39 0 3MB
Il Canto Regola di Vita Rivista per un dialogo tra liturgia e musica
Questa è la dolcezza del Salterio: il canto regola di vita. Ambrogio, Expl. in Ps. XLVIII,7
N. 0 – Maggio 2011
Il Canto Regola di Vita
Il Canto Regola di Vita
Rivista per un dialogo tra liturgia e musica Maggio 2011 – n. 0
Rivista per un dialogo tra liturgia e musica
Editoriale
Supplemento a «Feeria. Rivista per un dialogo tra esodo e avvento» Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4251/92 del 27 luglio 1992 Numero singolo € 6,50 Abbonamento annuo € 10,00 Abbonamento sostenitore € 30,00 C/C postale n. 21999503 intestato a: Feeria. Associazione culturale Via S. Leolino 1, 50022 Panzano (Fi) (specificare Abbon am ent o rivista CRV)
La musica al guado della postmodernità di Carmelo Mezzasalma
Redazione Via S. Leolino 1 – 50022 Panzano (FI) e-mail [email protected] sito internet www.sanleolino.org
3
I portico: il canto Il linguaggio della musica di Diego Cannizzaro
12
Il canto del cuore di Giuseppe Liberto
17
Proposta musicale Exaudi me per organo di Giuseppe Liberto
20
Immagini Luca della Robbia, Cantoria (14311438, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo) Stampa Tipografia editrice Polistampa – Firenze
«Lascia la tua arpa riempire tutto» di Domenico Messina
24
I linguaggi della regola di Leo Di Simone
28
III portico: la vita
Partecipazione: il sì dell’uomo alle nozze con Dio di Alessandro Andreini
Comitato di redazione Alessandro Andreini, Diego Cannizzaro, Cosma Capomaccio, Leo Di Simone, Giuseppe Liberto, Domenico Messina Progetto grafico e impaginazione Comunità di San Leolino
II portico: la regola
La Vita si rende visibile nella liturgia di Cosma Capomaccio
Direttore responsabile Carmelo Mezzasalma
36
39
Editoriale
La musica al guado della postmodernità Carmelo Mezzasalma
Come ogni altro aspetto della cultura contemporanea, anche la musica soffre le conseguenze del solipsismo, che riduce ogni esperienza a un fatto totalmente individuale. Muovendosi programmaticamente tra musica e liturgia, questa nuova rivista intende ritrovare e diffondere una cultura adatta al discorso liturgico e musicale.
1. Ottimismo o pessimismo per la musica e la liturgia? La rivista «Il Canto Regola di Vita» è espressione del Laboratorio di studio sulla musica liturgica nato su iniziativa della Comunità di San Leolino nel 2004 e giunto alla sua VI edizione. Di esso, la rivista intende far conoscere i contenuti e le prospettive di ricerca, nella direzione di una sempre più piena comprensione e attuazione della riforma promossa dal concilio Vaticano II.
O si è dentro o si è fuori. Potrebbe essere questa una prima indicazione per comprendere il mondo della musica e il ruolo che essa può svolgere anche nella celebrazione liturgica. In effetti, per secoli la bellezza della musica liturgica, il suo fascino discreto e incisivo e la sua sobrietà e solennità hanno attratto credenti e non credenti, ivi compresi molti compositori che hanno scritto pagine superbe di musica, così detta sacra, per le sale da concerto. Il caso di Verdi è emblematico e non solo per i suoi Quattro pezzi sacri, ma anche per il cele5
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
berrimo Requiem che ancora non manca di scuotere, fin dal profondo, musicisti e ascoltatori. Ma con il sopraggiungere della società di massa, subito dopo il secondo dopoguerra, non solo la società è cambiata ma anche la situazione della musica si è fatta sempre più confusa e magmatica al punto che gli stessi musicisti di professione sembrano, nella postmodernità, piuttosto scettici circa il futuro della musica dal momento che domina ormai un “solipsismo” esasperato e sfaccettato quanto sono gli individui che compongono le società umane, più o meno avanzate. Da un punto di vista filosofico, in effetti, il solipsismo significa che c’è un solo modo di conoscere il mondo e anche noi stessi: la nostra esperienza soggettiva. Da qui consegue il fatto che tu sei, per così dire, una finzione della mia immaginazione (e io della tua), così che tutti abitiamo universi paralleli e isolati. Naturalmente, il modo di evitare il solipsismo – cosa certo difficilissima nel mondo attuale – è quello di rifiutare le sue premesse e considerare invece la coscienza umana come qualcosa di più vasto e di più grande del semplice “io”. Da questo punto di vista, l’esperienza privata su cui si basa il solipsismo è essa stessa un artefatto della società ed anzi è un aspetto di quel soggetti-
Editoriale
vismo piccolo-borghese che condanna tutti, chi più chi meno, alla solitudine e all’incomunicabilità.
2. Il solipsismo musicale Dal punto di vista musicale, ognuno di noi riflette questo solipsismo nella sua sensibilità, educata o no, nella sua esperienza e nel modo di condurre questa esperienza. Così, oggi possiamo scegliere se ascoltare Beethoven, i Chemical Brothers o la musica africana o asiatica, in auto o in una sala da concerto, allo stesso modo che possiamo scegliere fra una trattoria tradizionale o un ristorante cinese. Le barriere, che fino a un recente passato tenevano rigorosamente separati in differenti stili le tradizioni della musica, si stanno sgretolando ovunque sotto la pressione di quella cultura di massa che, paradossalmente, proprio perché è cultura di massa, induce gli individui a rivendicare per sé un progetto di vita e di gusti semplicemente solipsistico. È evidente, allora, perché il mondo trabocchi di musica di ogni genere: tradizionale, folk, classica, jazz, rock, pop, etnica e via dicendo, e basterà che l’individuo scelga uno di questi generi per sentirsi, in un certo senso, anche lui musicista. È sempre stato così, ma i moderni mezzi di comunicazione e le tecniche di riproduzione del suono hanno reso il pluralismo musicale ormai parte della nostra vita quotidiana. Eppure, il nostro modo di pensare la musica, anche nella post-modernità, individualista ed edonista, non riflette del tutto questa situazione. Perché la musica non è solo qualcosa di piacevole da ascoltare. Al contrario, come osserva Nicholas Cook, è qualcosa di profon6
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
Editoriale
damente radicato nella cultura umana e come non esiste una cultura priva di un linguaggio, così non ce n’è una che sia priva di musica1. In più, la musica, in un modo o nell’altro, sembra essere un fatto naturale, o avere un’esistenza indipendente, ma non è così. Essa è piuttosto intrisa di valori umani, qualsiasi essi siano, ovvero del nostro senso di che cosa sia buono o cattivo, giusto o sbagliato. La musica non è una cosa che capita. È una cosa che facciamo. Ed è ciò che ne facciamo. Gli individui pensano per mezzo della musica, decidono di se stessi con la musica, esprimono se stessi attraverso la musica che scelgono o prediligono.
3. L’ignoranza del significato della musica nella situazione postconciliare Così, l’ignoranza circa questa forza determinante della musica ha provocato quel caos che si è verificato nella liturgia post-conciliare: liquidati i cori “a cappella” come ormai inservibili, mandati a spasso i musicisti con un più o meno grande bagaglio musicale e gettato in cantina ogni repertorio tradizionale, ecco che si è fatta strada la convinzione che la musica per la liturgia dovesse essere solo “popolare” per facilitare la partecipazione dei fedeli all’azione liturgica. E i fedeli, in mancanza di un’autentica educazione liturgica, non hanno messo molto tempo a concepire questa reale partecipazione come un fatto solipsistico che altro non era che il riflesso condizionato della musica pubblicizzata dai sistemi di massa. Anche in questo caso, i figli delle tenebre sono stati più astuti dei figli della luce. Infatti, al contrario di tanti operatori pastorali o anche di liturgisti, la radio e le case discografiche non hanno mai dimenticato il significato della musica. E, anzi, ne hanno fatto una sperimentazione di massa perfino con il lancio di cantanti popolari, più o meno raffinati. Dal canto loro, anche i pubblicitari hanno usato la musica per trasmettere significati per i quali ci vorrebbero troppe parole o per i quali le parole non risulterebbero convincenti. Gli spot usano, allora, la musica come un potente simbolo di aspirazione, di autorealizzazione, di desiderio di essere “ciò che vorresti”, come dice spesso la voce fuori campo. E se vogliono raggiungere un particolare segmento della società (ventenni, trentenni) usano una musica di stampo popolare, sentimentale e accattivante, anche se banale e scontata. 7
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
Non sorprende più di tanto, allora, che in questi cinquanta anni sia sempre di più emersa la tendenza a recuperare il passato della musica liturgica nella convinzione che il passato è sempre meglio del presente, anche in fatto di musica. Si vorrebbe uscire dal caos, ma a poco prezzo, anche se, certamente, un coro polifonico tradizionale rende il mistero liturgico più aderente a se stesso anziché il rumore, scomposto e gridato, di cori improvvisati e per di più con un repertorio di dubbio gusto, amplificato dai mezzi elettronici che tolgono il silenzio necessario alla liturgia.
4. Tornare al fondamento: Cristo evento di salvezza in Romano Guardini Come sempre accade in periodi storici e culturali di notevole confusione, quale è il nostro, occorre tornare ai fondamenti sia per eliminare gli abusi sia, soprattutto, per tracciare una strada verso il futuro. Chi opera nel campo della musica per la liturgia o chi, stanco di improvvisazioni e di rumori, sogna una musica più aderente allo spirito della liturgia, deve necessariamente tornare al fondamento che già Romano Guardini aveva indicato nell’espressione riportata nella prossima pagina. Egli vede la chiave di comprensione dell’azione liturgica così come la vede la Chiesa e la riforma liturgica del Vaticano II: tutto è incentrato su Cristo e sul suo mistero pasquale. La redenzione è un evento che si è compiuto nella storia, ma permane nella storia per mezzo dello Spirito che vive nella Chiesa. Così l’esistenza cristiana è inserirsi in questo avvenimento permanente che è, di fatto, la vita liturgica della Chiesa. Peccato che il magistero straordinario di Romano Guardini sia stato assai
Editoriale
Editoriale
presto dimenticato! Avrebbe risparmiato molta confusione e marginalizzato la tendenza solipsistica della società di massa. La provvidenza divina ci aveva dato in lui un salutare correttivo per gli sviluppi della società moderna che si avviava, inesorabilmente, a diventare post-moderna e cioè individualista e consumista, oltre che secolarizzata sotto tutti gli aspetti. Anna Maria Cànopi, Abbadessa dell’Abbazia benedettina “Mater Ecclesiae” di Isola San Giulio, gli ha dedicato un bellissimo capitolo nel suo libro Silenzio. Esperienza mistica della presenza di Dio che somiglia ad una autentica riscoperta nella situazione in cui viviamo. Con un’immagine veramente efficace, Anna Maria Cànopi sintetizza tutto lo sforzo di Romano Guardini, a proposito della Il cristianesimo non è una teoria della verità o un’interpretazione della vita. Essa è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazaret, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo destino. R. Guardini, L’essenza del cristianesimo, 11
liturgia, chiamandolo “giovinezza della liturgia”: «essa coincide, infatti, con quell’evento che egli definisce “il destarsi della Chiesa nelle anime” verificatosi in quei suoi tempi che non erano meno “cattivi” dei nostri»2. Perfetto! Di fatto, nella prima metà del Novecento c’era tra i credenti, proprio nella liturgia, un certo torpore che li teneva come fossilizzati in forme e strutture senz’anima: ecco perché, aggiunge la Cànopi, si può ben dire che quest’uomo fosse davvero mandato da Dio. In realtà, era cominciato allora quel movimento culturale, intriso di razionalismo e quindi di materialismo, che avrebbe caratte8
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
rizzato la seconda metà del secolo e al quale tentò di rispondere, con tutte le sue forze a disposizione, il concilio Vaticano II. Tentare di ritornare alla liturgia prima del Concilio è, in un certo senso lasciar passare ancora quel movimento di razionalismo e materialismo che l’aveva, per così dire, fossilizzata e cioè nel senso di trasformarsi in un solipsismo e in un individualismo, tipici della post-modernità, che niente hanno a che fare con Gesù Cristo, evento di salvezza. In altre parole, anche l’azione liturgica, per come la viviamo e la facciamo, passa attraverso la nostra cultura e sia pure salvaguardando il suo mistero che non dipende da noi. Ci sembra opportuno a questo proposito citare ancora Anna Maria Cànopi che vede in Romano Guardini il sapiente maestro e mistagogo nel farci accostare a Cristo e al suo mistero in una maniera oggettiva e, quindi, partecipata, proprio come vuole il Vaticano II: «Bisogna anzitutto riconoscere che il segreto della grande passione di Guardini per la liturgia – scrive Anna Maria Cànopi – è l’amore per Gesù Cristo; un amore ardente e profondo che gli è divampato nell’anima come un fuoco davvero inestinguibile; un amore di predilezione grazie al quale ha potuto in un certo modo posare il capo sul cuore di Cristo per attingervi le insondabili ricchezze del suo mistero. Egli si muove nell’ambito della sacra liturgia con la gioiosa e commossa naturalezza di chi si trova “a casa sua”, dove tutto gli sembra già noto e tuttavia non finisce mai di scoprire i tesori che vi sono nascosti»3. Due realtà da sottolineare in questa riflessione su Guardini di Anna Maria Cànopi. Innanzitutto, a chi conosce l’opera di Guardini non sfugge il fatto, veramente straordinario, che tutto quanto egli ha scritto e fatto sia nato da una
sua esperienza di vita e, nel caso della liturgia in particolare, egli ha posato davvero il capo sul cuore di Cristo per attingervi domande e risposte circa il futuro della fede cristiana nel mondo contemporaneo. Guardini ebbe una vivissima coscienza del suo sacerdozio e sapeva che non gli sarebbe stato possibile incarnare bene questo ministero senza aver posato ripetutamente il suo capo sul cuore di Cristo. Da qui quell’entusiasmo con cui scrive della liturgia nel tentativo di trasmettere ad altri quella passione che lui attingeva dal mistero dell’Eucaristia, certamente celebrato con partecipazione e consapevolezza. In secondo luogo, la naturalezza con cui si muove all’interno della liturgia. La naturalezza del poeta, e non già l’egotismo dell’intellettuale, ove per poeta indichiamo l’anima incantata e tesa allo scandaglio del rapporto tra scrittura e profezia. Ha, dunque, ragione Anna Maria Cànopi nello scrivere: «Romano Guardini non è stato un “romantico” della liturgia, né un idealista, ma un vero mistagogo, che ha saputo introdurre molti nei misteri della vita cristiana semplicemente cantando il poema della sua fede e del suo amore per Cristo»4. Se Guardini non è stato un romantico ma un mistagogo, allora egli ha molto ancora da insegnare al musicista che aspira a scrivere musica per la liturgia del dopo Concilio. E noi vorremmo seguirlo tentando quasi una parafrasi sulle sue intuizioni per tracciare un nuovo percorso per il rapporto musica-liturgia.
5. Guardini, una mistagogia per la musica «Nella liturgia [il credente] scorge che non sta di fronte a Dio come individualità a sé stante, bensì come membro 9
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
di questa unità [la Chiesa]. È la liturgia che parla a Dio, il fedele parla con essa e in essa […]. Nel rapporto liturgico, il singolo sperimenta vitalmente la comunità ecclesiastica»5. È un’indicazione decisiva per il musicista al servizio della liturgia che deve essere guidato da una coscienza viva dell’oblatività propria della dimensione ecclesiale. Senza rinunciare alle sue competenze musicali, che anzi sono necessarissime, il musicista deve anzitutto riuscire a fare il sacrificio di se stesso, del proprio ego o del gusto in voga nel suo tempo. È una rinunzia non facile poiché si tratta di mettere da parte il proprio egotismo per lasciarsi invece guidare da quei pensieri e da quelle vie
Editoriale
che la liturgia gli propone. Deve pregare con gli altri, musicalmente, anziché camminare per i fatti propri. Deve andare oltre i suoi scopi personali per accogliere «le finalità formative della grande comunità liturgica umana»6. Con i tempi che corrono, tempi di un individualismo esasperato, tutto questo è davvero un’utopia, ma è l’utopia del Vangelo che per essere vissuta richiede l’umiltà e l’amore: «un permanente uscire da sé per gli altri, un amore grande che sia pronto a partecipare alla vita altrui, a farla propria»7. Quello che è impossibile agli uomini è possibile a Dio. Siamo ben lontani dallo spontaneismo, anche musicale, a cui molti si abbandonano con il pretesto o l’illusione della creatività che spesso altro non è, lo ripetiamo, che lo spirito volgare del nostro tempo. Al contrario, se la liturgia è un banchetto di nozze, allora ogni singolo invitato – ed anche il musicista – deve avere l’abito festivo ossia l’anima capace di accogliere la gioia della festa di Dio per diffonderla intorno a sé. Tutto questo chiama in causa la bellezza artistica che deve avere la musica per la liturgia. Ciò non è scontato in una società come la nostra ove anche la bellezza artistica viene maciullata dalla superficialità a cui induce il pragmatismo e l’utilitarismo. Scrive, infatti, Guardini per dire la bellezza come gratuità e dono: «Fare un gioco dinnanzi a Dio, non creare, ma essere un’opera d’arte, questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia. Di qui la sublime combinazione di profonda serietà e di letizia divina che in essa percepiamo. E solo chi sa prendere sul serio l’arte e il gioco può comprendere perché con tanta severità ed accuratezza la liturgia stabilisca in una moltitudine di prescrizioni come debbano essere le parole, i movimenti, i colori, le vesti, 10
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
Editoriale
gli oggetti di culto»8. Il musicista deve saper far tesoro di questa riflessione di Guardini se vuole cercare una musica che sappia celebrare la gioia e la bellezza di trovarsi alla presenza di Dio! Il musicista deve, insomma, avere un’anima quando scrive musica. È sulla qualità di quest’anima che si gioca tutto: «L’anima – scrive ancora Guardini – deve apprendere […] a non essere troppo sensibile ai motivi utilitari, troppo prudente, troppo “adulta”, bensì deve sapere anche vivere semplicemente […], deve imparare ad essere prodiga di tempo per Dio; deve trovare parole e pensieri e gesti per il santo gioco, senza domandarsi ad ogni momento: a che scopo e perché?
[…] Deve apprendere a fare in libertà, bellezza, santa letizia dinanzi a Dio il gioco da lui regolato della liturgia. Da ultimo anche la vita eterna non sarà che il compimento di questo gioco»9. È un chiaro invito, se si vuole coltivare un’anima veramente musicale, a rifuggire dal dilettantismo e dal suo movimento opposto, il conservatorismo. L’anima, in altre parole, deve essere afferrata dai simboli, ossia capace di interpretare quella realtà ineffabile che soltanto Dio sa comunicare. Così, il musicista per la liturgia, lasciandosi educare da essa, deve coltivare quella specifica spiritualità che proprio la liturgia è in grado di dire al nostro cuore: l’uomo, consapevolmente o meno, cerca l’epifania, «l’apparire luminoso della realtà sacra nell’azione liturgica, l’apparire sonoro dell’eterna Parola nel discorso e nel canto e la presenza dello Spirito nella corporeità delle cose tangibili»10. Guardini conosce e rispetta il valore della sensibilità, anche nella spiritualità cristiana, ma essa è tutt’altro che uno sterile estetismo o un’ambigua emotività perché – aggiunge – «la liturgia è un mondo di vicende misteriose e sante divenute figura sensibile: ha perciò carattere soprannaturale»11. È un luogo di una grande esperienza spirituale, ben sottolineato dal carattere di incontro nuziale che deve animare la liturgia. Il canto regola di vita, come voleva sant’Ambrogio. Anche il musicista deve partire sempre dalla vita e, nel nostro caso, dalla vita spirituale che comunica la liturgia. E qui torniamo a un discorso prettamente musicale.
6. Il potere ambiguo della musica Nel mondo culturale e sociale in cui viviamo anche la musica è in larga parte 11
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
dominata dai maestri della persuasione occulta che sono la pubblicità e le istituzioni che fanno “audience”. Non c’è da meravigliarsi, perciò, che tante storie mettono in guardia contro il potere della musica di insinuarsi inavvertitamente nella nostra mente e di sostituirvi i suoi voleri ai nostri. Pensiamo al pifferaio di Hamelin che, suonando, adescava i bambini strappandoli alle loro case per non farli mai più tornare. Pensiamo alle storie delle Sirene, nell’antica Grecia e un po’ dovunque, il cui canto ammaliava i marinai attirandoli negli scogli dove trovavano la morte. Pensiamo, ancora, alla voce “musicale” di Saruman, nel Signore degli anelli di Tolkien, perfetto modello del demagogo dalla voce insinuante, i cui discorsi intrappolano gli ascoltatori anche quando tentano di respingere ciò che ha da dire12. Come T.W. Adorno aveva ben compreso, la musica ha dei poteri unici in quanto può funzionare come ideologia. Dobbiamo capire il suo funzionamento, il suo fascino sia per proteggercene sia per utilizzarla ai fini della liturgia. E per farlo dobbiamo non solo saperla ascoltare, ma anche leggere: non nel senso letterale, quello della notazione musicale, bensì del suo significato e come parte integrante della cultura, della società, di tutti noi. La musica, come bene avevano capito i romantici, è anche cultura e come tale deve essere sottoposta ad analisi e approfondimenti. Tanto più quando si tratta di musica per la liturgia. François Cassingena-Trévedy ha scritto un pregevolissimo saggio dal titolo La bellezza della liturgia che ogni musicista dovrebbe meditare attentamente per liberarsi del proprio egotismo estetico sempre in agguato nel suo spirito attratto proprio dal fascino della musica. Così egli scrive: «Nella valutazione di una
Editoriale
bella liturgia possono intervenire diversi criteri che dipendono dalla sfera emotiva, istintiva, da considerazioni di parte, da impulsi egocentrici, sensuali: li definirei i criteri dei “consumatori”. Si è contenti quando si fa rumore, si parla molto, si canta molto, o si vedono un sacco di panni o di merletti. Gusti e colori in ultima analisi confluiscono tutti nella stessa vacuità, nella stessa alterazione, nello stesso equivoco […]. Siamo agli antipodi di Cristo e dell’Evangelo. Mai come ora questa tentazione è stata così forte»13. Per evitare questa trappola dell’egotismo anche musicale, ci occorre un’e stet ica della liturgia che può essere elaborata solo a partire da una teologia della liturgia. Il musicista non può esimersi da questa teologia. Così, per un’analisi della bellezza liturgica, bisogna prima di tutto cercare di comprendere in profondità, per quanto è possibile a noi esseri umani, la natura della liturgia. Cara e indimenticabile mistagogia di Romano Guardini!
7. Conclusione. Perché una nuova Rivista? Il nostro percorso è stato lungo, ma non vorremmo che esso generasse un equivoco e cioè quello di presentare un più o meno brillante saggio sul rapporto musica-liturgia. Non è questo il nostro intento. L’intento è piuttosto quello di favorire un’adeguata recezione della rivista che presentiamo: Il canto regola di vita. A chi ci rivolgiamo? Principalmente alle persone che operano al livello della musica liturgica, ma anche a tutte le persone, i semplici cristiani, che hanno a cuore il futuro della liturgia in un tempo che, paradossalmente, ricorda quel momento critico del celebre mo-
12
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
vimento liturgico giunto a una svolta in piena seconda guerra mondiale. Fu proprio Romano Guardini che individuò quella svolta. Con chiaroveggenza profetica egli colse gli aspetti positivi e al contempo i rischi cui il movimento stava andando incontro. Ci riferiamo alla Lettera che Guardini scrisse su sollecitazione del vescovo di Magonza. Era il 1940, ma sembra, sotto certi aspetti, il nostro presente dove il liturgismo, il praticismo e il dilettantismo liturgico si sposano, stranamente, con il conservatorismo che, preoccupandosi eccessivamente di salvare lo “specifico” della liturgia, ne trascurava e ne trascura la dimensione storica e soprattutto dinamica nel senso spirituale del termine. In questa drammatica confusione è necessario, allora, ritrovare e diffondere una cultura adatta al discorso liturgico e musicale che trovi, nell’espressione di Ambrogio, il suo fulcro ispiratore: il canto è sempre una regola di vita. Il che vuol dire anche che dobbiamo fare cultura e diffondere cultura come fonte di ispirazione alla quale attingere quel nutrimento necessario al nostro rapporto ● musica-liturgia.
I portico
Il canto
Note 1 Cfr. N. Cook, Musica. Una breve introduzione, EDT, Torino 2005, p. IX. 2 A.M. Cànopi, Silenzio. Esperienza mistica della presenza di Dio, EDB, Bologna 2008, p. 48. 3 Ivi. 4 Ivi, p. 63. 5 R. Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni, Morcellia na, Brescia 1980, pp. 40-41. 6 Ivi, p. 42. 7 Ivi, p. 45. 8 Ivi, p. 86. 9 Ivi, pp. 88-89. 10 Cfr. R. Guardini, La funzione della sensibilità nella conoscenza religiosa, in Scritti filosofici, Fabbri, Milano 1964, II, p. 166. 11 R. Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni, cit., p. 123. 12 Cfr. N. Cook, Musica. Una breve introduzione, cit., pp. 157158. 13 F. Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose. Magnano (BI) 2003, pp. 9-10.
Diego Cannizzaro Il linguaggio della musica Giuseppe Liberto Il canto del cuore
I portico. Il canto
Il linguaggio della musica Vi è un forte parallelismo tra discorso linguistico e discorso musicale. Ciascuna modalità ha una sua ragion d’essere, una sua dignità, una sua esatta collocazione e una sua peculiare attuazione: l’azione liturgica è uno dei momenti privilegiati per esplicare le possibilità semantiche musicali grazie al contesto generale e alla predisposizione all’ascolto consapevole.
3) l’oggetto materiale, la traccia sulla carta dell’opera letteraria o musicale senza la quale l’opera non esisterebbe: va aggiunto, tuttavia, che l’opera esiste pienamente solo quando viene eseguita o percepita.
Diego Cannizzaro
frase” da esplicare bene sia all’interno di essa che nel rapporto che questa instaura con le altre componenti – armonia, ritmo, struttura formale – che concorrono all’articolazione dell’edificio sonoro di un brano; anche in questo caso la lezione giovanile aprì successivi sviluppi sia nella composizione musicale che nell’interpretazione della musica scritta da altri. L’intero periodo della mia formazione si sviluppò nella piena consapevolezza che il linguaggio letterario e il linguaggio musicale avessero dei codici che possono talora anche convergere, altre volte divergere decisamente, ma che in ogni caso sono funzionali a una comunicazione.
1. Alla scoperta dei codici del linguaggio I ricordi scolastici dell’infanzia, a volte, restano fissati nelle nostre menti in maniera indelebile: tra essi posso annoverare la prima spiegazione data dalla mia maestra circa la strutturazione di un breve componimento scritto. La griglia mentale che mi fornì servì per molti anni finché non imparai a padroneggiare altre maniere di strutturare, sia per comporre un testo che per interpretarne uno scritto da altri. Un altro indelebile ricordo di gioventù si riferisce, invece, a una lezione dedicata dalla mia insegnante di pianoforte alla resa pianistica della materia sonora presente nello spartito con insistita attenzione al cosiddetto “senso della 14
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
2. Che cos’è una forma simbolica Jean-Jacques Nattiez, nel suo ben noto Discorso musicale1, inizia il suo percorso di analisi semiologica della musica con il modello elaborato da Jean Molino2. Tutte le forme dell’espressione umana possono essere definite forme simboliche nella misura in cui vi si possono riconoscere tre dimensioni: 1) il processo poietico grazie al quale esiste un’opera che prima non esisteva; 2) il processo estesico, l’insieme delle strategie messe in atto dalla percezione del prodotto dell’attività poietica;
A ben pensarci, lo schema classico del codice comune tra emittente e destinatario è stato smentito nella storia della musica: quante volte la percezione di un’opera musicale non è stata corrispondente alle strategie di composizione? Quante volte si è detto o scritto che il compositore stava col pensiero molti anni avanti i suoi contemporanei? Perché il linguaggio musicale si è prestato più di altri alla separazione del processo poietico dal processo estesico? Non c’è dubbio che la musica abbia i suoi parametri benché le variabili del fenomeno musicale siano infinite e benché ogni analisi e ogni teoria operino una selezione nell’infinità delle sue componenti. Nattiez fonda il suo studio sul presupposto che il discorso musicale sia articolato in suono (nel suo rapporto con l’alter ego rumore), scala, armonia, melodia, ritmo; anche la tonalità è un elemento fondante del discorso a condizione che non venga inteso solo nei termini di stile tonale. Chiamiamo oggetto musicale ogni oggetto sonoro integrato in una costruzione sonora voluta dall’uomo ed è musica ogni fenomeno che un individuo, un gruppo o una cultura accettano di considerare come tale3. Ma se l’oggetto artistico è una composizione musicale, il primo e più immediato problema riguarda proprio la legittimità dell’uso del termine oggetto: l’opera musicale esiste concretamente soltanto mentre risuona, e solo idealmente nell’immaginazione, intuizione, intelli15
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
genza dell’artista e nella memoria del fruitore4.
3. Alle origini della musica Tante problematiche che viviamo oggi circa il significato, le modalità esecutive ed espressive, la stessa presunta utilità o, più frequentemente, l’inutilità di fondo della musica derivano probabilmente da un atteggiamento distratto nei confronti della sua storia. La musica nel popolo ebraico era intimamente legata alla liturgia: conosciamo regolamenti e quantità dei musici che dovevano eseguirla nel Tempio di Gerusalemme; la cura e l’ordine rigoroso nell’impiego di formule sono indicativi dell’importanza accordata al fenomeno musicale e i riferimenti musicali nei salmi sono tanto conosciuti quanto immediati. A fugare il pensiero che nell’antichità la musica “servisse” soltanto a migliorare l’efficacia della trasmissione della parola interviene lo studio della musica greca: la modalità di notazione affidata a lettere di alfabeto arcaico, in parte attico e in parte fenicio e il ricorso a un sistema metrico quantitativo per misurare il ritmo, legano indissolubilmente poesia e musica, ma quest’ultima ci appare come la manifestazione più compiuta, decisamente più che il semplice testo poetico. Consapevoli che la musica potesse incidere profondamente sull’animo umano, i greci elaborarono una teoria dell’educazione che affidava alla musica un ruolo simile a quello che la ginnastica aveva nell’attività fisica: la musica come ginnastica della mente e, conseguentemente, fondamentale nella formazione della persona5. Sarà bene non
I portico. Il canto
indulgere nel paragone con gli attuali criteri pedagogici!
4. Il periodo medievale La cultura medievale aveva inserito la musica fra le artes liberales del quadrivium insieme con l’aritmetica, la geometria e l’astronomia; per musica, i trattatisti medievali intendevano la speculazione filosofica legata al concetto di numerus, mentre per la musica pratica si usava il termine generico di cantus. Si creava così una distinzione tra musica instrumentalis (prodotta da tutto ciò che per l’uomo è strumentale), musica humana (che è la musica del microcosmo, l’anima umana), musica mundana (la musica dei mondi celesti, del macrocosmo): la frattura tra musica speculativa e pratica è definitivamente compiuta. Lo studio teorico della musica è parte integrante degli studi al pari della teologia, della medicina, del diritto e i migliori teorici musicali medievali erano teologi, grammatici, giuristi, cronisti che solo incidentalmente si occupavano di musica, in ossequio al sapere enciclopedico, caratteristico del Medioevo: autorevole eccezione fu Guido d’Arezzo. L’età medievale è il momento storico in cui viene messo a punto il sistema della notazione da cui deriva il nostro pentagramma e le figure musicali a noi familiari. La musica prodotta dai giullari esce presto dalle sfere della cultura, il menestrello di corte sale di ordine sociale, ma il centro propulsivo di tutta la musica europea è costituito dalle scholae ecclesiastiche. La tecnica compositiva medievale, con il progressivo aumento delle risorse polifoniche, propone, tuttavia, un linguaggio musicale nel quale il suono supera la parola: l’edificio musicale 16
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
I portico. Il canto
polifonico considera il suono in sé non curandosi del rapporto che può crearsi con la parola. Nel Rinascimento, invece, il musicista si preoccupa di esaltare la parola attraverso la musica, la riveste di significati simbolici, trasforma la musica in una specie di arte della metafora con la quale rappresentare sentimenti e pensieri. Il rapporto tra musica e parola è, tuttavia, rovesciato rispetto ai greci: nel Rinascimento la parola orienta il significato che viene rivestito ed enfatizzato dalla musica. In diversi trattati i toni gregoriani vengono descritti in base alla loro funzione espressiva: il primo tono è grave e dilettevole, il secondo tono è malinconico, il terzo induce alla commozione e al pianto, il quarto è lamentevole e doloroso, il quinto è gioioso e dilettevole, il sesto è grave e devoto, il settimo è allegro e soave, l’ottavo, infine, rende «l’Armonia vaga, e dilettevole»6. Non è difficile rintracciare in tutto ciò, mutatis mutandis, l’antica teoria greca dell’ethos. La musica, secondo Zarlino7, ha capacità espressive autonome, ma deboli, dal momento che può generare nell’ascoltatore un vago stato d’animo e lo prepara ad accogliere la determinatezza del significato del testo verbale.
5. L’epoca moderna La scuola organistica tedesca del XVII secolo, che culminerà nella suprema arte di Johann Sebastian Bach, elaborò un linguaggio musicale fondato su cellule melodiche e ritmiche a cui si attribuivano significati assai precisi: tali formule, però, vanno intese nella loro relatività storica e funzionale e, pertanto, difficilmente si prestano a un’interpretazione univoca. I compositori tedeschi strutturano le loro fantasie sopra i
corali in sezioni che tanto ricordano la struttura dell’orazione così come la conosciamo da Quintiliano con exordium, narratio, argumentatio, confirmatio, refutatio e peroratio, lungo il filo conduttore della melodia del corale il cui significato è, però, determinato dal testo del corale stesso. E costoro danno proprio l’impressione che, con le opere, vogliano, per dirla con Quintiliano, docere et probare, delectare et movere. Durante il romanticismo, la musica assurge al ruolo di linguaggio simbolico-analogico con la capacità di alludere indeterminatamente alle passioni e ai sentimenti, connotato che la lega alla nostra interiorità. Tale privilegio è, però, riservato agli eletti che riescono a perfezionare tale intuizione staccandosi dalla gente comune: ancora oggi alcuni musicisti sono visti con quest’aura di superiorità intangibile e, per costoro, lo studio musicale viene inteso come un percorso iniziatico quasi magico. Non si discute la possibilità che il compositore possa elevarsi parecchio sul comune sentire, ma è come affermare che poiché il letterato ha una visione delle cose straordinariamente alta, allora solo pochi eletti devono cimentarsi nella scrittura e i bambini a scuola devono iniziare a comporre i loro piccoli pensieri solo se già orientati a diventare, da grandi, poeti! Da tale elevazione romantica, sicuramente ispirata da nobili principi, si è successivamente originato il concetto che la musica colta è un lusso per pochi iniziati e per la gente comune ci vuole soltanto musica di intrattenimento. Peccato che una musichetta facilmente orecchiabile, composta in maniera scontata, crea nella mente educata all’ascolto analitico la stessa emozione suscitata dalla lettura di uno scontrino fiscale; una musica male eseguita, inoltre, è pa17
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
ragonabile a un discorso vistosamente sgrammaticato.
6. Verso una visione critica della musica Nella seconda metà del XIX secolo, Eduard Hanslick8 si impegnò a cercare un metodo scientifico per arrivare alla conoscenza e valutazione oggettiva della musica criticando la visione romantica del privilegio del momento estesico; il fatto che la musica non articola parole non deve determinare l’equivoco di attribuirle solo sentimenti considerati, però, l’antitesi della determinatezza concettuale, piuttosto la musica può
I portico. Il canto
imitare con le forme sonore il movimento del processo psichico che è ben altra cosa: è l’interiorità umana. Circa settant’anni fa, Susanne Langer9 ci avvertiva che c’è stata parecchia confusione nella lettura del linguaggio La musica ci è data per porre ordine nelle cose. I. Stravinskij
musicale con le emozioni, considerate ora effetto, ora causa, ora contenuto della musica. La musica elabora forme che il linguaggio verbale non può esporre, possiede tutte le caratteristiche di un sistema di simboli, eccezion fatta per significato convenzionale, fissato e determinato. Il problema dell’intraducibilità dei simboli musicali non si risolve negando la presenza del concetto, ma affermandone la peculiarità; credo che tale prerogativa possa essere estremamente preziosa durante le liturgie a condizione che accettiamo che la musica possa avere una funzione “omiletica”. Vi è un forte parallelismo tra discorso linguistico e discorso musicale. Il primo può esplicarsi con una struttura rigorosamente scritta, può svolgersi con una certa libertà vincolata da una scaletta oppure può essere totalmente improvvisato, a braccio; analogamente, il discorso musicale può essere interamente composto, può essere improvvisato su una melodia già esistente o può essere interamente improvvisato. Ciascuna modalità ha una sua ragion d’essere, una sua dignità, una sua esatta collocazione e una sua peculiare attuazione: l’azione liturgica è uno dei momenti privilegiati per esplicare le possibilità semantiche musicali grazie al contesto 18
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
generale e alla predisposizione all’ascolto consapevole a condizione, però, che l’emittente sia padrone del linguaggio musicale e il ricevente sia disposto a dedicare attenzione a tale discorso. Ma ● quante volte ciò accade?
Il canto del cuore Giuseppe Liberto
Note 1 Cfr. J.-J. Nattiez, Il discorso musicale, Einaudi, Torino 1977, pp. 4-5. 2 J. Molino, Fait musical et sémiologie de le musique, in «Musique en Jeu», n. 17, 1975, pp. 37-62. 3 Cfr. J.-J. Nattiez, op. cit., p. 17. 4 Cfr. A. Collisani, Musica e simboli, Sellerio Editore, Palermo 1988, p. 17. 5 Platone, La Repubblica, II 376e, in A. Collisani, op. cit., p. 44. 6 G. Diruta, Transilvano, Giacomo Vincenti, Venezia 1593 (ed. anastatica, A. Forni, Bologna 1997), seconda parte. 7 Cfr. G. Zarlino, Le istituzioni armoniche, Francesco de’ Franceschi, Venezia 1561 (ed. anastatica, A. Forni, Bologna, 1999). 8 Cfr. E. Hanslick, Vom Musikalish-Schoenen, Leipzig 1854. 9 Cfr. S. Langer, Philosophy in a New Key, Mentor Books, New York 1942.
La musica è ciò che unifica, la musica è armonia in comunione, cantare è proprio di chi ama. Queste tre realtà si realizzano magnificamente nella celebrazione liturgica: in essa, infatti, parola e gesti, ascolto e visione, profumo e sapore, ritmi e melodie, sono realtà teandriche, cioè eventi che armonizzano in concordia divinità e umanità: divinizzazione dell’umano e umanizzazione del divino.
1. Canto come concordia «La musica – dice il saggio cinese Seu-ma Tsen – è ciò che unifica» e Igor Strawinskij, quasi in contrappunto, afferma che «la musica è armonia in comunione». E per sant’Agostino cantare amantis est. Da queste tre affermazioni possiamo dedurre che musica e canto hanno in sé quel valore e vigore coesivo che li rende strumenti di concordia. La concordia, infatti, è musicale per natura; è armonia di cuore, sentimenti, progetti: musica e canto scaturiscono dalla simbiosi dei cuori. Nel far musica insieme, l’“io” personale viene trasformato nel “noi” della coralità vivente che è appunto concordia del far musica 19
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
insieme. L’armonia della concordia musicale unisce coloro che cantano in quel cerchio luminosissimo che è espressione estetica, a-temporale e trasfigurata della fraternità cosmica. Tutto ciò dovrebbe essere visibilità vissuta di sinergia tra cuore-concordia e musica-armonia. Concordia-armonia è amore e arte musicale che ascende dal cuore alla ragione e dalla ragione alle sfere dell’infinita bellezza, per ridiscendere amore trasfigurato-trasfigurante per gli uomini che generano “il musicale”. Da qui nasce, cresce e si sviluppa quella sorta di concordia artistica che avvolge bellezza increata e creatura che crea bellezza in uno splendido cerchio d’amore. Il miracolo della concordia musicale consiste, infatti, nell’accordare armoniosamente uomini d’ogni razza, lingua e cultura in una Pentecoste d’amore universale.
2. Tra unisono e polifonia L’arte della coralità possiede questo valore “sacramentale” perché realizza quella sorta di carità musicale che celebra l’essere-insieme delle diversità. È perciò unisono e polifonia allo stesso tempo: – polifonia corale come espressione delle diversità nell’unità: «pur essendo molti siamo un corpo solo» (1Cor 10,17);
I portico. Il canto
– unisono corale come espressione dell’unità nelle diversità: «un solo pane, un solo corpo» (ivi). Quest’arte è anche, allo stesso tempo, concordanza e discordanza che vivono tra loro in simbiosi di diastole e sistole per l’armonia sinfonica dell’organismo umano: – concordanza come fusione di più suoni in unità armonica; – discordanza come frantumazione di quell’armonia che è elemento di svariate possibilità armoniche nella tensione volta alla risoluzione. Dal felice connubio tra unisono e polifonia, tra concordanza e discordanza, è fiorita una delle più affascinanti avventure dell’uomo: corpo e spirito, visibile e invisibile, suono e silenzio, tempo ed eternità, trascendenza e incarnazione. Raffinata arte teandrica che, immersa nella bellezza divina, diventa epifania della stessa bellezza. Solo così canto e musica avranno all’interno del tessuto ecclesiale valore profetico.
3. Musica e profezia In 1Cr 25,1-8, il termine utilizzato per indicare l’esecuzione musicale è lo stesso che definisce l’azione profetica (nb’). I cantori sono, dunque, una “sorta di profeti”, la composizione musicale una vera e propria “ispirazione profetica”. Il profeta Eliseo, infatti, per comunicare la Parola ispirata da Dio, aveva bisogno di musica: «cercatemi un suonatore di cetra» (2Re 3,15); e, mentre il suonatore arpeggiava cantando, la mano del Signore era sopra Eliseo che proclamava la parola del Signore. 20
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
I portico. Il canto
Il profeta Osea, ricordando sua moglie Gomer dopo il periodo nero di tradimento, la rivede nella voglia gioiosa di cantare: «l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… là canterà come nei giorni della giovinezza» (Os 2,16.17). È questo il canto ritrovato dopo il pellegrinare nel deserto dello spirito: davvero, se hai ritrovato te stesso, hai ritrovato il canto della vita.
4. Il canto della preghiera liturgica La musica è ciò che unifica, la musica è armonia in comunione, cantare è proprio di chi ama. Queste tre realtà si
realizzano magnificamente nella celebrazione liturgica: in essa, infatti, parola e gesti, ascolto e visione, profumo e sapore, ritmi e melodie, sono realtà teandriche, cioè eventi che armonizzano in concordia divinità e umanità: divinizzazione dell’umano e umanizzazione del divino. La celebrazione liturgica è il tempo-spazio, l’alveo sorgente-culmine di Dio con gli uomini e degli uomini con Dio nell’unità nuziale dell’Incarnazione del Verbo di Dio. Il canto della preghiera liturgica diventa così il canto dei due innamorati che formano un cuor solo e un’anima sola, esperienza viva e misteriosa dell’incontro “cuore a cuore” con Dio: la Chiesa sposa canta per Cristo, con Cristo e in Cristo Sposo. Così, nel canto liturgico la bellezza musicale non sarà data dall’effetto di un’arte solo umana che si compiace di sé e perciò si autocelebra. Il canto liturgico è icona del mistero celebrato e perciò riflesso della gloria divina che si rivela. Il musicista, allora, prima percepisce il mistero e poi lo esprime artisticamente in suono e canto. Via estetica e via poietica si armonizzano a vicenda in una sorta di concordia artisticospirituale. Cuore a cuore con Dio! Dio si manifesta e l’artista lo mostra. Dio canta il suo Verbo e lo dona, l’artista incarna il Verbo e lo canta.
5. Il canto dell’agape San Paolo fa sgorgare il canto spirituale da quel cuore dove si incarna abbondantemente la parola di Dio: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e am-
21
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
monitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3,16). Mistero e bellezza sono così in piena comunione se si realizzano in concordia teandrica attraverso l’azione pentecostale dello Spirito. Anche sant’Ignazio d’Antiochia ci lascia due testimonianze dense di significato teologico. La prima nella Lettera agli Efesini: «perciò in vostra concordia e in un’unisona agape Gesù Cristo è cantato. E divenite ad uno ad uno coro, così che essendo unisoni in concordia, prendendo in unità la modulazione di Dio, cantiate in una sola voce per Gesù Cristo al Padre» (4,1). Ed è da notare che il verbo adetài qui utilizzato contiene in sé il duplice senso di Cristo che canta nella Chiesa e di Cristo che viene cantato nella forma dialogica del culto ecclesiale. Nella Lettera ai Romani, inoltre, il vescovo e martire Ignazio invoca: «Non procuratemi di più che essere immolato a Dio, sino a quando è pronto l’altare, per cantare uniti in coro nella carità al Padre in Gesù Cristo» (2,2). Come ha ricordato papa Benedetto XVI nell’omelia per i funerali del card. Tomas Spidlik, «a partire dalla radice biblica, il simbolo del cuore rappresenta nella spiritualità orientale la sede della preghiera, dell’incontro tra l’uomo e Dio, ma anche con gli altri uomini e con il cosmo» (20 aprile 2010). È questa concordia tra Dio e l’uomo, l’uomo e i suoi fratelli, l’uomo e il cosmo, che si manifesta e si realizza attraverso l’arte musicale: solo chi ama ex toto corde può dunque cantare il vero ● canto del cuore.
I portico. Il canto
I portico. Il canto
Exaudi me
22
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
per organo
23
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
La regola
I portico. Il canto
II portico
«Tutto sarà conquistato senza chiasso e divinizzato in silenzio… il domani dipende dal silenzio» Soeren Kierkegaard (Enten Eller I)
Domenico Messina «Lascia la tua arpa riempire tutto» Leo Di Simone I linguaggi della regola 24
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
II portico. La regola
«Lascia la tua arpa riempire tutto»
Domenico Messina
Come impostare un iter di formazione alla partecipazione, nella quale, indubbiamente, il canto e la musica rivestono un ruolo determinante? Una proposta che si svolge lungo le quattro corde della genuina esperienza liturgico-ministeriale: la partecipazione attiva, fruttuosa e consapevole alla Liturgia; la Vita secondo lo Spirito Santo; il Verbo e l’Armonia; il canto e la musica per la liturgia.
1. Introduzione «Lascia la tua arpa riempire tutto». Con questa espressione orante di Efrem, diacono della Chiesa siriaca, introduco l’itinerario che ci condurrà dalla realtà della formazione all’esperienza della partecipazione liturgica dove il canto e la musica rivestono un posto determinante. Queste, infatti, costituiscono l’espressione della presenza di Cristo che riempie ogni cosa. Canto e musica nella celebrazione sono manifestazione della Chiesa, Corpo e Sposa di Cristo, che si lascia riempire dal suo Signore. Per la sua vicenda biografica e il suo peculiare ministero ecclesiale, Efrem, nell’orizzonte entro cui s’intende col26
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
locare il presente contributo, diventa esemplare. Infatti, il santo diacono cantore siriaco è uomo credente abitato dalla Parola; è ministro che attraverso il canto fa risuonare la Parola nella comunità radunata per la celebrazione; è orante la cui preghiera è la Parola rivestita con la melodia della Spirito. Tali caratteristiche esemplari sono necessarie e insostituibili per apprendere la grammatica e la sintassi liturgica utilizzata da Dio per comunicarsi a noi e da noi per rispondere e accogliere lui e la sua comunicazione. In questo giro d’orizzonte, il mio contributo sarà come un’ideale composizione musicale che cercherà di scrivere, leggere ed eseguire in modo ecclesialmente corretto quanto la genuina tradizione della Chiesa ha udito dallo Spirito perché risuoni la melodia nuova dell’uomo nuovo nella nuova comunità credente. Il “rigo musicale” sul quale s’iscrive la “melodia ministeriale” del canto e della musica liturgica è un vero e proprio tetragramma le cui linee sono costituite dalla partecipazione attiva, fruttuosa e consapevole alla Liturgia; dalla Vita secondo lo Spirito Santo; dal Verbo e l’Armonia; dal canto e la musica per la Liturgia. Nell’intraprendere questo iter tentiamo immediatamente di conoscere le caratteristiche costitutive che, secondo la similitudine adoperata, corrispondono al tetragramma musicale.
2. La partecipazione liturgica Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella costituzione sulla Liturgia Sacrosanctum Concilium al numero 10 così si esprime: «Nondimeno la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei “sacramenti pasquali”, a vivere “in perfetta unione”; prega affinché “esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede”; la rinnovazione poi dell’alleanza di Dio con gli uomini nell’eucaristia introduce i fedeli nella pressante carità di Cristo e li infiamma con essa. Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa». Il testo nella sua profondità ci richiama a una verità necessaria alla quale dobbiamo spesso riandare perché le nostre liturgie non diventino ipocrite o altre dalla loro genuina natura: la partecipazione ai misteri di Cristo celebrati. Come già ricordato da Sacrosanctum Concilium nei numeri 6-9, la liturgia è celebrazione dell’opera salvifica del Padre realizzata in Cristo attraverso il dono dello Spirito nella Chiesa. La liturgia è la celebrazione di Cristo, dei suoi misteri, del suo Mistero pasquale che si dispiega nella vita della comunità e dei 27
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
singoli credenti attraversi i suoi sacramenti, come indicato da sant’Ambrogio: «Tu ti sei mostrato a me faccia a faccia, o Cristo: io ti trovo nei tuoi sacramenti» (Apologia del profeta Davide, 12,58). Per tale motivo, la costituzione conciliare sulla Liturgia sovente parla della partecipazione liturgica dei fedeli ed esorta caldamente i pastori della Chiesa a formare i fedeli alla comprensione di questo verità. Sacrosanctum Concilium 14, così come altri numeri della costituzione liturgica parlano ripetutamente della “partecipazione liturgica” qualificata come attiva, fruttuosa e consapevole. Ma cosa significa tutto questo? La partecipazione, partem accipere, è anzitutto la coscienza di essere parte del popolo sacerdotale, corpo del Cristo, sommo ed eterno sacerdote. È la coscienza di essere parte del Corpo di Cristo che si offre al Padre nello Spirito. Da questa scaturisce la retta comprensione della partecipazione quale modalità con cui si prende parte al mistero celebrato, all’azione liturgica. Modalità celebrativa che si esprime mediante segni sensibili. Questa partecipazione allora si realizza con l’esercizio e il coinvolgimento della corporeità, dei sensi, dell’umanità, la stessa che Cristo ha assunto e redento e attraverso la quale egli stesso si è comunicato a noi e ci ha resi partecipi della sua salvezza. Dunque, al mistero celebrato si partecipa ascoltando, vedendo, toccando, gustando e odorando il Verbo della Vita e la sua concreta presenza, poiché la vita si è fatta visibile in Cristo (cfr. 1Gv 1,1-4).
3. La Vita secondo lo Spirito Santo Da quanto espresso sin qui, è naturale affermare allora che la nostra vita
II portico. La regola
secondo lo Spirito ha il suo inizio, archè, nella liturgia, culmine e fonte della vita della Chiesa e dunque di ogni credente. Durante l’azione liturgica noi riceviamo il dono inestimabile della carità divina che ci rende figli del Padre, «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4). La vita secondo lo Spirito si nutre e cresce grazie alla virtus sacramentale che comunica a noi lo Spirito e ce ne fa gustare la dolcezza, ce ne fa vedere la bellezza, ce ne fa ascoltare la novità, ce ne fa toccare la concretezza, ce ne fa odorare la soavità. Nell’evento sacramentale noi veniamo formati e cresciamo come popolo di Dio, assemblea da lui radunata, diventiamo cantori della sua gloria, ci nutriamo alla sua mensa divenendo partecipi del suo corpo e del suo sangue, ovvero, partecipiamo al mistero pasquale facendolo operare in noi, quale principio e compimento della vita divina in noi. La vita secondo lo Spirito si compie attraverso la partecipazione liturgica che ci conduce alla piena conformazione a Cristo, che avrà il suo culmine nella liturgia celeste. Grazie alla liturgia, noi siamo introdotti nella pressante carità di Cristo che si comunica a noi, ci santifica e ci permette di glorificare Dio in noi. In tal modo, l’azione dello Spirito che ci dona la forma di Cristo ci conduce per la stessa azione a fare esperienza di essere parte di lui.
4. Il Verbo e l’Armonia: canto e musica per la Liturgia Il nuovo culto inaugurato da Cristo, il culto in Spiritu et Veritate (cfr. Gv 4,2324), è espressione del dialogo tra Dio e l’uomo, tra il Signore e il suo popolo, il nuovo Israele, la Chiesa. L’eterno dialogo amorevole tra il Padre e il Figlio nel “noi” dello Spirito con l’Incarnazio28
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
II portico. La regola
ne, si amplifica nella creazione intera che, seppure ancora continua a gemere e soffrire nelle doglie del parto (cfr. Rm 8,22), tuttavia vive nel tempo della speranza, il tempo nuovo della salvezza realizzata da Cristo nello Spirito che fiorisce nella Chiesa. Il Padre pronuncia il suo Verbo nell’Armonia: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto (cfr. Mt 3,17 e paralleli). Dal Giordano al Tabor, la compiacenza divina rivelata del Padre diventa invito appassionato alla sequela: «Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!» (Mt 17,7). Il Verbo, proferito dal Padre, si fa carne della nostra carne (cfr. Gv 1,14),
nella pienezza di quel tempo (cfr. Gal 4,4) che, ritmato dall’armonia dello Spirito, diventa tempo del canto nuovo dei redenti. L’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26-27) riascolta e rivede il suo Signore che ritorna a passeggiare con lui (cfr. Gen 3,8) per le strade del suo spazio, nel suo tempo. Gesù, sommo ed eterno Sacerdote, con l’Incarnazione introduce nel tempo il canto di lode che risuona eternamente nelle sedi celesti (Paolo VI, Laudis canticum, 1 novembre 1970). Cosicché nel nuovo culto il canto diventa accoglienza e custodia del Verbo che fa fiorire sulle labbra del credente e dell’orante la nuova Melodia, il canto nello Spirito Armonia. Quanto aveva profetizzato Davide nel Salmo 47,9 ossia: «Come avevamo udito così abbiamo visto nella città del nostro Dio», ora diventa realtà operante. Quanto esposto sin qui ci permette di declinare le caratteristiche fondamentali del canto: ✷ Il canto è relativo al Verbo e all’Armonia, cioè al Figlio Mediatore (1Tm 2,5) e allo Spirito Consolatore (cfr. Gv 14,15.26;15, 26;16,7). La contiguità nel codice linguistico e uditivo tra parola e musica esprime pertanto l’esperienza della contiguità teologica tra il Verbo e l’Armonia. ✷ Il canto è espressione di coloro che ascoltano, credono e custodiscono nel cuore il Verbo di Dio (cfr. Lc 8,15). ✷ Il canto liturgico è canto delle sante Scritture e come tale diviene esegesi della Rivelazione perché ci provoca la meraviglia indotta dalla Parola, al contempo è ermeneutica del mistero perché ci significa l’armonia della Parola infondendole un’ani-
29
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
ma vitale come a un corpo in attesa di vitalità. ✷ Il soggetto del canto è l’ekklesia, il popolo radunato nell’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito. ✷ Il Sitz im Leben del canto è il contesto celebrativo, la liturgia, dove la Chiesa tra epiclesi e anamnesi fa esperienza del suo Signore, diventando partecipe della natura divina così come afferma l’apostolo Pietro nella sua seconda lettera: «La sua potenza divina ci ha donato tutto quello che è necessario per una vita vissuta santamente, grazie alla conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua potenza e gloria. Con questo egli ci ha donato i beni grandissimi e preziosi a noi promessi, affinché per loro mezzo diventiate partecipi della natura divina, sfuggendo alla corruzione, che è nel mondo a causa della concupiscenza» (1,3-4).
5. Conclusione Queste le linee che costituiscono il rigo musicale, il tetragramma della Melodia nuova e del Canto nuovo eseguito dagli uomini nuovi perché redenti dal Signore risorto. Tra queste linee si iscrive e si compie il necessario iter che deve condurre la comunità credente da un’azione che dia forma, formazione, a un’azione che sia entrare a far parte, partecipazione, di Cristo e del suo mistero. Questa tensione della formazione alla partecipazione coinvolge interamente tutta la comunità perché tutta è Corpo di Cristo e perché in tutto il Corpo la forma di Dio sia la forma parteci● pata agli uomini.
II portico. La regola
I linguaggi della regola La liturgia è, per il cristiano, fondamentale regola di vita che lo lega al mistero di Cristo con vincolo nuziale. Liturgia, dunque, come laboratorio artistico di divinizzazione in cui la volontà d’amore di Dio si dice con i linguaggi della bellezza, della verità e della bontà.
1. Sacrosanctum Concilium e la riscoperta della regola C’è un punto in Sacrosanctum Concilium in cui la regola celebrativa viene sintetizzata in termini di armonia: «I riti splendano di nobile semplicità: siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 34). Questa regola, semplice e chiara essa stessa, si inquadra nell’ottica dei Principi generali per la riforma e l’incremento della sacra liturgia esplicitati dalla stessa Costituzione liturgica ed in particolare costituisce la premessa del discorso sulla comunicazione aprendo il paragrafo delle Norme derivanti dalla natura didattica e pastorale della liturgia, per cui si apprende che la liturgia insegna, a suo modo, ed è a 30
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
Leo Di Simone
suo modo, secondo il suo stile e la sua natura misterica, peculiare forma di attività pastorale. Ed è in forza di tale attività kerigmatica, comunicativa del mistero, che la Costituzione si preoccupa di favorire l’ampliamento dell’orizzonte cattolico aggiungendo Norme per un adattamento all’indole e alle tradizioni dei vari popoli dichiarando che la Chiesa «non desidera imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità» e che anzi «rispetta e favorisce le qualità e le doti d’animo delle varie razze e dei vari popoli»; tutto ciò che costituisce il meglio del patrimonio culturale delle nazioni, tutto ciò che non è contrario allo spirito cristiano, «la Chiesa lo prende in considerazione con benevolenza e, se è possibile, lo conserva inalterato, anzi a volte lo ammette nella liturgia stessa, purché possa armonizzarsi con gli aspetti del vero e autentico spirito liturgico» (SC 37).
2. Spirito della liturgia come regola sponsale Ritengo sia essenziale tener presenti questi orientamenti conciliari per imbastire qualsiasi discorso sulla regola, cioè sull’ordo non tanto inteso come taxis formale, rubricante il rito, ma come attività cognitiva e percettiva del Mistero di Cristo, presente, vivo e attuale
nell’opera liturgica, che si fa ordo quale modello emblematico dell’esperienza cristiana, secondo lo “spirito liturgico” menzionato dalla Costituzione stessa, perché ogni uomo sulla terra possa comprenderlo e custodirlo gelosamente come un tesoro. Di che cosa si sostanzia, dunque, lo spirito liturgico, se la liturgia è, e come Sacrosanctum Concilium s’è impegnata a mostrare, un organismo vivente piuttosto che un sistema, una presenza parlante e agente piuttosto che una congerie di riti sacrali e incomprensibili? Non è luogo per ribadire, in sede teol ogica, l’importanza dell’esercizio della funzione sacerdotale di Cristo nella liturgia, e anzi l’identificazione di essa con quello stesso esercizio (cfr. SC 7); è un discorso ormai teoreticamente acquisito. È luogo e tempo, ormai, di sviscerarne le implicanze poietiche, quelle immediatamente inerenti la natura urgica del mistero di Cristo, del suo porre in essere tutte quelle azioni atte alla completa assimilazione del corpo della sua Sposa al suo corpo glorioso, nella fusione della comunione sponsale che la liturgia favorisce come topos salvifico di metamorfosi teandrica: il mistero del corpo glorioso di Cristo come organismo di “comprensione” della sua Sposa, dove il cum-prehendere è significazione modalmente teleologica, trasfigurativa la “capacità di comprensione” umana di cui a SC 34. Così, la natura “didattica e pastorale” della liturgia non può essere altro rispetto alla natura sacerdotale di colui che la possiede nella fecondità dell’atto sponsale che lo fa uno, indissolubilmente, sacramentalmente con la sua Sposa la Chiesa. Liturgia come talamo sacramentale, taxis sponsale, ordo simbolicus in cui si perfeziona la sintonia esistenziale dei due teleologicamente 31
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
votata all’intersoggettività del divenire duo eis sarca mian (cfr. Ef 5,32), nella sublimità di una sola carne. Solo che le nozioni di “didattica” e di “pastorale” hanno assunto, nell’interlingua ecclesiale, significazione così banalmente generalizzante e vacua da occultarne la derivazione sacramentale legata all’azione liturgica di Cristo Sacerdote e Sposo; è venuta a cadere la loro funzione a partire dalla fonte liturgica ed anzi, nella dimenticanza della dimensione ieratica e poietica con cui essa si plasma, gli “operatori pastorali” di ogni ordine e grado e i didatti improvvisati hanno cominciato ad interagire coi loro metodi estemporanei, a fin di bene e solo per ignoranza, anche
II portico. La regola
nella liturgia stessa, trasformando l’ordine in disordine, la regola in un caos semiotico. Perché la didattica, nell’accezione comune, è esplicazione razionale, discorso rivolto all’intelligenza con metodo intellettuale e didascalico; pastorale, d’altro canto, è aggettivo qualificativo di ogni attività posta in essere nella Chiesa a prescindere dal suo vero fine ed il cui vero fine può anzi corrispondere allo stesso suo farsi. Atteggiamenti riflessi della cultura della razionalità e dell’efficienza a tutti i costi!
3. Linguaggi del Mistero e conoscenza sponsale Cosa devono comprendere i fedeli nel luogo armonico della liturgia, nell’esperienza della nobile semplicità dei riti, nel clima esistenziale che la liturgia richiede per attuare l’incontro conoscitivo della Chiesa con il suo Sposo? Conoscenza qui è da intendersi nell’accezione biblica del termine, nell’unica carne da diventare, e non come apprendimento di dottrina che ha altri luoghi, altri banchi, altri maestri, altro linguaggio per esplicarsi. Occorre dunque tirar fuori l’ordo liturgicus dai pozzi semantici razionalistici e didatticisti in cui è stato sepolto, quasi per invidia dell’abito bello, dai molti colori e dalle lunghe maniche di cui il Liturgo l’ha dotato in segno d’elezione spirituale e affettiva. Occorre recuperare la variegazione semantica della liturgia perché il suo discorso è divino e umano e Dio, che si è manifestato nella carne umana assunta dal suo Figlio, continua a parlare per mezzo della lingua liturgica di lui a tutto l’uomo e a tutti gli uomini: a tutti i sensi dell’uomo – i cinque esterni e il sesto spirituale – e a tutte le culture. 32
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
II portico. La regola
La liturgia si propone, didatticamente, come laboratorio di globalità linguistica ove si comprende il Mistero nella sua globalità. Sacrosanctum Concilium non ha avuto il compito di sistematizzare questo aspetto ma i riferimenti alla pluralità dei linguaggi che agiscono sinergicamente nella comunicazione della poiesi salvifica sono espliciti ed eloquenti. Nella prospettiva teologicopastorale dell’inculturazione della fede per mezzo degli “adattamenti”, SC 39 oltre alla questione della lingua liturgica, fondamentale canale di trasmissione della Parola e della sua reificazione eucologica, fa riferimento alla musica e alle arti, secondo quelle “norme fondamentali” che la stessa Costituzione
esplicita ai capitoli VI e VII. Da questi ultimi si apprende che «la Chiesa approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, dotate delle dovute qualità» (SC 112); e che essa «non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura» (SC 123). Se queste arti possiedono per loro ontologica essenza la capacità di «indirizzare pienamente le menti degli uomini a Dio» (SC 122), ciò che può definirsi la loro naturale sacralità, allora il loro utilizzo nell’opera liturgica è votato alla più piena conoscenza di colui la cui missione pastorale è volta alla conoscenza del Padre, per mezzo di lui nell’azione illuminante dello Spirito Bellezza increata, fonte e canale dell’estetica divina. A tale riguardo è necessario sciogliere l’ambiguità di senso dell’aggettivazione sacrale delle arti e dei linguaggi artistici confluenti nella liturgia. Nell’esperienza conoscente del Liturgo, nell’incontro misterico e sacramentale con la sua presenza esplicitata in dimensione ecclesiologico-sponsale nel con-sociat di SC 7, la nozione di esperienza del sacro è quantomeno riduttiva rispetto all’atto di assimilazione alla vita divina con la trasformazione nello stesso corpo di Cristo.
4. La regola della santità e il superamento della sacralità L’ontologica sacralità dell’arte, del l’arte nel suo complesso articolarsi in poiesi di desiderio, di elevazione spirituale e di significazione metafisica, è meramente funzionale al discorso li33
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
turgico cristiano; strumento umano di catalizzazione della semantica variegata del Verbo che fa transitare per essa l’oggetto altrimenti indicibile dell’amore divino che vuole trovare nei sensi dell’uomo, da lui stesso plasmati e opportunamente aptati, le terminazioni naturali della sua conoscenza. La funzione catalizzatrice dell’arte non è sufficientemente valutata e la sua eccessiva valutazione sacrale nuoce alla sua effettiva funzione che è quella di scomparire, volatizzarsi, dopo la realizzazione del processo conoscitivo, dell’incontro simbolico. L’attuale dibattito in corso, senza fine e senza senso, invece, sembra appuntarsi sulla consistenza della sacralità artistica, in maniera del tutto autoreferenziale, in concezione di datità assoluta, sorvolando sulla funzionalità e sullo scopo che è l’esperienza di Dio per Cristo nello Spirito e non la magnificenza dell’arte sacra. I termini di tale autoreferenzialità sono posti in essere dalla concettualizzazione e razionalizzazione dell’esperienza artistica considerata in maniera frammentaria nella arbitraria distinzione tra arti visive ed uditive, non considerando, per dirla con Spengler, che «il vedere e l’udire sono in ugual misura ponti che conducono all’anima» e che «occhio ed orecchio sono gli organi ricettivi per tutta l’impressione che l’opera intende produrre» (Il tramonto dell’occidente, Guanda 1991, p. 332). Si pensi quale impressione, per andare oltre Spengler, l’opera liturgica ambisce proporre! Oltre l’impressione emozionale che è solo punto di partenza, brivido sacrale d’apertura emotiva, è l’impressione esistenziale lo scopo della fruizione artistica nell’azione liturgica: la restituzione restaurata della somiglianza bella favorita all’immagine nel laboratorio
II portico. La regola
della trasfigurazione sacramentale che è la liturgia. A questo proposito sembra necessario cominciare a discutere della confluenza unitaria delle arti nell’opera liturgica. Si rende necessario che liturgisti, pittori, scultori, musicisti, poeti, architetti, stilisti ritrovino nella liturgia cristiana l’alveo fecondo del loro operare poietico e sintonico a servizio dell’opera di restauro dell’immagine divina nell’uomo in direzione della somiglianza. Non mi ha sorpreso, in tale assetto prospettico, l’affermazione di Spengler che «anche la musica rientra tra le arti figurative con le quali il sentimento del mondo dell’uomo superiore ha trovato la sua espressione simbolica più distinta» (ivi, p. 331). Per noi quell’uomo superiore è quello che, per l’incanto della parola, l’anelito della fede e la purificazione della metanoia si lascia condurre per le traiettorie dei suoni che sono qualcosa di esteso, di numerico, che come i colori si articolano in tonalità, nell’armonia del rito in cui melodia, rima, ritmo, sono solo variazioni sul tema della sua essenza di rtm reiterante il dire del Verbo, algoritmo salvifico di proporzione, di luce, di linee escatologiche, di forme colorate ove la sinfonia scaturisce non tanto dalla professionalità di un coro o di un’orchestra, ma dal colore della Parola cantata sugli accenti della sua espressività metrica, danzante tra i sintagmi della regola rituale le cui movenze si snodano lungo i percorsi geometrici disegnanti la sagoma della chiesa metaforica mentre in essa si raccoglie la Chiesa reale. È un tale amalgama sinfonico di elementi, solo apparentemente eterogenei, che crea il clima della celebrazione liturgica dove nulla è superfluo e nulla da scartare nell’ottica della pluralità linguistica che aggiunge senso a senso, nella dinamica di espe34
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
II portico. La regola
rienza performativa che è il vero senso della didattica liturgica.
5. Contro il riduzionismo linguistico Ciò che più mortifica l’espressività salvifica di tale didattica è l’utilizzo del solo strumento linguistico verbale, quella monotonia del parlato che non vive neanche dell’efficace relazione tra Parola e parole. L’inflazione verbale che opprime con monizioni prosaiche, avvisi estemporanei e impropri, spiegazioni dell’ovvio, omiletica aneddottica o cervellotica, incapace di allusività mistagogica; il predominio massiccio dell’informazione a scapito della performazione conducono il rito all’esplicitazione monocorde di materiale rituale da propinare in sequenza, talvolta non sempre coerente con il programma rituale contemplato dagli stessi libri liturgici. Anche le traduzioni della Parola, condotte con esclusivi intenti esegetici, preoccupati della fedele resa letterale del senso, insensibili ai moduli espressivi della poesia, rendono dura, distante l’adesione al testo che deve consentire, ex auditu, l’approccio di fede. Non meno scottante è il problema dell’espressività musicale della Parola che trova luogo solo nelle forme musicali più arcaiche, parti geniali di culture a noi lontane e contemplanti altre visioni del mondo, della storia, della Chiesa, di Dio stesso. La loro messa in opera richiede, ormai, personale specializzato, professionisti più attenti alla loro arte che al valore e al significato di ciò che eseguono per un pubblico selezionato ed elitario di melomani. La promozione della moderna soggettività ha posto sempre più in risalto la dimensione estetico-formale di tali esecuzioni che
non consentono e non ammettono coinvolgimento liturgico, partecipazione, così come non lo consentono moderne e altrettanto autoreferenziali banalità musicali incapaci di captare la lunghezza d’onda del Verbo, di farsi apposizione poetica al suo dire mellifluo, scansione che asseconda il suo impeto amoroso. Col risultato di assemblee mute o infastidite dai rumori dove l’unica attesa salvifica è il desiderio della fine. Del rito evidentemente! Oltre alla musica anche le arti figurative ricavano poco dalle immagini della Parola, e come quella non sa rendere cantabili le situazioni immaginate nell’anamnesi liturgica, neanche queste riescono a penetrarne lo spirito, a colorire il senso dello scopo per cui ci sono state date, ad essere pioggia e neve che feconda la terra rituale per la fruttificazione spirituale. È necessario tornare a parlare del gusto liturgico e del cattivo gusto che si condensa nel kitsch: pezze nuove su un vestito vecchio! Statue e statuette di gesso o in pura plastica come idoletti da venerare, vesti liturgiche barocche e anacronistiche, con ricami a macchina in finto oro su tessuti plastificati e luccicanti; trionfo dell’ampolloso, del ridondante, dell’inelegante che nulla hanno a che fare con la “nobile semplicità” che deve splendere nei riti cristiani. In che tonalità di viola confezioneremo la casula d’avvento che sia in sintonia con un canto che se non è proprio il Rorate sia almeno qualcosa che gli assomigli? E a quale icona la raffronteremo superando la banale consuetudine di accendere ceroni uno per domenica, neanche fossero venti anzi che quattro? Perché ci sono anche i simboli, espressivi la dinamica salvifica nel lessico variegato della liturgia; ulteriormente appositivi alla stessa appositivi35
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
tà dell’arte unitariamente considerata. Nessuno, eccetto i mistici che sono l’eccezione che conferma la regola, entra immediatamente in rapporto con Dio. La luce divina è sempre riflessa attraverso i veli del nostro mondo: il nostro corpo, il mondo fisico, le nostre culture, i nostri sensi… visus, tactus, gustus per citare l’Aquinate sono nello stesso tempo sovrastati e inglobati nella stessa esperienza divina, senza plausibile spiegazione. Anche Tommaso d’Aquino trovò nell’ala poetica la direttrice equilibrante la sua svettante e razionale argomentazione teologica. Nell’opera liturgica non si mangia per riacquistare le forze fisiche né si canta per fare della buona musica. Non si parla solo per
II portico. La regola
insegnare e apprendere né si prega per acquisire equilibrio psichico. I linguaggi della liturgia cristiana sono gettati in maniera simbolica che congiunge e mette insieme; talvolta in maniera parabolica, che ci pone accanto; altre volte in maniera allegorica, che ci porta altrove per farci ritrovare. Sono linguaggi che non si possono inventare, confondere, equivocare, stravolgere. Vengono da lontano, frutto di esperienza antica, veicolati da ciò che chiamiamo tradizione, ma la cui dinamica interattiva deve rimanere immutata, pena la falsificazione della regola. Oggi noi siamo chiamati a ridirli alla nostra contemporaneità ricreando quel clima di nobile eleganza e di pregnante espressività che rinveniamo alla fonte della liturgia cristiana, la liturgia plasmata dal Signore Gesù.
6. Liturgia cristiana come regola esistenziale Non siamo chiamati a riprodurre i sintagmi rituali di allora, che d’altronde non conosciamo neanche in maniera completa. Ciò che chiamiamo lo spirito della liturgia, la dimensione inalterabile di essa, assolutamente essenziale e reiterabile, è il clima esistenziale che rende la conoscenza sponsale ottima e massima. Parlo del clima di accoglienza, di amicizia, di amore fraterno, di informalità, di fiducia, di verità, di bellezza, di autenticità sprigionatosi dalla persona di Gesù durante l’ultima cena, un clima testimoniato dalla lunga narrazione giovannea e che provocò sentimenti forti di commozione e anche di stupore confuso da parte di Pietro così come il disagio decontestualizzante di Giuda. In particolare, per lui, la parte-
36
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
cipazione al rito non assunse carattere simbolico ma diabolico, di incomprensione dell’atteggiamento esistenziale del Signore che in quanto attante autorevole del rito utilizzò la vasta gamma dei linguaggi dell’amore a rinforzo della intenzionalità memoriale da conferire a quel rito. Non disponeva di orchestre né di cori polifonici né d’altre opere d’arte. Creò il clima con la semplicità e l’eleganza della sua parola, dei suoi gesti, degli elementi rituali della stessa cena giudaica; il proemio ad Institutio Generalis del Messale Romano recita: «Nell’appressarsi a celebrare con i suoi discepoli il banchetto pasquale, nel quale istituì il sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue, Cristo Signore ordinò di preparare una sala grande e addobbata (Lc 22,12). Quest’ordine la Chiesa l’ha sempre considerato rivolto anche a se stessa, quando dettava le norme per preparare gli animi, disporre i luoghi, fissare i riti e scegliere i testi per la celebrazione dell’Eucaristia». Preparare gli animi! È funzione tanto preliminare quanto essenziale all’opera liturgica il coordinamento dei linguaggi artistici che dispongono all’unicità espressiva del linguaggio esistenziale. Se ne coglie unità simbolica dei sensi esterni coi sensi interni mentre la percezione estetica è globalmente trasfigurata: la percezione dello Sposo glorioso e trafitto non lascia luogo a impeti di alienata disincarnazione e nello stesso tempo i sensi stessi avvertono la percezione della personalità cristica in cui la bellezza estetica dell’uomo nuovo è coerente con l’efficacia etica del rito che contiene la proposta di una possibile antropologia alternativa. Il rito cristiano del linguaggio amante come nuova ● regola di vita.
III portico
La vita
Cosma Capomaccio La vita si rende visibile nella liturgia Alessandro Andreini Partecipazione: il sì dell’uomo alle nozze con Dio
III portico. La vita
La vita si rende visibile nella liturgia
Cosma Capomaccio
Poiché la celebrazione liturgica è inno alla vita, la musica liturgica vi entra con autorevolezza, diventandone linguaggio altrettanto fondamentale, con un suo mittente, un suo ricevente, un suo codice ben preciso. 1. Liturgia, inno alla vita Il Signore Gesù chiese agli apostoli di manifestare il loro pensiero su di Lui e disse loro: «Voi chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,15-16). Tale espressione di fede Giovanni la ribadisce con decisione: «Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,17-18). Dal momento che il Vivente possiede la vita in proprio – «Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26) –, ogni celebrazione liturgica è un inno alla Vita, cioè alla vita secondo lo Spirito, la vita in Cristo risorto visto che Lui ha detto: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,2538
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
26). Tale affermazione comporta una gioiosa apertura del cristiano alla sorgente della sua vita spirituale, vita che nasce, cresce, si alimenta e matura nella celebrazione liturgica, nella quale il Signore risorto è presente per il fatto che ha dichiarato: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Nel giorno del nostro battesimo il celebrante ha così pregato: «Fratelli carissimi, per mezzo del battesimo siamo divenuti partecipi del mistero pasquale del Cristo, siamo stati sepolti insieme con lui nella morte, per risorgere con lui a vita nuova». Quando, nella celebrazione del lucernario nella notte di Pasqua, che Agostino chiama la madre di tutte le veglie, si offre e si consacra a Cristo, splendore del Padre e luce indefettibile, il cero pasquale, che rappresenta Cristo, la luce che spunta dalle tenebre, la luce che rischiara le tenebre, la luce che fuga le tenebre, e lo si accende ed il diacono lo introduce nella chiesa e alla sua luce non solo si accendono tutti i lumi dell’aula dell’edificio di culto, ma tutta la celebrazione si svolge nello splendore della sua luce, come mirabilmente canta il preconio pasquale, ci viene posto davanti un segno evidente della risurrezione di Cristo, dal momento che Lui ha annunciato: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). La Veglia pasquale, pertanto, è un sublime in-
no alla Vita che si manifesta attraverso il canto splendido e gioioso dell’Exultet: «Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste, un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. Gioisca la terra inondata da così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore, e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa». Rivivendo la Pasqua del Signore nell’ascolto della Parola e nella partecipazione ai Sacramenti, Cristo risorto conferma in noi la speranza di partecipare alla sua vittoria sulla morte e di vivere in lui con Dio Padre. Nel prologo, in cui anticipa e pone in evidenza tutti i motivi tematici del suo vangelo, Giovanni definisce con estrema chiarezza la sua conoscenza e, quindi, la sua coerente fede nel Cristo luce: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,1-4). A tale fondamentale affermazione fanno eco le parole di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Ma di quale vita si parla, se non di quella di cui è stato detto: «È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce» (Sal 36,10)?
2. Cristo luce del mondo Tutto l’anno liturgico e ciascuna delle feste che lo compongono è riproposizione e contemplazione dell’ abbagliante, risplendente e sfolgorante esplosione di luce del Cristo risorto che cammina per 39
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
noi, con noi e in noi nella nostra storia e in quella dell’umanità intera. È proprio la Sua luce, lo splendore del Cristo luce del mondo, che, fugando le tenebre dell’ignoranza, della malvagità e dell’errore, vivifica con la Sua divina presenza i nostri giorni e la nostra vita e ci dona la possibilità di essere figli del Padre, di crescere in età e grazia e di essere continuamente santificati dallo Spirito. La Chiesa, l’ekklesia, l’assemblea convocata dallo Spirito per celebrare il mistero di Cristo (At 7,38), che «non è un’assemblea formatasi spontaneamente, ma convocata da Dio, e cioè il popolo di Dio organicamente strutturato, cui presiede il sacerdote nella persona di Cristo corpo», si riunisce nell’edificio di culto per celebrare, ossia «fa memoria degli eventi di salvezza, li rende e li proclama presenti, comunicandoli ai partecipanti, in tensione verso il definitivo compimento nel secondo avvento del Signore, o parusia». Il giorno del Signore, dunque, il dies dominicus, la Pasqua settimanale, scandisce nel tempo la costante presenza di Cristo che ha detto «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20) e diventa nello scorrere dell’anno liturgico il filo conduttore della fede nel cammino del popolo di Dio verso il Regno. Nella celebrazione della Cena del Signore, il giovedì santo, l’orazione colletta non solo ci immette immediatamente nell’atmosfera gioiosa della Cena, ma ci propone le valide motivazioni per celebrarla: «O Dio, che ci hai riuniti per celebrare la santa Cena nella quale il tuo unico Figlio, prima di consegnarsi alla morte, affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio, convito nuziale del suo amore, fa che dalla partecipazione
III portico. La vita
a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita».
3. L’Eucaristia, culmine e fonte Giovanni Paolo II afferma che «la Chiesa vive dell’Eucaristia» dal momento che «l’Eucaristia edifica la Chiesa» (Ecclesia de Eucharistia, 1.21). Questa verità non esprime soltanto un’esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della Chiesa. Nell’orazione sulle offerte della messa di Pasqua, infatti, si prega cosi: «Esultanti per la gioia pasquale ti offriamo, Signore, questo sacrificio, nel quale mirabilmente nasce e si edifica sempre la tua Chiesa». Noi, anzi, viviamo grazie a Lui che ha affermato: «Colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,57). Giustamente, il concilio Vaticano II ha proclamato che il sacrificio eucaristico è «culmine e fonte di tutta la vita cristiana» (LG 3). E spiega: «Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini» (PO 5). «Perciò lo sguardo della Chiesa è continuamente rivolto al suo Signore, presente nel Sacramento dell’Altare, nel quale essa scopre la piena manifestazione del suo immenso amore» (Ecclesia de Eucharistia, 1). È proprio Gesù che con le sue parole ci introduce nell’essenza stessa della Sua vita rendendoci consapevoli dell’incommensurabile dono che ci elargisce: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). E, per spiegare meglio la profondità divina di 40
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
III portico. La vita
questa realtà, continua: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53). Ecco la straordinaria affermazione che illumina la nostra mente e infiamma il nostro cuore: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,54-56). Non contento di averci aperto il Suo cuore con l’effluvio del Suo immenso amore, vuole darci la sicurezza che questo mirabile dono del Padre sia elargito anche a noi: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,57-58). Per questo motivo ogni celebrazione liturgica è un inno alla Vita, alla vita secondo lo Spirito, alla vita in Cristo risorto che, per farci comprendere l’altezza e la profondità del Suo amore divino, ha detto: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
4. Musica per la vita di Dio Se, pertanto, la celebrazione liturgica è un inno alla Vita e l’inno è una composizione poetica, abbinata alla musica, di forma strofica e di argomento elevato che nell’antichità era soprattutto un componimento di carattere religioso dedicato alla divinità e alla sua glorificazione, la musica liturgica entra con autorevolezza nella celebrazione e non come
un semplice ornamento di creazione artistica o di intrattenimento. Il valore comunicativo della musica liturgica non è, quindi, un optional, ma il linguaggio fondamentale in una celebrazione che è evento teandrico di Colui che discende per innalzarci. Un linguaggio musicale che deve essere in sintonia con il linguaggio verbale e liturgico nel senso più ampio, come linguaggio dell’uomo che tenta di rispondere nel modo migliore ed esauriente, per quanto è possibile alla natura umana, al linguaggio di Dio che gli parla: dialogo ineffabile. Diceva bene Hector Berlioz: «Fra l’amore e la musica c’è questa differenza: l’amore non può dare l’idea della musica, la musica può dare l’idea
dell’amore». La musica è, appunto, amore, affettività; la musica crea, rigenera, guarisce, rappresenta, dà vita. Va da sé, pertanto, che creare musica liturgica, che è una lingua vera e propria con un suo mittente, un suo ricevente, un suo codice ben preciso, implica un intrinseco rapporto con la vita che Cristo risorto ci dona in abbondanza, con l’affettività che Lui ci manifesta continuamente, con la dimensione creativa, dal momento che ogni celebrazione liturgica è il giorno della luce, quindi della Vita, il primo giorno della creazione, ma anche il giorno della nuova creazione perché con la risurrezione del Cristo è sorta in questo giorno la nuova luce «quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9b). ●
Partecipazione: sì dell’uomo alle nozze con Dio Alessandro Andreini
La sfida della piena partecipazione alla liturgia chiama in causa l’impegno della formazione liturgica, in cui la comunità cristiana impara ad accogliere in tutta la sua portata esistenziale il mistero dell’incarnazione.
1. Un Dio incarnato Non si sottolineerà mai abbastanza la provocazione di un Dio che si fa car41
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
ne. E che neppure si accontenta di farsi uomo tra gli uomini, nella sua bellezza ma anche e soprattutto nella sua debolezza e povertà. Giunto al momento supremo della sua vicenda terrena, infatti, e quasi volendovi riassumere tutta la sua missione in mezzo a noi, il Signore Gesù ha voluto farsi addirittura pane e vino: «Questo è il mio corpo, dato per voi… questo è il mio sangue, versato per voi». Davvero, il Dio di Gesù Cristo è un Dio diverso da qualsiasi altro dio! E se insistiamo su questo punto non è per sottolineare la dimensione, potremmo dire, pietistica di quella che secoli di
III portico. La vita
letteratura devozionale hanno descritto come un’immensa umiliazione da parte di Dio, un suo divino condiscendere, il “piegarsi” verso di noi di un Dio che poi torna comunque – e meno male! – a essere Dio con tutte le sue “classiche” e intoccabili prerogative. Al contrario. Ieri come oggi, e forse oggi più di qualche decennio fa, l’incarnazione di Dio ci parla della vera identità di Dio, ce ne rivela un volto che non cessa di provocare la nostra condizione umana. Vero e proprio scandalo, che è stato all’origine delle più grandi eresie della storia della Chiesa, noi facciamo davvero fatica a prendere sul serio l’incarnazione, e finiamo spesso per considerare irrilevante questo mistero che san Girolamo non esitava a indicare come il cardine della salvezza. Poiché incarnazione non significa, appunto, che il Figlio di Dio semplicemente è venuto, ha vissuto, ha parlato, sofferto, è morto e risorto dai morti, per poi tornare nella gloria da cui è venuto. L’incarnazione rivela il metodo stesso, l’orizzonte sul quale Dio ci attende, il terreno nel quale è possibile davvero incontrarlo: essa è il vero modello, la vera forma della Chiesa1.
2. Le nozze di Dio con l’uomo Quella del Dio di Gesù Cristo è una sorprendente e inaudita richiesta di totale coinvolgimento umano, una chiamata in cui veniamo presi radicalmente sul serio nella nostra umanità, nell’intima verità della nostra coscienza: si pensi alla logica sacramentale che vincola la validità stessa dei sacramenti non tanto o solo al corretto svolgimento dei riti, ma proprio all’intenzione personalissima di chi li celebra. E proprio come nel consenso matrimoniale, così la storia 42
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
III portico. La vita
che unisce Dio e l’uomo è vicenda nuziale per eccellenza, nozze teandriche dove nulla accade se non accade l’intrecciarsi, appunto, dei due sì, quello di Dio – fedele nonostante tutto, come attesta san Paolo – e quello dell’uomo. Sacrosanctum Concilium focalizza fin dall’inizio questa logica in cui divino e umano si incontrano e di cui – non ci si può stancare di ripeterlo – la liturgia è scuola per eccellenza per la vita di tutta la Chiesa. È la liturgia, infatti, a contribuire «in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa». La quale, appunto, ha la caratteristica di «essere nello stesso tempo umana e divina, vi-
sibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina» (SC 2). Sta qui il senso ultimo dell’insistenza del Concilio sul tema della partecipazione2, e cioè al cuore della vicenda nuziale tra Dio e l’uomo che ha proprio nella liturgia il suo luogo tipico e originario. Non un invito a essere genericamente ed esteriormente presenti, come qualcuno l’ha purtroppo inteso, non una serie di tecniche per attirare l’attenzione di un “pubblico” distratto e lontano, non un dato sociologico, insomma, ma una questione di vita o di morte per la fede cristiana. La partecipazione è il sì dell’uomo alle nozze con Dio! E si tratta, come accennavamo parlando dell’incarnazione, di un partecipare che non ha nulla dello spiritualistico o dell’intimistico, ma è un entrare in relazione vitale e piena – coinvolti tutti i nostri sensi e tutte le nostre facoltà – all’azione di Dio verso di noi.
3. La Chiesa, assemblea che celebra Se dovessimo dare una definizione di Chiesa la più essenziale possibile, forse non ne troveremmo una migliore di quella coniata alcuni anni fa dal teologo ortodosso Christos Yannaras: «la Chiesa è una cena». E precisa: «Oggi sono molti quelli che sembrano aver dimenticato questa verità fondamentale che definisce e manifesta la Chiesa: la Chiesa è il raduno attorno al banchetto eucaristico. Essa non è né una fondazione né una istituzione religiosa né una gerarchia amministrativa né la costituiscono degli edifici o degli uffici strutturati e organizzati. È il popolo di Dio radunato per la “frazione del pane” e la “benedizione del calice”. Sono i “figli di Dio un 43
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
tempo dispersi” (Gv 11,52), ora radunati nell’unità vivente del corpo ecclesiale»3. La Chiesa è una cena: lo attesta anche il racconto degli Atti degli Apostoli, quando, in uno dei sommari che scandiscono la narrazione, si dice che i discepoli di Cristo erano «assidui all’insegnamento degli apostoli, fedeli alla comunione fraterna e alla frazione del pane» (2,42). Una descrizione amplificata subito dopo: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune […]. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (2,44.45-47). Affermare che la Chiesa coincide essenzialmente con una cena – la cena di Gesù alla vigilia della sua passione, ma anche la cena che si rinnova ogni volta nella celebrazione eucaristica – non ha alcun intento riduzionistico: al contrario, ci aiuta a cogliere l’essenziale dell’evento Chiesa, nel suo sorgere e nel suo svilupparsi fino a oggi. Ancor più radicalmente, tale prospettiva ci libera dal rischio vano di voler tentare progetti di riforma della Chiesa a partire da altrove – magari da un rinnovato impegno morale, da una migliore organizzazione ecclesiastica, da una riaffermazione forte dei principi dogmatici – che dal solo luogo effettivamente germinale e fondante della Chiesa, appunto, il Cenacolo. E se, ancora una volta, essere Chiesa significa prendere parte a questa cena, e farlo nel pieno della propria personale consapevolezza e identità di membra vive dell’unico Corpo, ognuno con la propria ministerialità – vale a dire con il proprio specifico compito-vocazione a servizio dell’intera comunità –, ecco che la sfida della partecipazione torna al centro della questione. Riformare la Chiesa,
III portico. La vita
verrebbe da dire, significa prima di tutto fare della comunità cristiana un’autentica assemblea celebrante.
4. La sfida della partecipazione Nella ricca aggettivazione con cui amplifica il concetto di partecipazione, il Concilio parla di un prendere parte «in modo consapevole, attivo e fruttuoso» (SC 11). Nei paragrafi successivi, poi, si precisa che la partecipazione deve essere anche piena (cfr. SC 14) e comunitaria (cfr. SC 21). Infine, in una sorta di crescendo, si arriva a chiedere che «i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente» (SC 48). Dunque, una partecipazione consapevole, attiva, fruttuosa, piena, comunitaria e pia. Dove, come dicevamo all’inizio, si intrecciano continuamente la fedeltà di Dio – cui si devono ultimamente i frutti spirituali ma anche la pietà di chi partecipa – e la decisione umana, il dono di grazia e l’impegno della nostra adesione. Fatta, appunto, di coscienza, attività, pienezza di coinvolgimento, effettiva esperienza comunitaria. Dimensioni ognuna essenziale, e che non favoriscono la partecipazione se non vissute tutte contemporaneamente, senza fughe in una direzione o nell’altra. Per la verità, il Concilio non si limita a descrivere e qualificare la partecipazione. Soprattutto, offre ampie e perfino accorate indicazioni per poterla davvero realizzare. L’obiettivo da raggiungere è chiaro: far sì che «i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione d’animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunziano e cooperino 44
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
III portico. La vita
con la grazia divina per non riceverla invano» (SC 11). Per altro, tale «piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche è richiesta dalla natura stessa della liturgia e il popolo cristiano […] vi ha diritto e dovere in forza del battesimo» (ivi, 14). Ecco, allora, la via che il Concilio suggerisce: la formazione. Alla partecipazione ci si forma o, meglio, si viene formati. Si tratta di un compito specifico e urgentissimo: «a tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia» (SC 14). E sono prima di tutto i pastori a doversi fare carico di tale impegno cruciale – il Concilio chiede loro addirittura di sforzarsi! –: «ma poiché non si può sperare di ottenere questo risultato, se gli stessi pastori d’anime non saranno impregnati, loro per primi, dello spirito e della forza della liturgia e se non ne diventeranno maestri, è assolutamente necessario dare il primo posto alla formazione liturgica del clero» (ivi). Come direbbe Platone, nessuno può insegnare a un altro la strada per Larissa senza esserci stato! La formazione alla partecipazione, in altri termini, è un processo osmotico, in cui si trasmette solo ciò che si è davvero sperimentato. Un’iniziazione, in cui non sono tanto le parole a essere decisive, quanto, appunto, la pratica, la condivisione, l’immersione in un evento performativo, che forma mentre lo si vive. A questo deve puntare la formazione liturgica4, a un’immersione piena e incondizionata nelle acque vivificanti e trasformanti della liturgia, in cui più si partecipa più si comprende e più si comprende più si partecipa, in un circolo virtuoso in cui non è possibile né importante distinguere un momento
dall’altro. Ecco, dunque, la vera assemblea celebrante la quale, formata dalla parola di Dio, nutrita alla mensa del corpo del Signore, rende grazie a Dio e offre la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparando a offrire noi stessi, di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, per essere perfezionati nell’unità con Dio e tra di noi, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti (cfr. SC 48).
5. L’arte di celebrare Formare celebrando e celebrare formando. Dopo tutto, il cristianesimo non è la trasmissione di alcune verità, ma di un’esperienza. Trova qui le sue ragioni quella che potremmo chiamare una vera e propria arte del celebrare, che sa tenere conto di tutti gli elementi fin qui elencati, ma anche della sensibilità, dello stato spirituale, della cultura stessa dell’assemblea celebrante. Non si celebra nello stesso modo in una grande città o in una piccola parrocchia di campagna, in una messa domenicale al mattino presto o in quella di fine mattinata cui partecipano i bambini e le bambine della catechesi. La celebrazione, in altri termini, è un evento da costruire volta per volta. Essa ha, sì, le sue coordinate di fondo, la sua oggettività rituale che ci è stata tramandata. Ma chiede che, sull’ordito oggettivo del rito da tutti condiviso, si intrecci la trama del volto e del cammino di ogni singola comunità, in quella stessa logica della nuzialità che evocavamo all’inizio. Nella liturgia, insomma, non esiste il matrimonio per procura, ma solo quello che si celebra dandosi nella stessa celebrazione. Arte complessa quella del celebrare, e che esige una vera creatività spiritua45
Il canto regola di vita, maggio 2011 – n. 0
le, liturgica, ma anche artistica e, perché no, psicologica e soprattutto estetica. Verrebbe da dirla arte davvero architettonica, nel senso che Aristotele ha dato a questa parola, che, cioè, sa fare sintesi di tutti gli aspetti – e sono moltissimi – che contribuiscono a realizzare un autentico evento celebrativo, dove tutti sono pienamente coinvolti e di cui tutti sono pienamente partecipi, ognuno nel proprio ministero. Arte dell’aggiungere ma anche e soprattutto del levare, secondo la nota avvertenza paolina per cui tutto è certamente lecito, ma non tutto giova, tutto è permesso, ma non tutto edifica (cfr. 1Cor 10,23). Se l’obiettivo è chiaro – la partecipazione come autentico evento nuziale in cui quelli che erano non popolo diventano il popolo di Dio, la Chiesa –, allora le nostre comunità possono e devono diventare il laboratorio in cui la liturgia le scolpisce, domenica dopo domenica, anno liturgico dopo anno liturgico, facendo sempre più di ognuna di esse e di tutte insieme «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9). In conclusione, e parafrasando il titolo di un recente volume di Crispino Valenziano, potremmo dire: partecipa● zione, Chiesa in corso d’opera!5 Note 1 Cfr. C. Militello, Il sogno del Concilio, Edb, Bologna 2010, pp. 41-4. 2 Si vedano i numerosi passi nei quali vi si fa riferimento, su alcuni dei quali ritorneremo: SC 11; 14; 21; 30; 41; 48. 3 Ch. Yannaras, La fede dell’esperienza ecclesiale. Introduzione alla teologia ortodossa, Queriniana, Brescia 1993, pp. 169-70. 4 Non si può non ricordare qui l’aureo libretto di Romano Guardini, Formazione liturgica (Morcelliana, Brescia 2008), e la frase illuminante con cui si apre: «La liturgia non riguarda la conoscenza, ma la realtà» (p. 45). È già detto tutto! 5 Cfr. C. Valenziano, Liturgia Chiesa in corso d’opera, Centro Liturgico Vincenziano, Roma 2008.
Il compito
L
a liturgia non riguarda la conoscenza ma la realtà. È vero che c’è una scienza specifica, quella liturgica, la cui conoscenza è implicita per la comprensione del significato dell’evento liturgico. Non è facile oggi parlare di questo, in quanto la liturgia è scomparsa dalla nostra coscienza religiosa. Però la liturgia per se stessa non è pura conoscenza, ma piuttosto pura realtà, e, accanto al conoscere, comprende anche molto dell’altro: un fare, un ordine, un essere. Bisogna che singolo e comunità siano educati a quel particolare modo di comportamento spirituale quale appunto è richiesto dalla natura della vita liturgica. Ora si impone questo compito. Non si dubita più che la liturgia sia un passatempo di begli ingegni: essa è una parte essenziale della vita cattolica, quindi non staccata da questa, così come il movimento liturgico non è stato fabbricato, ma è scaturito necessariamente dalla diffusa volontà – ovunque in risveglio – di un completo comportamento esistenziale cattolico. Ora importa sapere come possa rinascere una vera vita liturgica.
I
l nostro tempo per intrinseca necessità sta maturandosi per la liturgia. Non si è ancora detto abbastanza: appartiene alle ultime scelte poste davanti a noi, se questa vitalità emergente si trasfigurerà in liturgia per essere così immessa nella grande ricapitolazione si tutto sotto un solo capo, Cristo (Ef 1,10). La grande scelta – cristianesimo o paganesimo? – dovrà riproporsi anche qui, sì, anzitutto qui. Liturgia cattolica oppure formarsi una vita pagana, di religiosità mondana, greca, germanica, orientale. Così, il problema liturgico, visto nella giusta cornice, è uno dei più urgenti del nostro futuro spirituale e culturale. Romano Guardini, La formazione liturgica (Niederholtorf presso Bonn, primavera 1923)
Supplemento a Feeria. Rivista per un dialogo tra esodo e avvento – Via S. Leolino 1 – 50022 Panzano in Chianti (FI) – Semestrale Poste Italiane s.p.a.- Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2 DCB FIRENZE
S
e si diffonde una maggiore conoscenza delle cose liturgiche e se negli atti del culto divino si risveglia una certa gioia; se nelle pratiche religiose si arriva ad una giusta concezione liturgica – finora questi aspetti sono stati fra loro estranei –, allora si sarà fatto qualcosa, ma ancora non molto. Il problema fondamentale è questo: in che consiste l’essenza dell’azione liturgica? Come deve essere l’uomo, come la comunità, se vogliono avere un giusto comportamento liturgico? Quali forze sono necessarie? Quali organismi? Quale essere? Poiché qui si tratta di una competenza per niente definita: si tratta di un divenire e di un crescere, in definitiva di un essere. Dunque si tratta di un problema di formazione nel più profondo significato della parola.