olivetti incontra una teoria sociale che per suo conto e con i propri mezzi riconosce il medesimo che la filosofia della religione – ad un grado eminente nella Religion kantiana – aveva riconosciuto. Ovvero : che la questione ecclesiologica è un modo attraverso il quale appare, o riappare, ma con inediti elementi di chiarezza (di avvenuto almeno parziale rischiaramento) la questione della società. Infatti, Luhmann, 6 analogamente a quanto fa Olivetti, e proprio grazie alla comprensione della secolarizzazione come differenziazione, riconosce
1
2 Ibid. Ivi, pp. 444-445. Cfr. Marco M. Olivetti, op. cit., p. 434. Per il concetto di funzione in Niklas Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, Il Saggiatore, 1983, pp. 3 ss. e 31 ss. ; Idem, Sistemi sociali, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 81ss. ; Claudio Baraldi, Giancarlo Corsi, Elena Esposito, Glossario dei termini della teoria dei sistemi di Niklas Luhmann, Urbino, Montefeltro, 1991. 4 Cfr. Marco M. Olivetti, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., p. 433, e poi, con una significativa revisione, Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 7 ss. 5 Possibilità ancora negata da tanta recente sociologia della religione e della migliore, cfr. ad es. Mark Chaves, Secularization as declinig religious authority, « Social forces », 1994, pp. 749-774. Cfr. anche Luca Diotallevi, Church, in George Ritzer (ed.), The Blackwell Encyclopedia of Sociology, Oxford, Blackwell Publishing, 207, ad vocem. 6 Cfr. Niklas Luhmann, Funktion der Religion, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1977, innanzitutto il quarto capitolo. 3
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che la secolarizzazione non è di necessità la crisi e neppure la catastrofe della chiesa (nonostante i problemi organizzativi che comporta 1), o meglio ne è la crisi in quanto principio di manifestazione, di apocalisse. La mia tesi – ed è forse bene chiarire che qui è Olivetti che parla 2 – però è che la comprensione della società come sistema o contesto di senso permette di riconoscere nella chiesa un sistema, o un sottosistema, dotato di una funzione peculiare rispetto al sistema generale, e che la secolarizzazione – che qui possiamo definire precisamente mediante il fenomeno della espunzione della pronunzia del nome di Dio nella costituzione di quel sistema generale di senso che è la società – consente per la prima volta [corsivo nostro] di individuare la funzione della chiesa (e della pronunzia del nome che dà luogo alla chiesa) in ordine alla società.
E cosa è la chiesa per Luhmann ? La chiesa è la comunicazione specificamente religiosa. 3 Ma non ogni comunicazione religiosa, od ogni chiacchiera, cagnara, intrattenimento od happening religioso. Chiesa è un comunicare religiosamente specializzato nel quale il nome di dio ricorre – in invocazioni od evocazioni, si direbbe – fungendo da Kontingenzformel, 4 ovvero da strumento essenziale alla operazione nella quale la religione si è specializzata (per ora almeno prevalendo su altri equivalenti funzionali) : la trasformazione della complessità indeterminata in complessità determinata o determinabile. 5 Una operazione semplicemente indispensabile alla costituzione del senso e della società. Come già anticipato, e come un po’ meglio stiamo per vedere, non si può dire che l’incontro con Luhmann sia stato per Olivetti soddisfacente. Tuttavia si è trattato di un incontro che nelle pagine di Olivetti ha lasciato un segno evidente, e da un certo punto in poi permanente. 6 Tale segno appare netto al passaggio tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Se le voci dedicate alla sociologia 7 testimoniano la precedenza della attenzione di Olivetti alla disciplina, i lavori che seguono manifestano delle novità nel modo di trattare alcuni temi.
Olivetti critico della teoria della società di Luhmann « Ciò naturalmente non significa che la teoria sistemico-funzionale di Luhmann non vada incontro alle sue difficoltà », esse « sono però successive e scaturiscono da un livello
1 Cfr. Luca Diotallevi, Il rompicapo della secolarizzazione italiana, Soveria Mannelli (cz), Rubbettino, 2001. 2 Marco M. Olivetti, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., p. 434. 3 4 Niklas Luhmann, op. cit., p. 56. Ivi, p. 82 e 126 ss. 5 Cfr. ivi, p. 33 e poi anche Idem, Society meaning religion – Based on selfreference, « Sociological Analysis », xlvi, 1985, pp. 5-20, e Die Religion der Gesellschaft, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2000. Intendere la chiesa come una particolare forma di comunicazione non implica alcun cedimento alla idea di una chiesa invisibile, impalpabile. Infatti, perché una comunicazione del genere continui a svilupparsi, per quanto insieme pressata ed esaltata, esasperata, dal primato della differenziazione per funzioni della società su ogni forma di differenziazione sociale, cresce – e non cala – la necessità di una relazione di questa con le Leistungen e la Reflexion del sottosistema religioso, ovvero con organizzazioni religiose di tipo ecclesiastico e con la loro capacità di relazionarsi tanto ad altri sottosistemi sociali quanto di riprodurre riflessivamente e magari anche in forma dogmatica (cfr. Niklas Luhmann, Funktion der Religion, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1977, pp. 72ss. e 182ss.) la relazione tra esse stesse, le organizzazioni non religiose e la chiesa. 6 Basti pensare allo spazio ed al ruolo accordati al funzionalismo luhmanniano ed al suo modo di comprendere e dire il nesso tra senso, società, religione e limite nella Filosofia della religione (p. 168). 7 Cfr. Marco M. Olivetti, Sociologia della religione, in Lessico universale italiano, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, ad vocem, e Sociologia della religione, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem, ma già anche Il problema della secolarizzazione inesauribile, in « Archivio di filosofia », xliv, 2-3, 1976, pp. 73-86.
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di rischiaramento superiore a quello della teoria critica o della comunità illimitata di comunicazione ». 1 In breve, insieme a numerosi meriti, 2 Olivetti attribuisce a Luhmann una comprensione ontologizzante della società, la riduzione della società ad una cosa, 3 ad una presenza. A giudizio di Olivetti, per Luhmann la società è ancora una totalità compiutamente osservata « come sistema volta per volta più comprensivo dei rapporti comunicativi ». 4 Una totalità la cui istituzione esige ed ottiene dal soggetto la dimenticanza dei propri limiti, anche solo osservativi. 5 Sin dal primo momento Olivetti individua il costo di questa ontologizzazione : la teoria sistemico-funzionale resta soggetta alla perdita di ogni idealità regolativa. 6 Sappiamo, e comunque non è qui il caso di discutere, quanto importante sia per il pensiero di Olivetti l’approdo alla negazione della società come presenza, 7 semmai essa è una assenza che fornisce un orizzonte non tematizzabile. Né eido~, dunque, né cosa. 8 Solamente questa condizione, infatti, consente che si manifesti come « lo sdoppiarsi del limite in punto di vista e orizzonte apre lo spazio dell’osservazione de-paradossalizzata, e ogni movimento riflessivo condotto sull’uno o sull’altro sfondo di tale campo genera il paradosso ». 9 Dunque, Olivetti, pur apprezzando il contributo di Niklas Luhmann (sino a qual punto lo abbiamo appena visto), anche a lui rivolge la critica di non aver resistito al pensiero della società come totalità presente, alla rinuncia ad ogni regolatività, al gorgo di una contraddizione patita e rimossa.
Ritorno sulle critiche di Olivetti a Luhmann In questa sede non ci assumiamo assolutamente l’onere di una esposizione sistematica della teoria della società contenuta nelle opere di Niklas Luhmann. Né ci preoccupa controllare quale sia stata, e se vi sia stata, nel tempo, una oscillazione od uno spostamento in merito da parte dell’autore. Semplicemente, mantenendo ferma la prospettiva olivettiana, vorremmo richiamare l’attenzione su alcuni elementi del pensiero di Luhmann circa la società, i quali, se certamente non lo esauriscono, altrettanto certamente non ne possono essere espunti e certo lo caratterizzano in modo non trascurabile. Indubbiamente, ma solo in un certo senso, si può dire che per Luhmann la società è una totalità, 10 ma bisognerebbe aggiungere subito dopo che si tratta di una totalità letteralmente infinita, giungendo con ciò – tuttavia – ad una incongruenza alla quale non ci si può arrestare. La società, è vero, include tutte le comunicazioni e dunque per questo si distingue da ciascuna interazione e da ciascuna organizzazione che consistono solo di alcune di queste. Ma ciò non basta per comprendere quali siano le caratteristiche di
1
Marco M. Olivetti, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., p. 439. 3 Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 22. Ivi, p. 26. 4 5 Ivi, p. 20. Ivi, p. 21 e 25. 6 Cfr. Idem, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., p. 445. Olivetti, in proposito, ricorda anche la soluzione proposta da L. Landgrebe (Der Streit um di Philosophischen Grundlagen der Gesellschaftstheorie, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1975), ma, a giudizio dello stesso Olivetti, non accolta da Luhmann (cfr. Marco M. Olivetti, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., p. 435). 7 Cfr. Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 29. 8 9 Cfr. ivi, p. 36. Ibidem. 10 Cfr. Claudio Baraldi, Giancarlo Corsi, Elena Esposito, op. cit. ; Nicolò Addario (a cura di), Teoria dei sistemi sociali, Roma, Carocci, 2003, p. 34. 2
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questo tipo di sistema sociale – un tipo, peraltro, che in regime di globalizzazione, di Weltgesellschaft, ovvero di grado avanzatissimo di quella differenziazione funzionale (e perciò anche di secolarizzazione), raccoglie solo un elemento. Nella teoria della società di Luhmann c’è ancora qualcosa di cui non si può non tener conto. Infatti, seppure anche tra interazioni ed organizzazioni possono essere osservate notevoli differenze, tra queste restano altrettanto notevoli analogie. Al contrario, la società presenta alcune caratteristiche che la rivelano tipo di sistema sociale con tratti molto, molto diversi, anzi ormai come un sistema sociale a proposito del quale non è possibile dire od osservare qualcosa che invece può essere detto od osservato tanto delle interazioni quanto delle organizzazioni. La società è un sistema inosservabile dall’esterno, poiché ciascuna osservazione non potrebbe che essere operata da un sistema che ne è parte, che non se ne può collocare al di fuori. « La società costituisce il caso estremo di autoosservazione policontestuale, il caso estremo di un sistema che è costretto all’autoosservazione, senza agire in questa come un oggetto, sul quale possa esistere solo un’unica opinione corretta ». 1 Di quale ontologia potrebbe mai essere parte una teoria – se è ancora il caso di usare il termine – della società per cui questa non è oggetto ma orizzonte non rappresentabile in modo univoco ? O di quale spirito oggettivo e di quale riflessione assoluta potremmo mai parlare a proposito di società, se, con Luhmann, accettiamo che questa, a differenza di interazioni ed organizzazioni, in nessun caso « può raggiungere sé stessa con le sue proprie operazioni » ? 2 È difficile dire che con questa teoria della società siamo in presenza dell’ennesimo tentativo di concepire un individuo che comprende la classe cui appartiene. E ciò, non solo per la coscienza condivisa dallo stesso Luhmann che questa è una strada impraticabile, ma ancor prima perché il rapporto tra ciascuna delle comunicazioni e la società non è certo quello di una parte con il proprio tutto. Avendo ricordato che per Luhmann la società è un sistema non osservabile dall’esterno, diversamente da quanto avviene per interazioni ed organizzazioni, occorre invitare ad una grande prudenza rispetto alla tentazione di volgere l’affermazione in positivo. Si può dire infatti che la società è un sistema osservabile (solo) dall’interno, ma anche in questo caso è necessario esplicitare almeno alcuni dati che risultano del massimo interesse per la questione che stiamo affrontando. Scrive Luhmann : « il senso di un sistema può essere chiarito solo facendo riferimento ad un sistema più ampio ». 3 Ciò ci condurrebbe ad un insensato regresso all’infinito se non incontrassimo la società come sistema la cui comprensione esige non una referenza (esterna), ma « un approfondimento della sua differenziazione ». 4 Così Luhmann si trova di fronte ad un’alternativa, attraverso la quale affronta il paradosso della teoria dei sistemi – ben noto ad Olivetti 5 –. Per un verso, si potrebbe considerare la società non sistema, ma ambiente. Tuttavia, optare per un ambiente oggettivo e sensato equivarrebbe per Luhmann, esattamente come per Olivetti, a cedere alla illusione mortale e mortifera della ontologia (che,
1 Niklas Luhmann, Raffaele De Giorgi, Teoria della società, Milano, Angeli, 1992, p. 29. L’espressione tedesca è se possibile ancora più forte. «Die Gesellschaft hat also kein Wesen. Ihre Einheit läβt sich nicht durch Reduktion aufs Essentielle erschlieβen» (Niklas Luhmann, Die Gesellschaft der Gesellschaft, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1997, p. 89, cfr. anche pp. 88-91). O, altrimenti detto : « Die Gesellschaft hat keine Adresse » 2 Ibidem. (ivi, p.866). 3 4 Niklas Luhmann, Sistemi sociali, Bologna, Il Mulino, 1990, p.634. Ibidem. 5 Cfr. Marco M. Olivetti, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., 1980, p. 465.
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anche per Luhmann, finisce per essere sempre anche ontoteologia). Per altro verso, c’è la ipotesi – così Luhmann si esprime – « che la società sia un sistema per il quale non esiste, ad un analogo livello operativo, alcun sistema che lo comprende ; ciò significa che non è possibile alcuna comprensione dall’esterno, ma solo auto-osservazione, auto-descrizione, auto-chiarimento delle operazioni ». 1 Ora, non bisogna assolutamente farsi scandalizzare dalla concessione di tali capacità riflessive a qualcosa di non osservabile dall’esterno. Le prestazioni corrispondenti sono garantite infatti sempre e solo da plurimi sottosistemi, differenziati tanto dalla società quanto tra di loro, produttori di descrizioni della società differenti e, come abbiamo visto, mai suscettibili di valutazioni in termini di correttezza/errore. Nella teoria luhmanniana, la società resta e deve restare sistema, perché tutti gli altri sistemi sociali hanno bisogno di operare in un contesto pre-ridotto, con complessità e contingenza elevate quanto si vuole, ma già determinate o perlomeno determinabili ; cosa che non può essere attribuita ad alcun Umwelt. Tuttavia, se sempre l’ambiente sociale di ciascun sistema sociale è costituito da altri sistemi sociali, per ciascun ambiente sociale la società svolge quel ruolo in modo del tutto unico. È il caso di vedere, almeno un po’ più nel dettaglio, come questo avvenga.
Società e interazioni Al fine di ricostruire la sua teoria della società, non possiamo trascurare ciò che Luhmann dice delle relazioni tra le comunicazioni di una interazione e la società, ed innanzitutto che la distinzione società/interazione non coincide con quella sistema/ ambiente. 2 « L’interazione realizza quindi la società grazie al fatto che è esonerata dalla necessità di essere società ». 3 In questa sede, particolarmente ci interessa che la principale notazione esplicativa della differenza 4 interazione/società è svolta con riferimento al tempo.
Le interazioni sono episodi di realizzazione della società. Sono possibili soltanto in base alla certezza che prima dell’inizio di ogni singolo episodio, sia già stata svolta qualche comunicazione che consenta di dare per certa l’esistenza di sedimenti di comunicazioni precedenti ; le interazioni sono possibili, inoltre, solo perché si sa che la comunicazione sociale sarà ancora possibile anche dopo la conclusione dell’episodio. 5 La differenziazione società/interazione può essere intesa solo nel senso che sul continuum della realtà della comunicazione sociale si differenziano sistemi di interazioni : 6
un continuum primariamente temporale. Nella dimensione della temporalità la società si dà solo prima e dopo il presente della interazione, e solo in questo senso si dà sempre anche con questa. In una interazione la società non può essere resa presente. Infatti, tra interazione e società non può essere pensata alcuna indipendenza. 7 « La differenza tra società ed interazione è una struttura
1
2 3 Niklas Luhmann, op. cit., p. 634. Ivi, p. 628. Ivi, p. 629. La società, prima ancora che qualcosa che si differenzia, è presentata come una continua differenza, innanzitutto, da ogni interazione. Ciò potrebbe costituire una risposta alla critica mossa a Luhmann da Olivetti (cfr. Cfr. Marco M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., p. 19) a proposito di una mancanza di coerenza in Luhmann, che assume, anche per mezzo della nozione di differenziazione funzionale, una visione rigorosamente non ontologica ma poi penserebbe ancora ontologicamente la società. 5 Ibidem. 6 Niklas Luhmann, Raffaele De Giorgi, op. cit., p. 319. 7 Cfr. Niklas Luhmann, op. cit., p. 649. 4
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della società stessa ». D’altro canto, non si può neppure concludere attribuendo a Luhmann l’idea che la società sia mera apparenza, una sorta di Schein, qualcosa alla fin fine riducibile ad una mera non esistenza. Resta infatti che tutti i sistemi sociali, per operare, hanno bisogno di contare su di una selettività che nessuno di loro né tutti assieme possono garantire, né che Luhmann intende attribuire all’ambiente.
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La società rappresenta per essi una complessità dell’ambiente che è già stata ridotta. Di conseguenza, è soltanto attraverso la società che essi possono essere sistema. […] La società crea quindi le basi perché altri sistemi abbiano la possibilità di una identificazione specifica. 2
Nel frattempo, ‘società’ si manifesta fintanto e in quanto si dà per scontato che si comunica. 3 Società ed organizzazioni Né si può trascurare quanto Luhmann dice a proposito del rapporto tra organizzazioni e società. 4 Lo status diverso ed eventuale (non necessario) 5 di questo genere di sistemi sociali consente di limitarci ad una semplice notazione. Essa muove proprio dalla non necessità delle organizzazioni. A differenza delle interazioni, si può ben dare sociale e società senza organizzazioni. Ma, è proprio l’illusione di organizzare la società, illusione storicamente verificatasi in alcune aree ed in alcuni tempi della modernità, 6 che ha dato più compiuta espressione e nello stesso tempo ha tentato di offrire un referente empirico al più radicale pensiero onto-teologico della società. È difficile negare che nello stato e nella sua idea e volontà di sovranità assoluta questo processo abbia raggiunto i suoi stadi più elevati. Ciò ci aiuta allora a riconoscere nuovo ed ulteriore significato al primato della differenziazione per funzioni della società su ogni altro processo di differenziazione sociale. Questo, conducendo a livelli mai prima conosciuti la differenziazione fra società e sistema politico, ed ancor di più fra società ed organizzazioni del sistema politico, produce la fine dello stato ; e se c’è una cosa che la modernizzazione avanzata, per consenso davvero multidisciplinare 7 mette in crisi, questa è proprio lo stato, progetto di unificazione organizzata del sistema politico e di organizzata egemonia del sistema politico su tutta la società ; ‘stato’ non per caso detto nella sua versione estrema ‘stato sociale’. Tanto la modernizzazione avanzata è processo che rende la società come mai prima ricca di e dipendente da organizzazioni, quanto la rende radicalmente inorganizzabile, e ciò naturalmente vale anche per ciascuno dei suoi sottosistemi funzionalmente specializzati. Ma cosa è l’organizzazione per Luhmann, se non un processo comunicativo
1
Niklas Luhmann, Raffaele De Giorgi, ivi. Niklas Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, Il Saggiatore, 1983, pp. 165-166. 3 Cfr. Niklas Luhmann, Die Gesellschaft der Gesellschaft, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1997, p. 90-91. Così Olivetti : « Ciò che non appare per ragioni empiriche e non è pensabile per ragioni logiche, in quanto urta contro il paradosso – la società come totalità a cui si estende la analogia soggettiva – rappresenta un orizzonte : il confine di un movimento di analogazione sconfinato, ma sempre interno ad un limite che si sposta con esso » (Marco M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., p. 42). 4 Meditarlo con più calma ci aiuterebbe a comprendere meglio perché, tra i pochi e per ora decisamente inascoltato, Olivetti abbia a più riprese reclamato una attenzione teoretica per il tema della organizzazione e per i risultati della ricerca della sociologia dell’organizzazione. 5 « Le organizzazioni non sono sempre esistite » (Niklas Luhmann, Organizzazione e decisione, Milano, 6 Cfr. Ivi, p. 315. Bruno Mondadori, 2005, p. 311). 7 Cfr., tra le più recenti, la sintesi di Sabino Cassese, Oltre lo stato, Bari-Roma, Laterza, 2006. 2
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consistente in una decisione, ovvero in un potere accettato a priori, in una gerarchia ? Dunque, in sé ma anche manifestamente, al progredire autoriflessivo e perciò non razionalistico della modernità, 1 dell’illuminismo e della modernizzazione, e mentre già da sempre la società si sottrae alla propria riduzione ad una relazione tra volti, allo stesso tempo essa stessa si manifesta anche come irriducibile ad un potere unico e dunque assoluto, si potrebbe dire (e forse si dovrebbe dire) ad un potere ‘sacro’. In una parola, con la crisi dello stato prodotta dal primato della differenziazione funzionale, la società si manifesta come non consistente in alcuna arch, e ciò non perché anarchica ma perché poliarchica. La società, insomma, secondo la analisi di Luhmann, nel corso della modernità avanzata si emancipa dalla egemonia statuale, progetto concepito in un primo periodo ed in una sola provincia della modernità, quella europeo-continentale. 2 La società si manifesta come inorganizzabile ed ultimamente irrapresentabile totalità del sociale, bensì come sistema di tipo particolare la cui selettività sensata è implicata da ogni comunicazione, mai come sistema semplicemente presente, che può descriversi (ma solo differenziandosi), ed in modo inevitabilmente non univocabile. Per conseguenza, uno degli elementi più stabili della teoria della società di Luhmann è che ciò che della società si può osservare e descrivere, sì da studiarne l’evoluzione : ovvero, la forma volta per volta assunta dalla differenziazione di questa. 3 Complessivamnte, nella condizione della modernità avanzata, quella caratterizzata dal primato della differenziazione funzionale della società, 4 tutto quanto in questa sede ci interessa si manifesta ad un grado mai prima raggiunto. Nella modernizzazione avanzata, s’è detto, ma, avremmo ben potuto dire anche : nella secolarizzazione avanzata (non in quella di certa prima modernità, in quella di una illusoria Auf hebung). La differenziazione funzionale, portando ad un livello inedito la differenziazione tra interazioni ed organizzazioni, per un verso lascia sì manifestare più chiaramente la presenza della società, ma nel passato e nel futuro di ogni interazione, dunque : come presenza mai presente. Per altro verso, nel corso di questo stesso processo, la società, manifestandosi inorganizzabile, cessa di poter essere anche solo pensata come stato. 5 Infine, la chiesa, fenomeno societale, si differenzia anche se non si separa o banalmente si oppone alle organizzazioni religiose di tipo ecclesiastico, proprio grazie alle quali invece può funzionare in modo adeguato alle elevate soglie raggiunte dalla complessità e dalla contingenza sociali.
Un processo instabile Appena prendiamo nota dei caratteri essenziali che Luhmann riconosce nella differenziazione funzionale della società, ci ritroviamo alle prese non con una situazione relativamente stabile ma con un processo decisamente instabile. Innanzitutto, si tratta di un processo non predeterminato. L’incremento della differenziazione funzionale comporta un maggior livello di complessità e di contingenza gestibili da parte dei sistemi 1
Cfr. Niklas Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., pp. 74-75. È importante come anche le discipline giuridiche e politologiche riconoscano la esistenza di moderne stateless societies e non per caso nelle province della modernità non europeo-continentale. 3 Cfr. Nicolò Addario (a cura di), op. cit.. 4 Cfr. Niklas Luhmann, Modernità e differenziazione sociale, in Idem, Moderno postmoderno, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 88-97. 5 Il quale, tra l’altro, con il suo regime di civil law, implica anche una de-differenziazione tra diritto e politica. 2
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sociali, e dunque un più elevato livello evolutivo della realtà societale (gesellscaftliche) e di conseguenza anche sociale (soziale). Ciò però in nessun modo significa che da esso non si possa regredire. In direzione retrograda si può dunque sempre andare attraverso un processo di de-differenziazione 1 e di involuzione. Ma non è tutto. Proprio perché ci occupiamo di quanto si manifesta in condizioni di modernità avanzata, una particolare attenzione va prestata ad almeno due caratteristiche del progredire della differenziazione funzionale. In primo luogo, questo procedere non è senza limite. Il processo di specificazione funzionale, motore di quello di differenziazione dei sotto-sistemi, è presentato da Luhmann come un processo infinito ma non illimitato, 2 sebbene – e forse non per caso – di un limite del genere manchi una teoria sociologica. 3 In secondo luogo, per ogni contingenza, e dunque anche per una contingenza-limite, la teoria dei sistemi di Luhmann ed il suo non ontologico funzionalismo delle equivalenze contemplano una molteplicità di assetti societali compatibili ma non compossibili (ed a maggior ragione assetti sociali), ed in particolare una molteplicità di assetti socioreligiosi. Insomma, del processo di differenziazione funzionale della società non solo sappiamo che, nel tempo, può progredire o regredire, ma, del suo progredire, sappiamo anche che non può mai compiersi e che è impossibile affermare che sia uno solo, né a maggiore ragione quale sia, l’assetto societale che consente di permanere in una condizione-limite, né in alcun’altra. In particolare se prossimi al limite, di cui non abbiamo teoria, ciò che Luhmann osserva è una dinamica alimentata tanto da spinte all’incremento di differenziazione, complessità e contingenza, quanto da spinte diverse ed opposte di de-differenziazione. Queste, nell’insieme, si manifestano come variazioni del grado e delle forme concrete assunte dalla differenziazione sociale ed innanzitutto societale. La differenziazione funzionale, ovvero la modernizzazione avanzata, è permanentemente instabile nel grado e nelle forme, e per di più quello e queste possono variare con elevata autonomia reciproca. In condizioni del genere, come potrebbe mai essere attribuito a Luhmann il progetto di una (qualsiasi !) compiuta teoria della società, se almeno per il momento non può darsi una teoria dei limiti (per di più : interni al sistema) di quel processo cui è direttamente proporzionale il manifestarsi della società ? E, ancora, con questa idea di una modernità avanzata mossa da una differenziazione funzionale, che se anche avanza resta infinita ma non illimitata, non siamo di fronte ad un’altra versione dell’« inestinguibile finire la fine » che Olivetti ci presenta come aspetto di quella crisi della ontoteologia che alimenta sé stessa, 4 come margine proprio di un’epoca dalla quale è ridicolo anche solo pensare di evadere ?
Valore regolativo della teoria Se per un attimo ci arrestiamo al pensiero del carattere evolutivo della differenziazione funzionale e del suo destino di sempre diverso e sempre diversamente possibile infinito 1
Con il quale la chiesa viene a soffrire e la dimensione religiosa della società si offusca e si confonde. Con una ipotetica de-secolarizzazione regredisce la specificità della funzione della chiesa così come una sua maggiore organizzabilità verrebbe riguadagnata a spese della gesamtgesellschaftliche Relevanz (cfr. Wohlfahrt Pannenberg, Niklas Luhmann, Die Allegemeingültigkeit der Religion, « Evangelische Commentare » 11, 1978, pp. 350-357). 2 Che poi questo venga chiarito in un testo dedicato alla religione (cfr. Niklas Luhmann, Funktion der Religion, cit., p. 54) meriterebbe ulteriore attenzione. 3 Di una affermazione del genere non andrebbe smarrito il non vago sapore simmelliano. 4 Cfr. Marco M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., p. 236.
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finire, siamo costretti a rivedere un altro degli elementi della lettura della teoria della società di Luhmann che Olivetti ha proposto. Tale teoria – se così si può ancora chiamare – della società non è affatto priva di un valore regolativo. La tensione al limite della differenziazione non si dà attraverso situazioni sociali e societali equivalenti a quelle compatibili con la tensione inversa, ancorché equiprobabili. Valutate in base alla opportunità che le une e le altre offrono al manifestarsi della complessità e della contingenza, 1 esse appaiono di segno opposto. Altrimenti detto, il programma antirazionalistico dell’illuminismo sociologico non considera indifferente il grado di distanza dal limite, ovvero il variare del volume di complessità e di contingenza che un assetto societale consente in un orizzonte ancora capace di senso. Allo stesso tempo, la possibilità di equivalenze non destituisce, ma consente la possibilità di una riflessione critica sulla tecnica, e dunque delegittima ogni pretesa di assolutezza da parte della tecnica stessa. Allora, forse Luhmann ha effettivamente còlto quella possibilità che « la teoria della società si faccia critica », 2 possibilità che a giudizio di Olivetti egli si era invece limitato ad aprire. Che i poteri sociali (economico, religioso, politico, giuridico, scientifico, familiare, ecc.) siano quanto più distinti, non è indifferente rispetto alla situazione inversa, perché genera un incremento di complessità e di contingenza, di eventi equipossibili e non compossibili. Genera un incremento del senso complessivo e del significato di ciascun evento, senza con ciò negare che questo aumento possa essere illimitato. La possibilità del processo di differenziazione funzionale di muoversi in entrambe le direzioni di due dimensioni, quella del grado e quella delle forme (quest’ultima, potendosi forse ancor più adeguatamente pensare come insieme di dimensioni), richiama una certa idea di circolarità, cui anche richiamavano le riflessioni olivettiane sul paradosso e sull’equivoco. Ma a queste dimensioni va aggiunta una terza. Il carattere intrinsecamente temporale della comunicazione, che anche grazie alla società abbiamo visto estendersi verso il passato e verso il futuro (cosa che al singolo evento comunicativo sarebbe altrimenti impossibile), ci impone di tener conto che in Luhmann è presente anche una terza dimensione, quella temporale appunto, questa sì capace di svolgersi in una sola direzione. Con ciò, però, ci si manifesta una pluridimensionalità del sociale che è impossibile ridurre non solo alla linearità monodimensionale, ma anche alla stessa piatta (e dunque bidimensionale) circolarità.
La breve ricognizione appena conclusa non si proponeva in alcun modo di mostrare una coincidenza tra la teoria della società di Luhmann e quella di Olivetti. Di questo rapporto molto resta ancora da pensare. A noi interessava solo mostrare la possibilità di intraprendere questo pensiero, e che questa possibilità è forse persino ancora un poco più ampia di quella che lo stesso Olivetti aveva esplicitato. Alla base di questa possibilità ci sembra di vedere che anche per Luhmann della società non si dà presenza, 3 che la secolarizzazione non ci rimette da alcuna crisi, 4 né che questa – la secolarizzazione – ci riporta o ci trasporta verso alcuna quiete del differire e della sua crisi, né, infine, che sol per questo diviene gesamtgesellschaftlig unrelevant quell’invocare e quell’evocare verbis gestisque che la chiesa è, ma, anzi, il contrario. 1 Punto adeguatamente messo in luce da autori come Frithard Scholtz, Freiheit als Idifferenz. Alteuropeische Probleme mit der Systemtheorie Niklas Luhmanns, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1982. 2 3 Marco M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., p. 23. Ivi, p. 29. 4 Ivi, pp. 236-237.
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luca diotallevi Per una ripresa : due temi
Il colloquio tra il pensiero di Olivetti e quello di Luhmann può proseguire. Probabilmente, neppure in quanto colloquio sulla società esso ha ancora offerto tutto quanto può offrire, neppure in quanto colloquio intorno alla possibilità di una teoria della società ed al suo senso, e dunque intorno al costo che ogni teoria, davvero tale, come tale comporta (verrebbe da dire : ‘oggettivamente’ comporta). In condizioni del genere non vi è pur rispettabile tradizione stilistica che possa imporre delle conclusioni. Semmai, a me pare possibile indicare alcuni temi, due in particolare, a partire dai quali ci si potrebbe incamminare per una nuova fase di questo incontro.
La spirale instabile ed infinita della secolarizzazione In primo luogo, crediamo valga la pena prender nota che dalla sociologia luhmanniana può venire una integrazione, forse una radicalizzazione, della critica della linearità della secolarizzazione che Olivetti aveva sviluppato. Nell’esito di crisi della differenziazione, o della secolarizzazione, o della modernizzazione, o dell’argomento ontologico, Olivetti aveva visto mostrarsi un equivoco capace di muovere un circolare e non immobile paradosso. Di una circolarità che nel suo insieme esprime tensione al presidio del limite, 1 rinuncia ad ogni pretesa « di andare “oltre la linea” dell’epoca, ma pazientarvi, patire la crisi a cui sottopone il discrimine insuperabile (e si tratta di crisi umanistica) » facendosi per questa via « segno non di minore, bensì di maggiore radicalità di pensiero ». 2 Il dialogo con la sociologia di Luhmann, mi sembra, non induce nella tentazione ‘post-moderna’ di oltrepassare quella linea, non induce alcuna impazienza né attenua la radicalità di quel movimento di pensiero argomentato ed interpretato così bene da Olivetti. Al più, potrebbe arricchirlo di una o più dimensioni. Potrebbe aiutarci così ad immaginare la circolarità appena descritta come la proiezione bidimensionale di quello che potrebbe allo stesso tempo essere pensato anche come un moto di forma spirale, per lo meno tridimensionale. Una spirale senza perfezione né simmetria, data da un tempo che nel frattempo (dell’interazione) scorre in una sola direzione, ma disegnata anche da valori che in ciascuna delle restanti – quanto meno – due dimensioni possono variare in entrambe le direzioni. E ciò, anche se nulla vieta che si continui a parlare di circolarità, neppure il fatto che, da un punto di vista sociologico, si può cogliere che fasi e cicli, analoghi per direzione e curvatura, possono essere caratterizzati da diverse combinazioni di assetti e di strutture sociali, da combinazioni socioreligiose diverse quanto a componenti di interazione, organizzazione, grado e forma di differenziazione sottosistemica.
Anteriorità dell’etica e poliarchia Il pensiero della anteriorità dell’etica deve fare i conti con la questione della teoria della società. È infatti necessario pensare in modo adeguato questa presenza nel modo dell’assenza e le sue relazioni e la sua funzione di mediazione nei riguardi tanto della 1 Cfr. Idem, Filosofia della religione, in Paolo Rossi (curatore), La filosofia, Torino, utet, vol. I, 1995, pp. 2 Ivi, p. 208. 168.
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seconda quanto della prima persona dell’interlocuzione. « Per quanto radicale sia la passività etica, essa non lo sarà mai al punto di esimere la vittima, o l’eletto, dalla responsabilità attiva per il terzo ». 1 Questo, per Olivetti, equivale a chiedersi se l’anarchia della fraternità non abbia una qualche relazione con la società come arch di un ordine sociale oggettivo. Formalizzando questi pensieri nel corso di un confronto con Levinas, 2 Olivetti insiste però anche sulla necessità di distinguere quanto più nettamente possibile « l’ordine sociale in quanto terzo, in quanto sistema “sincronico” e arch oggettiva dalla fraternità in quanto collegamento “diacronico” e non riconducibile a sistema, in quanto collegamento “anarchico” ». 3 È chiaro infatti che l’arch dell’ordine sociale oggettivo incombe ancora minaccioso sulla anarchia della relazione fraterna. Forse, si corre ancora qualche rischio nel pensare in termini di arch – e soprattutto di singola arch – una società che possa, e che debba, essere attinta sempre solo mediatamente. 4 Quell’ordine sociale oggettivo e monarchico può essere davvero un modo adeguato di pensare una società presente al modo della assenza ? A me pare che questa preoccupazione di Olivetti meriti di essere approfondita. Non è ancora troppo minaccioso il pensiero di una (singola) arch societale ? Questo pensiero di una secca e semplice contrapposizione tra anarchia della fraternità e monarchia societale non rischia di lasciare aperto il varco tanto ad una irenica ma sostanzialmente cinica irresponsabilità per il terzo, quanto ad una eroica ma sostanzialmente patetica resa delle relazioni fraterne alla egemonia di questo o quel progetto espressione pubblica di volontà monarchica ? È di fronte a questo rischio, di fronte ai motivi di preoccupazione espressi da Olivetti, che la teoria della società di Niklas Luhmann può prestarci soccorso (e per qualche aspetto almeno più della stessa ecclesiologia kantiana). Non è infatti detto che allo scopo di pensare adeguatamente il principio societale sia sufficiente una ecclesiologia filosofica, dacché, come lo stesso Olivetti spiega, ciò che va pensato non è solo la società religiosa, ma anche il suo rapporto e la sua distinzione rispetto alla società politica. 5 Per pensare questa relazione, e questa distinzione, abbiamo bisogno anche di un pensiero della società, e non del pensiero di una società di cui la chiesa sia parte – col che ricadremmo nel circolo vizioso di un sistema che comprende se stesso 6 –, ma anche di un pensiero non religioso della società, di un pensiero della società non come chiesa. È rispetto a questa esigenza che Luhmann può venirci in aiuto. Egli, in termini di modernizzazione avanzata (o di secolarizzazione), per l’appunto descrive tanto un plurimo ed irriducibile processo osservativo della società nel suo specificarsi come mai prima rispetto ad organizzazioni ed interazioni (processi osservativi di cui sono protagoniste le Funktionen di politica e religione, ma anche si economia, scienza, diritto ecc.), quanto il differenziarsi delle strutture societali come condizioni empiriche – tra l’altro – di quegli stessi processi osservativi specializzati. Nella modernità, la società si manifesta
1
Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 90. Dapprima in Idem, Intersoggettività, alterità, etica. Domande filosofiche a E. Levinas, « Archivio di filosofia », liii, 2-3, 1985, pp. 265-287. 3 Idem, Analogia del soggetto, cit., 1992, p. 90. 4 Ed in effetti, a volte, Olivetti qua e là parla ancora il linguaggio dello stato (monopolista del pubblico) 5 Idem, p. 91. e del diritto pubblico, della comunità politica come comunità più estesa. 6 Cfr. Idem, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit., p. 437. 2
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tanto più chiaramente, quanto più si differenzia, ovvero : quanto più sovverte la pretesa di ogni egemonia monarchica, e quanto più sovverte i progetti di una sua completa organizzazione (od anche solo di ciascuno dei suoi sottosistemi). (Del resto, lo stato che con la modernizzazione avanzata ed il primato della differenziazione funzionale va definitivamente in crisi non è altro che il nome del progetto – non per caso europeocontinentale e quant’altri mai drammatico 1 – che perseguiva la organizzazione di una monarchia politica della società e del sociale.) Ora, con Luhmann, a ben guardare, tanto la struttura di questa società che sempre più manifesta la propria presenza nel modo della assenza, quanto il sapere di questa stessa società portano impressi un indelebile carattere poliarchico. Questa società ed il sapere di questa società sono regolati da una pluralità di principi (arcai 2), indeducibili, reciprocamente incorreggibili, incommutabili. 3 La sociologia luhmanniana potrebbe allora aiutare a riformulare l’interrogativo olivettiano sulla relazione, e sulla distinzione, tra fraternità anarchica e società sdoppiandolo. Per un verso, spinge ad interrogarsi su quali fossero le condizioni in cui versava, e quali costi e quali rischi comportava, la pratica e la coscienza della responsabilità fraterna in un tempo segnato dalla massima approssimazione al compimento del progetto statuale di assoluta organizzazione della società. Per altro verso, ci chiediamo se il regime di irriducibile poliarchia proprio di una società differenziata per funzioni (o a beni incommutabili) non offra alla anarchia della fraternità un contesto sociale e societale più adeguato rispetto a quello garantito da una società che prende forma da un solo arch. Del resto come potrebbe la società essere ancora pensabile in termini di stato se la sua emergenza specifica cresce al crescere della differenziazione per specializzazione funzionale (che è anche differenziazione di politica e società) e della propria inorganizzabilità. Come può la società essere pensata ancora come stato, ovvero come organizzazione di tipo politico comprendente tutta la società e dunque anche per questo absoluta, quando proprio per via della differenziazione funzionale, essa né tollera più il primato di una singola funzione sociale – neppure della politica – né risulta più organizzabile ? In breve, un ulteriore motivo potrebbe ispirare la ripresa della sociologia di Luhmann in prospettiva olivettiana. La relazione tra una teoria ( ?) poliarchica della società, ed una ( ?) forma poliarchica della società, da un lato, e, dall’altro, la anarchia della fraternità potrebbe costituire un ulteriore campo di indagine per un pensiero che cerchi di corrispondere al significato protologico dell’etica, all’istanza dell’etica come filosofia anteriore. Il passaggio da una teoria monarchica della società ad una teoria poliarchica della società potrebbe costituire una esplicitazione o forse anche l’approfondimento di un aspetto dell’itinerario teoretico di M.M. Olivetti.
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Come non ricordare la dura denuncia fatta da Adorno nella Negative Dialektik ! Sarebbe da meditare attentamente il rapporto tra queste e le exousiai di cui hanno trattato biblisti e teologi con Oscar Cullmann, Dio e Cesare, Roma, Ave, 1996, o José-Maria Gonzalez-Ruiz, Che cosa dice la Scrittura sulla libertà religiosa ?, in Nazzareno Fabbretti (a cura di), Cattolicesimo e libertà, Milano, Mondadori, 1967, pp.93-108. 3 Cfr. Michael Walzer, Sfere di giustizia, Milano, Feltrinelli, 1994.
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OLIVETTI e LA « TRASFORMAZIONE INTERSOGGETTIVA DELL’APPERCEZIONE TRASCENDENTALE »
Thomas Hünefeldt
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el pensiero di Marco Maria Olivetti l’idea di una « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » rappresenta un punto cardine. Non a caso i due capitoli centrali del suo libro Analogia del soggetto, nei quali vengono discusse l’« Inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas e la « Trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale » da parte di Apel, fanno già nel loro titolo esplicitamente riferimento a tale idea, mentre il titolo del capitolo seguente, « Unificazione trascendentale e alterità : l’uno e l’altro », vi allude implicitamente. 1 Olivetti, infatti, considera l’« inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas e la « trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale » da parte di Apel come due modi alternativi e per certi versi opposti di realizzare « la tendenza che si manifesta nella tradizione dell’appercezione trascendentale […] verso una trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale medesima ». 2 Mentre la « trasformazione comunicativa » di Apel conduce a una concezione « simmetrica » dell’intersoggettività, « senza andare veramente oltre il soggettivismo sostanzialistico e l’umanesimo essenzialistico », 3 l’« inversione » di Levinas conduce a una concezione « asimmetrica » dell’intersoggettività, che compie il « passo oltre » verso un altro tipo di soggettività, una soggettività costituita come « soggezione », e verso un altro tipo di umanesimo, un « umanesimo dell’altro uomo ». 4 A differenza di altri modi di realizzare la tendenza verso la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale », gli approcci di Apel e Levinas hanno in comune l’enfasi particolare che mettono sul linguaggio : l’approccio del primo risulta in un’intersoggettività concepita come relazione fra i membri della « comunità illimitata di comunicazione », 5 mentre quello del secondo conduce a un’intersoggettività concepita come relazione che si manifesta nel « dire » del « volto », « dire » che richiama alla « responsabilità ». 6 Pertanto Olivetti caratterizza la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » realizzata in modi diversi da entrambi gli autori anche come una « trasformazione semiotica dell’appercezione trascendentale », 7 estendendo così il concetto di una « trasformazione semiotica » della filosofia trascendentale introdotto da Apel per ricomprendere in esso anche l’approccio di Levinas. L’idea di una « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale », e più in particolare l’idea di una « trasformazione semiotica dell’appercezione trascendentale », rappresenta un punto cardine nel pensiero di Olivetti in quanto egli è con
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Cfr. Marco M. Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, cap. iv, v, e vi. Ivi, p. 79. 3 4 Ivi, cap. v, in particolare p. 103. Ivi, cap. iv, in particolare p. 84. 5 Cfr. Karl-Otto Apel, Transformation der Philosophie, Frankfurt, Suhrkamp, 1973. 6 Cfr. Emmanuel Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Leiden, Martinus Nijhoff, 1974. 7 Marco M. Olivetti, op. cit., p. 82. 2
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vinto che solo tale trasformazione permetta di « riproporre oggi il problema dell’etica come problema avente dignità filosofica ». In effetti, per Olivetti « è indubitabile che riproporre oggi il problema dell’etica come problema avente dignità filosofica significa […] cercare di risolvere il nodo irrisolto di una intersoggettività esigita, ma insieme ostacolata, dalla comprensione puramente cogitativa e oggettivante della appercezione trascendentale ». 1 Questo è anche il motivo per cui Olivetti, nei due capitoli centrali di Analogia del soggetto, si confronta con Apel, da una parte, e con Levinas, dall’altra. Secondo Olivetti, infatti, il proposito di ricercare « il nuovo referente o fondamento trascendentale dell’etica […] nella “trasformazione semiotica” dell’appercezione trascendentale come condizione per una vera intersoggettività » è « la strada imboccata da quelle proposte che, per quanto lontane fra di loro per stile filosofico, matrici culturali ed effettiva reciproca conoscenza, hanno intrapreso il tentativo di riproporre l’etica come problema protologico : intendiamo l’“etica comunicativa”, particolarmente nella sua versione fondativa che rielabora in chiave trascendentale le indicazioni fornite dalla pragmatica linguistica, e la levinasiana “etica come filosofia prima”, che, invece, si propone di risalire al di là del detto, del pragma, dell’“opera”, fino allo stesso “dire” ». 2 Per permettere una comprensione più approfondita e una valutazione critica dell’interpretazione olivettiana della « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » è anzitutto necessario definire quello che secondo Olivetti viene trasformato intersoggettivamente, cioè la concezione kantiana dell’« appercezione trascendentale » (1.). Su questa base bisogna poi chiarire in che senso tale concezione può essere trasformata intersoggettivamente, e in particolare, in che senso tale trasformazione può risultare o in una concezione « simmetrica » oppure in una concezione « asimmetrica » dell’intersoggettività (2.). Questi chiarimenti permetteranno infine di comprendere e valutare le ragioni per cui Olivetti critica la « trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale » da parte di Apel (3.), mentre accoglie ed elabora l’« inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas (4.).
1. L’« appercezione trascendentale » da trasformare
In sostanziale accordo con Kant, il termine di « appercezione trascendentale » si riferisce per Olivetti all’« “io penso” come forma suprema del giudizio nella quale si rende possibile e si ordina la nostra esperienza soggettiva, come coscienza che sempre si accompagna ad ogni esperienza ». 3 Per poter comprendere e valutare l’interpretazione olivettiana della « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » è quindi necessario chiarire in che senso e perché l’« appercezione », cioè l’« “io penso” », viene da Kant intesa come « trascendentale », cioè « come forma suprema del giudizio nella quale si rende possibile e si ordina la nostra esperienza soggettiva » oppure « come coscienza che sempre si accompagna ad ogni esperienza ». Kant ricorre all’« appercezione » nell’ambito della sua « deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto », cioè più in particolare nell’ambito della sua indagine « Della possibilità di una congiunzione in generale ». 4 L’« unità sintetica dell’appercezione », cioè l’« unità dell’autocoscienza », è infatti per Kant condizione della « possibilità di una congiunzione in generale » ed è in quanto tale considerato come « il principio supremo di ogni uso dell’intelletto », 5 nonché come « il punto supremo a cui deve ricollegarsi ogni
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2 Ivi, p. 81. Ivi, p. 82. Immanuel Kant : Kritik der reinen Vernunft, § 15, B 129 sgg.
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Ivi, p. 73. Ivi, § 17, B 136 sgg.
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trasformazione intersoggettiva dell ’ appercezione trascendentale 127 uso dell’intelletto, la stessa intera logica, e dopo di essa la filosofia trascendentale ». 1 Questa identificazione avviene in due passi. In un primo passo Kant sostiene, sulla base di un’analisi del concetto di « congiunzione », che la « possibilità di una congiunzione in generale » presuppone una « unità che precede a priori tutti i concetti di congiunzione », e si propone poi di « cercare » tale unità « originaria ». 2 In un secondo passo Kant identifica questa unità con l’« io penso », cioè con l’« unità sintetica dell’appercezione ». 3 Per quanto riguarda il primo passo, l’argomento di Kant equivale alla tesi che dei dati qualsiasi (per esempio, delle « intuizioni ») possono essere « congiunti » mediante il comune riferimento a un altro dato (per esempio, un « concetto ») soltanto se tutti questi dati sono già riuniti in una unità « originaria », perché altrimenti si incorrerebbe in un regresso all’infinito. Per quanto riguarda il secondo passo, l’identificazione di tale unità « originaria » con l’« unità sintetica dell’appercezione » equivale alla tesi che i dati riuniti in questa unità « originaria », cioè i possibili argomenti di una « congiunzione », sono possibili oggetti del mondo di un essere che realizza tale « congiunzione ». Da questa breve sintesi della concezione kantiana dell’« appercezione trascendentale » risulta innanzitutto che l’« appercezione » è « trascendentale » in quanto Kant identifica l’« unità sintetica dell’appercezione » come condizione della « possibilità di una congiunzione in generale ». L’« unità sintetica dell’appercezione » si riferisce allo stesso tempo all’unità del mondo di un essere che realizza tale « congiunzione » e all’unità di questo essere medesimo. Mutatis mutandis, l’identificazione di una tale « unità sintetica dell’appercezione », come condizione della « possibilità di una congiunzione in generale », sarebbe quindi valida e comprensibile anche se i dati da « congiungere » non venissero compresi alla maniera di Kant come « rappresentazioni mentali », cioè come prodotti di una mente affetta da una realtà esterna, 4 ma alla maniera di Husserl semplicemente come « fenomeni » dati all’« ego trascendentale », oppure alla maniera di Heidegger semplicemente come « enti » che l’« esserci » incontra nel suo mondo. Da una parte, infatti, l’argomento puramente formale secondo il quale la « possibilità di una congiunzione in generale » presuppone che tutto quello che può essere « congiunto » sia già riunito in una unità « originaria » è del tutto indifferente a come viene concepito ciò che può essere « congiunto » ; dall’altra, tale unità « originaria » verrebbe compresa come l’unità del mondo di un essere che realizza la « congiunzione » di una pluralità di dati, anche se i dati da « congiungere » non venissero compresi come « rappresentazioni mentali » prodotte da una mente affetta da una realtà esterna, ma semplicemente come « fenomeni » dati all’« ego trascendentale » oppure come « enti » che l’« esserci » incontra nel suo mondo. Di conseguenza, l’« appercezione » sarebbe « trascendentale » nel senso kantiano del termine non soltanto sulla base dei presupposti ontologici adottati da Kant, ma anche sulla base di una posizione fenomenologica come quelle sostenute da Husserl e Heidegger.
2. La « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale »
Data questa concezione dell’« appercezione trascendentale », una qualche « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » dovrebbe riguardare almeno uno dei due passi con cui Kant identifica l’« appercezione » come « trascendentale ». Per
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2 3 Ivi, B 134 sg. Ivi, B 130 sg. Ivi, B 131. Cfr. ivi, per esempio B 33 sgg. (A 19 sgg.) e B 74 sgg. (A 50 sgg.).
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quanto riguarda il primo passo, è evidente che l’argomento puramente formale, in base al quale si afferma che tutto quello che può essere « congiunto » deve essere già riunito in un’unità « originaria », non è suscettibile di una « trasformazione intersoggettiva ». Quindi, una qualche « trasformazione intersoggettiva » può riguardare soltanto il secondo passo, cioè l’identificazione di tale unità « originaria » con l’« unità sintetica dell’appercezione ». Anche questa identificazione, però, è difficilmente questionabile, in quanto è difficile dubitare che i possibili argomenti di una « congiunzione » debbano in qualche modo essere compresi come possibili oggetti del mondo di un essere che realizza tale « congiunzione ». Infatti, abbiamo visto che una tale identificazione avviene indipendentemente da eventuali presupposti ontologici per il solo fatto che i possibili argomenti di una « congiunzione » devono essere in qualche modo “dati”. Se, dunque, nonostante l’apparente impossibilità di una trasformazione intersoggettiva dei due passi con cui Kant identifica l’« appercezione » come « trascendentale », quello che Olivetti chiama la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » è veramente una trasformazione dell’appercezione trascendentale e non semplicemente la supposizione di un trascendentale diverso, allora questa trasformazione deve essere dovuta alla ragione trascendentale per cui il mondo, nel quale i possibili argomenti di una « congiunzione » sono riuniti, viene identificato come il mondo di un soggetto fra altri. In altre parole, questa trasformazione deve essere dovuta alla ragione trascendentale per cui l’essere che realizza la « congiunzione » di una pluralità di dati identifica il mondo in cui i possibili argomenti di una « congiunzione » sono riuniti come il suo mondo, cioè come un mondo soggettivo e privato relativo ad un mondo oggettivo e reale, e sé stesso come un soggetto fra altri che coesistono nel mondo oggettivo e reale supposto in tale identificazione. Questa ragione dovrebbe essere trascendentale nel senso che essa dovrebbe essere valida non soltanto in determinate condizioni e per determinati soggetti, ma sempre e per tutti, cioè in ogni mondo concepibile e per ogni essere concepibile che realizza una tale identificazione. Comunque sia questa ragione trascendentale, l’identificazione che essa legittima dà luogo a due diverse concezioni trascendentali dell’intersoggettività e quindi a due diversi modi di concepire la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale ». Da una parte, l’intersoggettività può essere concepita in riferimento alla ragione trascendentale di questa identificazione, cioè in riferimento a determinati fenomeni identificati come condizione della possibilità di tale identificazione ; dall’altra, essa può essere concepita in riferimento al risultato di questa identificazione, cioè in riferimento al mondo oggettivo e reale supposto in questa identificazione. Nel primo caso, l’intersoggettività verrebbe concepita come una relazione trascendente che si manifesta nei fenomeni identificati come condizione della possibilità di questa identificazione. Nel secondo caso, l’intersoggettività verrebbe concepita come una relazione immanente fra particolari esseri che coesistono nel mondo oggettivo e reale supposto in questa identificazione, cioè fra tutti quegli esseri la cui comunicazione rende possibile la rappresentazione di un tale mondo. Mentre la prima concezione dell’intersoggettività equivarrebbe ad una concezione fenomenologica dell’intersoggettività che non implica né una concezione sostanzialistica della soggettività né una concezione essenzialistica dell’essere umano, la seconda, invece, equivarrebbe ad una concezione ontologica dell’intersoggettività che implica una concezione sostanzialistica della soggettività e una concezione essenzialistica dell’essere umano. I due diversi modi di concepire la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione
trasformazione intersoggettiva dell ’ appercezione trascendentale 129 trascendentale », che si possono distinguere sulla base di queste due concezioni trascendentali dell’intersoggettività, corrispondono sostanzialmente ai due modi distinti da Olivetti. Da una parte, infatti, l’« inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas risulta in una concezione dell’intersoggettività del primo tipo, in quanto l’intersoggettività viene concepita come una relazione trascendente che si manifesta nel « dire » del « volto », « dire » che richiama alla « responsabilità » e che quindi provoca la « soggezione », cioè la costituzione del soggetto personale. Dall’altra parte, la « trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale » da parte di Apel risulta in una concezione dell’intersoggettività del secondo tipo, in quanto l’intersoggettività viene concepita come una relazione immanente fra i membri della « comunità illimitata di comunicazione ».
3. La critica di Olivetti alla « trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale »
Come abbiamo visto, l’idea di una « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » rappresenta un punto cardine nel pensiero di Olivetti, in quanto egli è convinto che solo una tale trasformazione permetta di « riproporre oggi il problema dell’etica come problema avente dignità filosofica ». Di conseguenza, la sua critica alla « trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale » da parte di Apel si articola innanzitutto come una critica alla pretesa che tale trasformazione fornisca un « fondamento trascendentale dell’etica ». La critica di Olivetti consiste essenzialmente nell’obiezione che l’« etica comunicativa » di Apel si basa su « una rinnovata forma di “fallacia naturalistica” », 1 cioè su una particolare forma del tentativo di derivare il « doveressere » dall’« essere » o dalla « natura ». Nel caso dell’« etica comunicativa » di Apel tale fallacia assumerebbe una forma particolare per due motivi diversi : da una parte, come anche nel caso dell’« etica comunicativa » di Habermas, « per il fatto che l’“essere” o la “natura” sono […] considerati esclusivamente con riferimento all’essere umano », cioè più precisamente, con riferimento « alla comunicazione linguistica in cui egli si trova immerso e che lo definisce nella sua essenza » ; 2 dall’altra parte, a differenza dell’« etica comunicativa » di Habermas, per il fatto che tale « essere » o tale « natura » sono postulati in base a un ragionamento trascendentale. 3 Per comprendere a fondo la critica di Olivetti, occorre partire dalla distinzione fra i due possibili modi di concepire una « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale », che abbiamo introdotto nel paragrafo precedente. In particolare, bisogna partire da quello di questi due modi che corrisponderebbe alla « trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale » da parte di Apel. Questo modo è caratterizzato dal fatto che l’intersoggettività viene concepita come una relazione immanente fra i membri di una « comunità illimitata di comunicazione », cioè fra tutti quegli esseri la cui comunicazione rende possibile la rappresentazione oggettiva e realistica del mondo. Ora, oltre alla « comunità illimitata di comunicazione », cioè oltre all’illimitatezza della comunità dei comunicanti, si possono identificare ulteriori condizioni della possibilità di una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo. Fra di esse, ci sarebbero le condizioni universali che rendono possibile la comunicazione fra i comunicanti, cioè le condizioni di « verità », « sincerità », « giustizia », e « comprensibilità » : in
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Marco M. Olivetti, op. cit., p. 99. Cfr. anche ivi, p. 83. 3 Ivi, p. 99. Ivi, p. 83.
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sieme all’illimitatezza della comunità dei comunicanti, sono infatti queste le condizioni alle quali l’« etica comunicativa » fa riferimento. Come nota giustamente Olivetti, « [i]l riferimento a queste condizioni è insieme descrittivo e normativo ». 1 In verità, però, lo è già per definitionem e solo per ciò anche in un senso derivato. Per definitionem, il riferimento a queste condizioni è descrittivo in quanto asserisce quali sono le condizioni che rendono possibile la comunicazione e una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo, ma è allo stesso tempo normativo in quanto indica quali condizioni devono essere realizzate per rendere possibile la comunicazione e una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo. In un senso derivato, il riferimento alle medesime condizioni è descrittivo in quanto implica che ogni essere identificato come soggetto in relazione intersoggettiva è un essere comunicativo e potenzialmente capace di una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo, ma è allo stesso tempo normativo in quanto prescrive come un tale essere deve agire per realizzare appieno il suo essere, cioè per entrare in comunicazione e per attingere a una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo. Sulla base di questa breve ricostruzione del fondamento trascendentale dell’« etica comunicativa » l’obiezione critica di Olivetti potrebbe essere riassunta nella seguente domanda : ammesso che « verità », « sincerità », « giustizia », e « comprensibilità » siano le condizioni universali che rendono possibile la comunicazione, e ammesso che queste condizioni, insieme all’illimitatezza della comunità dei comunicanti, siano le condizioni che rendono possibile una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo, per quale motivo dovrei entrare in comunicazione e per quale motivo dovrei attingere a una tale rappresentazione ? In altre parole : l’« etica comunicativa » si baserebbe su una « fallacia naturalistica » perché le condizioni che rendono possibile la comunicazione e una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo non forniscono dei motivi né per entrare nella prima né per attingere alla seconda, e quindi non forniscono dei motivi per realizzare queste condizioni stesse. Per di più, queste condizioni non escludono affatto che i motivi non siano “morali” ma piuttosto “amorali” oppure addirittura “immorali”. Infatti, osserva giustamente Olivetti, queste condizioni sono presupposte anche nella « menzogna » e nell’inganno, 2 ed è la possibilità di tali forme di « autocontraddizione pragmatica » ciò che manifesta nella maniera più evidente l’insufficienza della « trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale » come « fondamento trascendentale » dell’etica : « Mentire grazie alla comunicazione, barare grazie alle regole del gioco, ecco ciò che dischiude la dimensione etica dell’appercezione trascendentale ripensata linguisticamente e portata al limite in cui l’orizzonte egologico e soggettivistico-intersoggettivo mostra la sua insufficienza. » 3 Data la differenza intrinseca e insormontabile fra le condizioni che rendono possibile la comunicazione e una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo, da una parte, e i motivi per entrare in comunicazione e per attingere a una rappresentazione oggettiva e realistica del mondo, dall’altra, ogni tentativo di attribuire una valenza etica a queste condizioni, cioè ogni tentativo di elevarle al rango di motivi etici, equivale ad un tentativo di disciplinare il comportamento degli altri (e potenzialmente anche quello del promotore di tale tentativo), tentativo che nasconde o per lo meno non rende conto dei motivi reali del suo promotore. Di conseguenza, anche se questi motivi reali non sono “amorali” oppure addirittura “immorali” ma del tutto “morali”,
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Ivi, p. 99.
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Ivi, p. 84.
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Ivi, p. 85.
trasformazione intersoggettiva dell ’ appercezione trascendentale 131 l’« etica comunicativa » si riduce essenzialmente ad uno strumento di dominio. Infatti, tale « trasformazione in dominio più che un pericolo è un destino ineluttabile. » 1 Non meno di altre forme di dominio, il dominio esercitato o almeno giustificato e quindi rafforzato mediante l’« etica comunicativa » comporta che « l’eventuale dissenso induce alla violenza e alla guerra » ; ma più che in altre forme di dominio, tale guerra rischia di assumere l’aspetto di una « [g]uerra santa », perché è « intrapresa con la buona coscienza di combattere, e di dover combattere, in nome della verità, della giustizia, della sincerità e della comprensibilità (i quattro universali o trascendentali dei teorici dell’etica comunicativa) ». 2 Quindi, non solo non è possibile fondare l’etica sulla base trascendentale fornita dalla « trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale », ma proprio per questo fatto ogni tentativo di una tale fondazione corre il rischio di essere strumentalizzato a fini “amorali” se non addirittura “immorali”. Riconoscendo questa impossibilità e questo rischio, Olivetti accoglie ed elabora l’altro dei due modi opposti di realizzare la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale », quello realizzato nella sua « inversione » ad opera di Levinas. 3 Si tratta dunque di verificare se e in che misura questo secondo modo riesce meglio del primo a fornire un « fondamento trascendentale dell’etica ».
4. L’« inversione dell’appercezione trascendentale » accolta da Olivetti
Per valutare in che misura l’« inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas fornisca un « fondamento trascendentale dell’etica », conviene partire ancora una volta dalla distinzione, già introdotta nel paragrafo 2, fra i due possibili modi di concepire una « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale ». Quello di Levinas è caratterizzato dal fatto che l’intersoggettività viene concepita come una relazione trascendente che si manifesta in determinati fenomeni identificati come ciò che rende possibile la costituzione del soggetto, cioè come ciò che rende possibile il fatto che il mondo, in cui i possibili argomenti di una « congiunzione » sono riuniti, viene identificato come il mondo di un soggetto fra altri. L’« inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas rappresenta un caso particolare di questo modo di concepire la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale », in quanto Levinas identifica ciò che rende possibile la costituzione del soggetto con il « dire » del « volto », « dire » che richiama alla « responsabilità ». Per Levinas il « dire » del « volto » « rende possibile […] l’identità del soggetto, il suo sostanziarsi ontologico e la sua autodeterminazione libera », 4 e tale « dire » richiama alla « responsabilità », in quanto « significa “non uccidere”, il “tu devi” ». 5 Pertanto, « [l]a soggettività di Levinas è […] costituita come “soggezione” (sujétion) ». 6 Per valutare se l’« inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas fornisca in effetti un « fondamento trascendentale dell’etica », bisogna quindi domandarsi 1) perché il fenomeno che rende possibile la costituzione del soggetto deve essere un « dire », 2) perché tale « dire » deve essere un « dire » di un « volto », e 3) perché tale « dire » deve essere un « dire » che richiama alla « responsabilità ». Per quanto riguarda la prima domanda, il fenomeno che rende possibile la costituzione del soggetto deve essere un « dire », perché tale « dire » esprime una trascendenza mai
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Ivi, p. 113. Ivi, pp. 74-76.
Ibidem. Ivi, p. 88.
Ivi, p. 83 sg. Ivi, p. 74.
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del tutto recuperabile nell’orizzonte del mondo dell’essere costituito come soggetto e perché senza l’espressione di una tale trascendenza non ci sarebbe nessun motivo di supporre che il mondo dato è un mondo soggettivo, cioè il mondo di un particolare soggetto in rapporti intersoggettivi. Di conseguenza, il « dire » non è necessariamente un « dire » verbale, ma è una qualsiasi forma di espressività che rimanda ad una trascendenza irrecuperabile. Per Levinas il « volto » « dice » e « dice » richiamando alla « responsabilità » anche e soprattutto se non pronuncia parola. Per quanto riguarda la seconda domanda, ci possono essere due ragioni, per cui il « dire » che rende possibile la costituzione del soggetto deve essere il « dire » di un « volto », se per « volto » si vuole intendere non soltanto un fenomeno che manifesta un « dire », ma qualcosa di più specifico. La prima ragione fa riferimento al fatto che il « dire » del « volto » è un « dire » (ri)volto a chi da esso può essere co-involto. Questa ragione equivale quindi all’argomento senz’altro plausibile che solo un « dire » allocutivo è un « dire » che rende possibile la costituzione del soggetto. La seconda ragione fa riferimento al fatto che solo il « dire » allocutivo del « volto » può essere un « dire » che richiama alla « responsabilità ». Questa ragione rimanda quindi alla nostra terza domanda, ovvero alla domanda che si interroga sul perché il « dire » che rende possibile la costituzione del soggetto debba essere un « dire » che opera appunto tale richiamo. In nessuno dei due casi, però, è necessario supporre – come invece sembra supporre Levinas – che il « volto » debba essere un « volto umano » e non possa essere un « volto » di un’altra specie. Da una parte, non è necessario supporre che solo il « dire » del « volto » umano possa essere un « dire » allocutivo, dato che anche molte altre specie animali dimostrano un comportamento allocutivo. Dall’altra, non è necessario supporre che solo il « dire » allocutivo del « volto » umano possa essere un « dire » che richiama alla « responsabilità », dato che anche il « volto » di altre specie animali ci ingiunge di “non uccidere”. In entrambi casi, si tratta piuttosto di una questione di diversi gradi di allocuzione o responsabilizzazione e quindi di diversi gradi di somiglianza con il « dire » del « volto » umano. Infine, per quanto riguarda la terza domanda, non è affatto evidente perché il « dire » che rende possibile la costituzione del soggetto debba essere un « dire » che richiama alla « responsabilità », se per « responsabilità » si vuole intendere non soltanto la risposta a cui obbliga ogni tipo di allocuzione, ma la risposta a cui obbliga un « dire » che significa “non uccidere” e “tu devi”. Non a caso è proprio questo l’aspetto in cui Olivetti più si discosta da Levinas. Per Olivetti il « dire » che rende possibile la costituzione del soggetto non è un « dire » ingiuntivo, ma piuttosto un « dire » caritatevole, un « dire » che invita ad affidarsi alla cura e all’amore dell’altro, un « dire » che – per esprimere anch’esso con un motivo biblico – significa “non temere”, “non temere perché io sono con te”. 1 Olivetti motiva e illustra questa interpretazione del « dire » che rende possibile la costituzione del soggetto, con un’ipotesi evolutiva sull’ontogenesi dell’autoriconoscimento nell’essere umano. Secondo questa ipotesi, la cura che l’adulto si prende dei bisogni del bambino provoca infine nel bambino il riconoscimento di sé stesso e quindi il suo costituirsi come soggetto. 2 Ora, è certamente legittimo motivare l’ipotesi fenomenologica su ciò che rende possibile la costituzione del soggetto con un’ipotesi ontologica su ciò che rende possibile la costituzione del soggetto nell’essere umano ; ed è evidente che, sulla base di una tale motivazione, l’ipotesi trascendentale di Olivetti è superiore a quella di Levinas nella misura in cui la ricerca evolutiva evidenzia che ciò che rende possibile la costituzione del soggetto nell’essere umano è la carità piuttosto che l’ingiunzione.
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Cfr. Isaia, 43 :1-5.
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Marco M. Olivetti, op. cit., pp. 147 sgg.
trasformazione intersoggettiva dell ’ appercezione trascendentale 133 Dato che non risultano esserci motivi sufficienti per supporre che il « dire » allocutivo che rende possibile la costituzione del soggetto debba essere un « dire » che significa “non uccidere” e “tu devi”, potrebbe sembrare che né l’« inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas, né tanto meno quella accolta e elaborata da Olivetti siano in grado di fornire un « fondamento trascendentale dell’etica ». Olivetti invece suggerisce il contrario quando afferma che « [i]l rivolgersi all’infante – rivolgersi inteso e intenzionato al riconoscimento del bisogno – genera nell’infante il bisogno di riconoscimento », un bisogno « trascendentale » e « mai satis-fatto » che « si increment[a] […] nella misura esatta della sua soddisfazione empirica », cosicché « il conatus in suo esse perseverandi assume l’aspetto paradossale per cui la soddisfazione infinita del proprio bisogno si attua come soddisfazione del bisogno altrui e come conato di far perseverare l’altro nell’essere come suo proprio ed appropriato ». 1 In altre parole, trasponendo queste affermazioni dal piano ontologico al piano fenomenologico a cui sono destinate, Olivetti suggerisce che il « dire » allocutivo che rende possibile la costituzione del soggetto genera un bisogno mai soddisfatto che si attua nella cura infinita del bisogno altrui. In questo modo, ammesso che tale trasposizione sia legittima, l’etica sarebbe certamente fondata su un fondamento trascendentale. Ma è evidente che questo fondamento non consiste in un dover-essere, ma in un interesse basato sull’inter-esse dell’intersoggettività.
5. Conclusione La presente ricostruzione critica dell’interpretazione olivettiana della « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale » consente due ordini di conclusioni. In primo luogo, la « trasformazione dell’appercezione trascendentale » da parte di Apel e l’« inversione dell’appercezione trascendentale » da parte di Levinas rappresentano effettivamente due modi alternativi e per certi versi opposti di concepire la « trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale », che si distinguono per il fatto che il primo implica una concezione ontologica e il secondo una concezione fenomenologica dell’intersoggettività. In secondo luogo, non soltanto la « trasformazione dell’appercezione trascendentale » criticata da Olivetti, ma neanche l’« inversione » da lui accolta ed elaborata sono in grado di fornire un « fondamento trascendentale dell’etica » che non sia condizionato da un interesse che, nella migliore delle ipotesi, consiste in nient’altro che nell’interesse trascendentale basato sull’inter-esse dell’intersoggettività. In altre parole, non è possibile né derivare il dover-essere dell’etica dall’essere dell’ontologia, né l’essere dell’ontologia dal dover-essere dell’etica, ma entrambi, l’essere dell’ontologia e il dover-essere dell’etica, possono essere derivati dall’inter-esse dell’intersoggettività.
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Ivi, p. 148 sg.
TRA ANALITICI E CONTINENTALI. PER UNA LETTURA UNITARIA DELLA MODERNITÀ 1 Simone Marini
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arco Maria Olivetti ha effettuato ricorrenti ‘escursioni’ in ambito analitico, 2 in ragione, riteniamo, di un interesse non meramente ‘estemporaneo’. I suoi scritti rivelano in questo ambito una sorta di filo conduttore, una precisa e motivata interpretazione delle vicende della filosofia della religione, soltanto rispetto alle quali, a nostro avviso, è possibile circoscrivere i suoi interessi verso la tradizione filosofica anglo-americana. In altre parole, ci pare che Olivetti faccia riferimento a certi sviluppi della riflessione analitica sulla religione per sostenere la tesi secondo cui la fine dell’ontoteologia richieda un primato (non protologico) dell’etica. E ciò avviene all’interno di un preciso quadro di riferimento, insieme storico e teorico, che appare ad un tempo ‘unitario’ e ‘circolare’. Parliamo di una riflessione ‘unitaria’ nel senso che Olivetti è molto attento, in particolare in alcuni scritti tendenti a ricostruire le vicende della filosofia della religione in ambito analitico, 3 a mettere in evidenza la matrice comune da cui si è originata la dicotomia filosofia continentale/filosofia analitica. Secondo la sua interpretazione, gli aspetti comuni fra le due tradizioni filosofiche sono più numerosi
1 Ringraziamo Daniela Lapenna per averci aiutato a reperire parte del materiale bibliografico, per aver suggerito il titolo del presente lavoro e, last but not least, per i preziosi commenti a una versione precedente del testo. Ringraziamo inoltre i curatori del presente volume per i dettagliati commenti forniti. 2 Prescinderemo in questa sede dalle controversie circa la consistenza metodologica, semantica e teorica della distinzione filosofia analitica/filosofia continentale, e adotteremo un uso ‘neutro’, per così dire, di queste due espressioni, intendendo riferirci con esse, rispettivamente, alla filosofia di ambito europeo (francese e tedesco in particolare) e anglo-americano. Oltre ad evitare, in questo modo, risvolti del dibattito che esulano dagli scopi del presente scritto, riteniamo così di rispettare l’uso di queste due locuzioni da parte di Olivetti, il quale ha sempre mostrato una forte resistenza rispetto ad un loro uso più tecnico, tendente a designare più o meno rigidamente correnti filosofiche contrapposte e inconciliabili. A testimonianza di tale ritrosia, riportiamo di seguito quanto scritto da Olivetti nei suoi commenti a un saggio di Jaakko Hintikka, del quale sottoscrive la proposta di distinguere tra filosofi che accettano una concezione del linguaggio come calcolo e quelli che invece ne propongono una visione universalistica, ritenendo tale distinzione teoreticamente e concettualmente più significativa e corretta di quella classica tra analitici e continentali. La proposta di Hintikka, dice Olivetti, apre « la possibilità e in un certo senso la necessità di considerare la scena filosofica contemporanea in termini diversi dalla, e più rilevanti della, distinzione diffusa tra filosofia analitica ed ermeneutica, o come si dice in genere, continentale. A volte la filosofia continentale è anche chiamata filosofia fenomenologica, ma la questione è lontana dall’essere risolta, visto che molti filosofi analitici vogliono salvare la fenomenologia husserliana e metterla in qualche connessione teoretica e/o storica con i loro interessi. Tali oscillazioni terminologiche e concettuali mostrano già che la distinzione classica, sebbene giustificata storicamente e sociologicamente, è tuttavia molto vaga ed elusiva. » (Marco M. Olivetti, Comment on J. Hintikka, “Contemporary Philosophy and the Problem of Truth”, in Methods of Philosophy and the History of Philosophy, a cura di Simo Knuuttila e Ikka Niniluoto, « Acta Philosophica Fennica », The Philosophical Society of Finland, vol. 61, Helsinki, 1996, p. 44. Corsivo nostro.) 3 Ci riferiamo in particolare a Marco M. Olivetti, Il problema religioso, in La filosofia dal ’45 ad oggi, a cura di Valerio Verra, Torino, Eri, 1976, pp. 401-18 ; Idem, Naturalizzazione della religione : l’esito nach der Auf klärung di un’impresa moderna, « Protestantesimo », lviii, 2003, pp. 216-225 ; Idem, Teologia filosofica e filosofia della religione. Una vicenda moderna, « Humanitas », lix, 3, 2004, pp. 493-497.
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di quelli che ciascuna di esse condivide con la riflessione filosofico-religiosa precedente. Nel qualificare la sua riflessione sulla filosofia analitica come ‘circolare’, intendiamo invece sottolineare come, proprio perché le due tradizioni filosofiche hanno una radice comune, esse possono convergere per Olivetti sulle stesse problematiche che hanno segnato la nascita di entrambe. Torneremo su questo ultimo punto alla fine del nostro saggio, concentrandoci in prima battuta sull’analisi di Olivetti circa la nascita della filosofia analitica della religione. Analisi che, abbiamo accennato, riteniamo sia una premessa necessaria per comprendere il suo interesse verso questa tradizione filosofica. 1. Teologia razionale e filosofia della religione Secondo la lettura che ne propone Olivetti, la filosofia della religione, intesa come « elaborazione di un’impresa teologica a lume razionale, distinta e autonoma rispetto alla teologia rivelata, è in effetti una vicenda che caratterizza in modo non secondario la modernità ». 1 Riteniamo utile, dunque, prima di entrare nei dettagli della distinzione filosofia analitica/filosofia continentale, sottolineare i tratti peculiari che caratterizzano la filosofia della religione intesa come una nuova concezione dell’ ‘impresa teologica’ rispetto alla tradizione precedente, dato che solo all’interno di questo contesto, secondo Olivetti, tale distinzione può essere compresa in tutta la sua portata teoretica e metodologica. Questo compito preliminare, in breve, è per Olivetti quello di tracciare il confine fra la « teologia filosofico-razionale-naturale e quella rivelata ». 2 La categorizzazione della religione nell’età moderna, ovvero la filosofia della religione, « è nata come diretta conseguenza della moderna messa in questione del carattere cognitivo della metafisica, pretesa radice dello stesso arbor scientiarum (che, tra l’altro, consentiva la costruzione di una teologia razionale) ». 3 Nel brano appena citato, Olivetti fa riferimento alla crisi della teologia razionale come indagine conoscitiva, causata dal progressivo affermarsi dell’idea illuministica di scienza intesa come impresa epistemica oggettiva, caratterizzata da parametri teorici e metodologici quantificabili. In particolare, sottolinea Olivetti, la débâcle della metafisica tradizionale come scienza è dovuta al fatto che essa non è riuscita ad inserirsi nella « mentalità scientifica, alla quale essa aveva cercato di agganciarsi e che aveva cercato in toto di compiacere ». 4 In questo processo di «naturalizzazione» 5 della religione, della sua costituzione in oggetto di indagine scientifica nel senso moderno dell’espressione, non si deve focalizzare l’attenzione, avverte Olivetti, esclusivamente « sul terreno di lingua tedesca […] Ancor prima va considerata l’area culturale e linguistica inglese : basti pensare al significato che in questa vicenda ha Hume, con i Dialogues Concerning Natural Religion e con l’opera in qualche modo complementare, la Natural History of Religion ». 6 Le opere di Hume citate esemplificano al meglio il passaggio radicale dalla metafisica classica alla teologia naturale/razionale/filosofica moderna, nel loro complementarsi come pars destruens (i Dialogues) e pars construens (la Natural History) dello stesso
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Idem, Teologia filosofica e filosofia della religione, cit., p. 493. Corsivo nostro. Ibidem. È interessante notare come Olivetti utilizzi le espressioni ‘teologia filosofica’, ‘teologia razionale’ e ‘teologia naturale’ come sinonime, al fine di demarcare nella maniera più netta possibile la rottura con la teologia rivelata. 3 Idem, Naturalizzazione della religione, cit., p. 219. 4 Idem, Teologia filosofica e filosofia della religione, cit., p. 494. 5 Cfr. Idem, Naturalizzazione della religione, cit., p. 217. 6 Idem, Teologia filosofica e filosofia della religione, cit., p. 494. 2
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progetto conoscitivo : da un lato, infatti, Hume scalza la teologia rivelata su basi logicoepistemologiche ; dall’altro, propone una ricostruzione ‘naturale’, psicologico-sociale, del sentimento religioso. In questa prospettiva ‘allargata’ sulla nascita della filosofia della religione, Olivetti tende a considerare i suoi sviluppi in ambito continentale e analitico come meno distanti tra loro di quanto si sia comunemente ritenuto, evidenziando come entrambi gli approcci siano uniti da un netto rifiuto delle pretese epistemologiche e ontologiche della teologia razionale.
2. Filosofia della religione, filosofia analitica e filosofia continentale Qual è la spiegazione fornita da Olivetti circa le ragioni della radicale biforcazione della filosofia della religione in ambito europeo e nordamericano, considerato che queste due tradizioni, come abbiamo visto, hanno una nascita comune ? In un saggio del 1976, 1 notevole sia per la lucidità della prospettiva offerta che per la padronanza della letteratura specifica, Olivetti offre un quadro della situazione che riteniamo utile citare per intero.
Per intendere la situazione attuale della filosofia della religione nordamericana bisognerà evitare di pensarla nei termini della tradizione filosofica europea. In questa tradizione « filosofia della religione » ha sempre significato riflessione filosofica sulla religatio, sulla connessione che intercorre fra l’uomo e un altro termine, chiamato solitamente « Dio ». La caratteristica principale della filosofia della religione nordamericana può essere, invece, ravvisata nel divorzio fra teologia e religione e nella precipua tematizzazione speculativa del termine teologico ; la religione viene, pertanto, relegata sul terreno della ricerca empirica e considerata come semplice stato di coscienza o comportamento umano, indipendentemente dall’oggetto a cui essa si connette o pretende di connettersi. Tutto ciò ha le sue ragioni, oltre che in un certa tradizione filosofica, in una effettiva situazione religiosa. 2
Come si può cogliere da questo brano, Olivetti muove da considerazioni di carattere sociologico, alle quali lega riflessioni speculative. L’ambito nel quale si è delineata la riflessione sul fenomeno religioso in Europa è stato dominato dalla presenza « esclusiva o esclusivistica della religione cristiana (o giudaico-cristiana), rispetto alla quale non si ponevano altre religioni : le altre religioni erano solo le vecchie religioni, abolite o portate a compimento dal cristianesimo ». 3 Date queste premesse, compito della filosofia della religione, nota Olivetti, non poteva che essere quello di affermare l’unicità e l’assolutezza della religione cristiana. All’estremo opposto, la libertà religiosa è stata ufficialmente riconosciuta per la prima volta negli Stati Uniti. La società nordamericana è costitutivamente caratterizzata da tratti multi-culturali e multi-religiosi, ed « ha trovato una delle spinte alla propria formazione precisamente nella persecuzione e nell’intolleranza religiosa europea ». 4 Non sorprende, dunque, che proprio in ragione di una differenza radicale delle condizioni socio-culturali nelle quali si origina, la rifles
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Idem, Il problema religioso, cit., 1976. Ivi, p. 401. Corsivo nostro. Notiamo a margine come la riflessione sulla religione in ambito nordamericano si sia notevolmente arricchita nel corso dell’ultimo trentennio, in particolare grazie al rifiorire della teologia naturale e all’affermarsi della teologia riformata. Lo stesso Olivetti rende atto di questi sviluppi (si veda, a tale riguardo, Idem, Teologia filosofica e teologia religiosa, cit.). Per una panoramica complessiva in lingua italiana, rimandiamo a Mario Micheletti, Filosofia analitica della religione. Un’introduzione storica, Brescia, Morcelliana, 2002. 3 4 Marco M. Olivetti, Il problema religioso, cit., p. 402. Ibidem. 2
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sione filosofica sulla religione in nord America abbia incentrato la propria attenzione non tanto sulla strutturazione del rapporto religioso con la dimensione trascendente, quanto sulla definizione dei termini di tale rapporto – ovvero uomo e oggetto teologico – senza cercare di connetterli, ma « semmai, cercando una comprensione del termine teologico tale da giustificare “le varietà dell’esperienza religiosa” ». 1 Il riferimento all’opera di William James nel brano appena citato non è affatto casuale, dato che essa rappresenta l’esempio paradigmatico della prima delle due linee di ricerca in cui si è divisa la filosofia della religione nordamericana, quella più propriamente ‘empirica’, che tende a concentrarsi sull’aspetto non trascendente, nel caso di James soggettivo, dell’esperienza religiosa. Il secondo filone filosofico in cui si è biforcata la riflessione sulla religione nordamericana, influenzato profondamente dalla teologia processuale di Alfred North Whitehead, ha invece carattere più propriamente ‘speculativo’. Riassumendo, Olivetti sostiene che
[i] due orientamenti di fondo che ci sembra possibile ravvisare nella filosofia analitico-religiosa nordamericana si caratterizzano, invero, proprio per il fatto o di prescindere dall’oggetto teologico, oppure, nel caso dell’orientamento più moderato, di relegarlo in una dimensione non tematizzabile, che pertanto lo dissolve come oggetto e lo trasforma piuttosto in orizzonte. 2
Questo secondo orientamento rappresenta, per Olivetti, una manifestazione più specificamente nordamericana rispetto all’orientamento ‘radicale’, che risente invece dell’influenza della tradizione analitica britannica. 3 In altre parole, mentre la direttrice di ricerca empirica prescinde dall’oggetto teologico, il filone ‘moderato’, che vede nelle questioni religiose delle domande-limite, escludendo l’aspetto della loro referenza a una dimensione trascendente in quanto non rilevante, ne riconosce quantomeno la possibilità. Dopo aver cercato di ricostruire a grandi linee il quadro d’insieme della filosofia della religione occidentale nel quale Olivetti considera le tradizioni analitica e continentale come ‘geneticamente’ unite ma separate alla nascita, passiamo ora a considerare la propensione di Olivetti a mettere in risalto somiglianze di fondo nelle due tradizioni filosofiche, pur nel rispetto delle differenze di metodo e di strumenti concettuali impiegati. 3. Il problema del linguaggio : referenza e intersoggettività
La tradizione analitica e quella fenomenologica, secondo la lettura di Olivetti, hanno in comune il rigetto della tradizione metafisica ontologica (della teologia razionale in particolare) e la rinuncia a pretese conoscitive circa l’oggetto teologico. Filosofia analitica e fenomenologia – in altre parole – dismettono il problema della referenza ; tuttavia, Olivetti sostiene che « l’elusione del problema della referenza non è così semplice sul terreno della filosofia della religione ; tale problema tende inevitabilmente a ripresentarsi, anche se con
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2 Ibidem. Ivi, p. 409. In generale, la specificità del contributo della tradizione filosofica britannica alla filosofia analitica della religione consiste « nella caratterizzazione della filosofia della religione come una ricerca sui tipi di enunciati che esprimono la credenza religiosa e sulla logica del discorso in cui la credenza trova espressione. » (Mario Micheletti, Filosofia analitica della religione, cit., p. 11.) A questo riguardo, riteniamo utile sottolineare, a testimonianza dell’interesse e dell’attenzione di Olivetti per la complessità della tradizione angloamericana, la frequente partecipazione di D. Z. Phillips, uno degli esponenti principali della filosofia della religione analitica britannica di orientamento wittgensteiniano, ai ‘Colloqui Castelli’, pensati da Olivetti come luogo privilegiato in cui approcci filosofici diversi potessero convergere o, al contrario, manifestare i propri tratti irriducibili. 3
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caratteristiche particolari, che possono renderne difficile il riconoscimento ». La nascita della filosofia della religione, fondandosi sulla crisi dell’argomento ontologico inteso come movimento dall’essenza all’esistenza, da un lato impone la rinuncia a pretese scientifiche circa l’oggetto teologico, dall’altro focalizza la propria attenzione sull’attività umana che ne presuppone l’esistenza : la religione. Allo stesso tempo, proprio questa peculiarità costitutiva della filosofia della religione, crea, per Olivetti, una situazione paradossale : « la crisi della teologia naturale [rinvia] ad una considerazione della religione, considerazione che, a sua volta, richiede la conoscibilità filosofica di Dio », 2 dalla cui rinuncia è nata la stessa filosofia della religione. I tentativi di uscire da tale paradosso, condotti mettendo da parte le pretese conoscitive circa l’oggetto teologico, come è stato fatto in ambito analitico, o ritenendo « definitiva e conclusa la critica all’ontoteologia », 3 come si è sostenuto nella riflessione continentale, sono insufficienti per Olivetti, in quanto
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non colgono in nessun modo la natura del problema che si è posto col circolo paradossale fra «teologia naturale» e «filosofia della religione». In realtà tale circolo non è altro che la figura estrema – negativa, o meglio paradossale, appunto – assunta dall’argomento ontologico – culmine e fondamento della teologia razionale – dopo la messa in discussione della metafisica come ontologia. 4
Quale sarebbe dunque, secondo Olivetti, la “natura del problema” posto dal circolo paradossale in cui si trova la filosofia della religione ? E per quale ragione egli ritiene che i tentativi attuati su entrambi i fronti filosofici, quantomeno fino ad un certo periodo, dopo il quale gli sviluppi della filosofia della religione analitica convergerebbero con quelli raggiunti sul versante continentale verso una soluzione più soddisfacente del problema, siano inadeguati ? La paradossalità che caratterizza la filosofia della religione « ripete esattamente quella crisi del passaggio dall’essenza all’esistenza onde l’esistenza […] si mostra anteriore e fondante rispetto all’essenza (in questo caso la teologia razionale) ». 5 Escludere dalla teorizzazione filosofico-religiosa la riflessione su Dio – come hanno fatto certa tradizione analitica e fenomenologica – non risolve certo la crisi dell’argomento ontologico ; al più, ne rimuove un termine, lasciando intatta la problematicità del rapporto essenza-esistenza. 6 Il nodo della questione, secondo Olivetti, sta nel fatto che la filosofia della religione si è « configurata inizialmente come una teoria filosofica della società », 7 in continuità con i precetti della sociologia classica che considera « la dimensione religiosa come costitutiva della società ». 8 Diversamente, questa dimensione sociale è stata abbandonata dalla filosofia della religione contemporanea di entrambe le tradizioni : da parte continentale, i pensatori che si sono occupati del problema religioso « hanno affermato infatti con vigore il principio della regionalità della coscienza : una regionalità che è stata spinta fino al punto di negare la soggettività trascendentale » ; 9 dal lato analitico, in modo
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Ivi, p. 763. Marco M. Olivetti, Filosofia della religione e teoria della società : la crisi dell’argomento ontologico, « Archi3 Ivi, p. 609. vio di Filosofia », vol. lvii, 1-3, 1989, p. 608. 4 5 Ibidem. Corsivo nostro Ivi, p. 614. 6 Per una discussione approfondita sull’argomento ontologico, che comprende contributi analitici e continentali, rimandiamo agli atti del convegno Castelli tenutosi nel 1990, raccolti in L’argomento ontologico, a 7 Ibidem. cura di Marco Maria Olivetti, Padova, Cedam, 1990. 8 Ivi, p. 615. Olivetti sottolinea come anche nelle teorie evolutive della società la componente religiosa è comunque « considerata come dimensione originariamente essenziale alla società » (ibidem). 9 Marco M. Olivetti, Fenomenologia e filosofia analitica : una nuova relazione ? Questioni di filosofia della religione, « Archivio di Filosofia », liv, 1-3, 1986, p. 762. 2
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analogo e speculare, si sono applicate le tesi del secondo Wittgenstein al linguaggio religioso, rendendone interamente esterno e pubblico il senso attraverso il riferimento all’uso linguistico piuttosto che alla referenza. Per Olivetti entrambe queste prospettive risultano insoddisfacenti, proprio perché mancano di una dimensione sociale in senso classico. Soffermiamoci sulle ragioni di tale insufficienza nella prospettiva analitica. Il linguaggio in quanto comunicazione intersoggettiva di senso – sostiene Olivetti – presuppone sempre una doppia riflessività, quella del soggetto e quella della società. Una teoria semantica incentrata sull’uso rende ‘piatta’ la comunicazione, facendola coincidere con un solo livello, mentre la teoria del significato non è di un solo livello, ovvero introduce la riflessività [… e] dà luogo ad una moltiplicazione di livelli che impedisce di riprodurre semplicemente, sul lato del soggetto, una picture-theory ; la riflessività, in quanto connessa al linguaggio, non è mai semplice, ma originariamente doppia […] Questa implicazione impedisce di far coincidere il significato con ciò che ho coscientemente significato o inteso dire ; proprio per ciò la comunicazione dell’intenzione richiede non il mero riconoscimento, bensì l’interpretazione da parte dell’altro. 1
Queste considerazioni sugli aspetti comunicativi del linguaggio ci riportano a quanto detto circa la necessità della filosofia della religione di riallacciare i legami interrotti con la teoria della società. Il rapporto comunicativo, al pari dell’apprendimento linguistico, è costitutivamente diacronico e asimmetrico, e in esso « la prima parola di ego è sempre successiva a quella rivoltagli da alter ». 2 L’altro incorpora, nell’interpellarmi, l’intera società e « [l]a riflessività del sistema si dà per la prima volta nella riflessività di alter ego che mi interpella, ed è solo in quanto viene messa in funzione da costui, ovvero è solo in quanto essa appella la mia riflessività, che si dà la riflessività del sistema totale ». 3 Olivetti propone dunque un recupero della dimensione sociale da parte della filosofia della religione tout court attraverso la presa d’atto del
carattere non simmetrico di ogni sintesi della comunicazione, ovvero [del]la diacronia che caratterizza il rapporto comunicativo della doppia riflessività, [e che] conferisce all’etica il significato di «filosofia prima» in un’accezione non fondativa […] Nel rapporto fra le due riflessività-limite del sistema comunicativo, l’azione sensata del soggetto è originariamente sempre risposta in un commercio di senso già instaurato, risposta ad una domanda di senso che è offerta di senso. 4
È proprio su questa base che diventa possibile individuare in certa filosofia analitica più recente « una svolta pragmatica » 5 attenta alla dimensione intersoggettiva della comunicazione linguistica. Ciò è particolarmente importante nel caso specifico del linguaggio religioso, il cui carattere referenziale sembra essere chiaramente implicito nella pratica « dell’agente e della comunità che prende parte a quel determinato gioco linguistico », 6 e tale problema non può essere certo evitato supponendo un carattere non proposizionale delle proposizioni religiose. Richiamando brevemente quanto detto circa la crisi dell’argomento ontologico e la
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2 Ivi, 769. Corsivo nostro. Ivi, p. 772. 4 Ibidem. Corsivo nel testo. Ivi, p. 773. Corsivo nel testo. 5 Ivi, p. 777. A questo riguardo, sarebbe interessante tracciare delle analogie tra quanto dice Olivetti e le riflessioni di Wilfrid Sellars sulla comunicazione e apprendimento linguistici in termini di language entry transitions, intra-linguistic moves e language exit transitions. Si veda per esempio il suo saggio Meaning as Fun6 Ivi, pp. 777-778. ctional Classification, « Synthese », xxvii, 3-4, 1974, pp. 417-437. 3
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paradossalità costitutiva della filosofia della religione, Olivetti nota come questo recupero della dimensione sociale intersoggettiva da parte della filosofia della religione di entrambe le tradizioni 1 rappresenti una nuova ‘figura’ dell’argomento ontologico :
[i]l sostituirsi di una scienza della società (la sociologia nel suo momento di teoria della società) alla scienza di Dio (la teologia come teologia razionale) non muta in alcun modo i termini della questione. A differenza di ogni altro sapere, infatti, la scienza della società è il sapere della totalità sapiente, cioè è ancora una volta caratterizzata da questa riflessività del tutto particolare per cui essa non pensa se stessa soltanto, ma se stessa e più di se stessa, l’individuo e la classe, e pensa l’uno solo in quanto pensa l’altra, e viceversa. 2
Secondo Olivetti, dunque, occorre «evidenziare in modo estremo la concezione univoca dell’essere fatta valere dall’argomento ontologico» 3 attraverso la messa in luce delle dinamiche sociali intersoggettive nella comunicazione di senso. A tal fine, la filosofia della religione contemporanea deve recuperare le pretese della metafisica ontologica « nel senso di un recupero e di una precedenza del credo ut intelligam rispetto a quell’intelligo ut credam che nella modernità si era reso autonomo dalla circolarità che aveva per l’innanzi vissuto con l’altro termine ». 4 In questa sua interpretazione delle vicende della filosofia della religione, delle sue lacune, e delle direzioni che egli auspica dovrebbe prendere, Olivetti nota una singolare convergenza della tradizione analitica con quella continentale. Citiamo, a tale riguardo, due casi che abbiamo rinvenuto nei suoi scritti. Il primo riguarda il filone nordamericano dell’epistemologia riformata, secondo il quale, in estrema sintesi e prescindendo dalle caratterizzazioni specifiche dei singoli filosofi, la credenza nell’esistenza di Dio è una credenza basilare (properly basic) e non ha bisogno di argomenti come condizione necessaria della sua razionalità. 5 In questo senso, l’epistemologia riformata sembra muoversi lungo la direttrice auspicata da Olivetti, quella tendente cioè a considerare come fondamentale l’atto di fede nell’esistenza di Dio, atto che è insieme recupero delle pretese conoscitive della metafisica classica ed espressione di un atteggiamento pienamente razionale, nel senso che « la credenza in Dio può essere razionale anche se non è accettata sulla base di un’evidenza proposizionale ». 6 L’altro caso cui Olivetti fa riferimento riguarda la trattazione del problema del male offerta da Richard Swinburne, esponente di rilevo della corrente ‘evidenzialistica’ in filosofia analitica della religione. A proposito delle sue più recenti interpretazioni della teodicea, Olivetti nota come Swinburne ne rovesci la formulazione ‘classica’, sostenendo che la sofferenza patita da un soggetto non è soltanto la condizione necessaria affinché altri essere umani possano compiere del bene, ma è essa stessa un bene per l’individuo che la subisce. Questa tesi,
1 Per ragioni di coerenza tematica, e di spazio, non possiamo soffermarci in questa sede sugli sviluppi paralleli in filosofia continentale che mostrano una messa da parte del ‘metodo fenomenologico’, e un’apertura a una dimensione pragmatica intersoggettiva, ai quali Olivetti fa riferimento nei testi in discussione. 2 Marco M. Olivetti, Filosofia della religione e teoria della società, cit., pp. 616-617. Corsivo nel testo. 3 Ivi, p. 617. Corsivo nostro. 4 Idem, Teologia filosofica e filosofia della religione, cit., p. 496. 5 Filosofi che si collocano nell’area dell’epistemologia riformata sono, tra gli altri, Alvin Plantinga, William Alston e Nicholas Wolterstorff. Per un approfondimento di questa tematica, si vedano, in italiano, il già citato volume di Mario Micheletti, Filosofia analitica della religione, cit., pp. 93-124 e Nicholas Wolterstorff, Che cosa ha reso possibile la teologia filosofica nella tradizione analitica, « Humanitas », vol. 59, 3, 2004, pp. 451-464. 6 Mario Micheletti, Filosofia analitica della religione, cit., p. 94. Corsivo nel testo.
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per Olivetti, « mette in luce una dimensione di fondo intersoggettiva (o interpersonale), che lascia intravvedere nel filosofo cristiano Swinburne un atteggiamento simile a quello del filosofo ebreo Lévinas e fa affiorare l’incidenza del motivo – diversamente configurantesi nelle due tradizioni religiose – dell’elezione come sostituzione che comporta patimento ». 1 Anche in Swinburne, dunque, sarebbe ravvisabile uno ‘sdoppiamento intersoggettivo’ di fondo che ha implicazioni di natura metafisica. E’ bene sottolineare come per Swinburne – a differenza delle proposte dell’epistemologia riformata – la credenza nell’esistenza di Dio è razionale solo se giustificata ; se è possibile fornire, cioè, evidence in favore dell’esistenza di Dio. Nel contesto del suo approccio ‘cumulativo’ alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, una parte importante è ricoperta dalla formulazione di un’adeguata teodicea, il cui nucleo centrale consiste nella difesa del libero volere umano a fronte del male morale, ossia del male causato dagli uomini, volontariamente o per negligenza. Se l’uomo deve condividere l’opera creativa di Dio, allora « [è] bene che le scelte libere degli uomini debbano includere una responsabilità autentica verso gli altri uomini, e che implichino l’opportunità di beneficiarli o di danneggiarli ». 2 È chiaro come queste affermazioni lascino spazio all’interpretazione di Olivetti secondo cui anche nella riflessione di Swinburne sul male la dimensione intersoggettiva sia fondata su un primato dell’etica, nel senso che è proprio tale responsabilità assoluta e ‘autentica’ verso i propri simili a costituire la vera natura dell’uomo in quanto immagine divina. Valutare la lettura di queste tendenze in filosofia analitica della religione fornita da Olivetti – dell’approccio di Swinburne in particolare, che ci sembra essere il caso più controverso – esula dagli scopi di questo lavoro. Quello che ci sembra opportuno sottolineare, invece, è come l’accostamento di filosofi tanto dissimili come Swinburne e Lévinas sia un segno evidente dell’ampiezza degli interessi filosofici di Olivetti, nonché della sua capacità di mettere in dialogo pensatori appartenenti a tradizioni diverse. 3 Testimonianza della volontà filosofica di Olivetti di costruire un ambito di convergenza e di confronto su temi che, a partire dalla filosofia della religione, contribuiscano a chiarire le coordinate di quello che egli chiama il senso dell’« aujourd’hui philosophique » 4 è data dai prestigiosi ‘Colloqui Castelli’, che ogni due anni giocano un ruolo di catalizzatore promuovendo la discussione tra filosofi e studiosi sia analitici che continentali intorno ad una tematica specifica. A questo riguardo, il nostro saggio ha cercato proprio di mostrare come l’interesse di Olivetti verso un confronto senza pregiudizi tra le due tradizioni filosofiche sia interno ad una riflessione sistematica che lega le vicende della filosofia della religione ad una precisa interpretazione della modernità. In questo contesto, il problema religioso rappresenta « una prospettiva privilegiata per considerare la possibilità di un rapporto fecondo fra tradizione fenomenologica e tradizione analitica », 5 proprio
1 Marco M. Olivetti, Compassione o teodicea. L’appropriazione religiosa del problema del male nella filosofia contemporanea, in Bene, male, libertà, « Seconda navigazione. Annuario di filosofia », Milano, Mondadori, 1999, pp. 219-238. Per l’approccio di Swinburne alla teodicea si veda Richard G. Swinburne, Providence and the Problem of Evil, Oxford, Clarendon Press, 1998. Una introduzione insieme accessibile e sistematica al pensiero di Swinburne è il suo Is There a God ?, Oxford, University Press, 1996, trad. it. a cura di Giulio Riccioni, Esiste un Dio ?, Padova, Cedam, 2002. 2 Richard G. Swinburne , Esiste un Dio ?, cit., p. 88. Corsivo nel testo. 3 Allo stesso modo, Olivetti accosta filosofi che, pur appartenendo alla stessa tradizione, sostengono posizioni teoriche difficilmente conciliabili, come per esempio il già citato D. Z. Phillips e lo stesso Swinburne. 4 Marco M. Olivetti, L’argument ontologique et la phiosophie contemporaine. Intoduction aux traveaux, in « Archivio di filosofia », lviii, 1-3, 1990, p. 13. 5 Marco M. Olivetti, Fenomenologia e filosofia analitica, cit., p. 761.
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in virtù delle caratteristiche intrinseche dell’oggetto religioso che lo configurano come « un caso limite, perché il rinvio oltre la coscienza appartiene all’essenza stessa del noema ; appropriatamente dunque esso può venir detto “totalmente altro” ». 1
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Ivi, p. 763.
FILOSOFIA DELLA RELIGIONE COME PROBLEMA STORICO Pietro De Vitiis Filosofia della religione e filosofia della storia in Schleiermacher e Schelling
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l volume di Olivetti Filosofia della religione come problema storico del 1974 1 può essere considerato da un duplice punto di vista : da una parte è un’ indagine sulla storia della filosofia della religione nel periodo del romanticismo con particolare attenzione all’idealismo romantico e tende a mettere in rilievo che tale periodo si caratterizza per la stretta connessione fra filosofia della storia e filosofia della religione ; dall’altra, però, è anche una riflessione approfondita su temi teorici, come quello della identità e della differenza in rapporto alla totalità e al significato, la quale tende ad indagare quali siano le prospettive che si aprono dopo il fallimento del tentativo idealistico di pensare la totalità della storia in rapporto alla concezione del cristianesimo come religione assoluta, alla quale corrisponde, dal punto di vista filosofico, il sapere assoluto. Che questo interesse storiografico sia non solo presente nel volume sopracitato ma anche di non secondaria importanza, risulta anche dal fatto che Olivetti, in una sua successiva ricostruzione globale e sintetica dello sviluppo storico della filosofia della religione, pone alla base della periodizzazione proprio il rapporto che essa può avere con la filosofia della storia :
In effetti – egli scrive – la filosofia della storia è storicamente connessa alla filosofia della religione per più aspetti… Tale connessione non solo scandisce una precisa fase storica della filosofia della religione – quella in cui “filosofia della religione” diviene il nome istituzionalizzato per una disciplina specifica – ma anche identifica un tipo ideale della filosofia della religione ; infatti le due fasi storiche di quest’ultima, scandite, rispettivamente e successivamente, dall’assenza e dalla presenza della filosofia della storia, si sono cristallizzate nel concreto esercizio della teoria e rappresentano tutt’oggi i due generi sommi, per così dire, in cui si configura la filosofia della religione : quello non storico… prevalente nella filosofia angloamericana di stile analiticoempiristico… e quello storico ed ermeneutico prevalente nella filosofia di tradizione europeo –continentale. 2
La connessione fra storia e religione è tipica del periodo romantico, ma una anticipazione si può già trovare in Lessing, il quale nello scritto Die Erziehung des Menschengeschlechts fa riferimento alla storia come processo di educazione del genere umano, che poi si configura come una storia della rivelazione. Lessing non ha però una visione speculativa della storia, non la pensa cioè in rapporto al tutto e all’infinito ma la assume come fatto, e la stessa cosa vale anche per la sua concezione della religione :
1 M.M.Olivetti, Filosofia della religione come problema storico. Romanticismo e idealismo romantico, Padova, Cedam, 1974. 2 Idem, Filosofia della religione, in La filosofia, a cura di P. Rossi, Torino, utet, 1995, vol. i, p. 184.
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Anche la religione viene presa da Lessing nella sua esistenza di fatto, senza che ne vengano problematizzati i rapporti col tutto e, dunque, senza che di essa possa essere individuata la specificità che la costituisce nel suo rapporto col tutto, contraddistinguendola da altre forme che ad essa si rapportano. 1
Più vicino al romanticismo è Herder, che nelle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit valorizza la dimensione storica, sebbene anche in lui manchi il momento speculativo, in quanto l’universale si realizza per lui nei singoli periodi storici, cosicché si può anche prescindere dalla totalità storica. Pertanto, « l’impossibilità di far rientrare il pensiero herderiano in un orizzonte “speculativo” dipende, viceversa, dal fatto che la storia consegue bensì una positiva dignità come perenne manifestazione del divino o dell’umanità, ma tuttavia non è totalizzabile e, dunque, non consente di pensare ad un fatto storico come ad un fatto assoluto ». 2 Per quanto riguarda Kant, egli sembrerebbe quindi più lontano dalla visione romantica rispetto a Lessing e a Herder, in quanto egli pone una opposizione essenziale fra religione pura e storia, però questo rapporto, sia pur negativo, assume per lui un carattere essenziale e non è un mero fatto da assumere. 3 Da Lessing a Herder una linea di sviluppo conduce fino a Schleiermacher, che afferma la storicità della religione, però non all’insegna della identità, come farà poi Schelling, bensì nel segno della differenza, e questo ci sembra l’aspetto caratteristico dell’interpretazione di Olivetti. La totalità della religione, la religione assoluta non è mai raggiungibile, ma sono reali solo le molteplici forme storiche di vita religiosa, che poi si succedono nel tempo :
La totalità della religione totale (e della vera chiesa) è puramente negativa perché essa si definisce come totalità solo in base a quella esigenza di identificazione che la forma, in quanto è forma, avverte costitutivamente ; ma proprio questa esigenza, mai soddisfatta, sospinge la forma individuata ad associarsi, per così dire, infinitamente con altre forme, smentendo quindi lo stesso desiderio che la muove. 4
Questo predominio della differenza nella religione si comprende se si tiene presente che mentre la metafisica e la morale sono forme attive, che quindi tendono all’identificazione, invece la religione è passiva in quanto sentimento e intuizione, e ciò comporta che la soggettività non riesca a ricondurre la molteplicità della realtà esterna, cioè la differenza, all’identità. 5 Proprio per questo predominio della differenza il pensiero di Schleiermacher ha un carattere rivoluzionario rispetto ad una tradizione millenaria. Nonostante questa impostazione fondata sulla differenza, Schleiermacher compie una sorta di « assolutizzazione trascendentale del cristianesimo », 6 nel senso che esso è la religione storica in cui si manifesta l’essenza stessa della religione, cosicché « è l’intuizione non di una religione particolare, bensì della religione in quanto tale divenuta reale, storica, positiva ». 7 Nel cristianesimo viene in luce che la religione è la mediazione fra il finito e l’infinito compiuta dalla divinità stessa : anche i concetti di miracolo, di rivelazione sono da intendere appunto in questo senso, come segni sempre nuovi che la divinità invia per superare la separazione. In questo modo il cristianesimo viene ad acquisire una sorta di superiorità, e cioè viene a « collocarsi ad un piano superiore grazie
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M. M. Olivetti, La filosofia della religione come problema storico, cit., p. 73. 4 Ivi, p. 85. Ivi, p. 123. 6 Ivi, p. 134. 3
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Ivi, pp. 82-83. Ivi, p. 104-105. 7 Ivi, p. 137. 5
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all’assunzione a proprio contenuto della forma stessa delle religioni, quella forma per cui esse tutte sono tali, per cui esse sono tutte religioni ». 1 Questo però non significa che il cristianesimo sia una religione assoluta nel senso della definitività e della compiutezza ; anch’esso è storico e quindi transitorio, e non può nemmeno escludersi l’apparire di nuovi mediatori : la superiorità del cristianesimo sta proprio nell’aver scoperto la storicità della religione. In questo modo viene ad assumere un valore filosofico l’idea della tolleranza : « La tolleranza religiosa dunque, non ha, in un contesto siffatto, il valore di un ideale civile o, comunque, empirico, ma ha immediatamente e necessariamente un valore teoretico… ». 2 Per Schleiermacher l’esclusivismo della religione assoluta è una degenerazione della vita religiosa, in quanto una religione autentica dovrebbe esser consapevole della propria parzialità e quindi dell’esigenza del rinvio ad altre forme di esperienza religiosa nel quadro di una sorta di ecumenismo. Chiaramente dunque in Schleiermacher l’identità non riesce mai pienamente ad affermarsi sulla differenza. E questo « divide profondamente la visione schleiermacheriana da quella idealistica che si definisce come tale precisamente per il tentativo di pensare la storia in termini di identità, togliendola con una identificazione totalizzante ». 3 Egli si viene quindi a collocare fra Kant e l’idealismo postkantiano, perché da una parte rifiuta il rapporto negativo che Kant instaura fra la religione razionale e la storia ed afferma la positività della storia, dall’altra recupera il trascendentalismo kantiano, però lo fa procedere verso il superamento idealistico. Nell’individuare la posizione storica di Schleiermacher, Olivetti ne pone anche in rilievo una certa incoerenza, appunto in quanto « esalta clamorosamente la differenza, per poi ritornare, in extremis, ad ormeggiarsi a quell’orizzonte trascendentale che prima voleva aver cancellato con un colpo di spugna ». 4 Dopo la trattazione su Schleiermacher Olivetti passa ad esaminare il pensiero di Schelling, di cui prende in considerazione soprattutto le opere intorno al 1802 e in particolare le Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums e la Philosophie der Kunst, che uscirono appunto in quell’anno. È questa la parte di maggiore impegno del volume, perché contiene un esame approfondito del pensiero schellinghiano che si sviluppa per circa 150 pagine e che con grande acutezza critica fa emergere le aporie cui esso va incontro ; questa analisi critica è poi la premessa per avanzare delle proposte teoriche che dovevano essere approfondite nel secondo volume dell’opera. Con Schelling si apre uno scenario diverso, sia pur nella comunanza della visione storica con Schleiermacher, caratterizzato dal predominio dell’identità, e il cristianesimo stesso è collocato nel quadro di una filosofia dell’identità che consente la reciprocazione fra storico e speculativo. Il primo dei due capitoli dedicato da Olivetti a Schelling esamina la formula secondo cui il cristianesimo è speculativo in quanto è storico, e si avvale soprattutto delle sopracitate Vorlesungen del 1802, in cui il cristianesimo è considerato primariamente come idea eterna e solo subordinatamente come fenomeno storico. Per Schelling – come del resto anche per Hegel – i contenuti storici del cristianesimo hanno una importanza speculativa, cosicché per cogliere l’essenza di esso bisogna considerare la storia ; infatti è la dottrina trinitaria che consente una visione speculativa della storia : la costruzione speculativa del cristianesimo è costruzione speculativa della storia, che si estende all’intera storia ed è quindi totalizzante.
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Ivi, p. 139. Ivi, p. 156.
Ivi, p. 129. Ivi, pp. 149-150.
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Olivetti fa anche osservare che in Schelling è sempre presente la tensione fra storico e speculativo, in quanto la reciprocabilità fra la prospettiva « che ri-assume l’assoluto nella storia e quella che attrae la storia nell’assoluto » 1 non è mai pienamente raggiunta. « In realtà proprio la possibilità di considerare il rapporto fra assoluto e storia nelle due reciproche direzioni è piuttosto il segno, ad onta delle intenzioni schellinghiane, dell’equilibrio instabile e tutt’altro che “indifferente” in cui si trovano fra loro i due termini, sempre tesi uno all’assorbimento dell’altro : sì che la considerazione tematica dell’una o dell’altra delle due direzioni tende a risolversi nel predominio di quello che volta per volta costituisce il termine ad quem (dallo speculativo alla storia, dalla storia allo speculativo) ». 2 Questa tensione mai risolta appare anche dalle diverse fasi del pensiero schellinghiano. Se nelle Vorlesungen del 1802 sostanzialmente storico e speculativo sono in equilibrio, nello scritto Philosophie und Religion del 1804 invece, che Olivetti definisce « lo scritto più esplicitamente platonico di Schelling », viene portata all’estremo la tendenza a svalutare lo storico rispetto allo speculativo, sebbene poi anche in tale scritto rimanga la presenza di qualche elemento storico. Alla fine Schelling però arriverà a subordinare pienamente lo speculativo allo storico. « L’esito ultimo, semmai, può essere considerata – e non certo in base ad un banale ed ovvio criterio cronologico – la Filosofia della rivelazione, con la subordinazione che in essa ha luogo, dello speculativo allo storico ». 3 Olivetti fa anche osservare che questa oscillazione dipende dal rapporto con Fichte : quando Schelling intende sviluppare l’eredità fichtiana tende a subordinare lo speculativo allo storico, quando invece intende staccarsi da Fichte accentua l’importanza dello speculativo. 4 Il problema quindi è anche quello delle molteplici influenze e componenti presenti nel pensiero di Schelling, e della loro compatibilità, come si vedrà successivamente. Un altro aspetto di tensione e di instabilità nel pensiero di Schelling, connesso a quello già preso in esame, è dato dal rapporto fra la religione assoluta, intesa come evangelo assoluto o evangelo eterno, e quindi come religione esoterica, e il cristianesimo storico ed empirico : a volte Schelling sembra svalutare quest’ultimo rispetto alla prima, però nell’ultima fase del suo pensiero egli ritorna, abbandonando il vagheggiamento della religione assoluta, al cristianesimo storico. Il cristianesimo consente dunque la visione assoluta e quindi totalizzante della storia, e questo già rivela immediatamente il carattere divino di esso ; non c è bisogno di ricorrere ai miracoli per la sua convalida, dato che già la rivelazione è di per se stessa un miracolo, né c’è bisogno di ricorrere a motivazioni di carattere morale, tanto più che per Schelling la morale non è un elemento caratterizzante del cristianesimo, a meno che non si intenda la storia stessa come regno morale. 5 È chiaro che egli in questo modo critica la filosofia della religione kantiana che fonda la religione sulla morale e che ha il difetto fondamentale di mirare « solo ad allontanare completamente il positivo e lo storico dal cristianesimo ed a chiarirlo in pura religione razionale ». 6 L’esposizione del pensiero schellinghiano si è fondata finora soprattutto sulle Vorlesungen, che considerano il cristianesimo come un’idea eterna, corrispondentemente alla formula che il cristianesimo è speculativo in quanto è storico ; successivamente invece viene in primo piano la Philosophie der Kunst, per la quale il cristianesimo è visto come manifestazione storica, conformemente alla formula che esso è storico in quanto speculativo : la filosofia dell’arte, infatti, esamina i modi della manifestazione storica,
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Ivi, p. 197. Ivi, p. 193.
Ivi, pp. 197-198. Ivi, pp. 187-190.
Ivi, pp. 201-202. Ivi, p. 189.
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cioè il simbolo e l’allegoria. Le due formule nella loro unità costituiscono una sorta di chiasmo, il che è significativo riguardo al carattere diadico e contrappositivo del modo di procedere schellinghiano. Nel simbolo si realizza la consistenza e la stabilità del finito, esso corrisponde quindi al paganesimo, alla mitologia ed alla assolutezza dell’arte che in questa si realizza ; l’allegoria invece è un rinvio nella significazione che ben può corrispondere alla struttura della storia la quale rinvia ad un significato ultimo, totale : essa dunque ben si adatta al carattere del cristianesimo in quanto visione storica.
La storicità del cristianesimo che non è nient’altro che la sua allegoricità, cioè il fatto che il significante, non coincidendo col significato, viene tolto nella sua finitezza dall’infinità del significato a cui rinvia. Nel simbolo l’infinito viene assunto nel finito, nell’allegoria il finito viene assunto nell’infinito. 1
Questa assunzione del finito è il toglimento o l’Aufhebung di esso. che dà luogo alla storia. La dimensione simbolica rende possibile la pienezza dell’arte e della dimensione estetica, per questo forse Schelling è incline a volte nella Philosophie der Kunst ad affermare la superiorità del paganesimo sul cristianesimo, un atteggiamento che non sarà certo presente nelle opere più tarde. Però anche nel cristianesimo è operante una dimensione simbolica e mitologica, che trova espressione nella visibilità della chiesa come opera d’arte vivente. « È chiaro altresì come simbolo, seppure nel senso peculiare di simbolo vivente, dell’età moderna possa essere soltanto la chiesa, come visibile, oggettiva traduzione di quella totalizzazione del significato che ha luogo nell’invisibile e soggettiva anticipazione della fede ». 2 Nel cristianesimo il simbolo può assumere solo la forma di azione simbolica, che poi nella chiesa trova espressione nella liturgia e nel culto, che a volte possono manifestare anche aspetti di riavvicinamento al paganesimo ; ciò implica poi « che la mitologia moderna è da ricercare solo nel cattolicesimo », 3 e a volte Schelling prende le distanze dal protestantesimo sia per quanto riguarda l’autorità della morta lettera del testo sacro sia a proposito del soggettivismo del libero esame; 4 Schelling concepisce la storia come storia dello Spirito : questa trova la sua base nella chiesa come simbolo e questa unione fra pneumatologia ed ecclesiologia è richiesta dalla totalizzazione del significato della storia. Però proprio questa centralità della chiesa nella visione storica totalizzante fa sorgere, secondo Olivetti, delle difficoltà sul piano della costruzione del sistema filosofico, poiché la chiesa rappresenta l’elemento speculativo, ideale, e quindi « la vera identità come identità non idealizzata, bensì come identità di ideale e reale, soggettivo e oggettivo, privato e pubblico » non giunge mai a realizzazione. La chiesa ha sempre fuori di sé il suo opposto reale, lo stato : « Schelling sottolinea l’idealità della stessa chiesa visibile contrapponendola da questo punto di vista all’altra dimensione della pubblicità, lo stato ». 5 In questo modo – fa osservare Olivetti – egli ricade in quella « soggettivizzazione dello speculativo rimproverata » da lui a Fichte. 6 Anche la distinzione che Schelling introduce fra caduta e incarnazione contribuisce a aggravare le difficoltà, perché se la produttività dell’identità esce dall’ideale e raggiunge il reale, rischia di trasformarsi in caduta. 7 Schelling si trova insomma in una situazione aporetica : « Dietro l’apparente
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Ivi, p. 208. Ivi, pp. 244-245. 6 Ivi, p. 287. 4
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Ivi, p. 278.
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Ivi, p. 246. Ivi, p. 284. 7 Ivi, p. 296. 5
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geometrismo della filosofia dell’identità si cela un inestricabile groviglio di aporie e di rinvii ; la sintesi di invisibile e visibile, esoterico ed essoterico, privato e pubblico, non trova mai veramente luogo, ed ogni affermazione di questa sintesi è sempre interna all’ideale… » 1 Olivetti ritiene che la vera difficoltà di fondo del pensiero schellinghiano stia nella « non conciliabilità di libertà e necessità, di fichtianesimo e spinozismo nella filosofia dell’identità », 2 anche perché il metodo diadico di Schelling non è adatto a risolvere la scissione fra l’aspetto spinoziano di un piano universale eterno e quello fichtiano di un piano che deve tradursi in storia. Meglio avrebbe potuto la dialettica hegeliana, col suo procedimento triadico, superare la scissione : « Come si vede, la situazione non è affatto semplice e priva di difficoltà ; probabilmente solo la dialettica hegeliana, e non un chiasmo operante solo su uno dei due piani dell’assoluto, poteva risolvere quella aporetica combinazione di spinozismo e storia, con cui Schelling aveva pensato di ricondurre all’identità la differenza ». 3 Schelling però per uscire da tali difficoltà finisce nella fase tarda del suo pensiero col subordinare lo speculativo allo storico.
Prospettive problematiche La conclusione cui giunge Olivetti nel volume in esame è che il tentativo idealistico di pensare l’identità come totalità storica, vale a dire sul piano della filosofia della storia e quindi del significato di essa, sia fallito, nonostante anche le teorizzazioni hegeliane per certi aspetti più rigorose di quelle di Schelling, e che pertanto « la situazione filosofica attuale è il risultato della dissoluzione di quel tentativo… ». 4 Il tentativo idealistico di pensare l’identità assoluta ha prodotto il risultato opposto, cioè « si è irrimediabilmente dissolto nel trionfo della differenza… ». 5 La stessa filosofia in questo modo tende a dissolversi : « Non sembra tuttavia che al lavoro filosofico, inteso nel senso identificante che abbiamo precisato, rimanga altra possibilità, se non questa constatazione-limite del proprio dissolvimento : si tratta di cogliere il non senso nel momento privilegiato nel quale soltanto esso emerge come tale ». 6 Verrebbe qui da pensare a Derrida – anche se Olivetti non lo nomina – che è uno dei massimi esponenti del pensiero della differenza e che rovescia il logocentrismo hegeliano, riducendo l’esercizio della filosofia alla decostruzione del testo della metafisica. Secondo Olivetti per sfuggire al trionfo della differenza, data l’impercorribilità della via idealistica, non rimane altra possibilità che il recupero del trascendentalismo kantiano : « Ma tornare indietro al trascendentalismo – scrive Olivetti – e intrattenersi nello spazio che intercorre fra visione critica e visione idealistica è forse l’unico modo per non cedere, o non ammettere il trionfo della differenza ». 7 Olivetti fa riferimento anche a Troeltsch come filosofo della religione che si rifa all’« impostazione trascendentale all’interno del dissolvimento storicistico della filosofia della storia », 8 anche se l’argomento non viene approfondito – ma del resto l’opera prevedeva poi un secondo volume –, e sicuramente Troeltsch è un autore che si richiama al metodo kantiano e schleiermacheriano in filosofia della religione. 9 Il volume di Olivetti non ha quindi soltanto un intento storiografico in rapporto alla filosofia della religione del roman
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2 3 Ivi, pp. 296-297. Ivi, pp. 264-265. Ivi, p. 259. 5 6 Ivi, p. 208. Ivi, p. 21. Ivi, p. 18. 7 8 Ivi, p. 10. Ivi, p. 256. 9 Su Troeltsch ci permettiamo di rinviare al nostro saggio Heidegger e le lezioni friburghesi del 1920-1921 : l’Auseinandersetzung con Ernst Troeltsch, in « Archivio di Filosofia », lxxv, 2007 (Filosofia della religione oggi ?), a cura di S. Semplici, pp. 183-195. 4
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ticismo e dell’idealismo tedesco, ma intende dare anche indicazioni sulla situazione filosofica contemporanea, nella prospettiva quindi di scelte teoriche. Da parte nostra condividiamo l’idea che si debbano evitare i due estremi del sapere assoluto idealistico da una parte, sia nella forma hegeliana che in quella schellinghiana del periodo studiato da Olivetti, e del trionfo della differenza dall’altra. Riteniamo però che sia da discutere che l’unica via da seguire sia quella del trascendentalismo kantiano e su questo punto vorremmo fare alcune osservazioni. In primo luogo, ci sembra sia presente nel volume di Olivetti la convinzione della superiorità di Hegel su Schelling sia per il metodo dialettico triadico sia in generale per il modo di procedere che consente di affermare che « il discorso hegeliano rende più rigorosa la questione impostata da Schelling… ». 1 Olivetti ritiene certo che anche la sintesi hegeliana vada incontro a delle aporie, però all’interno dell’idealismo essa è il punto di culminazione, il compimento. In certi periodi questa visione era praticamente scontata, ma negli anni cinquanta del secolo scorso Walter Schulz l’ha posta in questione nel volume Die Vollendung des deutschen Idealismus in der Spätphilosophie Schellings, sostenendo che il compimento va visto in Schelling, che apre ad esigenze del postidealismo che non erano presenti in Hegel, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto di fattualità della soggettività incondizionata, che non è deducibile senza residui. « L’elaborazione di questo movimento problematico – scrive Schulz – determina la posizione filosofica di Schelling nel complesso dell’evoluzione filosofica. Egli è colui che porta a compimento l’idealismo tedesco in quanto radicalizza il problema fondamentale di esso, l’automediazione, fino a comprendere l’incomprensibilità del puro porre. La sua filosofia però getta luce anche sui principi fondamentali dei grandi filosofi postidealisti ». 2 Olivetti discute l’interpretazione di Schulz in una nota e fa osservare che nell’ultimo Schelling c’è una tensione non risolta fra filosofia positiva e filosofia negativa che contrasta con la compiutezza di un compimento ; 3 l’obiezione è di per sé valida però Schulz è più interessato alle aperture al postidealismo presenti in Schelling che ai rapporti interni all’idealismo tedesco. In qualche modo l’interpretazione di Schulz concorda con quella che dà Heidegger nel suo commento allo scritto schellinghiano del 1809 sulla libertà : « Infatti – scrive Heidegger – Schelling è il pensatore autenticamente creativo e quello che ha la più ampia visione in questo intero periodo della filosofia tedesca. Lo è tal punto da portare l’idealismo dall’interno al di là della sua posizione fondamentale ». 4 La trattazione schellinghiana del 1809 « raggiunge il culmine della metafisica dell’idealismo tedesco » ; 5 essa infatti è « la trattazione (Abhandlung) che fa vacillare la Logica di Hegel ancor prima del suo apparire ». 6 Con l’Abhandlung schellinghiana viene rotto il circolo fra inizio (Anfang) e risultato (Resultat) in cui consiste la deduzione assoluta hegeliana, l’Anfang non è deducibile ma è un presupposto : infatti, per Schelling ciò che precede ogni antitesi e che è quindi il fondamento originario, che egli chiama indifferenza (Indifferenz), non può esser dedotto dialetticamente :
L’indifferenza non è un prodotto degli opposti, ne essi sono implicite contenuti in essa, bensì essa 1
M. M. Olivetti, Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 312. W. Schulz, Die Vollendung des deutschen Idealismus in der Spätphilosophie Schellings, Stuttgart und Köln 1955, p. 6. 3 M. M. Olivetti, Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 314. 4 M. Heidegger, Schellings Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809), Tübingen 1971, p. 4. 5 6 Ivi, p. 201. Ivi, p. 117. 2
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è un essere peculiare separato da ogni opposto e sul quale si infrangono tutti gli opposti e che quindi non è nient’altro che precisamente il non essere di essi, e che pertanto non ha nemmeno alcun predicato, eccetto quello dell’assenza di predicati, senza per questo essere un nulla o qualcosa di assurdo. 12
Olivetti accenna soltanto allo scritto del 1809 sulla libertà in rapporto al concetto di abisso, che forse potrebbe applicarsi al fondamento originario al di là di tutte le antitesi. 2 Olivetti manifesta una certa sfiducia nella filosofia ermeneutica : « Il significato è essenzialmente connesso con l’identità e la sua infinita proliferazione, che il pensiero ermeneutico vuole teorizzare, non è che la sostanziale dissoluzione del significato ». 3 Si tratta però soltanto di una frase nella prefazione, manca una trattazione vera e propria ; più avanti nel volume c’è un accenno allo storicismo di Dilthey che ha riproposto « la tematizzazione filosofica del problema ermeneutico, operata per la prima volta da Schleiermacher » ; 4 poiché nel contesto si fa riferimento anche a Troeltsch, non è da escludere che il tema sarebbe stato ripreso nel secondo volume. Quindi è opportuna una precisazione o una integrazione. La filosofia ermeneutica, nella forma che essa assume in Schleiermacher, in Dilthey e in Gadamer, non può esser considerata una forma dissolutiva o scettica che lascia spazio al trionfo della differenza. Schleiermacher infatti vuole salvare l’identità dell’oggetto. Dilthey e Gadamer poi fanno uso del concetto di totalità : il primo ritiene che il significato (Bedeutung) di un processo, per esempio di una vita, sia comprensibile quando si prospetta in modo concluso, cioè nella totalità ; il secondo introduce il concetto di fusione di orizzonti (Horizontverschmelzung), in cui si realizza l’unità fra il presente dell’interprete e il passato da interpretare, in modo che ne risulti una sorta di totalità storica, che ad alcuni è parsa riprodurre una sorta di totalità in senso hegeliano. Questo tipo di ermeneutica può quindi certo rappresentare una linea intermedia fra il sapere assoluto idealistico e il trionfo dissolutivo della differenza. Diversa invece è la situazione se si considera il concetto di interpretazione di Nietzsche, per il quale la volontà di potenza si scinde in una molteplicità di centri viventi il cui prospettivismo dà luogo ad una molteplicità di intepretazioni, al di là delle quali non residua né il mondo, che è apparenza, né l’unità dell’io. Proprio a Nietzsche si richiama Derrida per affermare un concetto decostruttivo di interpretazione, che implica la teoria della disseminazione come molteplicità indefinita non riconducibile ad unità. Una ermeneutica di questo tipo veramente rappresenta un estremo opposto rispetto al logocentrismo dell’idealismo. 5 Particolare attualità riveste poi a nostro avviso la nuova ermeneutica del Novecento che affonda le sue radici nella problematica ontologica heideggeriana e nei concetti di comprensione (Verstehen) ed interpretazione (Auslegung) di Sein und Zeit, un’impostazione di pensiero che poi Gadamer ha sviluppato autonomamente estendendo il discorso alle scienze dello spirito. Questa linea di pensiero potrebbe anche avere delle
1 F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände (1809), in Werke, hrsg. von M.Schröter, München, 1927-1954, Hband iv, p. 298. 2 M. M. Olivetti, Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 267. 3 4 Ivi, p. 8. Ivi, p. 67. 5 Sulle varie fasi e i vari orientamenti della filosofia ermeneutica rinviamo al nostro saggio Interpretazione e pluralismo ermeneutico, in « Prosopon », ii, 2, 1990, pp. 206-220. Sull’ermeneutica decostruttiva di Nietzsche si veda : J.Figl, Interpretation als philosophisches Prinzip. Friedrich Nietzsches universale Theorie der Auslegung im späten Nachlass, Berlin-New York 1982.
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ascendenze schellinghiane, come si è già visto a proposito dell’apprezzamento da parte di Heidegger dello scritto schellinghiano sulla libertà. Nella Darstellung des Philosophischen Empirismus (1836) Schelling rinuncia alla deduzione idealistica, che nella filosofia della mitologia e della rivelazione è presente come filosofia negativa, e afferma che « la filosofia deve spiegare il fatto del mondo », 1 che è poi la prevalenza del soggettivo sull’oggettivo che si realizza progressivamente nella natura e nella storia : egli quindi si avvicina ad una forma di pensiero interpretativo che si fonda su un dato esperienziale e prescinde dalla deduzione logica delle categorie. Si potrebbe quindi prospettare in qualche modo un incontro fra Schelling e la filosofia ermeneutica, tenendo conto della interpretazione che egli ha dato della coscienza religiosa nella filosofia della mitologia e della rivelazione. 2 Si tenga presente che Gadamer esprime una preferenza per Schelling proprio a proposito della filosofia della religione : « Già Hegel. Direi fondamentalmente – afferma Gadamer – che ho sempre avuto e ho ancora una grande ammirazione per lui. Ma credo ormai che non sia lui a essere sulla giusta strada, quanto piuttosto Schelling, cosa che anche Heidegger ha sempre saputo. Io direi che tra la sua filosofia, che interpreta se stessa come pensiero protestante, e quella di Schelling, la differenza sta nel fatto che quest’ultimo, nonostante tutta la sua interpretazione filosofica del cristianesimo non finisce per annullarlo, ma rimane un cristiano, mentre Hegel, nonostante il suo ritenersi protestante, finisce nella stessa posizione di Bultmann, che a furia della costante riflessione su se stessa, non prende più sul serio la rivelazione ». 3 Possiamo ora chiederci quale sia la ragione della preferibilità di questa linea di pensiero che va da Schelling a Heidegger e a Gadamer rispetto al quella del trascendentalismo kantiano : a nostro avviso il trascendentalismo è ancora legato al concetto moderno di soggettività, mentre la nuova ermeneutica heideggeriana e gadameriana tende al superamento di essa e quindi è più consona alla nostra condizione postmoderna.
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F. W. J. Schelling, Darstellung des philosophischen Empirismus, in Werke, cit., Hbd. v, p. 273. Sulla possibilità di incontro fra Schelling e la filosofia ermeneutica rinviamo al nostro scritto Teologia filosofica ed ontoteologia, in « Humanitas », lix, 3, 2004, pp. 504-506. 3 H.-G. Gadamer, L’ultimo Dio. La lezione filosofica del xx secolo, a cura di R.Dottori, Milano 2000, pp. 65-66. 2
SPINOZA E LO SPINOZISMO NEL PENSIERO DI OLIVETTI Domenico Collacciani
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el pensiero di Marco Olivetti il dialogo critico con la storia della filosofia è un momento costitutivo delle sue tesi più originali. Rispetto ad altri pensatori come Kant o Levinas, con i quali Marco Olivetti ha instaurato un confronto critico diretto, incentrato sull’affinamento e la riutilizzazione di alcuni concetti, Spinoza e lo spinozismo sono invece riferimenti secondari, quantitativamente meno presenti nelle sue opere e nel suo insegnamento. Spinoza è quasi sempre affrontato attraverso la mediazione di un altro autore come, ad esempio, Jacobi o Hegel. La rarità delle citazioni spinoziane da parte di Marco Olivetti dipende certamente dalla radicale differenza fra il progetto metafisico di Spinoza di un’etica come ontologia e il suo tentativo filosofico di ripensare l’etica come filosofia anteriore. Se da una parte, in ragione di tale differenza, il pensiero di Spinoza non è ripreso direttamente nelle opere teoretiche, tuttavia, proprio a causa di questa divergenza di fondo, esso viene trattato con molta attenzione per chiarirne il significato nella filosofia moderna ed offre così utili spunti per comprendere i fondamenti del metodo filosofico e storico-filosofico di Olivetti. Il pensiero di Olivetti opera su un peculiare intreccio tra questioni teoriche e il loro porsi nel corso della storia della filosofia. Uno dei suoi problemi fondamentali è la definizione della filosofia della religione come sapere specialistico nella modernità ; un evento che non può essere spiegato dalla sola storia della filosofia, ma che coinvolge allo stesso tempo la storia del cristianesimo europeo e la storia sociale e politica. L’interesse per la storia della formazione della filosofia della religione come disciplina specialistica non è dettato da un mero interesse storiografico. La storia della filosofia della religione, che è la storia della categorizzazione della religione come oggetto di conoscenza, è al contrario il suo problema teorico più alto. Il contributo più importante di Marco Olivetti a questa disciplina è stato definire la reciprocità tra l’ambito tematico della filosofia della religione (il problema dell’intersoggettività, la questione del nichilismo) e il piano della ricerca storico-epistemologica che ne indaga la costituzione nella modernità. Questi due piani non sono mai distinguibili in modo definitivo, come se la ricerca storica fosse una riflessione di secondo livello rispetto al piano teorico. Infatti il problema teorico della filosofia della religione risiede essenzialmente nella definizione del suo statuto scientifico. L’indagine sull’evento storico della secolarizzazione, che segna la nascita della filosofia della religione, ne definisce anche l’ambito tematico ; esso è la secolarizzazione stessa, intesa come posizione filosofica nel pensiero moderno. La filosofia della religione ha dunque uno statuto particolare, differente da altre discipline filosofiche specialistiche, perché deve costantemente misurarsi con la continuità concettuale tra la secolarizzazione come fatto che compete alla storia politica e del diritto e la secolarizzazione nella sua estensione metaforica. Secondo Marco Olivetti la filosofia della religione contemporanea può accedere al suo statuto di sapere filosofico e trovare i temi che le sono propri solo costituendosi come sapere storico. A tale reciproco rimando di storia e teoria corrisponde un metodo in apparenza pa
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radossale, che non solo definisce un problema teorico a partire dalla sua costituzione storica, ma che, all’occorrenza, argomenta problemi ontologici a partire dalle scienze empiriche, pone in discussione la distinzione tra questioni filosofiche e problemi teologici, tratta questioni di logica con argomenti storici. 1 In questo contesto teorico il caso di Spinoza risulta molto significativo a causa della sua unicità nella storia del pensiero per due aspetti tra loro complementari. Per un verso, la sua filosofia è il culmine di una critica radicale della religione, per un altro verso, il suo pensiero ha conosciuto nella modernità una fortuna la cui storia è estremamente complessa. Alla polemica su Spinoza si sono da subito legate tematiche specificamente religiose, politiche e storiche che hanno allontanato il dibattito sullo spinozismo dal significato e dalle intenzioni originali dell’autore. L’enorme quantità di confutazioni comparse sin dalla pubblicazione del Tractatus theologico-politicus, quando Spinoza era ancora in vita, ha contribuito a estendere il significato dello spinozismo generalizzandone il contenuto specifico e rendendolo il paradigma dell’ateismo moderno. La figura di Spinoza ha inizialmente riassorbito nella polemica filosofica e religiosa le posizioni di critica alla religione già circolanti in Europa sotto i nomi di libertinismo, socinianesimo e ateismo. L’idealismo tedesco ha ripreso la figura di Spinoza in una lettura che ne ha invece esaltato le tendenze panteistiche dandone talvolta un’interpretazione di carattere religioso e mistico. Nel pensiero di Marco Olivetti lo spinozismo è un caso esemplare di come il passaggio dal razionalismo seicentesco alle filosofie della storia idealiste si sia compiuto per mezzo di una messa in discussione delle interazioni tra filosofia, religione e politica. Il sovrapporsi di tematiche tradizionalmente estranee alla filosofia nel dibattito sullo spinozismo costituisce dunque un esempio altamente significativo della storia della filosofia moderna. Vista la difficile storia dello spinozismo, se si vuole comprendere la fortuna dell’opera di Spinoza e collocarlo in maniera precisa nella storia della filosofia moderna, è necessario preliminarmente adottare l’accorgimento critico di distinguere tra il pensiero di Spinoza (i concetti cardine come il metodo geometrico e la causa sui e le loro fonti) e lo spinozismo successivo (del quale si devono comprendere di volta in volta le implicazioni latenti). L’indagine storica più ampia e dettagliata sullo spinozismo di Marco Olivetti si trova nell’articolo Da Leibniz a Bayle : alle radici degli Spinozabriefe. 2 Si tratta di un’approfondita analisi dell’opera di Jacobi, ma più in generale di un chiarimento sul significato della figura di Spinoza nella cultura tedesca di fine Settecento. L’articolo inizia con una definizione di metodo, sottolineando la vacuità di molte delle analisi precedenti che si riducono a un confronto teorico tra la filosofia di Spinoza e la descrizione datane da Jacobi e che arrivano persino a ipotizzare che Jacobi non abbia mai letto Spinoza. Marco Olivetti ricorda che l’evocazione di Spinoza da parte di Jacobi ha una funzione polemica nei confronti di Mendelssohn e che dunque il senso della condanna jacobiana deve essere inteso in funzione dei fini polemici di cui è strumento. L’interprete non deve valutare la correttezza della presentazione di Jacobi ma deve piuttosto chiarire le fonti e i fini di una evidente forzatura interpretativa. Il Prometeo di Goethe offre l’indizio decisivo sulla derivazione dell’interpretazione jacobiana. La poesia, che dà l’avvio
1 Sulla necessità di un metodo « impuro » per descrivere la situazione interlocutiva originaria cfr. Marco M. Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 46. 2 Idem, Da Leibniz a Bayle : alle radici degli Spinozabriefe, « Archivio di filosofia », 46, 1, 1978, pp. 147-199.
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allo scambio di battute tra Jacobi e Lessing e che porta all’ammissione di spinozismo di quest’ultimo, è riconosciuta dai due come spinozista nonostante i suoi accenti paganeggianti siano molto lontani dal tono del metodo geometrico spinoziano. Marco Olivetti ha dimostrato che la contraddizione tra la poesia di Goethe e il testo di Spinoza si ricompone se ci si riferisce all’immagine di Spinoza tratteggiata da Bayle nell’articolo Spinoza nel Dictionnaire, che è la fonte diretta di Jacobi e di Lessing. Lo Spinoza di Bayle, sintesi delle prime confutazioni spinoziane, ha influenzato in modo decisivo le discussioni successive su Spinoza. Tra le tesi attribuitegli nel Dictionnaire quella che ha avuto più fortuna è la tesi dell’antichità della filosofia spinozista e del suo fondamentale paganesimo. 1 È dunque lo Spinoza bayliano che Jacobi e Lessing trovano pagano come il Prometeo di Goethe. L’identificazione della fonte di Jacobi è il punto di partenza per far luce sulla polemica latente nel testo dello stesso Jacobi. L’utilizzo di Bayle contro Mendelssohn è uno strumento efficace per chiamare in causa il suo interlocutore riguardo al significato generale della filosofia leibniziana, oggetto in quegli anni di un attacco da parte degli ambienti pietisti, che accusavano Wolff di spinozismo per aver eliminato dalle prove dell’esistenza di Dio l’argomento ex dictamine conscientiae. Per Jacobi e per la letteratura pietista di cui subiva l’influenza 2 la tradizione meccanicista che andava da Spinoza a Wolff passando per Leibniz si compiva necessariamente con il fatalismo. Lo Spinoza bayliano è dunque in diretta opposizione alle tesi dei Dialoghi di Mendelssohn, nei quali è affermata una continuità tra Spinoza e Leibniz ma nei termini di un progresso che dal meccanicismo trova un compimento nel principio del meglio. La scelta di Bayle si spiega dunque se si considera che proprio Bayle è il più risoluto nell’affermare l’inconciliabilità tra fede e ragione, in opposizione alla mediazione proposta dalla teodicea leibniziana. L’analisi di Marco Olivetti mostra che lo spinozismo in Jacobi è una posizione simbolica e funzionale a una polemica più ampia contro la filosofia razionalista. Jacobi vede proprio nell’inconfutabilità del pensiero spinoziano e nella sua riaffermazione dell’antico principio a nihilo nihil fit il compimento della filosofia : un passaggio obbligato cui deve seguire però il suo definitivo abbandono con il «salto mortale» nella fede. 3 Per Marco Olivetti le Lettere sulla dottrina di Spinoza compaiono al momento di una trasformazione storica della filosofia della religione da una prima fase caratterizzata in generale dal razionalismo a una seconda fase di tipo storico-ermeneutico. 4 L’opera di Jacobi ha contribuito fortemente a tale trasformazione causando, sebbene contro
1 « Le dogme de l‘ame du Monde, qui a été si commun parmi les Anciens, et qui fasait partie principale du Systême des Stoïques, est dans le fond celui de Spinoza », Pierre Bayle, Dictionnaire historique et critique, Amsterdam, Leyde, La Haye, 1740, vol. iv, p. 253. 2 Marco Olivetti parla con cautela di matrice culturale piuttosto che di fonti, non essendo dimostrabile una conoscenza diretta con i testi pietisti e ferma restando la differenza fondamentale di Jacobi rispetto al pietismo sul tema del peccato originale. 3 Sul significato della critica alla metafisica spinoziana nelle opere successive di Jacobi cfr. Marco M. Olivetti, L’esito ‘teologico’ della filosofia del linguaggio di Jacobi, Padova, cedam, 1970. La critica della metafisica nelle Lettere sulla dottrina di Spinoza si sviluppa in Jacobi come una metacritica della ragione per mezzo della critica ermeneutica del linguaggio. 4 Distinzione proposta in Marco M. Olivetti Filosofia della religione, in La filosofia, a cura di Paolo Rossi, Torino, utet, 1995, vol. I, p. 184. La distinzione tra due fasi storiche deve essere presa con cautela a causa della loro sovrapposizione temporale. La prima fase, iniziata con il naturalismo rinascimentale, trova in Inghilterra con Locke, Hume e l’empirismo successivo una prosecuzione che corre parallela all’elaborazione della filosofia della storia hegeliana e del successivo approccio ermeneutico nell’ambiente tedesco. Riferendosi al loro contenuto teorico le due fasi storiche possono essere considerate anche come due tipi.
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le intenzioni di Jacobi, la ripresa di uno spinozismo interpretato positivamente per la sua tensione alla totalizzazione. 1 La prima filosofia della religione è definibile per due aspetti interdipendenti. In metafisica essa si presenta come una teologia naturale, ossia come il tentativo di concepire la teologia su basi puramente razionali come un’essenza astorica. In questo contesto l’attributo ‘razionale’ compare come perfettamente commutabile con ‘naturale’, dal momento che lo scopo di tale filosofia è la definizione per mezzo della sola ragione naturale del contenuto della teologia. A questo primo aspetto corrisponde sul piano della teoria della religione la definizione del concetto di tolleranza, che sulla base dell’idea di una religione razionale, naturale e connaturata all’umanità concepisce il superamento dei conflitti interreligiosi tra le religioni storiche. Marco Olivetti ha sottolineato come il tentativo di razionalizzazione e il superamento dei conflitti religiosi per mezzo della tolleranza abbiano implicato una ricategorizzazione della religione in direzione di una negazione del valore cognitivo della religione storica e della sua conseguente riduzione a un contenuto morale. La riformulazione puramente razionale dei contenuti tradizionalmente oggetto della teologia e delle religioni rivelate ha comportato la riduzione di queste a semplici espressioni storiche dell’unica religione naturale e astorica. Sul fondamento di tale «perdita di cognitività» le religioni possono dunque essere ripensate in termini esclusivamente morali. A tale moralizzazione si accompagna spesso l’interiorizzazione della religione che diventa scelta individuale non sottomessa al potere pubblico. La sottrazione del problema della verità dal campo del conflitto religioso, che con le guerre di religione diventava di fatto conflitto politico, è dunque il fondamento teorico delle teorie della tolleranza. Il pensiero di Spinoza rappresenta un culmine della prima fase della filosofia della religione sia per l’aspetto della naturalizzazione che per quello della moralizzazione della religione : le sue due opere principali – l’Ethica e il Tractatus theologico-politicus – elaborano rispettivamente una razionalizzazione radicale dell’idea di Dio pensato come sostanza unica e infinita (in particolare la prima parte : il De Deo) e una formulazione estesa e fondata dell’idea di tolleranza. La tesi fondamentale del Tractatus : la libertà di filosofare si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello stato 2 si fonda sull’eliminazione del problema della verità dal discorso religioso e sulla limitazione del compito di questo alla formulazione di precetti morali. Lo scopo della Scrittura per Spinoza è insegnare la carità e la giustizia necessarie alla salvezza. Filosofia e religione si differenziano dunque in quanto la prima è la conoscenza del vero e la seconda ubbidienza a norme morali. Marco Olivetti ha indicato nella gnoseologia il nesso tra filosofia prima e teoria della politica e della religione. Conoscenza e ubbidienza ripetono in effetti la classificazione dei generi di conoscenza dell’Ethica. 3 Per mezzo dell’analisi filologica della Scrittura Spinoza dimostra che essa non si occupa della verità, perché fa uso di un linguaggio che si comprende con la sola immaginazione e non richiede una conoscenza razionale o intellettuale, la sola che offre la conoscenza della verità. La sottrazione del valore cognitivo alla religione porta a compimento la completa subordinazione della religione alla razionalità della filosofia. L’accenno al ruolo della teoria della conoscenza nella filosofia della religione spinoziana permette di comprendere un altro aspetto della lettura di Marco Olivetti. Alla
1 Ad esempio in Hegel per il quale essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare. Cfr. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, tomo i, Bari, Laterza, 1981, pp. 109-110. 2 Secondo il titolo completo del Tractatus theologico-politicus. 3 Cfr. Baruch Spinoza, Etica, ii, prop. lv scolio 2. Per una traduzione italiana vedi Opere, a cura di F. Mignini, Milano, Mondadori, 2007, p. 877.
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ricerca storica sullo spinozismo si affianca l’indagine teorica sui suoi concetti fondanti. La conoscenza complessiva del pensiero spinoziano, il suo inquadramento in un contesto storico definito e il riconoscimento delle molte tradizioni che si sono stratificate nel corso della storia mettono al riparo dal rischio di interpretazioni parziali che possono facilmente travisare il significato di alcune tesi. Nel corso delle lezioni su Spinoza Marco Olivetti indicava nel concetto di causa sui e nell’affermazione dell’esistenza dell’infinito in atto, che da esso consegue immediatamente, il luogo problematico delle ricerche su Spinoza ; l’indicazione, apparentemente ovvia, sottintendeva invece un invito a riconsiderare la coerenza complessiva della filosofia di Spinoza. In vista di una ricerca sugli effetti di secolarizzazione che tale pensiero implicava Marco Olivetti suggeriva di mettere in dubbio e valutare la non contraddittorietà della metafisica da cui questi dipendono. Per lo stesso motivo, dal punto di vista storico, criticava l’uso storicamente poco avvertito delle locuzioni « sistema spinoziano » e « ontologia spinoziana », formule queste che riprendono denominazioni che nella storia dello spinozismo avevano lo scopo di enfatizzare proprio la completezza e la totalizzazione della filosofia di Spinoza. 1 Sul piano morale Marco Olivetti considerava problematica la riduzione delle cause finali alle cause efficienti nell’appendice della prima parte dell’Ethica. Porre attenzione alla causa sui e alla critica delle cause finali significava ripensare dall’interno del pensiero spinoziano la suggestione jacobiana secondo cui il meccanicismo conduce inevitabilmente al fatalismo. I due temi cardine dello spinozismo, causa sui e critica delle cause finali, sono i punti su cui interrogare il pensiero spinoziano riguardo ai rapporti tra nichilismo ontologico e nichilismo assiologico. Se la condanna di Jacobi verte sulla negazione del libero arbitrio che rende inconcepibile la salvezza, Marco Olivetti poneva invece il dubbio che la negazione dei valori, svolta in modo esplicito e coerente da Spinoza, conseguisse da un fondamentale nichilismo ontologico che Spinoza non sarebbe riuscito ad evitare e che conseguirebbe necessariamente dall’autofondatività della causa sui. Lo studio del problema del nichilismo nell’opera di Spinoza è un esempio del rapporto di reciprocità tra ricerca storica e dibattito teorico contemporaneo cui si accennava all’inizio. 2 La ricerca sulle origini del termine nichilismo in Jacobi si completa nell’analisi dell’opera di Spinoza, letta nella sua posizione storica ma soprattutto nella comprensione della sua logica interna. I possibili esiti nichilistici della metafisica e la non conclusività del metodo geometrico, una volta definiti nel loro contesto storico, possono essere presi in considerazione in se stessi come problemi che riguardano il dibattito filosofico contemporaneo. Marco Olivetti utilizza la critica all’autofondatività della metafisica spinoziana come una critica paradigmatica di tutti i pensieri che tentano di riproporre la fallacia logica dell’autocausazione sotto nuove forme. È un fatto degno di nota che gli stessi termini della critica alla causa sui ritornino all’inizio di Analogia del soggetto per criticare la teorie sociologiche di Luhmann : l’ipotesi che la società sia un sistema autopoietico è rifiutata da Marco Olivetti prendendo di mira la paradossalità dell’autosservazione. 3 In effetti tutte le tesi fondanti di Analogia del soggetto hanno come
1 Espressioni riprese nell‘esaltazione romantica di Spinoza in Goethe, Herder e Schlegel che in nome dell‘uno-tutto identificano « sistema » e « salvezza » cfr. Xavier Tilliette, Spinoza préromantique. Aspects de la première renaissance, in « Archivio di filosofia », xlvi, 1, 1978, pp. 217-229. 2 Nell‘introduzione al volume Lo spinozismo ieri e oggi, ivi, e in conclusione del suo saggio Marco Olivetti ricorda l’importanza di rileggere storicamente Spinoza contro i rischi antiumanistici del ritorno a Spinoza da parte del materialismo contemporaneo. 3 « Non potendo dunque la società essere definita come il sistema che contiene se stesso, il riferimento
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riferimento polemico le teorie filosofiche e sociologiche che cercano di formulare una scienza della religione autofondata razionalmente. Il lavoro critico di Marco Olivetti consiste nel mostrare la fallacia logica di tali teorie mostrando come esse ricadano, ognuna a suo modo, nella contraddittorietà della metafisica spinoziana. Nell’assumere la causa di sé a paradigma del pensiero metafisico Marco Olivetti segue Heidegger, che in La costituzione onto-teologica della metafisica si serve proprio di Spinoza per definire la metafisica come onto-teo-logica. Spinoza è citato da Heidegger per definire la differenza tra il dialogo dialettico di Hegel con la storia della filosofia e il « passo indietro » che ritrova nel non pensato la forza di ciò che è stato pensato dalla storia della metafisica. Heidegger presenta Spinoza nei termini hegeliani come « il compiuto “punto di vista della sostanza” che però non può essere il più alto poiché l’essere non è pensato contemporaneamente e in maniera radicalmente decisiva come pensiero che si pensa. » 1 In virtù del «passo indietro» Heidegger può identificare il luogo in cui la metafisica si costituisce come onto-teologia nell’oblio della questione della differenza tra l’ente e l’essere. Per Heidegger la causa sui è il concetto metafisico di Dio, il modo in cui Dio « entra nella filosofia ». La causa sui spinoziana è citata in conclusione di Analogia del Soggetto nel corso del confronto con Heidegger ma, in modo molto significativo, per illustrare il concetto di immoralità nella relazione con l’altro. L’immoralità per Marco Olivetti è l’anticipazione immaginativa dell’oggettività dell’altro che nega la relazione allocutiva che costituisce il soggetto ; essa è dunque la «strategia» che fa sì che l’oggettività dell’altro si manifesti nelle modalità che tornano a vantaggio di una soggettività già costituita. Lo spinoziano conatus sese conservandi è la nozione filosofica che meglio spiega tale concetto : la strategia nei confronti dell’altro è l’inclusione dell’essere dell’altro nell’essere concepito come causa sui, come sostanza che totalizza il mondo e in cui l’interiorità altrui è inclusa. Per Marco Olivetti la critica di Spinoza è sempre finalizzata alla comprensione delle implicazioni etiche del suo pensiero. Nel mostrare l’immoralità per mezzo del complesso causa sui – conatus egli porta sul piano del metodo storico-filosofico il pensiero dell’etica come filosofia prima. Anche nei luoghi in cui l’onto-teologia spinoziana è criticata per la sua autocontraddittorietà ne viene sempre sottolineata l’incapacità di rendere pensabile il rapporto con l’altro come esteriorità radicale. Contro Heidegger, il Dio spinoziano non è pensato in quanto concetto metafisico in cui si compie l’oblio della differenza ontologica, ma come ciò in cui onticamente l’alterità dell’altro soggetto è dissolta. È questa attenzione schiettamente morale che impedisce a Marco Olivetti di porre Spinoza in una categorizzazione storica generica come quella heideggeriana di un’epoca della metafisica. Se questa infatti permette un’interrogazione radicale del problema ontologico, allo stesso tempo, elimina inevitabilmente la domanda riguardo il suo significato etico. Marco Olivetti affronta l’intricata storia dello spinozismo rinunciando a ogni semplificazione, individuandone le stratificazioni concettuali e ideologiche e interrogandosi sul suo significato dal punto di vista morale. La cautela nella ricerca storica e la domanda etica posta alla filosofia sono la pratica filosofica con cui la metafisica non si sottrae alla sua crisi ma continua a porre la domanda sul suo significato.
al sistema generale o totale non potrà aver luogo che a partire da sottosistemi e nella forma di una generalizzazione per la quale la società è compresa come il sistema più ampio dei rapporti comunicativi », Marco M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit. p.19. 1 Martin Heidegger, Identità e differenza, in « Aut aut », 187-8, 1982, p. 21.
A COLLOQUIO CON JACOBI Alberto Iacovacci
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ell’inevitabile colloquio che presiede alla formazione di ogni filosofia, vi sono filosofi che non cessano, una volta incontrati, di costituire motivo di richiamo. Per ragioni non sempre interamente sondabili, con essi si stabilisce e si instaura un inter-esse che non patisce crisi. Accade così che a più riprese, magari dopo lunghi intervalli, si torni ad essi, insieme convocati e convocanti, per intrattenersi ancora in un rinnovato dialogo che valga a raccogliere meglio e di più le domande rimaste inevase o che serva a scavare più a fondo nel retroterra culturale che le alimenta. In un arco temporale di circa 40 anni, il lungo colloquio di Olivetti con Jacobi può ben costituire un valido esempio di un tal genere di relazione, sempre segnata da un elevatissimo grado di attenzione e da un prolungato e insistito lavorìo ermeneutico i cui risultati – scanditi, ci sembra, da tre distinte fasi – hanno costituito e costituiscono un ben preciso punto di riferimento nella più generale Jacobi-Renaissance della seconda metà del ’900. A fornire l’occasione per un incontro poi rivelatosi tanto significativo fu – come ebbe a ricordarci lo stesso Olivetti nel corso della presentazione della monografia jacobiana di Marco Ivaldo nel 2003 – Ugo Spirito che, in ragione dell’ottica fideistica con cui per lo più all’epoca si guardava a Jacobi, ritenne opportuno affidare a un giovane studioso cattolico un lavoro di ricerca sulla storiografia filosofica jacobiana. Iniziò così, intorno alla metà degli anni ’60, quella lettura innovativa e filologicamente raffinata di Jacobi che si riversò immediatamente in pubblicazioni destinate a lasciare il segno, tanto da aprirgli la possibilità di intervenire in quel convegno di Düsseldorf che segnerà l’avvio della riscoperta del filosofo di Pempelfort. Puntando sulla lenta Nachwirkung di Hamann, Olivetti infatti liberava Jacobi dalla tradizionale ottica gnoseologistica e lo ancorava saldamente sul terreno ermeneutico, facendone anzitutto un filosofo del linguaggio ‘teologicamente’ orientato. 1 A questa prima lettura, ampiamente dedicata a fissare i termini dell’ascendenza hamanniana e prolungatasi fino al 1976, 2 segue un secondo, intenso, coinvolgimento, vol1 Cfr. Marco Maria Olivetti, L’esito ´teologico´ della filosofia del linguaggio di Jacobi, cedam, Padova, 1970. Tale punto di vista era già stato preparato e fatto valere nel corso dell’anno precedente, prima nel Convegno ´castelliano´ e poi nel già citato Convegno di Düsseldorf. Cfr. Marco Maria Olivetti, Gli inizi della filosofia del linguaggio di Jacobi. La “Considerazione” del 1773 e la corrispondenza Jacobi-Hamann, in L’analisi del linguaggio teologico. Il nome di Dio, Atti del convegno indetto dal Centro internazionale di Studi umanistici e dall’Istituto di studi filosofici di Roma (Roma 1969), cedam, Padova, 1969, pp. 501-528 e Marco Maria Olivetti, Der Einfluss Hamanns auf die Religionsphilosophie Jacobis, in K.Hammacher (a cura di), Friedrich Heinrich Jacobi. Philosoph und Literat der Goethezeit. Beiträge einer Tagung in Dïsseldorf (16.-19.10.1969) aus Anlass seines 150. Todestages und Berichte, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M., 1971, pp. 85-117. 2 Ci riferiamo all’intervento nel corso del convegno hamanniano di Lüneburg. Cfr. Marco Maria Olivetti., Vernunft, Verstehen und Sprache im Verhältnis Hamanns zu Jacobi, in B. Gajek (a cura di), Johann Georg Hamann. Acta des Internationalen Hamann-Colloquiums in Lüneburg 1976, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1979, pp. 169-193. Non va infine dimenticato come tale rapporto non abbia cessato di ispirare la ricerca di Olivetti, tanto che vi tornerà circa dieci anni dopo con un contributo questa volta concentrato sul rap-
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to a fissare, grazie ad un’indagine filologica minuta e sottilissima, le effettive radici degli Spinozabriefe e il ruolo giocato da Jacobi nel dibattito sul nichilismo e sulla più generale messa in questione dell’ontoteologia. 1 Quel che seguirà, e siamo alla terza fase, sarà un interesse sempre mantenuto vivo e costante, anche se ora fatto valere, se si fa eccezione per qualche sporadica occasione, non tanto attraverso interventi diretti, quanto grazie all’affidamento del ‘suo’ Jacobi ad un gruppo di allievi che, spesso avvalendosi dei testi jacobiani della sua biblioteca personale oltre che della nuova edizione dei Werke che gli giungevano regolarmente, potranno, sotto la sua attenta e discreta regìa, pubblicare le loro ricerche ed essere costantemente e generosamente ospitati nell’« Archivio di filosofia » per aggiornare sui risultati a cui la Jacobi-Renaissance intanto continuava a dar luogo. Per essere stato parte del gruppo di allievi di cui si diceva, ed essere perciò tra coloro che hanno avuto la ventura di studiare su testi già ampiamente e ripetutamente passati tra le sue mani sapienti, mi è sembrato opportuno, per meglio contribuire alla sua viva memoria, concentrarmi su uno di essi, così da cogliere il nostro Maestro, per così dire, ‘in diretta’, idealmente posto alla scrivania del suo bellissimo studio. Il libro olivettiano che ho tra le mie mani – giuntomi grazie alla generosa disponibilità mostratami dal figlio Giovanni – è l’edizione Terpstra dell’Allwill, 2 all’interno della quale figura quella Lettera a Erhard O* 3 che costituisce, senza alcun dubbio, il riferimento centrale dell’intervento di Olivetti al Convegno su ‘Schöne Seele e Moi haïssable’ tenutosi a Santa Margherita Ligure nel novembre 1978. 4 Un’attenta ricognizione di tutte le tracce, per lo più a matita, che Olivetti produsse nel corso dell’ attentissima lettura a cui sottopose il romanzo, mostra infatti come l’interesse per le riflessioni jacobiane, certo già avvertibile in tanti altri passaggi precedenti, conosca una vera e propria impennata in coincidenza della Lettera a Erhard O* con la quale il romanzo si chiudeva nell’edizione del 1792. A chiarire il senso del diverso grado di elaborazione del testo, va anzitutto richiamato il punto di vista da cui Olivetti guarda all’opera che ha tra le mani. Mosso dalla convinzione che l’intera opera jacobiana possa essere ricondotta nel campo di tensione delineato dal binomio «nichilismo» e «anima bella», Olivetti si volge all’Allwill per eleggerlo a documento, quanto mai evidente e inequivocabile, di tale arco tematico, trovando poi agevolmente nella Lettera a Erhard O* il luogo massimamente eletto a mostrare la giustezza della tesi esibita. Assunto quale « massimo documento del platonismo jacobiano », 5 la Lettera è contemporaneamente (e
porto verità-menzogna. Cfr. Marco Maria Olivetti, La spada a doppio taglio. Errore e menzogna nel dialogo Hamann-Jacobi, in A.Caracciolo (a cura di), Il problema dell’errore nelle concezioni pluriprospettiche della verità, Il melangolo, Genova, 1987, pp. 91-104. 1 Pur nella sostanziale continuità cronologica di questo primo decennio interpretativo, ci è sembrato opportuno distinguere due fasi perché segnate, ognuna, da temi ben distinti. Cfr. Marco Maria Olivetti, Da Leibniz a Bayle. Alle radici degli “Spinozabriefe”, in Lo spinozismo ieri e oggi, « Archivio di filosofia », 46, 1, 1978, pp. 147-199 e Marco Maria Olivetti, Nichilismo e anima bella in Jacobi, in « Giornale di Metafisica », ii, 1980, pp. 11-36. 2 Cfr., J. U. Terpstra, Friedrich Heinrich Jacobis “Allwill”, J.B.Wolters, Groningen, Djakarta, 1957. 3 Cfr. Id., op. cit., pp. 290-303. 4 L’incontro, promosso e diretto da Alberto Caracciolo, intendeva mettere alla prova il legame tra nichilismo e disumanità, individuando nel tema dell’anima bella una possibile riserva di senso, a condizione di liberarla dalle sue figure inautentiche. Proprio su tale terreno, come vedremo, la riflessione di Olivetti offrirà un contributo rilevante. 5 Cfr. Marco Maria Olivetti, Nichilismo e anima bella in Jacobi, «Giornale di metafisica», nuova serie, ii, 1980, pp. 11-36, pp. 21-22.
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tale contemporaneità, come vedremo, sarà quanto mai, letteralmente, ‘significativa’) segnata dai temi del nichilismo, variamente evocato e tematizzato, e della figura platonica e neoplatonica dell’anima bella. Prima però di giungere ad esaminare in dettaglio l’interpretazione a cui Olivetti ha sottoposto tale documento con l’ausilio delle annotazioni rinvenibili sul testo stesso, è d’obbligo, seppur brevemente, richiamare l’orizzonte complessivo entro cui tale rilettura si dispone. Dire, infatti, nichilismo e anima bella non si traduce in alcun modo in significati univoci e automaticamente condivisi. Anche in questo caso, la complessità della nostra vicenda culturale ha caricato su di essi una tale eterogeneità ed equivocità, che va anzitutto chiarito quale dei significati storicamente accertabili sia qui in gioco. E non a caso Olivetti di qui prende le mosse, chiarendo anzitutto che la tenuta della sua tesi muove da due, distinti e, insieme, connessi presupposti : ribaltare il rapporto fondativo tra ontologia ed assiologia e liberare il motivo dell’anima bella dalla facile ironia e dall’incomprensione che la versione narcisistica di essa aveva generato fin dall’epoca jacobiana. In entrambi i casi, a stagliarsi sulla scena è l’ingombrante e autorevolissima presenza hegeliana, non per nulla costantemente tenuta in conto per mostrare l’inefficacia delle critiche avanzate e l’inadeguatezza del punto di vista ontologico da cui egli guardò alla filosofia jacobiana. Quanto al ribaltamento da operare tra ontologia ed assiologia, prima di vederlo all’opera all’interno della Lettera, Olivetti anzitutto asserisce, in termini programmatici, il convincimento jacobiano del comune esito nichilistico tanto della vocazione gnoseologistica quanto di quella ontologica della filosofia, particolarmente evidente, in termini paradigmatici, nella doppia versione, ‘oggettiva’ e ‘soggettiva’ (spinoziana e fichtiana) storicamente disponibile. « La preoccupazione di stabilire l’ente mediante il sapere » – osserva al riguardo Olivetti – « non è diversa da quella di stabilire il sapere mediante l’ente » ; 1 senonché, in entrambi i casi, né gnoseologia, né ontologia sono in grado di raccogliere e soddisfare la richiesta di significato che sale dal soggetto nella sua entità, qualora questi si sappia liberare dall’illusione auto-fondante e cogliersi, più onestamente, nel suo bisogno di essere fondato e garantito. Il sapere, in quanto « sapere del nulla » e il presupposto onto-logico da cui esso muove non sono infatti strade in grado di assicurare valore e significato all’esistenza umana, essendo, anzi, per Jacobi destinate, al di là delle intenzioni di chi le propone, ad esiti disperanti. Di fronte alla deriva nichilista che così si prospetta, Olivetti, pur accennando agli evidenti legami con riflessioni analoghe che sorgeranno nel nichilismo romantico e nel dibattito contemporaneo, sceglie di volgere lo sguardo all’indietro, mostrando anzitutto la fonte che funge da sostegno teoretico all’inclinazione nichilistica della psiche jacobiana e che, giustificando la connessione tra Spinoza e Fichte, rende poi inevitabile il ribaltamento tra ontologia ed assiologia e la conseguente proposta di recuperare il platonismo dopo il nichilismo. Riallacciandosi a ricerche già condotte e fatte valere in quegli anni, 2 viene posta in evidenza la matrice bayliana dell’intrepretazione nichilistica che Jacobi operò, di Spinoza prima e di Fichte poi, tanto da individuare nella filosofia trascendentale una versione rovesciata dello spinozismo. A partire dalla voce Spinoza del Dictionnaire di Bayle, Jacobi non solo si appropria del termine «nichilismo», ma reputa di poterlo proiettare anche su quel materialismo rovesciato che è l’idealismo, essendo entrambi votati, il primo
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Cfr. Id., op. cit., pp. 12-13. Cfr. Marco Maria Olivetti, Da Leibniz a Bayle. Alle radici degli “Spinozabriefe”, cit.
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grazie alla metafora del ragno che tesse la tela traendola dal suo ombelico e il secondo con la metafora parallela del lavoro a maglia, a muoversi « dal nulla, verso nulla, per nulla, nel nulla ». L’assunzione creativa della riflessione bayliana fa però sì che alla vanificazione del mondo sensibile che seguirebbe, secondo Bayle, dall’assunzione della filosofia spinoziana, corrisponda ora, nella recezione jacobiana, la vanificazione del mondo dei valori per l’evidente inconsistenza del mondo sensibile qualora non rinvii ad un significato ulteriore. « Soltanto l’esistenza del significato » – osserva pertanto Olivetti – « costituisce l’ente, e lo costituisce per l’appunto solo e per la prima volta in quanto significante, in quanto dinamico rinvio a ciò di cui è immagine o cifra ». 1 L’impossibilità a costituirsi come rinvio significante crea invece le premesse di una richiesta di annientamento che, anche in questo caso, produce, a fronte del rovesciamento intervenuto in termini soggettivi, un ribaltamento del richiedente. Mentre infatti per Bayle era la divinità spinoziana che invocava l’annientamento per lo stato di disperazione che veniva a prodursi in vista di qualsivoglia cambiamento, ora per Jacobi è il soggetto stesso che, « come una divinità », invoca la nullificazione, con un significativo passaggio da un piano di lettura teologico-antropomorfico ad uno antropologico-teomorfico. Da tale richiesta di morte, avanzata dal soggetto soffocato dal dinamismo onto-logico, ora Olivetti muove, valutandola come la paradossale, e perciò significativa, via d’uscita da una vita segnata da una totale mancanza di significato. Si inaugura così, a partire dal paradossale valore accordato alla morte, l’ingresso nella nostra centralissima Lettera. Come già dicevamo, tale ingresso non esaurisce affatto il lavoro condotto da Olivettti sul testo dell’Allwill, eletto nella sua interezza a sede privilegiata del doppio fuoco tematico (nichilismo e anima bella) da cui guardare all’intero orizzonte ellittico della filosofia jacobiana. Non possono non essere citate allora le tante sottolineature, orizzontali e verticali, spesso accompagnate da frecce laterali ben marcate, apposte con l’evidente intenzione di eleggere quei passi a documento rilevante dell’attenzione prestata da Jacobi ai due temi. Si va, tanto per esemplificare, dalle descrizioni di esperienze nichilistiche di natura psicologica narrate da alcuni personaggi del romanzo, 2 a metafore dal chiaro sapore nichilistico ; 3 mentre, sul versante dell’anima bella, moltissime sono le espressioni specifiche e le indicazioni di carattere valoriale che rimandano, senza equivoco alcuno, ad essa, spesso accompagnate, oltre che da evidenti sottolineature, anche dalla sigla « a.b ». 4 Semmai, vi è da osservare come su questo specifico punto Olivetti abbia schedato, vedremo per quale uso, tanto i passi riferibili alla filosofia platonica che quelli riconducibili alla versione ‘sentimentale’, tanto diffusa all’epoca e dalla quale, come vedremo, Jacobi prenderà le distanze. Tornando ora al testo della Lettera, osservavamo come l’ingresso in essa coincidesse con il tema della morte e ciò al fine di richiamare l’attenzione sul doppio significato che ad essa Jacobi assegna. Accanto al tradizionale assunto che vede la morte come contrapposta alla vita, appare infatti nel testo un rinvio, per nulla scontato, ad un ulteriore significato, che induce a individuare in essa un’esperienza in grado di ricostituire l’esistenza e salvarla dall’insignificanza. Il passaggio, interamente sottolineato da Olivetti e ripetutamente cerchiato in coinciden
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Cfr. Marco Maria Olivetti, Nichilismo e anima bella in Jacobi, cit., p. 18. Cfr. J. U. Terpstra, op. cit., p.168 e p. 199 per le esperienze nichilistiche di Allwill. 3 Cfr. Id., op. cit., p. 185 e p. 232 dove vengono utilizzate la metafora delle « bolle di sapone » e l’analogia tra l’esistenza umana e « il soffio di un’ombra ». 4 Cfr. Id., op. cit., pp. 295-296. Laddove manchi la sigla, grandi frecce e marcate sootolineature indicano il rilievo accordato ai passaggi individuati. 2
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za dell’espressione finale suona così : « Infatti, dov’è esistenza e vita in sé, dov’è libertà ? Invero solo al di là della natura ! Dentro alla natura tutto è, con evidenza, infinitamente più in altro che in sé, e libertà è solo nella morte ! » 1 Appare evidente, dunque, come solo la scelta di morire possa spezzare l’iterazione infinita propria del nichilismo ontologico, la cui versione soggettivistica mostra ancora più chiaramente la mancanza di fondamento del soggetto e il suo unico costituirsi nella decisione di annullarsi. Il nuovo soggetto jacobiano appare perciò ad Olivetti come il frutto di una soggettivazione ancora più radicale di quella di Fichte, visto che nasce da uno svuotamento di ogni consistenza ontologica ed è segnato da un’identità significativa solo a patto che rinunci a ogni tratto permanente, in favore di tratti mutevoli e divenienti. È su questo doppio carattere del soggetto jacobiano – infondato e mutevolmente significante – che Olivetti sembra essersi concentrato particolarmente, tanto da fissare in modo perentorio, accanto ai passi decisivi, espressioni di assoluto rilievo che ben lasciano intendere il quadro interpretativo che egli poi intenderà far valere. In un passo introdotto nell’edizione del 1792 e poi fatto cadere nell’edizione dei Werke, (« Invero svanisco davanti a me stesso nella ricerca di me stesso come nient’altro svanisce dinnanzi a me ; divento nulla dinnanzi a me stesso come nient’altro dinnanzi a me diviene nulla ! Dinnanzi a Me stesso ! A questo Stesso che pure sento, più o meno, come tutto il resto », 2), dopo averlo ampiamente sottolineato verticalmente e posto in evidenza con una grande freccia, Olivetti infatti cerchia l’espressione Selbst per poi aggiungere a fondo pagina, preceduta dal segno inclusivo di una parentesi graffa, l’espressione « non ontoteologico ». Ciò perché, mentre l’impostazione ontologica dell’egoismo fichtiano risulta incapace di sottrarre il soggetto dall’insignificanza, il riconoscimento dell’inconsistenza, della mancanza e della mutevolezza quali tratti identificativi del soggetto jacobiano risultano più idonei per avvicinarlo ad un diverso tipo di consistenza. 3 Disancorandosi dall’egoismo, il soggetto infatti rinuncia consapevolmente ad un pensiero fondativo e ontologico, e quindi ad ogni forma di sostanzialità, ma non per questo ad ogni forma. Vera forma è infatti la forma morale che assicura la sensatezza dell’agire e costituisce il soggetto come mobile significante, continuamente rinviato a trovare nell’Altro, e non in se stesso, il significato che gli restituisce, se non una pienezza, certo il presentimento di una consistenza altrimenti impossibile da assicurarsi. È proprio qui allora che si delineano i contorni dell’anima bella jacobiana, che muove dal riconoscimento della non sostanzialità dell’uomo per affermare, esclusivamente sulla base di un ‘bisogno’ e di un ‘desiderio’ di senso non ulteriormente indagabili, la propria volontà di ribellarsi al destino solipsistico dell’onto-teologia e consegnarsi alla dipendenza dell’amore. Lo Schritt zurück, come lo chiama Olivetti, dell’anima bella jacobiana rispetto all’egoismo fichtiano prefigura infatti un’erotica che prevede il recupero di Platone ma anche dei tratti neoplatonici di Spinoza, compresa quella gioia e quella letizia che sembravano impossibili nel plumbeo e oppressivo panorama del nichilismo ontoteologico. Un’anima bella, dunque, che sa resistere tanto alle inclinazioni di un’erotica egoistica, tutta intenta a separare il desiderio dal Trieb e a celebrarsi in una suprema forma di narcisismo, quanto al rifiuto
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2 Cfr. Id., op. cit., p.297. Cfr. Id., op. cit., p. 298. Dopo aver ridotto il Selbst ad apparenza (Erscheinung), Jacobi infatti aveva osservato : « […] Tuttavia una apparenza che va avvicinandosi alla Wesenheit ! », cfr. Id., op. cit., p. 292. Circa la nuova forma da dare a tale Wesenheit Olivetti osserva : « […]non come ente e come permanente identità, bensì come mancanza e come mutevole, diveniente significante » ; cfr. Marco Maria Olivetti, Nichilismo e anima bella in Jacobi, cit., p. 23. 3
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ad agire di cui costituivano validi esempi le versioni sentimentali rintracciabili in tanta letteratura dell’epoca ; e perciò in grado, come Olivetti dimostra con ampie citazioni, non solo di sfuggire alle famose critiche hegeliane ma addirittura di anticiparle e, probabilmente, di ispirarle. 1 È, insomma, uno Jacobi estremamente consapevole delle opzioni disponibili e del mutamento radicale necessario per sfuggire all’avanzare inesorabile del nichilismo. Ad orientarlo, fornendogli punti di riferimento quanto mai preziosi, rimangono le sue scelte di fondo, manifestate fin dall’inizio e poi affinatesi nel corso della sua vicenda culturale : la filosofia del ‘non sapere’ e l’apertura dialogica del kein Ich ohne Du. Un Tu, un’alterità, che non cessa di interpellare e che rende necessario un incessante lavoro di interpretazione in cui Jacobi si inoltrerà sempre più grazie alla lezione di Hamann (anche lui individuato da Olivetti all’interno della Lettera come interlocutore nascosto ma non meno rilevante) ; un Io, un soggetto, che pur riconoscendo l’impossibilità di ricongiungere nel sapere bisogno e Trieb, non rinuncia, egoisticamente, al legame con l’alterità – magari per ridursi ad un’erotica centripeta – ma lo conserva, pur nella sua indeducibilità, come la sola fonte del significato che può renderlo significante. Quel che non va dimenticato, e con questa annotazione Olivetti chiudeva il suo intervento, è il carattere tragico che riveste la proposta jacobiana e che la priva di ogni carattere facilmente edificante. Il nichilismo a cui Jacobi si riferisce non è infatti un semplice riferimento culturale esterno da individuare e combattere sul piano teoretico, ma è una componente profondamente presente nella sua personalità oltre che, se non nella filosofia tout court, certo in un determinato modo di intenderla ; ed è perciò muovendo dal suo interno, dall’interno del nichilismo, muovendo dal controsenso che continuamente è in agguato, che sorge la richiesta di un senso e di una finalità che, seppur infondabili teoreticamente, possono e debbono essere testimoniati con la vita. Impegnato a ridefinire le radici più remote della proposta jacobiana e a farla poi valere di fronte alle incomprensioni cui fu esposta fin dall’inizio, Olivetti non si lascia nemmeno sfuggire l’occasione per cogliere in Jacobi utili e interessantissime anticipazioni di motivi e temi poi largamente impostisi nel dibattito contemporaneo. Può costituire così motivo di interesse il fatto che, a margine di due ulteriori passaggi del testo esaminato, Olivetti apponga prima il nome di Heidegger 2 e poi quello di Deleuze 3 che, insieme a Lacan, 4 sembrano entrambi avvalersi di quanto faticosamente guadagnato da Jacobi intorno a una nuova configurazione della soggettività come mobile significante. La persistenza del colloquio intercorso tra Olivetti e Jacobi non è infatti spiegabile riconducendolo in una dimensione esclusivamente storiografica ; partito di lì, l’interesse,
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Il Woldemar, ancor più che l’Allwill, è infatti ricco di annotazioni critiche nei confronti di quell’anima bella che il protagonista del romanzo vorrebbe essere ; e Olivetti le richiama tutte per liberare Jacobi dalle critiche poi avanzate da Hegel (Cfr. Id., op. cit., p. 31). 2 Olivetti appone il nome Heidegger all’interno della Lettera iv di Sylli a Clerdon a margine del seguente passo : « […] poiché ognuno deve avvertire in sé come questo sia il maggiore dei bisogni, quando contempla con tutto il suo essere lo spettacolo di sé stesso » ; cfr, J. B. Terpstra, op. cit., p. 161. 3 Il rinvio esplicito a Deleuze, poi utilizzato all’interno del testo dato alle stampe, riguarda il passo riportato all’interno della nota 42 (« O forse siamo soddisfatti e abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno con uno – e ancora uno – e ancora uno…un tappabuchi che regna ovunque ») accanto al quale, ben leggibile, Olivetti scrisse « scorrimento del significante » ; cfr. Id., op. cit., p. 299. 4 Diversamente dalle due citazioni precedenti, il nome di Lacan, pur richiamato nelle note 41 e 62 dell’articolo dato alle stampe, non figura tra le annotazioni manuali di Olivetti.
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crescente e costante, per Jacobi è stato alimentato dalla consapevolezza che le riflessioni jacobiane, svolte in coincidenza con la crisi decisiva dell’ontoteologia, spesso hanno colto e anticipato temi e riflessioni poi impostisi con forza nella filosofia del novecento, tanto da annoverarlo tra i primi che hanno saputo cogliere la necessità di una sostituzione dell’etica alla metafisica e all’ontologia come prote philosophia. E quanto Olivetti sia stato tra i più convinti assertori di tale sostituzione, chiunque l’ha conosciuto ben lo sa. Ora che il suo colloquio con Jacobi si è traumaticamente interrotto, almeno nelle forme che ancora sono per noi disponibili, che cosa può o deve essere fatto ? Come sempre accade quando viene a mancare un Maestro, ed Olivetti lo è stato nel significato più nobile ed elevato che la nostra tradizione culturale ha saputo elaborare, è ai suoi allievi che spetta di raccogliere il testimone per proseguire il lavoro già condotto, estendendone gli effetti e, se possibile, arricchendolo alla luce delle novità che il panorama delle fonti e i risultati della ricerca rendono possibili. Osservate da questo punto di vista, è indubbio che le intuizioni di Olivetti (la radice bayliana, il ruolo di Hamann, l’apertura dialogica, la centralità del nichilismo) hanno ricevuto piena conferma da quanto finora emerso dalle nuove fonti disponibili, tutte sostanzialmente in grado di fornire nuovi e più ricchi riferimenti testuali alle tesi avanzate. Il lavoro ulteriore che attende di essere condotto è naturalmente amplissimo. Le direzioni che ci sembra possano ancora essere percorse investono due settori : l’analisi, non sempre facile né scientificamente sicura, delle tracce che Jacobi stesso ha lasciato sui testi della sua biblioteca e che attendono di essere utilizzati per integrare ed arricchire il corpus delle fonti (ne esistono di cospicue e rilevantissime, per esempio, sui testi fichtiani che Jacobi sottopose ad attentissima lettura) ; il confronto di Jacobi con il Kant della Critica della ragion pratica. Come lo stesso Olivetti implicitamente notava in una delle ultime citazioni fornite nel suo intervento sul nichilismo, a produrre esiti nichilistici, tra l’altro, era per Jacobi « una volontà che vuole il nulla ». Non dunque la ragione, né l’intelletto, ma la volontà. Segno che vi è anche una dimensione pratica del nichilismo che, per il testo in cui quella citazione figura (la famosissima Lettera a Fichte), non può che rinviare a Fichte e, ancor più, a Kant. Continuare ad operare in una di queste direzioni, o nelle infinite altre possibili, sarà il modo migliore di tener fede al suo magistero prolungando il colloquio improvvisamente spezzato.
L’ESITO TEOLOGICO DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO di JACOBI Emanuela Pistilli
I
n una nota di Analogia del soggetto Olivetti si domanda se e in che misura il nesso etica-linguaggio-metaontologia, così come egli lo aveva esposto nel contributo giovanile sull’Esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi (1970), 1 potesse aver prefigurato il nesso elaborato nel primo testo. 2 Questa domanda-affermazione rappresenta un indizio rilevante della centralità che il pensiero di Friedrich Heinrich Jacobi riveste nella formazione dei tratti fondamentali della sua riflessione filosofica. Le parole scelte da Olivetti nell’Esito teologico per delineare il complesso rapporto di Jacobi con Hamann possono ben essere adottate per descrivere quello di Olivetti con Jacobi : lo studio e il confronto con la filosofia di Jacobi attraversano l’intero arco della sua ricerca filosofica, costituendo in parte il lievito che ha consentito al suo pensiero di esplicare tutte le sue potenzialità. 3 Non si tratta evidentemente di una ricezione passiva, bensì di un accoglimento critico, di una personale rielaborazione, il cui effetto e la cui evoluzione sono rintracciabili nell’intero percorso speculativo di Olivetti. Sebbene l’ultimo lavoro dedicato al filosofo tedesco sia del 1987, 4 l’interesse per la filosofia di Jacobi non è mai venuto meno, come d’altronde testimoniano i continui richiami all’autore nel corso delle sue lezioni universitarie. Potremmo dire che proprio l’assenza di lavori esplicitamente dedicati a Jacobi conferma l’assorbimento della sua filosofia, non più oggetto di una riflessione esterna, bensì parte integrante di quel tessuto che costituisce il proprio della Weltanschauung filosofica di Olivetti. In questo saggio mi limiterò a prendere in considerazione la monografia sulla filosofia del linguaggio di Jacobi, scritto che testimonia, a mio parere in modo significativo, la prossimità del pensiero di Olivetti con quello di Jacobi. In questo testo, pur mante
1 Cfr. Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi, Padova, cedam, 1970. Olivetti ha pubblicato diversi saggi sul tema della filosofia del linguaggio di Jacobi. Cfr. Gli inizi della filosofia del linguaggio di Jacobi : le Considerazioni del 1773 e la corrispondenza con Hamann, in L’analisi del linguaggio teologico : il nome di Dio, a cura di Enrico Castelli, Roma, Istituto di Studi Filosofici, 1969, pp. 501-528 (anche in « Archivio di filosofia » xxxvii, 2-3, 1969, pp. 501-528), trad. in francese, Les débuts de la philosophie du langage de Jacobi : les Considérations de 1773 et la correspondance avec Hamann, in L’analyse du langage théologique : le nom de Dieu, Paris, Aubier, 1969, pp. 501-528 ; Der Einfluss Hamanns auf die Religionsphilosophie Jacobis, in Friedrich Heinrich Jacobi, Philosoph und Literat der Goethe-Zeit, hrsg. von Klaus Hammacher, Frankfurt/M., Klostermann, 1971, pp. 85-117 ; Vernunft, Verstehen und Sprache im Verhältnis Hamanns zu Jacobi, in Johann Georg Hamann, Acta des Internationalen Hamann-Colloquium in Lüneburg 1976, Frankfurt/M., 1979, pp. 169-193 (Diskussion, pp. 211-213). 2 Cfr. Marco Maria Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 162-163. 3 Cfr. L’esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi, cit., p. 68. 4 Cfr. La spada a doppio taglio. Errore e menzogna nel dialogo Hamann-Jacobi, in Alberto Caracciolo (curatore), Il problema dell’errore nelle concezioni pluriprospettivistiche della verità, Genova, Il Melangolo, 1987, pp. 91-104. Precedentemente Olivetti aveva dedicato due saggi fondamentali alla filosofia di Jacobi, occupandosi rispettivamente delle Lettere sulla dottrina di Spinoza e del tema del nichilismo. Cfr. Da Leibniz a Bayle : alle radici degli Spinozabriefe, « Archivio di filosofia », xlvi, 1978, pp. 147-199 ; Nichilismo e anima bella in Jacobi, « Giornale di metafisica », 2, 1980, pp. 11-36.
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nendo il rigore filologico e la rispettosa distanza interpretativa che contraddistinguono la sua ricerca filosofica, il pensiero di Olivetti e quello di Jacobi si intersecano fin quasi a sovrapporsi, dando vita a un dialogo continuo, in cui non sempre è facile distinguere dove a parlare sia Jacobi e dove Olivetti. L’immediatezza mediata Il significato del contributo di Olivetti sulla filosofia del linguaggio di Jacobi non consiste tanto nella lettura inedita del rapporto Jacobi-Hamann, quanto piuttosto, come mostrerò nelle seguenti riflessioni, nell’aver evidenziato la portata teorica del pensiero del filosofo di Pempelfort, aprendo nuove prospettive interpretative nella Jacobi-Forschung. A dispetto della tradizionale interpretazione del confronto JacobiHamann, tesa perlopiù a una ricostruzione unilaterale dell’influenza di Hamann su Jacobi, Olivetti rivendica il carattere autonomo del pensiero di Jacobi. Pur riconoscendo l’indubbia presenza di Hamann nella progressiva tematizzazione della questione del linguaggio, secondo Olivetti, Jacobi non accoglie passivamente le istanze hamanniane, bensì le trasforma criticamente a partire dalle sue proprie urgenze filosofiche. D’altronde, rileva Olivetti fin dalle prime pagine della sua monografia, la distanza che separa Hamann e Jacobi è una distanza non mediabile, non riassorbibile. Proprio per questo, la loro Auseinandersetzung assume i contorni di un confronto ‘epocale’ tra due diverse sensibilità, tra due diverse interpretazioni delle tensioni filosofiche rappresentative di quel momento di passaggio che dall’illuminismo conduce all’idealismo. L’individuazione del tema del linguaggio come chiave di lettura privilegiata del rapporto tra i due filosofi si fonda sulla convinzione, sostenuta dai frequenti riferimenti all’argomento nell’epistolario Jacobi-Hamann, che la « questione del linguaggio sia cronologicamente precedente e logicamente fondante ». 1 Precedente e fondante da intendersi nel senso proprio di arché, di principio e fine nel caso della visione filosofica di Hamann, di fine, sia dal punto di vista storico sia teoretico, in quello di Jacobi. Il tema del linguaggio, declinato nell’ultima fase della speculazione di Jacobi nei termini di un problema essenzialmente ermeneutico, costituisce l’orizzonte al cui interno trovano una collocazione di ‘senso’ quegli elementi della sua filosofia tra loro apparentemente disomogenei. Hamann rappresenta dunque un interlocutore privilegiato, sia per l’imponenza della sua figura filosofica, sia perché capace di cogliere ed esplicitare le inquietudini teoriche di Jacobi prima ancora che egli le problematizzi. Alcune delle lettere più filosoficamente pregnanti di Jacobi sono indirizzate proprio al Mago del Nord, come la famosa lettera del giugno del 1783, in cui egli, rispondendo alle accuse rivoltegli da Hamann sulla struttura e sul significato del Woldemar, indicava nella volontà di rappresentare la nuda umanità, l’umanità così come è, la finalità che si era proposto nella scrittura dei romanzi. Ricordando che il fine ultimo del filosofare non si esaurisce nella dimensione sterile e annichilente della spiegazione, ma nello svelare ciò che non si lascia cogliere se non tramite intuizione : l’esistenza. 2 Le obiezioni di Hamann all’eccessiva indipendenza
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Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., p. 36. Cfr. ivi, p. 41 ; F. H. Jacobi, Briefwechsel. Gesamtausgabe, begründet von Michael Brüggen und Siegfried Sudhof, hrsg. von Michael Brüggen, Heinz Gockel, Peter-Paul Schneider, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1981 sgg., i, 3, p. 163. D’ora in poi indicato con JBW. 2
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rappresentata in alcuni personaggi del Woldemar nascondono in realtà, secondo Olivetti, una questione che investe l’epoca filosofica in cui entrambi vivono : « Il dramma dell’innocenza perduta, dell’immediatezza consapevole e mediata ». 1 Differentemente da Hamann, che a fronte di questa rottura si richiama ‘nostalgicamente’ a una felice dipendenza dell’uomo immerso in un universo significante, la ‘coscienza’ dell’impossibilità di un ritorno all’unità spezzata costituisce il tema di fondo che sottende la speculazione di Jacobi, la fonte dell’angoscia psicologica e morale che traspare nelle sue pagine. Jacobi mostra d’altronde di essere ben conscio dei motivi della sua irrequietezza filosofica, laddove, ritornando sul tema posto da Hamann, descrive la non autonomia dell’uomo sia nei termini di una finitezza negativa e disperante dell’uomo separato dalla realtà sia nei termini del nichilismo proprio dell’attività astraente dell’intelletto e, conseguentemente, di ogni filosofia dimostrativa. L’esclusivismo conoscitivo rivendicato dall’intelletto e la progressiva astrazione dal dato immediato reale, come suo proprio compito, conducono in nome del chiaro e distinto a una conoscenza formale, in cui i fatti si riducono a nomina appellativa, a una conoscenza pura, perché svuotata di ogni contenuto : « Non posso descriverle quello che provai quando per la prima volta mi resi conto di quella voragine e non vidi davanti a me altro che un orribile abisso oscuro ». 2 La dicotomia spirito-lettera non si risolve però in una giustapposizione manichea, il dramma filosofico di Jacobi ha origine nella consapevolezza dell’impossibilità di fare a meno dell’astrazione, nella constatazione della necessità della forma/concetto : « Una forma e una configurazione debbono averla tutte le cose, e prender via ad una cosa ogni forma, significherebbe tanto quanto annichilirla ». 3 In questa direzione devono dunque essere interpretate le dichiarazioni di Jacobi nella recensione giovanile al saggio di Herder sul linguaggio, in cui, a proposito dell’intuizione, egli affermava che i concetti costituiscono un necessario punto di appoggio per la zoppicante capacità conoscitiva umana, che, differentemente da Dio, non può percepire tutto tramite intuizione. 4 Il riconoscimento della necessità della conoscenza concettuale non attenua però il giudizio negativo di Jacobi, bensì acuisce il tono tragico del suo pensiero. I concetti e, più in generale, le forme, pur se indicate come male necessario, restano sempre un male, che intacca infine sia l’albero della conoscenza sia l’albero della vita, per riprendere la terminologia hamanniana. 5 La possibilità di ricondurre a un’unità armonica, a una sintesi superiore, i due momenti della conoscenza, quello intuitivo e quello intellettuale, l’immediatezza e la mediazione, lo spirito e la lettera, non è contemplata da Jacobi :
Nel mio cuore c’è la luce, ma non appena io voglio portarla nell’intelletto, essa si spegne. Quale dei due chiarori è quello vero ? Quello dell’intelletto, che certo mostra delle forme precise, ma dietro di esse è soltanto un abisso senza fondo, o quella del cuore, che certo illumina in alto riscaldando, ma lascia sentire la mancanza di un conoscere determinato ? Può lo spirito umano cogliere la verità, se entrambi quei chiarori non si uniscono in una sola luce ? E questa unione è pensabile altrimenti che attraverso un miracolo ? 6
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Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., p. 41. Ivi, p. 42 ; JBW, i,3, p. 164. 3 Ivi, p. 88 ; F. H. Jacobi, Werke. Gesamtausgabe, hrsg. von Klaus Hammacher, Walter Jaeschke, Hamburg, Meiner, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1998 sgg., 5,1, p. 209. D’ora in poi indicato con 4 5 Cfr. JGA, 4,1, p. 15. Cfr. JBW, i,3, p. 387. JGA. 6 Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., p. 45 ; F. H. Jacobi’s Werke, vi, hrsg. von Friedrich Heinrich Jacobi, Friedrich Roth, Friedrich Köppen, Leipzig, Gerhard Fleischer der Jüngere, 1812-1825 ; rist. Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1968 e 1976 ; rist. Berliner Buchdienst (Syndikat), 2001, i, p. 367. 2
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Il miracolo, invocato a testimonianza dell’impasse filosofica in cui egli si trova, sarà ‘paradossalmente’ la strada che, secondo Olivetti, Jacobi intraprenderà nell’ultima fase della sua speculazione, richiamandosi al principio metafisico di Dio, quale garante della significatività dell’esistenza, quale mediazione immediata tra l’interpretante uomo, il significante sensibile e il significato soprasensibile. Nelle considerazioni di Jacobi sugli abissi dell’uomo riecheggiano sensibilità pascaliane, come rileva ironicamente Hamann, che definisce quelle dell’amico « lambiccature alla Pascal ». 1 Anche in questo caso – sostiene Olivetti – Hamann coglie un punto nevralgico : Jacobi, come Pascal, riconosce nella consapevolezza di sé la superiorità dell’uomo sulla natura, constatando nel contempo che proprio ciò che costituisce l’eccellenza della natura umana è ciò che maggiormente lo allontana dall’immediatezza e dalla prossimità con il vero. 2 Secondo Jacobi la ragione/intelletto non è organo del divino, tantomeno – osserva giustamente Hamann – lo è il linguaggio, che nella visione del filosofo di Pempelfort condivide la colpa e il destino stesso della ragione, di cui è inseparabile veste. 3 Per Jacobi « se una conoscenza certa di Dio esiste per l’uomo, allora nella sua anima deve trovarsi una facoltà che verso l’alto l’organizzi ». 4 Indicativa dell’antinomia tragica del pensiero e dell’uomo Jacobi è l’esclamazione finale, in cui egli ripropone su un piano metafisico la dicotomia tra la luce del cuore e la luce dell’intelletto : « Io credo : Signore aiuta la mia incredulità ». 5 Diversamente da Jacobi, per Hamann non si pone il problema della consapevolezza come ostacolo all’immediatezza del rapporto con Dio e con la natura : « [...] il linguaggio [è] la madre della ragione e della rivelazione, l’alfa e l’omega di entrambe ». 6 Per Hamann il linguaggio umano e il libro della natura sono la traduzione ‘oggettiva’ della parola di Dio, che trasforma il mondo in un universo significante immediatamente percepibile dalla ragione : « Dio, natura e ragione sono intrinsecamente collegati l’uno all’altro come luce, occhio e tutto ciò che quella rivela a questo [...] o come autore, libro e lettore ». 7 Per Hamann l’esperienza è rivelazione, l’esperienza è percezione immediata che scioglie gli enigmi divini presenti nella natura attraverso la natura stessa. L’identificazione di esperienza e rivelazione, di ragione e Scrittura, elimina di fatto quella distanza che invece, secondo Jacobi, la consapevolezza umana crea in relazione alla comprensione immediata del significato. Per Hamann non esiste dunque alcuna questione ermeneutica, così come la pone implicitamente Jacobi nel momento in cui manifesta l’esigenza di trovare nell’uomo un organo che lo elevi al divino. La differenza tra i due filosofi può essere esemplificata, secondo Olivetti, nel motto che entrambi indicano come rappresentativo delle loro posizioni. Jacobi si richiama al motto archimedeo « datemi un punto di appoggio », da interpretarsi in relazione alla necessità di una facoltà-organo che ‘organizzi’ l’uomo verso il soprasensibile ; Hamann esclama « eureka », contrapponendo a questa inquieta ricerca l’affermazione di un possedimento certo, di un ritrovamento che nullifica la dimensione problematica individuata da Jacobi nel binomio immediatezza-consapevolezza. 8
1
Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., p. 46 ; JBW, i,3, p. 223. Cfr. Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., pp. 53-54. 3 Cfr. JBW, i,3, p. 388. 4 Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., p. 55 ; JBW, i,3, p. 373. 5 6 JBW, i,3, p. 373. JBW, i,4, p. 220. 7 Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., p. 57 ; JBW, i,3, pp. 395-396. 8 Cfr. Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., pp. 65-66.
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La mediazione immediata L’evoluzione del pensiero di Jacobi verso una problematizzazione ermeneutica di ogni possibile metacritica, in quanto superamento effettivo del purismo della ragione attraverso una critica del linguaggio, 1 sancisce il passaggio da una comprensione del binomio immediatezza-consapevolezza nei termini di una domanda sull’immediatezza del conoscere a quella di una domanda sull’immediatezza del comprendere. La distinzione compiuta da Jacobi negli scritti successivi al David Hume (1787) tra intelletto e ragione acquista di fatto, secondo Olivetti, una diversa rilevanza filosofica se contestualizzata all’interno di questo cambiamento di prospettiva. La ragione, identificata con l’organo del soprasensibile, costituisce insieme alla natura e a Dio la triade ermeneutica intorno alla quale ruota e sulla quale si fonda la riflessione filosofica dell’ultimo Jacobi, in cui – dichiara Olivetti – la soluzione del problema dell’innocenza perduta muta la questione linguistica in una di filosofia della religione. 2 A partire dalle Ergiessungen (1795) Jacobi accentua il suo interesse per il tema del linguaggio, passando da una considerazione gnoseologica a una cosmico-metafisica della problematica linguistica. Il linguaggio, come derivazione della lingua originaria, della parola divina, non si identifica più ‘solo’ con il concetto, con l’attività astraente, bensì rientra all’interno di una considerazione della realtà, di chiara ascendenza hamanniana, come universo significante. All’apparire fenomenico Jacobi sostituisce la parola quale forma costitutiva e ineliminabile del reale. È bene però specificare, dichiara Olivetti, che la parola visibile, riflesso della parola di Dio, non ha nulla a che fare né con la dimensione soggettivistica del fenomenico né con l’autismo oggettivistico della cosa in sé. Nel suo presentarsi come forma del reale la parola è ‘ontologicamente’ richiamo all’intersoggettività, all’apertura dialogica propria del rapporto ermeneutico significato-significante-interpretante. La natura si trasforma dunque in un universo significante in quanto parola di Dio, un Dio che l’uomo percepisce dentro di sé e fuori di sé attraverso un organo che ne è segno, indizio, parola : la ragione. La natura osservata dall’intelletto si rivela invece un caos di elementi privi di significato, una serie di condizionati, di cause ed effetti che mascherano soltanto il vuoto del nulla assoluto : un Unding. Jacobi :
Chi non vede Dio, per lui la natura non ha volto ; per lui è un assurdo senza ragione, senza cuore, senza volontà ; è una tenebra informe che produce delle forme ; una mancanza d’essenza che dalla mancanza d’essenza configura all’infinito similitudini senza archetipo, solo secondo similitudini. 3
La significatività del reale e dell’uomo si dà per Jacobi unicamente nel rimando a Dio. La natura trova una sua unitarietà di senso solo agli occhi della ragione, espressione del soprannaturale nell’uomo. L’uomo, la ragione, esiste solo come parola di Dio : senza di Lui, dichiara Jacobi, « non ho alcun valore essenziale (Wesenlos), non sono nulla (Unding) ». 4 Il problema della comprensione immediata, reso nullo nell’affermazione
1 Così si esprimeva Jacobi in alcuni passi contenuti nell’edizione del 1792 dell’Allwill. Cfr. JGA, 6,1, p. 241. 2 Cfr. Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., pp. 92 sgg. 3 Ivi, p. 98 ; JGA, 3, p. 12. 4 JGA, 3, p. 21 ; trad. it., Le cose divine e la loro rivelazione, a cura di Giuliano Sansonetti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, p. 55.
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hamanniana dell’oggettivismo del linguaggio divino e cosmico, viene risolto da Jacobi attraverso il richiamo a Dio, che rende possibile una coesistenza non contraddittoria tra immediatezza e comprensione. Dio è il significato presente nella parte più intima dell’interpretante e nel significante-natura, forma della realtà creata dalla parola divina. Olivetti :
Il comprendere sembra infatti voler dissolvere l’immediatezza nel processo ermeneutico [...] e il prodursi della realtà, il presentarsi della realtà in una forma, sembra volerla dissolvere nel medium della parola [...] il terzo termine, Dio, acquista dunque la funzione di garante dell’immediatezza pur nel mantenimento del processo ermeneutico. 1
Il miracolo invocato da Jacobi consiste nell’aver trovato in Dio stesso il punto di appoggio, nell’aver riconosciuto nella parola del tu divino il ‘senso’ che precede e fonda ogni dimensione ontica e conoscitiva :
Tu sei, l’unico, il primo ! ! ! [...] Porre in essere e inventare tutto ciò nell’atto spettava ad un Altro, a quella misteriosa parola, a quel principio di tutti gli esseri, che era presso Dio, ed era questa parola Dio stesso ; che, appena espressa, diventò creazione di luce, creazione di vita. 2
Dio è infine la sintesi superiore, che, pascalianamente, riconcilia in un’unitarietà di senso intelletto e ragione, lettera e spirito, pur senza eliderne la contrapposizione inestirpabile. La polemica di Jacobi contro l’astrazione non viene dunque riassorbita, ma trova maggior vigore, trova un suo ‘senso’ ulteriore. Il rischio dell’annichilimento sussiste sempre, laddove l’intelletto astraente non si armonizzi con la facoltà del soprasensibile : « L’intelletto chiarificatore e probatore non ha nell’uomo né la prima né l’ultima parola ».3 L’intelletto ricompreso dalla e nella ragione, limitato nelle sue pretese assolutistiche, ‘consapevole’ della sua non-autonomia, si riconcilia invece con il mondo dei contenuti, assolvendo il ruolo che gli è proprio nel distinguere le diverse sfumature dell’universo : « Presso il senso v’è necessariamente l’intelletto : la coscienza del collegamento e della separazione ». 4 La parola di senso è unicamente la parola della ragione, perché conforme a quella divina ; l’intelletto emette solo versi, nel momento in cui pretende di indagare la natura e il divino, portando alla luce ciò che può essere compreso nella sua immediatezza, e non conosciuto, solo nell’ombra di una premonizione che ‘accenna’ senza ‘dire’ : « V’è sempre qualcosa fra noi e il vero essere : sentimento, immagine, parola. Noi vediamo dappertutto solo qualcosa di nascosto noi lo vediamo e lo sentiamo ». 5 Lo stesso vale per l’intuizione sensibile, che, differentemente da quanto affermato negli scritti precedenti, non possiede alcuna parola iniziale : anche qui, non si tratta più del conoscere, ma del comprendere. 6 La spiegazione non è dunque il fine ultimo, fine ultimo è la rivelazione di qualcosa che è in se stesso insolubile, ineffabile. La spiegazione non è però neanche mezzo, così come non lo è l’intuizione, laddove la rivelazione vera e propria si dà all’interno della sfera del comprendere immediato, di quell’organo istintuale, che è la ragione, in cui « il vero, il buono e il bello in sé si rivelano senza intuizione, senza concetto ». 7
1
Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi, cit., p. 95. JGA, 3, p. 15 ; trad. it., cit., pp. 48-49. 3 Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., p. 103 ( JGA, 3, pp. 13-14). 4 5 Ivi, p. 121 ( JGA, 3, p. 22). Ivi, p. 98 ( JGA, 3, p. 14). 6 7 Cfr. JGA, 3, p. 14. JGA, 3, p. 61 ; trad. it., cit., p. 89. 2
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Ciò che nella sfera gnoseologica costituisce un problema insormontabile, come dichiara lo stesso Jacobi a proposito del razionalismo spinoziano, viene superato in quella del comprendere, in cui non è questione di conoscenza chiara e distinta, non vi è dicotomia tra immediatezza e consapevolezza, tra fede del cuore e ateismo dell’intelletto. Se, come egli scriveva, le argomentazioni di Spinoza e dunque della filosofia speculativa non possono essere controbattute se si resta nel campo dell’intelletto, 1 la soluzione è in un cambiamento di prospettiva, che la ragione, organo del comprendere, porta con sé. L’intelletto è categoria della disperazione, 2 perché « ha soltanto mani e non occhi », perché ambisce alla conoscenza assoluta ma « in lui non ha sede originariamente alcuna conoscenza ». 3 Se si rimane nella prospettiva dell’intelletto non c’è salvezza e non resta altro che invocare di essere annichilati. Alla luce di quanto detto, anche le dichiarazioni polemiche di Jacobi sulla filosofia di Schelling, giudicate incongruenti dai suoi contemporanei e da parte della letteratura critica, trovano una loro spiegazione. Il dualismo Dio-natura, di cui Jacobi fu accusato, è un dualismo motivato dall’eliminazione schellinghiana di uno dei tre termini – Dio, natura, uomo – che costituiscono ciò che Olivetti definisce « il circolo ermeneutico della filosofia della religione di Jacobi ». 4 A fronte della divinizzazione della natura, della trasformazione, operata da Schelling, dell’incondizionato Dio nel condizionato della natura assolutizzata, Jacobi afferma che la natura considerata dall’intelletto nasconde Dio : « Forse che è frutto d’ignoranza e d’esaltazione il confessare che si crede in Dio non in virtù della natura che ce lo nasconde, ma in virtù di quel che vi è di soprannaturale nell’uomo, che solo ce lo rivela e dimostra ? ». 5 È la ragione, significante del divino, vocale sacra, che rende parola le lettere mute della natura, riconoscendo nelle sue forme l’opera di Dio. La riflessione di Jacobi sul linguaggio, rilevante sia in una prospettiva interna al suo pensiero sia alla luce del più recente dibattito filosofico, rappresenta per Olivetti quel ‘salto’ teoretico che consente di superare l’orizzonte autoreferenziale del soggettivismo gnoseologico in nome dell’intersoggettività propria del discorso e, più in generale, di ogni riflessione sul comprendere. Il trascendimento delle sclerotizzazioni soggettivistiche ed egologiche della filosofia dell’io penso, il cui inevitabile esito nichilista ha un significato primariamente etico, in quanto distruzione-assenza di ogni valore-senso, si attua nel riconoscimento della priorità, nella costituzione del soggetto, del loquor rispetto al cogito, dell’allocuzione rispetto all’autoriflessione. La fondazione intersoggettiva della soggettività – dichiara Olivetti in Analogia del soggetto – costituisce l’unica strada che consente di sostituire dal punto di vista protologico l’etica all’ontologia : « Mentre il cogito si richiude in sé e si sostanzia come sé grazie all’autoreferenza [...] il loquor, nel riferirsi all’ego, si apre all’interlocutore ». 6 Nel cogito il soggetto compie un movimento circolare intorno a se stesso, ritornando su e a se stesso in una forma di vuota autocontemplazione ; nel loquor, nella passività denunciata dalla stessa forma deponente del verbo latino, il sé si costituisce attraverso l’altro da sé, l’ego si riconosce come ego nella
1 « Gli argomenti di Spinoza contro l’intelligenza e la personalità del principio primo, la libera volontà e le cause finali […] non ho mai potuto soggiogar[li] con la metafisica pura ». Spinoza-Briefe, JGA, 1,1, p. 149 ; trad. it., Lettere sulla dottrina di Spinoza, a cura di Francesco Capra, Bari, 1914, rivista da Valerio Verra, Bari, 2 Cfr. JGA, 3, p. 123. Laterza, 1969, p. 170. 3 Ivi, pp. 19-20 ; trad. it., cit., p. 53. 4 Marco Maria Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., p. 107. 5 JGA, 3, p. 117 ; trad. it., cit., p. 140. 6 Marco Maria Olivetti, Analogia del soggetto, cit., pp. 139-140.
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risposta alla parola originaria che è sempre quella di un alter-ego. Olivetti riconosce a Jacobi il merito di aver colto il nichilismo insito nel soggettivismo moderno, anticipando nelle sue riflessioni alcune problematiche proprie della filosofia contemporanea, che trovano in parte una loro concrezione nel movimento ‘autenticamente’ metacritico della « svolta linguistica ». L’uomo, secondo Jacobi, viene chiamato dalla parola divina all’esistenza, non a un ‘puro’ esistere, ma a un’esistenza di contenuto, di senso : Der mensch wird angeredet. 1 L’uomo, più che il soggetto, nasce nella risposta al Tu divino, che parla tramite la sua ragione e che lo invita a leggere nel mondo esterno e nel suo mondo interno un universo di valori e di significati. In quest’ottica, dichiara Olivetti, la teoria jacobiana del kein ich ohne du assume un significato linguistico oltre che conoscitivo : il tu è interno all’io stesso, che non può porsi come io senza prima essere stato posto come tu. 2 La rilevanza del pensiero di Jacobi consiste propriamente nell’aver riconosciuto nell’allocuzione ‘radicalmente’ asimmetrica del Tu/Io divino la nascita del soggetto come soggetto etico prima ancora che logico. La simmetria del rapporto interlocutivo io-tu, in cui l’io interpellante è potenzialmente un tu interpellato e viceversa, rimane, secondo Olivetti, radicata nell’al di qua dell’ontologia, non riuscendo a compiere quel salto ‘metaontologico’ che si effettua nel porre come irriducibilmente anteriore l’allocuzione di quell’io estraneo che chiamandoci tu ci mette al mondo. 3 Il salto mortale di Jacobi può essere dunque interpretato come espressione di quell’intervallo dell’interlocuzione, in cui si svolge la scena dell’essere, che è l’uno e l’altro. L’intervallo, il salto mortale, si concretizza in quell’asimmetria radicale che nella distanza tra la chiamata dell’altroio e la risposta dell’io nascente rende non unificabile, non riducibile all’ego, il tempo e la coscienza dell’alter-ego. Alla comprensione cogitativa della soggettività, alla soggettività come Selbständigkeit, alla difficoltà della filosofia egologica di pensare l’altro se non come iterazione del sé, si contrappone dunque una soggettività fondata sul loquor, sull’inter-esse, sull’essere costitutivamente tra gli altri esseri e attraverso gli altri esseri, su una non autonomia radicale e originaria. L’essere prima di essere per sé è un essere in relazione, Jacobi : « Isolato, solo per sé, egli non è nulla, un essere impossibile ». 4 La tematizzazione nell’ultimo Jacobi del problema del linguaggio si configura dunque come una domanda sul significato del significato, una domanda sul senso che travalica la stessa sfera ermeneutica per investire quella dell’esistenza e del suo senso ultimo. Il passaggio dalla dimensione gnoseologica alla dimensione metafisica porta con sé il riconoscimento dell’anteriorità della domanda sull’etica e sul senso dell’esistere. 5 Jacobi rivendica in tal modo la primalità dell’etica sulla gnoseologia e infine sulla stessa
1 JGA, 3, p. 14. Olivetti appone queste parole di Jacobi come exergo alla sua monografia sull’Esito teologico. Questa citazione verrà ripresa, significativamente, anche in Analogia del soggetto. Cfr. op. cit., p. 141. 2 Cfr. ibidem. 3 Riportiamo di seguito una citazione dalle Cose divine, che ci sembra estremamente rilevante in merito al tema della fondazione intersoggettiva della soggettività : « Non potendo esprimere se stesso senza l’accompagnamento di Dio e della natura, che, anzi lo devono precedere, lo spirito dell’uomo sa di non essere solo, o per lo meno lo sa con quella medesima certezza con cui sa di essere ; attesta che indipendentemente da lui esistono altri esseri simili a lui e da lui dissimili, fuori, accanto e prima di lui, e lo attesta con quella medesima energia con cui attesta la propria esistenza. Sente, esperimenta nel suo più profondo, e può anche conoscere che tanto la sua indipendenza quanto la sua dipendenza sono limitate ; che potendo essere necessariamente soltanto uno tra gli altri, non è possibile che sia un essere originario ed unico ; e che per essere uno tra gli altri, dev’essere necessariamente quest’uno e non quell’altro : un essere per se stante, 4 Ivi, p. 14 ; trad. it., p. 48. reale, personale ». JGA, 3, pp. 27-28 ; trad. it., cit., p. 60. 5 Diversamente da quanto sostenuto da una parte della letteratura critica (Otto Friedrich Bollnow, Icilio
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ontologia laddove si riduca a uno sterile indagare sull’essere che non prenda in considerazione il significato stesso dell’essere. La domanda con cui deve iniziare ogni filosofia non è il ti ésti o la ricerca delle cause, bensì la domanda sul senso. Una domanda che trova la sua risposta in Dio, che rappresenta il significato ultimo della realtà, non il fondamento (Grund) quindi, ma il significato. In questa direzione si muovono le dichiarazioni di Olivetti sulla necessità di ricomprendere la riflessione di Jacobi sul linguaggio all’interno della filosofia della religione : l’esito della filosofia del linguaggio di Jacobi, e ‘forse’ dello stesso Olivetti, non può che essere un esito teologico.
Vecchiotti, Raimundo Panikkar), secondo Olivetti la filosofia di Jacobi non ruota intorno alla domanda sull’esistenza, ma intorno a quella sul senso dell’esistenza : « L’accento infatti cade sul termine “senso” e non su quello “esistenza” », d’altronde rimarca Olivetti « è indicativo che la Jacobi-renaissance [...] accada nel momento dell’abbandono storico dell’esistenzialismo a favore di una non opposta, ma certo assai più complessa sensibilità che trova nel denso problema del linguaggio il proprio consapevole o inconsapevole fondamento ». L’esito teologico della filosofia del linguaggio, cit., pp. 8-9.
« LIMITI » E « CONFINI » DELLA RAGIONE
Andrea Gentile « La propria soggettività al pari del ‘proprio’ orizzonte è ‘limite’ : lo sdoppiarsi del limite in punto di vista e orizzonte apre lo spazio dell’osservazione. […] Il limite, pur essendo sinonimo di contingenza e finitezza può essere sempre e soltanto sdoppiato, infinitamente sdoppiato. […] Lo sdoppiarsi infinito del limite proprio è la fonte di quello spazio e di quel tempo che l’osservazione sempre presuppone ». Marco Maria Olivetti
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l problema dei limiti della ragione è un tema centrale nella storia del pensiero filosofico. In quanto limitato nel suo essere nel mondo, nella sua razionalità e nella sua conoscenza, l’uomo rivela un’incancellabile impronta di complessità dovuta al fatto che, alla radice stessa della sua sostantività, il limite vi si insedia come consistenza della sua insufficienza. L’essere dell’uomo si configura come un ‘essere nel limite’ : il limite giace inevitabilmente nella sfera dell’esistenza, nella dimensione più profonda della ‘destinazione’ dell’uomo. In questo orizzonte, il limite e/o i diversi limiti della soggettività, della razionalità e della conoscenza umana possono essere enucleati nel momento in cui si prende ad esaminare l’essere dell’uomo : il limite è ciò che vi è di più ‘reale’ (wirklich) nel fluire inesorabile del tempo, nell’esperienza, nella conoscenza e nell’esistenza umana. Nell’interpretazione di Olivetti, i ‘limiti’ della ragione non sono ‘confini’ o ‘barriere’ invalicabili, ma sono definiti come ‘limiti problematici’, che non possono essere determinati in modo rigorosamente necessario e definitivo secondo una conoscenza schematica, analitica e sintetica. 1 La ‘problematicità’ del concetto di limite e dei limiti della ragione sono evidenziati da Olivetti in particolare nell’introduzione alla Religione entro i limiti della sola ragione di Kant e vanno collocati in un orizzonte teoretico in rapporto alla correlazione linguistico-semantica tra fede riflettente e giudizio riflettente : « I confini all’interno dei quali dovrebbe rimanere la considerazione religiosa della ragione sono altamente problematici non solo per quanto riguarda l’ampiezza dell’area che essi circoscrivono, ma anche per quanto riguarda la natura del limite che essi tracciano : spesso si ha l’impressione che essi rappresentino, oltre che un limite, una congiunzione ». 2 In un orizzonte fenomenologico ed ermeneutico come è possibile interpretare la natura del limite come ‘congiunzione’ ? Il termine ‘congiunzione’ richiama il concetto di ‘distinzione-relazione’ e non di ‘divisione’ o ‘barriera’ invalicabile. Il concetto è chiarito da Olivetti definendo una correlazione semantica tra la ‘natura’ dei ‘limiti’ della ragione e la teoria delle ‘aree concentriche’ : « La teoria delle aree concentriche, lasciando
1 Cfr. Marco Maria Olivetti, Transcendental without Illusion : Or, The Absence of the Third Person, in Contemporary Italian Philosophy. Crossing the Borders of Ethics, Politics, and Religion, edited by Silvia Benso and Brian Schröder, State University of New York, New York , 2007, pp. 149-160. 2 Marco Maria Olivetti, Introduzione, in I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di Marco Maria Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. xx.
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aperta la possibilità dello iato e del contrasto di fatto tra storico e razionale, pone, però, in linea di principio, una concordanza tra i due elementi, che sarebbe stata esclusa solo ove fosse stata teorizzata l’eccentricità delle rispettive aree ». 1 Si può dire che effettivamente l’immagine geometrica utilizzata nella Prefazione alla seconda edizione dello scritto sulla Religione e l’idea del confine come congiunzione sono luoghi emblematici dell’interpretazione olivettiana di Kant e del significato di quest’ultimo per la sua originale riflessione sul limite. Può essere letta infatti in termini kantiani la comprensione della filosofia della religione come via privilegiata per arrivare ai confini della ragione, ai confini tra l’orizzonte ‘indeterminato’ 2 del sapere e la linea-limite della conoscenza. « L’insieme di tutti gli oggetti accessibili alla nostra conoscenza ci si presenta come una superficie piana, fornita di un orizzonte apparente, che abbraccia il suo ambito intero, a cui abbiamo dato il nome di concetto razionale della totalità incondizionata : non c’è questione della nostra ragion pura che non riguardi ciò che si trova al di là di questo orizzonte o almeno sulla sua linea-limite (Grenzlinie) ». 3 Ed è significativamente ancora a Kant che Olivetti si richiamerà nelle sue ultime pagine, ponendo a tema la possibilità di una filosofia della speranza. 4 Quel Kant che, come è noto, così scriveva a Stäudlin il 4 maggio del 1793 :
Il progetto che mi incombeva, e che avevo formulato già da molto tempo, era di elaborare il campo della filosofia pura. Esso mirava alla soluzione dei tre problemi seguenti : 1) Che cosa posso sapere ? (metafisica) ; 2) Che cosa devo fare ? (morale) ; 3) Che cosa mi è lecito sperare ? (religione). Alla loro soluzione doveva infine seguire il quarto : Che cosa è l’uomo ? (l’antropologia, sulla quale ormai da più di vent’anni faccio annualmente un corso). Con lo scritto La religione entro i limiti della sola ragione ho cercato di portare a compimento la terza parte del mio progetto. In questo lavoro la coscienziosità scrupolosa ed un vero rispetto per la religione cristiana, nonché il principio di attenermi ad un’acconcia franchezza, mi hanno condotto a non celare nulla, ma ad esporre apertamente il modo in cui credo di intendere la possibilità dell’unione della religione cristiana con la più pura ragione pratica. 5
Olivetti vede nella ‘filosofia della religione’ non tanto un settore della filosofia, quanto una riflessione attraverso cui ripercorrere la storia della filosofia e ripensare l’insieme dell’esperienza umana : in questo orizzonte, rintraccia le origini di tale disciplina nella discussione sulle varie fedi, ispirata al razionalismo e universalismo, svoltasi all’epoca dell’Umanesimo e Rinascimento, ma è nella dissoluzione della metafisica dogmatica ad opera di Kant che rintraccia un presupposto fondamentale di un’impostazione del problema teologico orientata dalle questioni dell’esistenza, della ‘soggettività’, dell’‘analogia’ 6 e, appunto, dei ‘limiti’ della ragione. In questa impostazione si ritrova innanzitutto il significato insieme negativo e positivo della nozione di limite. Il limite significa ‘negazione di continuità’, ‘negazione d’essere’ oppure ‘negazione di permanenza’. Il limite indica sempre una mancanza, un’imperfezione, un’assenza : essere ‘limitati’ significa essere imperfetti e/o essere pri
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Ibidem. Cfr. Marco Maria Olivetti, Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età 3 Immanuel Kant, KrV, B788/A760. della tecnica, Roma, Abete, 1967. 4 Cfr. Marco Maria Olivetti, Universalità e molteplicità personale, in Universalismo ed etica pubblica, a cura di F. Botturi e F. Totaro, Milano, Vita e Pensiero, 2006. 5 Immanuel Kant, Epistolario filosofico 1761-1800, a cura di Oscar Meo, Genova, Il Melangolo, 1990, pp. 319-320. 6 Cfr. Andrea Gentile, Recensione a Marco Maria Olivetti, Analogia del soggetto, « Acta Philosophica », International Philosophical Rewiew, i, 4, 1995, pp. 153-156. 2
«limiti» e «confini» della ragione
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vi di qualcosa. Il limite non annuncia però solo la negazione di qualcosa, ma anche un significato autenticamente e profondamente positivo. In qualsiasi forma o grado di realtà, la funzione del limite è di produrre limitazioni e nel riconoscimento soggettivo (nella presa di coscienza immediata) di ogni limitazione si radica la positività del limite. Il limite non rimane statico o stazionario, ma è dinamico. Il dinamismo del limite in quanto consistenza dell’insufficienza di qualsiasi grado di realtà e di manifestazione esterna, tocca l’uomo alla radice stessa della sua sostantività e autenticità e lo abbraccia interamente nell’esercizio positivo di tutta la complessità e diversità delle sue espressioni sia nel campo cognitivo-razionale, sia nel campo pragmatico-antropologico. In tutti i ‘limiti’ vi è qualcosa di ‘positivo’ : consentire il rapporto tra gli spazi delimitati, spazi che acquistano la propria costituzione, appunto a partire dal loro rapporto reciproco. In questo orizzonte, una filosofia del limite è una conoscenza autentica, reale, positiva : il limite nella sua presenza, nella sua positività, nella sua realtà (Wirklichkeit) divide due campi qualitativamente diversi (il campo del limitato e dell’illimitato, del possibile e dell’impossibile, del condizionato e dell’incondizionato, dei phaenomena e dei noumena) ma, allo stesso tempo, il limite appartiene di fatto sia all’uno sia all’altro campo : il limite appartiene inevitabilmente e necessariamente alle due regioni ‘sdoppiate’ che esso divide.
Quando noi rapportiamo tutti i giudizi trascendentali della ragion pura con l’orizzonte di una ricerca filosofica finalizzata a risalire fino ai concetti che rimangono al limite dell’uso empirico della ragione, noi ci avvediamo che ambedue possono coesistere, ma possono coesistere solo rimanendo sulla linea limite dell’uso legittimo della ragione : perché questa linea appartiene egualmente al campo dell’esperienza come a quello della realtà intelligibile. 1
La ‘linea-limite’ (Grenzlinie) si costituisce come una linea di ‘comune’ appartenenza in cui si incontrano due campi qualitativamente diversi. Proprio sulla base di questa ‘congiunzione’ partecipativa, si muove una filosofia del limite, cioè una filosofia che riflette sul limite, studiando le oscillazioni semantiche che costituiscono non delle zone d’ombra, ma il campo, l’ambito e il territorio del limite : ciò significa che « la ragione viene a stabilire un collegamento reale del noto con l’assolutamente ignoto ». 2 Olivetti, proprio nell’Introduzione all’edizione italiana della Religione entro i limiti della sola ragione, parla di un confine che sia piuttosto un « ponte della, chiamiamola così, trasgressione ». Così facendo, egli applica al rapporto appunto fra ragione e rivelazione quella distinzione fra Grenzen e Schranken alla quale Kant giungeva a conclusione di alcune significative riflessioni sulla doppia distinzione-relazione ‘limitato-illimitato’ (Begrenzt-Unbegrenzt) e ‘possibilità-impossibilità’ (Möglichkeit-Unmöglichkeit) : « Con quale diritto si può impedire alla ragione di proseguire oltre il campo della possibilità ? Dov’è mai il limite in cui la ragione deve arrestarsi ? È davvero possibile determinare in modo definitivo e rigorosamente necessario il limite tra il campo della possibilità e dell’impossibilità della conoscenza ? ». 3
I limiti (Grenzen) – osserva Kant – presuppongono sempre uno spazio che si trova fuori di un certo determinato luogo e lo racchiude ; i confini (Schranken) non hanno bisogno di ciò, ma sono semplici negazioni che affettano una grandezza, in quanto non ha completezza assoluta. La no
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Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, a cura di Rosario 2 Ibidem. Assunto, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 125. 3 Immanuel Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare ?, a cura di Andrea Gentile, Roma, Edizioni Studium, 1996, nota a p. 94.
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stra ragione vede (sieht), per così dire, intorno a sé uno spazio per la conoscenza delle cose in sé, sebbene non possa mai averne concetti determinati e sia confinata soltanto entro i fenomeni. 1
Il termine ‘limite’ (Grenze) è utilizzato spesso per indicare la ‘linea-limite’(Grenzlinie) oltre cui non risulta possibile una conoscenza degli oggetti dati nell’esperienza. Sarà un atto della ragion pura guidare il suo uso quando essa muovendo dagli oggetti noti dell’esperienza vuole estendersi « oltre tutti i limiti dell’esperienza » (über alle Grenzen der Erfahrung). 2 Al contrario, il termine Schranke « indica i confini in quanto semplici negazioni che affettano una grandezza ». 3 La ragione « sente il bisogno, per la possibilità di tutte le cose, di presupporre una realtà come data e considera la diversità delle cose solo mediante le negazioni ad esse inerenti come confini (Schranken) ». 4 Questo ampliamento d’orizzonte è tutt’altro che indebito. Il problema dei limiti della ragione ha infatti un ruolo centrale nel percorso teoretico-filosofico e nell’arco complessivo delle opere di Olivetti, prima e al di là del tema specifico del rapporto ragione/rivelazione. « La propria soggettività al pari del ‘proprio’ orizzonte è ‘limite’ : lo sdoppiarsi del limite in punto di vista e orizzonte apre lo spazio dell’osservazione deparadossalizzata, e ogni movimento riflessivo condotto sull’una e l’altra sponda di tale campo genera il paradosso ». 5 Il limite, pur essendo « sinonimo di contingenza e finitezza può essere sempre e soltanto sdoppiato, infinitamente sdoppiato. L’infinito sdoppiamento – osserva Olivetti – non è un ‘cattivo infinito’, perché il ‘cattivo infinito’ è un infinitezza che si ottiene, o vorrebbe ottenersi, all’interno dello spazio dischiuso dallo sdoppiarsi del limite come limite proprio. Ogni infinitezza quantitativa implica e già presuppone lo sdoppiamento del limite dell’osservazione : lo sdoppiarsi infinito del limite proprio è la fonte di quello spazio e di quel tempo che l’osservazione sempre presuppone ». 6 Questa situazione, nella sua unicità e autenticità, marca e contrassegna il limite come ‘doppio-limite’, 7 come limite ‘sdoppiato’ e caratterizzato da riflessività complessa. Secondo Olivetti, all’interno del ‘doppio-limite’ si inscrive « ogni considerazione pragmatica della referenza, in quanto la referenza è essa stessa costituita dalla e nella complessa riflessività comunicativa. Il circolo di momento pragmatico e momento semantico nel linguaggio religioso è il segno di quel limite insuperabile per cui il referente religioso può essere pensato solo come esterno (extrasistemico) rispetto al rapporto comunicativo che lo presenta come interno (intrasistemico) e direttamente referenziale ; esso va pensato come ambiente di ogni referenza significativa ». 9 È questo un punto centrale e decisivo nella tesi di fondo del volume Analogia del soggetto, sia rispetto alla « composizione-scomposizione della presenza », sia rispetto al triplice rapporto semantico tra limiti, etica e ‘analogia subjecti’. 10 L’analogia è il riconoscimento di una reciproca appartenenza, di un rinvio all’intersoggettività e all’ulteriorità, che conferisce all’etica una funzione e una identità di ‘filosofia prima’. Il volume, che rivela una profonda consapevolezza e partecipazione alle inquietudini e alle attese della spiritualità filosofica e religiose contemporanee, si chiude ritornando sul tema dei limiti, della possibilità e
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Immanuel Kant, Prolegomeni, cit., p. 120. Idem, Che cosa significa orientarsi nel pensare ?, cit., p. 89. 3 4 Idem, Prolegomeni, cit., p. 120. Ibidem. 5 6 Marco Maria Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 37. Ivi, p. 38. 7 8 9 Ivi, p. 219. Ibidem. Ivi, p. 14. 10 Cfr. Andrea Gentile, Analogia e soggettività. Inversione e trasformazione comunicativa dell’appercezione trascendentale, « Il Cannocchiale », gennaio-aprile 1995, pp. 169-176. 2
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dell’ambito di una filosofia della religione in un’epoca come la nostra così ampiamente segnata da una secolarizzazione, in dürftiger Zeit, nel tempo della privazione, della mancanza, dell’essere nel ‘limite’. Questo ‘filo rosso’ lo si ritrova negli altri libri da lui pubblicati – Il tempio simbolo cosmico (1967), La filosofia del linguaggio di Jacobi (1970), Filosofia della religione come problema storico (1974) – e nei suoi numerosi saggi, tra i quali Filosofia della religione in La filosofia (Torino, 1995). In tutti questi lavori Olivetti ha ricercato dal punto di vista storico e teoretico, ermeneutico e fenomenologico i legami che intercorrono tra alcune espressioni contemporanee dell’architettura sacra che ci porta ai confini della ragione e nuove tendenze nel campo filosofico-religioso, tra il linguaggio e la sfera etico-politica, tra il riferirsi a Dio e le idee di società e comunità etica. Fra gli orizzonti aperti dalla sua ampia produzione filosofica e che egli non ha potuto purtroppo ulteriormente approfondire a causa della sua prematura scomparsa, quello dei limiti della ragione rimane il più ‘kantiano’ ed è in questa direzione che si possono continuare a raccogliere alcuni spunti per chiarire le radici del suo pensiero e le prospettive che di esso sono purtroppo rimaste incompiute. La ragione non rimane confinata all’interno di un ‘orizzonte’ irraggiungibile perché tutte le questioni della nostra ragione mirano a ciò che può essere al di là e/o al di fuori di questo ‘orizzonte’, o in ogni caso sulla linea del suo ‘limite’. Quando la ragione traccia i ‘limiti’ (Grenzen) e i ‘confini’ (Schranken) della conoscenza e si possiede così come una totalità organica e compiuta, è proprio questo il punto in cui essa si apre al rapporto con la sfera che la trascende. I confini della ragione non ci impediscono di arrivare fino al limite e/o ai limiti dell’esperienza e orientarci sul limite e/o sui limiti della conoscenza, cioè fino alla relazione con qualcosa che non è in sé oggetto di esperienza. Il limite non è soltanto qualcosa di positivo, ma è anche qualcosa di comune ai due spazi che esso divide : è qualcosa di comune al mondo fenomenico e noumenico. Questo qualcosa di comune, che non elimina affatto l’eterogeneità dei due mondi è un nesso o un ‘rapporto’ (Verhältnis) : 1 « Vi è qui un nesso reale del conosciuto con un quid completamente sconosciuto, e, quand’anche lo sconosciuto non divenga minimamente più conosciuto, pur deve il concetto di questo nesso poter essere determinato e reso più chiaro ». 2 Nella Critica della ragion pura il territorio, in cui è possibile la conoscenza per concetti della ragione, è simile ad un continente di cui la nostra ragione determina i limiti : questi non possiamo conoscerli se non come, stando sulla riva, conosciamo l’oceano : cioè come qualcosa di diverso da noi e che si estende davanti a noi sconosciuto. Il nostro io – come attività pura, autentica e originaria delle ragione con le sue funzioni e i suoi principi – determina i limiti dell’esperienza e i limiti della ragione. La caratteristica propria di ciò che è indipendente dall’esperienza è la capacità di limitarsi da sé, sia che questa capacità sia riconosciuta all’intelletto, quando, riflettendo sul suo uso empirico, si coglie nella propria struttura costituente, sia che appartenga alla ragione, quando,
1 Ibidem. L’identificazione di ‘limite’ e ‘rapporto’, particolarmente significativa nella determinazione dei limiti della ragion pura, apre un problema centrale nello studio della filosofia critica di Kant : il problema del ‘doppio-limite’ che si rapporta sia ad uno sdoppiamento del concetto trascendentale di limite, sia al doppio-significato dell’ a priori kantiano. Su questo punto, cfr. Friedrich Glauner, Kants Begründung der « Grenzen der Vernunft », Köln, Janus Wissenschaft, 1990, pp. 96-167 ; Rudolf Zocher, Der Doppelsinn des kantischen Apriori, in « Zeitschrift für philosophische Forschung », 17, 1963, pp. 66-74 ; Heiner Klemme, Kants Philosophie des Subjekts, Hamburg, Meiner Verlag, 1996 e Alberto Rosales, Sein und Subjektivität bei Kant, 2 A. Gentile, Analogia e soggettività..., cit. Berlin, De Gruyter, 2000.
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cercando di oltrepassare i limiti dell’intelletto, fa esperienza del carattere proprio di ciò che si pone come limite estremo. Il compiuto sviluppo di questa capacità ‘autolimitatrice’ spetta alla ‘ragione’. 1 Infatti, se l’intelletto limita la sensibilità, perché mostra che il mondo sensibile non è tutto ciò che possiamo conoscere, la ragione esplicita compiutamente il limite proprio dell’intelletto, perché mostra che neppure l’intelletto può pretendere di esaurire tutto ciò che è possibile conoscere. Pertanto, solo la ragione perviene ad una piena conoscenza del limite, vale a dire non solo dimostra quali siano i limiti estremi, ma dal momento che questi appartengono sia al campo dell’esperienza, sia a quello delle cose in sé, conosce e determina non quest’ultime, bensì il peculiare rapporto in cui il limite sta con ciò che lo trascende. Il limite è qualcosa di reale, di autentico, di positivo ed è qualcosa di comune alle due regioni sdoppiate al di qua e al di là di stesso. La ragione si sofferma esclusivamente ‘sul limite’ e/o sulla ‘linea-limite’ : comprende l’incomprensibilità di ciò che sta oltre il limite e sa quindi il perché del proprio ‘non-sapere’. 2 In questa prospettiva, è necessario e inevitabile accettare il ‘limite’ come intrinseco e costitutivo di ogni indagine umana e farne la norma dell’indagine stessa. Un’indagine di questo genere è l’indagine critica. Il riconoscimento e l’accettazione del ‘limite’, che è proprio di ciascuna nostra facoltà diventa in Kant la norma che dà loro validità e fondamento. Così l’‘impossibilità’ della conoscenza di trascendere i limiti dell’esperienza diventa la base dell’effettiva validità della conoscenza ; l’‘impossibilità’ dell’attività pratica umana di raggiungere la santità (cioè l’identità perfetta della volontà con la legge) diventa la natura e la norma della moralità che è propria dell’uomo ; l’‘impossibilità’ di subordinare a sé la natura diventa la base del giudizio estetico e teologico (cioè della facoltà del sentimento). In tutti i limiti vi è ‘qualcosa’ di ‘positivo’ : consentire il rapporto tra gli spazi delimitati, spazi che acquistano la propria costituzione, appunto a partire dal loro rapporto reciproco. Il concetto di limite determinato in un orizzonte critico pone la relazione tra i diversi campi e limiti di possibilità delle facoltà. Se lo ‘sguardo’ immediato della ragione partendo dai suoi principi e interessi naturali realizza di fatto una qualche compiutezza, allora è possibile individuare, pensare e definire i limiti. Definire, riconoscere e ricomprendere i limiti sono i tre momenti che costituiscono il processo di ritorno della riflessione trascendentale all’interno dell’esperienza. In senso trascendentale, come condizione di possibilità, ciò che non può essere esibito si esibisce in un apparente paradosso : nel ‘vedere’, come afferma Kant, ‘ciò che manca’. Infatti, è costitutivo della nozione di limite consentire di pensare il rapporto tra ciò che è al di qua e ciò che è al di là del limite stesso. Kant sottolinea come « la ragione non sente (fühlt) ; essa vede (sieht) ciò che le manca e il sentimento del bisogno (das Gefühl des Bedürfnisses) agisce mediante la spinta della conoscenza (Erkenntnisstrieb) ». 3 Prima della conoscenza l’‘istinto’, la ‘spinta’ verso di essa consente di ‘vedere’ in una visione globale in ‘negativo’ la totalità non come qualcosa di dato e determinato, ma come ciò che non può non essere il necessario fondamento di ogni eventuale, possibile determinazione oggettiva e reale.
1 Cfr. Wilhelm Vossenkuhl, Das System der Vernunftschlüsse, in System der Vernunft. Kant und der deutsche Idealismus, Band I, Hrsg. von Wilhelm Jacobs, Hans-Dieter Klein, Jürgen Stolzenberg, Hamburg, Felix Meiner Verlag, 2001. 2 Cfr. Perspektiven der Transzendentalphilosophie im Anschluß an die Philosophie Kants, Hrsg. von André Georgi und Reinhard Hiltscher, Freiburg-München, Karl Alber Verlag, 2002. 3 Immanuel Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare ?, cit., nota a p. 95.
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Si guadagna in questo modo una prospettiva privilegiata sul rapporto fra orizzonte della conoscenza e ‘linea-limite’ (Grenzlinie). « La determinazione dei limiti della nostra ragione (Grenzbestimmung unserer Vernunft) può avere luogo esclusivamente in base a principi a priori (nach Gründen a priori) ; ma la limitazione della ragione, in quanto costituisce la conoscenza, se pur indeterminata, di una ignoranza mai totalmente sopprimibile, può essere riconosciuta anche a posteriori, quando ci si rende conto che, oltre tutto ciò che si conosce, resta sempre qualcosa da conoscere ». 1 In questo contesto semantico, Kant definisce il concetto di ‘linea-limite’ in rapporto ad una doppia analogia : l’analogia della ‘terra sferica’ e l’analogia della ‘terra piana’.
Se (stando all’apparenza sensibile) immagino la superficie della terra come una superficie piana, non mi è dato sapere quali siano i confini (Schranken) della sua estensione. Ma l’esperienza mi dice, che, in qualunque modo io sia giunto, mi trovo sempre circondato da uno spazio in cui mi sarà possibile procedere oltre. Mi è dunque dato conoscere di volta in volta i confini (Schranken) in cui è racchiusa la mia conoscenza della terra, ma in nessun caso potrò conoscere i limiti (Grenzen) di ogni sua possibile descrizione. Quando, invece, mi rendo conto che la terra è rotonda, e che la sua superficie è sferica, mi è possibile – prendendo le mosse anche da una piccola parte di essa, quale può essere l’ampiezza di un grado – conoscere determinatamente, in base a principi a priori, il relativo diametro, e conseguentemente gli interi confini della terra, cioè la sua superficie. E se anche non conosco gli oggetti che possono giacere su tale superficie, posso conoscere, invece, l’ambito da essa racchiuso, la sua estensione e i suoi confini (Schranken). 2
Mantenendo la distinzione semantica tra Grenzen e Schranken, vengono distinti due tipi di conoscenza dei limiti della ragione : a) quando si percepiscono a posteriori i limiti della nostra conoscenza, perché di volta in volta si avvertono e si constatano i confini e/o le barriere (Schranken) in cui ci si imbatte; b) quando si ha un vera e propria determinazione a priori dei limiti della nostra conoscenza, perché si giunge a dimostrare i ‘limiti’ (Grenzen) stessi della ragione. È il caso della critica della ragione, che, secondo Kant, costituisce il punto-chiave della filosofia trascendentale. Sulla base del metodo critico-trascendentale, infatti, « non si congetturano soltanto, ma si dimostrano, in base a principi, non già semplicemente le barriere, bensì i precisi limiti della ragione, e non semplicemente l’ignoranza su questo o su quel punto, bensì l’ignoranza riguardo a tutte le questioni possibili di una certa specie ». 3 La distinzione è illustrata da Kant con un paragone geografico. Se vogliamo procedere alla determinazione scientifica riguardo l’estensione della superficie della terra, vi è una differenza qualitativa fondamentale in rapporto alla rappresentazione di una superficie piana o di una superficie sferica. Nel primo caso, non potremo che procedere empiricamente, a posteriori, constatando che la nostra conoscenza della superficie della terra può sempre procedere oltre, e quindi essa è racchiusa da ‘barriere’ (Schranken) che io però non riesco mai a raggiungere o determinare come tali. Nel secondo caso, invece, anche solo partendo dalla conoscenza di una piccola parte della superficie sferica della terra, possiamo calcolare con precisione il suo grado di curvatura e così il diametro della terra, la precisa ‘delimitazione’ (Begrenzung) della sua grandezza, raggiungendo una conoscenza determinata dei suoi limiti e della sua estensione. Il problema dal quale abbiamo preso le mosse era quello del limite come ‘congiunzione’. Si può proporre un’ulteriore conferma della sua matrice kantiana. Nella filo
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KrV, B786/A758.
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Ivi, B787/A759.
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Ivi, A761/B789.
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sofia critica la questione del ‘doppio-limite’ si riflette anche nell’uso dei termini latini corrispondenti alla distinzione linguistico-semantica Grenze-Schranke. Nelle Vorlesungen über Metaphysik und Rationaltheologie Kant afferma : « Limes (Schranke) ist unterschieden von terminus (Grenze) ». 1 Grenze, che traduce il latino terminus, implica uno spazio di ulteriorità rispetto a ciò che delimita o racchiude. Al contrario, Schranke che traduce il latino limes, indica nella sua immediatezza qualcosa di semplicemente negativo, che si esaurisce di fatto nel segnalare la non compiutezza di una grandezza. Questa terminologia, che assume un significato decisivo in Germania durante il Settecento, venne a far parte del lessico filosofico tedesco proprio grazie alla traduzione dei termini latini limes e terminus, adottata prima da Leibniz per la sua rilevanza nel metodo infinitesimale e ripresa successivamente proprio da Kant. Nella lingua latina, la nozione di limes indica sempre una negazione, una mancanza, un’assenza, un’imperfezione, mentre definiamo qualcosa. Al contrario, la nozione di terminus è spesso connessa al concetto di ratio primitiva e completudo : così il terminus di una serie è il primo membro della medesima, le cui condizioni di possibilità sono implicite nel conceptus terminator che si identifica con il significato del termine Grenzbegriff (concetto-limite). 2 In questo contesto semantico, i limiti (Grenzen) sono « der erste Grund, die omnitudo des verknüpften und das letzte subjectum ». 3 Pertanto, mentre limes-Schranke sembra indicare la semplice mancanza nella determinazione del molteplice e/o della totalità, al contrario terminus-Grenze 4 indica ciò che conferisce determinatezza e compiutezza ad una cosa. In questo orizzonte semantico, la nozione di ‘limite’ (Grenze) rimanda all’eredità aristotelica del termine greco péras : ciò che porta a compimento e conferisce individualità a ciascuna cosa. Secondo Aristotele, infatti, le cose sono compiute proprio perché sono limitate. « Il limite è il termine estremo di ciascuna cosa, vale a dire quel termine primo al di là del quale non si può più trovare nulla della cosa e al di là del quale c’è tutta la cosa ». 5 In Aristotele, la nozione di limite è strettamente connessa ai concetti metafisici fondamentali, quali telos, ousìa, arché. Infatti, se il limite è il punto estremo di una cosa, al di là del quale non si trova nulla di essa e al di là del quale c’è tutto, allora, la possibilità di determinare il tutto della cosa lega il limite all’idea di perfezione : niente è perfetto se non ha un ‘fine’ (telos) e il fine è il ‘limite’ (péras). Questo significato positivo del limite assume un ruolo decisivo proprio nella filosofia trascendentale di Kant, dove è particolarmente presente nella definizione del concetto di filosofia critica, di logica e di metafisica. Il concetto ‘cosmico’ di filosofia è infatti quello di una « scienza della relazione di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione umana », la cui esposizione nella forma di una unità ‘sistematica’ è compito della metafisica. La ragione è umana, proprio perché è finita, perché ha dei limiti : ma la possibilità di pervenire a determinare i limiti del suo uso è ciò che consente di possederla nella sua totalità e di esporla nella sua compiutezza delle sue determinazioni essenziali e autentiche. La filosofia critica conosce i limiti e ci porta ad essi : non rimane confinata all’interno di un orizzonte irraggiungibile, perché tutte le questioni della nostra ragion
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Immanuel Kant, Vorlesungen über Metaphysik und Rationaltheologie, ak xxviii, 2, 1, p. 644. 3 Ibidem. Ibidem. 4 Sul significato della doppia distinzione linguistico-semantica limes-Schranke e terminus-Grenze nell’arco storico complessivo della filosofia trascendentale di Kant, cfr. Andrea Gentile, Ai confini della ragione. La nozione di « limite » nella filosofia trascendentale di Kant, Roma, Edizioni Studium, 2003. 5 Aristotele, Metafisica, 1022a, 4. 2
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pura mirano a ciò che può essere al di fuori di questo orizzonte, o in ogni caso, sulla linea del suo limite. Come ciò che ha confini è sempre affetto da una fondamentale incompletezza, ciò che ha limiti, come ad esempio la ragione umana, nonostante la sua finitezza, attinge, invece, la compiutezza e può essere esposto come un tutto in un’unità sistematica. È quindi la possibilità di determinare i propri limiti che conferisce il singolare privilegio alla ragione – nella sua autonomia – di essere legislatrice di se stessa. Nella correlazione semantica tra i fondamenti della logica e i limiti della ragione, si costituisce la struttura e la finalità della filosofia critica di Kant. Solo mediante « la critica è possibile estirpare sin dalle radici il materialismo, il fatalismo, l’ateismo, l’incredulità dei liberi pensatori, la fantasticheria, la superstizione, l’idealismo e lo scetticismo ». 1 Chi vuole « imparare a filosofare deve considerare tutti i sistemi della filosofia solo come storia dell’uso della ragione e come oggetti di esercizio del suo talento filosofico. Il vero filosofo deve fare un uso libero, autonomo e critico della propria ragione e non un uso servilmente imitativo. Il filosofo deve dunque sapere determinare : le fonti del sapere umano ; l’estensione dell’uso possibile e utile di ogni sapere ; e, infine, i limiti della ragione (die Grenzen der Vernunft). L’ultima cosa è la più necessaria, ma anche la più difficile ». 2
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Immanuel Kant, KrV., cit., bxxxv. Immanuel Kant, Logica, a cura di Leonardo Amoroso, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 19.
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FILOSOFIA DELLA RELIGIONE, INTERSOGGETTIVITÀ, RIVELAZIONE. il confronto con FICHTE Federico Ferraguto 1. Temi e contesti
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arco Maria Olivetti affronta il pensiero di J.G. Fichte in più momenti della sua ricerca filosofica. Da Fichte prendono spunto alcune pagine all’inizio del primo capitolo di Filosofia della religione come problema storico (1974). La teoria fichtiana dell’intersoggettività è discussa nel quarto capitolo di Analogia del soggetto (1992). Del Versuch einer Critik aller Offenbarung Olivetti cura la prima edizione italiana (1998). 1 La traduzione è preceduta da un corposo saggio introduttivo che dà un’idea complessiva degli esiti della dottrina della scienza, del contesto filosofico e culturale in cui veniva maturando e della funzione ‘strategica’ della filosofia della religione per comprendere le esigenze che spingono Fichte a radicalizzare la prospettiva kantiana. Sul rapporto Fichte-Kant Olivetti pubblica un gruppo di saggi, fra il 2003 e il 2004. 2 Questi ricalcano i corsi tenuti all’Università di Roma ‘La Sapienza’ e riprendono l’introduzione all’edizione dello scritto fichtiano. Il solo elenco dei luoghi nei quali Olivetti si dedica a Fichte consente di trarre alcune somme per impostare le considerazioni che seguono. Olivetti si occupa di Fichte continuamente, e non in una fase circoscritta del suo percorso filosofico. E lo fa sempre in momenti cruciali. L’importanza di Fichte emerge in una prospettiva di filosofia della religione. 3 Fichte radicalizza la prospettiva kantiana. Tale radicalizzazione diviene uno strumento per evidenziare l’equivocità di una possibile uscita dal trascendentalismo, là dove « tornare indietro nello spazio che intercorre fra visione critica e visione idealistica è forse l’unico modo per non cedere o non ammettere il trionfo della differenza in attesa che il significato si manifesti ». 4 Lo studio del binomio Oivetti-Fichte dovrebbe tenere presenti anche altri aspetti. Il primo di questi concerne la posizione di Olivetti nel panorama della recezione della Wissenschaftslehre. Il secondo è relativo allo spazio concesso alla discussione della prospettiva fichtiana in « Archivio di Filosofia » e nei Colloqui Castelli. Il terzo, infine, tocca le diverse letture di Fichte rintracciabili negli scritti degli allievi di Olivetti, comprese le
1 Johann Gottlieb Fichte, Saggio di una critica di ogni rivelazione, introduzione (pp. v-lx), traduzione e note a cura di Marco M. Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 1998. 2 Cfr. in particolare Marco M. Olivetti, Zum Religions- und Offenbarungsverständnis beim jungen Fichte und bei Kant, in « Fichte-Studien », Bd. 23 (2003), pp. 192-201 ; Idem, Religione e rivelazione nel giovane Fichte e in Kant, in La filosofia come santità della ragione. Scritti in onore di Xavier Tilliette, a cura di Antonio Russo e Jean L. Vieillard Baron, Trieste, Edizioni Universitarie Trieste, 2004, pp. 77-89. D’ora in poi gli scritti di Olivetti verranno citati senza indicare il nome dell’autore. 3 Su questo cfr. Stefano Semplici, Un filosofo della religione. Per continuare a pensare insieme a Marco Maria Olivetti, in « Archivio di Filosofia » 2007, n. 1-2, pp. 11-30. 4 Filosofia della religione come problema storico. Romanticismo e idealismo romantico, Padova, cedam, 1974, p. 10.
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tesi di laurea e le dissertazioni che egli ha stimolato e seguito. Al primo aspetto verranno dedicati alcuni passaggi più avanti. Il secondo e il terzo esprimono l’esigenza di ricerche più approfondite, di cui il presente saggio vuole essere soltanto una premessa. 2. La filosofia della religione e l’assoluto In Filosofia della religione come problema storico la presenza di Fichte non può, almeno in apparenza, dirsi massiccia. È la filosofia schellinghiana dell’identità a sostenere, soprattutto nel secondo e nel terzo capitolo del volume, le premesse teoriche situate già nell’introduzione. Il percorso di Schelling descrive le aporie idealistiche del rapporto fra sapere assoluto e religione assoluta. Ma Schelling non ne dissolve la tensione. Anzi : il suo discorso « si amplia fino al limite del proprio orizzonte » e finisce per incontrare « quel tema del sapere assoluto, che la Dottrina della scienza aveva, non solo terminologicamente, proposto ». 1 La ricomparsa di Fichte nell’alveo della filosofia dell’identità non è risolutiva. La dottrina della scienza è, piuttosto, l’emblema stesso della tensione e dell’oscillazione che delimita la filosofia classica tedesca fino a Hegel. 2 A Fichte viene però riconosciuto un valore epocale. Tant’è vero che Olivetti non si riferisce immediatamente ad elementi della filosofia della religione fichtiana, ma al cuore della dottrina della scienza : il tema del sapere assoluto. Parlare di assoluto o di assolutezza significa senz’altro porsi sul piano della coscienza storica. Di converso, è il problema dell’assoluto a rappresentare l’« estrema linea di resistenza » o l’« ultima offensiva » della mentalità astorica di stampo illuministico. Si genera così una situazione ambigua, nella quale « l’assoluto forse è là, mentre la storia differisce, producendo il differente e differendo […] o forse esso non è là, forse esso è qui, nella storia stessa autogenerantesi ». 3 Quello dell’assoluto diventa un discorso equivoco, « denotativo più dell’esigenza di totalità e di identità che della effettiva soddisfazione della medesima ». 4 Un’equivocità espressa anche dalla struttura formale del discorso sull’assoluto : il sapere prolettico. La prolessi disdice l’identità del sapere rinviandolo all’altro da sé. Al contempo, però, essa qualifica l’identità del sapere sotto il segno della contraddittorietà della differenza. 5 Tutte caratteristiche che appartengono alla Wissenschaftslehre. Fichte pone il problema dell’assoluto e pone l’assoluto come problema. 6 La dottrina della scienza è prolettica. 7 Il suo è un percorso deduttivo. Ma la deduzione è anticipazione, o predisposizione, al coglimento della legge secondo la quale non siamo noi a fare il sapere, ma è il sapere che si fa a noi. 8 L’autotrasparenza del sapere viene perciò a coincidere con il differire originario che ne qualifica l’identità. 9 L’evoluzione incalzante del pensiero fichtiano,
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2 Ivi, p. 287. Ivi, p. 65. 4 5 Ivi, p. 61. Ibidem. Ivi, p. 62. 6 Cfr. J. G. Fichte, Darstellung der Wissenschaftslehre (1801/1802), a cura di Reinard Lauth, Hamburg, Meiner, 1977, p. 9 e Idem, Die Wissenschaftslehre. Zweiter Vortrag im Jahre 1804, a cura di R. Lauth, Hamburg, Meiner, 1986, p. 162. 7 Per un’analisi di questo punto mi permetto di rinviare a Federico Ferraguto, Dimensioni trascendentali e speculative del problema dell’introduzione alla dottrina della scienza di J.G. Fichte, in « Archivio di Filosofia » 2005, n. 1-3, pp. 407-426. 8 Cfr. J. G. Fichte, Wissenschaftslehre 1811, in Johan Gottlieb Fichtes Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth, Hans Jacob e Hans Gliwitzki, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1964, i, Opere ; ii, Opere postume ; iii, Corrispondenza ; iv, Lezioni, (d’ora in poi ga), ii, 12, p. 153. 9 Su questo cfr. Wolfgang Janke, Limitative Dialektik. Überlegungen im Anschluss an die Methodenreflexion in Fichtes Grundlage 1794/95, in « Fichte-Studien » Bd. 1, 1990, pp. 9-24. 3
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documentata dalla continua riscrittura e riesposizione della Wissenschaftslehre, esprime questa complicazione. L’assoluto è già sempre altro dal sapere, e pertanto è anche sempre fuori della storia. Ma l’alterità dell’assoluto emerge solo come compimento del sapere, nel momento in cui il sapere diviene assoluto e per questo anche compiutamente storico. 1 La Wissenschaftslehre incarna la tensione romantico-idealistica fra inquieta ricerca dell’originariamente identico e insoddisfatta richiesta di significato, trascina con sé l’intero idealismo romantico e ne costituisce lo sfondo. 2 Ma il trascendentalismo di Fichte è anche la cifra dell’autodissoluzione della prospettiva idealistica. E questo vale tanto per Schelling quanto per Hegel. A Schelling va riconosciuto il merito di aver compreso che il problema del significato non si risolve sul piano linguistico-argomentativo, ma su quello del linguaggio che si fa azione. La liturgia e il culto, posti da Schelling al vertice della Costruzione storica del cristianesimo, sono infatti in parte rivelativi di Dio. L’azione liturgica è però in parte anche manifestativa dell’irriducibilità di un veicolo visibile, che pone il problema del significato e, non ipostatizzandolo in un assoluto fuori della storia, lo riconfigura come problema del mutuo rinvio di significante e significato, di una direzione del rinvio e, in definitiva, in quello di una storia fornita di senso. 3 Sono, questi, i tratti principali della definizione olivettiana di ‘filosofia della religione’ : non l’elaborazione di una filosofia filosofico-religiosa, ma l’espressione di un problema (quello della religione) che fa esplodere l’equazione fra cristianesimo e religione e illumina le implicazioni teoriche che si nascondono in essa, comprendendole come caratteri essenziali per la costruzione del moderno. 4 In un quadro, anche storiografico, di questo tipo non è difficile cogliere come lo sviluppo dell’idea storico-trinitaria del cristianesimo avvenga in Schelling in una forma che ha buon gioco nell’andare con Fichte, oltre Fichte. Vale a dire in una forma che resta fedele alla cornice offerta dalla dottrina della scienza pur ripensandone la dimensione ‘moralistica’. 5 Schelling segue una traccia fichtiana quando considera la morale come « la sostanza stessa della storia nella sua totalità ». 6 È il rapporto uno-molti, e quindi la questione speculativa, a lasciarlo insoddisfatto. La dottrina della scienza deve essere integrata da una riflessione in grado di chiarire come l’uno, o l’eterna volontà, divenga il principio di una molteplicità e, dunque, il principio, e non il risultato, di un percorso storico. 7 Il prezzo pagato da Schelling per il distacco da Fichte è, però, quello di perseverare in un’ambiguità di fondo che ripropone i problemi del sapere assoluto fichtiano : il dilemma fra una concezione attributiva dell’assoluto, che entra nella storia e viene subordinato ad essa, e una ‘sostantiva’, in cui sarebbe l’assoluto stesso a porsi come principio della storia. 8
1 Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 64. Per un’analisi tutta interna al pensiero di Fichte rinvio a Marco Ivaldo, L’approccio pratico-etico alla storia nella filosofia trascendentale di Fichte, in Filosofia trascendentale e destinazione etica. Indagini su Fichte, a cura di Aldo Masullo e Marco Ivaldo, Milano, Guerini & Associati, 1995, pp. 199-224 e a Giovanni Cogliandro, La vita divina e il compimento della filosofia trascendentale. Il Diarium iii e la Staatslehre di J.G. Fichte, in « Archivio di Filosofia » 2004, pp. 391-424. 2 3 Filosofia della religione come problema storico, cit., pp. 64-65. Ivi, p. 248. 4 Su questo Olivetti è chiaro già in uno dei suoi primi saggi, La philosophie de la religion et le développement de la philosophie italienne, in « Les Études Philosophiques » 1971, pp. 191-208, qui p. 202. 5 Cfr. Filosofia della religione come problema storico, cit., pp. 192-196. 6 7 8 Ivi, p. 191. Ibidem. Ivi, p. 314 n.
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Se il processo di dissoluzione interna dell’idealismo è visibile chiaramente in Schelling, esso è altrettanto ricco di implicazioni nelle pagine che Olivetti dedica al pensiero hegeliano. Hegel stabilizza l’oscillazione schellinghiana conferendo una precedenza alla religione, e alle sue forme manifeste, sul sapere assoluto. Da questa identificazione dello storico con lo speculativo consegue una sostanziale linearità storico-filosofica che da Kant conduce a Hegel. Dal punto di vista teorico tale linearità porta alla dissoluzione della prospettiva idealistica : senza la tensione fra ragione e storia, fra visibile e invisibile, fra sapere assoluto e assoluto, viene meno la struttura stessa del rinvio significante che definisce la filosofia della religione e la declina come problema storico. Senza rinvio significante, il processo di totalizzazione della storia si dissolve inaugurando il processo che conduce, Da Hegel a Nietzsche, 1 fino ai giorni nostri : epoca del primato della praxis sulla teoria, età della rivoluzione permanente e, quindi, del trionfo della differenza. 2 Sul piano storiografico, invece, quella hegeliana non è certo l’unica visione possibile del percorso idealistico-romantico. Ma in rapporto alla descrizione della vicenda della filosofia della religione essa è considerata da Olivetti privilegiata e privilegiante. E lo è sia perché l’operazione hegeliana evidenzia la centralità del nesso storia-religionespeculazione, sia perché chiarisce definitivamente la funzione del cristianesimo come fattore che condiziona lo sviluppo della vicenda idealistica. 3 Questa restrizione imposta allo schema storiografico hegeliano « significa molto meno, ma anche molto di più ». 4 In questa maniera Olivetti si inserisce in un dibattito decisivo per la recezione di Fichte a partire dagli anni ’60. 5 La concezione ‘dinastica’ dell’idealismo, anticipata da Hegel e riproposta da Tilliette, 6 è di fatto diffusa in tutta l’epoca idealistico-romantica, da Baader ad Eschenmayer. 7 Questa prospettiva mette però in questione le principali linee della Fichte-Forschung degli ultimi cinquant’anni e si pone in alternativa alle letture di studiosi come Lauth e Philonenko, critici, per ragioni diverse, nei confronti della scansione hegeliana. Nel caso di Lauth la periodizzazione hegeliana non consente di vedere nell’‘oscillazione’ di Fichte la previa legittimazione epistemologica necessaria per ogni affermazione sull’assoluto. Fichte non sarebbe posseduto da un’insoddisfatta esigenza di significato, ma dall’intenzione di enucleare il fondo ‘pratico’ e trascendentale di ogni tematizzazione riflessiva dell’assoluto e del suo farsi storico. 8 L’interpretazione di Philonenko conduce, oltre le mistificazioni hegeliana e schellinghiana, ad una comprensione della Wissenschaftslehre imperniata sulla dimensione intersoggettiva della coscienza concreta,
1 La periodizzazione della monografia di Löwith è effettivamente tenuta in gran considerazione, seppur con alcune fondamentali riserve, in ivi, pp. 14-16 n. 2 Ivi, p. 314. 3 Sul problema del cristianesimo come fattore condizionante cfr. la riflessione storico-teorica condensata in Riforma cattolica e filosofia moderna nel pensiero di Augusto Del Noce in « Archivio di Filosofia » 1969, n. 1, pp. 153-187, che per molti versi rappresenta l’‘antefatto’ della vicenda idealistico-romantica. 5 4 Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 312. Cfr. anche Ivi, p. 313-314 n. 6 Cfr. Xavier Tilliette, La nouvelle image de l’idéalisme allemand, in « Revue philosophique de Louvain » 1973, pp. 46-61. 7 Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 314 n. 8 Cfr. Reinhard Lauth, Zur Idee der Transzendentalphilosophie, München, Pustet, 1965. Per avere un efficace esempio della prospettiva di Lauth in riferimento alla discussione del problema dell’interpersonalità e della filosofia della religione in Fichte cfr. M. Ivaldo, Transzendentale Interpersonalitätslehre in Grundzüge nach den Prinzipien der Wissenschaftslehre, in Transzendentalphilosophie als System, a cura di Albert Mues, Hamburg, Meiner, 1989, pp. 163-173 ; Idem, Figure della filosofia della religione nel pensiero di Fichte, in « Archivio di Filosofia » 2007, n. 1-2, pp. 97-112.
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vero nucleo del pensiero critico di Fichte e largamente aderente alle coordinate illuministiche. 1 Ma è proprio la centralità della prospettiva fichtiana, implicita in Filosofia della religione come problema storico, ad evidenziare l’originalità della lettura di Olivetti. Fichte non viene ridotto a precursore insoddisfacente di più complessi sistemi speculativi alternativi alla dottrina della scienza. L’‘oscillazione’ fichtiana è ciò che residua dallo sviluppo idealistico e ciò che vi si trova al fondo. Analogamente, e ben lungi dal ricondurre la dottrina della scienza a rarefatta filosofia dell’io assoluto, la prospettiva della filosofia della religione si rivela feconda per stabilire un più continuo passaggio fra la tematizzazione della dimensione intersoggettiva della coscienza concreta e il problema metafisico dell’assoluto. Solo una volta chiarita questa continuità la periodizzazione hegeliana può essere posta nuovamente in questione. 3. Intersoggettività e metafisica Filosofia della religione come problema storico rende manifesto il rapporto fra crisi della metafisica e filosofia della religione. La crisi della metafisica non è un crollo, ma l’aprirsi ad una prospettiva di filosofia della storia. Questa apertura implica l’imporsi del tema metafisico dell’intersoggettività, ché in tutta la filosofia moderna è la comunicazione a costituire l’autentico punctum dolens della soggettività finita e dell’ontologia che vi si lega. 2 L’idea che « è da una certa comprensione della soggettività che si perviene al problema ontologico » 3 si impone a Olivetti già nei lavori su Jacobi. La secolarizzazione della teologia naturale, che Olivetti vede implicita nella costruzione degli Spinozabriefe, torna a tutto vantaggio dell’approfondimento di un interesse antropologico volto non a « salvare Dio » ma l’uomo. 4 Il discorso sulla soggettività può così slittare dal piano logico-ontologico a quello assiologico. E il presunto nichilismo di Fichte può essere interpretato non come riduzione al nulla, ma come possibile caduta nell’assurdo. 5 Sicché è lo smarrimento di ogni corrispondenza sensata fra conoscenza e mondo, e non l’annullamento della realtà, a rendere impossibile la comprensione del soggetto come una « mancanza significante » di « un significato che, se fosse posto e fondato ontologicamente, instaurerebbe il nulla inestirpabile dell’ente senza valore ». 6 Questa riconfigurazione del nichilismo fichtiano impedisce di irrigidire le accuse di Jacobi a Fichte e pone invece una questione – quella della relazione fra soggettività e ontologia – che spinge verso una rilettura della Wissenschaftslehre come espressione di un pensiero in cui l’abbandono di una concezione ‘moderna’ della soggettività è proporzionale « a quel ritorno su di sé che definisce il sé come sé, come medesimezza, come Selbstheit ». 7 In Analogia del soggetto, infatti, Fichte diviene l’espressione-limite di una ricerca che si dispone attorno al presupposto moderno della Selbstheit e dichiara, nondimeno, l’esigenza di far saltare la meccanica corrispondenza fra metafisica e ontoteologia. Qui la linearità hegeliana non basta più, perché fa dimenticare « o – con termine psicologico
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Cfr. Alexis Philonenko, La liberté humaine dans la philosophie de Fichte, Paris, Vrin, 1966. La comunità delle menti come problema della filosofia moderna, in Per una storia del concetto di mente, a cura di Eugenio Canone, Firenze, Olschki, 2005, pp. 343-362, pp. 354-355. 3 Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 73. 4 Da Leibniz a Bayle : alle radici degli Spinozabriefe, in « Archivio di filosofia » 1978, n. 1, pp. 147-199, p. 171. 5 L’esito ‘teologico’ della filosofia del linguaggio di Jacobi, Padova, cedam, 1970, pp. 90-91. 6 Nichilismo e anima bella in Jacobi, in « Giornale di metafisica », nuova serie, ii, 1980, pp. 11-36, p. 23. 7 Analogia del soggetto, cit., p. 126. 2
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– ‘censurare’ i problemi epocali lasciati aperti dall’inveramento fichtiano di Kant nel senso di un’etica protologica ». 1 La questione epocale, preannunciata nel ripensamento dell’appercezione kantiana in chiave etica, scardina la concezione ‘dinastica’ hegeliana e la sostituisce con un chiasmo : Fichte, Kant, Lévinas, Husserl, che occupa l’intero IV capitolo di Analogia del soggetto. 2 Stabilita la corrispondenza fra soggettività moderna e ontoteologia, la sfida consiste nel riportare il cogito alla sua dimensione irregredibile. È necessario « passare ad un altro piano, un trascendere, che non solo lascia essere, ma rende possibile » il piano oltre il quale si procede. 3 Sia il rapporto Fichte-Kant, 4 sia quello fra Lévinas e Husserl, 5 possono essere letti in questo modo. Nel Lévinas di Autrement qu’être si delinea una paradossale costituzione della soggettività come soggezione che avviene non nell’esteriorizzazione dell’io ma nella sua denucleazione da parte dell’altro. 6 Prima di Lévinas un’impresa analoga sarebbe rintracciabile in Fichte. Anche la Wissenschaftslehre nova metodo articola una filosofia trascendentale come filosofia prima. Non nel senso dell’ontoteologia, ma in quello di un risalimento dalla lettera allo spirito della filosofia kantiana. 7 Anche in Fichte, come in Levinas, la filosofia prima si forma in una regressione che descrive come la relazione soggetto-oggetto sia condizionata da quella soggetto-soggetto e che, pertanto, sancisce il primato del pratico anche nell’ambito del sapere teoretico. 8 Olivetti vede bene che, nello sviluppo interno della dottrina della scienza, un passaggio di questo genere implica una revisione dell’esclusività dell’intuizione sensibile. Presupposto della dottrina della scienza è infatti l’integrazione, solo superficialmente condotta in opposizione a Kant, della struttura dell’intuizione sensibile con quella dell’intuizione intellettuale. 9 L’unità immediata di soggetto e oggetto garantita dall’intuizione intellettuale non rappresenta, come voleva Kant, 10 il frutto di un trasferimento incondizionato della dinamica dell’intuizione sensibile al problema del coglimento di presunti oggetti non empirici. 11 In Fichte l’intuizione intellettuale denota quell’immediatezza irriducibile e complessa del rapporto di sé a sé che individua l’autocoscienza come concreta
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Ivi, p. 139. Non per caso il chiasmo è inteso da Olivetti come quella figura che identifica l’‘oscillazione’ e la simmetria di storico e speculativo, rappresentando la struttura ‘aperta’ del discorso sull’assoluto che ripropone i motivi fichtiani nella filosofia dell’identità di Schelling. Un passo molto interessante tratto da Filosofia della religione come problema storico chiarisce la questione e giustifica la presente lettura del iv capitolo di Analogia del soggetto : « L’introduzione della natura nella giovanile visione fichtiana portava allo spinozismo ; ma l’insegnamento indimenticabile di Fichte lo [Schelling, n.d.a.] costringeva ad una trasformazione storicizzante dello spinozismo, ponendolo quindi nell’impossibilità di accettare una simmetria di reale ed ideale che fosse un vero parallelismo e una subordinazione. Ecco allora che la struttura del chiasmo viene usata sì per affermare gli opposti, ma solo a livello di reale e non di ideale » (pp. 258-259). Vedremo più avanti che un tentativo di considerazione parallela di Fichte e Kant, da una parte, e Lévinas e Husserl, dall’altra, sia l’indice di un costante parallelismo sul piano storiografico, ma anche di una implicita subordinazione di Fichte a Lévinas sul lato teorico, che potrà svelarsi solo in seguito ad un’analisi complessa e mai escludente. 3 Analogia del soggetto, cit., p. 76. 4 Cfr. J.G. Fichte, Wissenschaftslehre nova methodo. Nachschrift Halle, ga iv, 2, pp. 19-20. 5 Analogia del Soggetto, cit., p. 76. 6 7 Ivi, p. 74. Ivi, p. 77. 8 J.G. Fichte, Wissenschaftslehre nova methodo. Nachschrift Krause, ga iv, 3, pp. 150-151. 9 Analogia del soggetto, cit., p. 85. 10 Cfr. su questo Immanuel Kant, Von einem neuerdings erhobenen vornehmenden Ton in der Philosophie, 1796, in Kants gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preussliche Akademie der Wissenschaften, Berlin, de Gruyter, 1902- Bd. vii, pp. 387-406. 11 J.G. Fichte, Wissenschaftslehre nova methodo. Nachschrift Halle, cit., p. 31. 2
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vita cosciente. L’intuizione intellettuale consente quindi di cogliere l’io come egoità e l’egoità, compenetrata dal punto di vista trascendentale, prevede l’altro io come sua condizione fondamentale. 2 Nella Wissenschaftslehre è all’opera una denucleazione della soggettività. Ma tale denucleazione è paradossalmente inseparabile dal rafforzamento della soggettività trascendentale conseguente alla regressione della Wissenschaftslehre da filosofia trascendentale a filosofia prima. Perché in Fichte il costituirsi intersoggettivo della soggettività rappresenta una questione rilevante, non alla luce della vita ordinaria dell’io, ma in seguito all’acquisizione del punto di vista trascendentale. 3 Sicché la dottrina della scienza come filosofia prima non scioglie il nodo di una « intersoggettività esigita, ma insieme ostacolata dalla comprensione puramente cogitativa e oggettivante dell’appercezione trascendentale ». 4 E tuttavia Olivetti non scarta immediatamente la posizione fichtiana. L’intera analisi del IV capitolo di Analogia del soggetto è anzitutto dedicata a svincolare la dottrina della scienza dalla lectio facilior che equipara una filosofia della teticità (quale è quella di Fichte) ad una filosofia della violenza. Semmai, sarebbe opportuno rimarcare, in linea con Pareyson, 5 che la filosofia fichtiana dello spirito finito è quella più appropriata per fondare « una dottrina filosofica del dovere, dell’autolimitazione, dell’intersoggettività ». 6 Altrettanto accorto è Olivetti a non commettere l’ingenuità storiografica di paragonare direttamente Fichte e Lévinas. 7 Il primo diviene uno strumento per chiarire se, e come, la proposta del secondo possa non restare irretita nel « gioco della determinazione reciproca » 8 all’interno del quale Fichte si farebbe protagonista di un trascendimento di Kant e Lévinas di Husserl. Il pensiero di Fichte deve essere portato allo stesso livello di quello di Lévinas, indagando in che modo l’eredità fichtiana si ripresenta nel panorama filosofico contemporaneo. È fuor di dubbio che il tentativo di un’interpretazione in chiave intersoggettiva dell’appercezione trascendentale si ritrovi, ben oltre Fichte, in Husserl e soprattutto in Apel. 9 La riconfigurazione intersoggettiva dell’appercezione coincide sempre con una « iterazione dei soggetti definiti dall’‘io penso’, cioè come una riconsiderazione al plurale del primo dei due termini della struttura soggetto-oggetto ». 10 Olivetti sembra qui propendere per un’identificazione della Transzendentalpragmatik con un Fichteanismus der Intersubjektivität. 11 La linea seguita da Olivetti ne mette 1
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Cfr. Dieter Henrich, Subjektivität als Prinzip, in Idem, Selbstverhältnisse. Untersuchungen zum Verhältnis von Subjektivität und Metaphysik, Frankfurt am Main, Reclam, 1999, pp. 49-73. 2 J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts nach den Principien der Wissenschaftslehre, ga i, 3, pp. 340 e segg. 3 Cfr. Idem, Das System der Sittenlehre nach den Principien der Wissenschaftslehre, ga i, 5, p. 204. 4 Analogia del soggetto, cit., p. 81. 5 Luigi Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, Milano, Mursia, 1976². 6 Analogia del soggetto, cit., p. 86. 7 In questo modo la disamina di Olivetti non può essere investita dalle critiche mosse da Hans G. von Manz nel saggio L’experience de l’autre en tant que constitution première et etique du sujet. Le tournant interpersonnel du concept d’experience chez Lévinas et Fichte, in Fichte et la France, a cura di Ives Radrizzani, Paris, Vrin, 1997, pp. 247-270, p. 252 n. Le critiche mosse a Olivetti tendono a chiarire come Lévinas comprenda la formazione della soggettività « all’interno di una comunità in qualche modo intermonadologica » (Ibidem), mentre in Fichte l’altro essere razionale sarebbe essenziale per il costituirsi dell’autocoscienza. Olivetti, secondo von Manz, nel paragonare Fichte e Lévinas non metterebbe in luce questa differenza decisiva, pur essendo Fichte e Lévinas molto vicini nell’attribuire al tema dell’assolutamente altro un’importanza decisiva. Risulta evidente che proprio la specularità e la differenza fra Fichte e Lévinas sia l’effettivo punto di partenza della ricerca del iv capitolo di Analogia del soggetto. 8 9 10 Analogia del soggetto, cit., p. 77. Ivi, p. 79. Ivi, pp. 79-80. 11 Vittorio Hösle, Transzendentalpragmatik als Fichteanismus der Intersubjektivität, in « Zeitschrift für philosophische Forschung », 1986, pp. 235-252.
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però in questione il presupposto : la ragione si costituisce sempre e solo in maniera riflessiva. Il primato della riflessione comporta sempre un privilegiamento dell’oggetto come polo con cui un soggetto può entrare in relazione. Ne deriva la sublimazione del soggetto concreto a struttura formale e, conseguentemente, la riduzione del rapporto fra più soggetti ad interazione di comportamenti oggettivamente osservabili. 1 Se una pluralità di soggetti « non deve nuovamente essere raccolta in un uno fagocitante, lo stesso raccoglimento nell’essere dovrà essere non logico, ma analogico, non univoco, ma equivoco, non unico, ma plurimo : uno-molti ». 2 Questo è il punto in cui il pensiero di Lévinas esprime la propria originalità ritrovando un soggetto che non è costituito dal – e nel – pensiero, non uni-vocato nel nominativo ‘io’ e ontologicamente in-consistente come sostanza e come libertà. Levinas compie così il passaggio metafisico che mostra l’impossibilità di dire la Selbständigkeit senza riconoscere la presenza o la precedenza dell’altro e degli altri. 3 Il iv capitolo di Analogia del soggetto, e la laboriosa interpretazione di Fichte, determinano e confermano la stretta connessione fra filosofia della religione e crisi della metafisica occidentale, così come l’intima relazione fra approfondimento della metafisica della soggettività e questione intersoggettiva. Ben oltre il suo aspetto critico, la disamina di Olivetti tende a mostrare come in Fichte, e in ogni filosofia trascendentale, si ritrovi una « amfibologia » 4 fra soggetto empirico e appercezione trascendentale, attestante il fatto che ogni qualvolta si afferma il primato dell’io si manifesta simultaneamente l’esigenza di inscriverlo in una dimensione più ampia.
4. Il saggio sulla rivelazione Da quanto detto risulta difficile isolare e discutere i limiti dell’immagine di Fichte restituita da Olivetti. La restrizione critica della portata della dottrina della scienza si ferma a quelle opere che più di altre hanno determinato il costituirsi del quadro storico-filosofico in cui si forma la filosofia della religione. La prospettiva della Wissenschaftslehre viene circoscritta a quelle espressioni del pensiero di Fichte che provocano il consolidarsi del nesso fra speculazione, religione e filosofia della storia. Le opere fichtiane più rilevanti sono in questo senso quelle che investono il distacco da Schelling, quelle che motivano il Nihilismusbrief, e quelle che guidano la recezione da parte di Hegel, soprattutto negli anni jenesi. Olivetti può allora prendere in considerazione i soli scritti di Fichte pubblicati nel periodo di Jena (1794-1799) e quelli della sua fase cosiddetta medio-berlinese (1800-1805). Il carattere ‘storico’ della filosofa della religione legittima, e addirittura impone, che l’immagine di Fichte sia sostanzialmente parziale. Se, poi, dalla filosofia della religione si passa ad una riflessione condotta sul piano di una filosofia prima, allora il discorso cambia. 5 Il percorso interpretativo sviluppa le potenzialità implicite nella dottrina della scienza e mostra, in linea con le evoluzioni della ricerca più avanzata, la sua fecondità anche sul piano del dibattito filosofico attuale. L’impressione di trovarsi di fronte ad una lettura di Fichte in cui la condizionatezza storiografica si integra con uno spregiudicato lavoro teorico rimane anche quando si mette capo ad un lavoro filologicamente accuratissimo come l’edizione italiana 1
2 Analogia del soggetto, p. 81. Ivi, p. 128. Ivi, p. 139-140 ; cfr. anche S. Semplici, Un filosofo della religione, cit., p. 25. 4 Analogia del soggetto, cit. p. 80. 5 In realtà, secondo Olivetti, la filosofia della religione è propedeutica alla riflessione sull’etica come filosofia prima. Cfr. ivi, cit., p. 236. 3
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del Versuch einer Critik aller Offenbarung. Il testo con cui Fichte esordisce è infatti carico di destino per gli sviluppi della filosofia della religione. Lo stesso Olivetti ne misura l’impatto sulla Religione kantiana, sugli scritti teologici giovanili di Hegel e sulla costruzione di quell’immagine di Fichte che diverrà in un certo senso ‘ufficiale’. 1 Nella prospettiva di una riflessione teorica, la rivelazione pare invece incunearsi fra trascendentalismo e metafisica, richiamando l’attenzione sulla natura amfibologica della soggettività. Il lavoro sul Versuch fichtiano tiene insieme tre strati che ripropongono sinteticamente le diverse chiavi di cui Olivetti si serve per leggere Fichte : la collocazione di Fichte nella formazione della filosofia della religione ; la funzione teorica della rivelazione ; l’importanza della lettura di Olivetti nell’orizzonte della Fichte-Forschung. Il denominatore che accomuna i diversi piani di analisi è la tesi secondo cui già nel saggio di Fichte sarebbe all’opera una radicalicalizzazione di Kant, nello stesso momento in cui Fichte dichiara di limitarsi a darne una presentazione scolastica. Questo vale innanzitutto per la storia editoriale del testo fichtiano e per il significato della sua dimensione ‘pubblica’. 2 Come sarà anche per la Religione kantiana, il fatto che il Versuch ambisca ad occuparsi filosoficamente di ‘cose di religione’ orienta la domanda su ‘che cos’è l’illuminismo ?’ e la trae alle sue estreme conseguenze ; ché l’uscita illuministica dallo stato minorile avviene essenzialmente attraverso lo sviluppo della domanda sulla religione. È nella religione che in età moderna viene messa in gioco la libertà, personale e politica, del singolo individuo. 3 Il rapporto di continuità e di radicalizzazione di Kant riguarda pure l’ambiguità del titolo dell’opera fichtiana. Vicende biografiche e redazionali a parte, il Versuch di Fichte è un ‘saggio’, in quanto presenta una sintesi dei principali desiderata e delle più inquietanti incertezze che animano il dibattito sulla filosofia dopo Kant. Incertezze e inquietudini che hanno come oggetto privilegiato proprio la religione, sia perché la filosofa kantiana vi insiste di meno, sia perché, come abbiamo già detto, è più direttamente legata alle vicende politiche prussiane, tedesche ed europee. Il Versuch fichtiano è, per altri versi, segno di un ‘tentativo’ che esprime un’ambizione : applicare la filosofia critica al problema filosofico-religioso della rivelazione e annunciare, su questa via, il più ampio progetto di una visione filosofica che pretende all’universalità e acuisce questa sua pretesa nell’estendere il suo sguardo ad un fenomeno storico-individuale quale è quello della rivelazione. Questo è un aspetto fondamentale della dottrina della scienza, che è deduzione completa dell’intero sistema della fatticità. 4 Olivetti sottolinea questo elemento di continuità notando che l’insoddisfazione di Fichte per il saggio non è dovuta all’inadeguatezza del suo contenuto, ma solo alle vicende di pubblicazione. Il che mostra come, se rapportata al contenuto del testo, l’insoddisfazione di Fichte coincida con il pungolo costante della stessa dottrina della scienza : « un’autocritica che si risolve in critica » e che « diviene sempre più un modo per dire la validità delle posizioni successivamente guadagnate ». 5 Esclusa la possibilità che il Versuch sia un tentativo affatto provvisorio, se ne deve accentuare la funzione di cerniera. È il « peculiare e tormentato kantismo dell’opera » a unire la giovanile formazione illuministica di Fichte con la visio
1 Per tutti questi passaggi cfr. Introduzione a J.G. Fichte, Saggio di una critica di ogni rivelazione, cit., pp. liii-liv. 2 Cfr. Religione e rivelazione nel giovane Fichte e in Kant, cit., p. 77. 3 Introduzione, cit., p. xv. 4 5 Cfr. Wissenschaftslehre 1812, ga ii, 13, p. 59. Introduzione, cit., p. xx.
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ne idealistico-trascendentale. Il tormento di Fichte risulta leggibile su piani diversi che, tuttavia, rendono bene l’idea della complessità del lavoro svolto da Olivetti. Nell’Introduzione all’edizione italiana del Versuch i motivi kantiani sono riscontrati a partire da un’analisi delle varianti che distinguono le diverse fasi di stesura del testo. Rifacendosi all’interpretazione di Verweyen, 2 Olivetti focalizza come l’aseità ontoteologica di Dio e la deduzione della religione a partire da una meditazione del finalismo che dissolve la cosa in sé, mettono in crisi l’implicazione, sottolineata fortemente nel § 2 della prima edizione, 3 di teologia e religione, oltre che quella di teologia filosofica e filosofia della religione, 4 preannunciando in questo modo temi che saranno più manifesti durante l’Atheismusstreit. Questo passaggio, che rimanda alla definizione della religione come fondata sull’idea di Dio quale « determinatore della natura secondo fini morali », 5 stride con una definizione di religione basata sulla Entäusserung, altrettanto presente nel § 2 della prima edizione. 6 L’intervento fichtiano, con il nuovo § 2 del 1793, è davvero radicale e delinea molte delle direzioni seguite dalla successiva Wissenschaftslehre. L’introduzione dell’impulso alla base della Teoria della volontà come preparazione a una deduzione della religione in generale 7 smentisce la visione kantiana della determinazione immediata della volontà da parte della legge morale (che condiziona la prima definizione di religione) e inserisce una componente antropologica che avvantaggia la seconda definizione, rendendo molto più chiaro e continuo il successivo passaggio dalla religione alla rivelazione (nei paragrafi successivi del testo). La smentita di Kant rende più complesso, e dunque anche più denso di conseguenze, il paragone del saggio fichtiano con la Religione. Innanzitutto rispetto al problema dell’intersoggettività : in Fichte la dimensione antropologica della religione comporta un rafforzamento della sua componente sensibile e, dunque, l’attribuzione alla rivelazione di una funzione essenziale per la formazione dello sfondo intersoggettivo correlato alla religione stessa. Nel caso di Kant, invece, la dimensione intersoggettiva viene guadagnata sul piano pratico e in virtù di una radicalizzazione della ragion pratica. 8 Parimenti intricato risulta il problema del male : la Religione applica al male morale la concezione elaborata nello scritto sulle grandezze negative, mentre per Fichte il male si riduce allo stato di rozzezza dell’umanità. Una differenza che implica pour cause « una naturalizzazione del male contrastante con la sua comprensione in termini kantiani, come colpa, cioè, di esseri originariamente disposti al bene ». 9 Da qui alle idee fichtiane sull’educazione e sull’Aufforderung, che nella Nova methodo si presenta come carattere costitutivo della coscienza, il passo è breve. Ma è anche un passo che ricongiunge i diversi momenti della lettura olivettiana di Fichte : oscillazione fra illuminismo e idealismo ; radicalizzazione della filosofia trascendentale in una filosofia prima ; comprensione amfibologica della soggettività ; dimensione intersoggettiva della coscienza concreta. Entrando nel testo questa impressione subisce un’ulteriore conferma. Il fatto che la radicalizzazione fichtiana del pensiero di Kant possa essere cercata, oltre che sul terreno filosofico-religioso, anche su quello antropologico-trascendentale, arricchisce la rifles1
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Ivi, pp. xxiv-xxv. Hans J. Verweyen, Recht und Sittlichkeit im J.G. Fichtes Gesellschaftslehre, Freiburg-München 1975. 3 J.G. Fichte, Saggio di una critica di ogni rivelazione, cit., p. 17. 4 Introduzione, cit., p. xxvii. 5 J.G. Fichte, Saggio di una critica di ogni rivelazione, cit., p. 19. 6 7 Ivi, p. 23. Ivi, pp. 126-148. 8 9 Ivi, p. xli. Ivi, p. xlix. 2
filosofia della religione, intersoggettività, rivelazione
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sione sulle prospettive di lettura aperte da Olivetti. La funzione di ‘passaggio’ assunta dallo scritto sulla rivelazione riguarda infatti piani, ancora una volta, diversi. Il primo è quello già menzionato da Olivetti, relativo ad un approfondimento degli intenti apologetici presenti nelle prime prediche di Fichte, Sugli scopi della morte di Gesù e Sull’annunciazione di Maria. 1 Tali intenti apologetici si legano però, questo è il secondo piano, ai progetti di riforma del sentire che Fichte tiene presente già negli Aphorismen über die Religion und Deismus. 2 Il sentire umano può essere rinnovato, secondo il giovane Fichte, attraverso lo sviluppo di una Verstandesreligion, cioè di una religione che ha come suo presupposto un esercizio e un rafforzamento delle capacità intellettuali del soggetto. Torna, evidentemente, la linea interpretativa di Olivetti relativa alla concezione fichtiana del male e della religione. Ma torna anche il problema della radicalizzazione di Kant, che può essere vista come l’ambizione fichtiana di trovare un « punto di unificazione fra le leggi della natura e le leggi della libertà » e rendere possibile « il passaggio dalla maniera di pensare secondo i principi dell’una legislazione a quella secondo i principi dell’altra ». 3 Il nesso è qui di ordine primariamente antropologico e investe le nozioni di attenzione, desiderio, 4 immaginazione. 5 Tutti elementi che hanno una parte significativa nella deduzione fichtiana del concetto di rivelazione, lo inseriscono nel quadro di una meditazione sulla condivisione intersoggettiva di un fenomeno storico-individuale e lo predispongono ad un’ermeneutica possibile sul piano etico-pratico, piuttosto che su quello fisico. Anche nel Versuch fichtiano, e come nel resto della dottrina della scienza, rimane allora fondamentale la domanda sull’uomo, la medesima domanda che Olivetti riscontrava in Jacobi e che determina le complesse analisi di Analogia del soggetto. 6 L’accentuazione della componente antropologica del soggetto sposta l’indagine su un piano radicalmente trascendentale : non ne va di una rivelazione ma delle condizioni per cui la rivelazione può essere sensatamente ammessa da uno spirito finito. 7 A questo livello la rivelazione può essere pensata come momento di condivisione intersoggettiva e come fenomeno storico-individuale che detiene una funzione significante : la rivelazione è annuncio, manifestazione che ri-produce un contenuto. La dimensione significante della rivelazione agisce sull’attenzione e sui desideri di un soggetto finito e, nel far questo, esibisce il valore decisivo di un soggetto non oggettivabile nell’operazione di conferimento di un senso alla storia. In fondo, anche il Versuch fichtiano sembra preannunciare quell’intrattenersi, o ritorno al trascendentalismo – non una perdita di tempo, ma il tentativo di impedire che il tempo si chiarisca come perdita 8 – che Olivetti vedrà pienamente espresso nella Religione kantiana. Il residuare, anche nel discorso fichtiano, di un’ambiguità di fondo ribadi
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Questi aspetti erano già stati sottolineati da Reinhard Preul, Reflexion und Gefühl. Die Theologie Fichtes in seiner vorkantischen Zeit, Berlin 1969. 2 J. G. Fichte, Saggio di una critica di ogni rivelazione, p. 56. 3 Idem, Versuch eines erklärenden Auszugs aus Kants Kritik der Urteilskraft ga ii, 1, pp. 329-330. 4 5 Idem, Saggio di una critica di ogni rivelazione, cit., pp. 102-103. Ivi, pp. 62-63. 6 Vale la pena riportare a tal proposito uno degli argomenti conclusivi di Analogia del soggetto, in cui « la fine della metafisica rappresentativa, la fine dell’ontoteologia, non cessa di finire in una antropo-logia analogica ed interinale, in una antropologia ad interim, una antropologia dell’intervallo in cui risuona la voce dell’imperativo che costituisce nell’essere come responsabili, cioè come alimentatori degli altri, cioè come alimento altrui » (Analogia del soggetto, cit., p. 196). 7 Cfr. ad es. J.G. Fichte, Saggio di una critica di ogni rivelazione, cit., p. 5 e p. 37. 8 Filosofia della religione come problema storico, cit., p. 10.
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sce, come avviene in Kant, la centralità e l’irriducibilità di quella che Olivetti chiamava natura anceps, natura ancipite, del soggetto empirico « teso e conteso fra appartenenza alla storia, nel cui differire è inglobato, e l’appartenenza all’identità, in virtù della quale egli ingloba in sé la storia, totalizzandola, identificandone il differire ed ‘equivocamente’ riconducendo essa in seno all’identità ». 1 Olivetti non potrà smentire, né confermare, questa nostra impressione.
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Ivi, p. 90.
PRO MEMORIA. OLIVETTI lettore DI HEGEL Claudia Melica Socrate […] ammaestrava nella conversazione la gente nel modo più semplice del mondo. Senza tono didascalico, senza mostrare di voler istruire, iniziava una conversazione qualsiasi, portando nella maniera più fine verso una dottrina che si dava da sé e che neanche ad una Diotima poté sembrare imposizione. Hegel 1
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el suo percorso filosofico Marco Maria Olivetti si è sovente confrontato con il pensiero di Hegel, sviluppando nei riguardi del filosofo tedesco un produttivo rapporto, come documentato dai diversi lavori a lui dedicati. In Analogia del soggetto – che in alcune parti costituisce una messa a punto della sua riflessione proprio sul filosofo di Stoccarda – Olivetti, riprendendo implicitamente una nota espressione utilizzata da Karl Marx in difesa di Hegel, 2 afferma chiaramente che « non è detto [egli] sia un “cane morto” come alcuni pretendono ». 3 Tale valutazione positiva rappresenta il punto di arrivo di una assidua frequentazione che ha origine nei primi saggi pubblicati alla fine degli anni ’60 ed è proseguita sino alle ultime opere della maturità. Un’indagine sempre articolata e complessa, condotta confrontando, talvolta, alcuni temi di Hegel con quelli di Jacobi, Schleiermacher, Fichte, Schelling e, soprattutto, Kant, cosicché risulta difficile ricostruirne esaustivamente in un breve lavoro tutti i passaggi. L’interpretazione olivettiana di Hegel riveste un significato di indubbia specificità nel contesto storico italiano in cui egli – e prima di lui il suo maestro Enrico Castelli (19001977) 4 – ha operato per l’affermazione della filosofia della religione come disciplina filosofica. L’insegnamento universitario di Castelli presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma – come lo stesso Olivetti ha sottolineato nel suo saggio dal titolo La philosophie de la religion et le développement de la philosophie italienne 5 – aveva rappresentato, nel dopoguerra, un’originale « alternativa culturale » al pensiero filosofico dominante all’epoca, fortemente influenzato dal neo-idealismo italiano in particolare di Croce e Gentile. Malgrado costoro avessero sviluppato due diversi punti di vista sul « fenomeno religioso » in generale, ciò che li accomunava era invece, come scrisse Olivetti nella stessa occasione, « l’esclusione effettiva » di qualsiasi tipo di « riflessione sulla filosofia della religione ». 6 Tale stato di cose, a suo giudizio, condizionò la scelta di interessi e la confi
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G. W. F. Hegel, Scritti giovanili, trad. it. a cura di E. Mirri, Napoli, Guida, 1993, pp. 201-202. K. Marx, Poscritto alla seconda edizione (1783), in Il Capitale, trad. it. a cura di M.L. Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 19645, vol. iii, pp. 44-45. 3 M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 39. 4 Cfr. Idem, Enrico Castelli (1900-1977), « Archivio di Filosofia », lviii, 1990, fasc. 1-3, pp. 765-778. 5 Idem, La philosophie de la religion et le développement de la philosophie italienne, « Les études philosophi6 Ivi, p. 194. ques », xlv, 1971, pp. 193-208. 2
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gurazione di discipline all’interno delle Università statali italiane 1 nell’immediato dopoguerra sino alla fine degli anni ’60. Mancava nel panorama italiano, a partire da Croce e Gentile, un’attenzione specifica di natura speculativa al « fenomeno religioso » che non fosse semplicemente uno « studio storico-comparativo dei fatti religiosi », come è invece avvenuto con l’affermarsi degli studi sulla storia delle religioni « coltivati » presso le Università italiane a dispetto di quelli sulla filosofia della religione. Come ben ricostruisce Olivetti in questo saggio storico, sebbene Gentile avesse elaborato una « filosofia religiosa », che acriticamente identificava la religione con il cristianesimo e in particolare con la confessione cattolica, il suo attualismo conciliante con il fenomeno religioso nulla aveva a che vedere con la « posizione singolare » di Castelli. 2 Quest’ultimo aveva assunto un atteggiamento « più radicale », mettendo teoreticamente in questione l’identificazione tra religione e cristianesimo ed elaborando una specifica riflessione filosofica sulla religione di carattere interconfessionale. È in tale clima spirituale che Olivetti ha maturato una valutazione critica della posizione assunta dal neo-idealismo italiano sulla religione. Così, sin dal primo periodo della sua riflessione, Olivetti ha avvertito la necessità di tornare a meditare su alcuni concetti hegeliani, da un lato facendo tesoro del magistero di Castelli e, dall’altro, proponendo proprie soluzioni interpretative originali in seno alla filosofia della religione. Sono diversi gli argomenti hegeliani su cui si è soffermato Olivetti nell’arco della sua intera speculazione ed alcuni ricorrono con maggiore frequenza, a dimostrazione della loro centralità nel suo pensiero. Al fine di ricostruire brevemente alcuni momenti del suo percorso intellettuale rivolto a Hegel, è opportuno partire da uno dei temi che più lo hanno occupato e al quale ha dedicato numerosi studi. Mosso dal desiderio di approfondire ulteriormente la ricerca avviata da Castelli, egli si è appassionato al tema della nascita, soprattutto all’interno della tradizione tedesca e poi di quella italiana, della filosofia della religione come disciplina filosofica e alla fondazione del suo statuto epistemologico interno. Tra i molteplici saggi che Olivetti dedica a questo tema, uno in particolare sintetizza con estrema chiarezza il suo pensiero ed è quello che riporta il suo intervento, dal titolo Dalla « filosofia della religione » alla « filosofia della rivelazione », ad un convegno svoltosi presso l’Università Lateranense su Teologia razionale, filosofia della religione, linguaggio su Dio. In più occasioni, Olivetti ha mostrato quali erano state le ragioni della successione storica dalla « teologia razionale » e/o naturale » alla « filosofia della religione » quando, alla fine del xviii secolo, in Germania fu messo « in crisi [il] carattere scientifico e cognitivo della metafisica ontoteologica ». 3 Hegel, certamente, non è stato il primo a coniare lo specifico termine di « filosofia della religione » ma è stato il primo a dedicare, durante il suo insegnamento presso l’Università di Berlino, dei corsi alla filosofia della religione e a considerarla una vera e propria disciplina filosofica. Pur concordando con le interpretazioni di Jaeschke e di Feiereis 4 su come la « filosofia della
1 Per vicende legate al Concordato tra Stato e Chiesa e la sua influenza sull’esclusione della filosofia della religione nelle Università italiane statali, si veda Idem, Dalla « filosofia della religione » alla « filosofia della rivelazione », in Teologia razionale, filosofia della religione, linguaggio su Dio, a cura di M. Sanchez Sorondo, Roma, Herder, 1992, pp. 162-163. 2 Idem, La philosophie de la religion et le développement de la philosophie italienne, cit., pp. 195, 199. 3 Idem, Dalla « filosofia della religione » alla « filosofia della rivelazione », cit., pp. 170-171. 4 Cfr. W. Jaeschke, Die Vernunft in der Religion. Studien zur Grundlegung der Religionsphilosophie Hegels, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1986 ; K. Feiereis, Die Umprägung der naturlichen Theologie in Religionsphilosophie. Ein Beitrag zur deutschen Geistesgeschichte des xviii Jahrhunderts, Leipzig, St. Benno Verlag, 1965.
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religione » abbia « sostituito » la « teologia naturale », Olivetti non ha attribuito alla prima « uno statuto precario » come quegli studiosi tedeschi hanno, al contrario, ritenuto opportuno fare. Il motivo è che proprio con Hegel la precedente Gotteslehre della teologia razionale si trasforma in Religionslehre, ma quest’ultima, a sua volta, « richiede – per Olivetti – la conoscibilità filosofica di Dio ». 1 Come Olivetti ha avuto modo di dimostrare nella voce enciclopedica su Filosofia della religione, scritta per il primo volume dedicato a Le filosofie speciali de La filosofia curata da Paolo Rossi, Hegel non soltanto « vuole restituire al massimo grado cognitività alla religione, ma vuole restituire alla religione né più né meno che “Dio”, affermandone l’essenzialità in ordine alla religione e legandone la realtà stessa – l’esistenza di Dio – alla cognitività della religione ». 2 Non esiste tuttavia contraddizione tra la messa in crisi della « teologia naturale » da parte della « filosofia della religione » e, nel contempo, la necessità di mantenere una teologia filosofica all’interno della filosofia della religione. Si tratta anzi di una dinamica vitale per il fondarsi reciproco delle due discipline. La ragione di una simile « circolarità paradossale » risiede, per Olivetti, nel fatto che :
tale circolo non è altro che la figura estrema […] assunta dall’argomento ontologico – culmine e fondamento della teologia razionale – dopo la messa in questione della metafisica come ontologia. Nessuno meglio di Hegel ha percepito ciò, come risulta dalla sua riformulazione dell’argomento ontologico […], riformulazione e rivalorizzazione concomitanti con la elaborazione di una “filosofia della religione” pensata come culmine e conclusione del lavoro filosofico. 3
Come Olivetti ha avuto modo di scrivere nell’Avant-propos ai lavori di uno dei « Colloqui Castelli », dedicato proprio a L’argomento ontologico, tale « circolarità autofondativa » della prova ontologica mostra la sua intrinseca riflessività nell’aprirsi e chiudersi « in un solo e stesso movimento ». 4 Secondo Olivetti, al pari di quel che accade con il problema del « cominciamento », affrontato nell’esordio della Scienza della logica di Hegel, 5 anche nell’argomento ontologico si è in presenza di un « movimento circolare » ovvero di una « convertibilità di fine ed inizio » 6 per mezzo della quale non si può concludere con l’esistenza di Dio se non si inizia da Dio stesso. Ecco perché l’impresa hegeliana va considerata come « il tentativo più grandioso di rendere conto di questo movimento » circolare e riflessivo, come « l’ultimo tentativo di concludere la riflessività nel “cerchio dei cerchi” », proprio dopo aver riconosciuto questa « dinamica capovolgente » ovvero attraverso quella che egli chiama « dialettica ». 7 Si può comprendere come la filosofia della religione hegeliana, che pur si fonda storicamente a partire dalla crisi della teologia filosofica, non possa sopprimere quest’ultima. Al contrario : per Hegel è proprio la
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M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., p. 228. Idem, Filosofia della religione, in La filosofia, vol. i : Le filosofie speciali, a cura di P. Rossi, Torino, utet, 1995, p. 188. 3 Idem, Filosofia della religione e teoria della società : la crisi dell’argomento ontologico, « Archivio di Filosofia », lvii, 1989, fasc. 1-3, p. 609 (corsivo mio) ; ripubblicato in Analogia del soggetto, cit., p. 229. 4 Idem, Avant-propos, « Archivio di Filosofia », lviii, 1990, fasc. 1-3, p. 11. 5 Cfr. Idem, L’istanza critica nella domanda ontologica, « Archivio di Filosofia », xxxvi, 1968, fasc. 1, pp. 103, 116-117, 120, in cui Olivetti sottolinea il nesso tra il problema del cominciamento hegeliano e il rifiuto dell’istanza critica kantiana riguardante l’inizio dall’essere astratto ed indeterminato. Olivetti dimostra come nell’Introduzione all’Enciclopedia di Hegel l’abbandono della domanda critico-ontologica kantiana comporti un diverso approccio all’essere che è invece interno al pensiero e ne rende necessaria perciò una 6 Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 232. sua tematizzazione “logica”. 7 Idem, L’argument ontologique et la philosophie contemporaine, « Archivio di Filosofia », lviii, 1990, fasc. 1-3, p. 16 (corsivo mio). 2
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filosofia della religione che segna, paradossalmente, « il recupero della possibilità di una teologia filosofica dopo “la morte di Dio” ». 1 La questione sulla quale, allora, Olivetti si interroga è se sia effettivamente possibile una filosofia della religione senza una teologia filosofica. 2 Uno degli elementi più originali della sua interpretazione riguarda senz’altro il collegamento che egli ha instaurato tra la crisi dell’argomento ontologico – dalla quale nascerebbe, alla fine del xviii secolo, la filosofia della religione – e la teoria della società. Si tratta di comprendere le ragioni del nesso circolare e riflessivo tra la crisi della metafisica e la teoria della società alla quale, a sua volta, la crisi della ontoteologia darebbe luogo. La filosofia della religione, riproponendo la crisi dell’argomento ontologico, avverte la difficoltà di passare dall’essenza all’esistenza. L’esposizione, allora, si capovolge ed è ora l’esistenza a precedere l’essenza : si ammette l’esistenza della religione come « fatto » « storicamente dato » e, di conseguenza, la sua anteriorità e capacità « fondante rispetto all’essenza » rappresentata dalla teologia razionale. 3 Quando si pensa alla religione esistente non si può non ricondurla ad un « fenomeno sociale » e ciò ha costretto, in qualche modo, la filosofia della religione ‘classica’ a tenere conto di una teoria della società, ad elaborare « una teoria filosofica della comunità religiosa ». Olivetti ha evidenziato in modo puntuale come nella « cultura non ancora radicalmente secolarizzata (quale era quella in cui si è configurata la filosofia della religione classica) » sia stato possibile stabilire un legame « essenziale » tra dimensione religiosa e società. 4 Ciò accade alla fine del xviii secolo ed è affermato in maniera esemplare nel testo kantiano su La religione entro i limiti della sola ragione, in cui Dio ha la funzione di « suprema legittimazione e garanzia delle forme » della « vita associata ». 5 In Kant e, successivamente, in Hegel esiste un luogo in cui è possibile enunciare Dio : la Chiesa o le Chiese. La funzione della Chiesa, secondo l’argomentazione kantiana, si configura come capace di « conservare come promessa l’ideale regolativo della società totale ». 6 Ciò, invece, non è più pensabile nella società secolarizzata odierna dove, come Olivetti ha mostrato nell’esordio del suo volume Analogia del soggetto, « non ha più luogo la pronuncia pubblica del nome di Dio ». 7 Smarrendosi il significato della parola ‘Dio’ si perde anche la fondamentale funzione mediatrice ed intersoggettiva posseduta da Dio in quella che Olivetti ha chiamato, in uno dei suoi ultimi lavori, la « comunità delle menti ». 8 Un altro contributo esegetico di grande importanza e, probabilmente, poco noto, è quello offerto da Olivetti a partire dall’approfondimento di un tema centrale per lo sviluppo del suo pensiero. Sin dal suo primo saggio del 1965 dedicato al Simbolismo cosmico : il tempio e poi nella sua monografia Il tempio simbolo cosmico egli comincia a ragionare sul concetto di « luogo del sacro » inteso in particolare come « tempio ». 9 Ed è proprio per
1 Idem, Filosofia della religione e teoria della società, cit., p. 609 (corsivo mio) ; anche in Analogia del soggetto, cit., p. 229. 2 Cfr. Idem, L’argument ontologique et la philosophie contemporaine, cit., p. 18. 3 Idem, Filosofia della religione e teoria della società, cit., p. 614 (corsivo mio) ; anche in Analogia del soggetto, 4 Ivi, p. 615 ; Ivi, p. 234. cit., p. 233. 5 Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 5. 6 Idem, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, « Archivio di Filosofia », xlviii, 1980, fasc. 2-3, p. 446. 7 Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 5. 8 Idem, La comunità delle menti come problema della filosofia moderna, in Per una storia del concetto di mente, a cura di E. Canone, Firenze, Leo Olschki Editore, 2005, pp. 343-361. 9 Cfr. Idem, Simbolismo cosmico : il tempio, « Archivio di Filosofia », xxxiii, 1965, fasc. 3, pp. 121-141 ; Idem, Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Roma, Abete, 1967.
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chiarire tale nozione e, soprattutto, per evidenziare la differenza tra la sua concezione del sacro come « luogo della qualità » o della « differenza qualitativa assoluta » e quella hegeliana, che Olivetti, in un altro saggio del 1975 dal titolo di sapore appunto hegeliano – Spazio-Tempio-Luogo 1 – fa uso di alcune specifiche argomentazioni della prima sezione della filosofia della natura dell’Enciclopedia berlinese. Olivetti, muovendo dall’analisi del concetto di « luogo » che il filosofo tedesco aveva trattato nei §§ 260-261, dimostra che se il « luogo del sacro » è identificato con il « tempio », questo deve essere inteso – come già indicato nel saggio del 1965 e nella successiva monografia – come témenos, vale a dire secondo il significato greco del termine che fa riferimento, in generale, ad un « luogo di separazione » e, nello specifico, ad un « recinto separato ». Per Olivetti tuttavia, il témenos non è semplicemente « delimitazione dello spazio » nel suo significato escludente, ma soprattutto « luogo qualitativo ». 2 Attraverso un’esegesi teoreticamente serrata ed impegnativa emerge qui un vero e proprio ribaltamento della posizione hegeliana, ferma ad una concezione del « luogo » come « luogo qualunque », 3 ovvero un « luogo » che, come recita la Scienza della logica – che Olivetti richiama 4 – trapassa dalla « determinazione qualitativa » in quella « quantitativa ». La caratteristica del « luogo » hegeliano in questa parte del compendio filosofico è l’essere « esterno a sé », « indifferente a sé » e il dare inizio ad un « movimento alienante » definito da Hegel « negazione di sé » o « altro da sé ». 5 Invece, per Olivetti, « l’archetipo del témenos » « è il luogo qualitativo che non trapassa nella quantità e non diviene qualunque indifferente, bensì permane nell’identità di sé, ricco di significato, assolutamente differente dall’altro come qualunque ». 6 Olivetti, peraltro, aveva ben compreso che una coincidenza tra il « luogo qualitativo » da lui delineato e quello hegeliano sarebbe stata possibile solo quando Hegel raggiunge quello che può essere considerato il suo « luogo qualitativo » : il regno dello spirito. 7 Il tema del « luogo » è stato oggetto d’interesse per Olivetti anche sotto un diverso rispetto. Nelle sue ricerche egli si è in particolare soffermato a circoscrivere la natura del « luogo della religione » in cui il divino si manifesta : la « Chiesa » o le « Chiese ». Secondo una terminologia kantiana che egli amava molto riprendere e discutere, si tratta di comprendere quale rapporto si instaura tra la Chiesa visibile e quella invisibile ideale (la « comunità etica con legislazione morale divina ») e di capire quale relazione esse istituiscano con la storia e con la fine di essa. È in questo senso, come Olivetti ha dimostrato nel saggio dal titolo Chiesa e ideologia, che alcuni « punti del discorso ecclesiologico kantiano resteranno acquisiti per la speculazione idealistica successiva ». 8 Il primo di essi riguarda il legame tra ecclesiologia e storia, che nel ragionamento kantiano non era pienamente esplicitato e che trova invece il suo compimento escatologico in Hegel. Ciò avviene perché in Hegel la Chiesa invisibile coincide con la Chiesa visibile e storica,
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Idem, Spazio-Tempio-Luogo, « Archivio di Filosofia », xliii, 1975, fasc. 2-3, pp. 377-404. Ivi, p. 379. 3 G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften (1830), § 261 : « il luogo è l’individualità spaziale e perciò indifferente ». 4 Cfr. M. M. Olivetti, Spazio-Tempio-Luogo, cit., p. 380, il quale riporta il passo hegeliano della Scienza della logica in cui Hegel sostiene che nella quantità « la determinatezza diventa indifferente all’essere, un limite che nel contempo non è un limite ». 5 G. W. F. Hegel, Enzyklopädie, cit., § 261 : « il luogo è immediatamente indifferente verso di sé in quanto è come questo o quel luogo determinato, è esterno a sé, è la negazione di sé ed è un altro luogo ». 6 7 M. M. Olivetti, Spazio-Tempio-Luogo, cit., p. 380. Ivi, p. 381. 8 Idem, Chiesa e ideologia : un problema di filosofia della storia, « Archivio di Filosofia », xli, 1973, fasc. 2-3, p. 127.
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ma in maniera non solo qualitativa, come stabilito da Kant. 1 In modo differente rispetto al filosofo di Königsberg, egli identifica la storia « con la visibilità stessa » e con « il suo divenire ». 2 Si instaura cioè « un rapporto di necessità » tra l’ideale da raggiungere e il « cammino percorso », con il risultato che quel che in Kant era semplicemente una « idea regolativa » (la Chiesa invisibile ovvero l’idea della « riunione di tutti i giusti sotto […] il morale dovere universale divino » 3) diventa una « idea costitutiva ». 4 Si assiste così nel pensiero hegeliano ad una perfetta « coincidenza » tra il « problema ecclesiologico » e il « problema della totalizzazione della storia ». Un secondo punto che rimarrà « acquisito » a partire da Kant sino all’idealismo tedesco e in Hegel in particolare è quello della « funzione sacerdotale del sapere ». Nella Religione kantiana il tipo di sapere di cui si tratta è sui generis, poiché è sia un « sapere della morale » sia un « sapere morale ». Per questo motivo, i sapienti e i dottori (quest’ultimi identificati con i « ministri della vera Chiesa ») devono saper comunicare, rendere pubblico e perfino insegnare l’ideale della Chiesa ; quell’ideale che, a sua volta, è stato « comunicato chiaramente » loro dal rappresentante del Padre morale invisibile : il Cristo. 5 Nella Fenomenologia e nelle Lezioni sulla filosofia della religione di Hegel questi due spunti kantiani, a parere di Olivetti, vengono sviluppati in modo decisivo. Tra i due momenti si instaura « una connessione profonda », in quanto « la totalizzazione della storia » diventa « l’opera del sapere ». 6 Sul piano hegeliano del sapere dello spirito la differenza dell’invisibile rispetto al visibile non si mantiene : già la Fenomenologia jenese, concludendosi con la citazione dei ben noti versi schilleriani, indica che lo spirito assoluto « si realizza come comunità degli spiriti » (Geistesreiches), anche se questa identificazione fra storia della Chiesa e storia della « comunità degli spiriti » si troverà poi a dover fare i conti con il « proliferare della differenza ». 7 Olivetti riprende, nelle conclusioni del saggio sopra citato, alcune delle tesi espresse in un altro lavoro pubblicato nel 1971. Pochi temi, in effetti, lo hanno appassionato quanto quello della comprensione della natura della filosofia della storia in generale e soprattutto della specifica « storia universale che nasce dalla riflessione filosofica », 8 con esattezza la philosophische Weltgeschichte hegeliana. Olivetti riteneva della « massima importanza » l’uso, in questo caso, della specifica terminologia hegeliana tedesca per non dare luogo ad equivoci a suo avviso assai frequenti tra gli interpreti. 9 Tra le molteplici questioni connesse alla filosofia della storia hegeliana, Olivetti si interroga, in questo saggio dal titolo Error e Kairòs, su come « l’idea di Cristianesimo abbia condizionato la filosofia in quel suo aspetto specifico che è rappresentato dalla comprensione che la filosofia ha della propria storia ». 10 Egli si domanda inoltre se « il termine “cristiano” abbia assunto nel corso della storia del pensiero una funzione periodizzativa rispetto alla storia della filosofia ». 11 Il fine della sua indagine è quello di chiarire l’aporetico rapporto che lega la storia della filosofia alla filosofia della storia, dato che tale relazione va considerata a suo avviso basilare « per il costituirsi della filosofia attraverso la propria storia ». 12 Il risultato al quale Olivetti desiderava approdare era quello di « mettere in crisi la veduta tradizionale della filosofia
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2 Cfr. Ivi, pp. 106-107. Cfr. Ivi, p. 104. I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, trad. it. a cura di M. M. Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 19852, p. 108. 4 5 M. M. Olivetti, Chiesa e ideologia, cit., p. 105. Ivi, pp. 127-128. 6 7 Ibidem. Ivi, pp. 130-131. 8 Idem, Error e Kairòs. La funzione periodizzativa dell’idea di cristianesimo e la storia della filosofia, « Archivio di Filosofia », xlix, 1971, fasc. 2-3, p. 89. 9 10 Ivi, p. 90. Ivi, p. 88. 11 12 Ivi, p. 87. Ivi, p. 89. 3
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della storia – nel senso hegeliano di philosophische Weltgeschichte – come secolarizzazione della teologia della storia ». 1 La prima, intesa come « storia universale filosofica », non deriva direttamente dalla seconda, come per esempio Löwith aveva sostenuto, 2 ma è mediata dal problema storico-teoretico della storia della filosofia. Olivetti distingue in questa prospettiva due possibili tipi di « periodizzamento ». Da un lato quello « descrittivo », il cui interesse ai fini della ricerca è tuttavia limitato, essendo i suoi contenuti raggruppati intorno ad una semplice uniformità interna. Dall’altro un « periodizzamento » di tipo « teoretico o valutativo », in cui i contenuti sono unificati da un principio esterno. Il rapporto che può instaurarsi tra storia della filosofia e filosofia della storia è in funzione dell’uso, all’interno di questo tipo di « periodizzamento teoretico », di due diversi e contrapposti schemi : « errore-verità » oppure « vecchio-nuovo ». Lo schema « erroreverità », tuttavia, non è valido per la filosofia della storia hegeliana. Il motivo risiede nel fatto che il filosofo tedesco ha saputo « destituire di senso », dal punto di vista logico e da quello esistenziale, il concetto di errore, che deve essere inteso piuttosto come error (errare) o meglio « un andare errando senza senso ». 3 Nella concezione hegeliana non può esservi errore nella storia e la verità non può essere astorica, poiché la verità è immanente alla storia e si manifesta progressivamente in essa. Non considerando mai il negativo un errore, 4 Hegel ha interpretato fra l’altro in maniera diversa dalla dogmatica cristiana la colpa d’origine, che diviene una felix culpa, desiderio di conoscenza che è, in quanto tale, « simbolo dell’eterna vicenda del conoscere ». 5 La demitizzazione hegeliana della caduta d’origine, secondo la quale il concetto di peccato è ricondotto entro la « vicenda storica » ed è negato così « uno stato perfetto antecedente », è « la condizione per ogni filosofia della storia ». 6 Lo schema che deve essere privilegiato, secondo Olivetti, è quello « vecchio-nuovo ». Analizzando la divisione hegeliana della storia della filosofia secondo questo schema, si noterà che il « vecchio » o il « passato » è costituito dall’idea di filosofia della grecità e il « nuovo » o l’« attuale » coincide con il compimento della verità nella filosofia dello spirito che si manifesta nel periodo germanico-cristiano. 7 La conclusione è che la filosofia della storia non « rappresenta la secolarizzazione della teologia della storia medievale » ; sono, al contrario, le teologie della storia della fine degli anni ’60 che « rappresentano la teologizzazione della filosofia della storia », in quanto « perdono » sia « il senso dell’errore » sia « lo schema errore-verità come distinto da quello vecchio-nuovo ». 8 Superata con la visione hegeliana di tipo « evolutivo » l’impostazione che contrapponeva il vero al falso, si pone però la necessità di un ulteriore chiarimento, che riguarda il problema dell’« assolutezza ». Sin dal fondamentale saggio su Testimonianza e apologetica e dalla prima parte della monografia del 1974 su Filosofia della religione come problema storico, Olivetti aveva cercato di dimostrare come il rapporto tra filosofia della storia e sistema fosse stato condizionato dal problema dell’assolutezza del cristianesimo. 9 Nello scritto del 1972, in particolare, egli ha avuto il merito di precisare come la questione della « religione assoluta » debba porsi da un duplice punto di vista : quello che riguarda
1 Ivi, pp. 89-90. Sul tema del rapporto tra secolarizzazione e filosofia della storia, si veda Idem, Il problema della secolarizzazione inesauribile, « Archivio di Filosofia », xliv, 1976, fasc. 2-3, pp. 73-86. 2 Idem, Filosofia della religione come problema storico, Padova, cedam, 1974, pp. 15-16, nota. 3 4 Idem, Chiesa e ideologia, cit., p. 133. Idem, Error e Kairòs, cit., p. 101. 5 6 Idem, Testimonianza e apologetica, cit., p. 424, nota. Ibidem. 7 8 Idem, Error e Kairòs, cit., p. 96, nota. Ivi, p. 100. 9 Idem, Testimonianza e apologetica, cit., p. 401.
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la « coscienza filosofica della storia » e quello della « storia delle religioni ». In questo caso Olivetti riconosce come fosse stato proprio lo Hegel nel periodo berlinese a porre al centro del suo pensiero il tema del cristianesimo come « religione assoluta » e come tale questione assuma per il filosofo tedesco « un valore speculativo eccezionale ». 1 Nelle Lezioni sulla filosofia della religione il cristianesimo diventa « religione assoluta » nel momento in cui realizza il concetto di religione. 2 Il susseguirsi di una religione ad un’altra è il risultato non di un’esterna ed empirica determinazione ma della progressiva, interna e concreta determinazione del concetto di religione. Per questo motivo in Hegel si forma una « storia della religione » e non una « storia delle religioni ». 3 Olivetti si sofferma inoltre sulla ragione che spinge Hegel a parlare del cristianesimo come di una « religione assoluta ». Tale motivazione « va ricercata nell’esigenza di un chiarimento definitivo del rapporto intercorrente fra religione » e « filosofia ». 4 Esiste in Hegel un « duplice livello del problema » : da un lato, il cristianesimo si trova « al termine della fenomenologia storica della religione » ; dall’altro, esso chiude tale percorso perché il cristianesimo « manifesta lo speculativo ». 5 Interrogandosi sulla natura dello «speculativo» si scopre come questo rappresenti « l’essenza stessa del cristianesimo » e « ne definisca l’assolutezza ». Si assiste nelle opere e nelle lezioni hegeliane della maturità ad una prevalenza dello «speculativo» sullo «storico», al punto che il primo si dimostra essere l’elemento fondante del secondo. Tuttavia, per Olivetti, « il riconoscimento del cristianesimo come religione assoluta » indica anche in Hegel la « fine del cristianesimo » e la conseguente « Auf hebung della religione nella filosofia ». 6 Se, quindi, il cristianesimo termina nella filosofia non resta che indagare il cristianesimo come « religione assoluta » dal secondo punto di vista indicato da Olivetti : la storia delle religioni. L’interrogativo riguarda la storicità del cristianesimo come « religione assoluta ». La collocazione della « religione assoluta » in rapporto alla storia della religione è diversa da quella del sapere assoluto nella storia della filosofia, perché la religione comprende la storicità in sé includendo sia la temporalità sia la atemporalità. Da un lato, la filosofia « supera » la religione in quanto « religione assoluta » e tale « superamento » (Auf hebung) riguarda la storicità caratterizzata dalla successione temporale. Dall’altro, tale storicità diventa atemporale nel momento in cui la religione è « ri-conosciuta nella sua assolutezza dalla concettualizzazione superante del sapere assoluto ». 7 Tale compresenza dell’astoricità e della storicità trova la sua ragione nel fatto che in Hegel la religione è sia « manifesta (offenbare) » sia « manifestata (geoffenbarte) ». Olivetti precisa : « in quanto religione manifesta, essa è superata nella filosofia, è filosofia della religione
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Ivi, pp. 390-91. Una lunga tradizione interpretativa, all’interno della quale si inserisce anche Olivetti, avendo studiato le Lezioni sulla filosofia della religione di Hegel utilizzando l’edizione all’epoca disponibile curata da Georg Lasson, si era focalizzata sull’espressione « religione assoluta » che effettivamente ricorre di frequente in quell’edizione del 1925-1929. Tuttavia, dopo l’edizione di queste lezioni, curata da Walter Jaeschke e completata nel 1985, si è scoperto che in Hegel il termine non è utilizzato così frequentemente come si credeva. Hegel piuttosto preferisce parlare della religione cristiana come « religione compiuta » (vollendete Religion, religione che realizza pienamente il concetto di religione) oppure come « religione manifesta » (cfr. J. Greisch, Le Buisson ardente et les Lumières de la raison. L’invention de la philosophie de la religion, Paris, Cerf, 2002, p. 166) Nel periodo (collocabile intorno agli anni ’70) in cui Olivetti rifletteva sulla possibilità di pensare il cristianesimo come « religione assoluta » il dibattito invece su tali temi non era affatto sopito, ma era al culmine della sua intensità. 3 M. M. Olivetti, Testimonianza e apologetica, cit., pp. 390-1. 4 5 Ivi, p. 392. Ivi, p. 393. 6 7 Ivi, p. 398. Ivi, p. 400. 2
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e, dunque ha il carattere atemporale e agnostico della storicità del sapere assoluto ; ma in quanto religione manifestata, ovvero come religione in quanto tale, il suo essere manifestata ha il carattere temporale di quella storicità che il sapere assoluto conclude ». 1 Il rapporto, allora, tra la forma religiosa e il contenuto nella sua assolutezza (l’essenza del cristianesimo) si configura anch’esso in maniera duplice. Per un verso, la religione si compie e si realizza nel momento in cui riconosce l’essenza del cristianesimo come suo contenuto vero. Per un altro, l’affermarsi del contenuto ha come conseguenza il « superamento » della forma religiosa nella filosofia. 2 È dunque sulla forma del carattere religioso del cristianesimo e non sul contenuto che si addensano « tutte le aporie ». 3 Olivetti era ben consapevole di come « il rapporto tra rappresentazione e concetto, tra religione assoluta e sapere » fosse « una questione » che andava « profondamente e problematicamente rimeditata, per evitare la banalizzazione di certe non infrequenti interpretazioni di Hegel ». 4 Egli sottolinea in numerose pagine dei suoi lavori come proprio nell’esordio delle Lezioni sulla filosofia della religione, indagando il rapporto tra rappresentazione e concetto, Hegel si era interrogato, « molto prima di una certa filosofia del linguaggio contemporanea », 5 su un’altra questione cruciale : « il significato del significato » (die Bedeutung der Bedeutung). Con un complesso ragionamento Hegel aveva indicato come il diverso « significato » sia del concetto sia della rappresentazione emergesse dal confronto con il suo rispettivo opposto. In questo contesto affiorava, dunque, non già il prevalere del concetto sulla rappresentazione ma, al contrario, come Olivetti ha mostrato in Analogia del soggetto, il « richiamo reciproco di rappresentazione e concetto » in una sorta di « gioco » (Spiel) linguistico del senso ovvero del significato. 6 È la Vorstellung inoltre che funge da « esempio » (Beispiel), 7 anche « etimologico », per il concetto, 8 dato che in alcuni casi, come sostiene lo stesso Hegel, la rappresentazione può « giocare accanto » (beiherspielen) 9 al concetto. Messo in crisi è, di conseguenza, quello che usualmente era stato considerato dagli interpreti di Hegel il « superamento » della Vorstellung nel concetto, perché è invece solo mantenendo l’insuperabilità dell’elemento rappresentativo che il concetto può costituirsi. è opportuno richiamare a questo punto una delle riflessioni di Olivetti con la quale egli concludeva uno dei suoi saggi. In quelle pagine egli aveva indicato quale dovesse essere uno dei compiti fondamentali della filosofia della religione contemporanea. Esso consisteva, a suo giudizio, proprio « nella rimeditazione delle potenzialità e dei cenni presenti nella vicenda idealistica della Vorstellung religiosa, rivelatori di una irrisolta ma feconda tensione ». 10 Non è possibile richiamare tutte le conseguenze che questa lettura di passaggi crucia
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2 3 Ivi, pp. 400-401. Ivi, p. 417. Ivi, p. 402. Idem, Filosofia della religione e significato della storia in prospettiva ermeneutica, « Archivio di Filosofia », xlv, 1977, fasc. 2-3 p. 42. 5 Cfr. Idem, Intersoggettività e religione, in Perspectives sur le sujet, a cura di F. S. Trincia e S. Bancalari, Hil6 Idem, Analogia del soggetto, cit., p. 170. desheim Zürich New York, olms, 2007, p. 21. 7 In Hegel Dio in quanto spirito « si da come esempio di sé rimanendo essenziale ». Dio, nel manifestarsi, diventa altro da sé rimanendo se stesso. In questo modo Dio diventa manifesto e dunque è « l’esempio di sé ». Questo significa concepire Dio per sé vale a dire nella forma della sua manifestazione. 8 M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., p. 198, nota 19. 9 Il termine tedesco Beiherspiel utilizzato in modo diverso da Hegel nella Fenomenologia, nelle Lezioni sulla filosofia della storia e nelle Lezioni sulla filosofia della religione, pur derivando da Beispiel è difficilmente traducibile nella lingua italiana ed è reso dagli interpreti con « gioco di passaggio » o come « ciò che vi gioca accanto », data la transitorietà insita nel termine beiher (cfr. M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., p. 170, p.197 nota 6). 10 Idem, Filosofia della religione e significato della storia in prospettiva ermeneutica, cit., p. 50. 4
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li della filosofia hegeliana ha avuto sulla elaborazione filosofica di Marco Maria Olivetti. Si può però comprendere, a questo punto, quale confluire di interessi e di molteplici linee di indagine trovi accoglienza nella sua eclettica e stimolante riflessione di carattere filosofico, religioso e morale. In particolare, dalle sue pagine dedicate al tema della religione in Hegel emerge una visione non dogmatica e non banalmente apologetica di una certa professione di fede. Modo di pensare che dimostra quanto ampia fosse la sua apertura al dialogo con altre confessioni e con altri punti di vista. Si tratta, allora, di “mantenere vivo” il suo pensiero continuando a discutere la sua lezione e continuando a mettere a frutto il suo magistero universitario con l’obiettivo di sviluppare, anche attraverso diverse linee interpretative, le sue tesi e le sue originali intuizioni.
IL NESSUN LUOGO DELL’OGNI DOVE Enrico Castelli Gattinara
U
na domanda cruciale ha percorso la storia del pensiero umano, sempre, e in tutte le sue forme : se vi sia un centro ordinatore del tutto, e quale sia il suo luogo. Il luogo del centro : domanda paradossale e tautologica che posiziona se stessa rispetto al linguaggio che istituisce. Il linguaggio della filosofia, quello della religione, quello dell’etica e quello della politica. Una domanda che ponendo se stessa apre già un luogo inaudito, per il quale mancano le parole : il luogo da cui viene posta, o si pone (perché le due cose non si equivalgono). Ma sappiamo ormai che questa mancanza non ci esime né ci esilia dalla nostra umanissima condizione di essere nel e per il linguaggio, e che nulla ci è possibile dire o chiedere nel/del suo ipotetico di fuori. Il xx secolo ha dimostrato teoreticamente e praticamente l’identità fra essere e linguaggio (Sein e Sprache) : l’argomentazione ontologica, gli sviluppi dell’ermeneutica o l’archeologia genealogica delle formazioni discorsive sono stati alcuni fra i sentieri tracciati per provarne il labirinto, per metterne alla prova i limiti, per cercarli sperando di potersi misurare con la sua essenza, mai con la sua assenza. Aporia drammatica del cercare di spingersi contro i limiti del linguaggio senza poterne uscire. La forza delle parole, che il linguaggio pubblicitario ha saputo trasformare in immagini sfruttandone la potenza immanente, è diventata ormai la condizione in cui viviamo, pensiamo e agiamo nello spazio globalizzato di un mondo che ne è sempre più costituito. Il linguaggio è il luogo da cui e per cui le domande vengono poste, anche quelle più fondamentali. Il suo centro è ovunque, e la circonferenza in nessun luogo, si potrebbe dire parafrasando chi già aveva cercato di misurarsi con queste difficoltà : ma non si esce dalla misura del dire, che è misura del suo spazio di possibilità senza limiti. Di qui una domanda conseguente, che pone le premesse di quella iniziale da cui si è partiti (nella paradossale circolarità di questo spazio del pensiero) : dove si pone il nessun dove della circonferenzialità ? È l’impossibile domanda sui limiti, che si riflette in quella sull’ubiquità del centro. L’ogni dove è lo specchio del nessun dove : com’è possibile pensarlo, e dove ? Così si torna alla domanda paradossale e tautologica sul luogo del centro. Che non è possibile porre esulando da quella sui limiti. Il centro è allora forse il non luogo del limite, nel luogo impossibile della loro coincidenza (che un altro grande filosofo del passato aveva provato a pensare come coincidentia oppositorum). Ma che senso ha parlare in termini spaziali (luogo) delle condizioni di possibilità dello spazio stesso ? Che senso ha parlare del linguaggio ? Inevitabilmente, anche in filosofia, ci scontriamo con le conseguenze incontrovertibili del teorema d’incompletezza di Gödel. Forse la nostra possibilità più propria non è tanto quella di spingerci contro i limiti del linguaggio come verso il suo ‘di fuori’ (secondo l’ottica oggettivante delle più tradizionali teorie della conoscenza basate sul binomio soggettooggetto), bensì quella di metterli alla prova come il suo ‘dentro’ : in questo senso il nessun dove della circonferenza coincide con l’ogni dove del centro (che è poi il principio del trascendentalismo kantiano). Il che non ci esime dalla crucialità della domanda, ma la riposiziona in un’ottica differente, e sottolinea perciò l’imprescindibilità dei punti di vista. Lo spazio linguistico di ogni domanda, per quanto fondamentale, è inevitabil
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mente un punto di vista (anche nel senso leibniziano del termine). Il limite del punto di vista è la sua forza : è in lui che infatti coincidono il dentro e il fuori, nella misura in cui non può mai porsi come unicum, come l’unico (e unitario, e universale, e necessario) punto di vista (di qui l’inevitabile confronto col problema dell’intersoggettività, della pluralizzazione dei punti di vista). Ma secondo questa prospettiva la domanda iniziale assume un nuovo aspetto, cui la filosofia nella sua declinazione moderna occidentale è più abituata : esiste un punto di vista ordinatore di tutto, e qual è il suo luogo ? Una linea di pensiero da Cartesio (e in parte Agostino) a Husserl ha risposto sviluppando una filosofia del soggetto, ponendo l’io al centro del tutto. Non è stata l’unica possibilità. Altre linee di pensiero si sono sviluppate, più inquiete, o più assolutizzanti, percorrendo strade più complesse o laterali. Ma la filosofia del soggetto ha dominato il nostro panorama filosofico, ipostatizzando l’io in una posizione centrale di forza che alla fine lo ha costretto nell’oblio della sua condizione di punto di vista, paradossale non luogo di ogni luogo, costretto dal linguaggio al linguaggio pur non essendo linguaggio (perché posizione, punto e insieme anche limite) : soggetto grammaticale cosciente, soggetto della coscienza che si è lasciato spaesare dalla psicanalisi per aver nascosto, o dimenticato, il suo fondamento relazionale e la sua origine generata.
Credo sia alla luce di quest’ordine di problemi che vada inteso lo sviluppo di una parte del pensiero di M. M. Olivetti. È quindi secondo questa prospettiva che può esser letto l’orizzonte problematico in cui prende posizione Il tempio simbolo cosmico. Il tempio e il tempo hanno un’assonanza nel temnein, nel recingere raccogliendo in un luogo che è senza luogo, perché fuori luogo : il tempio nell’età della tecnica, dove non c’è più tempo e dove tutto è tempio, perché ogni limite è profanato e ogni recinzione abolita (non a caso oggi l’età della tecnica è l’età del senza limite, del senza luogo, altrimenti detta della globalizzazione). È il tempo del senza tempo, perché sempre in stato di mancanza (la fretta) e di insufficienza, non perché intemporale o fuori tempo. Olivetti scrive che il tempio, quello contemporaneo, è « fuori posto », e che « proprio per tale ragione potrebbe e dovrebbe dirsi veramente e nel modo più profondo tempio, temenos, recinto, separato ». 1 Separato da cosa ? E perché ? Il tempio come simbolo della separazione nell’età della tecnica, che è l’età della massima razionalizzazione, come soglia di fronte alla quale simbolicamente è negato un accesso : l’accesso al sacro come alterità assoluta. Temnein ritaglia uno spazio che dovrebbe essere lo spazio del centro, ma che è un non luogo perché totalmente separato dal resto. 2 Il resto è il mondo dominato dalla tecnica, globalizzato nell’ogni dove pervasivo dell’intempestività, del senza tempo, della fretta spasmodica che incatena ogni cosa, e ogni essere, nel ciclo produzione-consumo. Oppure è la rete della comunicabilità globale, senza spazio e senza tempo, non-luogo e non-momento sospesi nella virtualità di una navigazione senza limiti, eppure fragilissima nella sua inconsistenza tecnica (basta un black out per dissiparla). Forse, nell’età della tecnica compiuta, quando ogni cosa equivale all’altra, nel senso che è perfettamente scambiabile, e nulla sfugge più alle leggi del mercato (prima fra tutte la comunicazione, che è una comunione), l’unico tempo che resta è quello recintato nel luogo del sacro. Sempre che il sacro, nell’età della tecnica compiuta, sia possibile. Sempre che l’età della tecnica possa effettivamente giungere a compimento. Sempre che, infine, il tempo possa corrispondere a un luogo.
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M. M. Olivetti, Il tempio simbolo cosmico, Roma, Abete, 1967, p. 75.
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Ivi, p. 139.
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Enrico Castelli, che Olivetti ha sempre considerato il proprio maestro tanto da assorbirne persino, nelle sue prime opere, lo stile, scriveva : « L’arte sacra ha indicato, nell’incontro della maternità vivente con la morte, il significato della Pietà ; però questo incontro non è bastato a trattenere gli uomini. Trattenerli all’ombra delle grandi cattedrali. E il tempo della preghiera, del colloquio e del riposo, il tempo della meditazione della fine della nostra giornata, si è trasformato : è diventato l’assillo del tempo unico, di una folle corsa, stranamente silenziosa nel tumulto di tutte le invenzioni meccaniche e di tutti i congegni […]. La condizione umana sembra trovarsi a un tragico bivio : o arrestarsi e ricongiungere le parole dell’invocazione dispersa, o precipitare ». 1 È un problema in comune : il tempio, come la cattedrale, chiedono e chiudono un tempo che non è quello del presente. Olivetti scrive che l’architettura sacra della modernità può ancora essere il luogo della manifestazione del sacro nella misura in cui resta simbolo cosmico, simbolo dell’ordine cosmico di contro al caos circostante, al mercato caotico dove ormai tutto è compreso. C’è uno spazio che è luogo del sacro, dove nessun mercato e nessun mercanteggiamento dovrebbero essere possibili. Uno spazio sospeso, separato, senza peso ? Nel medioevo le cattedrali rappresentavano i pesi con cui Dio era ancorato alla Terra : il tempo era regolato da orologi posti sulle torri e Dio, secondo una poesia di Rilke che ricorre più volte negli scritti di Castelli in quegli anni, Gott im Mittelalter, è un grande orologio (non quindi il Dio orologiaio di Newton e Leibniz) che segna l’ora del tempo debito, cui gli uomini avevano appeso i pesi delle loro cattedrali perché (Egli) non fuggisse. Un tempo che non gli apparteneva, sui templi considerati il peso di Dio, laddove Dio pesava a sua volta su un centro di gravità che era sacro, luogo d’incontro e di riferimento per ognuno. Il peso di Dio : una gravità che gli uomini Gli attribuiscono come centrale, luogo principe di ogni incrocio dove convergono, o dipartono, gli assi orizzontali e verticali della Croce. L’orologio segna il tempo debito come tempo che non appartiene agli umani, tempo separato, temenico, eppure centrale perché l’unico veramente importante : sacro perché debito, e debito perché sacro. È il tempo di Dio. Ma un altro tempo è venuto ad imporsi (perché ?, come ?) : l’età della tecnica è contrapposta curiosamente da Castelli all’orologio-Dio medievale come età della costruzione non edificante : l’edificio edificato vige nel suo participio passato senza presenza, eliminando il presente nel parossismo della produzione cieca, affrettata, senza tempo (vale a dire con un tempo che non è tale, un non avere abbastanza tempo, un tempo tutto interno al ritmo della produzione e del consumo). Il participio presente è partecipazione all’alterità del sacro. Il lavoro di Olivetti indaga l’orizzonte di possibilità, nel suo presente (l’architettura sacra contemporanea), di un edificio edificante contro il parossismo dell’edificato, la cui cementificazione ha invaso ogni spazio e ogni luogo. Castelli fa notare, nella sua introduzione al libro di Olivetti, che è proprio questo il punto : se il tempio è il simbolo cosmico dove il divino si manifesta, la sua realtà incontra il paradosso di un luogo che non è un luogo, perché solo come tale può essere il luogo del sacro, e non luogo sacro. Se fosse un luogo sacro, allora la ragione avrebbe la prevalenza sulla fede, perché capace appunto di edificare l’edificante, costruire il luogo sacro. Il limite della ragione – secondo questa prospettiva interpretativa comune a Castelli e Olivetti – è invece il limite della tecnica di fronte alla fede : per quanto potente ed efficace, per quanto pervasiva e onnicomprensiva, la ragione tecnica non riesce a
1 E. Castelli, Il simbolismo del tempo, in Il simbolismo del tempo. Studi di filosofia dell’arte, « Archivio di filosofia », 1973, Padova, Cedam, p. 11.
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rendere ragione dell’atto di fede, non sa e non può costruire luoghi sacri. Per questo l’architettura ha bisogno dell’arte, vale a dire di artisti le cui opere siano « un atto di fede ». 1 Per questo, dunque, la ragione tecnica non è diversa dalla ragione in generale, ma ne è solo la manifestazione esasperata. Qual è però la differenza fra l’ordine della ragione, che nella prospettiva di Kant è l’intelletto legislatore, e l’ordine cosmico, quello che il tempio circoscrive ? Può l’architettonica dell’intelletto essere un tempio del soggetto ? Una risposta è possibile darla se s’interroga il problema del tempo. È infatti su questo problema che fede e ragione sono radicalmente diverse. Tema castelliano per eccellenza, che Olivetti sviluppa nella sua riflessione sull’architettura sacra (come edificazione di luoghi del sacro) e che continuerà a ‘impressionarlo’ anche negli anni successivi, durante i suoi lavori su Jacobi. Il tempio porta su di sé il simbolismo del tempo che ogni religione mette in ordine : periodi cosmici, stagioni, ere, mesi e opere umane, cicli astrali, ecc. « La recinzione del tempio, che trasforma lo spazio da caos in cosmo, comporta anche la trasformazione del tempo da tempo caotico in tempo cosmico. Sicché, in definitiva, il tempo è cosmico in quanto è temenos, conchiuso, concluso ; quindi con un inizio e una fine. Onde la cosmogonia e l’escatologia. […] Ma se il tempo è cosmico in quanto tempo concluso, tempo diretto, esso è tempo eminentemente qualitativo e non omogeneo. Allora appare chiaro come singoli simboli di particolari tempi […] non siano altro che il concreto presentarsi di contenuti qualitativi e non interscambiabili ». 2 Il Dio-orologio è tutt’altro che il Dio-orologiaio che aveva la ‘semplice’ funzione di regolare il grande meccanismo del cosmo. Il cosmo della scienza moderna, meccanicamente quantitativo e regolato da leggi di cui la fisica-matematica poteva bene rendere conto, si chiama universo, ma non è il cosmo di cui il tempio è simbolo ; non è il cosmo divino. Il tempo di cui Newton tiene conto e che il Grande Orologiaio controlla è un altro tempo : è il tempo della tecnica, quantitativamente infinito e aperto, insensato in quanto perfettamente reversibile (senza senso, senza direzione : nessuna freccia a indicare la via). Il tempo circoscritto dal tempio è invece un contro-tempo, più efficacemente un contra-tempo : « Potrebbe sembrare che il tempo cosmico-temenico, in quanto tempo conchiuso e concluso, sia un tempo acronico, detemporalizzato : un non-tempo. Quanto qui si vuol sostenere invece è l’impossibilità di identificare il tempo cosmicotemenico con il tempo ciclico o, meglio, circolare del primo pensiero filosofico, quello ellenico ». 3 Perché il tempo del Cristianesimo non è il tempo dell’eterno ritorno : è un tempo escatologico, agostinianamente concluso all’interno della parentesi umana, ma proiettato verso il divino che ne costituisce appunto il fine. I miti dell’eterno ritorno e la storia della salvezza sono per Olivetti due diversi modi di presentarsi del tempo cosmico-temenico. Allo stesso modo però occorre precisare che « la storia della salvezza non è affatto un’anticipazione – quasi un primo maldestro e mitico presentarsi nella storia del pensiero – del tempo lineare del soggetto, il quale conduce all’età della tecnica ». 4 Il tempo qualitativo non è quantificabile, né misurabile quantitativamente. La sua linearità è chiusa nel recinto del sacro come in un quadrante di orologio. Ogni suo istante è qualitativamente diverso da ogni altro : per questo è debito. Il tempo della tecnica è appunto un altro tempo. È il tempo quantificabile, misurabile, infinitamente aperto che gli orologi meccanici contano indifferentemente : ogni secondo equivale a tutti gli altri ; la natura indifferenziata del tempo è la condizione
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Cfr. E. Castelli, Il demoniaco nell’arte, (1952), Roma, Bollati-Boringhieri, 2007. 3 4 M. M. Olivetti, op. cit. p. 42. Ivi, pp. 42-43. Ivi, p. 44.
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della sua misurabilità. Per questo è anche perfettamente reversibile : il tempo della meccanica newtoniana è il tempo tecnico-matematico espresso dalle equazioni differenziali che regolano le leggi della natura. È uguale per tutto e per tutti. La direzione del tempo non conta più : la tecnica è questa indifferenza (reversibilità) rispetto a ogni eschaton. 1 La freccia del tempo non ha senso, non indica una direzione inequivocabile, perché ciò che indica può sempre essere equivocato, e la direzione invertita indifferentemente (le equazioni funzionano lo stesso). All’orologio la tecnica aggiunge il meccanismo che muove le lancette, laddove questo meccanismo è regolato dagli ingranaggi e mosso dai pesi : ma l’orologio medievale come modello di riferimento mascherava la tecnica come una vergogna, anteponendogli il quadrante con le sue figure, i suoi simboli, e solo raramente il numero (sempre intesi come simboli). L’età della tecnica ha invece invertito l’ordine, anteponendo sempre più i numeri ai simboli, fino a giungere all’orologio digitale, dove vige esclusivamente il numero. Un numero per così dire puro, senza più neppure quel centro che i meccanismi meccanici pure pretendevano per farvi ruotare le lancette e che rimandava a un altro centro, più essenziale, separato da ogni circonferenza. L’orologio digitale non ha più bisogno delle lancette, queste piccole braccia simboliche di un tempo che le manteneva, anche se solo ormai per indicare e non più per abbracciare. Lancette che potevano diventare lance e provocare ferite del tempo. Torna qui un’immagine che Castelli aveva tratto dalla sua personale interpretazione di Rilke, e da cui Olivetti confessa di essere rimasto molto impressionato. 2 Dio, nel medioevo – forse alla sua fine –, improvvisamente si muove come un grande orologio che non risponde più alla cadenza del tempo debito, ma corre avanti mostrando impudicamente la forza immane e irrefrenabile dei suoi meccanismi, che pendono da lui come prima pendevano le cattedrali che lo tenevano ancorato alla Terra, senza più neppure bisogno del quadrante :
Aber plötzlich kam er ganz in Gang und die Leute der entsetzten Stadt liessen ihn, vor seine Stimme bang weitergehn mit ausgehängtem Schlagwerk und entflohn vor seinem Zifferblatt. 3
Ecco come Castelli l’interpreta ancora : « L’umanità che, attraverso il rischio, va incontro all’ora di un grande orologio che ha perduto le sfere iniziando una corsa folle, di un orologio che non trattiene più attraverso i grandi numeri le lancette che, proiettate fuori dal perno centrale, si moltiplicano miracolosamente. Infinite lance contro gli uomini che atterriti escono dal tempio che li imprigiona, perché l’orologio è esploso con fragore inaudito. Dio è esploso. L’ora ultima è un’insopportabile accelerazione per la conquista dei grandi numeri, un controtempo. Una marea, quella degli uomini in fuga, ognuno che porta in sé la sua ora (la lancetta della sua ora) conficcata nel fianco : divinamente ferito ». 4 La fuga dal tempio nel tempo della fuga : qui si assiste a una sorta di sodalizio fra l’allievo e il maestro, dove lo scambio vince sull’insegnamento e il maestro trae dal
1 Diversa sarebbe una riflessione sul tempo nella fisica contemporanea, che ha rinunciato proprio alla reversibilità assoluta tipica del meccanicismo ; ma non è questo il luogo per trattarne. 2 Cfr. la lettera qui in appendice a Castelli del 7/9/1972. 3 R. M. Rilke, Dio nel medioevo (1907), in Poesie, Torino, Einaudi, 2005. 4 E. Castelli, Il simbolismo del tempo, cit., p. 13.
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lavoro olivettiano l’analisi di un tempio il cui tempo non si limita al medioevo, ma si espande all’epoca moderna. Viene da chiedersi come sia possibile fuggire da un tempio che imprigiona, se il tempio è temnein, recinzione di un luogo che non è da nessuna parte ma che può essere in ogni dove. Olivetti lo spiega restituendo la funzione simbolica del tempio come figura del centro. Se il tempio è il luogo del sacro, e non luogo sacro, allora esso è rappresentazione del centro, e non centro esso stesso. La funzione portante del genitivo è essenziale alla sua funzione simbolica. Il simbolo è sempre inevitabilmente ‘simbolo di…’. La recinzione, e quindi l’edificazione che ne segue, è una separazione, perché tale è la situazione umana : infrazione di unità, disseminazione, dispersione, erranza. Non è Dio a costruire i templi, ma sono i templi a essere i luoghi di Dio : luoghi che non hanno senso, nella misura in cui sono simboli. Valgono per la loro funzione simbolica di separazione, per esser ‘luoghi di…’ : in quanto tali essi ordinano il cosmo contro il caos in cui sorgono. Il loro sorgere è un’infrazione del caos : ripetizione dell’umanità dell’essere umano. Donazione di senso. Ordinamento vuol dire istituzione di un centro, di un punto di riferimento intorno a cui raccogliersi, o con-centrarsi (come nei mandala indiani). Olivetti ne studia la fenomenologia articolata nelle diverse culture e religioni umane per sottolineare che la condizione umana condannata al nomadismo e alla dispersione, all’insecuritas, cerca di resistervi raccogliendosi e concentrandosi : l’edificazione del tempio come istituzione del centro è un’opera di cosmizzazione. Il nomadismo non è più disperso ed errante, ma acquisisce punti di riferimento, centri verso cui e da cui andare. « L’idea di un centro è dunque ciò per cui il cosmo è cosmos ; ne costituisce il senso in quanto il cosmo si ordina relatamente ad esso […]. È nella identificazione a questo centro (la quale comporta l’omologia uomo-centro-cosmo) che l’esistente supera l’angoscia del caos e si cosmizza. Il centro è insieme uomo e più che uomo : in esso l’esistente ritrova la sua vera essenza, ma proprio in quanto esso è più dell’essenza stessa, il fondamento delle essenze ». 1 Si ripete il paradosso della separazione, che è all’origine del temnein : è perché nomade che l’uomo cerca un centro, ed è perché separato che cerca l’unione, ma ogni centro inevitabilmente separa (tempio come temnein) e ogni unione inevitabilmente disunisce (si raccoglie ciò che è disperso, non ciò che è già insieme). Il problema non è tuttavia sul versante del centro o dell’unione, bensì su quello della dispersione e dell’erranza. L’umanità dell’uomo è proprio questo sbilanciamento problematico, la non corretta simmetria nel problema stesso. Il che conferma l’intima lacerazione, la condizione di infrazione in cui l’uomo inevitabilmente vive, il suo essere desiderante e il suo essere attivo : si ha bisogno di un centro se non lo si ha, ma quando lo si costruisce non si fa altro che sottolinearne la mancanza. Questo il paradosso del temnein. In questo senso va inteso il significato che Castelli trae da Rilke sul ‘peso’ delle cattedrali, e che può essere esteso alle considerazioni di Olivetti sul tempio in generale : ciò che viene costruito per ancorare Dio alla Terra non è Dio, ma è il luogo di Dio, circoscrizione, separazione e temporalità, lacerazione, ferita. La cattedrale – soprattutto quella medievale – era la costruzione di un tempio come istituzione di un tempo, tempo della costruzione, tempo delle opere, tempo umano per eccellenza, persino tempo della preghiera, nella scansione dei diversi momenti e delle diverse opportunità : separazione, appunto. Ecco il senso di ciò che costituisce un peso per Dio. Ma questo
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M. M. Olivetti, op. cit. p. 30.
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peso rivela l’umano genere, lo fa apparire e dischiudersi nel nascondimento che è. Olivetti richiama a questo proposito il pensiero e il linguaggio di Heidegger : « piuttosto noi ci approssimiamo a ciò che è, quando pensiamo tutto in senso inverso, posto che, evidentemente, teniamo presente che viceversa tutto si rivolge a noi. Il semplice invertire compiuto per se stesso non dà nulla ». 1 L’ogni dove del nessun luogo che il tempio rivela e nasconde rappresenta la lacerazione e la ferita, l’ancipite realtà della condizione umana, l’anima e il corpo, il pensiero e l’azione, l’essere e il divenire, la mortalità e l’immortalità : fra i due termini, la ferita che li mette in rapporto vicendevole. Una ferita che dà la vita e il tempo proprio di ognuno, e ci costituisce come individui differenti e identici a un tempo. Il tempo della ferita, di cui ognuno è portatore e vittima, come per una lancetta conficcata nel fianco. Per questo, ognuno ha la sua ora. Separato da ogni altro nel suo momento estremo, vale a dire nel momento in cui il suo corpo si apre definitivamente alla separazione. 2 « Il temnein significa porre un inizio e una fine al tempo, al soggetto. Lo stato ontologico dell’esistente nel tempio è tempo, dacché il temnein non elimina il tempo e la storia, pur raggiungendo l’eschaton ; ma poiché tale tempo è una totalità che cosmizza negandosi come cosmizzatrice […], questo tempo può essere chiamato tempo della speranza », 3 virtù ontologico-esistenziale che a partire dalla colpa d’origine dà luogo all’operazione temenica, che non è semplicemente una dislocazione ma anche una temporalizzazione. La colpa dell’origine è la ferita aperta dalla contraddittorietà che si apre nel tempio : ancora una volta, è perché sono gli umani a edificarli, i templi, che l’ogni dove della loro edificabilità diventa il nessun luogo della loro edificazione. Se il tempio separa il totalmente altro ordinando il cosmo in funzione del centro, la cosmizzazione che si nega come tale – che si contraddice – è una ferita della localizzazione negli stessi termini in cui si è potuto parlare di una ferita del tempo. Ma il luogo di una ferita è un’apertura che separa, e separando unisce. La contraddizione, come il paradosso, permette la speranza. Ecco una delle conclusioni di Olivetti in questo libro. Quale speranza ? Quella di essere nella fede, nel non luogo della fede. Ma tale speranza può apparire solo dopo che sarà stato chiarito « tutto un discorso sulla tecnica » tramite un’analisi della scienza che è poi un’analisi del protestantesimo, secondo un’equazione non ineccepibile che lega la Riforma con lo sviluppo della rivoluzione scientifica (il libero esame riformistico sarebbe uguale allo scientifico esame, e che conduce alla demitizzazione). 4 È il problema del sola fides che si ribalta nel sola ratio e si traduce in una centralizzazione assoluta, senza scampo, senza eccezioni : il luogo del centro è il punto incontaminato intorno a cui tutto si raccoglie. Per Olivetti è questo il senso del tempio protestante e il senso della scienza e della tecnica : un funzionalismo che coincide con la sola ratio, secondo l’obiezione riformistica. Il tempio cattolico invece lascerebbe uno spazio aperto (una ferita aperta), una circolarità non conclusiva per cui il centro non sarebbe propriamente e assolutamente un centro. Fra tempio protestante e tempio cattolico la differenza starebbe proprio nel luogo del centro, da cui si è partiti. La domanda sul luogo del centro diventa una domanda sul ruolo e il significato della razionalità come assoluto, e la conseguente costruibilità del luogo stesso. Nel linguaggio teologico e olivettiano, diventa la domanda circa la possibilità della fede come virtù ontologica : la rottura del « disporsi intorno »
1
Ivi, p. 34 e M. Heidegger, Holzwege, Frankfurt, Klostermann, 1950, pp. 31-32. 3 Ivi, pp. 61-65. Ivi, p. 84. 4 Ivi, pp. 87 e 90, poi sulla scienza pp. 108-111. 2
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ovviamente non esclude il disporsi intorno, il raccogliersi, perché la priorità ontologica è un’altra. Nel disporsi intorno il problema del centro è cruciale : la differenza consiste nella totalizzazione che ne deriva, 1 o che la presuppone. Diverso è infatti il centro che viene aufgestellt, istituito e costruito dal disporsi intorno (per questo la centralizzazione è fatta sorgere dalla comunità, dall’operazione del disporsi intorno, che in questo modo « è totale e concluso »), rispetto al centro che invece non è fatto sorgere dalla comunità raccolta, ma è « solo oggetto di speranza ». Il disporsi intorno nel tempio cattolico non è conclusivo, secondo questa interpretazione. La tecnica di contro al sacramento. Non è qui il luogo per discutere la legittimità di questa ermeneutica del tempio cattolico rispetto a quello riformato ; importa invece cogliere che il luogo del centro è pascalianamente decentrato e apre la ferita che l’essere umano in quanto umano già sempre è. Questo è il sacramento che infrange la totalità della ragione e rende possibile il tempio della fede irriducibile al tempio della sola ragione (la scienza-tecnica). In questo senso va intesa l’alternativa che Olivetti pone fra temnein e aufstellen, fra fede e ragione, fra speranza e tecno-scienze : il tempio simbolo cosmico è il luogo del sacro come separazione che indica il totalmente altro. È una ferita ? Lo sarebbe, se l’alterità non fosse ‘totalmente’ altra. Invece, se il tempio è luogo del sacro e non luogo sacro, l’alterità dev’essere totale e la ratio costretta a riconoscere i propri limiti. Di qui la critica alla tecnica e alla scienza, secondo la lezione heideggeriana. Di qui anche la critica alla problematica della verità che ha costellato il pensiero epistemologico del ‘900. La verità tecnica è la verità del fare, quella che si rivela nell’architettura contemporanea e mette in risalto le strutture portanti e i materiali, vale a dire la capacità costruttiva (il funzionale come verità tecnica). Verità come verum facere, e quindi verifica, verificazione, poiesis. Il centro è costruito dalla tecnica, e tecnicamente collocato. L’esperienza coincide col fare e col fruire : si fa esperienza della verità. La cosmizzazione è un’operazione. Il luogo del centro può essere ovunque, perché le capacità tecniche ormai lo permettono : ogni dove può sorgere qualcosa, là si cosmizza, si stabilizza, si centralizza. Di qui il fatto che l’architettura moderna si fonda su criteri iperstatici : stabilità, unità e compiutezza del sistema. Ma perde il suo carattere di temnein, ossia il rimando a un’altra verità, che non si può costruire perché già è (secondo una nuova opposizione fra temnein e poiein). Un altro centro, come totalmente altro : separato. Ma allora non tutti i templi sono temenici. Conseguenza difficile da pensare e da problematizzare, che resta aperta e ancora da indagare. Se il luogo del centro è costruito, vuol dire che non è circoscritto e separato ? Se invece è separato, si può ancora parlare di centro ? Il disporsi intorno istituisce il luogo del centro, o il centro stesso ? E l’apertura, la ferita che resta aperta, l’infrazione della disposizione, la circolarità imperfetta non rendono forse ogni centratura evanescente ? Il principio della speranza non è forse la sua virtù ? Con quali parole e in quale linguaggio è possibile dire questo problema, se il luogo del dire e del sentire s’identificano ogni dove il luogo stesso è un non luogo ? L’apertura ferita è allora anche una promessa : quella che la speranza lascia intendere, l’eschaton come mettersi in cammino verso… Senza cercare di risolvere o di uscire dalla contraddizione, ossia il dire contro lo stesso dire. 2 Una ricerca senza fine, perché la sua fine sarebbe la fine della ricerca.
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Ivi, pp. 91-93.
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Ivi, p. 103.
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APPENDICE [1] Tübingen, 3/8/1972 Chiarissimo e, se per una volta mi è consentito, carissimo professor Castelli, dopo una decina di giorni al mare (Fregene) siamo venuti qui a Tübingen. C’è voluto non poco per trovare un’abitazione, ma ora, finalmente, siamo sistemati, e per prima cosa desidero scrivere a Lei, per ringraziare ancora vivissimamente, anche da parte di Maria Adele, Lei e la Signora di tutto quanto, con tanto affetto, hanno fatto per noi in occasione delle nozze : Lei sa bene quanto ci tenessi a che Lei fosse il mio testimone ; il dono magnifico che ci hanno inviato ci ricorderà sempre adeguatamente il modo in cui hanno voluto esserci vicini in questa occasione. L’indirizzo di Tübingen è […]. Calcolo di vedere un po’ di materiale su Jacobi e su Franck nella biblioteca ; ma soprattutto, e quasi esclusivamente, vorrei mandare avanti il libro. La terrò al corrente di come vanno le cose, anche per quanto riguarda la visita a Moltmann, che vorrei fare nei prossimi giorni. Se posso rendermi utile in qualche maniera, stando quassù, ne sarò felice e La prego di farmelo sapere. Intanto voglia gradire, chiarissimo Professore, i migliori saluti e rinnovati ringraziamenti, anche da parte di mia moglie, a Lei e alla gentile Signora.
[2] Tübingen, 25/8/1972 Chiarissimo professor Castelli, ho ricevuto le Sue lettere del 10 e del 12 e la ringrazio. Ho molto “sentito” e meditato la sollecitazione (teoretica e pratica) per il libro, condensata, con l’efficacia che è propria al Suo stile, in poche ma assai significative righe. In effetti… non è la conclusione che sto scrivendo, e quindi non sto ancora trattando della chiesa [dei ?] santi (sulla quale, peraltro, ho trovato qui dell’interessantissimo materiale, che sto schedando) ; lavoro ancora all’assai lungo inizio intorno a Schelling : meno demoniaco e cesaristico comunque, come inizio, del suo amico Hegel, proprio per le aporie e le esitazioni che contraddistinguono la sua visione della Chiesa come “opera d’arte vivente” (mi chiedo se sia opportuno o meno, a proposito di questa notevolissima concezione schellinghiana delineata nella Filosofia dell’arte, poi, in nota, un rinvio al Tempio, che nell’ultimo capitolo parla proprio del sostituirsi dell’arte come azione all’arte come rappresentazione nello spazio sacro…). Il lavoro procede, ad ogni modo, grazie alla tranquillità dell’ambiente e alla concentrazione che esso consente, con rapidità e notevole intensità. Al telefono di Moltmann e Oberman non risponde ancora nessuno : credo proprio che bisognerà aspettare metà settembre. Comunque, per quanto riguarda Blumenberg ho fatto ricerche in biblioteca ; sulla “Guida del personale e delle lezioni” del semestre estivo 1972 (dunque adesso) dell’università di Münster, risultano, alle varie pagine, le seguenti informazioni : - Hans Blumenberg, Direktor des Philosophischen Seminars Abitazione : […] - Indirizzo del Philosophisches Seminar : […] - Corsi che ha dato Blumenberg in questo semester : Lezioni, Nietzsches Antropologie ; Seminario Zur Typologie der Frühauf klärung : Bayle und Fontanelle. Spero che queste indicazioni possano servirle. Sempre lieto, se posso rendermi utile, La prego di gradire, chiarissimo professore, i miei saluti migliori.
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Tübingen, 7/9/1972 Chiarissimo Professore, grazie della sua lettera e del capitolo “Dio nel medioevo” : ho subito letto lo scritto e l’ho trovato bello in modo… scoraggiante (per me !). A parte l’efficacia dello stile e delle immagini (ad esempio la divina ferita della lancetta nel fianco), mi sembra presentare una problematica di massima attualità. Il “Dio è esploso” non solo rievoca l’espressione hegeliana e nietzscheana, ma è anche un’immagine che, mediante il simbolismo temporale dell’orologio esploso, dà al tema della morte di Dio un approfondimento metafisico di cui la teoreticamente superficiale riscoperta odierna del tema medesimo sembra avere veramente bisogno per chiarirsi a se stessa nella propria natura. Nello scritto la felice misura di una linea teoretica e di una autobiografia che si intrecciano in modo affatto unitario dal punto di vista del contenuto, mi sembra esalti l’attualità della trattazione. La suggestione “età della tecnica/età della pietas” mi ha molto impressionato ; in effetti avrei varie idee sulle quali mi piacerebbe lavorare a proposito del simbolismo del tempo ; inutile dire che è proprio il tempo che mi spaventa, e la velocità “folle” a cui bisognerebbe scrivere ; ma temo che sia una velocità veramente sovrumana (è proprio vero che per descrivere così profondamente la demonicità della condizione attuale bisogna altrettanto profondamente viverla !). Ai primi di ottobre sarò a Roma, e Le sarei grato di un incontro in cui discutere questo problema e quello del libro (che, intanto, va avanti con una certa speditezza) : ora sto scrivendo delle pagine teoretiche sulla natura della periodizzazione e sul Mediatore come colui che periodizza : ciò mi dovrebbe aprire la strada alla trattazione della Chiesa, tematizzando lo spazio tra il discrimen e l’eschaton. Käsermann è in America (dunque sta bene !) e tornerà o fra una settimana o fra quindici giorni ; Oberman è in Olanda e tornerà la settimana prossima : telefonerò ad entrambi nuovamente al loro ritorno per avere un incontro. A Moltmann ho telefonato, ma non sono riuscito a vederlo, perché mi ha subito detto di averLe già scritto a proposito del “convegno di gennaio”, e di averLe spiegato che in quell’epoca lui è a Bangkok per una conferenza. Se riuscirò a vedere Oberman e Käsermann abbastanza presto, Le scriverò i risultati dell’incontro ; se invece riuscissi a incontrarli solo negli ultimi giorni del mese, Gliene riferirò a voce. Gradisca intanto, chiarissimo Professore, i migliori saluti, anche da parte di mia moglie… che apprezza molto il Suo ritmo (ma intendeva “il ritmo del pensiero e delle immagini”, come si è espressa dopo aver voluto leggere il suo capitolo).
ORIZZONTE DEL SACRO E ANALOGIA SUBJECTI Fausto Fraisopi Soggetto, analogazione e orizzonte del Sacro
S
e letta con attenzione, Analogia del soggetto 1 appare un’opera a tutti gli effetti ‘irriducibile’. La sua ricchezza di rimandi, la sua trama complessa, l’ampiezza della sua capacità d’interrogazione, impediscono appunto che la si ‘riduca’ ad un solo tema fondante, sebbene peraltro già il titolo ne introduca uno e dei più fondamentali dal punto di vista speculativo : l’analogazione del soggetto. Analogia del soggetto si rivela essere essenzialmente, per quanto ciò possa significare, un’interrogazione sulla soggettività. Ma essa non è questo nel senso in cui non è solo questo. Il suo metodo (cioè il metodo con cui viene fissata la dinamica di analogazione del soggetto) 2 esplicita allo stesso tempo, come vedremo, il suo statuto essenzialmente fenomenologico. Senza che per questo si possa sostenere che Analogia del soggetto si riduce solo (si fa per dire) ad un’interrogazione fenomenologica sul soggetto (per quanto tutto ciò, ancora una volta, possa significare). La sua eccedenza teorica consiste proprio nell’estensione di quest’interrogazione : un’estensione che si dimostra tanto più ampia (per i temi e per gli interlocutori filosofici coinvolti) quanto più solida e radicale rispetto ad un questionamento sulla soggettività (o sulla storia della teoria della soggettività) sic et simpliciter. Analogia del soggetto, che potremmo ritenere il punto di svolta del pensiero di Marco Maria Olivetti, si dimostra allo stesso tempo un’opera di sintesi ed un opera di svolta. Si dimostra essere un’opera di sintesi, perché raccoglie sistematicamente tutte le riflessioni filosofiche che Olivetti dispiega, sin da giovanissimo studente, sulla religione, sulla fenomenologia, sull’idealismo tedesco e, non da ultimo, sulla filosofia del linguaggio. Si dimostra essere un’opera di svolta perché, allo stesso tempo, la sintesi orienta l’interrogazione filosofica di Olivetti verso un approfondimento di quello che lui stesso definisce «trascendentale senza illusione», cioè di una forma di approccio trascendentalista alla soggettività (ed all’intersoggettività) estranea all’illusione dell’egologia. In questa sintesi, in questa svolta, si raccolgono e si rinnovano tutte quelle interrogazioni filosofiche che Olivetti aveva posto a tema fin dall’inizio del suo percorso. E sono significativamente proprio quelle affrontate ne Il tempio simbolo cosmico, il primo lavoro pubblicato nel 1967, 3 che si ritrovano essenzialmente arricchite e sovradeterminate nel capitolo che apre Analogia del soggetto (Nominar-Dio, Autoreferenza, Totalità sociale 4), rappresentandone uno degli assi portanti. Non si può pensare Dio senza pensare all’in
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Cfr. Marco Maria Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992. Cfr. Marco Maria Olivetti, Trascendentale senza illusione. Ovvero : l’assenza della terza persona, in Etica, trascendentale e intersoggettività, a cura di Carmelo Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 127-140, p. 128 : « “Trascendentale senza illusione” vorrebbe significare dunque il carattere radicalmente responsivo e responsabile del soggetto − o dell’io, o della persona, per usare pollachos legomena che andranno risemantizzati nel contesto del discorso che vorrei proporre. Si tratta di una responsabilità così radicale che essa può essere detta con l’espressione “responsabilità per la responsabilità” ». 3 Marco Maria Olivetti, Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della 4 Cfr. Analogia del soggetto, cit., pp. 5-28. tecnica, Roma, Abete, 1967. 2
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tersoggettività né pensare l’intersoggettività senza pensare a Dio, come Olivetti stesso affermerà sei anni dopo riprendendo le tesi dell’opera principale. 1 Ecco come, allora, ad un lettore attento (ma non troppo), un’opera che inaugura un’interrogazione fenomenologica (e non egologica) sulla soggettività partendo dal concetto del «nominar-Dio», non può che apparire già inscritta in quel filone di ricerche fenomenologiche definito (forse troppo superficialmente) «tournant théologique de la phénoménologie». Ciò sarebbe inoltre confermato dal fatto che i protagonisti di questo cosiddetto tournant (Levinas, Henry, Marion) sono stati tutti interlocutori di Olivetti e alcuni di loro, come Levinas, rappresentano dei referenti essenziali di Analogia del soggetto. Ma il carattere di irriducibilità dell’opera si rinnova anche a questo punto, soprattutto laddove si consideri che questa riduzione ad una corrente ben definita, ad una «scuola fenomenologica» teoricamente e storicamente individuata, rischia di smarrire proprio quella ricchezza che contraddistingue Analogia del soggetto nella sua singolarità speculativa. Sebbene Olivetti riprenda per certi versi, e anticipi per altri, molti temi sviluppati da Levinas, Henry, Marion, l’originalità di Analogia del soggetto rispetto alle opere di questi Autori consiste in un’apertura a quei temi di teoria dei sistemi, di filosofia del linguaggio e, più generalmente, di filosofia analitica, rispetto ai quali il filone francese si dimostra pressoché impermeabile. In questo senso – e secondo quest’orientamento complesso (e complessivo) – l’interrogazione dispiegata sotto il Leitfaden dell’analogia/analogazione del soggetto arriva a comprendere in modo sistematico la connessione che, sulla base della dinamica fondamentale di costituzione della soggettività, l’analogazione, l’esperienza della fenomenicità intrattiene con l’esperienza del Sacro. Se, tuttavia, in Analogia del soggetto ne va pur sempre − e nonostante quelle che potrebbero apparire ad alcuni delle contaminazioni teologiche − di un’interrogazione fenomenologica del soggetto ; se sembra non si possa parlare di soggetto in senso fenomenologico al di là della tematizzazione del concetto fenomenologico fondamentale di orizzonte, 2 allora proprio il tema dell’orizzonte fenomenologico si rivelerà un chiave di lettura fondamentale del problema dell’analogazione del soggetto e della sua costituzione come tale. In questo senso il concetto di orizzonte si rivela essere un passaggio fondamentale (tanto nell’evoluzione del pensiero di Olivetti quanto nella strutturazione teorica di Analogia del soggetto), che conduce dalla descrizione fenomenologica dell’accesso al Sacro all’esperienza fenomenologica tout court. Questo iter, in effetti, percorso in ambedue le direzioni che esso definisce, incontra proprio il concetto di orizzonte come chiave di volta per pensare, a partire dall’esperienza del Sacro, l’analogazione della soggettività, e per ripensare, alla luce di quest’ultima, una fenomenologia della religione in quanto tale. Partire dall’esperienza del Sacro significa però, come ho già indicato, tornare proprio al lavoro nel quale un giovanissimo Olivetti già pone molte delle premesse che svilupperà nel suo percorso intellettuale e filosofico. È appunto quello che cercherò di fare, per illuminare l’avvio di uno dei sentieri che, arricchendosi progressivamente e divenendo via via più articolati e complessi, convergeranno infine su Analogia del soggetto.
1
Cfr. a riguardo Marco Maria Olivetti, Teologia e analogia subjecti, in L’Occidente della verità, a cura di Claudio Ciancio e Federico Vercellone, Milano, Guerini e associati, 1998, pp. 15-23, p. 15 : « [...] il problema di Dio è tutt’uno con il problema dell’intersoggettività. La tesi potrebbe essere formulata anche così : per poter pensare filosoficamente a Dio bisogna pensare all’intersoggettività e, viceversa, per poter pensare all’intersoggettività bisogna pensare a Dio ». 2 Cfr. a riguardo il nostro Génèse et trascendantalisation du concept d’ “horizon” chez Husserl, in Phänomenologische Forschungen, 2008, pp. 43-70.
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La spazialità del Sacro e il tempio come simbolo cosmico Quella che si potrebbe definire la spazialità del Sacro o per meglio dire, come vedremo, la dimensionalità del Sacro, caratterizza in sostanza tutto il primo capitolo di Analogia del soggetto. La critica (veemente) alla secolarizzazione ed all’auto-referenza sociale qui dispiegata è tutta fondata proprio su tale dimensionalità del Sacro, istituita sulla nominazione di Dio che sottrae lo spazio sociale alla sua diafana consistenza foronomica 1 e sincronica. Se infatti « il dio o gli dèi nominati sono fondatori », il « nominar-dio » come forma e come fondazione si declina in una fenomenologia assai vasta del ‘religioso’ [das Religiöse] : « il fondamento può essere socialmente richiamato (o posto) in modi differenti, ad esempio mediante l’apposizione di immagini o la esecuzione di riti ; un problema peculiare, poi, è rappresentato dalla edificazione del tempio ». 2 Se il « nominar-Dio », l’invocazione, « realizza storicamente l’evento fondativo », questa fondazione non dev’esser pensata in senso limitativo, cioè teocratico. La nominazione di dio o degli dei, il che equivale, in sostanza, alla teofania (o ierofania), organizza uno spazio, e l’organizza ex definitione secondo l’opposizione fanum-profanum. Quest’organizzazione spaziale si configura innanzitutto nella forma di quell’atto di demarcazione che realizza l’opposizione e che descrive positivamente lo spazio del Sacro come témenos, tempio. La consacrazione, come « istituzione del fanum mediante quel discrimine, quel témenos [...] che distingue e identifica rispettivamente e reciprocamente fanum e profanum », 3 fonda. Fonda uno spazio, uno spazio residuale all’identità delle porzioni spaziali che costituisce l’essere di qualsiasi res extensa. Grazie a quel témnein che istituisce lo spazio del Sacro avviene qualcosa di radicalmente diverso dalla definizione di una porzione. La definizione della porzione è l’atto stesso di apertura di una dimensione, di un orizzonte. Non è allora difficile intravvedere la connessione teorica e genetica che la positio quaestionis di Analogia del soggetto intrattiene con la prima opera di Olivetti, il cui sottotitolo stesso faceva esplicita menzione dell’orizzonte del sacro. Se il témnein, infatti, descrive una porzione di spazio, che prima dell’istituzione (o fondazione) del témenos e del fanum era necessariamente omogenea, qualitativamente identica a quello spazio escluso che viene chiamato, après coup, profanum, cosa avviene precisamente nel témnein ? Cosa contraddistingue l’orizzonte (e più in particolare l’orizzonte del Sacro) dalla spazialità delle partes extra partes ? Già nell’opera del 1967 viene affrontato il problema di come l’atto fondativo risponda e cor-risponda ad una diversa legge della spazialità, una spazialità non più foronomica ma simbolica, archetipica, che non si contraddistingue per l’indifferenza delle regioni ma per la loro significatività, una significatività intersoggettivamente condivisa. Non a caso due dei referenti principali dei primi capitoli de Il tempio simbolo cosmico sono Mircea Eliade e Carl Gustav Jung, che hanno rispettivamente mostrato come proprio l’accesso al Sacro sia contraddistinto dalla sua spazialità propria e dalla sua natura simbolico-collettiva, intersoggettiva. L’orizzonte del Sacro sintetizza ed articola tanto la
1 L’aggettivo « foronomica » non è usato da Olivetti ma tratto dalla scienza e dalla dinamica del XVIII sec. La foronomia, come mostrano i Principi metafisici della scienza della natura di Kant, è quella scienza che studia lo spazio con esplicito riferimento alla mobilità spaziale degli oggetti, in senso puramente estensivo, cioè alle semplici traiettorie. 2 Cfr. Analogia del soggetto, cit., p. 7. Olivetti, nella nota apposta al passaggio citato (ibidem, p. 27), rinvia 3 Ibidem. proprio a Il tempio simbolo cosmico.
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dimensione estensiva quanto la dimensione diacronica in modo collettivo. È un tema che ritorna in modo imponente – e, come ho già sottolineato, attraverso un sostanziale arricchimento – in Analogia del soggetto. Questa duplice articolazione viene presa in considerazione dai due primi capitoli di Le sacré et le profane di Eliade, che Olivetti non cita, ma che rappresenta essenzialmente un approfondimento del saggio Centre du monde, temple, maison, 1 citato a più riprese, insieme a Le mythe de l’éternel retour, 2 ne Il tempio simbolo cosmico. Proprio il secondo capitolo de Le mythe de l’éternel retour, intitolato Le symbolisme du centre, anticipa dei temi − ripresi in Le sacré et le profane − che si dimostrano centrali per comprendere tanto l’esito filosofico de Il tempio simbolo cosmico quanto la struttura fondamentale (fondante e fondativa) dell’orizzonte del Sacro che sottende Analogia del soggetto. Ciò che l’opera del ’67 mette in luce, indicando la problematica che sarà successivamente scandagliata attraverso lo strumento della trattazione fenomenologica, è precisamente la non-omogeneità dello spazio e del tempo nell’orizzonte del Sacro, cioè la sottrazione dell’orizzonte del Sacro da qualsiasi legge foronomica e sincronica (sincronizzante). Come afferma infatti Eliade in Le sacré et le profane, « per l’uomo religioso, lo spazio non è omogeneo, presenta delle rotture, fratture : ci sono delle porzioni di spazio » − e, potremmo aggiungere, di tempo − « qualitativamente diverse delle altre ». 3 Questa rottura non è, tuttavia, assiologicamente neutra, ma assiologicamente decisiva, fondativa, nella misura in cui è proprio nella rottura, come istituzione del témenos, che avviene l’ordinamento di un cosmo :
« C’è dunque uno spazio sacro, e, di conseguenza, “forte”, significativo, e ci sono altri spazi non consacrati, senza struttura né consistenza, in breve : amorfi. E più ancora : per l’uomo religioso questa non-omogeneità spaziale si traduce nell’esperienza di una opposizione tra lo spazio sacro, il solo che sia reale, che esiste realmente, e tutto il resto, l’estensione informe che lo circonda ». 4
È proprio quest’esperienza di una dis-omogeneità assiologica che rappresenta, per l’uomo religioso, il momento fondativo, « la fondazione del Mondo » : 5 « è la rottura operata nello spazio che permette la costituzione del mondo, perchè è essa che rivela il “punto fisso”, l’asse centrale, di ogni orientamento futuro ». L’orientamento, come sich orientieren, è impensabile al di là della dis-omogeneità : la semplice consistenza foronomica dello spazio e sincronica (o sincronizzabile) del tempo escludono qualsiasi possibilità d’orientamento. L’orientamento presuppone la disomogeneità, quella disomogeneità che è fornita al soggetto da ciò che si manifesta nell’orizzonte in cui si orienta : gli oggetti empirici e il sentimento soggettivo di differenziazione per l’orientamento nello spazio empirico, 6 l’iconografia e la ierofania per l’orientamento nello spazio del sacro. Come poter pensare infatti una possibilità di esperire il Sacro al di là della ierofania ? Come poter pensare una situazionalità del Sacro senza quella differenziazione assiolo
1 Cfr. Mircea Eliade, Centre du monde, temple, maison, in Le symbolisme cosmique des monuments religieux, Roma, Is. M. E. O., 1957, pp. 57-82. 2 Cfr. Idem, Le mythe de l’éternel retour, Paris, Gallimard, 1969. Cfr. in part. Le symbolisme du centre, pp. 24-30 e Répétition de la cosmogonie, pp. 30-34. 3 Cfr. Idem, Le sacré et le profane, Paris, Gallimard, 1965, p. 25. 4 5 Ibidem. Ibidem. 6 Immanuel Kant, Was heißt : Sich im Denkens orientieren, 1786, Ak.131-147, Idem, Cosa significa orientarsi nel pensare, in I. Kant, Scritti sul criticismo, tr. it. a cura di G. De Flaviis, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp.13-30, p. 17.
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gica dello spazio che istituisce l’orizzonte stesso del Sacro in quanto tale ? « Quando il sacro si manifesta attraverso una ierofania qualunque, non c’è solo rottura nell’omogeneità dello spazio, ma anche rivelazione di una realtà assoluta, che si oppone alla nonrealtà dell’immensa estensione circostante ». 1 Se la ierofania istituisce un orizzonte del fanum assiologicamente primario rispetto al profanum, l’esperienza del mondo si centra sulla ‘traccia’ di quest’istituzione : il témenos come opera del témnein, della consacrazione. Le due regioni che si definiscono nella (e che sono rispettivamente definite dalla) sussistenza stessa del témenos non saranno due regioni del mondo, ma il Mondo stesso, cioè il Cosmos, e il Caos. L’archetipo del Centro (come tempio) si rivela essere allo stesso tempo un archetipo cosmopoietico : organizza la dimensionalità spaziale e temporale dell’orizzonte del Sacro, una dimensionalità che si articola significativamente, sottratta all’identità diafana delle partes extra partes, delle mere porzioni spaziali e temporali. L’archetipo del centro fonda un mondo nel senso che conferisce senso all’esperienza : « La manifestazione del sacro fonda ontologicamente il Mondo. Nell’estensione omogenea e infinita, in cui non è possibile disporre di alcun punto di riferimento, nella quale non può aversi alcun orientamento, la ierofania rivela un “punto fisso” assoluto, un “Centro” ». 2 Non a caso Eliade parla di un Mondo, quello che esplicita essere il nostro Mondo, come di uno spazio cosmizzato. La ierofania istituisce un legame tra l’uomo e il suo mondo attraverso un atto di cosmizzazione (cioè di cosmopoiesi). Lo spazio consacrato è sempre ex definitione uno spazio cosmizzato, la cosmizzazione e la consacrazione si rimandano vicendevolmente e rimandano, innanzitutto, alla ierofania : « la cosmizzazione di territori sconosciuti è sempre una consacrazione : organizzando uno spazio si reitera l’opera esemplare degli dei ». 3 Eliade arriva infine a sintetizzare tutti i fattori che conducono alla cosmizzazione che, ipso facto, si rivela essere proprio quello che Olivetti indicherà come evento fondativo (del tempio) e fondazionale (della società), la ierofania :
« Abbiamo dnque a che fare con una sequenza di concezioni religiose e di immagini cosmologiche che sono solidari tra loro e che si articolano in un “sistema” che si può chiamare “sistema del Mondo” delle società tradizionali : a) un luogo sacro costituisce una rottura nell’omogeneità dello spazio ; b) questa rottura è simbolizzata da un’apertura per mezzo della quale è reso possibile il passaggio da una regione cosmica ad un altra (dal Cielo alla Terra e vice versa : dalla terra verso il mondo inferiore) ; c) la comunicazione col cielo viene espressa indifferentemente con un certo numero di immagini riferentisi all’Axis mundi ; d) attorno a questo asse cosmico si estende il “Mondo” (cioè “il nostro mondo”) e, di conseguenza, l’asse si trova al centro, nell’ombellico della terra, è il Centro del Mondo ». 4
Questi sono i canoni, magistralmente riassunti, secondo cui l’uomo religioso (primitivo) fa esperienza dell’orizzonte del Sacro. Bisogna tuttavia far attenzione al fatto che sempre, quando Eliade parla di « uomo religioso », si riferisce anche ad un’esperienza collettiva. L’archetipo del centro del mondo, dell’Axis mundi è un archetipo definito secondo i canoni che Jung associa alla forma della religiosità simbolica come espressione di una realtà psicologica più profonda. E proprio la collettività di quest’esperienza, la sua natura squisitamente e necessariamente comunitaria, interessa principalmente Olivetti quando, ne Il tempio simbolo cosmico, approda alla considerazione junghiana del simbolo.
1
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3
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Cfr. Mircea Eliade, Le sacré et le profane, cit., p. 25. Ibidem, p. 34.
Ibidem, p. 27. Ibidem, p. 38.
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Perché, infatti, proprio Jung ? Proprio in virtù della sua elaborazione del concetto di « inconscio collettivo » e della sua opposizione a Freud. Jung inizia a lavorare al cosiddetto ‘esperimento associativo’ a partire dal 1904 ; nel 1906 entra in contatto con Freud, con cui si confronterà fino alla loro rottura, avvenuta nel 1913. È proprio nel 1913 che Jung pubblica infatti Libido. Simboli della trasformazione, in cui afferma che la libido, carattere centrale della psicologia freudiana, è molto più complessa di quanto Freud non la presenti e che, soprattutto, non si esaurisce affatto nel soddisfacimento del desiderio. Essa, per così dire, rappresenta l’intero impianto della coscienza, l’energia psichica nella sua totalità. A partire da questo momento, Jung si dedica ad un’osservazione empiricodescrittiva più ampia, rivolta non solo, come in Freud, alla Traumdeutung o a pazienti psicotici ma anche e soprattutto all’orizzonte della mitologia, della storia delle religioni e dei testi religiosi. Quest’osservazione condurrà Jung ad elaborare il concetto di « inconscio collettivo », che sarebbe strutturato, appunto, secondo archetipi. La struttura psicologica, e non solo quella del soggetto patologico, ma del soggetto tout court, è ordinata attorno ad una struttura superiore, inclusiva dell’io e della coscienza, il Sé, che rappresenta allo stesso tempo il luogo di sedimentazione e di espressione ‘simbolica’ di questi archetipi dell’inconscio collettivo. È proprio il Sé che, in sostanza, dà luogo al processo psichico di individuazione dell’Io, un Sé che è in un certo modo collettivo, condiviso nella sua articolazione da coscienze disparate. Gli achetipi dell’inconscio collettivo, come forme che si manifestano presso tutti i popoli e tutte le culture, determinano, nella loro identità/diversità iconografico-simbolica, anche una forma d’accesso comune al Sacro. È chiaro allora come la demarche de Il tempio simbolo cosmico possa articolarsi tra queste due figure, Eliade e Jung, per arrivare ad una comprensione dell’essenza del tempio in quanto tale. Come afferma Olivetti in apertura del saggio, il Sacro è
« orizzonte [...] dei singoli contenuti sacri, delle singole ierofanie, rende ragione del costante presentarsi del tempio come simbolo cosmico, impedento d’altro canto che ad una interpretazione metafisica di questo simbolismo possa opporsi una obiezione “funzionalista”, una obiezione, s’intende, quale può essere suggerita dalla considerazione del pensiero mitico come particolare funzione o struttura del pensiero ». 1
È sulla base di questo presupposto che Olivetti può riprendere a suo modo la tesi di Jung, opponendosi all’associazione − posta in atto da Freud − del simbolismo allo « stato patologico ». Nell’ipotesi (riduttivista) freudiana, afferma Olivetti, « l’ermeneutica perde ogni valore di verità per divenire un semplice mezzo tecnico », laddove, nella più complessa interpretazione junghiana, l’ermeneutica approda al coglimento di una struttura fondativa, e fondante l’individuazione personale. L’interesse di Olivetti è infatti teso a scoprire « il valore [...] normale del simbolo » − e quindi del tempio come simbolo − « in quanto esso non è un semplice, insistente rivolgersi al passato bensì un ponte tra il passato e l’avvenire ». 2 In questo senso la cosmogonia a cui Jung fa allusione nella seconda parte dei Simboli della trasformazione − opera che, lo ricordiamo, segna il distacco dalla psicologia freudiana − come cosmogonia psicologica e non fisica, 3 può essere pensata anche e soprat
1
2 Marco Maria Olivetti, Il tempio simbolo cosmico, cit., p. 17. Ibidem, p. 27. Olivetti cita Jung dall’edizione inglese e non da quella tedesca, perchè rivista, in alcuni punti, da Jung stesso. Cfr. Carl Gustav Jung, Symbols of transformation. An analysis of the prelude to a case of schizofrenica, London, Routdledge & Kegan Paul, 1956, p. 417 ; tr. it. Simboli della trasformazione, Torino, Bollati Boringhieri, 1965, p. 406. 3
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tutto in senso filosofico-speculativo in relazione al tempio, come simbolo che connette sempre e costitutivamente la cosmogonia e l’escatologia, il passato e l’avvenire intesi in senso collettivo, non individualistico. Riferendosi ad un passaggio fondamentale di Psicologia e alchimia, 1 Olivetti comincia a delineare la sua tesi che porta, in definitiva, proprio sulla costituzione archetipico-collettiva dell’orizzonte del sacro. Se infatti possiamo leggere tutta la struttura del simbolismo del mandala come un correlato bidimensionale del simbolismo architettonico del tempio, 2 l’archetipo del centro messo in evidenza da Eliade, l’Axis Mundi, esprimendo la totalità della personalità, « corrisponde non all’ego, ma al “sé stesso”, come epitome della personalità totale ». Olivetti aggiunge : « gli archetipi dell’inconscio collettivo − e questo è il problematico − sono comuni all’umanità tutta [...] ; nella misura in cui l’inconscio collettivo viene fatto proprio, esso rientra nel témenos, trasformandosi da caos in cosmos (il mandala simbolo cosmico) ». 3
L’individuo nell’orizzonte del sacro Se tutto il simbolismo del mandala altro che non è che una restrizione bidimensionale del simbolismo del tempio, il tempio si rivela allora l’esempio ‘archetipico’, del luogo del Sacro (e non solo, riduttivamente, del ‘luogo sacro’). In questo senso l’analisi svolta da Olivetti si ricongiunge alle analisi di Eliade, in perfetta continuità con le analisi junghiane : « Il tempio, luogo del sacro, è sempre un simbolo cosmico. Paradossalmente il cosmo − tutto dell’essere − è, quindi, collegato con l’idea del témenos, del recinto, del separato. Questa sorta di ossimoro rinvia pertanto all’idea di caos, come opposto al cosmos (ordine, armonia, ciò per cui si opera la recinzione) ». 4 In questo senso, ed a questo punto, Olivetti inizia ad intervenire per caratterizzare questo complesso di strutture archetipiche in senso speculativo. Nell’atto del témnein l’uomo cerca di proteggersi dall’angoscia esistenziale e definire una dimensione di senso :
« In questo immergersi dell’individuo nel cosmo ha grande importanza il motivo del centro, sia che venga focalizzato il centro del tempio, sia che il tempio stesso venga inteso come il centro del cosmo. L’idea di un centro è dunque ciò per cui il cosmo è cosmos : ne costituisce il senso in quanto il cosmo si ordina relatamente ad esso. Il centro rappresenta l’origine del cosmos, il fine e la fine : la cosmologia implica l’escatologia. È nella identificazione a questo centro (la quale comporta l’omologia uomo-tempio-cosmo) che l’esistente supera l’angoscia del caos e si cosmizza. Il centro è insieme uomo e più che uomo : in esso l’esistente ritrova la sua vera essenza, ma proprio in quanto esso è più dell’essenza stessa, il fondamento delle essenze ». 5
L’orizzonte del sacro si caratterizza, nella sua dimensionalità, come una « rottura del piano ontologico » : l’orizzonte del sacro è « totalmente altro », 6 come altro dall’ontologia della res, ma anche come altro perché sovraccarico, saturo, di senso :
« Il luogo del “totalmente altro”, infatti, non può essere che separato nel senso più pregnante del termine (τεµενος), proprio in quanto simboleggia “altro” ; ma non può contemporaneamente non essere il cosmo, nella misura in cui simboleggia quel “totalmente” il cui significato ontolo
1 Cfr. Carl Gustav Jung, Psychology and alchemy, London, Routdledge & Kegan Paul, 1953, p. 126 ; tr. it. Psicologia e alchimia, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 131. 2 Marco Maria Olivetti, Il tempio simbolo cosmico, cit., p. 26, e ancora Carl Gustav Jung, The Archetypes and collective unconscious, London, Routdledge & Kegan Paul, 1959, pp. 356-7 ; tr. it. Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Torino, Bollati Boringhieri, p. 348. 3 Marco Maria Olivetti, Il tempio simbolo cosmico, cit., p. 28. 4 5 6 Ibidem, p. 29. Ibidem, p. 31. Ibidem, p. 31.
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gico è stato precisato. È così che il fanum, contrapponendosi al profanum, lo qualifica contemporaneamente come l’opposto del cosmo, come caos ». 1
Si potrebbe pensare, a questo punto, che Olivetti non faccia altro che inscrivere le analisi di Eliade e di Jung nel suo progetto di interpretazione ‘filosofica’ dell’architettura sacra che sviluppa ne Il tempio simbolo cosmico. Ma non è così, innanzitutto perchè Il tempio simbolo cosmico non si lascia ridurre affatto ad un’opera di filosofia dell’architettura. Essa definisce al contrario, ‘architettonicamente’, una filosofia, quella filosofia che troverà la sua concrezione definitiva in Analogia del soggetto. Riprendendo a suo conto le tesi di Eliade e Jung, Olivetti non solo non si limita a ripeterle ma le integra in un discorso eccedente rispetto alla cautela metodologica dell’antropologia (e della storia delle religioni) da un lato e della psicologia analitica dall’altro. Eliade, da un lato, non universalizzava le forme del sacro (la sua spazialità e la sua temporalità) all’uomo ed alla collettività in quanto tali ma le limitava alle forme della religiosità primitiva. Jung, da parte sua, non voleva uscire metodologicamente dal dilemma così formulato : « Il Sé è un simbolo di Cristo, o Cristo è un simbolo del Sé ? ». 2 Sebbene propendesse, personalmente, per una tesi essenzialmente gnostica, tendente a vedere nel Cristo un simbolo del Sé (e non viceversa), la metodologia psicologico-descrittiva impediva che questo dilemma fosse risolto in una direzione o nell’altra. Ne Il tempio simbolo cosmico, le forme dell’orizzonte del Sacro non sono affatto esposte secondo un metodo descrittivo, ma dispiegate secondo il loro senso filosofico e speculativo. Ciò avviene principalmente grazie al concetto fondamentale (e fondamentalmente fenomenologico) di orizzonte :
« “Il tempio : luogo del sacro” : “Luogo” però non è una mera dispiegazione spaziale. Orizzonte, si è anche detto : orizzonte delle singole ierofanie. Se il tempio come luogo del sacro è spazio sacro, insieme però è tempo sacro. Altrimenti non sarebbe orizzonte, non sarebbe un’assunzione del sacro rationae formae. Il témnein che fa sorgere il luogo del sacro è infatti un’operazione puramente formale, che prescinde dai singoli contenuti ed anzi è la costituzione dell’orizzonte entro cui i contenuti sorgono e per cui essi si presentano in un certo modo piuttosto che in un altro ». 3
La spazialità e la temporalità del sacro non sono forme dell’intuizione sensibile, ma sono « dimensioni formali dell’orizzonte del soggetto, orizzonte in cui appare il mondo ». Secondo queste dimensioni formali, secondo questa dimensionalità dell’orizzonte del sacro, l’esperienza dell’io si articola secondo le forme dell’ adesso, del di fronte a. Olivetti inizia ad implementare, in questo modo, la descrizione fenomenologica dell’esperienza del Sacro come luogo della ierofania ad una riflessione filosofica sul soggetto :
« il tempo come collegamento ontologico fra soggetto e realtà, implica, qualora se ne ammetta l’eschaton (la pleromizzazione), una inadeguatezza del collegamento ontologico : una mancanza di essere come essenza, per cui il soggetto non può evidentemente essere adeguato, “compiuto”, di fronte alle essenze degli enti. L’eschaton, la fine del tempo, significa il pleroma come pienezza d’essere e non può significare altro. Ma l’inadeguatezza ontologica − il disagio ontologico − implica, in quanto costitutiva del soggetto, quell’ “illo tempore”, quel “da allora” di cui si parlava a proposito dei miti. Qualunque sia l’origine dell’inadeguatezza, l’inadeguatezza rinvia ad un’origine ». 4
1
Ibidem, p. 37. Carl Gustav Jung, Aion. Ricerche sul simbolismo del sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1982, p. 65. 3 4 Marco Maria Olivetti, Il tempio simbolo cosmico, cit., p. 41. Ibidem, p. 50. 2
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Se quest’implementazione implica sostanzialmente un distacco dal metodo descrittivo dell’antropologia di Eliade e della psicologia junghiana, essa implica parimenti un distacco da quella che è la figura filosofica principale dell’analisi olivettiana, Heidegger. L’assenza di un’essenza dell’essere umano o, meglio, la mancanza di essere come essenza, non è riducibile alla coppia concettuale (assiologica ed ancora fondamentalmente metafisica) ‘autentico/inautentico’ : il soggetto prefigurato da Olivetti in quest’opera iniziale è già privo dell’essenza intesa come identità, esso si caratterizza sì per la trascendenza, ma una trascendenza che rivela allo stesso tempo l’assenza dell’essenza, al di là di ogni autenticità coglibile indipendentemente da quella ierofania che lo istituisce come soggetto nell’orizzonte del Sacro. Il soggetto è irriducibile all’identità, l’apertura nella quale egli può fare esperienza del Sé, così come la sua identità, traggono origine ab alio, da quella ierofania di cui il tempio rappresenta la traccia. Il soggetto, nell’orizzonte del Sacro, non si auto-trascende, non perviene ad una dimensione ulteriore, più autentica, in virtù di una decisione anticipatrice ; egli è soggetto, dispone di un orizzonte, può fare esperienza del senso, in virtù di qualcosa che, come ierofania, eccede sempre costitutivamente le sue possibilità, la sua illusione trascendentale di pervenire ad una totalità : « il soggetto, si guardi come esistenza o come trascendimento (cioè, in termini, di maggiore consistenza ontologica), si guardi come ecstasi o come autoctisi, significa però sempre e da ultimo auto-trascendimento ». 1 Qui Olivetti definisce, per opposizione, quella che sarà la tesi dell’analogia subjecti, cioè la definizione di un individuo, di una coscienza, che si costituisce non in virtù di un auto-trascendimendo, di un’autoctisi, di un Vermögen di cui il soggetto è trascendentalmente (ma illusoriamente) depositario. La tesi fondamentale di Analogia del soggetto − secondo cui « non esiste un’essenza dell’essere umano », 2 secondo cui quest’essenza procede da Altro, da un altro che compie l’atto di analogazione indirizzandosi, rivelandosi all’individuo in statu nascendi − si lascia comprendere a partire dalla definizione dell’orizzonte del Sacro inaugurata ne Il tempio simbolo cosmico. Quell’Altro − pensato secondo la duplice reciproca dipendenza meta-teorica tra « pensare all’intersoggettività » e « pensare a Dio » − dischiude l’orizzonte della soggettività. Questo è il senso di quella ierofania che cosmizza, che dà luogo alla cosmopoiesi, sottraendo l’esistenza dell’umano all’indifferenza caotica delle partes extra partes, siano esse le porzioni dello spazio foronomico e del tempo sincronico, siano essi i soggetti monadici egologicamente indifferenti (ed irresponsabili) l’un l’altro.
1
Ibidem, p. 57. Marco Maria Olivetti, Analogia del soggetto, cit., Prefazione.
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DELLA MODERNITÀ E DEL PROBLEMA DELLA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE Giovanni Cogliandro
A
tt ribuire alla disciplina ‘filosofia della religione’ lo status di vero e proprio barometro di un mutamento epocale nella elaborazione filosofica è un atto di spessore e tale è stata la teorizzazione di Marco Maria Olivetti. Egli è stato soprattutto un filosofo della religione : come sovente accade era più noto all’estero che in Italia, dove ebbe una certa risonanza il suo fermo opporsi alla vague accademica che voleva imporre l’uniforme designazione della cattedra come filosofia delle religioni. E questo già consente di fissare una prima, significativa caratteristica del suo pensiero : se la filosofia della religione è un problema storico, ciò esalta la sua storicità e il suo essere intrinsecamente storia, quindi un antidoto naturale ai sussulti ideologici da cui è attraversata di tanto in tanto la paciosa, apparente quiete dell’accademia. È un piacere ma anche una sfida l’essere chiamati a esprimersi sul contributo alla filosofia che egli ha dato negli ultimi anni della sua feconda riflessione. Ci concentreremo in particolare sul testo intitolato appunto Filosofia della Religione, facendo alcuni riferimenti agli scritti compresi tra gli anni ’90 e il 2006, gli anni in cui tra l’altro chi scrive si è accostato alla filosofia tout court. Il problema ‘terminologico’ della religione è analizzato in queste pagine nel suo frammentarsi linguistico : già tra le lingue originanti del teologare cristiano religio non è la stessa cosa di eusebeia. Più recentemente il confronto con le spiritualità totalmente altre ci ha portato a comprendere come le religioni dell’India associno diversi significati alle parole Bhakti, Sruti, Dharma, tutte attinenti alla sfera della religiosità, termini che designano stati di cose che noi ricomprendiamo in intersezioni molto differenti. 1 All’interno del costituirsi della catholica cristiana, inoltre, è stata certamente imponente l’oscillazione tra i poli opposti della religio e della fides. E ancora : muovendo dall’interpretazione di Cristo come re, ci sono autori che hanno fatto derivare il vocabolario della stessa arte cristiana dall’immaginario propagandistico dell’impero. Tali approcci sono stati affrontati di recente dalla teoria dello scontro tra dei, 2 sullo sfondo cioè di un’epica pagana che non viene volutamente riutilizzata, ma alla quale, sin nelle absidi delle basiliche romaniche, si fa guerra in nome del Cristo, nuovo kosmokrator sacerdotale. Questa guerra tra immagini è una tra le tante declinazioni di un cambiamento di paradigma che nelle oscillazioni tra politica e religione ha caratterizzato la storia. Ed è un ulteriore filo di Arianna per ‘entrare’ nel pensiero di Olivetti, cercando nella sua teorizzazione della necessità di una ecclesiologia filosofica anche l’accenno di una risposta a questa tensione sempre irrisolta tra potere e sacralità. Le teorie sulla chiesa sono almeno tanto importanti che le filosofie dello stato, solo che la mediazione dello stato non può che essere un qualcosa da superare per ogni concezione della chiesa, che in quanto tale aspira in un sol colpo all’immediatezza e all’universalità. 3
1 Si veda quanto viene detto in M. M. Olivetti, Filosofia della Religione, in La Filosofia, diretta da Paolo Rossi, utet, Torino 1995, vol. ii, pp. 137-220 ; p 143. 2 T. F. Mathews, Scontro di Dei. Una reinterpretazione dell’arte paleocristiana, Milano, Jaca Book, 2005. 3 M. M. Olivetti, Filosofia della Religione, cit., pp. 180-183.
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Il filosofare e la scrittura di Olivetti sono densi, il suo approccio prismatico nel confrontarsi con i rappresentanti dei più diversi orientamenti e delle più antitetiche scuole di filosofia, dalla filosofia analitica alla fenomenologia, dall’etica della comunicazione alla teoria sociale. La sua comprensione del Cristianesimo era orientata verso la comprensione ecumenica ma certo non era irenica o ingenua, considerando anzi come pochi le più diverse sfumature della teologia nel suo sistematizzarsi. Veniva apprezzata la sua finezza e la sua capacità di dialogare con il pensiero di contemporanei lontani tra loro come Forte, Levinas, Habermas, Casper, Knuuttila, Verweyen, Ricoeur, Phillips e Swinburne, per menzionare solo alcuni tra i più noti filosofi e teologi degli ultimi decenni. Uno degli assunti fondamentali del pensiero di Olivetti è che la tradizione analitica e quella fenomenologica abbiano in comune il rigetto della tradizione metafisica ontologica e della teologia razionale, più in generale la rinuncia a pretese conoscitive circa l’oggetto teologico. La teologia rivelata, d’altra parte, veniva da lui considerata nella sua autonomia e radicale alterità nei confronti di quella teologia naturale che all’inizio era solo un sinonimo di quel problema storicamente intricato che è la filosofia della religione in quanto filosofia. Un ‘intricarsi’ delle discipline che è uno dei connotati dell’incompiuta modernità, probabilmente moderna proprio perché incompiuta e sempre in tensione verso il proprio superamento. Olivetti intende la filosofia della religione come una nuova concezione della tradizione teologica e per questo il compito preliminare diventa quello di tracciare appunto il confine fra la « teologia filosoficorazionale-naturale e quella rivelata ». 1 L’evento che lascia ‘sorgere’ la filosofia della religione è la messa in questione della metafisica. Questo evento viene indagato da Olivetti nel saggio che analizziamo con dovizia di particolari insoliti, collegando eventi socio-storici e mutamenti della visione del mondo. Da un certo momento storico in poi, la filosofia della religione si trova a costituirsi in un reciproco interscambio con la filosofia della storia. Non è un caso che a livello accademico sia solo nel diciannovesimo secolo che la filosofia della religione, sostituendo di fatto l’insegnamento della teologia naturale o razionale, cominciò ad essere insegnata. E non è un caso che sia stato proprio Hegel, cioè il filosofo che ha dato particolare rilevanza alla storia, il primo a tenere lezioni di Religionsphilosophie. Siamo al termine di un lungo percorso o, se si preferisce all’inizio di un percorso nuovo. Nell’epoca degli albori della chiesa, a motivo degli echi paganeggianti che poteva avere, al termine ‘teologia’ si preferì in un primo momento quello di ‘filosofia’. Sia per i Padri greci che per quelli latini la filosofia, più che lo studio era soprattutto l’amore della sapienza. Essi erano profondamente convinti che quest’ultima è sostanzialmente la sapienza che si rivela eminentemente e forse unicamente in Gesù Cristo e nei misteri che ha rivelato. Agostino definisce il cristianesimo vera philosophia, 2 dove per filosofia si intende appunto sapienza, vivere secondo una conoscenza emanata per grazia da Dio, ed eminentemente rappresentata in maniera definitiva nell’Incarnazione del Logos. Da allora in poi si iniziò a parlare di filosofia cristiana come dell’unica vera filosofia. Più avanti, il termine ‘teologia del Cristo’ (usato per primo da Esichio di Gerusalemme, presbitero della prima metà del quinto secolo) venne a indicare primariamente la parola di Dio, contemplata e proclamata. Non era attività scientifica, quanto piuttosto
1
Teologia filosofica e filosofia della religione. Una vicenda moderna, « Humanitas », vol. 59, 3, 2004, pp. 493-7. Confrontare quanto viene affermato inoltre in M. M. Olivetti, Filosofia della Religione, cit., p 145. Olivetti accenna a come questa tradizione di identificazione della vera filosofia con la vera religione continui fino a Scoto Eriugena. 2
della modernità e del problema della filosofia della religione 233 esprimeva quel desiderio di meglio conoscere e amare Dio che proviene dalla fede nella sua rivelazione. Si capisce allora perché philosophia e theologia siano spesso sinonimi di theoria, ossia di contemplazione. Fu successivamente la cosiddetta ‘età di mezzo’ ad interpretare questa esigenza nei termini più ristretti di una giustificazione filosofica della fede. Nella modernità si fa un passo ulteriore : la stessa esigenza coinvolge ora tutti quegli aspetti della realtà che non possono definirsi come metafisici (anche perché la metafisica viene posta in questione), a partire dalle relazioni tra le persone. Ed è proprio questo il passaggio storico-concettuale dalla teologia filosofica alla filosofia della religione : messa in crisi la conoscibilità filosofica di Dio, l’attenzione si sposta dalla considerazione dell’oggetto Dio all’attività umana che ha per oggetto lo stesso Dio. Con l’immediata ricaduta di una distinzione radicale tra religione in generale e fede rivelata in particolare : « il processo di distinzione tra religione e fides christiana nell’epoca moderna è anche interno al cristianesimo, e lo è non solo in funzione apologetica (che indubbiamente presuppone la polemica dell’avversante), ma anche in funzione irenica ». 1 Olivetti intende le espressioni ‘teologia filosofica’, ‘teologia razionale’ e ‘teologia naturale’ come equivalenti, per evidenziare la rottura in corso con la tradizione della teologia rivelata. Questa rottura è il primo simbolo della modernità filosofica.
Simboli della modernità La religione si rapporta alla cultura in maniera simile a come fanno arte e scienza. In questo l’approccio è eminentemente hegeliano, come hegeliana è forse per Olivetti la modernità tutta, nonché le sue crisi, nel rapporto di amore-odio che si è instaurato con il pensatore che meglio l’ha compresa : la modernità è esigenza di ordine e di dinamica di sistemi e sin dal suo albore si misura per questo con la Chiesa : la modernità ambisce alla atemporalità, che è il contrario di ogni tradizione. Uno dei segni caratteristici della modernità in quanto contemporaneità sono senza dubbio le cappelle interreligiose dell’Onu e dei grandi snodi di comunicazione. Olivetti, significativamente, ne ha trattato come di un esempio della sacralità dello spazio nella contemporaneità, una sacralità fugace e sempre di passaggio, situata in luoghi neutri come aeroporti e stazioni, non-luoghi come li definirebbe Marc Augè. Questo perché la caduta del témenos, del discrimine tra sacro e profano, e quindi la sacralizzazione dell’orbe è l’ambizione della modernità ipostatizzata nella contemporaneità. Ciò che la caratterizza è un ripetuto rapporto di sineddoche. E in questo senso si può parlare della cultura nella modernità, una cultura che si è appropriata in maniera sempre più pervasiva del simbolo : « la cultura infatti è per essenza simbolica, è in quanto tale evento e processo di simbolizzazione ». 2 Occorre tuttavia guardarsi dall’equivoco implicito appunto nella ipostatizzazione di questo processo, che muta in profondità la percezione che la soggettività ha di se stessa, nonché il significato della scienza : « anche la gnosi – scrive Olivetti – è un sapere specializzato, anche la qabbalah lo è, eppure né per questi, né per moltissimi altri esempi, che potrebbero essere addotti, potrebbe usarsi il termine di “scienza” ». 3 Si può forse riconoscere, a questo proposito, un filo di continuità fra Olivetti e il suo Maestro, Enrico Castelli. Quest’ultimo giunge infatti a immaginare in un suo testo 4
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M. M. Olivetti, Filosofia della Religione, cit., p 154. 3 Ivi, p 139. Ivi, p 149. E. Castelli, Introduzione alla vita delle parole, Milano 1938 (con lo pseudonimo di D. Reiter).
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le parole stesse come soggetti indipendenti che si parlano e si richiamano fra loro. E si può anche sviluppare ulteriormente questa suggestione cabbalistica, sulla scia per esempio dell’approccio su cui ritorna più volte Moshe Idel 1 continuando, e al tempo stesso superando, Gershom Scholem. C’è una genealogia potenzialmente feconda di implicazioni in ambito teologico cristiano, non solo come è noto nella modernità, ma anche in molto pensiero teologico e filosofico contemporaneo. La dottrina cabbalistica e gnostica di Isaac Luria è stata trasmessa nelle opere di Jakob Böhme e indirettamente ha ispirato il movimento pietista e le dottrine filosofiche dell’Idealismo. Prima di Böhme già Valentin Weigel, ma soprattutto Sebastian Frank, 2 autore particolarmente caro a Olivetti, fecero riferimenti plurimi a tematiche connesse ai paradossi e alla pulsazione della presenza di Dio : tali dottrine si rifanno chiaramente allo tsim-tsum, ai movimenti di contrazione e riappropriazione di Luria. Frank si rifà poi esplicitamente alla Turchia come esempio utopico (nella modernità dei non luoghi l’utopia è una metafora apprezzata) di vero regime religioso e imperial-secolare ed è il primo a credere in maniera convinta in una esperienza religiosa non mediata da una chiesa, nemmeno dalle comunità ecclesiali della riforma, nell’illuminazione divina diretta. Questa dottrina gli giunse tramite il fin troppo noto Eckhart 3 ma più ancora da Taulero e lo condusse a rifiutare anche le ideologie e la simpatia dei riformati, Lutero in testa. Del resto già Zwingli e Calvino erano tra i primi convinti assertori della invisibilità della vera Chiesa, altro tema che si ritrova in Frank. Gli accenni, i riferimenti, le evocazioni quasi 4 che si ritrovano fin nella prima opera organicamente dedicata da Olivetti alla filosofia della religione sono un indizio prezioso di una frequentazione che può essere assunta fra gli elementi non puramente di contorno del suo orizzonte di pensiero.
1 Da Idel prendiamo anche spunto per una metodologia inclusiva, che nello spirito di Olivetti potrebbe essere definita con parole simili, come un approccio panoramico, cioè capace : « to take into consideration as many possible sources as possible in order to better understand the emergence or the surfacing of themes that belongs to the constellation of ideas that describe … » M. Idel, Ben : Sonship and Jewish Mysticism, Continuun 2008, preface, p. ix. 2 Il già menzionato Sebastian Franck (1499-1542) fu un pensatore cui Olivetti dedica solo una menzione cursoria, ma che crediamo abbia influenzato non poco il suo approccio alla teologia fondamentale e non solo. Si vedano al riguardo George H. Williams, The Radical Reformation, Westminster Press, Philadelphia 1962 e il ben documentato Siegfried Wollgast, Der deutsche Pantheismus im 16. Jahrhundert, Deutscher Verlag der Wissenschaften, Berlin 1972. 3 Eckhart è ben noto per le sue teorie sul mistico fondo dell’anima, che sono state sfruttate per irenismi acrobatici da diversi autori tra i quali oggi ha particolare influenza Vannini. Dopo gli ultimi scritti di Zolla e la teologia fallimentare (in più sensi) di Quinzio un ulteriore contributo al tentativo di decristianizzazione della mistica viene da Vannini, lo studioso che più in Italia ha divulgato proprio Eckhart. Non si può non rimanere un po‘ perplessi quando nell‘ultimo suo libro egli classifica Giovanni della Croce tra i mistici solo ‘superficialmente’ cristiani, in realtà puramente platonici. Non è un caso che il suo ultimo La religione della ragione (Bruno Mondadori 2007) sia introdotto dalla ‘cristiana laica’ Roberta De Monticelli : come già si affermava in G. Mucci, Il pensiero di Marco Vannini, in La Civiltà Cattolica 2004 quaderno 3687, pp. 235-244, è chiaro che gli studi sulla mistica di questo autore e di altri che a lui si possono ricondurre sono intrisi dalla cultura contemporanea e condizionati dai presupposti filosofici della modernità. Sono ben lontani dall’offrire un contributo a un’autentica teologia cristiana della mistica : il mistico cristiano, come si può intuire leggendo le vite dei santi, è un credente che penetra con la sua esperienza l’oggettività della fede della Chiesa, una Chiesa accolta come mediatrice indispensabile e verificatrice di ogni intuizione, esperienza e carisma personale. La sofferta riflessione sulla comunità e sull’intersoggettività di Olivetti era un tentativo filosofico in tale direzione meno alla moda. 4 M. M. Olivetti, Filosofia della Religione, cit., p 182-183 in cui si connettono queste evocazioni al costituirsi della massoneria come naturale prosecuzione dello spirito protestante, nella pretesa che l’iniziazione a misteri umani, troppo umani sia un valido contrappeso alla divina fondazione della gerarchia tradizionale.
della modernità e del problema della filosofia della religione 235 E in questo orizzonte si possono ricollocare anche alcune possibili linee interpretative della frammentazione e parcellizzazione del sapere nella società contemporanea, intese come uno dei portati più rilevanti della secolarizzazione. Così come del già citato rapporto tra sacro e potere. Si è riflettuto sulla differenziazione funzionale della società come una delle caratteristiche peculiari di queste dinamiche, così come, fino all’ultimo imponente lavoro di Taylor, 1 sulle nuove forme del rapporto fra l’esperienza della fede e quella del suo rifiuto. Il fenomeno della secolarizzazione non ha cancellato la religione né l’ha rinchiusa (ancora) nel privato. L’era post-secolare vuole essere una definizione atta a includere l’insieme delle nuove problematiche sollevate dalle religioni che riconquistano lo spazio pubblico e secondo alcuni interpreti il post-secolarismo rompe gli equilibri delle religioni tradizionali spingendole nella direzione di quello che viene genericamente chiamato ‘fondamentalismo’, coinvolgendo la politica. Altri interpreti, invece, non vedono nel post-secolarismo particolari rielaborazioni del patrimonio religioso, ma soprattutto la crescente e riconosciuta influenza delle Chiese nella sfera pubblica su grandi temi etici. Le sorgenti di tali fiumi carsici sono tendenzialmente giuridiche e sociologiche, ma in ambito protestante sono da lungo tempo ben penetrate nella riflessione più propriamente teologica Gemeinschaft und Wechselwirkung Com’è noto la terza categoria di relazione della Critica della ragion pura è la Gemeinschaft. Kant, dopo aver ironizzato sugli sforzi leibniziani di costituire una monadologia intesa come un universo comunicante, deve porsi nuovamente il problema della intersoggettività. Non è un’ipotesi improbabile il considerare alla base di questo ripensamento la filosofia di Fichte, l’abbozzo di sistema del Versuch del 1792 in cui il problema della forma della rivelazione comunitaria veniva posto per la prima volta. Questa è una delle più feconde intuizioni di Olivetti, che tante volte ribadiva con il consueto garbo (e scuotendo le facili convinzioni dell’interlocutore) come nella filosofia si danno problemi nuovi. Dalla crisi della metafisica come sistema della scienza – come si è detto – si origina la filosofia della religione e tale filosofia è un problema storico, in quanto contribuisce a determinare la storia della filosofia della storia con la sua gemmazione dalla metafisica univocante, ridonando pienamente dignità all’analogia, che con buona pace della metafisica moderna (e di certa teologia) non è una dinamica desueta. Il problema della storia scardina la comprensione della filosofia della religione come tentativo di categorizzazione astorica, secondo la linea di una certa elaborazione del modello della religione naturale o razionale. Filosofia della religione come problema storico, che Olivetti pubblicò nel 1974, era il primo di due volumi dei quali il secondo mai vide la luce : ci piace pensare che il prisma tematico che se ne sprigionava abbia avuto i suoi barbagli e riflessi per un trentennio, arrivando fino agli ultimi scritti da lui dedicati al pensare eucaristico, alla compassione nella filosofia, al dono come categoria sorgiva del pensiero, alla analogia e alla etica anteriore alla metafisica. Olivetti cerca di offrire una diversa fondazione alla filosofia della storia : non sfuggono le analogie con le movenze del pensiero heideggeriano, ma
1 Queste tesi sono presentate nell’imponente opera di Ch. Taylor, A Secular Age, Harvard 2007. Questo volume pluripremiato è stato salutato come un approccio rivoluzionario all’intreccio quasi inestricabile dei problemi epocali connessi al fenomeno della secolarizzazione. Anche “Civiltà Cattolica” gli ha dedicato un articolo nel novembre 2008.
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si tratterebbe in ogni caso di uno Heidegger per così dire ribaltato, in cui l’anteriorità viene fatta propria come anelito – speranza piuttosto che ritorno – e attribuita dalla stessa metafisica a qualcosa d’altro da sé. La philosophia prima diventa l’eterna seconda, cioè non la morale (teologia o filosofia che sia il soggettivo cui tale aggettivo può essere riferito) ma l’etica, nel senso topologico di costume della modernità che si compie nel proprio oltrepassarsi del soggetto nell’alterità. Dalle aporie della intersoggettività a partire dal soggetto osservante, l’inversione di paradigma, la conversione sono necessari a partire dalla diagnosi del problema pratico-teoretico : « la separazione cartesiana tra res cogitans declinata alla prima persona e res extensa ha dato luogo a seri problemi, per non dire a vere e proprie aporie di comunicazione tra le singole e personali res cogitantes ». 1 Intersoggettività, storia, etica come filosofia anteriore. Sono le coordinate dell’originalissimo e a tratti decisamente audace tentativo di Olivetti di ripensare l’uomo muovendo dall’assenza di un’essenza, come si legge nella Prefazione di Analogia del soggetto, riprendendo fra l’altro e criticando (in un serrato dialogo con autori come Habermas, Apel, Luhmann) il tentativo di una fondazione sociale e comunicativa della razionalità e quindi dell’umanità dell’agente razionale : è la tesi dell’« impossibilità di avere un eidos della società », perché « la società rimane sempre e soltanto un orizzonte ». 2 Nella società viene storicizzata la civitas hominum che, sempre in virtù di una permanente seconda riserva escatologica, deve essere trasfigurata nella civitas Dei, un ordine cosmico sempre venturo 3 e mai presente in maniera compiuta. Questo tema verrà più volte ripreso nei suoi scritti, a significare il nuovo ruolo della filosofia della religione rispetto alle discipline ancillari della storia (dei concetti) e delle sociologie dopo la delocalizzazione della metafisica dalla sua primazia nella gerarchia dei saperi. 4 Può essere interessante sottolineare il lato per così dire ‘bioetico’ di questa riflessione. Un orizzonte più ampio della società è l’orizzonte della specie : la razza umana si costituisce come regno della possibilità dell’incarnazione del dovere, con movenze che sempre più costeggiano l’elaborazione di quel Fichte che tanto fu caro ad Olivetti, nel suo theorein originariamente improntato appunto alla Wechselwirkung. La specie umana deve essere preservata – e ne ha diritto – poiché tramite questo preservarsi sarà possibile il prolungarsi della mia responsabilità, un prolungarsi che avviene attraverso una alterazione, un’incarnazione del dovere in un’altra persona. Quindi la specie umana ha un diritto precipuo, che si pone al di là dei biodiritti, il diritto alla responsabilità per la responsabilità. 5 Il diritto in generale per Olivetti si trova in una relazione dialettica con l’anteriorità dell’etica, e con essa è lo speculare costitutivo della modernità, un ulteriore riprova del novum dei tempi a venire. Viene sovente utilizzata l’espressione di « comunità delle menti » per richiamare quella ricca famiglia di nomi attraverso i quali, dicendo la sua esigenza di universale, la filosofia moderna dice al tempo stesso il suo limite : l’assemblage de tous les esprits di Leibniz, il Geisterreich schilleriano oltre che hegeliano, la société spirituelle di Laberthon
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M. M. Olivetti, La comunità delle menti come problema della filosofia moderna, in Per una storia del concetto di mente, a cura di Eugenio Canone, Firenze, Olschki, 2005, pp. 343-362, p. 345. 2 Analogia del soggetto, p. 37. 3 Olam ha-tikkun, mondo della restaurazione contrapposto al caos delle origini. Così lo definirebbe Isaac Luria. Si veda al riguardo G. Scholem, La Cabala, Edizioni Mediterranee 1992, p 429 sgg. 4 Un testo che ha senza dubbio ispirato Olivetti in quest’analisi è quello di E. Gilson, Les métamorphoses de la cité de Dieu, Louvain-Paris 1952. 5 Si veda al riguardo il saggio : M. M. Olivetti, Responsibility for Responsibility, in «Perspektiven der Philosophie», xxiv, 1998, pp. 345-355, in particolare le pp. 353-355.
della modernità e del problema della filosofia della religione 237 nière, fino alla monadologische Intersubjektivität husserliana. Ed è ancora in Kant che si assiste all’infrangersi del « culmine » della ragione nelle tante figure, nei tanti intervalli delle sue discontinuità : tra mondo naturale e morale, tra fenomeno e noumeno, tra certezza (conoscitiva e/o morale) e fede-speranza di ragione. Kant è in effetti lo snodo fondamentale di questo percorso. Avere una metafisica, cioè « un sistema di conoscenze a priori basato su semplici concetti », è un dovere anche quando l’oggetto non è la natura come mondo dei fenomeni, ma quella « natura particolare dell’uomo » che è la libertà. Tale sistema costituisce un diritto appunto di natura (Naturrecht), in quanto fondato « esclusivamente su principi a priori ». 1 La crisi della metafisica fa emergere la filosofia della religione : la crisi della filosofia della religione contemporanea rimonta comunque alla crisi della metafisica che rende manifesta la nozione stessa di filosofia della religione. Olivetti può problematizzare questo intreccio di problemi partendo dal non darsi dell’essenza dell’uomo, come esistenza predicativa. Ma proprio questa si rivela una difesa strenua dell’umanità dell’uomo.
Paradoxa La paradossalità è il retroterra speculativo e stilistico del pensiero olivettiano e questo per una scelta stilistica ben determinata, che coscientemente affonda le proprie radici nel solco della riforma protestante, osservata nel dispiegarsi delle sue varie declinazioni storiche. La forma della Chiesa, la sua natura ancipite di casta et meretrix, raggiunge una delle codificazioni più estreme e paradossali proprio in questo periodo : « Da Zwingli (che, secondo Ritschl, sarebbe stato il primo ad usare l’espressione “chiesa invisibile”) a Calvino (per il quale però la visibilità è condizione necessaria, seppur non sufficiente, di appartenenza all’invisibilità della chiesa) a Sebastian Frank (per il quale bisogna sempre intendere il contrario, il paradoxon, di ciò che si vede : Paradoxa 2 è il titolo di una sua opera del 1534 3), il tema della “chiesa invisibile” percorre e scuote l’Europa cristiana ». 4 Le due chiese sono esplicitamente contrapposte nel volume del 1974 : « Naturalmente gli invisibili eletti sono pochi rispetto ai molti pubblicamente chiamati e la ecclesia electorum ha dimensioni minori rispetto alla ecclesia vocatorum ; questo aristocratismo sembra dunque confliggere con l’universalità che, “paradossalmente”, dovrebbe competere alla chiesa di minori dimensioni. La filosofia della storia si farà carico di risolvere questo problema, recuperando la visibilità e redimendo la carne ». 5 E proprio il fatto che questo recupero e questa redenzione si diano nella forma di una esigenza etica mai soddisfatta (da Kant a Lauth a Pareyson è sempre problematico il tu devi, dunque puoi) costituisce, in maniera raffinata e ancora da esplorare, una delle nervature più interessanti del pensiero di Olivetti : « Ma allora si può capire perché la filosofia della religione, nata dalla crisi della metafisica ontologica, si sia inizialmente configurata come una teoria filosofica della società, e anche perché questa originaria configurazione abbia potuto successivamente essere dimenticata ». 6 La metafisica della libertà viene abbandonata per l’analisi della dinamica del dono come spiazzamento e debito originario. Così
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I. Kant, Metafisica dei costumi, Bompiani, Milano 2006, pp. 33 e 77. S. Frank, Paradoxa, E. Diederichs, Jena 1909. 3 Non è un caso a nostro parere che una rivista nata in Italia da poco tempo e animata da amici e da alcuni allievi di Olivetti porti questo nome. 4 5 M. M. Olivetti, Filosofia della Religione, cit., p 182. Ivi, p. 183. 6 M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 229. 2
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come, per altri versi, per l’analisi ancora una volta straordinariamente originale del tema dell’inversione trascendentale quale nuova ‘fondazione’ appunto della libertà. Olivetti non è stato il solo a tentare un percorso di questo tipo. Si pensi al modo in cui un autore come Cacciari reinterpreta il pensiero della legge a partire proprio da Levinas : « La stessa etica di Levinas si fonda sull’atto che pone l’altro da sé : soltanto il ritiro dell’infinito dà-luogo al mondo come mondo della libertà e della responsabilità, integralmente affidato al nostro “lavoro” di riunione e restaurazione ». 1 Si pensi al modo in cui è stata rivisitata l’inquietudine post-schellinghiana nello spazio aperto dall’avvento della libertà intesa come fondamento senza fondamento, fino a Pareyson e da ultimo allo stesso Cacciari e Coda. La maggior sobrietà della elaborazione trascendentale di Fichte e la centralità nella sua filosofia dell’istanza etica sono invece il punto di riferimento scelto da Olivetti : l’altro nella filosofia di Fichte non può mai essere ridotto al medesimo poiché il medesimo necessita di un altro per poter giungere a se stesso. In tal maniera ci si può solo avvicinare all’idea attraverso un infinito cammino di approssimazione. L’alternativa, in questa prospettiva, tra Fichte e Levinas è stata indagata in alcune delle pagine più complesse di Analogia del soggetto. 2 Rimane però l’impressione dell’aria di famiglia che si ritrova tra l’approccio olivettiano all’inversione originaria e la sistematica della filosofia trascendentale in Italia, almeno nella sua versione più raffinata : « voglio perché devo, ma devo perché (cor)rispondo a una richiesta che si pone da sé in me. L’io è così destituito dal suo pretendersi centro, o meglio è collocato nella sua giusta condizione, d’essere risposta (…) : questa è l’inversione trascendentale ». 3 Nel rovesciamento della soggettività in soggezione (il soggetto non è originariamente pensiero ; il soggetto non è originariamente il nominativo grammaticale, ma irrimediabilmente si comprende come l’accusativo) si realizza la neutralizzazione « di ogni “stanza” della pretesa sostanza ». 4 Da qui muove la differenza olivettiana tra cio che è primo e « l’anteriore ». Ciò che sta sotto è anche ciò che non può rappresentare il primum, il fondamento non può venir prima ma è sempre posteriorità. 5 In ogni caso il processo di avvicinamento infinito non credo debba venir inteso alla maniera illuministica, alla Lessing per intenderci. Sovviene una rappresentazione molto in uso nelle cattedrali gotiche di Francia, il cui esempio più celebre si ha a Chartres : il labirinto cristiano è posto nel pronao dello spazio sacro ed è comunque sempre al centro dell’asse del mondo sacro delimitato dallo spazio di questi templi del nord, i cui costruttori rivendicavano la primogenitura davidica tra le comunità cristiane. Proprio quando si crede di essere più vicini, è allora che ci si allontana dalla meta, ma nelle volute e nei ritorni del labirinto si gira intorno al centro, alla meta che è anche infinitamente vicina. Questo vagare viene
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M. Cacciari, Icone della legge, Adelphi 2002 (4. ed.), pp. 17-18. M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., pp. 73-92. 3 M. Ivaldo, Un cammino nella filosofia trascendentale, prima pubblicazione in giornaledifilosofia.net, 4 M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., p. 75. 2008, p 14. 5 Sembra di ritrovare la trasposizione in filosofia di una visione della trinità propria di una teologia ispirata dai Padri, quale quella delineata da von Balthasar : « La teologia cristiana è rimasta irremovibilmente ferma all‘idea che il Dio che si rivela in Gesù Cristo sussiste in sé stesso come eterno essere o essenza, cosa che è alla pari un eterno divenire (non dunque temporale) e all‘ idea che non è possibile prescindere mai neanche per un attimo dalla considerazione ontologica di questo eterno divenire. Anzi, vista la cosa a partire della Nuova Alleanza, si dovrà dire che la rivelazione di Dio attuatasi in Gesù Cristo è una rivelazione primariamente trinitaria – Gesù non parla di Dio in generale ma ci mostra il Padre e ci dona lo Spirito Santo – e che noi ci dobbiamo fare un‘immagine circa l‘“essere” e l‘“essenza” di Dio dal rapporto trinitario di Gesù con Dio. Tale rapporto si manifesta nella storia in divenire di Gesù come un eterno divenire » (H. U. von Balthasar, TeoDrammatica, vol. v, L’Ultimo Atto, Jaca Book, Milano, 1995, p. 58. 2
della modernità e del problema della filosofia della religione 239 esorcizzato nella modernità dalla costituita ontologia, che però non può che ricadere nelle aporie che verranno messe in luce dalla tradizione trascendentale, in questo recupero della fides qua creditur (cioè del fondamento delle cose credute) già intuita (in senso tecnico) dai Padri della chiesa. Tempio e persona Torniamo, in conclusione, alla filosofia della religione e al suo valore paradigmatico per la moderna autocomprensione della soggettività e per passaggi cruciali come quello del rapporto fra il sacro e la politica. Alexis de Tocqueville pubblicava nel 1835 il celebre La democrazia in America : questo è il primo libro in cui si contesta la tesi che i processi di modernizzazione e di nascita di nuove democrazie generino inevitabilmente secolarizzazione. Egli fece notare che in America le cose andavano precisamente al contrario : più il paese si modernizzava e si democratizzava, più la gente tendeva a varcare, direbbe Olivetti, i confini del tempio. 1 Ciò che eccede il logos viene comunque ancora oggi delimitato in uno spazio sacro, in attesa di venire santificato o rigettato come espiazione, in un tentativo fondativo proprio di ogni comunità umana : « Se nel logos limite e centro si convertono l’uno nell’altro, nulla di meno o di diverso vale nel caso del sacro : il “tempio”, il temenos che separa il “sacro” dal “profano” (etimologicamente, ciò che è dinanzi al tempio), è anche axis mundi e simbolo cosmico ». 2 Queste analisi riprendono le osservazioni formulate nel primo libro di Olivetti e dedicato appunto al tempio. Non è fuori luogo il comparare l’analisi della spazialità compiuta in questo primo saggio con le analisi compiute di H. Corbin presso tre seminari del gruppo junghiano di Eranos ad Ascona in Svizzera negli anni 60-’70. 3 Per certi aspetti sono due testi complementari in quanto la spazialità analizzata filosoficamente da Olivetti si coniuga con l’approfondita analisi delle dinamiche mistiche collettive in Corbin, e soprattutto entrambi collocano le inversioni analogiche connesse alla corporeità come momenti centrali dell’autocomprensione del soggetto (mistico o meno che esso sia). Olivetti contesta negli ultimi anni della sua scrittura filosofica il primato dell’essere e della cosa, a favore dell’interrogazione radicale sul ‘chi ?’, sulla persona. È questo un tema centrale della metafisica sul crinale della nascente modernità ed è al centro del pensiero, tra gli altri, di Duns Scoto. In un testo dell’Ordinatio, non ancora disponibile in edizione critica, Duns Scoto sintetizza tutto il suo cammino speculativo intorno alle caratteristiche metafisiche della persona con l’ermetica espressione : « Ad personalitatem requiritur ultima solitudo, sive negatio dependentiae actualis et aptitudinalis ». 4 L’ultima solitudine della persona diventerà, nella speculazione della crisi, cioè con il sorgere del pensiero critico, la motivazione all’apertura alla comunità come oggetto del pensiero. Tra gli eredi della posizione di Duns Scoto annoveriamo, probabilmente incoscienti di ciò, vari esponenti della filosofia analitica, attentamente osservati da Olivetti con l’intento di dar conto della sua proposta teorica. Una conseguenza di questo suo intento è l’opposizione a chi, come Strawson e i suoi ideali discendenti propone una «metafisica descrittiva» che si ammanta di modestia e quindi di antiubertosa e
1 M. M. Olivetti, Il tempio simbolo cosmico : La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Abete, Roma 1967. 2 M. M. Olivetti, Filosofia della Religione, cit., p 204. 3 Poi confluiti nell’affascinante H. Corbin, L’immagine del tempio, Torino 1983. Corbin, allievo di Gilson, 4 Ordinatio iii, d. 2, q. 1, n. 17. fu tra i primi interpreti di Heidegger in Francia.
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anticontinentale rigore in quanto economica. 1 Viene enucleato negli ultimi scritti il filo conduttore della grammatica, certo con alcune movenze newmaniane : una grammatica dell’interrogazione etica anteriore e però ancipite rispetto alla primarietà della risposta al comandamento primo dell’amore, quindi una grammatica che diviene costitutiva dell’etica anteriore, un nuovo ethos del pensiero pratico-teoretico : « la persona è prima dell’essere. La tesi potrebbe essere formulata anche così : la persona è al di là dell’essere (epekeina tes ousias) ; o, forse meglio, potrebbe essere formulata così : la persona è già prima dell’essere, la persona è anche prima dell’essere ». 2 Uno dei luoghi del confronto linguistico olivettiano è stato certo il problema della definizione politica dell’alterità e della terzietà. Olivetti spiega efficacemente 3 come il problema delle guerre di religione sia un problema intracristiano. Il suo pensiero sembra al riguardo storico-genetico, quasi volesse assumere le movenze proprie della storia concettuale sviluppata da Koselleck : « pertanto, sarà bene reinscrivere decisamente le considerazioni sulla tolleranza nella vicenda storica che ne ha prodotto l’idea. E questa vicenda è in tutto e per tutto una vicenda che riguarda la storia del cristianesimo ». 4 Polemos nella modernità agisce all’interno del cristianesimo, nelle due forme di guerra guerreggiata e di guerra come tenzone continua teologico-filosofica, una tenzone che sembra senza esiti, muovendo dall’agostinismo nelle sue varie declinazioni nazionali (e nelle sue diverse ondate misticheggianti) che si scontrano per il tramite della Riforma contro la filosofia aristotelica e il monismo teologico istituzionale della chiesa di Roma. Questo viene esemplificato in maniera eminente con le dispute teologiche della Riforma. Si pensi a quelle del 1518 (presente il già citato Sebastian Frank) tra i due sommi teologi del suo tempo, Caietano e Lutero, oppure le controversie sulla agostiniana teoria della chiesa come corpus permixtum, che Lutero scioglie con una certa sicurezza nelle ben note due contrapposte entità : chiesa visibile e chiesa invisibile, due ordini tra loro separati, in mente Lutheri almeno. 5 Olivetti ne era molto colpito e vi ritornava in varie occasioni. Del resto, come abbiamo visto, è proprio quello della chiesa invisibile uno dei temi dominanti di una fra le opere da lui più studiate e, probabilmente, più amate : la Religione di Kant. In questo testo drammatico viene narrata la lotta del principio cattivo contro il buono nella storia degli uomini sin dalla fondazione del mondo. Kant ha in questo l’estrema drammatica serietà di chi vuole pensare il male e la speranza di sconfiggerlo e di instaurare il regnum Dei sulla terra senza finire nei lacci del fanatismo. La novità di allora è ancora oggi la perenne tensione verso la storicizzazione sempre incompiuta dell’evento drammatico di Dio che, come ci è stato chiaramente mostrato anche dalla storia delle umane infedeltà, si mostrerà « senza apparenza né bellezza ». 6
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Si veda quanto viene affermato in M. M. Olivetti, Intersoggettività e religione, in F. S. Trincia e S. Ban2 Ivi, p. 21. calari (ed.), Perspectives sur le sujet, olms, 2007, pp. 21-29. 3 M. M. Olivetti, Filosofia della Religione, cit., pp. 153-55. 4 Idem, Fondamentalismo, tolleranza in ambito religioso, libertà, in “Iustitia”, 52, 1999, n.2, pp. 135-162, p 148. Si veda anche la nota a p. 143. 5 Idem, Filosofia della Religione, cit., p. 182. 6 Ringrazio Marco Ivaldo, Lorenzo Marras e Alessandra Tirelli che con le loro osservazioni critiche e i loro suggerimenti mi hanno molto aiutato a pensare e ripensare questo testo.
PROFILO DI UN FILOSOFO CREDENTE Filippo Morlacchi 1. Fede, teologia e filosofia nell’università
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a temperie culturale di oggi sembra più disposta di qualche decennio fa a riconoscere il peso determinante svolto dal confronto serrato e sistematico tra la filosofia, anche quella apparentemente più ‘laica’, e le discipline teologiche – per l’Occidente, in concreto, con la fede cristiana e le strutture di pensiero da essa generate. Lo studio attento dei testi mette in chiaro che non si tratta di una rivendicazione ideologica per rintracciare più o meno remote risonanze di radici ebraico-cristiane nel pensiero europeo : piuttosto, senza una conoscenza adeguata di alcuni presupposti teologici è semplicemente impossibile una ricostruzione adeguata della filosofia occidentale. 1 Voler descrivere quindi i rapporti intrattenuti con la teologia da parte di un filosofo della religione e – a maggior ragione – da un filosofo della religione che ha studiato a fondo la storia del pensiero filosofico e teologico, quale Marco Maria Olivetti certamente era, non dovrebbe sollevare obiezioni. Tuttavia una ricognizione superficiale dei suoi scritti potrebbe lasciare alquanto delusi : in essi, infatti, i riferimenti alla teologia sono relativamente esigui. Se poi si considera che nella quasi totalità dei contesti in cui il termine ‘teologia’ è presente, esso esprime non tanto la declinazione dogmatico-dottrinale della disciplina, quanto piuttosto la sua forma ‘filosofica’, o ‘naturale’, o ‘razionale’ (come viene definita a seconda dei diversi contesti storico-geografici) la delusione potrebbe diventare ancor più profonda. Tuttavia, come cercherò di mostrare, le cose stanno così solo apparentemente. Non solo, come è ovvio per ogni filosofo della religione, il dialogo con la tradizione di pensiero scaturita dalla fede cristiana è strutturale e sistematico in ogni sua pagina ; ma si tratta di un dialogo che ha investito radicalmente tutte le dimensioni della sua persona, affiorando a tratti – sempre velato da una riservatezza ben nota a chi lo ha conosciuto e frequentato – con una esemplarità che vorrei definire ‘testimoniale’. Per questo desidero prendere le mosse da un intervento piuttosto singolare, di natura accentuatamente autobiografica, nel quale Olivetti riflette, o piuttosto medita, « circa la compatibilità della professione di filosofo con la professione di fede cristiana ». 2
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Solo a titolo di esempio, e su un caso particolarmente evidente, si veda il recente Aniceto Molinaro (curatore), Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’Epistolario paolino, Roma, Urbaniana University Press, 2008. 2 Circa la compatibilità della professione di filosofo con la professione di fede cristiana, in L. Leuzzi (curatore), Ragione filosofica e fede cristiana, Messina, Rubbettino, 1996, pp. 65-72. In relazione alla qualità autobiografica dello scritto, è ben vero che alcuni accenni alla vita personale sono rintracciabili anche altrove, a volte esplicitamente (cfr ad es. Die Ernährung des Anderen. Vorüberlegungen zu einem dankenden – „eucharistischen“ – Denken, in Klaus Kienzler, Joseph Reiter, Ludwig Wenzler (curatori), Das Heilige im Denken. Ansätze und Konturen einer Philosophie der Religion, zu Ehren von Bernhard Casper, Münster, lit, 2005, pp. 147-158 : 148, ove dichiara amichevolmente il suo debito di amicizia e di pensiero nei confronti di B. Casper), altre volte implicitamente (si pensi alle pagine dedicate al rapporto tra infante e adulto in Analogia del soggetto, RomaBari, Laterza, 1992, in cui la fenomenologia e l’autobiografia sembrano affiancarsi coestensivamente). Ma
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In queste poche pagine, vergate in una prosa insolitamente lineare rispetto alla consueta complessità del suo argomentare, egli ricorda la situazione di oggettiva difficoltà a dichiararsi credente, e credente cattolico, nell’ambiente universitario romano degli anni Sessanta. Erano anni nei quali gli studenti de « La Sapienza » erano posti dinanzi ad « una alternativa assoluta tra filosofia e cristianesimo, sia sul piano teorico, sia sul piano dei fatti, ossia delle istituzioni e delle persone che in esse svolgevano il loro ruolo ». 1 E questo aut aut, nonostante ciò risultasse inevitabilmente penalizzante per uno studente che si professava cattolico, egli allora lo considerava giusto, per il seguente motivo : il ‘laico’ – le virgolette sono intenzionali – può sempre rivedere le proprie posizioni qualora gli argomenti addotti da chi non la pensa come lui gli sembrino validi, mentre il credente che accettasse questa logica si esporrebbe colpevolmente a rinnegare le proprie convinzioni, cioè all’apostasia. Ecco allora la singolare prossimità instauratasi con « l’insegnamento di Enrico Castelli, teorico dello status naturae lapsae » ; 2 ecco la lettura del Ricoeur della Symbolique du mal e dello Šestov di Atene e Gerusalemme : in quelle pagine dedicate al ‘guasto’ originario dell’uomo e alla definizione problematica dei rapporti tra sapienza umana e fede divina, si esprimeva quella Stimmung che, in fondo, sembrava differire solo di grado e non di genere dall’insegnamento heideggeriano secondo cui una filosofia cristiana non sarebbe altro che un eisernes Holz e un malinteso. 3 Tale concezione ‘laica’ della filosofia certamente non va ascritta tout court ai filosofi ricordati, ma piuttosto ad una mentalità atmosfericamente diffusa ; e tuttavia corrispondeva ad una comprensione della ricerca filosofica che Olivetti definisce – col senno di poi – insieme ‘cognitivistica’ e ‘volontaristica’. Ingenuamente convinta, cioè, che se uno vuole rivedere le proprie posizioni, abbandonando il personale punto di vista e i presupposti, può arrivare a conoscere la verità. Il ‘peccato originale’ del pensiero cristiano sarebbe dunque la pregiudiziale irrinunciabilità del proprio Standpunkt. Ora, soggiunge Olivetti, a distanza cioè di qualche decennio da quella stagione, l’idea di « non avere punto di vista o di poterlo eventualmente abbandonare in favore di una visione senza punto di vista non è più un assunto tanto diffuso ». 4 E prosegue :
Da questo punto di vista (appunto !) l’alternativa fra orientamento ‘laico’ e orientamento religioso (nel senso di legato ad una religione positiva) sfuma e diviene incerta. Certo, la volontà di non abbandonare la propria fede può essere chiamata ancora ‘fanatismo’ dai nipotini dell’illuminismo, ma i veri eredi dell’illuminismo, i veri non-fanatici, sono coloro che fanno i conti con l’essenzialità del punto di vista al fine di vedere. 5
Dunque la compatibilità della professione di filosofo con la professione di fede cristiana è maggiore di quanto potesse sembrare a prima vista. Certo, è pur vero che il credente, rispetto al laico, aderisce ad una dottrina (cioè un punto di vista sul Tutto) che non è disposto ad abbandonare ; ma ciò che può e deve essere abbandonato è soprattutto una comprensione parziale della dottrina, posto che sia il credente che il ‘laico’ si trovano davanti ad un corpus di dottrine – la fides quae creditur – sempre a partire da un punto di vista parziale, suscettibile di migliore interpretazione e comprensione. Altro è l’Assoluto o il ‘Tu’ cui la fede ritiene di potersi fiduciosamente indirizzare, altro la formaliz
sul tema della personale Einstellung nei confronti della fede questo saggio rimane – a mia conoscenza – un unicum nella produzione olivettiana. 1 2 Ivi, p. 65. Ivi, p. 67. 3 La Einführung in die Metaphysik, pubblicata nel 1966, risale al 1935. 4 5 Circa la compatibilità…, cit., 70. Ibidem.
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zazione dottrinale (ed eventualmente l’interpretazione teologica) che intende definire i rapporti dell’uomo con questo Assoluto o ‘Tu’. 1 In altre parole, il contenuto della fede esige una « continua metanoia per comprenderlo, incarnarlo, farlo vivere, e non falsarlo, ovvero ucciderlo ». 2 In questo senso, la volontà del credente di perseverare nella fede, interpretandola e descrivendola in modo sempre più adeguato per liberarla dalla schiavitù della « lettera che uccide » (cfr 2 Cor 3,6), e la disposizione del ‘laico’ a modificare la propria posizione, in cerca di una conoscenza più corretta, esprimono fondamentalmente la stessa ricerca della verità ; a patto, però, che si superi il verbalismo ideologico e si cerchi con sincerità la sostanza delle cose. Il compito ‘critico’ della filosofia – e della filosofia della religione in particolare – valorizza e sostiene quindi il sincero anelito alla verità della fede :
si tratta di convertire se stessi, di metanoein e di morire a se stessi, mettendo fidentemente in gioco il proprio universo di significati. Fidentemente vale a dire con fede : la fede che non si affonderà se si ardisce avventurarsi sulle acque (in questo caso della ricerca scientifica), mentre proprio non avventurarsi è segno di poca fede ; la fede che chi vuol salvare la propria vita (in questo caso scientifica, filosofica, istituzionale) la perderà, mentre si salverà chi accetterà di perderla ; la fede che mettere in gioco il proprio universo di significati, misurandosi con le istanze critiche (filologiche, scientifiche, filosofiche) del proprio tempo, autentica la fede e la depura dagli aspetti idolatrici. Grazie a questa metanoia […] sempre da rinnovare nel continuo confronto con lo stato del sapere (la scienza vive, la filosofia vive, grazie a Dio !), la fede del filosofo credente è viva ed egli ne coglie, in quanto filosofo, dal punto di vista del filosofo, il vero significato, ossia l’inesauribile significato di verità. 3
Così si chiude questo singolare saggio, nel quali i tratti autobiografici dichiarati in apertura si allargano a conclusioni di respiro universale, senza minimamente perdere il riferimento all’esperienza personale. Nonostante il contesto in cui queste riflessioni sono venute alla luce fosse particolarmente vicino agli ambienti ecclesiali (l’intervento fu pronunciato al colloquio accademico Filosofia e cristianesimo. Dialogo nella realtà universitaria romana promosso dal Vicariato di Roma e tenutosi il 20 maggio 1995 nell’università luiss), Olivetti in queste righe allude chiaramente più volte al vangelo (cfr Mc 1,15 ; Mt 14,28ss ; Lc 9,24), e tuttavia non lo cita direttamente. La prospettiva evangelica, che intreccia la dimensione fiduciale della fede (fides qua creditur) con la disponibilità oblativa al sacrificio della propria comprensione della dottrina (fides quae creditur), è apertamente dichiarata e ci sembra riassumere esemplarmente il rapporto teorizzato e vissuto da Olivetti con la teologia. Si tratta di una adesione di fede tanto personale e radicale quanto custodita gelosamente e mai ostentata. Si sarebbe tentati di dire : una fede generosa e audace nella dimensione fiduciale, ma timida fino alla ritrosia nell’espressione catafatica.
2. Teologia e filosofia come problema storico Quanto finora espresso merita un approfondimento ed alcune esemplificazioni. Innanzi tutto, ci si deve chiedere se anche la teologia (intesa come costruzione razionale di un sapere religioso) e non solo la fede sia stata partner costante delle riflessioni filosofiche di Olivetti. Il presupposto che le relativamente poche occorrenze del termine ‘teolo1 « Actus autem [fidei] credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem [enuntiatam] » (Th. Aquinas, Summa theologiae, ii-ii, q. 1, a. 2, ad 2). 2 3 Circa la compatibilità…, cit., 70. Ivi, 71.
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gia’, rispetto alla grande attenzione rivolta a tematiche e autori di schietta ( ?) matrice filosofica, o persino a indagini di natura sociologica o linguistica, sia da considerare la punta di un iceberg ben più massiccio, deve essere verificato. Per far questo, è inevitabile rimandare alla lettura diretta degli scritti. Il disappunto, già accennato, nel trovare relativamente pochi riferimenti a questa tematica può essere superato grazie ad alcune riflessioni dello stesso Olivetti. Nel volume dedicato alla ricostruzione della genesi e dello sviluppo della filosofia della religione in epoca romantica e idealistica, egli ad un certo punto si sofferma a giustificare la cospicua attenzione rivolta a F. W. J. Schelling. Tale studio analitico, spiega, è motivato non tanto dal fatto che l’espressione « religione assoluta » si presenta per la prima volta nei suoi scritti, quanto piuttosto dal fatto che il suo pensiero è nell’insieme altamente rappresentativo di questa stagione. 1 Un’applicazione meccanica di criteri lessicografici – peraltro filologicamente imprescindibili – nello studio dei concetti rischierebbe di far supporre che un determinato tema o problema appaia quasi magicamente là ove ricorre un determinato termine, e – il che è ancora più grave – che invece non sia presente laddove il termine corrispettivo non figuri. Al contrario, così come è impossibile compilare un buon indice analitico di un volume affidandosi meccanicamente alla ricerca quantitativa delle occorrenze 2 – per fare un esempio forse banale, ma spero chiarificante –, altrettanto non è sufficiente registrare dove e come compare il termine ‘teologia’ nella produzione di Olivetti per comprenderne la reale incidenza. Del resto, con un tratto di autoidentificazione che risulta plausibile forse solo a chi sa per esperienza quanta attenzione e dedizione Olivetti abbia dedicato al ‘suo’ Kant, anche a proposito del filosofo di Königsberg egli ritenne di poter attribuire un’analoga presenza silente della teologia. 3
1 « Ci pare infatti che in una indagine del tipo di quella che vogliamo svolgere vada evitato, per quanto possibile, un pericolo sempre presente in quella che, sulla scorta del termine tedesco Begriffsgeschichte, potremmo chiamare “storia dei concetti” : non tanto il pericolo di vedere lo stesso problema, là dove c’è la stessa parola o espressione indagata, quanto di non vederlo laddove questa non ricorre. Sembra evidente che, se il criterio di assumere come punto di riferimento qualificante l’emergere di una particolare parola o espressione risponde alla seria esigenza di controllo empirico di un discorso storicamente impostato, una malaccorta utilizzazione di questo criterio in un discorso di ampio respiro, che coinvolge tutta una vicenda di civiltà, corre il rischio di far smarrire le connessione sotterranee e l’intera humus dalla quale un determinato problema nasce, dando luogo alla stessa parola o alla stessa espressione che storicamente lo designa. La storia dei concetti, nata proprio sulla base di una istanza empirica che consenta di scorgere l’evolversi del problema sotto il permanere della parola, evitando, come sul dirsi, di prendere lucciole per lanterne, può dunque sortire l’effetto esattamente contrario, dando luogo ad una forma di miope positivismo, qualora tralasci le cose a favore delle parole, dimenticando che queste sono solo uno dei mezzi, e non l’unico mezzo di controllo della concreta storicità di quelle ». Filosofia della religione come problema storico. Romanticismo e idealismo romantico, Padova, Cedam, 1974, p. 92. Analoghe considerazioni, più sintetiche, in Filosofia della religione, in Paolo Rossi (curatore), La filosofia, Torino, utet, 1995, vol. I, pp. 137-220 : 184. 2 In indici siffatti, che grazie alla diffusione dell’informatica è possibile incontrare sempre più di frequente, può capitare di trovare riferimenti puramente materiali (ossia brani in cui il termine in questione occorre in maniera puramente incidentale, o con altro significato), oppure – e più di frequente – di veder trascurati contesti nei quali il termine non compare materialmente, ma la riflessione verte esattamente sull’oggetto in questione. Per ovviare a questi problemi sono in fase di elaborazione sistemi di ricerca semantici ; ma la complessità dell’operazione fa prevedere tempi relativamente lunghi. 3 « La mancanza di rinvii espliciti, dunque, non esclude che la dottrina cristiana, tanto nella sua forma teologica, quanto nella sua forma divulgativa e catechetica, quanto, infine, come diffuso patrimonio teorico divenuto fatto generalizzato e universalmente condizionante per la cultura occidentale, sia tenuta presente da Kant » : Introduzione a I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. xxiv.
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Per non allontanarci da questo riferimento kantiano, potremmo considerare ‘trascendentale’ l’approccio di Olivetti a ciò che tutti chiamano ‘Dio’ : il Santo viene piuttosto alluso che direttamente tematizzato, è indicato come orizzonte e non come oggetto, è inteso in termini di « assenza come forma della presenza ». 1 In tal senso, l’eccezionale padronanza e conoscenza dell’intera vicenda storico-filosofica della cultura occidentale che tutti gli riconoscono non poteva permettergli di cadere in errori grossolani di tipo, diciamo così, onto-teologico. Rimane allora uno spazio per un pensiero teologico di Olivetti ? O meglio : esiste, in concreto, un pensiero teologico di Olivetti ? In prima approssimazione, vorrei rispondere : sì, nella misura in cui ogni pensare ‘speculativo’ è un pensare ‘teologico’. Una delle maggiori fatiche intellettuali di Olivetti è stata la minuziosa ricostruzione delle vicende storiche che hanno portato la filosofia del secondo millennio cristiano a passare dalla theologia naturalis (intesa come ‘discorso [razionale] su Dio’) alla scienza delle religioni e alla filosofia della religione. 2 Laddove si revocava in dubbio l’esistenza stessa dell’oggetto (materiale e formale) delle discipline teologiche, cresceva l’attenzione verso il fenomeno, evidente e innegabile, della religione come strutturazione storica della credenza in Dio e organizzazione concreta degli uomini e delle società che in tale credenza si riconoscevano. Ma nonostante questa straordinaria attenzione dedicata alle vicende storiche prima della teologia e poi della filosofia della religione, il pensiero di Olivetti è sempre rimasto originariamente e irrimediabilmente ‘speculativo’. L’attenzione per il dettaglio storiografico e persino filologico, documentata in ogni suo scritto e sommamente nella cura meticolosa riservata alla kantiana Religionsschrift, non gli ha fatto abdicare all’ambizione e alla necessità di pensare, e di pensare in grande. Proprio la consapevolezza che la religione non è solo una delle tante espressioni che qualificano la cultura (« nozze e tribunali ed are », secondo Carducci), e che invece fra religione e cultura è legittimo vedere « un rapporto di circolarità e di identificazione » 3 – negli ultimi secoli della nostra storia più che mai, nonostante le apparenze contrarie –, proprio questa consapevolezza, dicevo, fa sì che ogni riflessione autenticamente filosofica non possa esimersi dall’essere anche una meditazione sulla religione. Olivetti non si è sottratto al compito
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Analogia del soggetto, cit., Prefazione. « La filosofia della religione (e lo stesso nome “filosofia della religione”) nasce storicamente e si costituisce come disciplina a seguito della crisi della metafisica ontologica. […] La crisi della metafisica ontologica e di quel suo momento che era rappresentato dalla teologia razionale imponeva di spostare l’attenzione su quella realtà umana di cui la teologia razionale (o “naturale”) aveva ritenuto di fornire la spiegazione e la legittimazione : la religione per l’appunto. […] In questo senso [la filosofia della religione] non sarebbe stata nulla di più che l’estremo, inconsistente tentativo di legittimare una realtà culturale [cioè la religione, ndr] che la critica del suo oggetto [cioè Dio, ndr] aveva destinato a scomparire » (Analogia del soggetto, cit., 226s). Non è il luogo per ripercorrere l’intero itinerario relativo alla nascita e alla trasformazione della filosofia della religione ; mi limito a rimandare ai già citati Filosofia della religione come problema storico (1974) e Filosofia della religione (1995). In quest’ultimo testo così si riassume la questione : « la categorizzazione moderna della religione e l’uso teorico specializzato del termine “religione” hanno storicamente avuto luogo nella identificazione di un’essenza della religione, da far valere o come denominatore comune e pacificante per le religioni storiche, o come contrapposto critico nei confronti della usurpazione rappresentata dalle religioni storiche, o come oggetto di superamento tout court. L’articolazione disgiuntiva di queste tre possibilità presenta tre momenti effettivi, e in larga misura successivi l’uno all’altro, della storia del pensiero europeo – “occidentale” – moderno » (p. 143). 3 Filosofia della religione, cit., p. 140. Cfr più avanti : « se prima [di Kant] i filosofemi metafisici erano rilevanti per la “religione”, ora sono i filosofemi relativi alla “religione” ad essere rilevanti in ordine a una metafisica a cui non si può più accedere direttamente e cognitivamente » (p. 180). 2
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di « pensare la storia », di cui la religione è parte essenziale, maturando una riflessione protologica ed escatologica, dunque intrinsecamente teologica. Se quanto abbiamo delineato è corretto, non ha senso chiedersi se egli sia stato esclusivamente un filosofo o non anche un teologo. Il suo stile di ricerca andava al di là di simili anguste categorizzazioni. Da un lato egli ha sempre rivendicato per sé la professione di filosofo, dal momento che la sua riflessione si è confrontata elettivamente con i filosofi e con i dati positivi delle religioni, senza presupporre nell’argomentazione alcuna preliminare adesione di fede ; in tal senso, egli si è confrontato a lungo soprattutto con la theologia naturalis, senza giungere neppure ad affermazioni che oggi verrebbero considerate di pertinenza della teologia fondamentale, in quanto orientate alla legittimazione della fede partendo ‘dall’interno’. D’altro canto, alcune sue tesi caratteristiche, sovente dissimulate e quasi incidentalmente inserite nel ductus del suo pensiero, pur manifestando ancora una species genuinamente filosofica, esprimono un contenuto che può esser definito di rilevanza dogmatica. 1 Del resto, l’aspirazione che più di ogni altra caratterizza la filosofia romantico-idealistica, cioè lo sforzo di pensare la storicità dell’Assoluto, è il tentativo estremo di pensare speculativamente la Menschwerdung Gottes, il rapporto tra Dio (eterno) e storia : una filosofia che è già, in certo senso, teologia in senso vero e proprio. Il metodo è diverso, ma il contenuto è lo stesso. L’opzione olivettiana di trasgredire i convenzionali confini tra filosofia e teologia è pienamente consapevole e metodologicamente deliberata. Così ad esempio la decisione di dedicare una sessione dei « Colloqui Castelli » al tema della Incarnation (1998) si radica nella dichiarata ambiguità semantica del termine, aperto tanto ad una declinazione filosofica (fenomenologia della carne/chair spiritualmente animata dell’uomo, o – husserlianamente – del Leib) quanto ad una declinazione teologica e cristiana (il mistero del Lògos che si fa sàrx). Tale ambiguità viene volutamente enfatizzata con « l’intenzione di invitare a riflettere su possibili connessioni tra le due dimensioni, anche a rischio di esporsi così all’insoddisfazione sia dei teologi cristiani, sia dei filosofi ». 2 Il rischio della duplice insoddisfazione viene volentieri corso dal promotore del Colloquio, perché solo così è possibile uno scambio reale e interdisciplinare tra le due prospettive complementari.
3. Dettaglio e spiraglio : l’ermeneutica della fatticità ovvero l’attenzione al concreto
Il rapporto di Olivetti con la teologia è stato dunque chiaramente mediato da un confronto con la storia del pensiero filosofico su Dio e/o sulla religione. Nondimeno, l’acribia storico-filologica esprime solo un versante della sua attività, e forse non il principale. Egli ha infatti dedicato molta attenzione ad un’analisi fenomenologica della vita quotidiana (linguaggio, gestualità, corporeità, ecc.), anch’essa trasformata in strumento rivelativo e, possiamo dirlo senza forzature, teologico. Il taglio di queste indagini è quello di un’‘ermeneutica della fatticità’, attenta a scovare i segni del sacro nell’esperienza umana e a dischiuderne il nascosto significato teologico. Si potrebbe dire che lo sforzo principale della sua ricerca fenomenologica mirasse a cogliere le tracce del divino nell’infinitamente piccolo, con una movenza non dissimile 1
A titolo di esempio, si potrebbero citare le considerazioni sulla teoria kantiana del « male radicale », i cui esiti teologici in ordine al tema ‘grazia / peccato’ sono del tutto manifesti, o ancora gli sviluppi escatologici dell’ecclesiologia filosofica. 2 Incarnation, textes réunis par M. M. Olivetti, Padova, cedam, 1999, p. 18.
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da quella tipica di Simone Weil. Ogni dettaglio della vita, per quanto sembri apparentemente insignificante e totalmente profano, può rivelarsi ad una più attenta osservazione e considerazione come uno spiraglio attraverso il quale filtra un raggio della « luce inaccessibile » (cfr 1Tm 6,16). Questa straordinaria capacità di analizzare fenomeni concreti, astraendone poi con un guizzo improvviso ma non arbitrario considerazioni ben più generali e teoriche, si manifesta fin dalla sua prima produzione. 1 Ma con gli anni è diventato un vero e proprio metodo costante, che trova forse nell’analisi dell’asimmetria costitutiva tra adulto e infante uno dei suoi vertici. 2 Un caso esemplare di apertura a prospettive teologiche a partire da riflessioni fenomenologiche è offerto da un breve saggio che analizza il fatto apparentemente banale della nutrizione, e che evidentemente stava molto a cuore al suo Autore, dal momento che conobbe due versioni diverse a distanza di circa dieci anni. 3 Il testo studia la differenza tra l’identità del non vivente (idem), che è statica e non soggetta al tempo, e l’identità del vivente (ipse), che è invece dinamica e strutturalmente aperta all’alterazione metabolica della nutrizione. La prima versione, inserita in una collectanea in onore di Pietro Prini, presenta un titolo che riecheggia due scritti del dedicatario, 4 e non manifesta nessun esplicito riferimento teologico, o almeno così sembra. La seconda versione, inserita in una Festschrift per Bernhard Casper, cambia significativamente titolo, anche se il testo rimane sostanzialmente immutato ; con questo accorgimento le considerazioni vengono traslate dal versante filosofico (il corpo e il cibo) a quello teologico (l’eucaristia). Per l’essere umano, nutrire di sé l’altro – come il ‘pio pellicano’ che, secondo la leggenda medievale, si ferisce il petto per offrire la sua carne ai piccoli – è perdita che non conduce alla morte, ma alla vittoria della vita. E la vittoria della vita non è ritorno, nòstos, bensì attraversamento totale della morte. Come si può spiegare la singolare trasformazione del titolo, in cui l’heideggeriano Denken ist Danken (GA 8, 149ss) viene riformulato in chiave esplicitamente sacramentale ? A mio giudizio, solo ammettendo che l’orientamento ‘teologico’ era fin dall’origine lo sfondo, il cuore nascosto ed il punto di arrivo non dichiarato dell’argomentazione. Il che fa pensare che « il corpo che siamo » di cui fa menzione il titolo originario non fosse estraneo, nell’intenzione dell’autore, a quel corpo di cui è detto che è « offerto in sacrificio per
1 Penso a Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Roma, Abete, 1967. Il volume, composto in giovanissima età, sorprende il lettore per la sua configurazione singolare. Da un lato esso si presenta quasi come una semplice ricerca di architettura, con documentazione fotografica raccolta dallo stesso autore ; dall’altro rivela una metodologia raffinatissima di riflessione speculativa, che muovendo da considerazioni totalmente empiriche matura conclusioni di ben più vasta portata. Così vi si legge : « Il tempo cristiano è praticamente l’unico tempio oggi per la cui edificazione ci si serva dell’architettura contemporanea. L’unico tempio “contemporaneo”, dunque : non in senso cronologico, ma in senso intenzionale (intenzionalmente contemporaneo). […] Ciò costituisce già di per sé un primo fondamentale sintomo : il riflesso del fenomeno storico per cui il cristianesimo è l’unica religione che ha la pretesa di porsi di fronte alla civiltà della tecnica » (pp. 75-76). 2 Analogia del soggetto, cit., pp. 139-165. 3 La prima redazione è Il corpo che siamo e l’ambiguità delle categorie ontologiche : l’alimentazione dell’altro, in Dario Antiseri, Domenico Conci (curatori), Il desiderio di essere. L’itinerario filosofico di Pietro Prini, Roma, Studium, 1996, pp. 173-184. La seconda redazione, ridotta ma con alcune modifiche e aggiunte, è il citato Die Ernährung des Anderen. Vorüberlegungen zu einem dankenden – „eucharistischen“ - Denken, in Klaus Kienzler, Joseph Reiter, Ludwig Wenzler (curatori), Das Heilige im Denken. Ansätze und Konturen einer Philosophie der Religion, zu Ehren von Bernhard Casper, Münster, lit, 2005, pp. 147-158. 4 Si tratta di Pietro Prini, L’ambiguità dell’essere, Intervista filosofica e altri saggi, Genova, Marietti, 1989 e Idem, Il corpo che siamo. Introduzione all’antropologia etica, Torino, sei, 1991.
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voi ». E nondimeno, anche la seconda e definitiva redazione del testo conserva la forma di semplici ‘riflessioni preliminari’ (Vorüberlegungen), e non si addentra in formulazioni teologiche di natura dogmatica.
4. Una lezione di metodo : fra ‘serietà etica’ e ‘ironia ontologica’
Dopo aver detto della ricerca storica e della fenomenologia ermeneutica della fatticità, resta da dire qualcosa sullo stile personale di Olivetti. Dagli incontri che ho avuto con lui, ho raccolto l’impressione di una fede cattolica rigorosa e senza riserve, ma anche estremamente umile. Si potrebbe dire che egli unisse in sé in sommo grado la serietà e l’(auto)ironia. « Dopo tutto, tra il rigore della ‘critica’ e il sorriso dell’‘ironia’ non c’è alternativa, ma continuità e potenziamento ». 1 La sincerità con cui egli scandiva, a intervalli regolari, le sue dichiarazioni di insufficiente competenza su diversi argomenti (« vede, io non me ne intendo… ») non riusciva minimamente a scalfire la convinzione, in chi interloquiva con lui, che invece fosse totalmente padrone anche della questione in oggetto. Un’ironia socratica e kierkegaardiana che lo spingeva sempre oltre le certezze acquisite, in un infaticabile lavoro intellettuale di scavo e di cesello. La stessa serietà e radicalità con cui ha affrontato professionalmente le grandi domande filosofiche e, prima fra tutte, la questione dell’assolutezza del cristianesimo, 2 era anche la serietà e la radicalità con cui affrontava la propria fede personale. La frequenza con cui davanti ad ogni questione complessa soleva ripetere, agli studenti, ai colleghi e a sé stesso, l’abelardiano sic et non 3– intendendo cioè che non sempre le domande fondamentali hanno una soluzione univoca e cristallina – esprime il persistente atteggiamento dubitativo con il quale egli si rapportava – non al contenuto della fede, ma alle sue formulazioni (cioè alla teologia). Una vera incarnazione dell’epèktasis (Gregorio di Nissa) e della fides quaerens intellectum (Anselmo d’Aosta). In conclusione, mi sembra di poter affermare che Olivetti ha tematizzato relativamente poco la riflessione teologica, almeno nei suoi aspetti dogmatici, ma ha testimoniato uno stile di vita autenticamente teologico e condotto, per così dire, una « esistenza teologica » (K. Barth). Dio non è stato tanto l’oggetto del suo studio, quanto piuttosto l’ambiente del suo riflettere e meditare, il milieu Divin della sua attività filosofica e della sua esperienza umana e cristiana. 4 La sua riservatezza non era rispetto umano, ma rispetto della ‘laicità’. 5 La sua straordinaria capacità di mettere a contatto e far comunicare studiosi di provenienza e mentalità assolutamente eterogenea era un modo concreto per edificare la comunione
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Analogia del soggetto, cit., p. 128. « Questa serietà – che potremmo chiamare etica – non è separabile dall’ironia che potremmo chiamare ontologica » : Il corpo che siamo, cit., p. 183. 2 Cfr Filosofia della religione come problema storico, cit., 312 : « il problema della religione assoluta è il modo in cui storicamente si è presentato il problema del rapporto storia – speculazione ». 3 Solo a mo’ di esempio, cfr Analogia del soggetto, cit., p. 146s. 4 Sebbene formulati in altro contesto, trovo assai pertinenti i rilievi di Elmar Salmann, La natura scordata. Un futile elogio dell’ablativo, in Idem, Presenza di spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero, Padova, Ed. Messaggero, 2000, pp. 306-323. Attraverso l’‘elogio dell’ablativo’, la natura divina viene qui descritta « come sfera, medium e sfondo, come spazio originante e concomitante… » : non un tema, un quod (accusativo o anche nominativo), bensì un quo e in quo. 5 In un recente colloquio (20.xi.2008), Bernhard Casper mi ha testimoniato come in tutti i Convegni organizzati a Roma, Olivetti abbia sempre inserito la celebrazione della messa domenicale in orario facoltativo, a margine degli impegni ufficiali, a tutela della “laicità” dei lavori e nel rispetto di eventuali partecipanti di altra religione o non credenti. Nondimeno egli ha sempre partecipato – è stato sempre Casper a confermarlo – alla celebrazione mattutina domenicale dell’eucaristia, dichiarando con i fatti la sua adesione serena e limpida alla fede cattolica.
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e vivere insieme sia la professione del filosofo che la fede cristiana. La sua invidiabile padronanza delle lingue era coscientemente orientata ad una ospitalità accogliente nei confronti dell’altro, di ogni altro, in un atto di reciproca traduzione/trasmissione della parola e della Parola. Nel saggio più volte ricordato sulla ‘nutrizione dell’altro’, egli spiega che « la comunicazione linguistica non è che la prosecuzione temporale e matura della comunicazione alimentare originaria ». 1 Il compimento ultimo di questo fecondo dono di sé – che appunto dà vita, genera, e fa vivere di sé l’altro – è simboleggiato pienamente nell’oblatività eucaristica. Chi ha sentito parlare Marco Maria Olivetti ha sperimentato la realtà di questo dono. Nelle sue parole e nelle sue lezioni, egli donava se stesso e generava vita. La sua professione di filosofo era, in fondo, più ancora che studio della religione e/o della teologia, atto teologale.
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Il corpo che siamo, cit., p. 181 = Die Ernährung des Anderen, cit., p. 157.
INTERSOGGETTIVITÀ E TEOLOGIA FILOSOFICA Paolo Zordan «
P
er poter pensare filosoficamente a Dio bisogna pensare all’intersoggettività e, viceversa, per poter pensare all’intersoggettività bisogna pensare a Dio ».1 Questa è una delle tesi fondamentali di Marco Maria Olivetti, che crediamo meglio sintetizzino lo spirito del suo insegnamento e il nucleo della sua proposta filosofica. Ma quale relazione tra intersoggettività e problema di Dio ? Cosa si vuole intendere con questi due termini ? Quale il valore della proposta olivettiana e quali, eventualmente, i suoi limiti ? Ho scelto, per cercare di rispondere a questi interrogativi, di partire da un breve saggio apparso sull’« Archivio di filosofia » del 2001, dal titolo significativo Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre. 2 Si tratta della introduzione ai lavori dei Colloqui Castelli del gennaio 2000, tra i più lunghi interventi pronunciati da Olivetti nella cornice di questi incontri. Un vero e proprio saggio, potremmo dire, di natura programmatica, che può aiutarci a gettare un poco di luce su uno dei nodi fondamentali della teoresi olivettiana.
1. Dalla domanda sull’essere ( Was ?) alla domanda sul soggetto ( Wer ?)
Sin dalla proposizione del tema – pensare a Dio, pensare all’intersoggettività (denken an Gott, denken an Intersubjektivität) – Olivetti preferisce utilizzare, significativamente, la costruzione tedesca colloquiale denken-an rispetto a quella più ‘scientifica’ denken+accusativo. Se approfondita teoreticamente, questa scelta conduce già nel cuore del problema e indica, in generale, una delle direttici fondamentali della proposta filosofica olivettiana : pensare la crisi della metafisica onto-teo-logica e della soggettività moderna per affermare l’anteriorità dell’etica e la costituzione analogica della soggettività. La critica di Olivetti, in questo senso, intercetta – mettendola in questione e radicalizzandola – la critica heideggeriana al pensiero onto-teo-logico, 3 ma segue, in modo particolare, la traccia dell’autrement levinasiano (altrimenti che essere, altrimentiche-soggetto), con una particolare accentuazione – come avremo modo di vedere – del tema del terzo. L’accusativo del ‘pensare qualcosa’ – per tornare al saggio olivettiano – è per eccellenza il caso della tematizzazione e della oggettivazione. Il linguaggio e la grammatica, in questo senso, non sono filosoficamente neutri (e davvero sorprendente – va detto a questo proposito – era la capacità di penetrazione del linguaggio da parte di Olivetti, legata anche alle sue straordinarie conoscenze linguistiche ed al suo interesse per la filo
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M. M. Olivetti, Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, in « Archivio di filosofia », Intersoggettività e teologia filosofica (anno lxix – 2001, n. 1-3), testi riuniti da M. M. Olivetti, Padova, cedam, 2001, pp. 13-20, p. 13 (la traduzione dal tedesco è nostra). Il testo è apparso anche in lingua francese nel volume Intersubjectivité et théologie philosophique, textes réunis par Marco M. Olivetti, Padova, cedam, 2001. 2 Cfr. nota 1. 3 Riguardo alla posizione di Olivetti su Heidegger, si veda M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, RomaBari, Laterza, 1992, pp. 167-198.
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sofia analitica). L’uso linguistico del ‘pensare qualcosa’ tradisce l’atteggiamento filosofico tipico dell’età moderna, che concepisce il soggetto, soprattutto a partire da Cartesio, schiacciato sulla dimensione del pensiero – il cogito – e l’essere del soggetto a partire dal pensiero – cogito ergo sum. Il dramma del soggetto moderno, così concepito, è quello di non poter far altro che oggettivare e tematizzare (come la mitica figura del re Mida, che non riesce più ad alimentarsi perché tramuta in oro tutto ciò che tocca). Nulla di ciò che cade dentro il dominio del suo pensiero – oggetti, cogitata – può sfuggire alla presa (Griff) del concetto (Begriff). Ci sono, tuttavia, due cogitata assolutamente peculiari – spiega Olivetti – che sfuggono al cogito e non si lasciano afferrare dal pensiero : l’intersoggettività e Dio. Tali cogitata sfuggirebbero non solo e non tanto per una loro generica pretesa di esser pensati altrimenti, non-reificati. Questa pretesa, in realtà, sarebbe solo una conseguenza del sottrarsi di fatto al pensiero che caratterizza entrambi. Non per questo, tuttavia, intersoggettività e Dio possono essere relegati al margine di una riflessione filosofica rigorosa – anche nel senso fenomenologico di una ricerca che si limita al puro dato. 1 Essi, al contrario, attraggono irresistibilmente il pensiero, che pure non riesce ad afferrarli. Proprio tale intreccio – paradossale – di intenzionalità e trascendenza (inattingibilità) indicherebbe il rovesciamento della soggettività moderna (teorizzato da Olivetti sulla traccia, ancora una volta, della riflessione levinasiana) : « [il pensare – n.d.a.] non costituisce questo [intersoggettività e Dio – n.d.a.] per il fatto di intenderlo. Piuttosto viene costituito esso stesso dall’attrazione [Anziehung] di ciò che lo supera e lo trascende ». 2 In queste prime battute del saggio, dunque, già si annunciano due motivi caratteristici della lettura olivettiana della filosofia moderna : la crisi della metafisica ontoteo-logica (e della teologia razionale, che in questa metafisica trovava il suo retroterra filosofico) va di pari passo con la crisi della soggettività moderna, le cui pretese conoscitive onni-comprendenti urtano contro l’in-afferrabilità di due particolari ‘oggetti’ – l’intersoggettività e Dio. Questi due cogitata rovesciano la direzione della relazione costitutiva : il soggetto, modernamente (e fenomenologicamente) pensato come costituente, appare piuttosto costituito da ciò che lo supera e lo trascende. Un’interessante somiglianza (Gleichnis) si mostra tra questi due peculiari ‘oggetti’ : Dio e l’intersoggettività. Gli sviluppi della questione ci guideranno al cuore della ricerca olivettiana.
2. La seconda persona (tu) Se l’apertura del saggio Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre ci ha dato occasione di mettere in luce alcuni momenti essenziali della critica olivettiana al pensiero moderno (pars destruens), l’esame delle restanti pagine ci permetterà di approfondire alcuni aspetti essenziali della sua proposta teoretica (pars construens). La messa in crisi della metafisica onto-teo-logica – seguiamo qui l’argomentare olivettiano – obbliga a ripensare la domanda sull’essenza (‘ti esti’, ‘Was ?’, ‘che cosa ?’) che orienta la ricerca filosofica classica e moderna. È necessario passare, dunque, dall’atteggiamento oggettivante del ‘che’ e della domanda ‘che cosa ?’ (Was ?) all’annunciarsi del
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Si confronti, al riguardo, lo husserliano «principio di tutti i principi della fenomenologia», « assumere tutto ciò che si offre originariamente nell’intuizione » (E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Husserliana iii, 1, Den Haag, Martinus Nijhoff, 1976, p. 51). 2 M. M. Olivetti, Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, cit., pp. 13-14.
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‘chi’ (Wer), trascendente e sfuggente ogni oggettivazione. Certo, anche al ‘chi’ si potrebbe rivolgere la domanda d’essenza (‘chi sei tu ?’), anche a lui potremmo indirizzarci con invadente curiosità, per soddisfare il nostro desiderio. Ma, più originariamente, si tratta di una richiesta e di un bisogno (dell’altro) assolutamente non tematici e preteoretici : del bisogno di essere alimentati. Questa comprensione, spiega Olivetti, giustifica, da un punto di vista filosofico, l’uso del pro-nome ‘chi’ con il punto di domanda – come domanda dell’altro : « nel pro-nome ‘chi ?’ ciò-che-sta-al-posto-del-nome accade come domanda [auf fragende Weise]. Accade come un non-stante, come instabilità, come un non-avere […]. Deve essere compreso innanzitutto […] essenzialmente come richiesta [Bitte], che precede ogni protologia ». 1 La domanda ‘chi ?’ non è quella dell’io curioso, che chiede all’altro ‘chi sei tu ?’, aspettando che questi esibisca ‘credenziali ontologiche’ per auto-giustificare la propria esistenza ; piuttosto, è la domanda dell’altro, come bisogno di essere alimentato. Questo bisogno deve essere preso ‘alla lettera’, spiega Olivetti (all’analisi del fenomeno dell’alimentazione sono dedicate alcune tra le pagine più evocative dei suoi scritti), innanzitutto come bisogno di essere nutriti con cibo solido e di essere nutriti da un altro (nel senso del passivo latino ali). L’alimento, nel caso rivelatore dell’infante, è tanto concreto come il latte materno e mostra tutta la sua ambi-valenza ‘soggettivo-oggettiva’ – si tratta, in questo caso, di una ‘cosa’, o non piuttosto di un ‘chi ?’. Ma alimento è anche parola con cui l’in-fante (colui che è in-fans, ancora senza parola e senza mondo) viene alloquito dalla madre e ‘messo al mondo’ – « non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che viene dalla bocca... », cita Olivetti, aggiungendo significativamente la domanda « dalla bocca di chi ? ». 2 L’‘essere’ dunque, che la metafisica onto-teo-logica o ‘filosofia prima’ avevano elevato al rango protologico, parla sempre in seconda battuta, sempre come personalizzato. La domanda dell’altro è pre-ontologica e pre-teoretica, e solo l’inter-locuzione dispiega l’essere e lo porta al linguaggio. L’inter-locuzione tuttavia – come inter-relazione comunicativa, reciproca e simmetrica, tra soggetti divenuti ormai adulti ed auto-sufficienti – è com-plicata, nel senso che porta traccia della sua genesi nell’asimmetria dell’allocuzione. Anche la temporalità, in questo senso, fa problema : l’interlocuzione dis-piega – cerca, cioè, di spiegare, rendendola sincronica – una diacronia non sincronizzabile, un interim, un intervallo non ricomponibile in rappresentazione – la diacronia della allocuzione all’infante. È in questa in-esplicabile com-plicatio e co-implicatio di prima e seconda persona – deve essere ancora portato alla luce, anticipiamo, l’indispensabile ruolo del terzo – che le persone si ‘essenziano’ e si dispiega la scena dell’essere (la scena dell’interlocuzione). La domanda ‘chi ?’, dunque, non è l’impertinente ‘chi sei tu ?’ ma è già-sempre-risposta ad una chiamata, risposta obbediente che significa incondizionata donazione-dedizione alla chiamata :
una vera risposta cioè una risposta che “in verità” dona ascolto alla chiamata, non può essere una risposta che obbedisce solo a condizione di credenziali ontologicamente soddisfacienti – che “rendono sazi” […]. La vera risposta significa dedizione-donazione [Hingabe] senza condizioni alla chiamata. Significa completa restituzione di ciò che la chiamata dona, cioè restituzione di quel “chi ?” che viene istituito dall’obbligazione e come obbligazione nel donarsi della sponsio […]. Solo nell’obbedienza all’obbligo istituito dal dono, nell’ascoltare che si rivolge all’altro c’è e sussiste, per la prima volta, il “chi ?”. Il “chi ?” sussiste nella misura in cui si mette pienamente
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Ivi, p. 14.
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Ivi, p. 14.
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a disposizione nella propria persona, costituita persona dalla chiamata alla quale ha risposto con la “seconda parola”, che c’è [da ist] “in verità” solo come tale risposta e incondizionata dedizione. 1
La prima persona, potremmo dire, si costituisce solo come risposta ‘obbediente’ (nel senso etimologico di ob-audire) alla domanda dell’altro (seconda persona), che precede ogni interrogazione sull’essere ed accade come richiesta e bisogno di esser alimentato (non di solo pane…). L’unica risposta possibile – l’unica risposta ‘etica’ – è la donazionededizione in-condizionata all’altro, nella quale soltanto – come seconda parola – il ‘chi’ dell’io sussiste. 3. Il terzo Il tema del terzo, estremamente importante nel pensiero olivettiano, inestricabilmente connesso a quello della prima e della seconda persona, emerge dal testo in questione, ancora una volta, come domanda. Se il dono dell’io è incondizionato – « eccomi ! » (Es 3,4) – come può la risposta, a sua volta, diventare domanda ? La donazione incondizionata infatti, scrive Olivetti, « non è “questionabile” né da parte del donante, che si mette a disposizione, né dell’autorità che dispone ». 2 Solo la peculiare ‘presenza’ del terzo può restaurare la simmetria dell’interlocuzione e rende possibile la trasformazione della risposta incondizionata ‘eccomi !’ in domanda : « la risposta è, allo stesso tempo, domanda perché il terzo è sempre presente nell’interim dell’interlocuzione – un interim che così non è duplice ma, se posso esprimermi in questo modo, “triplicità-trinità” (Drei-faltigkeit) ». 3 L’‘entrata in scena’ del terzo – l’espressione è impropria, perché il terzo, in realtà, è sempre presente sulla scena dell’interlocuzione – permette ad Olivetti di completare, in prima istanza, il suo quadro ‘ontologico’ ed esporre la nota tesi sulla scomposizione della presenza (già esposta nella prefazione di Analogia del soggetto 4) :
nel fatto del loquor, un altro ergo è implicato rispetto al cogito ergo sum. […] Per usare una formula, si potrebbero esprimere così i modi di essere del verbo personificato “essere” : loquor ergo sum, praees, abest. 5
L’uso del verbo latino deponente loquor, per analizzare brevemente la formula olivettiana, rivela la natura insieme linguistica e passiva della situazione allocutiva originaria – o anteriore, come ama esprimersi Olivetti, per evitare ogni ricaduta nel linguaggio onto-teo-logico. Il sum, come abbiamo visto, viene destituito dal rango protologico che gli conferiva il cogito, e sussiste solo come risposta e dedizione alla domanda (sempre anteriore) dell’altro. La seconda persona prae-es (è-prima) : è domanda di nutrimento e riconoscimento che precede ogni curiosa richiesta di credenziali ontologiche da parte dell’io. Del terzo viene detto che è-assente (ab-est) : è presente, cioè, sempre e solo come assente, irrimediabilmente sospinto oltre il limite della percezione dell’io. Tale presenza-assenza, tuttavia, è essenziale per il dispiegarsi dell’interlocuzione ed il ripristino della simmetria tra gli interlocutori. Ma chi è il terzo, viene ora naturale chiedersi, nella proposta di pensiero olivettiana ? Non posso chiedere, in realtà, ‘chi è il terzo ?’, così come non posso chiedere ‘chi sei
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2 3 Ivi, p. 17. Ivi, p. 17. Ibidem. M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., prefazione. 5 Idem, Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, cit., p. 18. 4
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tu ?’. Il terzo infatti, spiega Olivetti, « è assente, e io non so chi è ». Non ‘chi è il terzo ?’, dunque, ma piuttosto « cosa risponderò al terzo quando mi chiederà chi mi invia ? (cfr. Es 3,13) ». 2 Si annuncia qui, in molti sensi (anche attraverso il continuo riferimento alla Scrittura), il tema della philosophische Gotteslehre (teologia filosofica) e la com-plicata relazione che lo lega al problema dell’intersoggettività. Per meglio impostare la questione, tuttavia, è necessario soffermarci ancora un poco sul terzo. È importante anzitutto notare – proseguendo la lettura del saggio olivettiano – l’esistenza di una significativa somiglianza tra il terzo, che non posso guardare in volto, e quella ‘chiamata’ (Anruf) che procede da un passato ed un esteriorità radicali. Tale somiglianza, spiega Olivetti, consiste proprio nell’impossibilità di vedere il volto – perciò viene detto che il terzo è ritratto (Eben-bild) della chiamata. Ma il terzo, allo stesso tempo, è presente e si mostra : in Analogia del soggetto, dove possiamo trovare alcune interessanti pagine dedicate alla trattazione levinasiana del terzo – è evidente, ancora una volta, il debito della teoresi olivettiana nei confronti del filosofo lituano – si dice proprio che il terzo, a differenza dell’altro (la seconda persona), è tema ed è fenomeno. 3 Il paradosso mostra, ancora una volta, la com-plicazione dell’intreccio interlocutivo : il terzo, potremmo dire, è proprio l’altro in quanto diviene oggetto, tema, detto, fenomeno, uscendo dalla relazione del ‘faccia a faccia’. Ma proprio questo mi dice, d’altra parte, che il terzo è già-sempre-potenzialmente-anchealtro (seconda persona), in quanto potenziale interlocutore del ‘faccia a faccia’. E che il terzo, a sua volta, è già-sempre-presente come tale nel faccia a faccia, chiedendomi di comparare i suoi diritti con quelli degli interlocutori : « il terzo ha un’importanza decisiva nel determinare la mia risposta alla parola, o al dire, dell’altro, perché anche la risposta concreta che scaturisce dalla mia costitutiva responsabilità non è mai senza comparazione – talvolta inconsapevole […] – con i diritti del terzo, colti nel suo ‘detto’ e nel suo sguardo ormai tematico o oggettivato ». 4 La presenza-assenza del terzo, infine, coincide al limite con la presenza-assenza della società, mai tematizzabile (come totalità dei rapporti intersoggettivi) e dunque assente, ma sempre presente « come orizzonte [c.n.] all’interno del quale si illumina e appare un complesso di rapporti comunicativi ». 5 Il tema del terzo dunque – che pure non possiamo approfondire in questa sede – si mostra carico di implicazioni. In relazione al problema dell’intersoggettività, il terzo riveste il compito fondamentale di riequilibrare l’asimmetria etica radicale del ‘faccia a faccia’, re-introducendo (ma non in modo ingenuo) le istanze della giustizia e della reciprocità. In campo linguistico-ontologico, il terzo rende possibile il passaggio al fenomeno e al detto, dispiegando la scena dell’essere. Nel senso della philosophische Gotteslehre, infine, il terzo presenta notevoli analogie con il divino :
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E se la persona del terzo, nella mediatezza di rapporto che essa connota, avesse una qualche relazione con quella terza persona assoluta che Levinas chiama illeité ? Il da-sempre-non-più-soggetto della società oggettivata non avrà una qualche corrispondenza con l’anteriorità da sempre ritrattasi di quel volto che ne rivela la traccia ? L’”anarchia non avrà una qualche relazione con la società come arché attinta sempre e soltanto mediatamente ?. 6
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Ibidem. M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., pp. 89-90. 5 Ivi, p. 29. 3
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Ibidem. Ivi, p. 90. Ivi, p. 90.
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4. Intersoggettività e philosophische Gotteslehre (« Cosa risponderò se il terzo mi chiederà il nome di colui che mi invia ? » - cfr. Es 3,13)
Ci resta da indagare, in quest’ultimo paragrafo, il passaggio dal tema dell’intersoggettività a quello della philosophische Gotteslehre – che già si annunciava nelle precedenti analisi – insieme al nesso che lega le due tematiche. Un passaggio ed un nesso complicati, in realtà, dall’estrema allusività del linguaggio olivettiano, spesso sfuggente ed equivoco. Possiamo dire, per un verso, che la teoresi del nostro autore si ferma timida, restia, quando si tratta di affrontare il problema di Dio. E’ indubbio, d’altra parte, che il discorso ‘teologico’ fa costantemente capolino nelle pagine olivettiane, soprattutto in quelle dedicate all’intersoggettività. L’estrema equivocità del linguaggio, se la si esamina più approfonditamente, appare significativa e deliberata : segno di un discorso che vuol dire più di quanto, esplicitamente, viene detto. Nel saggio olivettiano il ‘tema’ di Dio, in prima battuta, è ‘presente’ sullo sfondo delle riflessioni sulla prima persona, sull’altro e sul terzo. L’altro, come abbiamo visto, mi interpella come domanda (come richiesta e bisogno), alla quale posso rispondere solo nella obbediente dedizione-donazione. Questa domanda, come anche abbiamo visto, precede dia-cronicamente ogni proto-logia. Il problema della temporalizzazione tuttavia, spiega Olivetti, investe anche una dimensione di anteriorità radicale, dalla quale viene la chiamata all’essere. Tale chiamata, spiega Olivetti
precede l’essere […]. Mi chiama all’essere, nella misura in cui mi invia. […] L’autorità [con la quale rivolgo al terzo parole di Verità – n.d.a.] […] non è in me – chi sono io ? Piuttosto si trova al di fuori di me, nell’esteriorità o nella anteriorità radicale [radikale Vorgängigkeit], dalla quale viene la chiamata all’essere alla quale rispondo “eccomi !”. Questa autorità si trova al di fuori di me, in un “prima di me”, eppure presso di me : “io sarò con te” (Es 3,12). La temporalizzazione s’impone. La sponsio anteriore si dà. […] Il comandamento, che invia al terzo, si mostra come alleanza [das Gebot, das zu dem Dritten sendet, zeigt sich als Bund]. 1
Come non cogliere, nel riferimento all’anteriorità radicale, un (equivoco) riferimento all’altro/Altro ? Ci aiuta, ancora una volta, leggere questi passaggi sullo sfondo del pensiero levinasiano dell’altro/Altro. Come pure illuminanti sono alcuni passaggi di Totalità e infinito, dove Levinas indica l’etica come luogo di rivelazione dell’assolutamente altro – è evidente il nesso con la tesi olivettiana dell’etica come filosofia prima (anteriore). Scrive Levinas :
la dimensione del divino si apre a partire dal volto umano. Una relazione con il Trascendente […] è una relazione sociale. Solo qui il Trascendente, infinitamente altro, ci sollecita e fa appello a noi. […] L’intelligenza diretta di Dio è inattingibile da uno sguardo diretto su di lui […] perché la nostra possibilità di accoglierlo nell’uomo va ben al di là della comprensione che tematizza ed ingloba il suo oggetto. […] L’intelligenza di Dio come partecipazione alla sua vita sacra, intelligenza che si pretende diretta, è impossibile, perché la partecipazione è una smentita inflitta al divino e perché nulla è più diretto del faccia a faccia, che è la rettitudine stessa. Dio invisibile, questo non significa solo un Dio inimmaginabile, ma un Dio accessibile nella giustizia. L’etica è l’ottica spirituale. 2
Lasciando in sospesa la questione dei rapporti col pensiero levinasiano, crediamo si 1
M. M. Olivetti, Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, cit., p. 18. E. Levinas, Totalità e infinito, Milano, Jaca Book, 19983 (ed. or. Totalité et infini, Den Haag, Martinus Nijhoff Boekhandel en Vigeversmaatschappiy, 1971), p. 76. 2
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possa affermare che, nelle pagine olivettiane in esame, la philosophische Gotteslehre si annuncia anzitutto come una Lehre des Anderen, nel senso (equivoco) etico della risposta obbediente alla chiamata dell’altro/Altro. Ma il riferimento al terzo è indispensabile, così come per una teoria dell’intersoggettività, anche per la possibilità di formulare una philosophische Gotteslehre. La impossibilità di vedere il volto del terzo, come abbiamo visto, rende questi un ritratto (Eben-bild) della anteriorità radicale. Anche la terza persona, potremmo dire, analogamente alla seconda, è luogo di ri-velazione dell’Altro. Ma il terzo è, allo stesso tempo, contenuto del comandamento (il comandamento mi invia al terzo) e richiesta del nome dell’Autorità che invia e comanda (« cosa risponderò se il terzo mi chiederà il nome di colui che mi invia ? »). Il primo aspetto – il terzo come contenuto del comandamento, come colui al quale esso mi invia – richiama la tesi olivettiana della società come orizzonte della presenza (assente) e fa appello al tema della responsabilità etica. La responsabilità non si limita all’altro, come scrivevamo, ma impone di considerare il terzo e comparare i diritti dei soggetti. La responsabilità per il terzo, in definitiva, è responsabilità per ogn-uno (anche, e soprattutto, per l’assente), fino agli estremi confini della società (come totalità assente). Il secondo aspetto – la richiesta del nome da parte del terzo – richiama il tema del nome (di Dio) e della richiesta del terzo come richiesta del nome. Il nome, scrive Olivetti
non è […] per me e per te, che parliamo l’un con l’altro e ci guardiamo in volto reciprocamente. Essenzialmente, in ragione cioè della sua stessa essenza, il nome è per il terzo ed è il nome del terzo, che non “interloquisce” (che non è, cioè, un inter-locutore diretto) e tuttavia è sempre presente come assente. Il nome è per il terzo, con il nome egli può chiamare. E’ il nome del terzo, col quale egli può essere chiamato. Come si potrebbe, infatti, parlare senza nomi ?. 1
Solo il terzo, in questo senso, rende possibile il dono del nome, aprendo la scena dell’essere e dell’interlocuzione – che è anche scena del linguaggio. E solo per il terzo l’Autorità (altro nome di Dio) si dà a me come nome – il dono del nome comporta uno svuotamento kenotico della trascendenza dell’Altro, allo stesso modo del suo darsi come alimento nell’eucarestia ; trascendenza che rimane inscritta nel linguaggio, tuttavia, come promessa e Scrittura. Nel nome, in definitiva, l’Altro si dà come assente – la scrittura, in questo senso, rivela in modo peculiare il carattere di ‘traccia’ e di ‘presenza passata’ del nome. 2 Ma, al tempo stesso, si dona come alleanza e sponsio, « Io sarò sempre con te » (Es 3,12) :
Se “io sarò con te” è la risposta alla domanda “chi sono io ?” – risposta che ripete la sponsio della chiamata e si dà come promessa – così anche la risposta alla domanda che anticipa la richiesta del terzo (“cosa risponderò ?”) ripete la sponsio, perché questa risposta dà la sponsio come nome. Dà la sponsio, cioè, per il terzo. 3
5. Conclusioni La tesi olivettiana che ha introdotto e guidato la nostra ricerca – per poter pensare filosoficamente a Dio bisogna pensare all’intersoggettività e, viceversa, per poter pensare all’intersog1
M. M. Olivetti, Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, cit., p. 20. Cfr. Idem, Avant-propos e Religion, parole, Écriture. Introduction aux travaux, in « Archivio di filosofia », Religione, parola, scrittura (anno lx – 1992, n. 1-3), testi riuniti da M. M. Olivetti, Padova, cedam, 1992, pp. 11-14. 3 Idem, Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre, cit., pp. 19-20. 2
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gettività bisogna pensare a Dio – indica l’intreccio, la co-appartenenza di intersoggettività e philosophische Gotteslehre – carica, come abbiamo visto, di implicanze teoretiche altamente suggestive. Per Olivetti, potremmo dire, pensare Dio equivale a pensare la presenza-assenza dell’altro (con una maggiore sottolineatura, rispetto a Levinas, del tema del terzo). Ma pensare l’Altro è pensare l’altro uomo. L’intersoggettività dunque, luogo dell’etica, è anche il ‘luogo’ della philosophische Gotteslehre. Come in tutte le formule che dicono relazione reciproca, tuttavia, è il viceversa (umgekehrt) che fa problema. Se Dio è inscritto nell’intersoggettività, in altre parole, è solo a partire dall’intersoggettività che possiamo pensare (filosoficamente) a Dio ? Forse, ancora una volta, è l’eccedenza di Dio in questione – eccedente l’eccedenza dell’altro. Ec-cedenza che è, allo stesso tempo, ec-stasi, comunicazione (koinonia) ad extra del divino con l’umano. Ci sia permessa questa sola obiezione alla proposta filosofica di Marco Maria Olivetti, che in nulla diminuisce la nostra ammirazione per l’uomo e la sua opera.
enrico CASTELLI : il maestro
Annarita Meoli Non a tutti è dato di trovare un Maestro ; o meglio, non a tutti è dato di trovarsi grazie ad un Maestro. Perché Maestro non è chi consente all’allievo di impadronirsi di determinate tecniche, o meglio chi impone il proprio daimon creando ripetitori più o meno fedeli. Maestro è colui che risveglia il daimon dell’allievo consentendogli di trovare se stesso ; Maestro è colui che instancabilmente tiene desto l’allievo, costringendolo a realizzare se stesso. Questo è stato per me Enrico Castelli. Questo è per me Enrico Castelli : l’assenza fisica infatti acuisce il senso della sua presenza, e il daimon di Enrico Castelli continua con vivacità spirituale e imperitura, a vivere nell’intimo dell’allievo. 1
È
questo l’ incipit con il quale Marco Maria Olivetti apre il primo di una serie di scritti post mortem esplicitamente dedicati al suo Maestro, alla ricostruzione e interpretazione del suo pensiero. 2 È questo il significativo tributo che ci sarà da guida nel tentare, seppur brevemente, di affrontare l’articolato rapporto intellettuale che ha unito Olivetti a Enrico Castelli, con l’obiettivo di fornire una ricostruzione genetica di quei nuclei tematici che, pur unendo profondamente la riflessione filosofica dei due pensatori, si giovano della vivacità e dell’originalità di due Maestri. 3 Si tratta dunque di vedere come due vite intellettuali e due linee di pensiero si intreccino, vivificandosi nella singola originalità. Il percorso che affronteremo cercherà di evidenziare come Olivetti si sia sentito chiamato ad essere se stesso grazie all’ispirazione continua di Castelli, 4 pur meritando di essere lasciata aperta per possibili future risposte la domanda circa il 1 Marco Maria Olivetti, Enrico Castelli : un Maestro, in L’Ermeneutica della Filosofia della Religione, « Archivio di Filosofia », 1977, pp. xiii-xvi. Si tratta del primo scritto di Olivetti comparso sul volume di « Archivio di Filosofia » successivo alla morte di Enrico Castelli ; nella parte introduttiva di questo stesso, a fianco del contributo olivettiano, evidenziamo, i saggi di altri due ‘amici’ di Castelli scritti in omaggio alla morte del filosofo torinese : Ernesto Grassi, Una Morte, in Idem, pp. xvii-xix ; Xavier Tilliette, Hommage d’un ami français, in Idem, pp. xxi-xxiv. Non va dimenticato in fine di segnalare la presenza nello stesso numero di « Archivio di Filosofia » del contributo più propriamente tematico di Olivetti : Filosofia della religione e significato della storia in prospettiva ermeneutica, in Idem, 1977, pp. 37-54. 2 A tale proposito si vedano in particolare di Marco Maria Olivetti, Enrico Castelli : un Maestro, cit. ; Il senso “comune” tra colloquio e paradosso. Linee per una interpretazione del pensiero e dell’opera di Enrico Castelli, in Religione e politica, in « Archivio di Filosofia », 1978, pp. 17-24 ; I convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), in « Archivio di Filosofia », 1979, n.1, pp. vii-xxx ; Enrico Castelli (1900-1977), in « Archivio di Filosofia », 1990, pp.765-778 ; Enrico Castelli, in Gaspare Mura e Giorgio Penzo (curatori), La filosofia cristiana nel secolo xix e xx, vol. iii, Roma, Città nuova, 1995, pp. 677-689 ; Prefazione a Enrico Castelli, Diari, a cura di Enrico Castelli Gattinara, Padova, cedam, 1997, vol. i, pp. ix-xii ; L’edizione nazionale giobertiana e l’attività culturale di Enrico Castelli, in Giornata giobertiana, Atti del convegno organizzato dal Centro di studi filosofico-religiosi “Luigi Pareyson” e dall’Accademia delle Scienze di Torino il 20 novembre 1998, Torino, Trauben, 2000, pp. 89-105 ; (Senza titolo) : Testimonianza su Enrico Castelli, in Raffaele Pettenuzzo, Enrico Castelli : (ii ) senso comune e demitizzazione, Roma, Leonardo Da Vinci, 2002, pp.175-176 ; Enrico Castelli : senso comune e filosofia dell’esistenza, in « Sensus Communis », 4, 2003, pp. 89-98. 3 Mi permetto di fare mie le parole olivettiane, evidenziando in che senso per molti, compresa la sottoscritta, anche Olivetti sia stato un Magister. 4 Così dice, infatti, Olivetti in occasione della commemorazione della morte di Castelli : « Non si tratta dunque di un fatto privato se dico che questo è il momento più solenne e significativo della mia vita, perché, al contrario, in questo momento mi tocca di dare una dimensione pubblica a quel rapporto – che
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flusso di pensiero inverso, riguardante lo stimolo che il giovane allievo ha costituito per l’anziano Maestro, anche in virtù del manifesto e continuo socratismo di quest’ultimo. 1 E il riscontro dei temi castelliani verrà effettuato tenendo come principale fonte di riferimento il volume Analogia del soggetto : 2 saggio della maturità del pensiero olivettiano, che per la sua interna struttura ci permette di cogliere i nuclei essenziali e l’orizzonte teorico di una personale elaborazione filosofica. Si può partire, per cercare di entrare nelle molte pieghe del legame intellettuale Castelli-Olivetti, dal saggio che Olivetti dedicò al Maestro nel 1990. 3 È una delle ricostruzioni più articolate del pensiero di Castelli, che proprio per questo consente di approfondire secondo diversi percorsi il loro rapporto. In questo scritto Olivetti ripropone la distinzione in quattro periodi della – pur continua – produzione filosofica di Castelli : 4 quello giovanile, di natura più tradizionalmente accademica, quello diaristico, quello esistenzialistico e quello demitizzante. Ne emerge un Castelli che, fin dal suo articolo d’esordio, 5 comincia a costituire una personale posizione critica nei confronti di certi risvolti dell’idealismo attualistico, rispetto al quale propone un’impostazione filosofica che, richiamandosi sempre più direttamente al volontarismo di Maurice Blondel, 6 ma anche a certi temi rivisitati da Bernardino Varisco, si sviluppa a partire da una riconsiderazione critica del valore conoscitivo e ontologico della dimensione pratica dell’esperienza umana. La critica di Castelli all’idealismo assoluto acquisisce poi, a partire da Filosofia della vita 7 (per giungere, in questi anni, fino a Idealismo e solipsismo), 8 sempre più specifiche intonazioni antisolipsistiche, che in parte gli derivano appunto da Varisco, in parte segnano il superamento, sempre attraverso il recupero critico della filosofia dell’azione blondeliana, di alcuni limiti gnoseologici che Castelli riconosce nell’impostazione del Maestro di Chiari. Si tratta di due questioni che già lasciano intravedere significative connessioni con nodi portanti del pensiero olivettiano, ovvero, rispettivamente, la riflessione sull’etica come filosofia anteriore e gli ampi approdi che ne derivano in connessione al tema dell’intersoggettività. L’influsso del pensiero di Varisco su Castelli – dunque – e la reinterpretazione originale del primo ad opera del secondo grazie alla mediazione di Blondel. Il Varisco con cui Castelli viene in contatto agli inizi degli anni Venti è un pensatore assai complesso, che
prima era privato – fra l’ispiratore e il discepolo, fra il Maestro e colui che, grazie all’ispirazione continua del Maestro, è chiamato ad essere se stesso ». Marco Maria Olivetti, Il senso “comune” tra colloquio e paradosso, cit. p. 17. 1 Olivetti connota spesso in questi termini l’attività di convocazione e provocazione filosofica di Castelli ; a tale proposito si veda in particolare Marco Maria Olivetti, Enrico Castelli (1900-1977), cit. 2 Idem, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992. 3 Idem, Enrico Castelli (1900-1977), cit. 4 Partizione che è possibile rintracciare anche in Marco Maria Olivetti, Enrico Castelli : un Maestro, cit. E dello stesso autore, Il senso “comune” tra colloquio e paradosso. Linee per una interpretazione del pensiero e dell’opera di Enrico Castelli, cit. 5 Enrico Castelli, Il valore della psicologia sperimentale e la critica idealistica, in « Archivio di Psicologia », ii, 1923, pp.60-65. 6 Per una ricostruzione più dettagliata dell’influsso di Maurice Blondel nel pensiero di Castelli, mi permetto di rimandare al mio, La corrispondenza Castelli-Blondel e la traduzione del « Principe élémentaire » (1924), in « Archivio di Filosofia », lxxi, 2003, pp. 459-487. 7 Enrico Castelli, Filosofia della vita. Saggio di una critica dell’attualismo e di una teoria della pratica, Roma, Signorelli, 1924. 8 Idem, Idealismo e solipsismo, Roma, Signorelli, 1933.
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ormai da tempo ha preso le distanze dal suo iniziale positivismo, incamminandosi come ho detto verso l’elaborazione di una particolare forma di idealismo antisolipsistico, indirizzato ad una crescente attenzione per l’avallo di posizioni teistiche. 1 Secondo Varisco, nel soggetto è possibile distinguere tra un’unità primitiva, che rimane subconscia e in cui tutto è noto in forma indistinta, e un’unità secondaria cosciente, un io attuale, che si forma intorno all’io primitivo e che può essere sia oggetto di conoscenza, sia conoscente. 2 Il fatto che nel soggetto l’ambito degli indistinti contenuti del subconscio sia molto esteso, evidenzia come il soggetto stesso che noi conosciamo sia in realtà finito e limitato, per cui non è possibile risolvere tutta la realtà nel pensiero del singolo, che dunque in ogni caso ha sempre qualcosa fuori di sé : ciò che è subconscio nel singolo sussiste come pienamente consapevole nel Soggetto universale. È questa particolare forma di teismo che Varisco, nel volume Dall’uomo a Dio, 3 presenta come immanentismo trascendentale o trascendentalismo relativo, concetti che di contro all’immanentismo e al trascendentalismo assoluti evidenziano come pur essendo Dio esterno ai singoli questi stessi non siano esterni a Dio : di qui la possibilità per i singoli di dimostrarne l’esistenza proprio prendendo come punto di partenza la loro unità di esseri soggettivi, con i limiti che questa comporta. In un contesto di questo tipo, insomma, si avvalorano allo stesso tempo una concezione antisolipsistica dell’universo quale sistema policentrico di soggetti e la tesi dell’esistenza di un Dio trascendente (relativamente). Va però evidenziato che il Dio così individuato da Varisco sottende ancora una non disciolta tensione tra unità e molteplicità, panteismo e teismo, ragione e fede, o più in generale tra riflessione teorica e riflessione pratica, da cui tutta l’argomentazione prende le mosse. Castelli ha ben presente che questi sono i termini con cui la sua filosofia della vita deve confrontarsi e, consapevole dei residui di derivazione gnoseologica del Maestro di Chiari, si adopera per superarli con una reinterpretazione critica della filosofia dell’azione, che gli consenta di completare il suo percorso verso un volontarismo reale e concreto, tale da inglobare in sé tutte le dimensioni del riflettere umano ; di qui il richiamo al concetto blondeliano di azione quale centro di convergenza di pensiero ed essere. L’aspetto che maggiormente colpisce il lettore di questi primi lavori castelliani, discussi spesso da Olivetti anche in colloqui privati con allievi e colleghi, è proprio la chiave argomentativa utilizzata, ovvero la valorizzazione della connessione tra aspetto gnoseologico, pratico e ontologico in opposizione agli esiti solipsistici di un assoluto gnoseologismo e con l’obiettivo della creazione di una logica della morale che sia tale da non disgiungersi da una vita pratica concretamente vissuta. 4 Di questi primi anni della produzione castelliana, d’altronde, è anche la nascita di quello che diverrà il cuore pulsante della sua attività filosofica ed editoriale : l’« Archivio di Filosofia », 5 che insieme
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A tale proposito si veda in particolare Marco Maria Olivetti, Varisco e il teismo, in Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, atti del convegno di Chiari (Brescia), 8-10 dicembre 1983, a cura di Massimo Ferrari, Chiari, Edizioni Fondazione Morcelli-Repossi, 1985, pp.279-295. 2 A tale proposito vedi in particolare Bernardino Varisco, Conosci te stesso, Milano, Libreria Editrice Milanese, 1912 ; e dello stesso autore : Linee di filosofia critica, Roma, Signorelli, 1925. 3 Bernardino Varisco, Dall’uomo a Dio, Padova, cedam, 1939. Si tratta dell’ultima opera varischiana, uscita postuma grazie alla collaborazione di Enrico Castelli e del nipote di Varisco, Giulio Alliney. 4 Si veda a tale proposito la traduzione dello scritto di Maurice Blondel, Le principe élémentaire d’une logique de la vie morale, Biblioteque du Congrès Internatonal de Philosophie, Paris, 1903, pp. 51-85. Maurice Blondel, Principio di una logica della vita morale, Signorelli, Roma s.d. (ma finito di stampare nel 1924) (traduzione e introduzione di Enrico Castelli). 5 « Che iniziato da Castelli nel 1931, diviene a partire dal 1946, monografico, rappresentando una sorta di
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all’Istituto di Studi Filosofici e ai cosiddetti « Colloqui Castelli », di cui diremo più oltre, costituisce il lascito più significativo che Castelli ha tramandato alla gestione olivettiana. Tre strade che, congiunte, sono parte integrante dell’opera del Maestro (e poi, secondo noi, anche dell’allievo), da leggere tutte sotto il segno di una concreta filosofia della vita antisolipsistica (e, per quel che concerne Olivetti, di un’anteriore filosofia etica intersoggettiva). Sono in particolare i numeri dell’« Archivio di Filosofia » pubblicati a partire dagli anni Sessanta e i temi in essi affrontati sulla scia dei « Colloqui » di questo stesso periodo ad aprire e ‘direzionare’ lo spazio in cui Olivetti si forma come studioso autonomo. 1 Appare evidente, anche solo scorrendo i titoli degli articoli, come sia intorno a queste problematiche che si costituisce, per poi essere rielaborato attraverso l’incontro con altri autori e sollecitazioni teoretiche, il nucleo delle più approfondite e originali riflessioni alle quali Olivetti darà ampio sbocco nei suoi libri. 2 Un percorso, appunto, che è sempre una ripresa come approfondimento. Si consideri in via esemplificativa l’articolo Ecclesiologia filosofica e teoria della società, 3 ampiamente ripreso nella prima parte di Analogia del soggetto. 4 Esso è doppiamente significativo. Da una parte, infatti, viene inserito all’interno di una raccolta di scritti su esistenza, mito ed ermeneutica in onore di Enrico Castelli e dunque in qualche modo posto da Olivetti stesso sotto il segno della filosofia del Maestro, di quella cura ecclesiologica che percorre tutta l’ultima fase del suo pensiero. Dall’altra, tuttavia, la questione ecclesiologica viene rivisitata in una direzione che già documenta chiaramente un interesse e una interpretazione originali : Olivetti si confronta con il tema delle due chiese del Kant della Religione entro i limiti della sola ragione (di cui non a caso egli, in questo stesso anno, cura e introduce l’edizione italiana per la Laterza), 5 sente la necessità di approfondirlo attraverso un puntuale confronto
permanente “tavola rotonda” di cui volta per volta il direttore decide l’argomento da porre in discussione (…) ». Olivetti, Enrico Castelli (1900-1977), cit., p. 768. 1 Si vedano a tale proposito i seguenti articoli di Marco Maria Olivetti, Simbolo cosmico: il tempio, in «Archivio di Filosofia», xxxiii, 3, 1965, pp. 121-141; L’istanza critica nella domanda ontologica, in «Archivio di Filosofia», xxxvi, 1, 1968, pp. 103-121; La domanda sul futuro del cristianesimo, in «Archivio di Filosofia», xxxvi, 1, 1968, pp. 133-142; Comprensione dell’esistenza ed ermeneutica religiosa. Rassegna di pubblicazioni tedesche di filosofia della religione, in «Archivio di Filosofia», xxxvi, 2, 1968, pp. 172-174; Riforma cattolica e filosofia moderna nel pensiero di Augusto Del Noce, in «Archivio di Filosofia», xxxvii, 1, 1969, pp. 153-187; Gli inizi della filosofia del linguaggio di Jacobi: le Considerazioni del 1773 e la corrispondenza con Hamann, in «Archivio di Filosofia», xxxvii, 2-3, 1969, pp. 501-528; Il significato della filosofia jacobiana nelle recenti interpretazioni della “Jacobi-Renaissance”, in «Archivio di Filosofia», xxxix, 3, 197, pp. 167-183; Testimonianza e apologetica, in «Archivio di Filosofia», xl, 1-2, 1972, pp. 389-426; Chiesa e ideologigia: un problema di filosofia della storia, in «Archivio di Filosofia», xli, 2-3, 1973, pp. 103-133; Filosofia della religione e storia della filosofia, in «Archivio di Filosofia», xlii, 1, 1974, pp. 169-204; Spazio – Tempo – Luogo, in «Archivio di Filosofia», xliii, 2-3, 1975, pp. 377-404; Il problema della secolarizzazione inesauribile, in «Archivio di Filosofia», xliv, 2-3, 1976, pp. 73-86; Filosofia della religione e significato della storia in prospettiva ermeneutica, in «Archivio di Filosofia», xlv, 2-3, 1977, pp. 37-54; Da Leibniz a Bayle: alle radici degli Spinozabriefe, in «Archivio di Filosofia», xlvi, 1, 1978, pp. 147-199; Ecclesiologia filosofica e teoria della società, in «Archivio di Filosofia», xlviii, 2-3, 1980, pp. 429-447. 2 A tale proposito di Olivetti si vedano in particolare : Il Tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Roma, Abete, 1967 ; L’esito ‘teologico’ della filosofia di Jacobi, Padova, cedam, 1970 ; Filosofia della storia come problema storico. Romanticismo e idealismo romantico, Padova, cedam, 1974. 3 Idem, Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cit. Olivetti stesso presenta l’articolo in questione come un disegno da sviluppare più ampiamente in un secondo momento. 4 Idem, Analogia del soggetto, cit. 5 Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di Marco Maria Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 1980.
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con la riflessione contemporanea sulla teoria della società e guadagna così la frontiera più avanzata dalla quale svilupperà i capitoli più importanti della sua filosofia. Per quanto riguarda la convergenza di filosofia e vita in senso antisolipsistico (e intersoggettivo) sono da rileggere senz’altro anche le opere castelliane del periodo diaristico, che traggono dal punto di vista della forma (la narrazione diaristica, appunto) le conseguenze dell’antecedente critica al solipsismo gnoseolgistico, costituendosi come le prime veramente ‘intrinseche’ alla filosofia della vita che in esse si esprime. 1 Si tratta di una serie di opere in cui si mettono a fuoco temi come il senso comune che accomuna i soggetti plurimi prima di ogni presunta conoscenza incontrovertibile ; 2 l’importanza dell’esperienza quotidiana ; il valore evocativo delle parole, rispetto al quale Castelli è sempre strato molto ironico (note sono le sue frequenti espressioni chiasmatiche), dubitando fortemente della pretesa inseità del concetto. In questo contesto, il titolo castelliano che meglio ci consente di cogliere la rielaborazione che di queste questioni proporrà Olivetti è forse Introduzione alla vita delle parole, 3 in cui l’ironia che investe pensiero e linguaggio giunge all’estremo, fino a mettere in discussione l’identità psichica del parlante-pensante : le parole sono immaginate come dotate di una propria autonomia. In Analogia del soggetto, 4 anche nello stile utilizzato, si possono scorgere rimandi a problematiche analoghe e significativo a tale proposito è il frequente uso filosofico che Olivetti fa del genitivo equivoco, perno dei chiasmi castelliani ; di più, tra gli interlocutori che Olivetti esplicitamente chiama in causa a proposito dello spazio d’essere unificante che il linguaggio apre tra l’unità e la pluralità (l’uno e l’altro) c’è proprio Castelli e la sua valorizzazione ironica del linguaggio. 5 Un altro nodo tematico che sembra trarre origine da questo humus è la riflessione olivettiana sul concetto di senso e l’ermeneutica che lo concerne, sulle aporie che lo caratterizzano e sulla problematica considerazione della società come comunità o sistema di senso : esiste un senso comune ? 6 La considerazione ironica del linguaggio e il radicalizzarsi dell’analisi del solipsismo, associandosi, tracciano i contorni della terza fase del pensiero castelliano ; Olivetti ne riconosce il valore anticipatorio rispetto a questioni poi ampiamente diffuse nella filosofia contemporanea, proprio per quel che concerne la considerazione in senso antisolipsistico del problema della trascendenza come profondamente connesso a quello dell’alterità. 7 I presupposti di una teologia della storia 8 è uno dei volumi più significativi di questo periodo ; in esso è tematizzato il tema del male quale status naturae lapsae in cui la tentazione del discorso coerente e luciferico (per sua natura solipsistico) apre una concezione della storia tesa tra nostalgia di un mondo perduto e attesa di una salvezza ad opera di una caritas non razionalmente deducibile, ma anticipata nell’azione di avvicinamento al prossimo. Si tratta di questioni (estremizzate nell’ultimo periodo
1 La diaristica non è semplicemente uno stile per un pensiero che ha fatto dell’antisolipsismo logicoscientifico uno dei suoi punti di forza ; Castelli stesso, nella sua vita privata fu un fine diarista e i suoi diari privati sono stati di recente pubblicati con prefazione di Olivetti. Enrico Castelli, Diari, quattro volumi, a cura di Enrico Castelli Gattinara Jr., con prefazione di M. M. Olivetti, Padova, cedam, 1997. 2 Tema già abbozzato nel periodo precedente. Cfr. Enrico Castelli, Filosofia apologetica. Saggi critici di una filosofia della religione, Roma, Signorelli, 1929. Ma anche Idem, Idealismo e solipsismo, cit. 3 Idem, Introduzione alla vita delle parole. Frammenti di un diario (con lo pseudonimo Dario Reiter), Milano, 4 Olivetti, Analogia del Soggetto, cit. Bocca, 1938. 5 6 Ivi, p. 128. Ivi, p. 19 e seguenti. 7 Olivetti, Enrico Castelli (1900-1977), p. 770. In cui è evidente l’implicito richiamo a Levinas. 8 Enrico Castelli, I presupposti di una teologia della storia, Milano, Bocca, 1952.
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demitizzante del pensiero castelliano) che aprono alle considerazioni olivettiane della filosofia della storia come filosofia della storia negativa, 1 di cui tra l’altro egli ha ricercato le radici filosofiche nello studio del tardo Kant e nella sua concezione del male radicale. 2 Al rinnovarsi castelliano della polemica solipsistica, poi, si accompagna una radicalizzazione stilistica (che in Castelli non è mai solo tale) in cui le forme espressive non concettuali, ma artistiche o per immagini rivelano tutta la loro importanza filosofica. 3 Come « la pittura “dei pittori teologi”, come Castelli chiama Bosch, Bruegel ecc., è (…) ben più significativa, filosoficamente di un discorso concettuale o preteso tale, ed è assai meglio di questo in grado di esprimere (…) lo status fondamentale dell’esistenza », 4 così, secondo noi, anche per Olivetti, il tempio e più in generale l’architettura del sacro, diviene nell’età della tecnica, nell’età della tensione ontoteologica, il più efficace strumento di espressione della realtà nella sua totalità come simbolo del cosmo. 5 Si tratta di ponti che è possibile lanciare tra il pensiero castelliano e quello olivettiano, anche in virtù di quanto accennavamo a proposito dei numeri dell’« Archivio di Filosofia » degli anni Sessanta e Settanta. Sono questi gli anni in cui le tematiche classiche del pensiero castelliano reinterpretate in senso esistenzialistico si radicalizzano nella direzione di un’aperta volontà demitizzante ; sono questi gli anni del contatto diretto di questi due Maestri e sono questi gli anni di quel grande capitolo dell’opera castelliana, i « Colloqui », di cui l’« Archivio di Filosofia » diventa uno strumento. I presupposti della tensione demitizzante dell’ultimo Castelli, che Olivetti ritiene presenti già nella fase esistenzialistica, sono da rintracciare nella distinzione tra storia sacra e storia naturale e nel concetto di caritas come unico criterio per dar vita ad una logica antisolipsistica che non abbandoni il « senso comune ». 6 In Castelli il superamento della tentazione solipsistica necessariamente si attua attraverso il recupero del problema religioso e sullo sfondo permane, infatti, il tema cristiano della caduta : il discorso luciferino che assolutizza se stesso escludendo gli altri è causa dello status naturae lapsae. Tali presupposti costituiscono le coordinate essenziali di un’opera come La critica della demitizzazione 7 e dell’attività ‘socratica’ in cui essa si colloca, della quale restano testimonianza esemplare le introduzioni con cui Castelli, a partire dal 1961, convocava appunto i « Colloqui ». In essi l’unità di pensiero e opera diventa lo strumento immediatamente concreto e più efficace per vivere dall’interno della filosofia il costituirsi e articolarsi delle dimensioni specifiche della filosofia della religione, per verificare l’ambizione di considerare la filosofia della religione non soltanto una filosofia ‘seconda’ fra molte altre, ma una prospettiva privilegiata, quasi una cartina di tornasole dei nuclei vitali e dei nodi problematici del pensiero contemporaneo, delle sue radici e del suo ‘destino’. Per Olivetti, come ho detto, questa eredità è stata il punto di partenza, il catalizzatore di curiosità intellettuali e percorsi di ricerca che ne hanno fatto a sua volta un Maestro. Ma è significativo che la gran parte di questi percorsi abbia continuato a correre parallela e spesso a coincidere con la storia dei « Colloqui » e dell’« Archivio di Filosofia ». Delle presenze, delle amicizie e dei rapporti che si sono intrecciati nei tradizionali
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Marco Maria Olivetti, Filosofia della storia come problema storico, cit. Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, cit. 3 Enrico Castelli, Il demoniaco nell’arte, Milano, Electa 1952. 4 Olivetti, Il senso “comune” tra colloquio e paradosso, cit. p. 22. 5 Idem, Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, cit. 6 Idem, Enrico Castelli (1900-1977), pp.774-775. 7 Enrico Castelli, La critica della demitizzazione. Ambiguità e fede, Padova, Cedam, 1972. 2
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appuntamenti di gennaio e sulle pagine della rivista è facile ritrovare l’eco in Analogia del soggetto così come in tutti i principali scritti di Olivetti. Che ha fatto del loquor, nella radicalità della sua ‘ironia’, il medium dell’investigazione filosofica e della sua capacità di ‘dire’ la com-plicazione della vita. Trovando in questo modo se stesso senza ripetere il Maestro.
Nota biografica* 1 Francesco Valerio Tommasi
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arco Maria Olivetti nasce a Roma il 24 Maggio del 1943. È secondogenito di una famiglia di antica tradizione culturale, che ha origini in diverse regioni d’Italia, al sud come al nord. Cresce negli anni non semplici del dopoguerra, e presto si segnala per la viva curiosità e la forte propensione agli studi. Alla frequenza ordinaria delle scuole, sino al Liceo Classico (portata avanti molto brillantemente a Roma presso l’Istituto Santa Maria), affianca molti interessi ed attività. L’apprendimento delle lingue straniere, ad esempio : francese, inglese e tedesco, che arriverà a dominare perfettamente. Oppure il giornalismo, i cui esordi sono segnati dalla collaborazione con un foglio redatto da studenti romani, Il Pincio, e che proseguono poi, negli anni degli studi universitari, con la redazione di contributi per l’Osservatore Romano. Ma molto spiccata è anche la vena artistica, che si manifesta in particolare nella musica – dal pianoforte al canto lirico – o nel disegno : con spirito di osservazione anche caricaturale, e dunque ispirato da quell’ironia che mai lo abbandonerà, verga schizzi e bozzetti su qualsiasi foglietto che gli capita sotto mano. Il periodo liceale è segnato anche dalla partecipazione alle attività del Centro di Studi Sociali Pio XII. Il Centro conduce attività culturali all’avanguardia (come l’approfondimento della sociologia), ma anche di assistenza sociale e spirituale nelle borgate romane. Animatore e guida ne è Tullio Contiero, fratello marianista prima e poi sacerdote a Bologna con il Cardinale Lercaro, nonché missionario in Africa: personalità poliedrica e vivace, Contiero apprezza particolarmente le doti di Olivetti e prova a incoraggiarlo alla carriera politica. Contestualmente, Olivetti è attivo anche in un Centro animato dai Sacerdoti Oratoriani, ed in particolare da Padre Carlo Gasbarri, presso la Chiesa Nuova, dove pure – sono gli anni che portano al Concilio – si cercano nuovi percorsi. Passione per le vicende dell’ecclesia e della polis in senso lato sono tratti costanti della vita di Olivetti. Non a caso, per anni è anche membro della sioi (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale), come inviato della quale, durante gli anni dell’Università, ha occasione di essere a Ginevra prima e poi in Iugoslavia. La sua formazione è dunque segnata da un altro interesse che lo accompagnerà costantemente, ossia quello per il confronto con l’estero (già subito dopo la maturità ha occasione di essere in Inghilterra). La sua vera vocazione, però, è la filosofia. La volontà di intraprendere lo studio di questa disciplina all’Università è precoce e ferma, così come poi, durante gli anni di frequenza alla Sapienza, altrettanto ferma è la decisione di seguire e lavorare con Enrico Castelli, Professore di Filosofia della Religione. In entrambi i casi, come non è difficile immaginare, si tratta di scelte che non sono certo riconducibili a motivazioni di convenienza. In quegli anni Olivetti scrive per un breve periodo su Studi Cattolici e si avvicina in particolare alla figura di Raimon
* La presente nota, lungi dall’avanzare pretese di esaustività, intende semplicemente fornire al lettore del volume un primo strumento di orientamento contestuale per inquadrare il pensiero di Marco Maria Olivetti. Basata soprattutto sulle testimonianze di persone a lui vicine, necessita di un lavoro di approfondimento di archivio che ragioni di tempo e di circostanza non hanno reso possibile in questa occasione.
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Panikkar. Ma è molto attivo specialmente nell’ambito della Facoltà, dove guadagna la stima, oltre che di Castelli stesso, anche di Ugo Spirito e soprattutto di Tullio Gregory, con il quale avvia un rapporto di stima reciproca che dura tutta la vita ; partecipa inoltre con regolarità agli incontri della Società Filosofica Italiana. Parallelamente alla filosofia conduce altresì con successo e rapidità studi di giurisprudenza, arrivando sin quasi a terminare il corso di laurea relativo. Con Enrico Castelli quale relatore e Franco Lombardi quale correlatore, discute nel 1965 la tesi di Laurea, poi pubblicata nel 1967 con il titolo Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica. Del lavoro di elaborazione di quest’opera, che esercita in modo molto originale una riflessione filosofica e teologica sull’architettura sacra contemporanea, e che per la mediazione di Castelli arriva anche nelle mani di Papa Paolo VI, resta una fitta documentazione, anche fotografica, che ne ha accompagnato lo sviluppo e che testimonia di un interesse mantenuto a lungo anche dopo la pubblicazione del lavoro. Se molto forte è già, in quello scritto, l’attenzione e l’interesse per il pensiero contemporaneo e per quello di Heidegger in modo particolare, gli anni immediatamente successivi lo vedono invece rivolto ad una meditazione sulla filosofia dell’Ottocento, su Jacobi, Schleiermacher, e sull’idealismo e il romanticismo in generale, sempre seguendo il filo conduttore della filosofia della religione come disciplina. Frutto di questi interessi sono le opere : L’esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi (1970) e Filosofia della religione come problema storico. Romanticismo ed idealismo romantico (1974). A cavallo tra questi due scritti (nel 1972), ed in vista della preparazione del secondo, conduce un significativo soggiorno di studi a Tubinga. Ma è l’approfondimento di Kant e della Religione entro i limiti della sola ragione (di cui cura una fortunata revisione della traduzione italiana, pubblicata per la prima volta nel 1980), indagata sia nel suo ruolo storico che nella sua validità teorica per la riflessione contemporanea, ad offrirgli in quel periodo uno dei nutrimenti principali per la riflessione. La carriera accademica in senso stretto inizia con la libera docenza in Filosofia morale, ottenuta già nel 1966 e quindi prima dei cinque anni di distanza dalla Laurea che erano richiesti dalla legislazione allora vigente, grazie ad una deroga concessa solo in casi di particolare eccezionalità e merito. Questa attività si accompagna all’insegnamento di Storia e Filosofia presso l’Istituto Santa Maria (1967-1973), che lo aveva già visto studente, e soprattutto all’insegnamento della Filosofia della Religione all’Università di Chieti (1966-1975), dove lascia un segno importante, aprendo in quell’Ateneo una tradizione di studi sulla disciplina che prosegue tutt’ora. Dal 1975 è Professore ordinario presso l’Università di Bari, e poi dal 1978 al 1980 all’Università di Trieste. Sono questi anche gli anni del matrimonio con Maria Adele Valentini (1972), allietato dalla nascita dei due figli Maria Livia (1979) e Giovanni (1981). Nonostante una profonda discrezione e riservatezza sulla propria vita personale, difficile è non cogliere segni del profondo e straordinario amore e della grande e continua dedizione che rivolge alla propria famiglia e che da essa riceve. Lungo tutti gli anni che seguono la laurea, Olivetti è sempre molto vicino ad Enrico Castelli soprattutto nell’impresa filosofica che più gli sta a cuore, l’organizzazione dei Colloqui romani di Filosofia della religione, a cui prendono parte alcune delle personalità più rilevanti del panorama filosofico e teologico internazionale. Alla scomparsa del maestro (1977), Olivetti ne eredita la responsabilità, e con essa assume la Direzione dell’Istituto di Studi Filosofici, affiancata dalla Presidenza – e dalla contestuale collaborazione ed amicizia – di Vittorio Mathieu, così come della rivista Archivio di Filosofia : e per decisione di Olivetti l’Istituto viene dedicato proprio ad Enrico Castelli. La pluri
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decennale gestione olivettiana si caratterizza per la forte continuità di spirito con l’impronta del maestro, e per la contemporanea assoluta originalità. Sotto la sua direzione l’Istituto prosegue l’Edizione nazionale delle opere di Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti; l’Archivio si caratterizza per una più decisa unità tematica, pur nella costante diversificazione delle prospettive ; e anche i Colloqui continuano e si rinnovano, rimanendo sempre all’avanguardia, nell’approfondimento di tematiche di filosofia della religione che investono anche snodi cruciali della filosofia in generale. I temi di volta in volta scelti da Olivetti rivelano la sua profonda conoscenza del dibattito contemporaneo e la capacità di coglierne e sottolinearne questioni decisive e feconde, così che le sue brevi ma intensissime introduzioni di invito ai relatori riescono ogni volta ad attrarre personalità rilevantissime e ad unire a un nucleo di partecipanti che col tempo diviene abituale (tra cui Ricoeur, Levinas, Casper, Simon, Henry, Marion, Kemp, Vahanian, Peperzak, Swinburne, Phillips, Knuuttila, Dalferth, Mosès) la presenza di altri nomi che di volta in volta arricchiscono la riflessione sui singoli temi (tra cui Apel, Luhmann, Vattimo, Severino, Pannenberg, Rahner). La direzione olivettiana degli incontri, sobria, autenticamente dialogica e maieutica, riesce a far emergere tutte le potenzialità di questa platea di partecipanti di primissimo ordine, che trovano a Roma il contesto scientifico più adatto per confrontarsi. La filosofia della religione degli ultimi decenni risulta perciò inevitabilmente segnata dalla sua impronta. Tale impronta, così delicata nel dar voce alle individualità degli ospiti dei Colloqui, non è però priva di un marcato ed originale tratto di speculazione personale, di cui testimonianza matura e rilevante è senza dubbio Analogia del soggetto (1992). In quest’opera la filosofia della religione è letta alla luce della teoria della società, in una riflessione che intreccia le prospettive della filosofia analitica e continentale, si confronta ancora con Apel e Habermas, Heidegger e Levinas, e giunge ad una proposta di respiro “metafisico” molto ampio, che ancora è tutta da meditare. La sua attività gli procura così riconoscimenti del più alto livello sia in patria che all’estero. In Italia, è prima Direttore del Dipartimento di Studi Storico-Filosofici e Pedagogici della Sapienza (1995-2000), e poi (dal 2001) Preside della nuova Facoltà di Filosofia, da lui fortissimamente voluta, in continuità e sviluppo della tradizione della scuola romana a cui si era formato, e che è la prima ed unica facoltà in Italia dedicata esclusivamente a questa disciplina. Proprio l’istituzione e la gestione della nuova Facoltà, opera quante altre mai complessa e faticosa, ma altresì affascinante, visto il ricco e poliedrico patrimonio di personalità e istituzioni che ne fanno parte, ne assorbe molte, forse troppe energie degli ultimi anni. La sua direzione si segnala per un senso molto forte dell’Istituzione, la capacità di ascolto, di attenzione e di mediazione, cui sempre si affianca la fermezza nell’assunzione delle responsabilità e nel governo di situazioni difficili, come il passaggio al nuovo ordinamento. Il suo spirito lucido permette alla Facoltà di guadagnare rispetto ed attenzione in consessi collegiali, come il Senato accademico ; ed egli diviene voce ascoltata e richiesta anche laddove si guarda ai filosofi con un iniziale scetticismo, come nell’ast (Ateneo della Scienza e della Tecnica), al quale, con mossa inaspettata, e seguendo anche l’intuizione di colleghi, fa aderire la Facoltà di Filosofia. Dal 2003, inoltre, è membro effettivo dell’Accademia dei Lincei, a ulteriore coronamento, in Italia, della sua già lunga attività di studioso. Ma vivace è anche la partecipazione di Olivetti al dibattito scientifico internazionale. Ha relazioni personali e di studi, anzitutto attraverso i Colloqui Castelli, con innumerevoli figure di spicco. Invita a Roma come visiting professors Karl-Otto Apel e Richard
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Swinburne, ed è a sua volta invitato a tenere lezioni negli Stati Uniti da Paul Ricoeur. È membro attivo di diverse istituzioni e imprese scientifiche : dalla Internationale Hegel Vereinigung al prestigiosissimo Institut International de philosophie. Partecipa inoltre con regolarità sia ai convegni sull’“eco-etica” organizzati in Giappone da Tomonobu Imamichi, sia al circolo ristretto di riflessione sui fondamenti teorici della religione animato da Bernhard Casper, e che di nuovo raccoglie, in ambito però di conversazione rigorosamente privata e con il solo scopo di approfondimento scientifico e di discussione aperta, alcune delle figure di maggiore spicco della filosofia della religione contemporanea (vi prendono parte, tra gli altri, Levinas, Ricoeur, Marion, Peperzak, Hemmerle, Kienzler). Degli incontri di questa cerchia non si ha traccia scritta, ma restano dei nastri registrati ancora da studiare e potenzialmente di primissimo interesse. A Casper, in particolare, Olivetti è legato anche da profonda amicizia. Il loro rapporto si cementa durante i soggiorni estivi che, per lunghi anni, Olivetti trascorre assieme alla famiglia nei pressi di Friburgo, cogliendo così l’occasione di unire l’approfondimento e l’aggiornamento scientifico in biblioteca al riposo ; un riposo che è costituito però non tanto dalla sedentarietà, quanto da lunghe passeggiate nei boschi. La passione per il camminare (percorreva a piedi anche lunghissimi tragitti, a Roma), o per la corsa, soprattutto a Villa Torlonia il sabato mattina, sono tratti che altresì non sfuggono a chi incrocia la personalità di Olivetti. Personalità indubbiamente affascinante. Straordinariamente coinvolgenti sono le sue lezioni, in cui l’analisi rigorosa del testo si accompagna a lunghe digressioni che spaziano dalla storia all’attualità, con cambi rapidi di toni ed improvvisi sconfinamenti nel linguaggio ordinario, a voler rimarcare l’ancoraggio reale anche della speculazione più tecnica e raffinata. Puntigliosa, sin quasi sofferta, è l’attenzione e la ricerca sulle parole, così che un intero corso di lezioni della durata di un anno dedicato ad un’opera diviene sovente l’analisi solo di alcuni passaggi delle righe dell’introduzione, scandagliata con spasmodica attenzione, e capace di rivelare agli studenti orizzonti inaspettati, con dimensioni sorprendenti. Una palestra faticosa, quella delle sue lezioni, che allo stesso tempo offre lo spettacolo di un gioco intellettuale serissimo, dove appunto le parole, dalla loro etimologia, alle loro traduzioni, al loro utilizzo quotidiano, vengono chiamate a vita propria, nell’evocazione di tutte le loro potenzialità. Chi, giovane, si avvicina agli studi di filosofia, resta talvolta intimorito, nel colloquio personale con lui, proprio dalla gravità e profondità delle sue parole : ma non si esce mai dalla sua piccola stanza senza il conforto di un sorriso, magari scaturito da una battuta di spirito fulminante. Nel suo parlare erudizione e concretezza entrano spesso in paradossale, ma gioioso, persino divertito, cortocircuito. Così agli occhiali spessi, la barba, la magrezza – elementi che ne accentuano il profilo di rigore intellettuale – si accompagnano le giacche larghe, le cravatte particolari o gli orologi sgargianti, di nuovo a segnare un contrasto ed una evasione repentina dalla serietà. I gesti ampi delle braccia e delle lunghe dita, lo sguardo vivace e curioso, il viso espressivo ed il sorriso accogliente, accattivante e talvolta enigmatico, sono solo alcuni degli elementi del fascino anche personale che emana, e che non si può rendere con le parole. I modi garbati ma mai freddamente distaccati, il rispetto profondo con cui si porge, la pazienza, e la facoltà di leggere la realtà che gli fanno trovare spesso i modi e i termini più appropriati per ogni interlocutore, lo rendono speciale, un maestro che segna la vita degli allievi che gli si avvicinano più strettamente. La commozione profonda e la partecipazione sentita con cui tutta la comunità scien
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tifica, accanto alla schiera di coloro che gli erano personalmente vicini, ha accolto la sua inattesa scomparsa il 28 Ottobre del 2006, sono testimonianza del profondo solco e della preziosa semina che il suo lavoro di studioso, ma prima ancora la sua persona, lasciano a noi.
Bibliografia* 1 A cura di Stefano Bancalari 1965 1. Simbolismo cosmico : il tempio, in Surrealismo e simbolismo, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xxxiii, 3, 1965, pp. 121-141. 2. La crisi modernista, « Studi cattolici », ix, 51, 1965, p. 58. 3. Congressi. Demitizzazione e morale, « Studi cattolici », ix, 54, 1965, pp. 61-62.
1966 4. Demitizzazione e morale, « Il pensiero », xi, 3, 1966, pp. 264-267. 5. Demitizzazione e morale, « Giornale critico della filosofia italiana », xlv, 1966, pp. 593597. 6. Simbolismo e surrealismo, « Studi cattolici », x, 1966, pp. 62-63.
1967 7. Il senso del futuro nel pensiero filosofico italiano, « Futuribili », 1, 1967, pp. 80-89. 8. Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Roma, Abete, 1967. 9. I Colloqui internazionali sulla demitizzazione promossi dall’Istituto di Studi Filosofici e dal Centro Internazionale di Studi Umanistici, « Rivista di storia e letteratura religiosa », iv, 1967, pp. 218-222. 10. Le mythe de la peine. Compte rendu, « La table ronde », 3, 1967. 11. Demythisation et morale, « Revue internationale de philosophie », lxxxii, 4, 1967, pp. 524-527.
1968 12. L’istanza critica nella domanda ontologica, in Il problema della domanda, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xxxvi, 1, 1968, pp. 103-121. 13. La domanda sul futuro del cristianesimo, cfr. n. 12, pp. 133-142. 14. Comprensione dell’esistenza ed ermeneutica religiosa. Rassegna di pubblicazioni tedesche di filosofia della religione, cfr. n. 12, pp. 172-174.
* Per evitare ridondanze e agevolare la consultazione abbiamo riportato i contributi apparsi sull’« Archivio di filosofia » con le indicazioni bibliografiche relative alla sola rivista. Si deve tuttavia tener presente che : i) fino al 1988 (Teodicea oggi ?) i numeri monografici che raccolgono gli atti dei convegni organizzati dall’Istituto di Studi Filosofici escono sempre anche in edizione separata per le Edizioni dell’Istituto di Studi Filosofici, Roma. ii) A partire dal 1989, tutti i numeri della rivista sono pubblicati anche come volumi della collana « Biblioteca dell’Archivio di filosofia ». iii) Tra il 1965 e il 1978 viene pubblicata da Aubier, Paris, una traduzione francese degli atti dei convegni e dunque dei nn. 18, 29, 37, 39, 42, 46, 47, 48, 52, 53 ; alcuni di questi escono anche in edizione tedesca (curata da Franz Theunis) nella sezione « Kerygma und Mythos » della collana « Theologische Forschung », Reich Verlag, Hamburg : cfr. nn. 42, 46, 47, 48, 53.
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15. Il tempio nella società di domani, in Il cristianesimo nella società di domani, atti del IV. Incontro Internazionale « Il mondo di domani » (Perugia, 3-7 maggio 1967), a cura di Pietro Prini, Roma, Abete, 1968, pp. 445-458. 16. Riforma cattolica e filosofia moderna nel pensiero di Augusto Del Noce, Roma, Istituto di Studi Filosofici, 1968 – Edizione ridotta in « Archivio di Filosofia » xxxvii, 1, 1969, pp. 153-187.
1969 17. Recensione di I. Höllhuber, Geschichte der italienischen Philosophie von den Anfängen des 19. Jahrhunderts bis zur Gegenwart, « Archivio di filosofia », xxxvii, 1, 1969, pp. 192-194. 18. Gli inizi della filosofia del linguaggio di Jacobi : le Considerazioni del 1773 e la corrispondenza con Hamann, in L’analisi del linguaggio teologico. Il nome di Dio, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xxxvii, 2-3, 1969, pp. 501-528. 19. La « Jacobi-Tagung » a Düsseldorf, « Bollettino filosofico », iii, 1969, pp. 221-223. 20. Il sacro e il cemento armato, « Coscienza », 1969, pp. 85-88. 21. Per una antropologia dei nuovi edifici di culto, in Aa.Vv., Il deserto di Dio nella città degli uomini, Assisi, Cittadella, 1969, pp. 137-153. 22. Il tempo invertebrato, « Coscienza », 1969, pp. 128-129. 23. Il cristianesimo nella società di domani, « Futuribili », 8, 1969, pp. 74-81. 24. Per una teologia del linguaggio dello spazio sacro, « Coscienza », 1969, pp. 85-88. 25. L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, « Il pensiero », xiv, 1969, pp. 175179. 26. La préparation de la décision communautaire au niveau international italien, in La décision dans les communautés européennes, a cura di P. Gerbet e D. Pepy, Bruxelles, Presses Universitaires de Bruxelles, 1969, pp. 209-227.
1970 27. Recensione di A. Rigobello, Legge morale e mondo della vita, « Archivio di filosofia », xxxviii, 1, 1970, pp. 183-185. 28. L’esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi, Padova, Cedam, 1970.
1971 29. Error e Kairós. La funzione periodizzativa dell’idea di cristianesimo e la storia della filosofia, in La teologia della storia. Rivelazione e storia, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xxxix, 2, 1971, pp. 87-105. 30. Il significato della filosofia jacobiana nelle recenti interpretazioni della “Jacobi-Renaissance”, in « Archivio di filosofia », xxxix, 3, 1971, pp. 167-183. 31. Recensione di M. Bonicatti, Studi sull’umanesimo, cfr. n. 30, pp. 185-188. 32. Recensione di K. Jaspers, Ragione ed esistenza, traduzione italiana di A. Lamacchia, cfr. n. 30, pp. 202-203. 33. La teologia della storia, « IDOC internazionale », ii, 11, 1971, pp. 16-26. 34. Terricidio e amministrazione dell’habitat, « Futuribili », v, 36, 1971, pp. 33-43. 35. Der Einfluss Hamanns auf die Religionsphilosophie Jacobis, in Friedrich Heinrich Jacobi, Philosoph und Literat der Goethe-Zeit, Beiträge einer Tagung in Düsseldorf
bibliografia
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(16-19.10.1969) aus Anlass seines 150. Todestages, a cura di V. K. Hammacher, Frankfurt/M., Klostermann, 1971, pp. 85-117. 36. La philosophie de la religion et le développement de la philsophie italienne, « Les Études philosophiques », 1971, pp. 193-208.
1972 37. Testimonianza e apologetica, in La testimonianza, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xl, 1-2, 1972, pp. 389-426. 38. Ermeneutica e storia : un pericolo latente, in « IDOC internazionale », iii, 11, 1972, pp. 20-22.
1973 39. Chiesa e ideologia : un problema di filosofia della storia, in Demitizzazione e ideologia, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xli, 2-3, 1973, pp. 103-133.
1974 40. Filosofia della religione e storia della filosofia, in La filosofia della storia della filosofia, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xlii, 1, 1974, pp. 169-204. 41. Filosofia della religione come problema storico. Romanticismo e idealismo romantico, Padova, Cedam, 1974.
1975 42. Spazio – Tempio – Luogo, in Temporalità e alienazione, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xliii, 2-3, 1975, pp. 377-404. 43. Instaurazione della coscienza e rappresentazione architettonica, « Rivista di psicologia analitica », vi, 2, 1975, pp. 381-424.
1976 44. La filosofia negli Stati Uniti d’America. Il problema religioso, in La filosofia dal ’45 ad oggi, a cura di Valerio Verra, Torino, eri, 1976, pp. 401-418. 45. Il tempo inqualificabile, in « Rassegna dell’Istituto Accademico di Roma », 4, 1976, pp. 37-41. 46. Il problema della secolarizzazione inesauribile, in Ermeneutica della secolarizzazione, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xliv, 2-3, 1976, pp. 73-86.
1977 47. Enrico Castelli. Un Maestro, in L’ermeneutica della filosofia della religione, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xlv, 2-3, 1977, pp. 7-10. 48. Filosofia della religione e significato della storia in prospettiva ermeneutica, cfr. n. 47, pp. 37-54. 49. Conclusione del dibattito, seminario su Società e valori nella Scuola di Francoforte (Avezzano-Tagliacozzo, 11-12 settembre 1976), « Il cannocchiale », nuova serie, 2, 1977, pp. 88-90.
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50. Lo spinozismo ieri e oggi, a cura di Marco M. Olivetti, « Archivio di filosofia », xlvi, 1, 1978. 51. Da Leibniz a Bayle : alle radici degli Spinozabriefe, cfr. n. 50, pp. 147-199. 52. Religione e politica, a cura di Marco M. Olivetti, « Archivio di filosofia », xlvi, 2-3, 1978. 53. Il senso “comune” tra colloquio e paradosso. Linee per una interpretazione del pensiero e dell’opera di Enrico Castelli, cfr. n. 52, pp. 17-24.
1979 54. Vernunft, Verstehen und Sprache im Verhältnis Hamanns zu Jacobi, in Johann Georg Hamann, Acta des Internationalen Hamann-Colloquium in Lüneburg 1976, Frankfurt/M. 1979, pp. 169-193 (e Diskussion, pp. 211-213). 55. Sociologia della religione, in Lessico universale italiano, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, ad vocem. 56. I convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), « Archivio di filosofia », xlvii, 1, 1979, pp. vii-xxx. 57. Lévinas Emmanuel, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 2., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, ad vocem. 58. Pannenberg Wohlfahrt, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 2., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, ad vocem. 59. Pareyson Luigi, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 2., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, ad vocem. 60. Piovani Pietro, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 2., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, ad vocem.
1980 61. Esistenza, Mito, Ermeneutica. Scritti per Enrico Castelli, a cura di Marco M. Olivetti, « Archivio di filosofia », lxviii, 1 e 2-3, 1980. 62. Ecclesiologia filosofica e teoria della società, cfr. n. 61, 2-3, pp. 429-447. 63. Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di Marco M. Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 1980 (Introduzione del Curatore, pp. v-xlv). Edizioni successive : 1985 ; 19932 ; 19943 ; 19954 ; 20005 ; 20016 ; 2004 (Ia edizione nella « collana economica Laterza »), 20072. 64. Gli influssi della tematica teologica, dell’esistenzialismo e dell’ermeneutica, in Il pensiero cristiano nella filosofia italiana del Novecento, atti del convegno della Società Filosofica Italiana (Perugia, settembre 1979), a cura di Evandro Agazzi, Lecce, Milella, 1980, pp. 119-147. 65. Nichilismo e anima bella in Jacobi, « Giornale di metafisica », nuova serie, 2, 1980, pp. 11-36.
1981 66. Filosofia e religione di fronte alla morte, a cura di Marco M. Olivetti e Vittorio Mathieu, « Archivio di filosofia », xlix, 1-3, 1981.
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67. Philosophie et religion face à la mort. Remarques préliminaires, cfr. n. 66, pp. 15-17. 68. Sich in seinem Namen versammeln : Kirche als Gottesnennung, in Gott nennen. Phänomenologische Zugänge, a cura di B. Casper, Freiburg i.B. – München, Alber, 1981, pp. 189-217. 69. Comunità etica e chiesa in Kant, in Kant oggi nel bicentenario della Critica della ragion pura, atti del convegno di Saint-Vincent (25-27 marzo 1981), Saint Vincent, Edizioni Centro Culturale e Congressi, 1981, pp. 19-22. 70. The Problem of the Ethical Community, in Ethica et eco-ethica, Proceedings the first philosophical symposium of the Taniguchi Foundation (Kyûze-so, November 8-14 1981), a cura di Tomonobu Imamichi, « Journal of the Faculty of Letters, the University of Tokyo, Aestethics », vi, 1981, pp. 13-24. 71. Przywara Erich, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem. 72. Rahner Karl, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem. 73. Ratzinger Joseph, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem. 74. Ricoeur Paul, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem. 75. Sociologia della religione, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem. 76. Tillich Paul in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem. 77. Weil Erik, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem. 78. Zubiri Apalategui José Xavier, in Enciclopedia italiana, iv appendice, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, ad vocem.
1982 79. Nuovi studi di filosofia della religione, a cura di Marco M. Olivetti, « Archivio di filosofia », l, 1-2, 1982. 80. Presentazione degli Indici 1931-1981, « Archivio di filosofia », l, 3, 1982, p. ix. 81. Le problème de la communauté éthique, in Qu’est-ce que l’homme ? Philosophie – Psychanalyse. Hommage à A. De Waelhens (1911-1981), Bruxelles, Facultés Universitaires Saint-Louis, 1982, pp. 325-343 [traduzione n. 70]. 82. Il tempio nella cultura contemporanea, in Actas del tercer congresso nacional de filosofía (Buenos Aires 13 al 18 de octubre de 1980) Buenos Aires, Universidad de Buenos Aires – Facultad de Filosofía y Letras, 1982, vol. 1, pp. 444-452.
1983 83. Neoplatonismo e religione, a cura di Marco M. Olivetti e Vittorio Mathieu, « Archivio di filosofia », li, 1-3, 1983. 84. Alles Vergängliche ist nur ein Gleichnis. Remarques préliminaires, cfr. n. 83, pp. 1516. 85. Ethica inter homines : zu den heutigen (westlichen) Versuchen, Ethik neu zu denken, in Eco-ethica et valor, Actes du deuxième symposium philosophique de la Fondation
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stefano bancalari
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stefano bancalari
232. The Kantian Ethical Community and the Aporias of Intersubjectivity in Modern Philosophy, « Revue Internationale de Philosophie. Acta Institutionis Philosophiae et Aestheticae », xxiii, 2005, pp. 23-35 233. Die Ernährung des Anderen. Vorueberlegungen zu einem dankenden – „eucharistischen“ - Denken, in Das Heilige im Denken. Ansaetze und Konturen einer Philosophie der Religion, zu Ehren von Bernhard Casper, a cura di Klaus Kienzler, Josef Reiter, Ludwig Wenzler, Muenster, LIT, 2005, pp. 147-158. 234. The Third Party, « Philosophy today », xlix, 2005, pp. 362-368.
2006 235. Il divino e l’evento del mondo. Considerazioni sulla proposta di Natoli, in Teologia naturale e teologia filosofica, Atti del iv Convegno annuale della Associazione italiana di Filosofia della religione, Chieti 9-10 giugno 2005, Roma, Aracne, 2006, pp. 37-42. 236. The Community of Minds as a Problem of Modern Philosophy. Descartes, Leibniz, Kant, in Mind and Modality. Studies in the History of Philosophy in Honour of Simo Knuuttila, a cura di Vesa Hirvonen, Toivo J. Holopainen and Miira Tuominen (« Brill’s Studies in Intellectual History », 141), Leiden-Boston, Brill, 2006, pp. 309-326 [con piccole modifiche come n. 231]. 237. Prefazione, in F. Silli, La genesi del personalismo in Luigi Stefanini, Roma, Aracne, 2006, pp. 7-8. 238. Universalità e molteplicità personale, in Universalismo ed etica pubblica, a cura di Francesco Botturi e Franco Totaro, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 23-34.
2007 239. Le Tiers, a cura di Marco M. Olivetti, « Archivio di filosofia – Archives of Philosophy », lxxiv, 1-3, 2007. 240. Avant-propos, cfr. n. 239, pp. 11-12. 241. Transcendental whithout Illusion : Or, The Absence of the Third Person, « Contemporary Italian Philosophy. Crossing the Borders of Ethics, Politics, and Religion », a cura di Silvia Benso and Brian Schroeder, State University of New York, New York 2007, pp. 149-160 [traduzione n. 211]. 242. Intersoggettività e religione, in Perspectives sur le sujet, a cura di Francesco Saverio Trincia e Stefano Bancalari, Hildesheim – Zürich – New York, OLMS, 2007, pp. 21-29. 243. A mo’ di prefazione, in Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e « La Sapienza », Roma, Nuova Cultura, 2007, pp. 1-8. 244. Considerazioni introduttive sul tema : postmodernità senza Dio ?, « Humanitas », lxii, 2, 2007, pp. 230-233.
2008 245. The Problem of the Ethical Community, « Revue Internationale de Philosophie. Acta Institutionis Philosophiae et Aestheticae », Special Issue for the xxiind World Congress of Philosophy, a cura di P. Kemp, Copenhagen/Tokyo, Tomonobu Imamichi Institute for Eco-ethica/Centre international pour l’étude comparéé de philosophie et d’ésthetique, 2008, pp. 53-64.
co m p osto in ca r atte re da n te monotype dalla acca de m ia e ditoria l e, pisa · roma. sta m pato e ril e gato nella t i p o g r a fia di ag na n o, ag nano pisano (pisa). * Luglio 2009 (c z 2 · f g 1 3 )
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Biblioteca dell’«Archivio di filosofia» Fondata da Marco M. Olivetti 1. Stefano Semplici, Socrate e Gesù. Hegel dall’ideale della grecità al problema dell’Uomo-Dio, 1987, pp. 160. 2. Francesco Paolo Ciglia, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, 1988, pp. 236. 3. Irene Kajon, Ebraismo e sistema di filosofia in Hermann Cohen, 1989, pp. 192. 4. La recezione italiana di Heidegger, a cura di M. M. Olivetti, 1989, pp. viii-604. 5. L’argomento ontologico, a cura di M. M. Olivetti, 1990, pp. 766. 6. Stefano Semplici, Dalla teodicea al male radicale. Kant e la dottrina illuminista della «giustizia di Dio», 1990, pp. 320. 7. Alberto Iacovacci, Idealismo e Nichilismo. La «lettera» di Jacobi a Fichte, 1992, pp. 176. 8. Religione, Parola, Scrittura, a cura di M. M. Olivetti, 1992, pp. 560. 9. La storia della filosofia ebraica, a cura di I. Kajon, 1993, pp. xvi-548. 10. Pierluigi Valenza, Reinhold e Hegel. Ragione storica e inizio asso luto della filosofia, 1994, pp. 312. 11. Filosofia della rivelazione, a cura di M. M. Olivetti, 1994, pp. 994. 12. Trascendenza Trascendentale Esperienza, a cura di G. Derossi, M. M. Olivetti, A. Poma, G. Riconda, 1995, pp. 600. 13. Irene Kajon, Profezia e filosofia nel Kuzari e nella Stella della redenzione. L’influenza di Yehudah Ha-Lewi su Franz Rosenzweig, 1996, pp. 152. 14. Philosophie de la religion entre éthique et ontologie, a cura di M. M. Olivetti, 1996, pp. 832.
15. Enrico Castelli, Diari, a cura di E. Castelli Gattinara Jr., vol. i (1923-1945), 1997, pp. xxx-650, ill. f.t. 8. 16. Vol. ii (1945-1948), 1997, pp. viii-716. 17. Vol. iii (1949-1955), 1997, pp. viii-764. 18. Vol. iv (1956-1976), 1997, pp. viii-784. 19. Incarnation, a cura di M. M. Olivetti, 1999, pp. 748. 20. Francesco Paolo Ciglia, Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, 1999, pp. 192. 21. Pierluigi Valenza, Logica e filosofia pratica nello Hegel di Jena, 1999, pp. 428. 22. Stefano Bancalari, L’altro e l’esserci. Il problema del Mitsein nel pensiero di Heidegger, 1999, pp. 256. 23. Martin Heidegger, Colloquio sulla dialettica, a cura di Mauro Vespa, 1999, pp. 80. 24. Friedrich Heinrich Jacobi, Woldemar, a cura di Serenella Iovino, 2000, pp. 340. 25. Mauro Vespa, Heidegger e Hegel, 2000, pp 260. 26. Intersubjectivité et théologie philosophique, a cura di M. M. Olivetti, 2001, pp. 828. 27. Richard Swinburne, Esiste un Dio? 2001, pp. 132. 28. Stefano Semplici, Il soggetto dell’ironia, 2002, pp. 256. 29. Théologie négative, a cura di M. M. Olivetti, 2002, pp. 884. 30. Bernhard Casper, Evento e preghiera, a cura di S. Bancalari, 2003, pp. 172. 31. Pierluigi Valenza, Oltre la soggettività finita. Morale, religione e linguaggio nella filosofia classica tedesca, 2003, pp. 200. 32. Man and God in Hermann Cohen’s Philosophy, ed. by G. Gigliotti, I. Kajon, A. Poma, 2003, pp. 312 + 4 ill. f.t.
33. Stefano Bancalari, Intersoggettività e mondo della vita. Husserl e il problema della fenomenologia, 2003, pp. 196. 34. Le don et la dette, textes réunis par Marco M. Olivetti, 2004, pp. 610. 35. K. L. Reinhold. Am Vorhof des Idealismus, hrsg. von Pierluigi Valenza, 2005, pp. 380. 36. Le Tiers, a cura di Marco M. Olivetti, 2006, pp. 596. 37. Emanuela Pistilli, Tra dogmatismo e scetticismo. Fonti e genesi della filosofia di F. H. Jacobi, 2007, pp. 232.
Archivio di FilosoFIa la rivista dal 1945 si pubblica in numeri monografici La crisi dei valori, 1945, pp. 176. L’esistenzialismo, 1946, pp. 240. Il problema dell’immortalità, 1946, pp. 184. Leibniz, 1947, pp. 108. Umanesimo e machiavellismo, 1949, pp. 208. Esistenzialismo cristiano, 1949, pp. 160. Filosofia e linguaggio, 1950, pp. 132. Il Solipsismo. Alterità e comunicazione, 1950, pp. 148. Testi umanistici inediti sul «De Anima», 1951, pp. 228. Fenomenologia e sociologia, 1951, pp. 144. Il compito della metafisica, 1952, pp. 130. Filosofia e psicopatologia, 1952, pp. 190. Filosofia dell’arte, 1953, pp. 246. Kierkegaard e Nietzsche, 1953, pp. 282. Testi umanistici su la retorica, 1953, pp. 160. La filosofia della storia della filosofia, 1954, pp. 276. Apocalisse e Insecuritas, 1954, pp. 186. Testi umanistici sull’ermetismo, 1955, pp. 164. Studi di filosofia della religione, 1955, pp. 240. Semantica, 1955, pp. 436. Metafisica ed esperienza religiosa, 1956, pp. 300. Filosofia e simbolismo, 1956, pp. 310, tav. fuori testo i. Il compito della fenomenologia, 1957, pp. 278. La filosofia dell’arte sacra, 1957, pp. 212. Il tempo, 1958, pp. 252. Umanesimo e simbolismo, 1958, pp. 320, tavv. fuori testo xxxii. Tempo e eternità, 1959, pp. 200. La diaristica filosofica, 1959, pp. 256. Husserliana. Tempo e intenzionalità, 1960, pp. 204. Umanesimo e esoterismo, 1960, pp. 448, tavv. fuori testo xxiii. Il problema della demitizzazione, 1961, pp. 336. Filosofia della alienazione e analisi esistenziale, 1961, pp. 250. Demitizzazione e immagine, 1962, pp. 352. Pascal e Nietzsche, 1962, pp. 218. Ermeneutica e tradizione, 1963, pp. 450. Umanesimo e ermeneutica, 1963, pp. 164.
Tecnica e casistica, 1964, pp. 373. Cusano e Galileo, 1964, pp. 128. Demitizzazione e morale, 1965, pp. 440. Surrealismo e simbolismo, 1965, pp. 156. Logica e analisi, 1966, pp. 104. Mito e fede, 1966, pp. 586. Filosofia e informazione, 1967, pp. 152. Il mito della pena, 1967, pp. 484. Il problema della domanda, 1968, pp. 176. L’ermeneutica della libertà religiosa, 1968, pp. 646. Campanella e Vico, 1969, pp. 204. L’analisi del linguaggio teologico. Il nome di Dio, 1969, pp. 552. Il senso comune, 1970, pp. 188. L’infallibilità. L’aspetto filosofico e teologico, 1970, pp. 628. Ermeneutica e escatologia, 1971, pp. 294. Rivelazione e storia, 1971, pp. 260. Significato e previsione, 1971, pp. 204. La testimonianza, 1972, pp. 536. Informazione e testimonianza, 1972, pp. 158. Il simbolismo del tempo. Studi di filosofia dell’arte, 1973, pp. 188, ill. f.t. 76. Demitizzazione e ideologia, 1973, pp. 596. La filosofia della storia della filosofia. I suoi nuovi aspetti, 1974, pp. 348. Il sacro. Studi e ricerche, 1974, pp. 494. Prospettive sul sacro, 1975, pp. 236. Temporalità e alienazione, 1975, pp. 496. Schelling, 1976, pp. 186. Ermeneutica della secolarizzazione, 1976, pp. 504. Prospettive sulla secolarizzazione, 1977, pp. 148. L’ermeneutica della filosofia della religione, 1977, pp. 486. Lo spinozismo ieri e oggi, 1978, pp. 410. Religione e politica, 1978, pp. 414. Indici degli Atti dei convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), 1979, pp. 296. Il pubblico e il privato, 1979, pp. 280. Esistenza Mito Ermeneutica, 1980 (2 voll.), pp. 448, 506. Filosofia e religione di fronte alla morte, 1981, pp. 564. Nuovi studi di filosofia della religione, 1982, pp. 352. Indici 1931-1981, 1982, pp. 210. Neoplatonismo e religione, 1983, pp. 480. Schleiermacher, 1984, pp. 652. Ebraismo Ellenismo Cristianesimo, 1985 (2 voll.), pp. 392, 484. Intersoggettività Socialità Religione, 1986, pp. 812.
Etica e pragmatica, 1987, pp. 508. Teodicea oggi?, 1988, pp. 724. La recezione italiana di Heidegger, 1989, pp. xii-672. L’argomento ontologico, 1990, pp. 796. Studi di filosofia tedesca, 1991, pp. 424. Religione, Parola, Scrittura, 1992, pp. 600. La storia della filosofia ebraica, 1993, pp. xvi-548. Filosofia della rivelazione, 1994, pp. 994. Trascendenza Trascendentale Esperienza, 1995, pp. 600. Filosofia della religione tra etica e ontologia, 1996, pp. 896. Enrico Castelli. Diari: 1997, Vol. I (1923-1945), pp. xxx-650, ill. f.t. 8. Vol. II (1945-1948), pp. viii-716. 1998, Vol. III (1949-1955), pp. viii-764. Vol. IV (1956-1976), pp. viii-784. Incarnazione, 1999, pp. 768. Heideggeriana, 2000, pp. 352. Intersoggettività e teologia filosofica, 2001, pp. 828. Teologia negativa, 2002, pp. 884. Unità della coscienza e unicità di Dio in Hermann Cohen, 2003, pp. 512+4 ill. f.t. Il dono e il debito, 2004, pp. 610. K. L. Reinhold. Alle soglie dell’idealismo, 2005, pp. 380. Le Tiers, 2006, pp. 596.
Filosofia delle religione oggi?, 2007, pp. 454. Tra dogmatismo e scetticismo. Fonti e genesi della filosofia di F. H. Jacobi, 2007, pp. 232. Il sacrificio, 2008, pp. 418.
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